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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI “ROMA TRE” FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA CORSO DI LAUREA IN GIURISPRUDENZA TESI DI LAUREA IN DIRITTO PENALE LA PENA ACCESSORIA NEL DIRITTO COLOMBIANO Relatore Laureando Prof. Mario Trapani Ana Isabel Cianfriglia Indice Introduzione 2 CAPITOLO 1 3 1. Punibilità e conseguenze del reato. 3 2. Le pene in generale. 6 3. Le funzioni tradizionalmente assegnate alla pena 9 3.1 la funzione di prevenzione generale. 10 3.2 la funzione retributiva. 11 4.3 la funzione di prevenzione speciale 13 4. La funzione rieducativa della pena nella giurisprudenza costituzionale. 19 4.1 La teoria della polifunzionalità nelle iniziali prese di posizione della Corte. 19 4.2 una svolta al principio: la sentenza n. 313 del 1990 21 4.3 il ripiego su posizioni più in linea con la tradizione. 23 CAPITOLO 2 25 1. Introduzione. 25 2. Le pene accessorie nel sistema italiano: l’articolo 19 c.p 26 2.1 l’originario assetto delle pene accessorie nel codice Rocco 29 3. Tassatività dell'art.19 c.p 31 4. Contenuto e funzioni delle pene accessorie. 33 5. Finalità rieducativa delle pene accessorie 35 6. L’applicazione delle pene accessorie: Pene accessorie discrezionali 37 7. Omessa applicazione delle pene accessorie; pene accessorie e divieto di reformatio in peius. Esecuzione delle pene accessorie. 38 8. Pene accessorie ed effetti penali 39 9. Pene accessorie e cause di estinzione di punibilità 40 CAPITOLO 3 0 1. Art. 77 determinazione delle pene accessorie 0 2. La durata non espressamente determinata: due impostazioni; critica 2 3. computo delle pene accessorie. 5 4. art. 389 Inosservanza di pene accessorie. 7 5. L’esecuzione delle pene accessorie. 10 6. Effetti della sospensione. 11 7. Pene accessorie e sanzioni amministrative 14 8. la legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni. 18 9. l’interdizione dai pubblici uffici. 21 10. L’interdizione da una professione o da un’arte. 28 11. l’interdizione legale. 32 12. Decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dell’esercizio da essa. 38 13. art. 32- quinquies: l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego. 40 14. In particolare la sospensione e revoca della patente di guida. 41 15. art. 36 c.p. pubblicazione della sentenza penale di condanna. 48 CAPITOLO 4 52 1. Teorie generali delle norme penali nel sistema colombiano 52 2. Le pene in generale nel sistema penale colombiano: 56 3. le funzioni della pena nel codice penale del 2000 61 4. Classificazione delle pene 63 5. le caratteristiche della pena nel sistema penale colombiano 65 16. le pene nel diritto positivo 71 CAPITOLO 5 73 1. introduzione 73 2. le pene accessorie nel codice penale del 2000. 75 3. la determinazione delle pene accessorie. 85 Bibliografia 87 Introduzione sdfsdfksòdf CAPITOLO 1 Punibilità e conseguenze del reato. La violazione del precetto sancito dalla legge penale comporta di regola Questa spiegazione semplicistica prescinde forzatamente dalle questioni inerenti alle vicende della punibilità e delle cause di giustificazione, e si limita a delineare le conseguenze che generalmente conseguono alla violazione della legge penale che l’autore di questa violazione subisca una punizione, ossia sia sottoposto ad una pena di carattere afflittivo, spesso privativa della sua libertà personale, che in qualche modo integra un “castigo” che l’ordinamento infligge a chi ha infranto la legge. Per essere più precisi, si riprenderà la definizione di Nuvolone, secondo la quale “la pena appartiene alla categoria delle sanzioni ‘eterogenee’. Sono sanzioni eterogenee le conseguenze giuridiche di carattere impeditivo (…) o di carattere afflittivo (appunto, la pena) che l’ordinamento fa derivare coattivamente dalla violazione di un obbligo, e che non partecipano della stessa natura della prestazione o comportamento dovuti” NUVOLONE, P., Pena (dir. pen.) in Enciclopedia del diritto, vol. XXXII, Giuffrè, Milano 1982, p. 787. Nell’Enciclopedia, l’autore fissa quattro caratteristiche della pena: “a) la pena in senso stretto è la sanzione di un fatto-reato; b) l’applicazione della pena in senso stretto consegue all’accertamento giurisdizionale di un fatto di reato; c) la condanna ad una pena produce i cosiddetti « effetti penali »: e ,cioè, è la premessa di determinate situazioni giuridiche qualificanti la persona dal punto di vista dell’applicazione della legge penale (recidiva, capacità a delinquere…) d) la pena si traduce, generalmente, nella creazione di uno status di condannato, (…)”. NUVOLONE, P.” Pena (dir. pen.) in Enciclopedia del diritto, vol. XXXII”, Giuffrè, Milano 1982 p. 788. Sono, queste, caratteristiche empiriche della pena, che ne descrivono l’operare nella realtà dei fatti. In questa prima parte del lavoro ci si concentrerà però per prima cosa sul dibattito teorico sulla pena, cioè sulla sua giustificazione filosofica e sulle discussioni intorno alla sua funzione. Per un’appassionante ricostruzione dell’etimologia del termine pena, probabilmente derivante dal greco ποινή che significa compensazione, indennizzazione, prezzo, ma anche dolore, castigo, non si può che rimandare a GUZMÀN DALBORA, J. L., Pena e misure di sicurezza. Profili concettuali, storici e comparatistici (Ed. ital a cura di FORNASARI, G., – CORN, E.), Università degli Studi di Trento, 2009, pp. 4-6.. Diritto penale e pena sono un “binomio irriducibile” CADOPPI, A. – VENEZIANI, P., Elementi di diritto penale – Parte generale, II Ed., Cedam, Padova 2004, p. 429.: la ragion d’essere dell’uno si incastra nell’esistenza dell’altra, ma vale anche il contrario, poiché la necessità di una pena emergerà solo ove vi sia un reato. Esistono essenzialmente due prospettive per accostarsi al concetto di pena: “Una prima modalità (…) vorrebbe trarre dalla pena, come essa si presenta nella sua concretezza, (…) gli indici sintomatici del suo significato; (…) [essa] scandaglia ciò che la pena è nell’esperienza che si offre all’osservatore disinteressato” RONCO, M., Il problema della pena – Alcuni profili relativi allo sviluppo della riflessione sulla pena, Giappichelli, Torino 1996, p. 5. A questa modalità che considera direttamente il dato esistenziale, in una parola “l’essere” della pena, se ne contrappone una seconda, che “approfondisce ciò che la pena dovrebbe essere, alla luce della funzione che l’operatore, il consulente di politica criminale o lo scienziato di diritto penale vorrebbero che essa svolgesse”. Lo studio dell’essere della pena trova nella pena come sofferenza in sé il suo significato, quello sul dover essere trae direttamente il senso della pena dalla funzione che le si attribuisce. Il primo considera il dato esistenziale, mentre il secondo si riferisce ad un orizzonte ipotetico, sorretto dalle teorie funzionaliste, ma si trova tuttavia a dover fare i conti con l’esperienza empirica, spesso traditrice E’ MASSIMO PAVARINI che, nell’introduzione all’opera da lui curata dal titolo Silète poenologi in munere alieno! – Teoria della pena e scienza penalistica, oggi (Monduzzi, Bologna 2006), riporta l’osservazione che spesso viene fatta al penalista, secondo la quale “il dover essere della pena non si realizza nei fatti”. La questione sarà approfondita in seguito. Nello specifico sulle origini filosofiche del concetto di pena si prenda invece come riferimento sempre RONCO, M. L’autore, dopo un primo approccio filosofico alla questione della comprensione del significato della pena, opta per una trattazione più empirica della questione, più fondata sul dato pratico ed “operativo” per arrivare a fondare quella che egli stesso definisce “convinzione retributiva”. Parimenti, scopo di questo primo capitolo è inquadrare i diversi approcci alla pena per poi concentrarsi su un atteggiamento più attento alla prassi.. Il dibattito, sia storico sia contemporaneo, sulla pena, oscilla tra momenti in cui l’attenzione maggiore è dedicata al ragionamento ideologico, volto “a fare dell’idea astratta e generale lo strumento per la destrutturazione e/o la ricostruzione dell’esistente storico” RONCO, M. Il ragionamento ideologico prevarrebbe, secondo questo autore, ad esempio nella seconda metà del ‘700, a momenti in cui invece la questione dello scopo viene messa tra parentesi, e “i fini della pena finirono per non appartenere alle preoccupazioni della scienza penalistica in senso proprio” PAVARINI, M., Silète poenologi in munere alieno p. 11. Sarebbe tra ottocento e novecento che lo sviluppo della scienza penalistica prescinde dalla filosofia del diritto e dalla questione sui fini della pena. Si considereranno ora i tratti salienti di questo dibattito. Occorre soffermarsi sul concetto di pena e sulla sua funzione. Il connotato distintivo della norma giuridica rispetto alla norma morale è la predisposizione di una