ISSN 1121-1725
Pubblicazione trimestrale
Anno XXXV
1-2/2022
Rivista trimestrale di
Diritto penale dell’economia
fondata da
Giuseppe Zuccalà
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VITO PLANTAMURA
Prof. associato di diritto penale nell’Università Aldo Moro di Bari
ESSERE O NON ESSERE? IL CONTROVERSO DELITTO
DI ABUSO DI UFFICIO, TRA ISTANZE RIDUZIONISTE
E/O ABOLITIVE ED ESIGENZE DI TUTELA
SOMMARIO: 0. Premessa. – 1. La formulazione originaria dell’art. 323 c.p. – 2. La riforma del
1990: da Cenerentola a star delle Procure. – 3. La proposta della commissione Morbidelli. – 4. La riforma del 1997, con particolare riguardo all’inciso “in violazione di
norme di legge o di regolamento”. – 5. La riforma del 2020: è davvero possibile (e
sarebbe utile) una formulazione che escluda la penale rilevanza dell’eccesso di potere?
– 6. Ceni comparatistici. – 7. Conclusioni.
0. – Essere o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile soffrire il
succedersi di interpretazioni estensive e riforme restrittive o prendere
coscienza dell’impossibilità di una formulazione determinata e, opponendosi, porre fine a tale alternanza con l’abolizione. Ovviamente, cosı̀ posto il
dubbio amletico, che ormai attanaglia il delitto d’abuso d’ufficio, è volutamente insolubile, nel senso che entrambe le opzioni indicate non appagano. Non soddisfa la prima, cioè – che è quella in cui evidentemente ci
troviamo – perché, da un lato, pare appunto che ad ogni nuova riforma il
ciclo sia destinato a ripetersi, e, dall’altro, in quanto vi è il concreto
pericolo che l’attuale via della riformulazione sempre più restrittiva conduca, infine, ad una fattispecie descrittiva ineffettiva, simbolica, se non
addirittura disnomica, tamquam non esset (1). Neanche la seconda opzione
convince, tuttavia, perché interrompere quello che potrà anche sembrare
una forma di “accanimento terapeutico”, su di una norma controversa ma
fondamentale, significa arrendersi ad un vertiginoso vuoto di tutela (2),
che, per le profonde ragioni lato sensu politiche che si illustreranno, non
può davvero essere colmato dal rimanente, pur complesso e articolato,
(1) Cfr. M. PARODI GIUSINO, In memoria dell’abuso d’ufficio?, in SP, 2021, 7-8, p. 71ss.
(2) In senso contrario all’abolizione e alla depenalizzazione dell’art. 323 c.p., da ultimo,
si veda A. MANNA, I continui giri di valzer tra legislatore e giurisprudenza in tema di abuso
d’ufficio: un addio alla tassatività?, in AA.VV., La riforma dell’abuso d’ufficio, a cura di G.
RUGGIERO, Pisa, 2022, p. 123 ss., e, spec., p. 130 s.
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impianto dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Allora, però, nel tentativo –si spera non impossibile– di arrivare
finalmente ad un’ipotesi di quadratura del cerchio, non si può non iniziare
il presente studio ripercorrendo la tormentata storia del delitto di cui
trattasi (3).
1. – Ebbene, secondo la formulazione originaria del Codice Rocco,
l’art. 323, allora rubricato “Abuso di ufficio in casi non preveduti specificatamente dalla legge”, prevedeva che “Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un
danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come
reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione
fino a due anni o con la multa da lire cinquecento a diecimila”. A tale
norma (4), che evidentemente puniva sia l’abuso consistente in un favoritismo che quello estrinsecatosi in una prevaricazione nei confronti dei privati, si aggiungeva la previsione di cui all’art. 324 c.p. (5), sull’interesse
privato in atti di ufficio, in base alla quale “Il pubblico ufficiale, che,
direttamente o per interposta persona, o con atti simulati, prende un
interesse privato in qualsiasi atto della pubblica Amministrazione presso
la quale esercita il proprio ufficio, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni e con la multa da lire mille a ventimila”.
Complessivamente, trattavasi di una normativa in continuità con quella del Codice Zanardelli del 1889. Se, infatti, l’art. 175 di tal ultimo codice
puniva “Il pubblico ufficiale che, abusando del suo ufficio, ordina o commette contro gli altrui diritti qualsiasi atto arbitrario non preveduto come
reato da una speciale disposizione di legge è punito con la reclusione da 15
giorni ad un anno; e, qualora agisca per un fine privato, la pena è aumentata di un sesto, sostituita alla detenzione la reclusione. (...)”, cosı̀ limitandosi a incriminare solo l’abuso per prevaricazione, aggravato dall’eventuale
(3) Cfr. T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giur. pen., 2020, 7-8.
(4) Cfr.: E. CONTIERI, Abuso innominato di ufficio, in Enc. dir., vol. I, Milano, 1958, p.
187 ss.; M. PARODI GIUSINO, Abuso innominato d’ufficio, in Dig. pen., vol. I, Torino, 1987, p.
41 ss.; STORTONI, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976.
(5) Cfr.: F. BRICOLA, Interesse privato in atti d’ufficio, in Enc.dir., vol. XXII, Milano,
1972; G. CONTENTO, Interesse privato in atti d’ufficio, in Dig.pen., vol. VII, Torino, 1993: in
particolare, in tal ultimo lavoro, successivo all’abrogazione dell’art. 324 c.p., di cui comunque si ripercorre la storia, si sosteneva che non tutte le condotte di interesse privato fossero
confluite nel nuovo abuso d’ufficio (nella sua formulazione introdotta con la riforma del
1990), e, in particolare, si affermava l’avvenuta abolitio delle mere violazioni del dovere di
astensione, dei casi in cui risultasse oggettivamente perseguito un interesse pubblico (a
prescindere dalla motivazioni soggettive dell’agente), e di tutte quelle condotte non abusive,
in quanto rispettose delle normativa amministrativa.
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persecuzione di un fine privato, e negligendo invece quello per favoritismo, il seguente art. 176, però, incriminava l’interesse privato in atti di
ufficio, punendo le condotte di sfruttamento dell’ufficio ai fini privatistici (6): la formulazione del reato, del resto, era testualmente identica a
quella del succitato art. 324, che quindi dall’art. 176 è stato mutuato,
con solo un aumento nella comminatoria edittale per quanto riguarda il
minimo della pena della reclusione, che infatti nella previsione ottocentesca partiva da un mese, e non da sei mesi, e in relazione alla pena pecuniaria (anche per ovvie ragioni d’inflazione).
Al proposito, dunque, si può concludere che nel codice Zanardelli, in
tema d’abuso d’ufficio, era prevista una “lacuna”, nel senso che si puniva
l’abuso per prevaricazione e quello per interesse privato, ma non quello
per favoritismo verso terzi. Il sistema delineato dal Codice Rocco nella sua
formulazione originaria, invece –e quindi, per quello che qui più direttamente interessa, prima della riforma del 1990, in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica Amministrazione–, già puniva tutte e tre le
possibili declinazioni dell’abuso d’ufficio, incriminando sia le condotte di
prevaricazione che di favoritismo, con possibile punibilità dell’estraneo
beneficiario nei casi di collusione (7), oltre a quelle caratterizzate dallo
sfruttamento egoistico della propria funzione, dallo sviamento dei poteri,
se il pubblico ufficiale aveva comunque agito contro l’interesse pubblico.
Nella prospettiva del legislatore del ‘30, tuttavia -com’è naturale considerato l’allora regime autoritario italiano e, più in generale, il clima
culturale dell’epoca: si pensi, in modo paradigmatico, alla scuola di Kiel–,
sembra emergere anche la volontà di criminalizzare in sé l’infedeltà del
pubblico ufficiale, con la previsione di una norma di pericolo, fortemente
anticipata, che ha la sua chiave di volta nel dolo specifico di danno o di
vantaggio, a prescindere dalla verificazione dei rispettivi eventi. Proprio il
dolo specifico, per altro, avrebbe successivamente svolto un ruolo fondamentale nel “salvataggio” della formulazione di cui trattasi.
(6) Anche per una ricostruzione storica del delitto di abuso di ufficio, si rinvia a: A.
MANNA, Profili storico-comparatistici dell’abuso d’ufficio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p.
1201 ss.; ID., Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, p. 3 ss.;
E. INFANTE, Art. 323 – Abuso di ufficio, in A. CADOPPI, S. CANESTRARI, A. MANNA, M. PAPA,
Trattato di diritto penale, Parte speciale II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione,
Torino, 2008, p. 296 ss.
(7) Anche per un’analisi del fenomeno della collusione dell’estraneo, nell’abuso d’ufficio per favoritismo, si rinvia A. DI LANDRO, La responsabilità per l’attività autorizzata nei
settori dell’ambiente e del territorio. Strumenti penali ed extrapenali di tutela, Torino, 2018,
p. 50 ss.
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Negli anni ‘60 del secolo scorso, infatti, il Giudice Istruttore del Tribunale di Foggia pronunciò un’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale, con la quale sollevava la questione di legittimità costituzionale,
appunto, dell’art. 323 c.p., ritenendo che lo stesso fosse in contrasto con
l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 1 del
codice penale, in quanto, quando veniva commesso un qualsiasi fatto
non altrimenti specificamente previsto dalla legge come reato, avrebbe
rimesso alla completa discrezionalità del magistrato la configurabilità del
reato in questione; in più, era stata posta anche una questione relativa alla
violazione dell’art. 3 Cost., per essere il reato proprio solo dei pubblici
ufficiali e non anche degli incaricati di un pubblico servizio.
La Corte costituzionale, però – con la stringata sentenza n. 7/1965 (8)
–, dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale di cui
trattasi: sia perché, a suo dire, la circostanza che per determinare, in
concreto, la sussistenza del reato, si rendesse necessario prendere in esame
l’eventuale violazione di norme non contenute nelle leggi penali –in particolare, nel caso che aveva dato luogo all’ordinanza di rimessione, le norme
del codice di procedura civile su gli obblighi del custode giudiziario– non
poneva questioni di legittimità costituzionale; nonché, e soprattutto, in
quanto l’elemento essenziale per la sussistenza del reato di cui all’art.
323 c.p., quello che gli conferiva determinatezza, doveva essere considerato il dolo specifico, ovverosia l’intenzione di recare ad altri un danno o
procurargli un vantaggio.
Ebbene, nonostante quanto allora ritenuto dalla Consulta, risulta evidente che non è possibile “scaricare” sul dolo specifico il deficit di determinatezza di una fattispecie incriminatrice, perché, in questo modo, il
rimedio diventa peggiore del male, in quanto si finisce per punire in sé
l’intenzione prava, violando il principio di materialità, nel tentativo di
salvare quello di legalità (9). Prima della riforma del ‘90, tuttavia, i profili
problematici della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 323 c.p. erano in
qualche modo celati, dal suo limitato ambito applicativo, visto che la
(8) Cfr. Corte Cost., 19 febbraio 1965, n. 7, in Riv. it. dir. proc. pen., 1966, p. 984 s.,
con nota contraria di F. BRICOLA, In tema di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p.
(9) Per una prospettiva alternativa, si veda L. PICOTTI, Il dolo specifico: un’indagine sugli
“elementi finalistici” delle fattispecie penali, Milano, 1993, p. 292 ss., secondo il quale –se pur
con riferimento alla formulazione dell’art. 323 c.p. di cui alla riforma del 1990–, a fronte di
una nozione di ufficio inesistente sul piano delle fonti legali, alla quale non si può assegnare
il compito di circoscrivere la fattispecie incriminatrice, il ricorso al dolo specifico, se si vuole
ottenere un’interpretazione rispettosa dei principi di materialità e dell’offensività, dev’essere
inteso con una valenza oggettiva, nel senso che tale elemento dev’essere in grado di specificare e, quindi, delimitare, non solo il dolo, ma innanzitutto lo stesso fatto tipico.
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stessa, anche in considerazione della clausola espressa di riserva con cui la
norma si apriva, e della modesta comminatoria edittale, subiva il primato
applicativo del delitto previsto dall’art. 324 c.p.
Trattavasi di un delitto che, del resto, con un’interpretazione davvero
rigorista, si riteneva integrato, non solo quando l’interesse privato era
oggettivamente l’unico perseguito, ma anche qualora si rinveniva l’esistenza di un interesse privato che si era sovrapposto, o pure solo accompagnato, all’interesse della pubblica Amministrazione: il qual ultimo interesse, infatti, nella logica “di pura infedeltà” del sistema, avrebbe dovuto
risultare l’esclusivo motivo ispiratore dell’esplicazione dell’attività pubblicistica (10). In questi casi, per altro, né la legittimità dell’atto amministrativo, né la perfetta coincidenza tra la finalità privata del soggetto e lo scopo
pubblico, escludevano il reato (11).
Al di fuori dei casi di prevaricazione, del resto – in cui, evidentemente,
era applicabile il solo art. 323 c.p. (12) –, la distinzione tra favoritismo, da
un lato e, dunque, abuso d’ufficio e interesse privato dall’altro, non era
sempre agevole, specie in considerazione del fatto che la giurisprudenza si
era consolidata nel senso che, nel delitto di interesse privato in atti di
ufficio, l’interesse perseguito non dovesse essere necessariamente personale del soggetto agente, ma potesse essere anche di un terzo (13).
Al proposito, secondo quella giurisprudenza (14) che si sforzava particolarmente di individuare un confine sicuro tra l’art. 323 e l’art. 324 c.p.,
siccome i reati di abuso innominato in atti di ufficio e di interesse privato
in atti di ufficio potevano essere realizzati entrambi anche mediante l’adozione di provvedimenti amministrativi viziati da illegittimità, in tali ipotesi
l’elemento che discriminava le due fattispecie incriminatrici risiedeva nella
finalità perseguita dall’autore dell’atto. Nel delitto di abuso d’ufficio, infatti, la finalità consisteva nel recare vantaggio o danno a terzi; mentre, nel
delitto di interesse privato, era costituita dal soddisfare un interesse pro-
(10) Cfr. Cass. pen., 19 marzo 1980, Riv. pen., 1980, p. 865.
(11) Cfr. Cass. pen., 2 febbraio 1979, in Riv. it. dir. proc. pen., 1981, p. 387.
(12) “Costituisce abuso di ufficio, e dà luogo al reato di cui all’art. 323 c.p., il compimento
da parte del pubblico ufficiale di un atto che, nell’apparente tutela di un pubblico interesse, sia
in realtà strumento di soddisfazione di un fine privato, in quanto ispirato da intenti di
ritorsione e di discriminazione verso terzi, anziché da equanimità e correttezza amministrativa
(nella specie: l’imputato, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, si era adoperato
affinché venisse negato che la infermità da cui era affetta una infermiera dell’ospedale, di
cui era direttore sanitario, dipendeva da causa di servizio, e ciò al fine di recarle danno)”, cosı̀
Cass. pen., 21 aprile 1983, in Riv. pen., 1984, p. 147.
(13) Cfr., ex multis, Cass. pen., 18 giugno 1982, in Riv. pen., 1983, p. 271.
(14) Cfr. Cass. pen., 28 settembre 1984, in Giur. it, 1985, II, p. 269.
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prio del pubblico ufficiale. Tal ultima circostanza, però, doveva ritenersi
integrata pure nel caso in cui il risultato vantaggioso, perseguito attraverso
il provvedimento amministrativo illegittimo, incideva direttamente nella
sfera di un terzo destinatario, se comunque il soggetto agente aveva fatto
in qualche modo propria, “personalizzandola in sé medesimo”, quella
prospettiva di vantaggio.
In particolare, si sosteneva che tale “personalizzazione” dell’altrui vantaggio ricorreva certamente tanto nel caso in cui, per effetto di particolari
legami esistenti fra il destinatario e l’autore dell’atto (di parentela, ma
anche solo di amicizia, anche indiretta (15), o, addirittura, di mera affinità
politica (16)), il pubblico ufficiale considerava come procurata a sé l’utilità
che intendeva procurare al terzo, quanto nell’ipotesi in cui il soggetto
agente mirava a conseguire, tramite il vantaggio del terzo, un proprio
distinto e ulteriore vantaggio, la cui realizzazione fosse appunto resa possibile – o, quanto meno, facilitata – dal favore procurato al destinatario
dell’atto: in relazione a tal ultima ipotesi, del resto, la giurisprudenza
poteva vantare un aggancio al testo normativo, nella parte in cui espressamente prevedeva che l’interesse potesse essere preso anche per interposta
persona.
2. – Vista la summenzionata deriva giurisprudenziale in atto, una
riforma era sicuramente necessaria, non solo e non tanto nei riguardi
dell’art. 323 c.p., ma anche e soprattutto in relazione all’assai più rilevante,
sia come pena che a livello di frequenza dell’applicazione giurisprudenziale, delitto di cui all’art. 324 c.p. Tale ultima fattispecie incriminatrice,
infatti -come in parte già accennato- risultava particolarmente favorevole
per la pubblica accusa, in quanto, per la sua integrazione, non necessitava
neppure dell’illegittimità dell’atto compiuto dal pubblico ufficiale, che
poteva essere sia legittimo che illegittimo. Il delitto in questione, inoltre,
si riteneva concretizzato nonostante la coincidenza dell’interesse privato
con quello pubblico; e l’unico vero limite testuale che avrebbe potuto
rappresentare un argine significativo all’ampliamento giurisprudenziale,
ovverosia quello legato alla necessità che il soggetto agente prendesse un
interesse proprio, era bypassato dalla citata possibile personalizzazione, da
parte del pubblico ufficiale agente, dell’interesse alieno: personalizzazione
(15) Ad es., una sentenza di particolarmente ampliativa della sfera del punibile, riguardò l’assunzione, da parte di un Sindaco –per altro, con atto formalmente legittimo e conforme della normativa sul collocamento–, della moglie di un subordinato di un suo intimo
amico. Cfr. Cass. pen., 2 ottobre 1989, in Foro it., 1990, II, 5.
(16) Cfr. Cass. pen., 23 aprile 1982, in Giust. pen., 1982, II, p. 613.
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che, in modo affatto disinvolto, si spingeva fino ai rapporti indiretti, agli
“amici di amici”, nonché alla mera commilitanza politica.
Com’è noto, il legislatore della riforma del ‘90 decise dunque di abrogare il delitto di interesse privato in atti di ufficio, per farlo confluire –
assieme all’altresı̀ abrogato peculato per distrazione (17) – all’interno del
riformulato delitto di abuso d’ufficio (18). La nuova fattispecie incriminatrice, rubricata più semplicemente abuso d’ufficio, per il maggiore compito che le veniva affidato – per cui venne anche modificata la clausola
d’apertura: che prima era stata di sussidiarietà e, poi, divenne di consunzione (19) –, avrebbe necessitato di una formulazione che fosse stata all’altezza della situazione.
Una formulazione, cioè, che avesse finalmente superato quell’incertezza
sui propri confini che l’aveva caratterizzata nella formulazione originaria.
Questo anche in considerazione del fatto che, soprattutto nel caso di abuso
affaristico, nel senso di patrimonialmente connotato – di cui alla figura
autonoma (20), e non circostanza aggravante (21), del nuovo secondo comma:
la questione era comunque controversa –, la norma risultava ormai caratterizzata da una comminatoria edittale significativa che, nel minimo, risultava
perfino più elevata di quella che era stata propria dell’art. 324 c.p. (22).
(17) “Realizza il reato di peculato per distrazione – ipotesi criminosa che dopo le modifiche apportate agli art. 314 e 323 c.p. dalla l. n. 86 del 1990 è confluita nell’ultima delle dette
norme incriminatrici – il pubblico ufficiale il quale utilizzi in proprio favore le prestazioni di
manodopera da lui dipendente, e retribuita dalla p. a., perché in tal modo si attua la distrazione
del pubblico denaro speso dalla amministrazione senza alcuna pubblica utilità”, cosı̀ Cass.
pen., sez. VI, 16 maggio 1991, in Mass. Cass. pen., 1991, f. 10, p. 32. Per altro, si deve
considerare che “Sotto le bandiere del peculato per distrazione si denunciavano incursioni
giudiziali anche su aspetti della potestà amministrativa concernenti la selezione degli interessi
pubblici da realizzare, postulando vincoli incompatibili con la discrezionalità propria della
funzione”, cosı̀ T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giur.pen.,
2020, 7-8, p. 3.
(18) “In tema di interesse privato in atti di ufficio, gli art. 13 e 20, l. 26 aprile 1990, n. 86
non hanno dato luogo ad una generalizzata abolitio criminis; ne deriva che, quando il fatto sia
contestato come violazione dell’abrogato art. 324 c.p., occorre verificare se esso possa integrare
l’ipotesi prevista attualmente dall’art. 323 secondo la nuova formulazione introdotta; quest’ultima, infatti, ha conservato, in via sussidiaria, il reato di cui all’art. 323 c.p., pur dandogli un
contenuto che circoscrive l’illiceità della condotta all’abuso in atti di ufficio”, cosı̀ Cass. pen.,
14 febbraio 1991, in Mass. Cass. pen., 1991, f. 3, p. 85.
(19) Anche su questo passaggio, si vedano le acute osservazioni di C. CUPELLI, La
riforma del 1990, in AA. VV., Il “nuovo abuso di ufficio”, a cura di B. ROMANO, Pisa,
2021, p. 15 ss. e, spec., p. 18 s.
(20) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 26 aprile 1991, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 10, p. 29.
(21) Nel senso della circostanza aggravante, tuttavia, inizialmente si espresse. Cass. pen.
30 maggio 1990, in Cass. pen., 1990, I, p. 1923.
(22) “L’abrogata fattispecie criminosa di cui all’art. 324 c.p. – che si distingueva dall’abuso
innominato ex art. 323 c.p. per il fatto che lo sfruttamento dell’ufficio era, nell’una, in funzione
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Viceversa, abbandonata l’idea, che pure aveva caratterizzato inizialmente i lavori preparatori, di costruire un reato di condotta ed evento,
il legislatore della riforma del 1990, ripiegando nuovamente sul dolo specifico, in pratica si era limitato – oltre alle già accennate modifiche, e
all’inserimento, secondo chi scrive non particolarmente significativo, del
carattere dell’ingiustizia del danno o del vantaggio – a sostituire l’espressione modale “abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni...commette...qualsiasi fatto” con quella diretta “abusa del suo ufficio”, e prevedendo
dunque che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che,
al fine di procurare a se’ o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o
per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il
fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il
fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni”.
Come e perché una tale sostituzione avrebbe dovuto porre rimedio
all’estrema vaghezza della littera legis, finalmente operando l’auspicata
netta separazione tra l’area del penalmente rilevante e quella della mera
illegittimità amministrativa – separazione che pure era uno degli intenti del
legislatore della riforma – non risultava facilmente comprensibile (23), e, di
fatto, il rimedio non si produsse. Anzi, la fattispecie incriminatrice in
vigore dal 1990, fino alla successiva formulazione del 1997, fu quella
che meglio si prestò a consentire il sindacato del giudice penale sulle scelte
discrezionali della pubblica Amministrazione.
Forse non a torto, infatti, certa giurisprudenza non riscontrò alcuna
novità nel passaggio tra le due succitate espressioni, continuando a ritenere
che ricorreva l’elemento materiale del reato quando il pubblico ufficiale (e,
di un tornaconto personale, nell’altro, finalizzato al vantaggio e nel danno del terzo – appare
assorbita, qualora nel tornaconto abbia carattere di ingiustizia, di per sé o per i modi delle sue
realizzazioni, nella nuova formulazione (ex art. 13, l. n. 86 del 1990) dell’art. 323 c.p., nel
quale sono ipotizzate due figure di abuso di ufficio, finalizzato ad ingiusto vantaggio patrimoniale nella più grave (2˚ comma), o di ingiusto vantaggio non patrimoniale (oltre che al danno
del terzo) nella meno grave (1ş comma); pertanto, quando in precedenza sia stato contestato il
reato ex art. 324 c.p. connotato da un abuso tradottosi nella strumentalizzazione dell’ufficio in
funzione di un vantaggio ingiusto economicamente rilevante, il fatto, dopo l’abrogazione della
norma sopra indicata, viene a corrispondere nei suoi elementi essenziali alla previsione di cui
all’art. 323, 2˚ comma, c.p. (secondo la modifica ex art. 13 legge sopra indicata); ne consegue
che in tal caso, delle due norme penali – l’abrogata (in vigore al momento del fatto) e la vigente
– è la prima che deve trovare applicazione alle fattispecie, in quanto più favorevole all’imputato, comminando l’art. 324 c.p., a parità di pena detentiva massima, una meno elevata pena
detentiva minima”, cosı̀ Cass. pen., 27 giugno 1990, in Cass. pen., 1991, I, p. 1226.
(23) In merito, si vedano, tra le altre, le annotazioni critiche di G. COCCO, L’atto
amministrativo invalido elemento delle fattispecie penali, Cagliari, 1996, p. 257 s.
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dopo la modifica, anche l’incaricato di pubblico servizio) eccedeva dai
limiti della sua competenza o non osservava le norme che disciplinavano
obbligatoriamente la sua attività o, infine, faceva uso dei poteri discrezionali riconosciutigli, per uno scopo diverso da quello per cui i poteri stessi
gli sono stati conferiti, secondo il paradigma dello sviamento di potere (24),
con strumentalizzazione conseguente dell’ufficio pubblico per finalità non
consentite. Tale strumentalizzazione, in particolare, ricorreva quando il
pubblico ufficiale compiva atti per uno scopo diverso da quello previsto
dalla legge.
Altra giurisprudenza, invece, ritenne addirittura che “L’art. 323 c.p.
modificato dall’art. 13, l. 26 aprile 1990, n. 86 prevede come condotta
punibile il mero «abuso di ufficio», mentre il previgente art. 323 c.p. puniva
l’abuso dei «poteri inerenti alle funzioni» del pubblico ufficiale; dal nuovo
dettato della norma si evince che l’illecito può configurarsi in un ambito più
vasto di previsione, dovendo la condotta rapportarsi a qualsiasi abuso della
pubblica funzione e, dunque, a qualsiasi illecita strumentalizzazione dell’ufficio, senza necessità che l’abuso si concreti nel porre in essere, nell’esercizio
delle funzioni di pubblico ufficiale, atti legislativi, giurisdizionali od amministrativi” (25).
La stessa dottrina, del resto, sosteneva che, diversamente da quanto
prima avveniva con il reato di cui la nuova formulazione dell’abuso d’ufficio aveva preso il ruolo di “star delle Procure e dei Tribunali” (26), per
l’integrazione del novellato art. 323 c.p. non era necessario il compimento
di un atto amministrativo in senso tecnico, perché potevano rilevare in tal
senso pure il compimento di attività materiali, nonché le attività prodromiche, strumentali al compimento di un atto amministrativo. Si riteneva,
inoltre, che la –non meglio specificata– condotta abusiva potesse rivestire
pure forma omissiva, per cui, vista la maggiore gravità dell’art. 323 c.p.,
rispetto all’art. 328 c.p. (e la già riferita mutazione della clausola di riserva), nel caso di condotte omissive abusive integranti il dolo specifico
richiesto, si doveva ritenere integrato il delitto di abuso d’ufficio che,
anche sotto questo punto di vista, vedeva allargarsi il suo ambito di operatività (27).
In definitiva, secondo la comune interpretazione della nuova formulazione del delitto di cui trattasi, venivano ricompresi nella condotta in-
(24) Cfr. Cass. pen., 14 giugno 1990, in Mass. Cass. pen., 1991, fasc. 1, p. 40.
(25) Cosı̀ Cass. pen., 24 settembre 1990, in Riv. pen., 1991, p. 849.
(26) Cosı̀ E. MUSCO, A proposito di tutela penale della pubblica amministrazione, in Ind.
pen., 2001, p. 1023 ss., e, spec., p. 1026.
(27) Cfr. C. CUPELLI, La riforma del 1990, cit., p. 21 s.
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articoli
criminata sia ogni violazione del parametro di doverosità quale risultava
dalle regole normative improntate ai principi di legalità, imparzialità e
buon andamento della pubblica Amministrazione, che ogni comportamento esplicantesi in un’illecita deviazione dai fini istituzionali, e, last but not
least gli atti viziati da eccesso di potere.
Proprio la penale rilevanza di quest’ultima figura, in costante evoluzione nella stessa giurisprudenza amministrativa, nonché di espressioni
quali “parametro di doverosità” e “fini istituzionali”, ricorrenti nella prassi
applicativa della norma, rendevano incerti i confini della fattispecie, con
un dolo specifico che finiva per assumere, in tale contesto caratterizzato da
una fattispecie per altro verso espressiva di una condotta quasi neutra, un
ruolo troppo centrale, col rischio, paradossalmente, di compromettere
proprio uno dei beni giuridici che si volevano tutelare, ovverosia il buon
andamento della pubblica Amministrazione, perché “le incursioni del giudice penale nella sfera amministrativa, in assenza di univoci criteri oggettivi
idonei a delimitare il confine fra lecito ed illecito, rischierebbero di paralizzare anche le più ordinarie attività dei pubblici funzionari, dal che discenderebbe altresı` la violazione dell’art. 97 della Costituzione” (28).
3. – Tutte queste ragioni, anche, ma non solo, di indeterminatezza,
condussero comunque più a una moltiplicazione delle denunce e dei processi, che non a una moltiplicazione delle condanne (secondo le statistiche
allora fornite allora dall’Anci, pare che solo il 5% dei procedimenti sfociassero, appunto, in una sentenza di condanna), secondo la logica del c.d.
“reato civetta”, spesso contestato per trovare riscontro di fatti più gravi (29), ma, essendo già in sé il procedimento/processo penale una pena,
tanto più per un “colletto bianco” (anche per le ricadute di immagine), ciò
fu sufficiente a creare un clima conseguente di c.d. “paura della firma” in
capo ai pubblici amministratori (30).
(28) Cosı̀. Corte Cost., 25 maggio 1999, n. 192, in Giur. costit., 1999, p. 1831. La tesi
dell’indeterminatezza della fattispecie incriminatrice che finisce per paralizzare l’azione dei
pubblici agenti e, quindi, per concretizzarsi in una lesione del buon andamento era propria
dell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Sondrio. La questione, tuttavia, venne decisa e,
a dire il vero, anche sollevata, dopo la modifica del 1997, per cui la Corte la ritenne
manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.
(29) Cfr. G. MORBIDELLI, Il contributo dell’amministrativista alla riforma e all’interpretazione del reato di abuso d’ufficio, in AA.VV., La riforma dell’abuso d’ufficio, Milano, 2000,
p. 19 ss.
(30) Cfr. V. PATALANO, Amministratori senza paura della firma con i nuovi vincoli alle
condotte punibili, in Guida al dir., 1997, n. 29, p. 18 ss.
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Questo fece emergere, pure ai massimi livelli, cioè con dichiarazioni
pubbliche dell’allora Capo dello Stato, l’ipotesi abolizionista (31), ma, per
tentare di percorrere una via mediana riduzionista, nel 1996 venne nominata la commissione ministeriale Morbidelli che, secondo chi scrive con
una giusta intuizione (32), elaborò un testo tripartito, differenziato in base
ai tre statuti possibili dell’abuso d’ufficio (prevaricazione; favoritismo, in
specie affaristico, in quanto connotato patrimonialmente; e interesse privato), in ordine crescente di gravità:
“Art. 323. (Prevaricazione). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un
pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e strumentale i
poteri inerenti alle funzioni o al servizio, arreca intenzionalmente ad altri
un danno che sa essere ingiusto, è punito, se il fatto non è preveduto come
reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni o con la
multa fino a lire venti milioni.
Art. 323-bis. (Favoritismo affaristico). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, al fine di favorire taluno
gli procura un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito con la
reclusione da uno a cinque anni.
Art. 323-ter. (Sfruttamento privato dell’ufficio). – Il pubblico ufficiale o
l’incaricato di un pubblico servizio, che, esercitando in maniera arbitraria e
strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio, si procura un vantaggio patrimoniale che sa essere ingiusto, è punito con la reclusione da due a
cinque anni. (...)” (33).
(31) Cfr. C. CUPELLI, La riforma del 1990, cit., p. 26.
(32) Sull’opportunità di descrive più di una fattispecie incriminatrice, per disciplinare il
fenomeno in modo non-unitario, si veda conformemente M. PARODI GIUSINO, Aspetti problematici della disciplina dell’abuso di ufficio in relazione all’eccesso di potere ed alla discrezionalità amministrativa, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009, p. 879 ss.
(33) “(…) La presenza di vizi di legittimità nell’atto amministrativo non equivale, di per
sé, all’esercizio arbitrario e strumentale dei poteri.
Non può essere considerato arbitrario e strumentale il comportamento conforme alla
prassi amministrativa consolidata o al risultato di un procedimento amministrativo imputabile
ad altri o alle Carte dei servizi pubblici ed agli usi nella prestazione dei servizi.
I fatti previsti dai medesimi articoli non sono punibili fino a quando non producono
effetti esterni alla pubblica amministrazione.
Non è punibile chi ha commesso ad esclusivo vantaggio della pubblica amministrazione
taluno dei fatti previsti in questo capo, sempre che non si tratti di concussione o di distrazione
di denaro o di altra cosa appartenente a privati.
Nei casi previsti dagli artt. 314, 315, 316-bis e 323-ter, la punibilità è altresı` esclusa,
quando il fatto non ha cagionato, né era idoneo a cagionare, un danno patrimoniale pubblico o
privato di ammontare superiore a lire dieci milioni, sempre che il danno medesimo sia stato
riparato per intero. Ove siano commessi più fatti, si tiene conto del danno patrimoniale
78
articoli
Si può facilmente osservare che le tre, pur distinte, fattispecie incriminatrici di cui trattasi possedevano, tuttavia, elementi ricorrenti, come i
medesimi soggetti attivi, la presenza di un evento costitutivo di reato e la
clausola di illiceità speciale (34) della consapevolezza dell’ingiustizia del
danno o vantaggio prodotto, nonché, soprattutto, un vero e proprio nucleo in comune, espressivo di una modalità della condotta che avrebbe
dovuto assicurare maggiore tipicità, rappresentato dal ricorrente inciso
“esercitando in maniera arbitraria e strumentale i poteri inerenti alle funzioni o al servizio”.
Al proposito, si ricorderà che l’arbitrarietà era presente pure nella
fattispecie incriminatrice del codice Zanardelli, ma tale requisito era stato
poi negletto dal legislatore del ‘30, proprio perché non aveva dato prova di
particolare efficacia determinativa, né la prevista –nella proposta della
commissione Morbidelli– clausola legale di esclusione, per cui non sarebbe
potuto essere considerato arbitrario e strumentale il comportamento conforme alla prassi amministrativa consolidata, avrebbe dato garanzie circa la
ricostruzione in positivo della nozione.
complessivo. Se i fatti previsti dai rimanenti articoli di questo capo, fatta eccezione per gli artt.
319-bis e 319-ter, sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite”.
La proposta della commissione Morbidelli, poi – oltre alle succitate proposte penalistiche contenute nel suo primo articolo –, prevedeva anche un secondo articolo, relativo a
forme di responsabilità contabile e disciplinare, secondo il quale:
“Il pubblico ministero, contemporaneamente alla richiesta di archiviazione o di rinvio a
giudizio o alla formulazione della imputazione per un fatto nel quale sia configurabile un
esercizio arbitrario e strumentale dei poteri da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato
di un pubblico servizio, dispone la trasmissione di tali atti anche alla procura della Corte dei
conti nonché all’amministrazione, ente od organismo presso i quali presta servizio il pubblico
ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, per l’esercizio delle azioni di responsabilità in
materia di contabilità pubblica e disciplinari.
Gli atti in questione sono trasmessi altresı` al Prefetto del luogo in cui ha sede l’ufficio
preso il quale il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio svolgono la propria
attività, al fine della iscrizione in apposito elenco per la trasparenza ed il buon andamento
dell’attività amministrativa. Il Prefetto inoltra trimestralmente gli elenchi aggiornati ai Nuclei
di valutazione di cui all’art. 20 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 ed alle Autorità di
regolazione dei servizi di pubblica utilità ed alle altre agenzie od organismi indipendenti per la
vigilanza sui servizi pubblici”.
Anche per il testo della proposta elaborata dalla commissione Morbidelli si rinvia a V.
MANES, Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle
soluzioni proposte, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, p. 1202 ss.