sanzione da irrogarsi al soggetto che non si conforma al precetto. La norma morale, invece, è priva dell'elemento dell'obbligatorietà. La violazione della norma morale pertanto comporterà unicamente un turbamento nella coscienza della società. Tra le varie sanzioni (amministrative, tributarie, civili,) quella criminale si differenzia da tutte le altre per la sua maggiore incisività nella sfera privata dell'individuo Storicamente l'afflittività si sostanziava nel respingimento del reo dal proprio gruppo sociale di appartenenza attraverso la sacertas (sacer esto). Il reo non viene più considerato come parte integrante della comunità e non ha più la protezione dell'ordinamento giuridico, chiunque infatti lo punire senza nessuna conseguenza.. Con l'evoluzione del diritto si passa dalla soppressione libera alla poena capitalis ossia la pena di morte. Possiamo definire la sanzione come la privazione, totale o parziale, dei beni individuali. Il bene della libertà può essere totalmente eliminato come avviene con l'ergastolo o soltanto diminuito. Il patrimonio individuale può essere del tutto eliminato tramite la confisca dei beni o soltanto diminuito parzialmente con la pena pecuniaria. Perfino il bene dell'onore personale può essere oggetto di privazioni. Ma che funzione ha veramente la pena? Perchè l'ordinamento punisce il reo? Una risposta univoca non puo' essere data ma esistono diverse teorie al riguardo. La pena può essere vista in senso dinamico e non statico: nel momento in cui vi è la comminatoria della pena nella legge penale, vi è la minaccia della sua irrogazione e questa ha una funzione general- preventiva. Nel momento in cui il giudice applica la pena al reo nel caso concreto ha la funzione special-preventiva; nel momento in cui la pena irrogata dal giudice viene concretamente eseguita ha una funzione retributiva. A seconda del momento in cui si guarda la pena essa assume una funzione diversa. Secondo una teoria di stampo utilitaristico la pena ha una funzione di prevenzione generale. Attraverso la minaccia, cioè, cerca di distogliere i consociati dal delinquere. Carattere distintivo della pena secondo questa teoria è la adeguatezza della pena al reato commesso. Una pena troppo mite è criminogena; la pena troppo severa è inapplicabile. Ulteriore carattere distintivo della pena , sempre secondo questa teoria, è la certezza della pena o la sua alta probabilità di applicazione. L'impunibilità infatti svilisce l'effetto intimativo che la minaccia della pena vuole ottenere. Secondo la teoria personalistica della “retribuzione”, la pena ha una funzione di conseguenza del disvalore del fatto del reato commesso: è la paga del malvagio, la conseguenza del male commesso a danno dei consociati. Secondo la teoria “retributiva” carattere della pena è la determinazione nonché la proporzionalità. Le pene devono essere determinate nella rispettiva species e anche nel loro limite edittale tra minimo e massimo irrogabili, in quanto ci deve essere una graduazione prestabilita in relazione alla gravità del reato. Un ulteriore carattere della pena secondo questa teoria è la personalità. Non è possibile, infatti, in base a tale idea punire soggetti diversi dall'effettivo autore del reato. ultimo carattere della pena secondo la teoria retributiva è quello della inderogabilità della sanzione. La pena deve essere espiata dal reo. La funzione retributiva della pena impedisce l'applicazione di pene esemplari, poiché queste strumentalizzano per fini preventivi la sanzione che viene data ad un determinato soggetto e che è slegata concretamente dal reato effettivamente commesso. Le pene in generale. La pena “criminale” appartiene al genere delle sanzioni punitive Alla realizzazione di un fatto antigiuridico e colpevole deve seguire la produzione delle conseguenze giuridiche sanzionatorie stabilite dalla legge. Le conseguenze giuridiche del reato possono essere e di regola sono molteplici, ma la pena è quella principale e immancabile. La pena è conseguenza indefettibile del reato, poiché un fatto costituisce illecito penale proprio in quanto per esso sia prevista la conseguenza necessaria della pena.. La sanzione, quale effetto dell'inosservanza di una norma, può assumere carattere reintegratorio, quando consista nel ripristino della situazione conforme al diritto, riparatorio- risarcitorio, allorquando essa riequilibri gli effetti della violazione per equivalente economico ( es. il risarcimento del danno ex art. 2043) e punitivo ossia quando colpisce negativamente l'autore dell'illecito in un bene giuridico che non ha un rapporto diretto con l'inosservanza. La sanzione punitiva non serve dunque né a ristabilire lo status quo antea, né a compensare sul piano patrimoniali gli effetti dell'illecito ma è rivolta a garantire l'osservanza della norma prima che si verifichi la violazione della norma. In una logica specularmente corrispondente si muovono le sanzioni premiali dirette ad incentivare l'osservanza di un precetto ricollegandovi conseguenze favorevoli. I diversi rami dell'ordinamento utilizzano le sanzioni punitive. Si hanno, quindi, sanzioni punitive amministrative; sanzioni punitive private quali ad esempio la clausola penale che è dovuta indipendentemente dalla prova del danno ex art. 1382 c.c. e le sanzioni disciplinari applicate all'imprenditore ex art. 2106 c.c. La pena criminale è considerata dal nostro ordinamento come la pena punitiva per eccellenza poiché essa incide sui bene giuridici di rilevanza costituzionale in particolare sulla libertà personale. Le pene previste dal nostro codice penale si distinguono fondamentalmente in pene principali e pene accessorie: le prime sono quelle che indefettibilmente accompagnano la previsione del reato e sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; le seconde si riferiscono a determinati reati o categorie di reati e conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa (art. 20 c.p). Le pene principali sono elencate nell'art. 17 c.p rispettivamente per i delitti ( ergastolo; reclusione; multa) e per le contravvenzioni (arresto e ammenda). La distribuzione delle pene tra le varie figure criminose vede privilegiata in modo nettissimo la pena detentiva, soprattutto nei delitti tra i quali la comminatoria esclusiva della multa rappresenta una vera rarità, circoscritta a pochissime ipotesi. Più frequente è il ricorso alla comminatoria congiunta ( nei delitti contro il patrimonio; nei delitti determinati da motivi di lucro il giudice può aggiungere alla reclusione la multa) o alternativa per i delitti dolosi di modesta entità o per alcuni delitti colposi. Particolari problemi possono presentarsi nel caso dei reati puniti con pena alternativa, quando cioè, il giudice deve scegliere se sia più adeguata al caso concreto la pena pecuniaria oppure quella detentiva. La consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione Un dato che merita particolare attenzione è rappresentato da un passo della sentenza 50/1980 in cui la Corte costituzionale, soffermandosi proprio sul concetto di adeguamento, ha precisato che: “ l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti in termini di uguaglianza e/o differenzazione contribuisce da un lato a rendere quanto più personale la responsabilità penale sulla prospettiva segnata dall’art. 27, comma 1, e nello stesso tempo è strumento per la determinazione della pena il più possibile finalizzata, nella prospettiva dell’art 27 comma 3”. Il riconoscimento della discrezionalità al giudice penale, in ordine alla individuazione della sanzione concreta che il reo dovrà scontare per il reato commesso, pertanto, non solo ben si concilia con i principi di responsabilità personale e finalismo rieducativo, ma si palesa come necessario anello di congiunzione tra esigenza di legalità e quell’individualizzazione della risposta punitiva. Ecco allora che, in tale prospettiva, la discrezionalità si atteggia a strumento con il quale il legislatore non potendo andare oltre nella propria opera delega il giudice di proseguire. F. BRICOLA, La discrezionalità nel diritto penale. Nozione e aspetti costituzionali, Milano, 1965, in Scritti di diritto penale. Opere monografiche, Milano, 2000, p. 100-101; G. FIANDACA – E. MUSCO, cit., p.742. afferma che, nel caso in cui la legge preveda alternativamente pene di specie diversa la scelta del giudice di merito, in quanto involge un apprezzamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, quando la sentenza sia congruamente motivata La motivazione è in generale pretesa dall’art. 111 cost. per tutti i provvedimenti giurisdizionali. L’obbligo di motivazione è previsto a livello di legislazione ordinaria anche dal codice di procedura penale. Ora, la specificazione all’art. 132 c.p., proprio nella delicata fase di passaggio dalla previsione astratta della punizione all’inflizione concreta della