(34) Sulle clausole di illiceità speciale in genere, si veda G. RUGGIERO, Gli elementi
soggettivi della tipicità. Indagine sui rapporti tra tipicità e antigiuridicità nella teoria generale
del reato, Napoli, 2011, p. 89 ss. Con particolare riferimento alla formulazione dell’abuso
d’ufficio di cui trattasi, si veda G. EBNER, Dolo specifico ed illiceità speciale nel novello abuso
d’ufficio, in Cass. pen., 1994, p. 921.
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L’uso strumentale del potere, invece, è stato ampio oggetto di studio, e
inevitabilmente di delimitazione, da parte della dottrina penalistica, anche
con riferimento alla prospettazione futura di un male ingiusto e, quindi,
alla minaccia, e di conseguenza, con riferimento allo speciale ambito di cui
trattasi, dei delitti contro la pubblica Amministrazione, alla concussione.
In particolare, la prospettazione dell’esercizio di un potere da parte di un
pubblico ufficiale non può essere considerata minaccia, nonostante implichi la prospettazione di una conseguenza negativa, se non è presente una
strumentalizzazione, ad altri fini, del potere attribuito al pubblico ufficiale
stesso. Proprio da tale strumentalizzazione consegue l’ingiustizia del male
che, appunto per questo, può dirsi minacciato (35).
La succitata, particolare modalità della condotta sembrava diretta,
però, ad escludere la penale rilevanza sia dell’abuso di qualità che della
violazione di doveri (36) e, soprattutto quest’ultima esclusione, specie in
relazione all’abuso prevaricatorio, appariva controversa. Sempre in senso
critico, inoltre, bisogna sottolineare il mancato coordinamento tra le fattispecie incriminatrici cosı̀ delineate e le norme che disciplinano le qualifiche soggettive pubblicistiche che, com’è noto, nell’ambito della medesima
funzione pubblica amministrativa, distinguono tra pubblico ufficiale e
incaricato di pubblico servizio, in base alla sussistenza in capo al primo,
e non al secondo, di espressi, determinati poteri. Conseguentemente, le
norme incriminatrici in questione, se fossero state accolte, sarebbero risultate inapplicabili agli incaricati di un pubblico servizio, oppure si sarebbero dovuti individuare, per via interpretativa, fantomatici poteri inerenti il servizio, diversi da quelli inerenti la funzione, ovverosia: deliberativo (cioè congiunto di formazione e manifestazione della volontà della
pubblica Amministrazione (37)), autoritativo e certificativo.
Per quanto riguarda, infine, l’elemento soggettivo, nell’abuso per prevaricazione era previsto il dolo intenzionale (con esclusione, quindi, della
penale rilevanza del dolo eventuale), nell’ipotesi di favoritismo affaristico il
dolo specifico, mentre, nello sfruttamento privato dell’ufficio, quello di-
(35) Cfr. G L. GATTA, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta
penalmente rilevante, Roma, 2013, 211ss. Una preferenza per il requisito della strumentalità,
rispetto a quello della arbitrarietà, è espressa da A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto di
interessi nel sistema penale, cit., p. 29.
(36) Cfr. V. MANES, Abuso d’ufficio, cit., p. 12020.
(37) Per le ragioni che consigliano di interpretare il potere deliberativo come congiunto, sia di formazione che di manifestazione della volontà della P.A., e non disgiunto, nel
senso di poter ritenere integrata la qualifica pubblicistica in presenza di solo uno dei due, si
rinvia a V. PLANTAMURA, Artt. 357 – 360, Le qualifiche soggettive pubblicistiche, in Trattato di
diritto penale, Parte speciale II, cit., p. 901 s.
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articoli
retto/generico. Le ragioni di tale differenziazione del dolo non risultano
immediatamente comprensibili e, comunque, sono controvertibili, anche
perché, seguendo la logica della gravità crescente delle pene, sarebbe stata
forse più intuitiva una scelta diversa, con previsione del dolo generico
nell’ipotesi meno gravemente sanzionata, ovverosia quella di prevaricazione, e del dolo intenzionale nel caso più grave di sfruttamento privato
dell’ufficio.
Viceversa, l’impressione che se ne ricava è quella di un rapporto tra
pubblica Amministrazione e cittadino ancora fortemente asimmetrico, in
cui, a parte ogni altra considerazione, la minor pena edittale per le ipotesi
di prevaricazione, per altro già comprensibile solo con riferimento al minimo edittale, non essendo in tale ipotesi previsto il requisito della patrimonialità del danno, ma non in relazione al massimo (che, infatti, avrebbe
dovuto coprire pure le ipotesi di danno patrimoniale), stride pure con
l’intensità del dolo richiesto.
4. – In ogni caso, pressanti ragioni politiche –se non, almeno in parte,
giudiziarie (38)– portarono all’accantonamento dell’articolato proposto dalla commissione Morbidelli e, soprattutto, alla legge di modifica del 1997,
con l’introduzione della nota formulazione dell’abuso d’ufficio (39) che, a
parte l’innalzamento della comminatoria edittale operato con la l. n. 190/
2012 (pena della reclusione da uno a quattro anni), “ha resistito” fino al
2020: data in cui, per altro, è stata sottoposta ad una modifica in senso
restrittivo che, se pur significativa, non ha mutato il paradigma di base
proprio della scelta operata dal legislatore del 1997.
La citata questione della comminatoria edittale, tuttavia, non è irrilevante, perché l’abuso d’ufficio come previsto dalla riforma del 1990 (almeno quando caratterizzato in senso patrimoniale) rendeva possibile sia
l’emissione delle misure cautelari personali coercitive – e, in particolare,
perfino della custodia cautelare in carcere – che le intercettazioni telefoniche e ambientali; viceversa, la nuova, diminuita comminatoria edittale era
tale da “mettere al sicuro” i pubblici amministratori da tali temibili istituti.
(38) Cfr. T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit., p. 6.
(39) “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di
norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse
proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o
ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito
con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante
gravità”.
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Con la prevista pena massima di tre anni di reclusione, infatti, poteva
trovare applicazione solo la misura cautelare della sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, ex art. 289 c.p.p. (40). Questo perché
tale misura, solo nei casi in cui si proceda per un delitto contro la pubblica
Amministrazione, può essere disposta, a carico del pubblico agente, anche
al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art. 287, comma 1, che in genere
limita l’applicabilità delle misure cautelari personali interdittive, alle ipotesi in cui si procede per delitti per i quali la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo di tre anni.
L’innalzamento della pena previsto nel 2012, quindi, era evidentemente diretto a rendere possibile l’applicazione della misura cautelare della
custodia in carcere, che infatti, a quel tempo, ex art. 280, comma 2, c.p.p.,
era applicabile solo per i delitti per i quali era prevista la pena della
reclusione non inferiore, nel massimo, a quattro anni. Il legislatore del
2012, del resto, non avrebbe potuto fare i conti con la sentenza “pilota”
Torregiani (41), che infatti è del 2013, e con la seguente necessita, per
l’Italia, di adeguarsi all’art. 3 CEDU, diminuendo il sovraffollamento carcerario, anche innalzando a cinque – col c.d. decreto carceri 2013 – gli
anni previsti nella succitata disposizione.
A livello di fattispecie descrittiva, invece, con la riforma del ‘97 veniva
abbandonata l’interessante idea della Commissione Morbidelli di una suddivisione in tre diverse norme incriminatrici. La previsione legale del 1997,
inoltre, pur mantenendo, nella rubrica, il riferimento all’abuso, per la
prima volta, nella descrizione del fatto tipico, non utilizzava tale termine,
al cui posto, infatti, si trovavano due diverse locuzioni, relative, com’è
noto, alla violazione di norme di legge o di regolamento e alla violazione
del dovere di astensione.
(40) Per un esempio di applicazione, nella prassi non frequente, di tale misura in un
caso in cui si procedeva, appunto, per abuso d’ufficio, si veda Cass. pen., sez. VI, 27 gennaio
2016, n. 6275, in Foro it., 2016, II, p. 607, secondo la quale: “Ove il direttore sanitario di
un’azienda ospedaliera, che rivestiva anche la qualifica di presidente dell’ufficio procedimenti
disciplinari per la dirigenza medica, dopo aver sollecitato e ricevuto una specifica relazione
scritta sulle false attestazioni ascrivibili a un sanitario, il quale nelle schede relative a due
interventi chirurgici non aveva evidenziato il ruolo attivo svolto da un professionista straniero
non autorizzato a entrare in sala operatoria, abbia omesso di attivare il procedimento disciplinare, sono configurabili gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di abuso d’ufficio,
idonei a giustificare la misura interdittiva della sospensione dall’esercizio di un pubblico
ufficio”.
(41) Cfr. Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torregiani e altri c. Italia, in www.giustizia.it. In
argomento, si veda O. MAZZA, Dalla sentenza Torregiani alla riforma del sistema penale, in
Arch. pen., 2014, p. 361 ss.
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articoli
Il reato previsto è di danno – come nelle tre ipotesi proposte dalla
commissione Morbidelli –, costituito alternativamente da un ingiusto vantaggio caratterizzato patrimonialmente (42), indifferentemente prodottosi
per l’autore o per terzi, o da un danno ingiusto, non necessariamente
patrimoniale: a tal proposito si è parlato di “doppia ingiustizia”, nel senso
che gli eventi in questione, per essere penalmente rilevanti, dovrebbero
essere autonomamente ingiusti, e non ritenuti tali solo perché conseguenti
ad una condotta abusiva, ma non è certo che tale requisito sia dotato di
reale capacità selettiva (43).
Il dolo è intenzionale, come nell’ipotesi di prevaricazione prevista dalla
commissione Morbidelli, e rappresenta il primo caso in cui l’avverbio
“intenzionalmente”, evidentemente con finalità restrittiva dell’area del punibile, trova spazio in una norma incriminatrice: successivamente, lo stesso
dolo intenzionale, con la medesima funzione, ma introdotto con una formula diversa (“con l’intenzione”), sarà utilizzato solo dal legislatore del
2002, nell’ambito della controversa riforma del diritto penale societario
e, in particolare, nel reato di false comunicazioni sociali, che però, per
quantità e qualità degli elementi richiesti (si pensi, ad es., alle soglie di non
punibilità (44)), sembrava destinato a non poter trovare applicazione.
Come emerge chiaramente anche dall’analisi dei relativi lavori preparatori,
lo scopo della riforma -oltre gli aspetti processuali già accennati- era quello di
eliminare la penale rilevanza dell’eccesso di potere, cosı̀ limitando il sindacato
del giudice penale, che non doveva potersi estendere anche al merito amministrativo, tanto ciò è vero che due emendamenti, diversamente formulati, ma
entrambi tendenti a recuperare tale possibilità, non furono approvati (45).
(42) In senso critico circa l’avvenuta esclusione della rilevanza dei vantaggi non patrimoniali, si espresse L. PICOTTI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in Riv. trim. dir. pen. econ.,
1997, p. 283 ss., e, spec., p. 286 ss.
(43) “Non sembra, tuttavia, che il criterio in questione possa più di tanto puntellare la
traballante determinatezza della fattispecie di abuso d’ufficio. A ben vedere, si tratta di una
superfetazione tassonomica degli elementi della fattispecie, priva di reali attitudini selettive. Sul
versante della prima ingiustizia, che la violazione di legge o regolamento dia luogo ad un
atto contra ius è pressoché scontato. E ugualmente scontato appare il secondo attributo di
ingiustizia riferito all’evento 96: se questo fosse invece giusto, o comunque necessario o dovuto,
dove risiederebbe l’abuso? Si tratterebbe, né più né meno, di una condotta inoffensiva, che
pertanto non potrebbe essere ricompresa nel novero dei fatti penalmente rilevanti”, cosı̀ A.
MERLO, L’abuso d’ufficio tra legge e giudice, Torino, 2019, p. 52.
(44) Cfr. V. PLANTAMURA, Alle soglie del falso – Previsione, natura e disciplina delle
soglie di non punibilità dei reati di false comunicazioni sociali, in Riv. trim. dir. pen. econ.,
2003, p. 1252 ss.
(45) Cfr. A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, cit., p.
31 s.
vito plantamura
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Questa limitazione fu anche oggetto di ordinanza di remissione dinanzi
alla Corte costituzionale, del GIP presso il Tribunale di Bolzano, secondo il
quale la nuova formulazione del delitto contrastava, per quanto qui più
direttamente interessa: con l’art. 3, comma 1, Cost., nella parte in cui trattava diversamente situazioni di eguale gravità, e altrettanto riprovevoli socialmente, sulla base del criterio irrazionale della sussistenza, o meno, di una
violazione di legge, cosı̀ assicurando impunità alle condotte subdole e agli
atti illeciti posti in essere per interposta persona con scambi di favori,
causando quindi anche disuguaglianza tra cittadini punibili o meno; e con
l’art. 97, comma 1, Cost., perché il buon andamento e l’imparzialità della
pubblica Amministrazione non potevano essere assicurati da una norma che
consentiva favoritismi e prepotenze dei pubblici agenti, e impediva la “funzione civetta” di tale norma, ovverosia di consentire di indagare sugli ingiusti
vantaggi che sarebbero il sintomo visibile più evidente della corruzione.
Ovviamente, la Corte dichiarò la questione inammissibile attenendosi alla
sua (allora) giurisprudenza per cui “l’eventuale addebito al legislatore di
avere omesso di sanzionare penalmente determinate condotte, in ipotesi socialmente riprovevoli o dannose, o anche illecite sotto altro profilo, ovvero di
avere troppo restrittivamente definito le fattispecie incriminatrici, lasciandone
fuori condotte siffatte, non può, in linea di principio, tradursi in una censura di
legittimità costituzionale della legge, e tanto meno in una richiesta di “addizione” alla medesima mediante una pronuncia di questa Corte” (46).
L’indubbia maggiore determinatezza della fattispecie incriminatrice
trovò alcune voci favorevoli in dottrina (47), anche se in senso contrario
si espresse chi individuava nella riforma una forma di sterilizzazione della
fattispecie, con perdita del significato penalistico della condotta, che per
altro, cosı̀ formulata, risultava comunque in contrasto col principio di
legalità, se pur in relazione al diverso aspetto della riserva di legge, costituendo una fattispecie parzialmente in bianco (48). Perfino trai primissimi
commentatori, per altro, non mancò chi espresse un certo scetticismo sulla
circostanza che, nonostante l’evidente intenzione del legislatore in tal sen-
(46) Cosı̀ Corte Costituzionale, 28 dicembre 1998, n. 447, in Cass. pen., 1999, p. 1373.
Cfr., sul punto, S. Preziosi, Norma di favore e controllo di costituzionalità nel nuovo abuso
d’ufficio, in Giur. costit., 1999, p. 351; A. TESAURO, Violazione di legge e abuso di ufficio –
Tra diritto penale e diritto amministrativo, Torino, 2002, p. 287.
(47) Cfr. E. MUSCO, A proposito di tutela penale della pubblica amministrazione, cit., p.
1030 s.; C. BENUSSI, Diritto penale della pubblica amministrazione, Padova, 2016, p. 415.
(48) Cfr. A MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, cit., p.
36 ss.
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articoli
so, la giurisprudenza si “arrendesse” ad un’interpretazione che davvero
escludesse la rilevanza dell’eccesso di potere.
A questo proposito, si sosteneva in particolare che l’atto amministrativo
affetto da eccesso di potere potesse comunque considerarsi non conforme alla
legge, per cui la giurisprudenza avrebbe potuto ricorrere ad una tale interpretazione oggettiva della norma, negligendo l’intenzione del legislatore, l’ossequio alla quale, invece, avrebbe dovuto condurre l’interprete a più correttamente richiedere, per l’integrazione del tipo, la “violazione di specifiche
norme costitutive di altrettanti precisi doveri (di azione o di «non azione»)” (49).
La questione dell’eccesso di potere, in effetti, almeno in un primo
momento, venne risolta in ossequio alla volontà del legislatore, nonostante
la possibilità, almeno astrattamente, di ritenere integrato il requisito della
violazione di legge in riferimento ai principi di buon andamento ed imparzialità della pubblica Amministrazione, di cui, originariamente, al primo comma dell’art. 97 Cost. (50). Con la nota sentenza Tosches, infatti, la
Cassazione si espresse nel senso della necessità che la norma violata non
fosse genericamente strumentale alla regolarità dell’attività amministrativa,
ma vietasse puntualmente il comportamento sostanziale dei pubblici agenti. Conseguentemente, furono ritenute penalmente irrilevanti sia le violazioni di alcune norme a carattere meramente procedimentale, come ad
esempio quelle che impongono all’amministrazione di tenere conto delle
memorie e dei documenti prodotti dal privato, o di motivare l’atto amministrativo (art. 3 della l. n. 240/1990), ecc., sia, soprattutto, le violazioni di
norme generalissime o di principio, come, appunto, venne ritenuta quella
prevista dall’art. 97 Cost., sul buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, anche perché ritenuta di carattere organizzativo e priva di un
carattere prescrittivo nei confronti dei singoli pubblici agenti (51).
(49) Cosı̀ G. CONTENTO, La riforma dell’abuso d’ufficio: violazione di legge ed eccesso di
potere, in ID., Scritti 1964 – 2000, a cura di G. SPAGNOLO, Bari, 2002, p. 615 s.
(50) Com’è noto, infatti – con straordinario tempismo –, il 20 aprile del 2012 l’Italia è
stato il primo Paese dell’Unione Europea (e, a dieci anni di distanza, possiamo ormai
affermare “il primo e il solo”) a costituzionalizzare, agli artt. 81 e, appunto, 97 Cost., il
principio del paraggio di bilancio contenuto nel Trattato UE, del 2 marzo 2012, sulla
stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio conosciuto col nome inglese di fiscal compact (nonostante che a suo tempo il Regno Unito, pur
ancora saldamente nella UE, si fosse rifiutato di firmarlo). Non è questa la sede per sviluppare una severa critica ad un simile approccio, per cui si rinvia ad autorevole dottrina
giuspubblicistica, secondo la quale si tratta di un “principio tiranno”, che si pone in contrasto con le libertà positive garantite dalla nostra Costituzione e, ancor più alla radice, con il
secondo comma dell’art. 3 Cost. Cfr. L. CARLASSARE, Diritti di prestazione e vincoli di
bilancio, in www.costituzionalismo.it, f. 3, 2015, p. 137 ss.
(51) Cfr. Cass. pen., sez. II, 4 dicembre 1997, in: Foro it., II, 1998, p. 258, con note di
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Giustamente, però, in dottrina è stato sostenuto che la distinzione tra
principi e regole non esclude che entrambe le categorie rientrino nel
concetto più ampio di norme, per cui l’irrilevanza penale della violazione
dell’art. 97 Cost. appariva quantomeno arbitraria, a meno di non voler
riesumare, ma anche qui con un rimedio peggiore del male, la risalente
differenza tra norme precettive e programmatiche, fondamentalmente
strumentale a non dare attuazione, all’indomani dell’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, alle tante innovazioni ivi contenute (52).
La verità, tuttavia, è che l’ossequio alla volontà del legislatore, pure
comprensibile nell’immediatezza della riforma, risulta inevitabilmente destinato ad essere accantonato nel tempo, con l’evoluzione giurisprudenziale che, nel corso degli anni, da tale intento si sente sempre meno vincolata.
Già nel 1999, ad esempio, una sentenza della Cassazione in parte smentı̀ la
succitata sentenza Tosches, ritenendo sussistente l’abuso d’ufficio, proprio
per violazione dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi (53).
Lo stesso processo è avvenuto in relazione alla diversa (54) questione
della violazione delle norme procedimentali. Secondo una successiva giurisprudenza (55), infatti, pure tali violazioni ben potevano integrare il requisito
della violazione di norme di legge o di regolamento di cui all’art. 323 c.p.
(fatta salva la necessità generale, per ritenere esistente il reato, che sussistesse
un nesso tra la violazione e l’evento costitutivo dello stesso), a meno che non
A. TESAURO, La riforma dell’art. 323 c.p. al collaudo della cassazione, e, ivi, p. 390 ss., V.
MANES, Abuso d’ufficio, violazione di legge ed eccesso di potere; nonché in Cass. pen., 1998, p.
2332, con nota di M. GAMBARDELLA, Considerazioni sulla «violazione di norme di legge» nel
nuovo delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.).
(52) Cfr. A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, cit., p. 47.
(53) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 19 novembre 1999, n. 2152278, in Riv. pen., 2000, p. 612.
(54) “Il difetto di motivazione nel provvedimento impugnato non può essere in alcun
modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma, costituendo la
motivazione del provvedimento, ai sensi dell’art. 3 l. 7 agosto 1990 n. 241, il presupposto, il
fondamento, il baricentro e l’essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo e,
per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21 octies, 2˚ comma, cit. l. n. 241 del 1990, il
provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti; di qui l’inammissibilità della motivazione
postuma addotta dall’amministrazione in sede giudiziale”, cosı̀ Cons. Stato, sez. III, 30 aprile
2014, n. 2247, in Foro amm., 2014, p. 1058.
(55) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 2005, in Ced Cass., rv. 231341, con la quale la
Corte ha ritenuto che l’omessa istruttoria, diretta ad individuare un adeguato numero di
aspiranti al conferimento di un incarico esterno alla asl e a verificarne l’idoneità, integrasse
una violazione procedimentale ex art. 7 l. 7 agosto 1990 n. 241, in grado di incidere sulla
decisione finale, e dunque rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., ai fini dell’integrazione del
quale, non avrebbero rilevato solo le norme meramente procedimentali, da intendersi rigorosamente come quelle destinate a svolgere la loro funzione all’interno del procedimento,
senza incidere in modo diretto ed immediato sulla decisione amministrativa.
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articoli
ci si trovasse dinanzi ai c.d. vizi formali non invalidanti che, secondo la
previsione del primo e secondo comma dell’art. 21octies della l. n. 241/
1990, non rilevano neppure da un punto di vista dell’annullabilità amministrativa dell’atto, qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia
palese che il contenuto dispositivo dell’atto stesso non sarebbe potuto essere
diverso, anche in caso di mancata violazione procedimentale (56).
La questione più significativa, tuttavia, era quella della rilevanza penale
(o meno) dell’eccesso di potere (57) e quindi, inevitabilmente, delle connesse, note figure sintomatiche, ovviamente nella parte in cui non potevano essere considerate vere e proprie violazioni di legge, a seguito dell’introduzione della l. n. 241/1990 (il riferimento è alla già citata mancanza di
motivazione dell’atto, ex art. 3 – che prima, come forma di eccesso di
potere, si riconduceva alla più ampia figura della contraddittorietà della
motivazione –, e al difetto d’istruttoria, ex art. 6). Al proposito, prestigiosa
dottrina (58) aveva sostenuto che, in fondo, pure la ritenuta penale rilevanza dell’eccesso di potere non avrebbe implicato il sindacato del giudice
penale sul merito amministrativo, in quanto questo sarebbe relativo al
risultato dell’atto amministrativo, e invece l’eccesso di potere riguarderebbe il modo di formazione dell’atto. L’argomento era suggestivo, e tuttavia
non si può negare -né, in effetti, lo nega la giurisprudenza amministrativa (59)- che sia proprio e solo nei casi di eccesso di potere che il sindacato
(56) “L’art. 21 octies l. n. 241/1990 ha introdotto nel nostro ordinamento i c.d. vizi non
invalidanti del provvedimento, prevedendo, in particolare, la non annullabilità dell’atto per
violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti (1˚ comma) o sulla comunicazione di avvio (2˚ comma), quando sia palese che il suo contenuto dispositivo non sarebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato; tale norma non determina la degradazione
di un vizio di legittimità in mera irregolarità, né costituisce una «fattispecie esimente» ma, pur
continuando la violazione ad integrare un vizio di legittimità, viene prevista la non annullabilità dell’atto a causa di valutazioni attinenti al contenuto del provvedimento, effettuate ex
post dal giudice, il quale accerta che il provvedimento non poteva essere diverso; l’art. 21 octies
rende, quindi, irrilevante la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma dell’atto per
il fatto che il contenuto dispositivo «non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato»; ossia, l’interesse a ricorrere viene negato allorché tale accertamento priva il ricorrente dell’interesse a coltivare un giudizio da cui non potrebbe ricevere alcuna utilità; tale
prova di utilità va, quindi, esclusa allorché gli elementi che il privato intende introdurre nel
procedimento e che ha indicato in giudizio non siano facilmente risolvibili se non con valutazioni di merito che risultano precluse al giudice amministrativo”, C. Stato, Sez. V, 23
gennaio 2008, n. 143, in Comuni d’Italia, 2008, f. 3, p. 67.
(57) Cfr. G. SIGISMONDI, Eccesso di potere e clausole generali, modelli di sindacato sui
poteri pubblici e sui poteri privati a confronto, Napoli, 2012.
(58) Cfr. A. PAGLIARO, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere ed abuso
d’ufficio, in Dir.proc.pen., 1999, p. 106 ss.
(59) Cfr. C. Stato, Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 233, in Foro amm.-Cons. Stato, 2008,
p. 165.
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del giudice si spinge fino alle scelte di discrezionalità amministrativa: scelte
che infatti, al di fuori di tali ipotesi, non possono essere censurate in sede
giurisdizionale.
Nonostante ciò, nel corso degli anni, la giurisprudenza penale aveva
compiuto un percorso che l’aveva portata a ritenere la rilevanza penale
dell’eccesso di potere, ai sensi dell’art. 323 c.p., con riferimento alla violazione del presupposto da cui trae origine il potere del pubblico agente e
allo specifico fine perseguito dalla norma (60). Sul punto, autorevole dottrina (61) conferisce importanza paradigmatica ad una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione in cui, ovviamente non limitandosi alla questione controversa, in tema di computo dei termini, per cui i ricorsi le
erano stati assegnati, e, per quanto qui più direttamente interessa, esprimendosi sulla richiesta del Procuratore Generale sulla riqualificazione dei
fatti contestati a titolo di truffa alla stregua di abuso d’ufficio, le Sezioni
Unite sostenevano che assumeva rilevanza, ai fini della possibile qualificazione del fatto ex art. 323 c.p., l’avvenuta violazione dell’art. 273 c.p.c.,
sulla riunione di procedimenti relativi alla stessa causa (che nella specie
non era stata operata, in modo da far lievitare l’ammontare delle spese
legali dei pignoramenti), anche perché “Per qualsivoglia pubblica funzione
autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità.
Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte, si ha
pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell’articolo 323 c.p., non
solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in
contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della
disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi
quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito” (62).
(60) Cfr. C. BENUSSI, Diritto penale della pubblica amministrazione, cit., 430. Nel caso di
atto legittimo ma teso a conseguire un fine illecito, l’antigiuridicità poteva essere ricavata
dall’art. 97 Cost., secondo G. RUGGIERO, Abuso d’ufficio, in Trattato di diritto penale. Parte
speciale, Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di C. F. GROSSO, M. PELISSERO,
Milano, 2015, 369. Il fine della norma violata, sotto altra angolazione, ovverosia dal punto di
vista della necessaria sussistenza di un nesso di derivazione causale tra la norma violata e la
produzione dell’evento costitutivo dell’abuso, era stato preso in considerazione da A. TESAURO, Violazione di legge e abuso di ufficio – Tra diritto penale e diritto amministrativo, cit.,
p. 49 ss.
(61) Cfr. T. PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit., p. 8.
(62) Cfr. Cass. pen., sez. un., 29 settembre 2011, n. 155, in Ced Cass., rv. 251498.
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articoli
Quid iuris, tuttavia, con riferimento ai casi in cui l’unica violazione di
norme di legge individuabile era proprio quella dell’art. 97 Cost? Anche
tale violazione – che, volendo indicare un approssimativo spartiacque
temporale, fino al 2003 prevalentemente non era stata considerata (63)
– veniva poi ritenuta rilevante dal punto di vista, non tanto del buon
andamento, quanto, soprattutto, dell’imparzialità, nella parte in cui,
esprimendo il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi, avrebbe
avuto una efficacia immediatamente precettiva (64): al proposito, si segnala un’interessante giurisprudenza di merito che, nell’affermare la rilevanza della violazione dell’imparzialità, espressamente negava quella
del buon andamento, in quanto solo al principio di imparzialità doveva
essere attribuita una efficacia immediatamente precettiva, nei rapporti fra
amministrazione e terzi (65). Alla rilevanza della violazione dell’art. 97
Cost., per altro – e sotto entrambi i punti di vista considerati –, nella
giurisprudenza più recente poteva aggiungersi addirittura quella della
violazione dell’art. 54 Cost., nella parte in cui prevede che i pubblici
agenti hanno il dovere di adempiere le loro funzioni con disciplina ed
onore.
La casistica positiva di legittimità risultava quindi piuttosto varia e, tra
l’altro, aveva riguardato: il sistematico disbrigo preferenziale delle pratiche
avviate da una specifica agenzia, a discapito delle altre agenzie di pratiche
automobilistiche, da parte di un funzionario della motorizzazione civile (66); frequentemente, ipotesi varie di favoritismo concorsuale (67); l’adozione di provvedimenti illegittimi finalizzati a svuotare di mansioni l’attività del responsabile del servizio lavori pubblici di un Comune, quale
ritorsione per l’adozione di provvedimenti contrari agli interessi personali
del Sindaco (68); il progressivo svuotamento del carico assistenziale del
medico referente dell’esecuzione di prestazioni specialistiche, da parte di
(63) “In tema di abuso d’ufficio, la norma di cui al 1˚ comma dell’art. 97 Cost., secondo
la quale i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il
buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, non ha carattere precettivo ed ha valore
meramente programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li distingue non
sono idonei a costituire oggetto della violazione che può dar luogo alla integrazione del reato
previsto dall’art. 323 c.p.”, cosı̀ Cass. pen., Sez. VI, 8 maggio 2003, in Ced Cass., rv. 226706.
(64) Per una tale impostazione, si veda, in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. VI, 12
giugno 2018, n. 49459, in Ced Cass., rv. 274225, nonché, in dottrina, C. BENUSSI, Diritto
penale della pubblica amministrazione, cit., p. 429.
(65) Cfr. Trib. Laspezia, 1˚ ottobre 2009, in Riv. pen., 2009, p. 1437.
(66) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 25162, in Giur. it., 2009, p. 433.
(67) Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. VI, 17 febbraio 2011, n. 27453, in Cass. pen., 2012,
p. 2944.
(68) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 12 giugno 2014, n. 38357, in Ced Cass., rv. 260472.
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due direttori di unità operativa ospedaliera succedutisi nel tempo (69); il
demansionamento di un dipendente comunale attuato con intento discriminatorio o ritorsivo (tale ultima sentenza, in particolare, si caratterizzava
per il riferimento alla violazione, non solo dell’art. 97, da entrambi i punti
di vista considerati, ma anche dell’art. 54 Cost.) (70).
La Corte costituzionale, dal canto suo – criticata, però, dalla dottrina
che in questo ha intravisto un’occasione persa (71)–, aveva abilmente dribblato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., impugnato,
dal Tribunale di Enna – in riferimento agli art. 25, 2ş comma, e 97, 2ş
comma, Cost. –, nella parte in cui, secondo il «diritto vivente», includerebbe nel requisito della «violazione di norme di legge», necessario per la
configurazione della fattispecie incriminatrice dell’abuso di ufficio, anche
la violazione dell’art. 97 Cost. e, dunque, dei principi di imparzialità e
buon andamento della pubblica Amministrazione, e, persino, la violazione
di norme previste nei contratti collettivi di lavoro o in atti amministrativi,
circolari ed addirittura discendenti da prassi amministrative, dichiarando
la questione manifestamente inammissibile, anche per via della carente
descrizione della fattispecie nell’ordinanza di rimessione, che non avrebbe
consentito di verificare sotto quale specifico profilo la disposizione censurata avrebbe dovuto essere applicata per definire il giudizio principale (72).
La situazione, per altro, si era da ultimo complicata ulteriormente
dall’emergere, in ambito amministrativo, della c.d. soft law (73), e dalla
possibile rilevanza, sempre ai fini dell’integrazione del delitto di cui trattasi, di una sua violazione. Il riferimento è alle linee guida dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione. Il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/
2016), infatti, prevedeva che la sua attuazione non fosse più demandata ad
un apposito regolamento, ma avvenisse in base, appunto, alla c.d. soft law,
cioè attraverso l’emanazione delle succitate linee guida di carattere gene-
(69) Cfr. Cass. pen., Sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096.
(70) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 21 febbraio 2019, n. 22871, in Ced Cass., rv. 275985.
(71) “E bene avrebbe fatto la Corte costituzionale, quando nel 2016 le si è presentata
l’occasione, a caducare la norma nella parte in cui trasmoda oltre quanto l’enunciato linguistico
e i fondamentali canoni penalistici non le consentano (ovvero a garantirne la corretta interpretazione con una sentenza interpretativa di rigetto). Una interpretazione più continente della
fattispecie escluderebbe, invero, la necessità di ulteriori interventi correttivi (se non addirittura
abrogativi), e preserverebbe uno strumento di reazione contro le forme più gravi di abuso
funzionale, che presentano caratteristiche strutturali proprie, non riconducibili allo schema
negoziale tipico delle fattispecie corruttive”, cosı̀ A. MERLO, L’abuso d’ufficio tra legge e
giudice, cit., p. 124.
(72) Cfr. Corte cost., 14 luglio 2016, n. 177, in Cass. pen., 2016, p. 3585.
(73) Cfr. M. RAMAJOLI, Soft law e ordinamento amministrativo, in Dir. amm., 2017,
p. 147.
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articoli
rale proposte dall’ANAC, e approvate con decreto del Ministro delle
infrastrutture e dei trasporti, nonché tramite altri provvedimenti e strumenti di regolamentazione flessibile della stessa Autorità, quali bandi-tipo,
capitolati-tipo, contratti-tipo, ecc.
Da un punto di vista penalistico, poi, se pure è vero che a tali linee
guida si attribuisce generalmente la natura “non normativa” di atto amministrativo generale, secondo parte della dottrina (74), specie in relazione alle linee guida vincolanti, ex art. 1, comma 1, lett. t), della l. n. 11/
2016 (75), si sarebbe potuta utilizzare la teorica della violazione mediata
di legge, non diversamente da quanto comunemente compiuto, ad es. – e
a parte le primissime pronunce successive all’introduzione della nuova
formulazione della norma (76)– nei casi di violazione dei PRG (o dei
(74) In tal senso, si veda G. SALCUNI, La «disciplina altrove». L’abuso d’ufficio fra
regolamenti e normazione flessibile, Napoli, 2019, p. 179ss. In argomento, si rinvia anche
a C. CUPELLI, L’abuso d’ufficio, in B. ROMANO – A. MARANDOLA (a cura di), I delitti dei
pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 2020, p. 273 ss. e, spec., p. 285,
nonché, più in generale sulla possibilità di integrazione dell’art. 323 c.p. per violazione
mediata di norme, da intendere, però, in senso restrittivo, A. VALLINI, Abuso d’ufficio, in
F. PALAZZO (a cura di), Delitti contro la pubblica amministrazione, Napoli, 2011, p. 257 ss., e,
spec., p. 289 ss. Contra, però, V. VALENTINI, Abuso d’ufficio e fast law ANAC Antichi
percorsi punitivi per nuovi programmi preventivi, in Arch. pen., 2018, f. 3, p. 22, secondo
il quale, per questa via, si finirebbe per attuare un gioco di specchi, che si spingerebbe sul
carattere concluso e pregnante della fattispecie incriminatrice richiamante, in modo da
“declassare” a mero presupposto di fatto tutto il materiale normativo evocato, direttamente
ma anche “a catena”, dall’estremo normativo tipico «in violazione di norme di legge o di
regolamento».
(75) Secondo un’interessante ricostruzione, per altro, anche le linee guida non vincolanti potrebbero, orientative o interpretative che siano, potrebbero rilevare ai fini dell’integrazione dell’art. 323, in quanto la stazione appaltante può discostarsene solo con atto
motivato, per cui, nel caso di violazione delle linee guida non vincolanti con motivazione
assente o apparente, si ricadrebbe in un’ipotesi di violazione di legge ex art. 3 l. n. 241/1990.
Cfr. G. SALCUNI, La «disciplina altrove», cit., p. 196 s.