pena, ha un suo peculiare senso proprio se intesa come la necessità che dal discorso giustificativo - nel quale il giudice è chiamato a inoltrarsi - emerga l’indagine (ed il suo sviluppo) che il codice vuole vada dal fatto al reo. Quindi con un discorso argomentativo il giudice deve dimostrare (di aver ragionato e) in che modo ha portato avanti il suo ragionamento, rendendo così possibile un controllo critico sulla sua attività. Proprio perché l’esplicazione del potere discrezionale è controllabile solo quando nella motivazione emergano i criteri orientativi del percorso logico seguito dal giudice, risulta di nodale rilevanza fare mente locale sulle modalità di adempimento che riceve l’obbligo nella prassi.. Però la congruità della motivazione deve rapportarsi ai parametri indicati dall'art. 133 c.p., ossia della disposizione che enuncia i criteri per l'applicazione della pena nel caso concreto in rapporto al reato e alla persona che lo ha commesso Chiaro è l’autore Mantovani nell’affermare che l’obbligo di motivazione non è da intendersi “come mera esercitazione logico-processuale, ma come spiegazione argomentata della corretta applicazione, nel caso concreto, dei criteri di legge” MANTOVANI, cit., p.783.: spiega infatti la Suprema Corte che nell'ipotesi di reato punito con pena alternativa non è sufficiente, al fine di ritenere adempiuto l'obbligo di motivazione circa l'individuazione in concreto della pena, il generico richiamo all'art. 133 c.p., dovendo invece indicarsi a quale delle diverse ipotesi configurate da tale norma si sia voluto fare riferimento Sono individuabili diversi orientamenti nelle pronunce del giudice di legittimità circa le modalità d’ottemperanza all’obbligo. Innanzitutto, un primo orientamento giurisprudenziale esclude il dovere di motivazione, quanto meno in forma specifica, nei casi in cui la pena per il reato base sia fissata al minimo o comunque non si discosti in misura rilevante dal minimo. La Suprema Corte, partendo dal presupposto che il giudizio cui è chiamato il giudice sia l’esito di una valutazione complessiva del fatto e della personalità del reo, ritiene sufficiente una valutazione globale degli elementi dell’articolo 133 c.p., e come non necessaria invece un’esposizione analitica dei motivi. E’ in questo modo individuabile una relazione tra il grado di specificità della motivazione che la cassazione ritiene dovuta dai giudici e il discostarsi della misura della pena dai minimi edittali; qualora infatti il giudice fissi la pena nel minimo, o si mantenga vicino al minimo edittale, l’obbligo di motivazione per la cassazione è più tenue, non abbisognerebbe perciò di un particolare riferimento agli elementi indicati dell’articolo 133 c.p. Per la cassazione, in questi casi, anche l’utilizzo di espressioni come “ pena congrua”, o “pena equa”, è tale da far ritenere adempiuto l’obbligo di motivazione. Il motivo di tale “attenuazione” riposa sull’idea che la determinazione di una pena minima, o prossima al minimo, sia di per sé garanzia di un equilibrato uso del potere discrezionale, e tale quindi da escludere abusi o uno sconfinamento nell’arbitrio da parte del giudice.. Tendenzialmente, peraltro, è ovvio che la pena detentiva è da considerarsi più grave di quella pecuniaria e la Cassazione tende a esigere, nel primo caso, una motivazione più completa che nel secondo, con ciò enunciando un principio in base al quale, se il trattamento sanzionatorio applicato è complessivamente più favorevole di altri possibili, l'onere di motivazione potrà essere assolto in modo più succinto ed essenziale. Al riguardo, la dottrina prende atto che è nettamente minoritario il filone giurisprudenziale che esige, indipendentemente dalla misura della pena inflitta, una motivazione specifica. La precisazione fatta in dottrina è dovuta al fatto che sono rare le pronunce ove il giudice di legittimità, nel pretendere l’indicazione del processo logico-giuridico seguito, sottolinea l’inidoneità d’affermazioni generiche ed apodittiche - consistenti nel dichiarare semplicemente “giusta ed equa” la misura della pena adottata - ad assolvere il dovere di motivare posto dall’articolo 132 c.p. Le funzioni tradizionalmente assegnate alla pena Fin dall’antichità si delineano tre principali teorie sula funzione della pena, cioè l’idea di retribuzione, di prevenzione generale e di prevenzione speciale. Queste tre idee-guida tendono a giustificare di volta in volta l’entità e la crudeltà della pena ma anche la sua ragion d’essere. Tali teorie si distinguono anzitutto in due grandi gruppi che si possono descrivere utilizzando una descrizione risalente a Seneca SENECA, De ira, I, 19 “… nam, ut plato ait, nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne peccetur; revocari enim praeteri non possunt, futura prohibentur …”, in CATTANEO, M.A., Il problema filosofico della pena, Ed. Universitaria, Ferrara 1978, p. 8, nota 3.: da una parte vi sono le dottrine cosiddette assolute, che ritengono che si punisca quia peccatum est e si concentrano soltanto sul male o sul fatto di delitto commesso in passato; dall’altra le dottrine relative ove la punizione interviene ne peccetur La distinzione fra dottrine assolute e relative si deve alla dottrina tedesca, mentre quella anglosassone conia la distinzione fra teoria retributiva e utilitaristica. In linea generale le due distinzioni corrispondono tra loro: la teoria assoluta, infatti, si preoccupa di rinvenire nella pena la sola funzione di retribuzione intesa come castigo equivalente al male commesso, mentre ove si ravvisi nella pena uno scopo relativo, questo corrisponderà all’utilità sociale, che sarà generalmente la prevenzione. Per le sfumature e le differenze tra le distinzioni si rimanda a CATTANEO, M.A., Il problema filosofico della pena. e sono dunque rivolte alla correzione del comportamento futuro di colui che ha delinquito. La grande distinzione fa riferimento all’eventualità che si ravvisi o meno nella pena uno scopo, un’utilità sociale, un quid pluris rispetto alla sola componente punitiva. Il prevalere di una teoria rispetto all’altra e/o il loro reciproco combinarsi si manifestano in tempi e forme che riflettono non soltanto una logica interna al sistema penale ma anche le linee di tendenza del più generale contesto politico sociale e culturale di riferimento FIANDACA, G. – MUSCO, E.” Diritto penale. Parte generale” p. 684.. la funzione di prevenzione generale. La funzione di prevenzione generale A seguito della graduale presa di coscienza che il crimine è espressione di un male non solo del singolo ma, in termini più generali, della società, si avvertiva - siamo nel periodo illuministico - la necessità di distogliere non più solo il singolo ma tutti i consociati dal compiere attività criminose. La pena ha un fondamento utilitaristico giacché essa mira a distogliere i consociati dal compiere atti criminosi. Fra i primi ad occuparsi di individuare tale fondamento "utilitaristico" ed in particolare "intimidatorio" della pena, sono senz’altro da annoverare J. Bentham, L. Feuerbach e, per l’Italia, G. D. Romagnosi. Esiste però anche una più moderna dottrina promossa da studiosi come l’Andenaes ed il Packer che è venuta accentuando, accanto all’effetto intimidatorio, altre funzioni. In particolare tre sarebbero gli effetti che la pena produrrebbe secondo questo indirizzo: un effetto di intimidazione, appunto; un effetto di moralizzazione ed educazione, avvicinandosi così a quelli che sarebbero poi stati i contenuti delle più moderne concezioni; infine, un effetto di orientamento sociale attraverso la creazione di standards morali che sarebbero rispettati anche da coloro che, in prima istanza, rifiutano il comando normativo: in questo senso, per esempio, Walker ha affermato che la "legislazione di una generazione può diventare la morale della generazione successiva". è legata ad una concezione relativa della pena secondo la quale la pena non si giustifica in quanto castigo in sé per il male inflitto, ma è sorretta da uno scopo, che è appunto quello di prevenzione. Infatti “ La prevenzione generale si sostanzia nel fine della pena di impedire alla generalità dei consociati la commissione di reati o di ridurne il numero…” CADOPPI, A. – VENEZIANI, P., Elementi di diritto penale – Parte generale, II Ed., Cedam, Padova 2004, 433.: poiché si ritiene che sia la minaccia stessa della pena che distoglie il cittadino da compier reati o fatti socialmente dannosi “ da un punto di vista psicologico la pena o meglio la minaccia della pena e l’esempio della su esecuzione esercita immediatamente una funzione intimidatrice o, come si sul dire, di prevenzione generale”. NUVOLONE, P., Pena (dir. pen.) in Enciclopedia del diritto, p. 789. Questa teoria ricorrente nei secoli era stata enunciata già dai filosofi classici Si rimanda qui nuovamente a SENECA, De ira. e