(76) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 2 ottobre 1998, in Cass. pen., 1999, p. 211, secondo la
quale “Non costituisce abuso d’ufficio, ai sensi della nuova formulazione dell’art. 323 c.p., il
rilascio di concessione edilizia in violazione del piano regolatore generale e del piano particolareggiato, non assumendo neppure rilievo la circostanza che la mancata osservanza delle
prescrizioni in essi contenute si risolva nella violazione di quelle norme di legge che impongono
il rilascio della concessione edilizia stessa in modo conforme alle previsioni degli strumenti
urbanistici”. In senso contrario, però, si era poi consolidata la successiva giurisprudenza di
legittimità a partire già da Cass. pen., Sez. VI, 14 marzo 2000, in Riv. pen., 2000, p. 1024,
secondo la quale “In tema di abuso di ufficio deve ritenersi che la concessione edilizia senza
rispetto del piano regolatore generale integra una violazione di legge rilevante al fine della
configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. (ha specificato la corte nella fattispecie, relativa a
concessione edilizia in zona inedificabile, che il piano regolatore generale contiene prescrizione
di immediata applicazione, pur potendo assumere anche carattere programmatorio di scelte
generali; ne consegue – sotto il profilo del soddisfacimento del principio della determinatezza
della fattispecie incriminatrice – la sussistenza del dovere da parte della competente autorità
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capitolati d’appalto) (77).
La situazione sembrava destinata nuovamente a mutare nella direzione
del recupero di una certa determinatezza (almeno nella, per altro affatto
importante, materia di cui trattasi), a seguito della previsione del nuovo
comma 27 octies dell’art. 216 del Codice degli appalti pubblici – introdotto dalla lettera gg), numero 4, del comma 20, dell’art. 1, del d.l. n. 32/
2019, c.d. sblocca cantieri –, che prevedeva l’emanazione, entro 180 giorni
dalla data di entrata in vigore della stessa disposizione, di un regolamento
“unico” di esecuzione, attuazione e integrazione del Codice. Tale comma
disponeva però che, nelle more dell’emanazione del nuovo regolamento
unico, continuavano ad applicarsi le linee guida e, nonostante lo stringente
termine previsto, l’ambizioso progetto del regolamento in questione tardava a realizzarsi (in effetti, mentre si scrive, non si è ancora realizzato).
In definitiva, nel 2019, la situazione si caratterizzava per: la già ricostruita evoluzione ampliativa della giurisprudenza di legittimità (rilevanza
delle violazione dell’obbligo di motivazione, delle norme procedimentali,
del presupposto da cui trae origine il potere del pubblico agente e dello
specifico fine perseguito dalla norma, dello sviamento di potere, del principio di imparzialità e, da ultimo, pure di quello di buon andamento e,
perfino, della disciplina e onore nell’adempimento delle funzioni pubbliche); la mancata presa di posizione della Corte costituzionale sulla determinatezza (o meno) della fattispecie incriminatrice cosı̀ come ricostruita
dal “diritto vivente”; e la possibile rilevanza delle violazioni mediate –non
a caso, del resto, non condivisa da attenta dottrina (78) per evidenti ragioni
di determinatezza–, sia in generale che, in particolare, in un settore certamente non secondario quale quello dei contratti pubblici, per di più anche
in relazione alla vasta e, in certa misura sfuggente (79) e certamente eticiz-
amministrativa di provvedere ai sensi dell’art. 4 l. n. 10 del 1977 (caratteristiche della concessione edilizia) e dell’art. 31 l. n. 1150 del 1942, (dati normativi che costituiscono il principio
discriminatorio della condotta lecita da quella illecita)”.
(77) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 19 novembre 2003, in Ced Cass., rv. 227720.
(78) Cfr. A. DI MARTINO, Abuso di ufficio, in A. BONDI, A. DI MARTINO, G. FORNASARI,
Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, p. 251. Nel senso di considerare
l’inciso “in violazione di norme di legge o di regolamento” come un vero e proprio usbergo
rispetto ad un incontrollato sindacato del giudice penale del merito amministrativo, con
irrilevanza conseguente, ad es., delle violazioni dei bandi di concorso, e delle scelte amministrative non espressamente previste, ma, non sol per questo, vietate dalla legge (il riferimento è al caso dell’allora Sindaco De Luca, che aveva “inventato” la figura del project
manager non prevista, ma non esclusa, dal Codice appalti), si veda S. MASSI, Parametri
formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Arch. pen., 2019, f. 1, p. 11 e 13.
(79) Cfr. A. MASSARI, Un profluvio di linee guida da Anac e Mit... dalla gara, alla fase di
esecuzione, in Appalti & Contratti, 2018, f. 5, p. 2.
92
articoli
zante (80), produzione ANAC di soft law. In questo contesto, per chi
auspicava una nuova restrizione dei confini applicativi della fattispecie
incriminatrice in oggetto – conforme alle intenzioni, se non alla lettera,
della riforma del 1997 –, rimaneva solo la via di una terza riforma legislativa dello stesso art. 323 c.p.
5. – Nella sua nuova opera di riforma dell’art. 323 c.p., del resto, il
legislatore avrebbe potuto avvalersi di alcune interessanti prospettive
emerse in dottrina. Se, infatti, alcune voci della letteratura, sia penalistica
che amministrativistica, propendevano, ormai, per l’abolizione dell’abuso
d’ufficio (81), altre offrivano spunti per un miglioramento della formulazione post-1997, o, comunque –nel caso di “scetticismo” rispetto alla
possibilità di giungere, tramite riforma legislativa, ad un’effettiva maggiore
tipizzazione, che invece sarebbe stata meglio garantita da una giurisprudenza più restrittiva–, almeno per una valorizzazione del delitto in questione, specie a livello sanzionatorio, in relazione alle non necessariamente
più gravi ipotesi corruttive, con modifica conseguente pure della clausola
di riserva (82).
Al proposito, in stretto ordine cronologico, bisogna considerare una
prima, rilevante ed originale proposta di riforma dell’abuso d’ufficio (83),
diretta a restituire al giudice penale il controllo sugli atti discrezionali della
pubblica Amministrazione, ritenuto opportuno anche in considerazione
del fatto che l’abuso d’ufficio, già con la riforma del ‘90, si era trovato
ad ereditare, non solo l’interesse privato in atti d’ufficio, ma anche il
peculato per distrazione. Secondo tale proposta, nell’ambito dell’eccesso
di potere, il diritto penale avrebbe dovuto ritagliarsi uno spazio suo pro-
(80) Cfr. V. VALENTINI, op. cit., p. 8.
(81) Cfr. L. STORTONI, Intervento, in A. CASTALDO (a cura di), Migliorare la performance
della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, 117ss., nonché,
per la dottrina amministrativistica, S. PETRONGINI, Le ragioni che consigliano l’abrogazione
dell’abuso d’ufficio, ivi, p. 13 ss.
(82) “La fattispecie di abuso, cioè, andrebbe considerata per le sue specifiche caratteristiche di tipicità che la rendono adeguata a sanzionare alcuni tipi di strumentalizzazione della
funzione amministrativa e non, invece, come un minus rispetto a fattispecie solo asseritamente
più gravi. Oltre a consentire una più puntuale aderenza ai princı̀pi di determinatezza e tassatività, una simile prospettiva consentirebbe un recupero di coerenza all’interno del sistema dei
delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione tanto in termini di razionalità
sanzionatoria orizzontale inter delicta, quanto, in un’ottica infra delicta, sul piano della
razionalità intrinseca della fattispecie o proporzionalità in senso stretto”, cosı̀ A MERLO,
L’abuso d’ufficio tra legge e giudice, cit., p. 128 s.
(83) Cfr. A. MANNA, Abuso d’ufficio e conflitto di interessi nel sistema penale, cit., p.
172 ss.
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prio di rilevanza – appunto, ex art. 323 c.p. – con riferimento al concetto
di conflitto di interessi, e quindi con sostituzione conseguente dell’espressione “in violazione di norme di legge o di regolamento” con quella della
“situazione di conflitto di interessi”.
In questo modo, la penale rilevanza sarebbe stata limitata ai soli casi di
prevalenza dell’interesse del rappresentato su quello del rappresentante, e
dunque, in ambito pubblicistico (che però non è l’unico rilevante, tanto
che la proposta in questione prendeva le mosse anche dall’analisi del
delitto d’infedeltà patrimoniale societaria, ex art. 2634 c.c.), di distoglimento dell’atto pubblico dalla sua funzione tipica, per via del confliggente
interesse del soggetto agente qualificato. L’offensività della fattispecie descrittiva cosı̀ riformata sarebbe stata garantita, inoltre, dal requisito del
vantaggio, anche non patrimoniale, o del danno (senza il bisogno, però,
di richiedere la fantomatica “doppia ingiustizia”), per cui non si sarebbe
trattato di un delitto di pura infedeltà.
In base ad una successiva proposta, invece, sarebbe stato meglio sdoppiare l’abuso di ufficio in due distinte fattispecie incriminatrici: una prima,
di abuso in danno e favoritismo non affaristico; e una seconda, più gravemente punita, che avrebbe dovuta essere la vera erede del peculato per
distrazione e dei più gravi casi di interesse privato. Questi due reati avrebbero dovuto possedere elementi costitutivi in parte differenti, sia riguardo
al dolo che all’evento: in entrambi i casi, però, la condotta avrebbe dovuto
essere caratterizzata dall’uso arbitrario e strumentale dei pubblici poteri o
delle mansioni. Nell’ipotesi in cui, infine, gli abusi fossero stati commessi a
vantaggio esclusivo della pubblica Amministrazione e senza danneggiare
terzi, si sarebbe potuta prevedere la sola sanzione amministrativa (84).
Affatto più recente, la c.d. proposta Castaldo – Naddeo, frutto dei
risultati della commissione di studio e riforma dell’abuso d’ufficio presieduta, appunto, dal prof. Castaldo, si articolava nei seguenti punti: maggiore selettività della condotta tipica dell’abuso d’ufficio (“formali” norme di
legge o di regolamento “inerenti la disciplina di forme, procedure e requisiti
imposti per l’esercizio della funzione o del servizio stesso”, nonché, per
quanto riguarda l’omessa astensione, invece che “negli altri casi prescritti”,
quando il soggetto agente avesse avuto “un interesse proprio o di un prossimo congiunto in conflitto con quello pubblico”); inserimento di una clausola modale, per cui l’evento avrebbe dovuto essere la concretizzazione del
rischio che la norma violata mirava a prevenire, con recupero conseguente
(84) Cfr. M. PARODI GIUSINO, Aspetti problematici della disciplina dell’abuso di ufficio in
relazione all’eccesso di potere ed alla discrezionalità amministrativa, cit., p. 879 ss.
94
articoli
di una concreta offensività del fatto (testualmente, “il danno o il vantaggio
ingiustamente prodotti devono costituire la concretizzazione di quanto la
norma violata intende prevenire”); previsione di protocolli e linee guida,
quali garanzia di uniformità dei meccanismi decisionali; statuizione di una
clausola di non punibilità espressa, per i casi di particolare complessità e
incertezza normativa (“non sono punibili le condotte che il pubblico ufficiale
o l’incaricato di pubblico servizio adotti nel rispetto delle linee guida e dei
pareri formalmente resi dall’autorità regionale di controllo”) (85).
In definitiva, con tale ultima, più innovativa previsione, si immaginava
un sistema in cui, per superare la “paura della firma”, il pubblico agente,
in caso di dubbio, si sarebbe potuto rivolgere preliminarmente a un’apposita Autorità regionale di controllo, interpellandola sulla legittimità dei
suoi propositi: l’Autorità sarebbe stata obbligata a rispondere entro un
termine perentorio e, chiaramente, la conformità del successivo comportamento del pubblico agente, al parere preventivo reso dall’Autorità stessa,
avrebbe escluso la punibilità. Sicuramente, questa è stata la parte della
proposta che più ha suscitato l’interesse dei commentatori (86), ma non era
priva di criticità, sia per l’aspetto riguardante le linee guida, che anche, se
forse in misura minore, in relazione all’efficacia scusante (o, comunque,
escludente il dolo) della conformità al parere preventivo.
Appena prima dell’ultima riforma, poi, attenta dottrina aveva proposto
di limitare l’operatività dell’abuso d’ufficio solo ad alcuni settori particolarmente significativi e, per questo, meritevoli di una tutela penale di tipo
più avanzato, ovverosia quello giudiziario, dei concorsi pubblici e degli
appalti (87); proposta per altro ribadita, in altra e successiva sede, anche a
seguito dell’ultima modifica legislativa (88).
(85) Cfr. A. CASTALDO, Prefazione, Migliorare la performance della Pubblica Amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, cit., p. XVI s. e M. NADDEO, Abuso d’ufficio: tipicità
umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo
nella prospettiva de lege ferenda, ivi, p. 31 ss., e, spec., p. 34 ss.
(86) Cfr. M. DONINI, Osservazioni sulla proposta “Castaldo-Naddeo” di riforma dell’art.
323 c.p. La ricerca di un’ultima ratio ancora più tassativa contro il trend generale dell’espansione penalistica, in Migliorare la performance della Pubblica Amministrazione, cit., p. 94 ss.,
e, spec., p. 101 ss.
(87) Cfr. G. SALCUNI, La «disciplina altrove». L’abuso d’ufficio fra regolamenti e normazione flessibile, cit., p. 213 s.
(88) “Quello che è sempre mancato nelle riformulazioni dell’art. 323 c.p. è la scelta del
legislatore di quei settori meritevoli di una tutela penale più avanzata, come ad esempio la
materia giudiziaria, quella dei concorsi pubblici e quella degli appalti”, cosı̀ G. SALCUNI, Abuso
d’ufficio ed eccesso di potere: “fine di un amore tormentato”?, in La riforma dell’abuso
d’ufficio, cit., p. 53 ss., e, spec., p. 78 s.
vito plantamura
95
Com’è noto, invece, il legislatore del 2020, in occasione del c.d. decreto semplificazioni (d.l. n. 76/2020), si è limitato ad una riforma molto
contenuta (89) – nel testo, ma non negli effetti: tanto da destare numerosi
interrogativi (90) – della fattispecie incriminatrice di cui trattasi. L’intervento normativo, infatti – che, sempre con la medesima finalità di disincentivare la c.d. amministrazione difensiva, ha comportato una restrizione
pure della responsabilità erariale (91) –, non solo non ha riguardato il dolo
e gli eventi costitutivi di reato (92), ma, anche a livello di condotta, ha
lasciato immutata quella di omessa astensione, ed è intervenuto solo su
quella di violazione di legge, che attualmente recita: “in violazione di
specifiche (93) regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
(89) Cfr.: AA.VV., La riforma dell’abuso d’ufficio, a cura A CASTALDO, M. NADDEO,
Torino, 2021; G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’: il decreto-semplificazioni e
la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal governo ‘salvo intese’ (e la
riserva di legge?), in Sistema penale, 17 luglio 2020; N. PISANI, La riforma dell’abuso di ufficio
nell’era della semplificazione, in Dir. pen. proc., 2021, p. 9 ss.; A. PERIN, L’imputazione per
abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in Legis. pen., 23 ottobre
2020.
(90) “Quali sono atti amministrativi che non implichino margini di discrezionalità? Sono
immaginabili regole di condotta imposte al pubblico agente espressamente previste dalla legge o
da atti aventi forza di legge?”, cosı̀ G. INSOLERA, Quod non fecerunt Barberini fecerunt
Barbari. A proposito dell’art. 23 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, in V. PLANTAMURA, S. SALCUNI
(a cura di), Liber amicorum Adelmo Manna, p. 391 ss., e, spec., p. 393.
(91) “Chi conosce la pubblica amministrazione sa che la responsabilità erariale è particolarmente temuta, a differenza della responsabilità disciplinare, raramente affermata, e della
responsabilità penale, che ha spesso il volto di una tigre di carta, scontando elevati tassi di
ineffettività in buona parte imputabili agli elevati tassi di prescrizione del reato”, cosı̀ G.L.
GATTA, Un nuovo capitolo nella tormentata storia normativa dell’abuso d’ufficio: a proposito
del “decreto-semplificazioni” (d.l. n. 76/2020) e della riforma dell’art. 323 c.p., in Liber
amicorum Adelmo Manna, cit., p. 365 ss., e, spec., p. 367.
(92) Critico, sul punto, M. NADDEO, La nuova struttura dell’art. 323 c.p., in Arch. pen.,
2021, n. 1, 19, secondo il quale: “L’evento è chiamato ad assicurare in sede di tipicità il
binomio bene-offensività, limitando in termini quantitativi (grado dell’offesa) e qualitativi
(tipologia dell’offesa) la tutela offerta dall’abuso d’ufficio. Eppure, il d.l. 16 luglio 2020, n.
76 ne ha trascurato l’auspicabile consolidamento47, lasciando inalterata la parte del precetto
che descrive il disvalore d’evento come «un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero (…) un
danno ingiusto». Vista la deriva utilitaristica sofferta dalla fattispecie, il legislatore avrebbe
potuto concentrare il suo intervento proprio su tale elemento, ristabilendone il corretto rapporto con il disvalore d’azione. Di contro, l’esclusiva attenzione riservata al(la formale compressione del) disvalore di azione rischia di compromettere la funzionalità della norma, rendendone lo spettro applicativo starato (per eccesso o per difetto)”.
(93) Già in riferimento alla precedente formulazione della norma, del resto, attenta
dottrina aveva sostenuto che “Cosı`, richiedere che la norma di legge violata abbia determinate
caratteristiche di specificità discende non solo (o non tanto) dal rispetto della volontà legislativa, ma anche (e soprattutto) dalla considerazione che – ove si ritengano le norme di legge in
qualche misura partecipi della descrizione del fatto tipico (e dunque del suo disvalore) – esse
non potranno che rispettare i (adeguarsi ai) canoni tipici del precetto penale”, cosı̀ A.M. STILE,
96
articoli
aventi forza di legge e dalle quali non residuino (94) margini di discrezionalità”. Ciò ha, in qualche modo, allargato il solco, per altro già esistente, tra
le due condotte alternative tipiche, aggravando lo squilibrio tra le stesse (95), perché non v’è dubbio che la condotta di omessa astensione era già
quella meno vincolata, specie per come interpretata dalla giurisprudenza,
nel senso che la Cassazione la riteneva integrata anche qualora mancasse
una specifica disciplina sull’astensione violata (96).
A seguito della riforma, la giurisprudenza si è subito espressa nel senso
di una parziale abolitio criminis (97) del delitto di abuso di ufficio. Ancora
una volta, del resto, l’obiettivo dichiarato della riforma in questione era
quello di evitare il sindacato del giudice penale nel merito amministrativo.
Attualmente, infatti, la penale rilevanza ex art. 323 c.p. dovrebbe essere
limitata alla violazione di regole – e non più, anche, di principi –, che
devono essere specifiche, espressamente previste e dalle quali non devono
residuare margini di discrezionalità (98) (e, quindi, di potere per il pubblico
agente) (99): quest’ultimo requisito, in particolare, è parso eccessivamente
C. CUPELLI, voce Abuso d’ufficio, in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. CASSESE, Vol.
I, Milano, 2006, p. 36 ss. e, spec., p. 42.
(94) Non è chiaro perché il legislatore abbia utilizzato “residuino” invece che “residuano”, essendo sempre preferibile l’indicativo, modo della certezza, nei testi normativi.
(95) Cfr. M. PARODI GIUSINO, In memoria dell’abuso d’ufficio?, cit., p. 94 s.
(96) “La norma che incrimina l’abuso d’ufficio, nella parte relativa all’omessa astensione
in presenza di un interesse proprio dell’agente o di un prossimo congiunto, ha introdotto
nell’ordinamento, in via diretta e generale, un dovere di astensione per i pubblici ufficiali o
incaricati di pubblico servizio che si trovino in una situazione di conflitti di interessi: pertanto,
l’inosservanza di tale dovere comporta l’integrazione del reato anche quando faccia difetto, per
il procedimento ove l’agente è chiamato a operare, una specifica disciplina dell’astensione,
ovvero quando, sussistendo una specifica disciplina, questa riguardi un numero più ridotto
di ipotesi o sia priva di carattere cogente”, in Giur.it., 2013, p. 2631.
(97) Anche per un commento alle prime sentenze espressesi in tal senso, si rinvia a M.
GAMBARDELLA, La modifica dell’abuso d’ufficio al vaglio della prima giurisprudenza di legittimità: tra parziale abolitio criminis e sindacato sulla legittimità amministrativa, in Cass. pen.,
2021, n. 2, p. 490 ss.
(98) Secondo attenta dottrina, tuttavia: “L’esigenza di riportare il concetto di “discrezionalità” nel quadro di una valutazione normativa, superando l’ambiguo concetto di “libertà”, fa
sı` che la violazione dei doveri di ragionevolezza e di proporzionalità e, maggiormente, di
imparzialità (a cui la ragionevolezza va riportata) e, quindi, l’adeguamento dell’azione amministrativa a canoni di razionalità amministrativa92, si risolvano nella violazione di una specifica regola di condotta prevista dalla legge ai sensi dell’art. 323 c.p.”, cosı̀ G. RUGGIERO,
L’abuso d’ufficio fra potere discrezionale e legalità vincolante, in La riforma dell’abuso d’ufficio, cit., p. 15 ss. e, spec., p. 46.
(99) “Invero, come sappiamo, al cospetto di una attività amministrativa vincolata manca
l’esercizio di un potere pubblico. Lı` dove vi è attività vincolata, dove il provvedimento è
vincolato, predeterminato dalla legge in tutti i suoi aspetti, non può esistere un pubblico
potere. (…) Sotto il profilo politico-criminale, se l’obiettivo perseguito è quello di escludere
il sindacato del giudice penale sul cattivo uso dei poteri dei funzionari pubblici nell’attività
vito plantamura
97
restrittivo a molti commentatori (100).
Tali regole, inoltre, devono essere previste solo dalla legge –pare superfluo, al proposito, il riferimento pure agli atti aventi forza di legge–, e non
più, anche, dai regolamenti. Secondo attenta dottrina, tuttavia, questo taglio
netto nei confronti dei regolamenti non sarebbe condivisibile, anche in
considerazione del fatto che, in molti casi, le specifiche regole di condotta
rilevanti nella materia di cui trattasi possono trovarsi proprio in fonti subprimarie, per cui sarebbe stato forse preferibile indicare criteri univoci per
identificare alcuni atti di tale categoria, la cui violazione avrebbe dovuto
mantenere rilevanza ai fini dell’integrazione del tipo criminoso, invece che
procedere con un’amputazione normativa dell’intiera categoria (101).
A tal proposito, tuttavia, vi è chi ha sostenuto che la rilevanza dei
regolamenti potrebbe essere recuperata, in via interpretativa, mediante il
già illustrato meccanismo della violazione mediata di legge – almeno nei
casi, diversamente che in passato, dei soli rinvii espliciti o, se si preferisce,
specifici ed espressi (102) –; mentre vi è chi esclude questa possibilità, per
discrezionale, sarebbe meglio allora avere il coraggio di eliminare del tutto la figura dell’abuso
d’ufficio”, cosı̀ M. GAMBARDELLA, La modifica dell’abuso d’ufficio, cit., p. 501. Secondo il
chiaro Autore, cioè, il destino dell’abuso d’ufficio è legato a doppio filo proprio con la
possibilità di un sindacato del giudice penale sulla legittimità amministrativa. “L’esigenza nel
nostro ordinamento di una figura di reato che tuteli tale forma di offesa al bene del buon
andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ha trovato appunto storicamente
attuazione nel delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.). Ora, solo ammettendo un potere di
controllo, sindacato o verifica in capo al giudice penale sugli atti e in genere sull’attività della
pubblica amministrazione (e in particolare sugli atti adottati dagli agenti pubblici) possiamo
ritenere indispensabile nel nostro sistema (per tutelare efficacemente il bene di cui all’art. 97
Cost.) una incriminazione di tal genere. Il sindacato sulla legalità dell’azione amministrativa
rappresenta, infatti, il presupposto logico di una figura di reato costruita come l’abuso d’ufficio”, cosi M. GAMBARDELLA, Simul stabunt vel sumul cadent. Discrezionalità amministrativa e
sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso di
ufficio, in Studi in onore di Antonio Fiorella, a cura di M. CATENACCI, V.N. D’ASCOLA, R.
RAMPIONI, Roma, 2021, p. 1217 ss., e, spec., p. 1239.
(100) “Ora, che pubblici ministeri o giudici si siano arrogati il diritto – talvolta persino in
mala fede, non può escludersi – di stabilire quale dovesse essere la buona amministrazione,
quali i fini da perseguire, questo appare vero. Il punto è che, nel fare questo, essi hanno abusato
del loro potere, che non doveva spingersi a sindacare quello che, principalmente, riguarda il
merito amministrativo; essi, al contrario, avrebbero soltanto dovuto accertare – oltre ogni
dubbio – che l’esercizio della funzione pubblica fosse stato strumentalizzato dal p. u. per
rivolgerlo intenzionalmente verso uno scopo privato; dunque, in casi del genere, la soddisfazione dell’interesse pubblico, per quanto problematica o incerta potesse essere la sua individuazione, era fuori questione”, cosı̀ M. PARODI GIUSINO, In memoria dell’abuso d’ufficio, cit.,
p. 91.
(101) Cfr. S. FIORE, Abuso d’ufficio, in I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, a cura di ID., G. AMARELLI, p. 275 ss., e, spec., p. 287.
(102) “Questa soluzione è per chi scrive preferibile ed anche più rispettosa del tenore
letterale della disposizione che prescrive che le regole di condotta non devono essere previste
98
articoli
via dell’attuale formulazione della fattispecie descrittiva, in base alla quale,
in particolare, la regola violata deve essere “espressamente” prevista dalla
legge (o dall’atto avente forza di legge) (103).
Secondo chi scrive, entrambe le interpretazioni sono fondate e non si
escludono a vicenda, se non, in tutta evidenza, qualora le si voglia applicare contemporaneamente; mentre è ben possibile che le stesse si succedano nel tempo. Anche se per i primi anni di vigenza della nuova norma,
cioè, la rilevanza della violazione dei regolamenti potrà essere in parte
negata della giurisprudenza, non è escluso che, successivamente, si possa
tornare del tutto all’antico, anche in considerazione del fatto che l’avverbio
espressamente, al contrario di quello direttamente o, ancora meglio, immediatamente, non risulta con certezza incompatibile con la rilevanza di
una violazione mediata.
Già in una recente sentenza della Cassazione, del resto, si intravede
una prima, profonda crepa nella formulazione legislativa teoricamente
escludente la rilevanza dei regolamenti, per cui, in un’ipotesi, per altro
piuttosto smaccata, di nepotismo – in ogni caso rilevante a livello di
omessa astensione in presenza di un interesse di un prossimo congiunto,
nonché, per altro verso, per violazione di legge –, si è ritenuta possibile, ad
abundantiam, pure l’eterointegrazione della legge con un regolamento
comunale, in quanto quest’ultimo si sarebbe limitato a specificare un
dettaglio tecnico già contenuto, a livello di precetto, nella norma di legge
violata (104). E altrettanto può dirsi per quella giurisprudenza che, nell’af-
“nella” legge ma “dalla” legge. La legge rinviando espressamente ad un atto ad essa sottoordinato che integra, concretizza, specifica la regola generale prevista nella fonte sovraordinata
è perfettamente compatibile con la disposizione dell’art. 323 c.p. In questi casi la violazione
della norma richiamata o interposta si risolve in una violazione di legge”, cosı̀ G. SALCUNI,
Abuso d’ufficio ed eccesso di potere: “fine di un amore tormentato”?, cit., p. 62.
(103) “Fuori gioco, invece, l’espediente della violazione mediata di legge mediante infrazione di una regola contenuta in fonti di rango sublegislativo (sia pure emanata in base alla
legge), per la semplice ragione che non si tratterebbe più di una regola “espressamente” prevista
dalla legge, ma appunto desunta dalla fonte subordinata”, cosı̀ A. NISCO, La riforma dell’abuso
d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in SP, 20 novembre 2020, p. 7.
Nello stesso senso, ma senza escludere la possibilità di successive interpretazioni opposte, si
veda S. FIORE, Abuso d’ufficio, cit., p. 288.
(104) Nella specie, cioè, si è ritenuto di poter affidare, al locale regolamento comunale,
il compito penalisticamente rilevante di eterointegrare l’art. 7, d.lgs. n. 165/2001, in particolare specificando la definizione ivi contenuta di “esperti di particolare e comprovata
specializzazione universitaria”, richiedendo o la laurea magistrale o quella triennale integrata
con dei master universitari. Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 8 settembre 2021, n. 33240, in Sistema
penale, 9 dicembre 2021, con nota di C. PAGELLA, Abuso d’ufficio e violazione di norme
regolamentari: la Cassazione delinea i limiti di ammissibilità dello schema della “eterointegrazione”.
vito plantamura
99
fermare l’intervenuta irrilevanza dell’eccesso di potere, ha specificato che
ciò non riguarda, però, quei casi in cui si tratti di un vero e proprio
sviamento di potere (105): insomma, “viene fatto salvo ancora una volta lo
«sviamento di potere», quale altro non è che il cuore del vizio di eccesso di
potere” (106).
Anche la questione della discrezionalità, del resto, è stata oggetto
subito di aperture da parte della giurisprudenza, secondo la quale sarebbe
possibile fondatamente ritenere che il legislatore “abbia inteso far riferimento non solamente ai casi in cui la violazione ha ad oggetto una specifica
regola di condotta connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto
da una norma come del tutto vincolato (cioè di un potere del quale la legge
abbia preordinato l’an, il quomodo, il quid e il quando dell’azione amministrativa); ma anche ai casi riguardanti l’inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto
dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte
fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio” (107).
Più in generale, cioè, nella specie potrebbe darsi che il tempo necessario alla giurisprudenza per allontanarsi, fino al suo definitivo accantonamento, dalla chiara volontà del legislatore, potrebbe essere più breve che
in passato (108), avvicinandosi più a quanto avvenuto a seguito della riforma della legittima difesa del 2006, sostanzialmente rigettata dalla giurisprudenza –con ulteriore intervento conseguente del legislatore nel 2019–,
che non al più diretto antecedente storico, relativo alla progressiva evoluzione giurisprudenziale, sulla fattispecie incriminatrice d’abuso d’ufficio
dopo la riforma del 1997: il tutto senza neppure il bisogno di ricorrere
all’escamotage, astrattamente pur sempre possibile (109), e acutamente in-
(105) “Beninteso: sempreché l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in
una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per
i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità
della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in
situazione di conflitto di interessi”, cosı̀ Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442, in
Sistema penale, 1˚ aprile 2021, con nota di A. ALBERICO, Le vecchie insidie del nuovo abuso
d’ufficio.
(106) Cfr. M. GAMBARDELLA, La modifica dell’abuso d’ufficio, cit., p. 498.
(107) Cosı̀ Cass. pen., Sez. VI, 1˚ marzo 2021, n. 8057, in Ind. pen., 2021, p. 787 ss., con
nota di G. S. CALIFANO, L’abuso d’ufficio: nuova formulazione, vecchia giurisprudenza.
(108) Cfr. A. MERLO, Lo scudo di cristallo: la riforma dell’abuso d’ufficio e la riemergente
tentazione “neutralizzatrice” della giurisprudenza, in Sistema Penale, 1˚ marzo 2021.
(109) Contra, però, A. MANNA, I continui giri di valzer tra legislatore e giurisprudenza in
100
articoli
dicato già in uno dei primissimi commenti dottrinali, di utilizzare la condotta non modificata in sede di decreto semplificazioni (110), ovverosia
quella di omessa astensione, per punire quei fatti non più punibili in base
a quella oggetto di riforma (111), perché “il pubblico agente, che fa consapevolmente ed intenzionalmente cattivo o uso distorto del suo potere, ancor
prima di agire a favore o contro l’interesse di un terzo, agisce a favore di un
suo interesse complessivamente inteso e non necessariamente dal contenuto
patrimoniale” (112).
tema di abuso d’ufficio: un addio alla tassatività?, cit., 129, secondo il quale “Tale percorso
interpretativo in altra sede, però, non ci ha del tutto persuaso, perché ricava da una condotta
omissiva, cioè da un non facere, una di carattere attivo, cioè quella di agire male, abusando,
cioè, della discrezionalità amministrativa. A noi è, infatti, apparso che questa pur originale
interpretazione disveli un’analogia in malam partem ed è per questo che non l’abbiamo
accolta. Ciò non toglie però, che, come è stato giustamente rilevato, la nuova formulazione
dell’abuso d’ufficio risulta di fattura alquanto rozza e, come constateremo, che non ostacola del
tutto una giurisprudenza espansiva”.
(110) Per altro, autorevole dottrina aveva posto il problema metodologico del ricorso al
decreto legge, a fortiori in assenza di un previo accordo tra le forze di maggioranza, tanto
che la riforma dell’abuso d’ufficio veniva approvata dal Consiglio dei Ministri con la formula
“salvo intese”. Cfr. G.L. GATTA, Un nuovo capitolo nella tormentata storia dell’abuso d’ufficio, cit., p. 377. Da ultimo tuttavia, la Corte costituzionale, investita di una questione di
legittimità costituzionale della disposizione del decreto semplificazioni che ha modificato
l’abuso d’ufficio, per violazione degli artt. 3, 77 e 97 Cost., ha ritenuto che “Ciò premesso,
deve osservarsi come l’intervento normativo oggi in discussione rifletta due convinzioni, per
quanto si è visto, entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla
scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio,
rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a
propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione.
È ben vero che l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause – e, in
particolare, per quel che qui rileva, ridefinendo la portata del precetto dell’art. 323 cod. pen. –,
non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli
indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi, tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere. Ma, se la necessità
della riforma trae origine da quegli indirizzi, è però l’esigenza di far “ripartire” celermente il
Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione
del Governo (e del Parlamento, in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della
straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi manifestamente
irragionevole o arbitraria”, cosı̀ Corte Cost., 18 gennaio 2022, n. 8, in www.giuricost.org.
(111) “Se la norma non dovesse essere modificata in sede di conversione in legge, è
peraltro verosimile che, per evitare lacune di tutela, ed esiti irragionevoli, la giurisprudenza
valorizzi la modalità alternativa dell’abuso d’ufficio, non interessata dalla riforma in commento. Mi riferisco alla omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo
congiunto o negli altri casi prescritti. Valorizzando quest’ultima locuzione si potrebbe dare
rilievo tanto ai regolamenti, quanto alle norme che esprimono principi generali, quanto,
soprattutto, alle regole di condotte caratterizzate da più o meno ampi margini di discrezionalità”, cosı̀ G.L. GATTA, Da ‘spazza-corrotti’ a ‘basta paura’, cit.
(112) Cosı̀, testualmente, G. DE NOZZA, Urbanistica. La riforma dell’abuso d’ufficio:
dalla paura della firma alla firma senza paura?, in lexambiente, 8 aprile 2022, 2.
vito plantamura
101
Sta di fatto che, anche a seguito delle prime, menzionate prese di
posizione “aperturiste” della giurisprudenza – non a caso espressamente
citate tra le ragioni che renderebbero necessario un nuovo intervento in
materia –, sono stati già presentati almeno due disegni di legge, per una
nuova riforma dell’abuso d’ufficio. In particolare: il disegno Ostellari (Senato, n. 2145 del 22 marzo 2021) prevede la trasformazione dell’attuale
art. 323 c.p. in un delitto di interesse privato, incentrato sulla sola condotta di omessa astensione, ma che mantiene pure l’evento alternativo del
danno ingiusto ad altri; mentre, il disegno Parrini –forse memore del ruolo
propulsivo dell’ANCI, svolto rispetto alle riforme sia del 1997 che del
2020–, si concentra su forme di limitazione della responsabilità dei soli
Sindaci, appunto nei confronti del delitto di abuso d’ufficio, poi spingendosi, però, fino a proporre un più generale statuto differenziato, per tali
soggetti, della clausola d’equivalenza di cui all’art. 40 c.p. (113).