si può considerare sotto due aspetti: prevenzione generale negativa: mira d impedire o a ridurre la commissione di reati da parte dei consociati tramite la deterrenza, ossia la paura della pena. In sostanza la pena deve causare per l’agente uno svantaggio che in valore aggiunto superi il vantaggio che gli deriva dal reato così da disincentivare a delinquere. Prevenzione generale positiva: fa leva sul fatto che la previsione di sanzioni penali in relazione a determinati fatti di reato contribuisca a confermare nei consociati il giudizio di disapprovazione di quel comportamento, in questo modo si crea una maggiore tendenza naturale dei consociati a non commettere quel fatto per la disapprovazione morale/ sociale che in essi suscita Ibidem, p. 435.. La funzione di prevenzione generale mira ad evitare che il cittadino commetta dei reati non solo per la paura di incorrere in una sanzione ma anche perché egli disapprova moralmente quel comportamento. La dottrina vi collega infine un’altra funzione molto importante sostenendo che la prevenzione generale contribuisce ad evitare che la gente perda fiducia nel sistema di diritto penale e gradualmente nelle stesse istituzioni. Sono infatti, le pene che il legislatore collega a ciascun crimine a far in modo che vi sia una minaccia ex ante. la funzione retributiva. L’idea della retribuzione è da sempre ricorrente in ogni discorso sulla pena e trova una sua compiuta espressione con la Scuola Classica Si suole definire scuola Classica la corrente di pensiero che prospera nella seconda metà dell’Ottocento in Italia ed alla quale risale “la nascita della moderna scienza del diritto penale italiano”. Pur comprendendo al suo interno orientamenti molto eterogenei, i componenti di questo movimento erano mossi da un filo conduttore comune, che muoveva da una concezione giusnaturalistica del reato come “ente giuridico” che viola i diritti discendenti da leggi assolute. Il maggiore rappresentante della scuola classica fu FRANCESCO CARRARA. Su questo FIANDACA, G. –MUSCO, E., Introduzione, p. XXI e seguenti. i cui componenti si distaccano dalle teorie preventive di stampo utilitaristico coniate dall’illuminismo penale settecentesco per affermare come la pena sia un giusto compenso, una retribuzione che l’autorità commina al reo. Essi si rifanno alla celebre espressione latina, che definisce la pena malum passionis propter malum actionis che evidenzia bene l’idea che la sanzione penale deve servire a compensare la colpa per il male commesso. L’idea retributiva implica anche per sua natura il concetto di proporzione: la risposta sanzionatoria se deve ricompensare il male provocato dall’azione illecita non può non essere proporzionata alla gravità del reato commesso FIANDACA, G. – MUSCO, E. Diritto penale. Parte generale p. 684. Si noti en passant come l’idea della pena proporzionata al delitto, ripresa dalla Scuola Classica, fosse stata introdotta da BECCARIA, che fondava anche su questo la sua opposizione alla tortura ed alla pena capitale. La proporzione della pena al reato fa si che la pena sia la giusta retribuzione in quanto determinata, proporzionata alla gravità del reato commesso, afflittiva, inderogabile e capace di ristabilire quel senso di certezza nell’ambito dell’applicazione delle norme. CIAPPI, S. – COLUCCIA, A., Giustizia criminale, Franco Angeli, Milano 1997, p. 14. Gli autori sottolineano con chiarezza che è merito della Scuola classica se si fa strada una concezione della pena come giusta retribuzione poiché, essa rivendica “in nome del diritto naturale, le ragioni di garanzia ed i diritti dell’individuo in opposizione all’autoritarismo ed alla ferocia delle pene.” (CIAPPI, S. – COLUCCIA). È chiaro che il concetto di giusta retribuzione non va confuso con quello di vendetta poiché a punire non è la vittima del reato. Al contrario è lo Stato non il privato il detentore del potere punitivo ed esso agisce allo scopo di ristabilire l’ordine. “Con la piena affermazione del diritto in campo penale il carattere retributivo della pena perde l’idea vendicatica di arbitrarietà presente nei tempi più remoti” (B., 1998). Come sosteneva Carrara il fine della pena non è atterrire il delinquente ma è ristabilire l’ordine esterno nella società. Carrara. “programma di corso di diritto criminale” La teoria retributiva si fonda sull’idea che l’uomo in quanto individuo sia e debba essere libero di effettuare le proprie scelte: gode quindi del libero arbitrio. L’individuo in quanto tale, quindi, non risente di alcun condizionamento . Nonostante le premesse fondamentalmente metagiuridiche di questa teoria, Kant su tutti ha influenzato moltissimo le elaborazioni successive della "idea-base retributiva" affermando che punire il colpevole risponde ad un imperativo categorico che trova la sua giustificazione nella coscienza umana e non in una qualsiasi utilità sociale esterna, i sostenitori dell’essenza unicamente retributiva della pena difendono l’assunto per cui al bene segue il bene e al comportamento antisociale la reazione sociale negativa. L’uomo è responsabile delle sue azioni ed è quindi giusto che, per il bene e per il male, gliene derivi conseguenza. La pena viene applicata quia peccatum est cioè per effetto del reato commesso. La teoria in oggetto ha, di fatto, permesso di ottenere autentiche conquiste di civiltà soprattutto sotto l’aspetto della retribuzione giuridica - la retribuzione "morale" rimanendo ancorata ai presupposti spiritualistici ed esistenziali poco fa accennati. La retribuzione giuridica infatti individua il fondamento della pena non nella coscienza umana bensì nell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che la sanzione non serve solo a "retribuire" il male commesso ma anche a riaffermare l’autorità della legge che è fonte della sanzione stessa. Le conquiste a cui si accennava poc’anzi e che da sole potrebbero giustificare il principio retributivo anche di fronte alle incisive limitazioni e deroghe derivanti dalle altre concezioni, sono, oltre alla afflittività come comune denominatore, essenzialmente quattro: a) la personalità della pena, per cui il corrispettivo del male non può che essere applicato all’autore del male stesso; b) la determinatezza e c) la proporzionalità della pena per cui la legge deve concretamente prevedere e "determinare" una pena "proporzionata" al male commesso; d) infine l’inderogabilità della pena, nel senso che la stessa deve essere sempre e necessariamente scontata (questo è forse veramente l’unico aspetto ormai completamente rovesciato dagli sviluppi legislativi più recenti). 4.3 la funzione di prevenzione speciale Sul finire del secolo diciannovesimo si sviluppa una nuova teoria contrapposta alla scuola classica: la scuola positiva. Tra i maggiori sostenitori della scuola positiva troviamo Cesare Lombroso, Enrico Ferri, Raffaele Garofalo, Filippo Grispigni, il belga Harald Prins e l'austriaco Franz Von Liszt, La scuola positiva i distacca dal giusnaturalismo moderno e dall’illuminismo per arrivare ad una considerazione del reato come di un fenomeno bio- psicologico e sociale. Il reato costituisce l’influenza che la società ha sull’uomo moderno. Proprio a causa delle continue influenze ambientali l’uomo non è considerato del tutto libero nell’effettuare le proprie scelte ma egli si trova a agire in forza di una legge di causalità naturale che lo costringe. Partendo da questa affermazione si ritiene che non avrebbe senso parlare di responsabilità individuale ma che egli sia solo una vittima delle spinte sociali. L’inclinazione al delitto dell’uomo va affrontata con strumenti e rimedi atti a neutralizzare la pericolosità soggettiva el delinquente e a proteggere la società. In questo modo si vuole evitare che il reo possa compiere in futuro altri reati. “L’effetto della prevenzione può essere ottenuto attraverso tecniche diverse dirette a perseguire l’emenda morale del reo ovvero la sua risocializzazione” C ATTANEO, M.A “il problema filosofico della pena” . Editrice universitaria, 1978. Uno dei fulcri della concezione positivistica è la sanzione indeterminata nel tempo: “ poiché non è possibile sapere in precedenza in che momento l’opera di rieducazione del condannato sarà realmente compiuta, se l’azione punitiva deve continuare finchè non raggiunga lo scopo della rieducazione, allora la durata della pena-emenda può essere illimitata, o per lo meno non determinabile in anticipo da parte della legge” CATTANEO, M. A. p. 93. L’autore si pone criticamente rispetto a questa asserzione, e si sofferma sul conflitto che si porrebbe tra le esigenze di certezza giuridica e di salvaguardia della libertà personale ove venisse accettata questa concezione dell’indeterminatezza della sanzione penale. Pur mossa da intenti che essa stessa definì a quel tempo umanistici, la scuola Positiva è oggi giudicata come un curioso