Per altro, dopo la presentazione di tali progetti di legge, in una recente
sentenza, la Cassazione si espressa nel senso di ritenere ancora eventualmente rilevanti le violazioni dell’art. 97 Cost. che, “se riguardato dalla
prospettiva delle condotte ritorsive o discriminatorie, e quindi dalle condotte
assunte in spregio al contenuto minimo del principio di imparzialità dell’azione amministrativa, esprime una specifica regola di condotta, quale è appunto quella di astenersi dal tenere quel tipo di comportamenti”: sentenza
poi richiamata, ma solo per essere espressamente smentita, in un’altra,
immediatamente successiva, per cui, invece, “Il tenore letterale della nuova
norma incriminatrice e il significato che alla stessa va attribuito alla luce dei
lavori parlamentari, idonei a illustrare quale sia stata la reale voluntas legis,
consentono di affermare che con la riforma in argomento si sia voluto escludere la possibilità di ritenere integrato il reato de quo sulla base della sola
accertata violazione dell’art. 97 Cost.” (114).
6. – A livello comparatistico (115), non è facile trovare indicazioni
davvero utili, per via di una non sempre possibile corrispondenza tra la
previsione italiana e quelle straniere. Una fattispecie descrittiva omnicomprensiva, come quella prevista dal legislatore italiano sin dalla riforma del
(113) Cfr.: M. GAMBARDELLA, Tre disegni di legge in materia di abuso d’ufficio e responsabilità per i reati omissivi impropri, in Discrimen, 11 novembre 2021; B. ROMANO, Brevi
considerazioni sulle ulteriori proposte di riforma dell’abuso di ufficio, a partire dalle responsabilità dei sindaci, in GP, 2011, n. 11.
(114) Cosı̀, rispettivamente, Cass. pen., sez. 1, 18 gennaio 2022, n. 2080, e, contra, Cass.
pen., sez. VI, 6 aprile 2022, n. 13136, in www.neopa.it.
(115) Cfr. A. MANNA, Abuso d’ufficio, cit., p. 72 ss.
102
articoli
1990, potrebbe essere paragonata solo alla misconduct in public office
inglese, che tuttavia è un reato di creazione giurisprudenziale, molto criticato in patria per via della sua indeterminatezza (specie, ma non solo, con
riferimento al concetto di “abuse of the public’s trust in that office”), e, per
tale ragione, già oggetto di una proposta di riforma ufficiale -il parere
definitivo della Law Commision è del 4 dicembre 2020 (116) – che, in
definitiva, si concreta nella richiesta di una sua abolizione (117). In Germania, invece, si può rilevare come manca un reato d’abuso d’ufficio, se non
con riferimento al favoritismo del giudice (Rechtsbeugung, sviamento del
diritto, di cui al § 339 dello StGB), dell’arbitro o comunque di un altro
pubblico ufficiale, ma sempre in un contesto caratterizzato da due parti in
contrapposizione, rispetto alle quali il pubblico agente è “giudice” in senso
lato (118).
Allora, però, appare più proficua una, se pur sempre agile, comparazione con i più simili sistemi spagnolo e francese, dove comunque vi è una
differenziazione della tutela in fattispecie incriminatrici distinte, e in cui
appare più marcata, tuttavia, la criminalizzazione della prevaricazione e
della presa di interesse privato, rispetto a quella di favoritismo nei confronti di terzi. E questo non può non far riflettere sulla scelta unificante
operata, a suo tempo, dal nostro legislatore: scelta da cui, del resto, è poi
derivata l’attuale, problematica situazione.
In Spagna, ad es., dove, per altro, in modo affatto significativo, il titolo
dei delitti contro la pubblica Amministrazione si apre con un primo capitolo dedicato proprio alla prevaricazione dei funzionari pubblici, troviamo tre distinte fattispecie incriminatrici, appunto di abuso per prevaricazione (art. 404 c.p. (119): gravemente punito con l’interdizione dai pubblici
uffici dai nove a i quindici anni, e basato sul concetto di deliberazione
arbitraria e sulla consapevolezza dell’ingiustizia dell’atto), di interesse privato in atti d’ufficio (art. 439) (120), e di favoritismo: la criminalizzazione
(116) Reperibile in www.lawcom.gov.uk.
(117) Cfr. F. COPPOLA, Abuso d’ufficio: appunti per una possibile riforma dai lavori
della Law Commission sulla common law offence of Misconduct in Public Office, in Arch.
pen., 2020, n. 2.
(118) § 339 Rechtsbeugung – Ein Richter, ein anderer Amtsträger oder ein Schiedsrichter,
welcher sich bei der Leitung oder Entscheidung einer Rechtssache zugunsten oder zum Nachteil einer Partei einer Beugung des Rechts schuldig macht, wird mit Freiheitsstrafe von einem
Jahr bis zu fünf Jahren bestraft.
(119) Artı´culo 404 – A la autoridad o funcionario público que, a sabiendas de su injusticia,
dictare una resolución arbitraria en un asunto administrativo se le castigará con la pena de
inhabilitación especial para empleo o cargo público y para el ejercicio del derecho de sufragio
pasivo por tiempo de nueve a quince años.
(120) Artı´culo 439 – La autoridad o funcionario público que, debiendo intervenir por
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del favoritismo, tuttavia, non è generalizzata, ma risulta limitata ad un caso
specifico, di nomina ad un ufficio pubblico di un soggetto privo dei
requisiti legali (art. 405 c.p.) (121), nel qual caso, per altro, è espressamente
ed autonomamente prevista la punizione, con la stessa, mite pena, pure
della persona che accetta la nomina (art. 406 c.p.) (122).
È interessante rilevare, per altro, come nella succitata ipotesi di favoritismo, di cui all’art. 405 c.p., è necessario che sussista una violazione di
legge, mentre, nell’interesse privato, ex art. 439 c.p., come chiarito dalla
giurisprudenza – nel caso di un funzionario pubblico che aveva deliberato
a favore di una società di cui erano socie la moglie e la figlia –, non si
richiede la preventiva individuazione di un regolamento amministrativo
che imponga il dovere di astenersi. Secondo la giurisprudenza, infatti, il
nucleo del precetto è nel verbo “approfittare”. Conseguentemente, se un
funzionario si avvale della sua condizione a beneficio di una società in cui
ha interessi diretti o indiretti, agendo deliberatamente con la volontà di
mettere la funzione pubblica al servizio di quegli interessi personali, sussisterà il delitto anche in assenza della violazione di un obbligo normativo di
astensione; viceversa, nel caso di assenza di un uso personale della funzione, il reato non sussisterà pure se è stato violato un dovere di astensione (123).
Anche in Francia, del resto, non è facile individuare una norma di
abuso per favoritismo di terzi, mentre sono presenti, in due fattispecie
distinte, i delitti di prevaricazione o, meglio, di discriminazione (124), nei
razón de su cargo en cualquier clase de contrato, asunto, operación o actividad, se aproveche de
tal circunstancia para forzar o facilitarse cualquier forma de participación, directa o por persona
interpuesta, en tales negocios o actuaciones, incurrirá en la pena de prisión de seis meses a dos
años, multa de doce a veinticuatro meses e inhabilitación especial para empleo o cargo público y
para el ejercicio del derecho de sufragio pasivo por tiempo de dos a siete años.
(121) Artı́culo 405. A la autoridad o funcionario público que, en el ejercicio de su
competencia y a sabiendas de su ilegalidad, propusiere, nombrare o diere posesión para el
ejercicio de un determinado cargo público a cualquier persona sin que concurran los requisitos
legalmente establecidos para ello, se le castigará con las penas de multa de tres a ocho meses y
suspensión de empleo o cargo público por tiempo de uno a tres años.
(122) Artı´culo 406 – La misma pena de multa se impondrá a la persona que acepte la
propuesta, nombramiento o toma de posesión mencionada en el artı´culo anterior, sabiendo que
carece de los requisitos legalmente exigibles.
(123) Cfr. Tribunal Supremo, Sez. 1, 8 luglio 2016, n. 3153, in www.poderjudiciales.com.
(124) Article 225-1 – Constitue une discrimination toute distinction opérée entre les
personnes physiques sur le fondement de leur origine, de leur sexe, de leur situation de famille,
de leur grossesse, de leur apparence physique, de la particulière vulnérabilité résultant de leur
situation économique, apparente ou connue de son auteur, de leur patronyme, de leur lieu de
résidence, de leur état de santé, de leur perte d’autonomie, de leur handicap, de leurs caractéristiques génétiques, de leurs mœurs, de leur orientation sexuelle, de leur identité de genre, de
104
articoli
confronti di persone o enti, punita quando si concreta nel rifiutare un
beneficio concesso dalla legge o nell’impedire il normale esercizio di una
qualsiasi attività economica (art. 432-7 c.p.) (125), e di interesse privato (art.
432-12 c.p.). Quest’ultimo delitto si verifica quando il pubblico agente
assume, riceve o conserva, direttamente o indirettamente, un interesse
che possa comprometterne l’imparzialità, l’indipendenza o l’obiettività:
tale norma, per altro, contiene una serie di interessanti eccezioni, nel senso
della penale irrilevanza, per gli atti commessi in conflitto di interessi da
parte di Sindaci, consiglieri comunali, ecc., dei piccolissimi centri, con un
massimo di 3.500 abitanti.
Si tratta di un reato che sta subendo un’interpretazione giurisprudenziale affatto lata, che ricorda molto da vicino quella che ha caratterizzato
gli ultimi anni di vigenza del nostro art. 324 c.p., per cui, non solo non si
ritiene necessaria la sussistenza di un interesse fraudolento (in definitiva, di
un conflitto d’interessi), ma, per di più, in assenza di un confine certo,
l’interesse personale diventa sempre più sfumato. L’interesse in questione,
cioè, non viene riconosciuto solo nei casi più evidenti –come, ad es., quello
di selezione e nomina di un proprio parente ad un incarico pubblico
apicale da parte di un Sindaco (126) –, ma anche in presenza di un semplice
rapporto d’amicizia (127) o di affinità politica (128). Proprio come era avvenuto in Italia, tuttavia, l’interesse privato, per questa via, diventa difficilmente distinguibile dal favoritismo nei confronti di terzi estranei.
7. – In conclusione, si considera che parte delle difficoltà riscontrate
nella tipizzazione dell’abuso d’ufficio dipendono dalla concentrazione, in
un’unica fattispecie incriminatrice, di tre aspetti diversi, e cioè la prevaricazione, il favoritismo e l’interesse privato in atti di ufficio, per cui si
leur āge, de leurs opinions politiques, de leurs activités syndicales, de leur capacité à s’exprimer
dans une langue autre que le franēais, de leur appartenance ou de leur non-appartenance, vraie
ou supposée, à une ethnie, une Nation, une prétendue race ou une religion déterminée.
(125) Article 432-7 – La discrimination définie aux articles 225-1 et 225-1-1, commise à
l’égard d’une personne physique ou morale par une personne dépositaire de l’autorité publique
ou chargée d’une mission de service public, dans l’exercice ou à l’occasion de l’exercice de ses
fonctions ou de sa mission, est punie de cinq ans d’emprisonnement et de 75 000 euros
d’amende lorsqu’elle consiste : 1˚ A refuser le bénéfice d’un droit accordé par la loi; 2˚ A
entraver l’exercice normal d’une activité économique quelconque.
(126) Cour de Cassation, Chambre criminelle, 20 marzo 2019, n. 17-81.975, in www.legifrance.gouv.fr.
(127) Cour de Cassation, Chambre criminelle, 21 marzo 2012, n. 11-83.813, in www.legifrance.gouv.fr.
(128) Cour de cassation, criminelle, Chambre criminelle, 29 giugno 2011, n. 10-87.498,
in www.legifrance.gouv.fr.
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105
ritiene che fosse giusta la proposta della commissione Morbidelli, almeno
nella parte in cui suggeriva, invece, una suddivisione in tre distinte fattispecie incriminatrici. Allora, però, se il nodo principale rimane comunque
quello dell’eccesso di potere, del sindacato del giudice penale sulle scelte
discrezionali della pubblica Amministrazione, non è scontato che tale
nodo debba essere sciolto in tutte e tre le fattispecie descrittive allo stesso
modo.
In particolare, qui si sostiene che il sindacato del giudice penale sulle
scelte discrezionali della pubblica Amministrazione debba essere espressamente precluso nel caso dell’abuso per favoritismo. Evidentemente, perché si ritiene tale ipotesi di reato sia, relativamente, meno grave, sia dell’interesse privato –in cui l’imparzialità è lesa in modo affatto più intenso e
si sovrappongono profili relativi al buon andamento e al patrimonio della
pubblica Amministrazione–, che della stessa prevaricazione (129). Si tratta,
chiaramente, di una scelta politico-criminale, in quanto tale ovviamente
controvertibile, ma che non rappresenta altro che la ricaduta, a valle, di
una più generale concezione, a monte, di necessaria democraticità nei
rapporti tra Stato e cittadino: concezione che, a sua volta, implica un
rapporto tendenzialmente paritario, appunto democratico, tra i cittadini
e la pubblica Amministrazione, un afflato verso quello che prestigiosa
dottrina amministrativistica, già quasi cinquant’anni fa, definiva diritto
amministrativo paritario (130).
Anche se è vero, cioè, che la nostra Costituzione non mette mai in
relazione espressa la democrazia con la pubblica Amministrazione, e che i
principi di buon andamento ed imparzialità di quest’ultima potrebbero
essere assunti anche da uno Stato autoritario, “Per contro si può osservare
che se la democrazia non è solo un congegno per il reclutamento dei soggetti
investiti del potere di assumere decisioni vincolanti per la collettività, ma è
(129) “Ma quando, come hanno fatto il d.l. 76 del 2020 e la legge di conversione n. 120
del 2020, una legge stabilisca che ogni atto di esercizio del potere discrezionale amministrativo
e giudiziario sia sottratto al controllo di legalità in sede giudiziaria, anche nel caso di condotte
affaristiche o prevaricatrici, che abbiano seriamente pregiudicato fondamentali beni, dotati di
esplicita rilevanza costituzionale, allora ricorrere alle sanzioni penali appare doveroso e non
sembra affatto costituire soltanto una delle possibili opzioni di disciplina, lasciate al prudente
apprezzamento del legislatore: sono qui in gioco principi e valori di importanza tale, che il loro
mancato rispetto contraddice le fondamenta delo Stato di diritto”, cosı̀ M. PARODI GIUSINO, In
memoria dell’abuso d’ufficio?, cit., p. 102.
(130) Cfr. F. BENVENUTI, Per i diritti dei cittadini. Per un diritto amministrativo paritario,
in AA.VV., Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova, 1975, p. 807 ss., ristampato in
Rivista giuridica del Mezzogiorno, 2018, p. 1301 ss. A tale studio, è stato poi dedicato un
saggio F. SAITTA, Il procedimento amministrativo «paritario» nel pensiero di Feliciano Benvenuti, in Amministrare, 2011, p. 457 ss.
106
articoli
anche, e fondamentalmente, regola tendenziale di ogni forma di associazione,
espressione di uno stile di azione e di vita nelle realtà collettive, allora è
impensabile che il principio democratico, laddove è riconosciuto come principio fondamentale della Costituzione, si arresti alle soglie della pubblica
amministrazione: né è concepibile che il cittadino possa far valere i suoi
diritti democratici verso altre istituzioni (il potere legislativo, il governo),
ma non verso la pubblica amministrazione” (131).
A fronte di concezioni formali e procedurali della democrazia, cioè,
che, se pur nettamente prevalenti in dottrina (132), non convincono appieno chi scrive –non foss’altro per la constatazione che le cariche elettive,
non diversamente da quanto ritenuto nella polis, rappresentano il domino
dell’oligarchia, e non della democrazia, la cui procedura per antonomasia è
il sorteggio (133) –, si ritiene doverosa non solo l’integrazione coi diritti
costituzionali negativi e positivi (senza i quali ultimi, del resto, pure i primi
perdono d’effettività), come giustamente sottolineato da Ferrajoli (134), ma
anche la presenza di un’amministrazione democratica: “perché l’ordinamento abbia carattere democratico è necessario che l’amministrazione sia
democratica, proprio nel senso che non c’è democrazia se non c’è democraticità dell’amministrazione (...) Il modello di amministrazione concorre a
caratterizzare il modello di ordinamento; esso ha valore costituzionale, ossia
la materia amministrativa è a pieno titolo materia essenziale dell’ordinamento costituzionale. È questa una conseguenza del ruolo realizzatore della
pubblica amministrazione e della dimensione di effettualità che essa – questa
“organizzazione del quotidiano” che incide profondamente e minutamente
nella vita associata – dà allo Stato” (135).
In uno Stato veramente democratico, quindi, non solo, quando la
pubblica Amministrazione agisce nella sua capacità di diritto privato, essa
dev’essere posta sullo stesso piano degli altri soggetti privati, ma anche
quando la stessa agisce negli ambiti in cui è investita dei suoi specifici
(131) Cosı̀ G. CORSO, Il cittadino e l’amministrazione pubblica: nuove tendenze del
sistema italiano, in Regione e governo locale, 1989, n. 1, 5ss., nonché in Istituzioni del
Federalismo/Quaderni, 2010, 2, p. 197 ss., e, spec. p. 199.
(132) “l’unico modo per intendersi quando si parla di democrazia, in quanto contrapposta
a tutte le forme di governo autocratico, è di considerarla caratterizzata da un insieme di regole,
primarie o fondamentali, che stabiliscono chi è autorizzato a prendere le decisioni collettive e
con quali procedure”, cosı̀ N. BOBBIO, Il futuro della democrazia, Torino, 2005, p. 5.
(133) Cfr. G. CAMBIANO, Piccola archeologia del sorteggio, in Teoria politica, 2020, p.
103 ss.
(134) Cfr. L. FERRAJOLI, a cura di E. VITALE, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico,
Bari, 2001.
(135) Cfr. U. ALLEGRETTI, Pubblica amministrazione e ordinamento democratico, in Foro
it., 1984, V, p. 205.
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107
poteri, il rapporto col cittadino dev’essere, per quanto possibile, e cioè
almeno tendenzialmente, paritario. Quest’opera di democratizzazione, in
Italia, è indubbiamente iniziata con la l. n. 241/1990 e, al proposito, è
interessante rilevare come, proprio con lo stesso, citato d.l. n. 76/2020,
all’art. 1 di tale legge, sui principi generali dell’azione amministrativa, sono
stati aggiunti quelli di collaborazione – prima riservato, orizzontalmente, ai
rapporti tra pubbliche amministrazioni – e buona fede: “2 bis. I rapporti
tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princı`pi
della collaborazione e della buona fede”. Autorevole dottrina amministrativistica non ha mancato di sottolineare l’importanza quasi epocale di
questa introduzione, che impone alla pubblica Amministrazione italiana
di ripensare il proprio rapporto coi privati, in senso più paritario, anche
nell’ambito dei propri processi decisionali (136).
Vero presidio penalistico di un simile rapporto tendenzialmente paritario, però, è proprio l’esistenza di una fattispecie di abuso d’ufficio,
effettiva, che punisca efficacemente le ipotesi di prevaricazione (137) (né
quelle di favoritismo, né quelle di interesse privato, che entrambe ineriscono alla tutela di altri beni), perché solo in questo modo il cittadino
possiede uno strumento valido per reagire alle eventuali prevaricazioni dei
pubblici agenti, che dunque risultano notevolmente disincentivate, cosı̀
almeno in parte recuperando quell’inevitabile quota di asimmetria del
rapporto.
Una simile fattispecie incriminatrice, infatti, rappresenta uno strumento gratuito in mano al cittadino, in quanto una denuncia non ha costi, e il
ricorso al quale il pubblico agente ha davvero interesse ad evitare: insomma, l’esatto contrario di quanto avviene per i ricorsi amministrativi che, da
un lato, sono onerosi per il cittadino e, dall’altro, essendo contro l’ente, e
(136) “L’ingresso in questa sede del principio di collaborazione e della buona fede nei
rapporti con i cittadini produce un potente effetto perché allude a una relazione in cui i
cittadini sono visti come portatori di risorse per le amministrazioni e non più solamente come
soggetti destinatari della sua attività o come portatori di bisogni da soddisfare. L’amministrazione italiana è entrata definitivamente in un’era nuova, dove la collaborazione, la ricerca del
consenso e il confronto non sono rimesse a mere scelte di policy o, peggio, collocate in meri
adempimenti formali, ma forma sostanziale dell’agire pubblico. In questo senso l’associazione
della collaborazione con la buona fede chiaramente esprime la necessità che questi principi si
misurino non con gli adempimenti formali ma con i comportamenti concreti che dimostrino –
appunto – l’apertura leale al confronto nei processi decisionali”, cosı̀ F. GIGLIONI, Anche con il
decreto semplificazioni l’Amministrazione condivisa guadagna ulteriore spazio nell’ordinamento giuridico, in Labus, 10 novembre 2020.
(137) Sulle forti resistenze a lasciare sprovvista di sanzione penale proprio la condotta di
prevaricazione si veda A. MELCHIONDA, La riforma dell’abuso di ufficio nel caleidoscopio del
sistema penale dell’emergenza da Covid-19, in Arch. pen., 2021, 2, p. 16.
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articoli
non contro la persona fisica, lasciano del tutto indifferente il pubblico
agente. In particolare, poi, siccome, nella specie, si tratta di evitare che i
poteri della pubblica funzione amministrativa siano usati in modo prevaricatorio -sia mediante azione che, forse anche più spesso, tramite omissione–, il soggetto qualificato dovrebbe essere solo quello titolare dei
poteri, cioè il pubblico ufficiale, e la condotta potrebbe essere in parte
mutuata dalla corruzione propria -ovviamente, però, del tutto al di fuori di
uno schema sinallagmatico–, con la previsione equilibrante del dolo intenzionale: “Il pubblico ufficiale che, omettendo o ritardando un atto del suo
ufficio o compiendo un atto contrario ai doveri di ufficio, intenzionalmente
cagiona ad altri un danno, è punito...”.
Nel caso del favoritismo, invece –in cui non è in gioco l’uguaglianza tra
il cittadino e la pubblica Amministrazione, e dunque la democrazia, ma
quella trai cittadini di fronte alla pubblica Amministrazione, e cioè l’imparzialità–, la possibilità di una rilevanza penale dell’eccesso di potere e del
sindacato del giudice penale sulle scelte discrezione della pubblica Amministrazione dovrebbe essere esclusa, anche perché comporta quei fenomeni di “paura della firma”, di “amministrazione difensiva” che, paradossalmente, rischiano una vittimizzazione, una prevaricazione proprio del comune cittadino, cioè del c.d. quivis de populo che, in presenza di una
fattispecie descrittiva caratterizzata da tali controindicazioni, finisce per
vedersi negati provvedimenti favorevoli che, altrimenti, il pubblico agente
interessato gli avrebbe concesso senza problemi. Non sfugga, per altro, il
possibile effetto boomerang di una tale fattispecie incriminatrice, che rischia di incrementare i favoritismi che vuole disincentivare, nel senso che,
se a causa di una norma anti-favoritismi troppo estesa, si crea una situazione di somma incertezza e di “rischio penale” per il pubblico agente, il
risultato sarà che i provvedimenti favorevoli, anche legittimi, saranno negati ai cittadini comuni, e riservati, appunto, a quelli favoriti, per i quali
soli “vale la pena” correre il “rischio penale”.
Ebbene, la via per “blindare” l’ipotesi di favoritismo è sicuramente
quella percorsa dal legislatore del 2020, che anzi andrebbe ulteriormente
specificata, facendo riferimento a violazioni “immediate” di specifiche
regole, ecc. – per altro, previste “nella legge”, e non “dalla legge” (138)
–, per evitare che, magari nelle interpretazioni giurisprudenziali che si
verificheranno, i regolamenti – se non, addirittura, le linee guida ANAC
– “cacciati dalla porta rientrino dalla finestra”. La critica più ricorrente
riportata, però, è quella dell’ineffettività, se non addirittura inutilità, di una
(138) Cfr. G. SALCUNI, ult. op. loc. it.
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109
tale fattispecie incriminatrice (139), perché, per il funzionamento di una
norma d’abuso, sarebbe sempre e comunque necessario il sindacato penale
della discrezionalità amministrativa (140). Secondo chi scrive, tuttavia, è
solo una questione di “rapporto peso-potenza”. In definitiva, cioè –sperando che il lettore perdoni il paragone automobilistico–, a seguito della
“blindatura” di cui prima, la fattispecie descrittiva risulta notevolmente
appesantita, per cui, per farle mantenere un minimo di prestazioni accettabili, bisogna agire nella doppia direzione, da un lato, dell’incremento
della potenza del motore, e, dall’altro, dell’alleggerimento di altre componenti della carrozzeria.
Fuor di metafora, bisognerebbe: in primis, prevedere, nel massimo, la
pena di cinque anni di reclusione, per consentire sia le più gravi misure
cautelari personali che, ai sensi dell’art. 266, comma 1, lett. b), c.p.p., le
intercettazioni telefoniche e ambientali (e, per altro, questo aumento di pena
dovrebbe riguardare tutte e tre le norme che qui si ipotizzano); in secundis,
eliminare dalla fattispecie descrittiva tutto ciò che appare superfluo, in
quanto non strettamente necessario per l’offensività del reato, ma che risulta
penalizzante, per la pubblica accusa, da un punto di vista probatorio e di
restrizione dell’ambito applicativo, come il dolo intenzionale (141), la doppia
ingiustizia (pur recentemente rivalutata da attenta dottrina amministrativistica) (142) e la caratterizzazione in senso esclusivamente patrimoniale del
(139) “Tuttavia, prima di optare per la radicale abrogazione della fattispecie, dovrebbe
assicurarsi un quadro complessivo di interventi, non necessariamente nel campo penale, volti a
conformare, a tutela di quei valori costituzionali, l’azione amministrativa a canoni di snellezza,
celerità ed efficienza e tali, nel contempo, da prevenire derive personalistiche o affaristiche o
condotte arbitrarie nella gestione dei pubblici uffici, a prescindere dall’operatività di altre e più
gravi fattispecie”, cosı̀ M. RICCIARELLI, Il nuovo abuso di ufficio: un difficile punto di equilibrio, in Arch. pen., 2021, 2, p. 21.
(140) “Una volta re-introdotto l’abuso di discrezionalità (e il sindacato penale) nell’area
applicativa della nuova formulazione dell’art. 323 c.p. (un’opzione interpretativa della quale
abbiamo già parlato), la domanda ulteriore è dove si colloca il confine. Una risposta − se ce n’è
una − può darla il principio di ragionevolezza: un elemento nuovo nella discussione sulla
dialettica binaria “autonomia dell’amministrazione-controllo dei giudici penali”, caratterizzata
dal difficile bilanciamento tra due esigenze distinte e contrapposte, apparentemente inconciliabili ed entrambe inderogabili, che corrono il rischio di precipitare l’una nell’impunità, l’altro
nell’arbitrio”, cosı̀ A. MERLI, Alcune riflessioni sul reato di abuso d’ufficio dopo l’ultima
riforma, in Arch. pen., 2021, 2, p. 46.
(141) Ritiene che possa aver giocato un ruolo notevole nell’ineffettività dell’abuso
d’ufficio, nella sua precedente formulazione, proprio l’introduzione del dolo intenzionale,
G. RUGGIERO, L’abuso d’ufficio fra potere discrezionale e legalità vincolante, cit., p. 49.
(142) “Sicché, con le forme a priori dell’amministrativista, danno o vantaggio ingiustamente arrecato dal funzionario può essere solo quello contrario alla distribuzione di pregiudizi
e vantaggi che l’ordinamento aveva predeterminato o che, per effetto della situazione concreta o
dello sviluppo del procedimento, risulta essere l’unica distribuzione legittima. L’ingiustizia del
110
articoli
vantaggio. In definitiva, la norma risulterebbe cosı̀: “Salvo che il fatto costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico
servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione
immediata di specifiche regole di condotta espressamente previste nella legge
e dalle quali non residuano margini di discrezionalità, procura ad altri un
ingiusto vantaggio, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”.
È facile rilevare che qui la condotta di omessa astensione è stata
esclusa dall’ipotesi di favoritismo. Questo perché si ritiene che la sede
naturale per criminalizzarla sarebbe quella della nuova fattispecie di interesse privato in atti di ufficio (143), posta a tutela dell’imparzialità (lesa in
modo più intenso che nel mero favoritismo), del buon andamento e dello
stesso patrimonio della pubblica Amministrazione, rispetto alla quale,
inoltre, non vi sarebbe ragione di non approfittare dell’esperienza già
avuta con il previgente art. 324 c.p. In definitiva, infatti, due erano i
problemi interpretativi più evidenti di tale fattispecie, che l’avevano portata ad un’applicazione giurisprudenziale incontrollata, cioè l’espandersi
della “personalizzazione” del vantaggio altrui (che, per altro, andava a
discapito delle ipotesi di favoritismo, fagocitandole) e la ritenuta penale
rilevanza pure dei casi di mancanza di conflitto di interessi, cioè di assenza
di un contrasto tra l’interesse proprio del pubblico agente e quello della
pubblica Amministrazione.
Sono entrambi difetti, però, che risulta piuttosto semplice eliminare,
specificando che l’interesse privato (per altro, nel senso di personale, e non
di non-pubblico) preso dev’essere diretto (e non anche indiretto, com’era
nella fattispecie originaria), e limitando ad un numero chiuso e determinato, ma congruo, di soggetti, la possibile rilevanza di fatti compiuti nell’interesse altrui, ma che non possono non riverberarsi, secondo l’id quod
plerumque accidit, sullo stesso soggetto agente: “Il pubblico ufficiale o
l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o
del servizio, prende un interesse personale diretto per sé, per un suo prossimo
congiunto o per una persona al medesimo legata da relazione affettiva (144),
danno o del vantaggio può predicarsi perciò solo per l’attività vincolata in astratto o in
concreto. In questa ricostruzione, forse eccentrica rispetto al modo di pensare dei penalisti,
la vincolatezza trova perciò il suo posto fin dal 1997 non nell’illegittimità del provvedimento,
ma nell’ingiustizia del danno o del vantaggio”, cosi F. FOLLIERI, Illegittimità e vincolatezza del
provvedimento amministrativo alla prova del legislatore penale, in La riforma dell’abuso
d’ufficio, cit., p. 97 ss. e, spec., p. 119.
(143) Nello stesso, ma criticamente, in quanto non ritiene opportuno riportare in vita la
“mummia rinsecchita” dell’interesse privato in atti di ufficio, si veda T. PADOVANI, Vita,
morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, cit., p. 12 s.
(144) La Cassazione, esprimendosi sul reato di atti persecutori, ha chiarito che l’inciso
vito plantamura
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cagionando un danno patrimoniale alla pubblica amministrazione, è punito...”.
Ovviamente, le proposte qui formulate rappresentano esclusivamente
una delle tante opzioni possibili in materia, e solo un loro effettivo recepimento potrebbe dimostrare la loro bontà o, al contrario, le loro criticità,
al “banco di prova” dell’interpretazione giurisprudenziale. Tali proposte,
tuttavia, costituiscono almeno un’opzione che si mantiene sul binario preferibile da un punto di vista della tutela e delle garanzie. Senza cedere,
cioè, a istanze abolitive e/o riduzioniste, che non tengono conto delle
esigenze di tutela – che però, secondo chi scrive, in chiave democratica
sono più quelle dell’uguaglianza tra cittadino e pubblica Amministrazione,
che non quelle dell’uguaglianza tra i cittadini di fronte ad essa –, ma anche
senza rassegnarsi al perenne ciclo delle riforme legislative restrittive e,
prima o poi (e, forse, più prima che poi), delle interpretazioni giurisprudenziali estensive ed incontrollate. Le proposte in questione, infatti, si
propongono di spezzare tale ciclo, espungendo espressamente la rilevanza
dell’eccesso di potere dalla sola fattispecie di favoritismo, ma non, come
parrebbe aver effettuato il legislatore dell’ultima riforma, ovverosia con
una norma in cui “il rapporto peso-potenza” sia tanto sfavorevole da
correre il serio rischio di destinarla all’ineffettività (145) o, al contrario, al
suo stravolgimento in sede d’interpretazione giurisprudenziale.
In definitiva, chi scrive ritiene essenziale la previsione, oltre alle fattispecie di prevaricazione e di interesse privato, anche di una d’abuso d’ufficio per favoritismo, ma che si chiuda alla rilevanza dell’eccesso di potere
e delle violazioni di regolamenti, soft lows, norme interposte, ecc., cosı̀
tutelando il bene giuridico dell’imparzialità della pubblica Amministrazione, ma senza rischiare effetti boomerang, da “amministrazione difensiva”,
contro i cittadini comuni, finendo per incentivare proprio quei favoritismi
che vorrebbe evitare. Una tale fattispecie incriminatrice, tuttavia, può
avere un senso, mantenere una sua efficacia e, quindi, un suo spazio
applicativo, senza bisogno di essere stravolta dall’interpretazione giurisprudenziale, solo se, contemporaneamente: risulti potenziata da un punto
di vista sanzionatorio, con accesso conseguente alle misure cautelari più
“anche senza convivenza”, che caratterizza la previsione di cui all’art. 609 ter, comma 1, n. 5
quater, c.p., è necessario solo in tale sede, perché attinente a reati sessuali, mentre, nelle altre
sedi, pure in assenza di tale specificazione, il requisito della relazione affettiva può comunque essere integrato senza la necessità della convivenza. Cfr. Cass. pen., Sez. I, 14 marzo
2018, n. 11604, in www.doppiadifesa.it.
(145) Cfr. A. MANNA, G. SALCUNI, Dalla burocrazia difensiva alla difesa della burocrazia?
Gli itinerari incontrollati della riforma dell’abuso d’ufficio, in Legis. pen., 17 dicembre 2020.
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articoli
gravi e alle intercettazioni telefoniche e ambientali; e venga alleggerita da
tutti quegli ulteriori limiti applicativi e pesi probatori per la pubblica
accusa, di cui la fattispecie descrittiva del ‘97 si era inutilmente caricata.
Concludendo, per comodità del lettore, si riportano le tre fattispecie incriminatrici qui proposte, col relativo nomen iuris.
Prevaricazione – Il pubblico ufficiale che, omettendo o ritardando un
atto del suo ufficio o compiendo un atto contrario ai doveri di ufficio,
intenzionalmente cagiona ad altri un danno, è punito con la reclusione da
uno a cinque anni.
Favoritismo – Salvo che il fatto costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione immediata di specifiche regole di
condotta espressamente previste nella legge e dalle quali non residuano
margini di discrezionalità, procura ad altri un ingiusto vantaggio, è punito
con la reclusione da uno a cinque anni.
Conflitto d’interessi – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico
servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, prende un
interesse personale diretto per sé, per un suo prossimo congiunto o per
una persona al medesimo legata da relazione affettiva, cagionando un
danno patrimoniale alla pubblica amministrazione, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
ABSTRACT: Il delitto di abuso di ufficio è vittima di un contrasto tra il
legislatore e la giurisprudenza che costringe il primo a continue riforme. Non
per questo, però, si ritiene che sarebbe meglio procedere con l’abolizione di
tale reato. Vi sono importanti ragioni di tutela, infatti, che consigliano di
mantenere l’incriminazione di cui trattasi, e anzi di rafforzarla, soprattutto
con riferimento all’aspetto dell’uguaglianza tra cittadini e pubblica Amministrazione, più che in relazione a quello dell’uguaglianza trai cittadini nei
confronti della pubblica Amministrazione, cioè dell’imparzialità. Allora, però, per risolvere i problemi di determinatezza, come già proposto dalla commissione Morbidelli, ma utilizzando formulazioni molto diverse, bisognerebbe prevedere tre distinte ipotesi di prevaricazione, favoritismo e interesse
privato in atti di ufficio che, facendo tesoro degli errori del passato, possano
garantire il giusto equilibrio tra tutela e certezza del diritto.
ABSTRACT: The crime of abuse of office is the victim of a conflict
between the legislator and the jurisprudence that forces the former to conti-
vito plantamura
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nue reforms. Not for this, however, it is believed that it would be better to
proceed with the abolition of this crime. There are important reasons for
protection, in fact, which advise to maintain the incrimination in question,
and indeed to strengthen it, especially with reference to the aspect of equality
between citizens and the public Administration, rather than in relation to
that of equality between citizens in regards to the public Administration,
that is impartiality. So, however, to solve the problems of determinacy, as
already proposed by the Morbidelli commission, but using very different
formulations, it would be necessary to foresee three distinct hypotheses of
prevarication, favoritism and private interest, which, taking advantage of the
errors of the past, may ensure the right balance between protection and legal
certainty.