fenomeno culturale, che nella sua applicazione più pura si confonde con un “determinismo naturalistico (…) privo di fondamento empirico”. (FIANDACA, G. – MUSCO, E, Introduzione, p. XXIX). E’ tuttavia innegabile che ad essa si devono l’introduzione del concetto di prevenzione speciale nella scienza del diritto penale e lo spostamento dell’attenzione dal reato al suo autore, il reo, uomo inserito in un contesto sociale molto rilevante. Si fondano su questi assunti la previsione di misure alternative alla pena detentiva, calibrate sulla persona del condannato, e la previsione che egli possa uscire dal carcere prima di aver scontato l’intera pena. Per ora si concluderà l’esposizione della teoria rieducativa con le parole di CATTANEO, M. A. p. 94: “in conclusione, (…) vorrei dire che l’elemento accettabile della teoria dell’emenda può essere soltanto il suo nucleo essenziale, l’idea del reinserimento del condannato nella società, ovvero del suo recupero (inteso però in senso esclusivamente civile e giuridico, e non morale, chè tale compito non rientra nelle funzioni dello Stato), (…) idea che – benché spesso incontri molti ostacoli e risulti apparentemente smentita dai fatti – esprime in definitiva un senso di speranza e fiducia nell’uomo ”.. Riassumendo secondo la scuola positivistica la sanzione non potrà consistere in una mera retribuzione ma può essere considerato come un mezzo giuridico di difesa contro il delinquente che non deve essere punito ma deve essere riadattato per poter essere reinserito nella società. Tale trattamento comporta inoltre un vantaggio anche per la società che vedrà reinserito un individuo “trattato” e che probabilmente si asterrà dal commettere nuovamente un crimine. Si parla di prevenzione speciale perché l’attenzione è rivolta al singolo individuo prima ancora che alla generalità di consociati e di un paradigma riabilitativo perché per ottenere la prevenzione speciale occorre ottenere il recupero sociale del soggetto. La scuola classica da una parte e la scuola positiva dall’altro hanno entrambe contribuito a riempire di contenuto il significato e lo scopo della pena. La prima ha introdotto concetti come la proporzionalità della pena, la seconda ha introdotto il concetto di rieducazione e riabilitazione sociale. la pena nel codice Rocco del 1930 Il codice penale attualmente in vigore in Italia è noto come Codice Rocco, dal nome del ministro della Giustizia che ne curò l’emanazione., Alfredo Rocco. Esso risale all’epoca fascista, e risente nel suo impianto originario dell’istanza repressiva e dell’involuzione autoritaria che caratterizzava lo Stato dell’epoca. Tuttavia benché molti siano i progetti di riforma che dal 1930 ad ora sono stati presentati, nessuno fra questi ha avuto successo Il codice è stato in buona parte epurato delle disposizioni più marcatamente autoritarie, di matrice fascista, che dopo l'instaurazione della repubblica risultarono in contrasto con la Costituzione. Una riforma organica del codice penale però non è mai stata varata. Dopo la caduta del fascismo, la dottrina penalistica (Pannain, Delogu, Leone) ritenne infatti improponibile il ripristino dell'ottocentesco Codice Zanardelli, e osteggiò anche una riforma ex novo, sostenendo che il rigoroso impianto tecnico del Codice Rocco bastasse tutto sommato a immunizzarlo, negli aspetti di fondo, dalla politicizzazione. A distanza di decenni dall'entrata in vigore della Costituzione, la necessità di un codice più moderno, ispirato, oltre che ai principi costituzionali, alle convenzioni internazionali e al tema dei nuovi diritti, è da più parti avvertita,[5] e progetti di riforma complessiva sono stati presentati anche in sede istituzionale (si ricordano le esperienze delle commissioni ministeriali Pagliaro e Grosso, del 1988 e 2001), senza tuttavia andare in porto. Infatti tra le osservazioni sulle quali c'è maggior convergenza e la sua considerazione obsoleta in molti punti, ed una sua formulazione ex novo, così come è stato fatto con il codice di procedura penale promulgato nel 1988 ed entrato in vigore il 24 ottobre 1989.. Di conseguenza, oggi ci troviamo di fronte ad una versione del codice del 1930 molto rimaneggiata, in seguito sia ai successivi interventi del legislatore, sia alle pronunce della corte Costituzionale. Le caratteristiche del codice in merito alla pena sono la reintroduzione della pena di morte la pena di morte venne abolita successivamente dal d.lg.lgt 10 agosto 1944, la previsione di pene assai elevate e l’eliminazione delle circostanze generiche. Accanto alla pena si prevede inoltre l’istituto della misura di sicurezza. Vi è però anche da segnalare che il legislatore del 1930 aveva già previsto istituti come la sospensione condizionale, la liberazione condizionale ed il perdono giudiziale per i minorenni, e che l’impianto generale del codice “ si rifaceva al principio di legalità in tutte le sue fondamentali manifestazioni e palesava la ricerca di rigore della prevenzione del crimine” Vassalli G. “Diritto penale e giurisprudenza costituzionale”. Il legislatore del ’30 introduce un modello sanzionatorio che ruota attorno ai poli della prevenzione generale, attuata anche attraverso il modello retributivo, e speciale, rispettivamente a strumenti sanzionatori di natura diversa. Il suo obiettivo era quello di “sanare il contrasto fra la Scuola classica e la Scuola positiva, che divideva gli studiosi italiani dell’epoca in posizioni contrapposte” FIANDACA, G. – MUSCO, E.” Diritto penale. Parte generale”. Ed. Zanichelli. 2010. p. 685. Come si è visto la Scuola classica sosteneva la concezione retributiva, e quella positiva l’idea dello scopo riabilitativo della pena.. A tal fine fu introdotto il sistema del cd. doppio binario, che poneva accanto alla pena tradizionale inflitta sul presupposto della colpevolezza una misura di sicurezza, fondata sulla pericolosità sociale del reo e con il compito della sua risocializzazione. Sostanzialmente, il sistema prevede da un lato che sia comminata una pena qualora il soggetto sia responsabile per un fatto di reato e dall’altro che si applichi una serie di misure di sicurezza, che si possono sommare alla pena per i soggetti imputabili L’art. 85 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito se al momento della commissione del fatto previsto dalla legge come reato non era imputabile. Al comma II questo stesso articolo definisce imputabile “chi ha la capacità di intendere e di volere”. L’imputabilità si configura quindi come una qualifica personale del reo, necessaria perché lo si possa assoggettare alla sanzione penale, che si manifesta con la capacità di intendere, che consiste “nella idoneità del soggetto a rendersi conto del significato sociale della propria condotta”, e insieme nella capacità di volere, che si identifica “nell’attitudine della persona a determinarsi in modo autonomo, in conformità del proprio giudizio. […] Queste qualità possono mancare in individui che non hanno raggiunto una sufficiente maturità psichica, o che non sono sani di mente”. Tali individui saranno “non imputabili” ovvero, se le capacità non sono escluse, ma solo diminuite, “semi-imputabili”. Questa breve spiegazione è presa da CADOPPI, A. – VENEZIANI, P., Elementi di diritto penale. e semi-imputabili e consistono invece nell’unica pena prevista per i soggetti non imputabili Su questo, per una sintesi molto efficace, v. MENGHINI, A., Sistemi sanzionatori a confronto, in FORNASARI, G. – MENGHINI, A, Percorsi europei di diritto penale, Cedam, Padova 2005, p. 114.. Uno sguardo ai lavori preparatori chiarisce che la pena ha, secondo i redattori del codice del ’30, principalmente la funzione di prevenzione generale, rispetto alla quale è strumentale il ruolo “satisfattorio”, come essi definiscono la funzione retributiva: “Delle varie funzioni che la pena adempie, le principali sono certamente la funzione di prevenzione generale, che si esercita mediante l’intimidazione derivante dalla minaccia e dall’esempio, e la funzione cd. satisfattoria, che è anch’essa, in un certo senso, di prevenzione generale, perché la soddisfazione che il sentimento pubblico riceve dall’applicazione della pena, evita le vendette e le rappresaglie” Relazione al Re sul Codice penale, in Lavori preparatori, in FIANDACA, G. – MUSCO, E.. La funzione di prevenzione speciale è invece affidata alle misure di sicurezza, le quali sono dirette a neutralizzare la ‘pericolosità sociale’ del reo, allo scopo di evitare che lo stesso soggetto incorra nella commissione di futuri reati Cfr. FIANDACA, G. – MUSCO, E. “ diritto penale. Parte generale”. Ed. Zanichelli, 2010. La “misura di sicurezza rappresenta la ‘traduzione’, sul piano della teoria della pena, di quello ‘scopo’ che l’idea preventiva non aveva voluto – ed in parte: potuto – imporre sul terreno della teoria della commisurazione” MONACO, L. , la teoria di prevenzione speciale nella sua espressione più pura richiedeva che la commisurazione della pena fosse indeterminata, poiché non è possibile stabilire ex-ante quanto sarà il tempo necessario al condannato per “guarire” dalla tendenza a delinquere. Nella redazione del codice fu impossibile “far prevelare le ‘istanze di scopo’ nella commisurazione della pena”, così che le prime emersero nel momento teorico della creazione delle misure di sicurezza. Su questo MONACO, L. in “ commentario breve al codice penale” a cura di A. Crespi- Forti. Zuccalà. Padova 2011.. Il sistema del cd. doppio binario “non esprime soltanto la compresenza in uno stesso ordinamento di sanzioni penali di natura diversa, ma indica (…) la possibilità di applicare ad un medesimo soggetto, che sia al tempo stesso «imputabile» e «socialmente pericoloso», tanto la pena che la misura di sicurezza” FIANDACA, G. – MUSCO E. “ diritto penale. Parte generale”. Ed. Zanichelli, 2010 . PAG. 686. Il sistema del doppio binario si rivelò nei fatti contraddittorio ed incongruente a causa della sua natura eccessivamente compromissoria. La dottrina vi ritrovò ben presto una pesante contraddizione teorica, dovuta al fatto che ove si consideri che ad uno stesso soggetto si possono applicare sia la pena, che è propria di chi è libero di volere e colpevole, sia la misura di sicurezza, la quale invece si commina ove vi siano tendenza a delinquere e pericolosità sociale, suppone una concezione dell’uomo come “«diviso in due parti»: libero e responsabile per un verso, e come tale assoggettabile a pena; determinato e pericoloso per un altro verso, e come tale assoggettabile a misura di sicurezza” FIANDACA, G. – MUSCO, E. . “ diritto penale. Parte generale”. Ed. Zanichelli, 2010PAG. 687.. Accanto alla contraddizione teorica sorsero problemi di incongruenza pratica: l’articolo 133 del codice penale richiede che il giudice, nel giudizio discrezionale di commisurazione della pena, tenga conto, fra le altre cose, anche della capacità a delinquere del colpevole, desunta da tutta una serie di elementi relativi alla sua vita privata e sociale e dalla sua condotta. A sua volta, l’articolo 203 richiede che la qualità di persona socialmente pericolosa che serve all’applicazione delle misure di sicurezza si desuma dalle stesse circostanze di cui all’art. 133. Conseguenza di tale impianto sistematico è che “per il giudizio di pericolosità rilevano quegli stessi elementi che servono per la quantificazione della pena: ma, se è così, finiscono con lo sfumare le differenze di presupposti applicativi tra pene e misure; e, di conseguenza, diventa artificioso lo stesso principio del doppio binario”. Se si considera infine che al trattamento legislativo differenziato riservato alle pene ed alle misure di sicurezza non ha mai corrisposto, nei fatti, la predisposizione di differenti strutture che ne consentissero l’applicazione, ben si comprende per quale motivo il sistema del doppio binario sia stato definito in dottrina come “frode delle etichette” e perché ne fosse auspicato il superamento Ibidem, p. 688. Si aggiunga che dato che “lo svolgimento del pensiero giuridico-penale e delle legislazioni ha progressivamente inserito la funzione di prevenzione speciale nella tematica della pena. (…) [Essa] è divenuta, così, in parte, anche una misura di prevenzione speciale (…) cosicché il sistema del doppio binario non appare più interamente giustificato (…): e si spiegano, pertanto, le tendenze verso l’unificazione” NUVOLONE, P., Pena (dir. pen.) in Enc. dir., cit., p. 789. Si distacca da questa visione l’opinione di MONACO, L., il quale nell’opera supra citata evidenzia come l’introduzione dell’idea di scopo nella teoria della pena attraverso il compromesso del codice Rocco abbia “dato i suoi frutti, copiosi ed importanti”. Slegato il sistema delle misure di sicurezza dai “rigorosi vincoli che il principio di irretroattività impone invece da tempo al sistema delle pene”, esso consentì di combattere la pericolosità individuale anche con “misure non positivizzate – nell’an o nel quantum – al momento del fatto”. Secondo l’autore, la grande libertà e legittimazione data alle misure non sarebbe stata pensabile in un altro contesto, così che fu proprio il sistema del doppio binario a far sì che l’idea dello scopo ottenesse “uno spazio di manovra ed una libertà di movimento quali probabilmente non sarebbe mai riuscita ad avere in un sistema di pena unificata”. MONACO, L.. La funzione rieducativa della pena nella giurisprudenza costituzionale. Così come il dibattito dottrinale, anche la giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di funzione della pena è andata “ storicamente evolvendo secondo linee complesse e non prive di una certa ambiguità” FIANDACA, G., Scopi della pena tra comminazione edittale e commisurazione giudiziale, in VASSALLI, G (A cura di), diritto penale e giurisprudenza, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli 2006, pagina 131. Secondo l’autore tali oscillazioni giurisprudenziali sono dovute all’influenza che il mutare dei contesti esterni ha esercitato sulle figure dei giuristi interpreti.. Pur se tale evoluzione “ finisce per lo più con riecheggiare orientamenti già affermati nella dottrina penalistica: per cui le stagioni giurisprudenziali che si succedono nel tempo seguono una linea evolutiva corrispondente ad altrettante stagioni dottrinali anche se è dato riscontrare (…) un certo tendenziale ritardo della Corte nel tenere dietro gli sviluppi della riflessione teorica” Ibidem pagina 134, ci sembra qui utile ripercorrere i momenti più significativi. In questa analisi si farà riferimento alla distinzione proposta da Giovanni Fiandaca , il quale individua grossomodo tre grandi stagioni giurisprudenziali Cfr. ibidem, pagina 131 ss. Nei seguenti punti ci si limiterà a prendere in esame le sentenze in cui la Corte ha fatto riferimento alle funzioni della pena, e non a quelle con le quali è intervenuta a sindacare la legittimità di questo o quell’istituto penale o penitenziario ( in particolare l’ergastolo). . 4.1 La teoria della polifunzionalità nelle iniziali prese di posizione della Corte. In quella che può definirsi una giurisprudenza costante Si fa riferimento alle sentenze della Corte Cost. n. 48/ 1962, n. 67/1963, n. 12/1966, n. 124/ 1970, n. 179/1973, n. 264/1974 e n. 306/1993 dal 1966 al 1988, la Corte accoglie la teoria polifunzionale secondo la quale “ la pena assolve contemporaneamente più funzioni, e cioè afflittivo- retributiva, general-preventiva, special-preventiva, e satisfattoria o di reintegrazione dell’ordine giuridico violato. In questo quadro composito, trova spazio anche la finalità rieducativa, la quale viene tuttavia tendenzialmente circoscritta alla sola fase dell’esecuzione penitenziaria” Ibidem pagina 134.. Particolarmente significativa, in questo senso, risulta la sentenza n. 12 del 1966, con la quale la Consulta si pronuncia sulla legittimità costituzionale della pena pecuniaria, che secondo il giudice a quo non pareva idonea a svolgere la funzione rieducativa Il giudice a quo aveva posto la questione se la pena pecuniaria “ in quanto ritenuta, a differenza della pena detentiva, non idonea a svolgere funzione rieducativa, sia da considerare non conforme al principio costituzionale di cui al comma terzo, seconda parte dell’articolo 27 della Costituzione”. C. Cost. sent. N. 12 del 4 febbraio 1966, in Giur. Cost., 1966, I, 143, p. 150.. La Corte risponde dichiarando infondato il dubbio di costituzionalità, e spiega nella sentenza che i due assunti dell’articolo 27 comma terzo non si possono separare l’uno dall’altro, ma formano insieme i connotati della pena, fino a creare un contesto unitario e non dissociabile Si legge nella motivazione della Sentenza: “È arbitrario, innanzi tutto, il modo con cui viene presentato il comma terzo dell'art. 27, del quale l'ordinanza pone in esclusiva evidenza una parte tacendone del tutto l'altra. Invero la norma non si limita a dichiarare puramente e semplicemente che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato", ma dispone invece che "le pene ' non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità ' e devono tendere alla rieducazione del condannato": un contesto, dunque, chiaramente unitario, non dissociabile, (...), in una prima e in una seconda parte separate e distinte tra loro, né, tanto meno, riducibile a una di esse soltanto. Oltre tutto, le due proposizioni sono congiunte (...) anche perché logicamente in funzione l'una dell'altra. Da un lato infatti un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un'azione rieducativa del condannato; dall'altro è appunto in un'azione rieducativa che deve risolversi un trattamento umano e civile, se non si riduca a una inerte e passiva indulgenza”. C.Cost., Sent. n. 12/1966, pp. 151-152., in cui la componente afflittiva, o retributiva, non va trascurata, così che anche la pena pecuniaria risulta legittima. Essa coglie quindi l’occasione per ribadire il vero significato della norma, la quale, pur riconoscendo l’importanza della rieducazione del condannato, la inserisce pur sempre nel trattamento penale vero e proprio, il quale a sua volta trova un limite nel divieto di superare il punto oltre il quale la pena si pone in contrasto col senso di umanità. La Corte conclude riferendosi a concetti che la dottrina degli anni ’50 e ’60 aveva spesso ribadito, quale il significato meramente eventuale del verbo tendere e l’importanza delle altre funzioni della pena, insieme alla rieducazione, che non può essere intesa in senso esclusivo ed assoluto. Si legge nella sentenza: “ Del resto la portata e i limiti della funzione rieducativa (…) appaiono manifesti nei termini stessi del precetto. Il quale stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: espressione che, nel suo significato letterale e logico, sta ad indicare unicamente l’obbligo per il legislatore di tenere costantemente di mira, nel sistema penale, la finalità rieducativa e di disporre tutti i mezzi idonei a realizzarla. Ciò naturalmente, là dove la pena, per la sua natura ed entità, si presti a tal fine (…). In conclusione, con la invocata norma della Costituzione si volle che il principio della rieducazione del condannato (…) fosse elevato al rango di precetto costituzionale, ma senza con ciò negare l’esistenza e la legittimità della pena là dove essa non contenga, o contenga minimamente, le condizione idonee a realizzare tale finalità. E ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena che (…) sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell’ordine giuridico contro la delinquenza, e da cui dipende l’esistenza stessa della vita sociale”. Le altre funzioni della pena a cui fa riferimento la Corte sono gli obiettivi di prevenzione generale e di retribuzione, i quali emergono soprattutto nelle fasi precedenti all’espiazione della pena, ossia nel momento della minaccia legislativa ed in quello dell’applicazione giudiziale della pena Cfr. FIANDACA, G. p. 135. L’autore aggiunge una valutazione di merito di questa teoria polifunzionale, scrivendo che “la sua maggiore utilità si ricollega proprio al generico eclettismo, connesso al fatto che le generiche ed eterogenee funzioni assegnate alla pena vengono alquanto confusamente sommate una all’altra, senza instaurare tra le stesse un ordine gerarchico o di priorità: ciò infatti conferisce ai giudici delle leggi l’opportunità di potere disporre di uno strumento concettuale flessibile e duttile, in una prospettiva strumentale al soddisfacimento di esigenze politico-criminali considerate di volta in volta prevalenti”. FIANDACA, G., p. 135.. 4.2 una svolta al principio: la sentenza n. 313 del 1990 All’inizio degli anno ’90, la Corte abbandona in parte la concezione polinfunzionale per attribuire “ una decisa prevalenza (…) alla prospettiva della prevenzione ( generale e speciale), mentre il paradigma retributivo finisce col perdere un ruolo autonomo, riducendosi a mera esigenza di proporzione tra pena da infliggere in concreto e grado di colpevolezza” FIANDACA, G. p. 136. Anche questo cambiamento avviene sul riflesso degli sviluppi teorici già maturati sul versante dottrinale, di cui supra.. In questo senso la svolta di principio si è avuta con la sentenza 313 del 1990 Sent. C. Cost. n. 313 del 3 luglio 1990, in Giur. cost. 1990, III, 1981. In tale occasione l’intervento della Corte era stato richiesto per valutare la costituzionalità di una disposizione che riguardava l’originaria disciplina dell’applicazione della pena su richiesta delle parti di cui all’art. 444 c.p.p. e che toglieva al giudice ogni margine di discrezionalità nel valutare l’adeguatezza della pena “patteggiata” dalle parti.. Nella pronuncia la Corte esordisce con l’analisi attenta e critica della sua passata giurisprudenza sulla concezione polifunzionale “In realtà la passata giurisprudenza di questa Corte (come, del resto la dottrina imperante nei primi anni di avvento della Costituzione) aveva ritenuto che il finalismo rieducativo, previsto dal comma terzo dell'art. 27, riguardasse il trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, e ad esso fosse perciò limitato (quale esempio del lungo percorso di questo leit motiv si vedano le sentenze n. 12 del 1966; n. 21 del 1971; n. 167 del 1973; n.i 143 e 264 del 1974; 119 del 1975; 25 del 1979; 104 del 1982; 137 del 1983; 237 del 1984; 23, 102 e 169 del 1985; 1023 del 1988). A tale risultato si era pervenuto valutando separatamente il valore del momento umanitario rispetto a quello rieducativo, e deducendo dall'imposizione del principio di umanizzazione la conferma del carattere afflittivo e retributivo della pena. Per tal modo si negava esclusività ed assolutezza al principio rieducativo, che come dimostrerebbe l'espressione testuale - doveva essere inteso esclusivamente quale "tendenza" del trattamento”. C. Cost., sent. n. 313/1990, p. 1994., sottolineando come essa trascurasse in realtà “ il novum contenuto nella solenne affermazione della finalità rieducativa; questa, perciò, veniva assunta in senso marginale o addirittura eventuale e, comunque, ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario. In un secondo momento, essa ribadisce che a pena ha un carattere in quale misura afflittivo, ed insieme di difesa sociale e di prevenzione generale, ma queste sono le caratteristiche minime che descrivono l pena in quanto tale, e non possono “ autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena. Se la finalizzazione venisse orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza ( difesa sociale), sacrificano il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stessa della pena” Ibidem, p. 1994.. In terzo luogo, la Corte rivede le sue posizioni anche in merito all’interpretazione del verbo tendere : “ l’esperienza successiva ha (…) dimostrato che la necessità costituzionale che la pena debba “ tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue. Ciò che il verbo “ tendere” vuol significare è soltanto la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione (…)” Ibidem p. 1995. Infine, si estende l’ambito di valenza della finalità rieducativa al di là della sola fase esecutiva della pena “ se la finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero stata calibrate ( né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto. Deve essere dunque, esplicitamente ribadito che il precetto di cui al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie” Ibidem p. 1995. L’aspetto più innovativo della pronuncia consiste nel “ pretendere che la prospettiva della rieducazione espanda la sua sfera di operatività trascendendo il momento della esecuzione” FIANDACA, G. PAG. 138, il quale in un passo successivo definisce potenzialmente rivoluzionarie le conseguenze di questa sentenza, così che tale prospettiva arrivi ad orientare sia la determinazione della pena ad opera del giudice sia, ancora prima, la scelta legislativa di tipologie sanzionatorie atte a favorire l’effetto rieducativo. 4.3 il ripiego su posizioni più in linea con la tradizione. La sentenza 313/1990 è stata oggetto di commenti discordanti, divisi tra chi, sostenendo l’importanza della rieducazione, la salutava come un nuovo manifesto programmatico e chi invece la liquidava come un’utopia irrealizzabile Cfr. FIANDACA, G. PAG. 139, che fra gli studiosi più sensibili all’ideale rieducativo cita EMILIO DOLCINI, mentre fra i più refrattari individua LUCIO MONACO e CARLO ENRICO PALIERO.. La stessa Consulta non si mantenne ferma su queste posizioni, ma ritornò più in linea con la tradizione, sino a riproporre la vecchia concezione eclettica della polifunzionalità della pena. Si legge, infatti, nelle premesse generali della sentenza n. 306 del 1993 : “ tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena, da un lato quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributiva, e dall’altro quella della prevenzione speciale e rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilità della pena in funzione dell’obiettivo di risocializzazione del reo-non può stabilire a priori la gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione ( cfr. sentenza n. 282 del 1989). Il legislatore può cioè, nei limiti della ragionevolezza, far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l’una o l’altra finalità della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata” C. Cost., sent. N. 306/1993, Giur. Cost., 1993, pp. 2466, pp. 2497-8. Dal momento che i costituenti hanno inserito l’inciso “ e devono tendere alla rieducazione del condannato” in riferimento alle pene nella Carta Costituzionale è iniziato il dibattito sulla portata di queste poche parole, così sintetiche eppure così significative. In questo capitolo si è cercato di concentrarsi sull’evoluzione del concetto di “ rieducazione”, facendo riferimento soprattutto ai contributi forniti dai vari formanti, quello legislativo, quello dottrinale e quello giurisprudenziale. Ne esce fuori un quadro molto frastagliato, in due orientamenti principali, l’uno più tendente alla valorizzazione della rieducazione e l’altro che invece si concentra sulla componente afflittiva e retributiva della pena, vivono alterni momenti di successo, mentre la funzione general-preventiva della pena rimane sullo sfondo, sempre presente. Il legislatore mostra di intervenire in maniera pendolare, valorizzando ora le esigenze retributive, ora quelle rieducative, come appare in modo molto evidente confrontando le proposte de iure condendo che si sono esaminate: la proposta “ Margara” vorrebbe ampliare lo spazio concesso alle misure alternative intese come unica possibilità di rieducazione e reinserimento sociale, mentre i disegni di legge presentati nel 2008 vanno nella direzione opposta. Lo stesso giudice costituzionale, col sostenere il modello polifunzionale, non dà un indirizzo univoco in materia. Si è osservato che ciò avviene, del resto,” in conformità alle contraddittore e confuse esigenze che prevalgono in questo tormentato frangente storico, caratterizzato per un verso da una crescita di domanda di sicurezza collettiva e, per l’altro verso, dalla mancanza di n senso comune univocamente dominante circa il significato attuale della punizione statuale.” FIANDACA, G. PAG. 142 CAPITOLO 2 Introduzione. Tra i tanti profili di discussione relativi ai futurabili e auspicabili miglioramenti del sistema sanzionatorio penale, accanto ai profili assai discussi e, invero, assai discutibili, come la previsione automatica di sanzioni alternative al carcere, un posto finora meno considerato ma, in realtà cardine, deve spettare al tema delle sanzioni interdittive o preclusive. Si vuol alludere alla previsione, tra le conseguenze del reato, di conseguenze consistenti nel divieto di svolgere determinate attività, assumere determinati ruoli, utilizzare certi beni. Se la finalità della pena è, e non vi è dubbio che lo sia, quella di limitare il rischio di commissione di reati, possibilmente attraverso percorsi rieducativi, tale tipo di sanzione si appalesa ipoteticamente assai utile. In effetti non sono pochi i reati per i quali adeguato effetto preventivo rieducativo si può ottenere più che ( o eventualmente oltre che) con l’applicazione di restrizioni della libertà personale ( in carcere o meno), con la preclusione della possibilità di ricreare le occasioni delittuose. In questo senso, la pratica della esecuzione penale e lo sviluppo delle prescrizioni interdittive nel contenuto delle misure alternative disposte dalla Magistratura di Sorveglianza dimostra che buon esito hanno, ad esempio, sanzioni o prescrizioni come il divieto di guida e la revoca della patente ( ed eventualmente la confisca del veicolo) per gli autori di incidenti stradali, la preclusione dall’amministrazione, manifesta o dissimulata, di imprese per chi commette reati commerciali, e così via. Tali misura possono assumere un notevole tasso di efficacia purché rispettino il canone fondamentale della adeguatezza e proporzionalità. Si tratta cioè di misure preclusive ritagliate sulla pericolosità concreta del soggetto e correlate all’orientamento specifico della stessa. Non altrettanta efficacia hanno infatti sanzioni automatiche e, soprattutto, non orientate a “ correggere” la pericolosità specifica del condannato. Se ad esempio, ha senso precludere l’apertura di un’azienda a un bancarottiere, ne ha assai meno precludere l’iscrizione alla camera di commercio ad un condannato per reati stradali o inosservanza degli obblighi familiari. L’adeguatezza, proporzionalità e flessibilità delle sanzioni interdittive è un valore di grande efficacia per i fini rieducativi e preventivi della pena. L’assenza di tali requisiti rischia invece di tradursi in un paradossale fattore criminologico poiché rischia di precludere percorsi rieducativi a chi potrebbe svolgerli e li avrebbe a portata di mano. Come per ogni cosa, anche per le sanzioni interdittive, insomma, deve valere il principio dell’applicazione ragionevole , in esito a condivise considerazioni criminologiche. Le pene accessorie nel sistema italiano: l’articolo 19 c.p La norma in commento elenca le pene accessorie previste per i delitti ( comma 1) e per le contravvenzioni ( comma 2) indicando la pubblicazione della sentenza di condanna come pena accessoria comune ad entrambe le ipotesi di reato ( comma 3) e lasciando al legislatore la scelta circa le ulteriori ipotesi in cui le pene accessorie previste per i delitti sono applicabili anche alle contravvenzioni. Tratto caratterizzante delle pene accessorie è che esse “ accedono” ad una pena principale, esitendo unicamente in presenza di esse secondo il principio accessorium sequitur principale G. Catelani, manuale dell’esecuzione penale, MILANO, 2002, 591.. Infatti, nonostante le spinte di una parte della dottrina, l’attuale sistema sanzionatorio non prevede le pene interdittive come pene principali. L’articolo in commento è stato parzialmente modificato dalla legge 24. Mod. sist. Pen., che, in ottemperanza alla fiducia del legislatore nell’efficacia general-preventiva e social-preventiva delle pene accessorie, vi ha inserito nuove ipotesi sanzionatorie, attinenti soprattutto al campo della criminalità economica. Per i delitti: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione ; per le contravvenzioni la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese . ha abolito inoltre l’incapacità di testare e ha trasformato “la perdita o sospensione dall’esercizio della patria potestà o dell’autorità maritale” in “ decadenza o sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori” armonizzando la previsione sanzionatoria al nuovo diritto di famiglia. In proposito da parte di qualche autore si è rilevato che tali pene accessorie introdotte dalla l. mod. sist. Pen. Cit. si risolvono, nell’applicazione pratica, in effetti talmente pregiudizievoli da costituire una vera e propria afflizione indiretta Su queste modiche vedi tra i tanti Pisa e Romano nonché Fiore in “ Le pene accessorie, confisca e responsabilità delle persone giuridiche nelle modifihe al sistema penale”, a cura di Bretoni- Lattanzi-Lupo-Violante, Milano, 1982, 191 ss.; . In relazione al provvedimento di depenalizzazione di cui al d.lgs 30. 12.99 n. 507, si rileva come esso contenga un sistema piuttosto articolato di sanzioni amministrative accessorie già previste come pene accessorie per i singoli reati depenalizzati e che continuano ad applicarsi nei casi e nei modi delle disposizioni che le prevedono (art. 3 comma 1) s tratta delle pene accessorie già previste per le violazioni depenalizzate comprese nell’allegato alla legge stessa e di ogni altra disposizione, in materia di produzione, commercio ed igiene degli alimenti e delle bevande, nonché di tutela della denominazione di origine dei medesimi, fatta eccezione per i reati previsti dal codice penale e dagli articoli 5,6 e 12 della legge 30.4.62 n. 283 e sue successive modificazioni ed integrazioni.; sempre con riferimento a tali violazioni sono poi previste alcune violazioni amministrative accessorie di nuova introduzione : a tal riguardo è importante segnalare che gli articoli 5 e 6 dello stesso d.lgs 1999/507 prevedono sanzioni accessorie che il giudice può disporre con la sentenza di condanna per i reti commessi in tema di alimenti e bevande, ma mentre il tenore letterale dell’articolo 6 non lascia spazio ai dubbi interpretativi in merito alla loro natura di ver e proprie pene accessorie, il precedente articolo 5 che introduce l’art. 517 bis non offre alcun argomento testuale per definire la natura delle sanzioni accessorie ivi previste. Trattandosi però di disposizione identica a quella di cui al precedente articolo 6 e di una comminatoria collegata a sanzioni non depenalizzate, sembra preferibile la conclusione che trattasi di pene accessorie e non delle sanzioni amministrative corrispondenti Previste in generale dall’articolo 3 comma 2 lettera b del d.lg 1999/507 Nell'ambito del sistema penale le pene accessorie non hanno finora costituito uno dei temi centrali per l'interesse della dottrina. Il concetto stesso di accessorietà, ossia di una esistenza complementare, legata e subordinata a quella della pena principale, sembra quasi relegare in secondo piano tali sanzioni: una specie di minus a fronte dei problemi di fondo della questione criminale, quali il fondamento, le funzioni e le finalità punitive, temi evergreen, in ogni caso indissolubilmente connessi con l'ideologia del legislatore e la particolare Weltanschaung dell'interprete. Peraltro, lo stesso art. 20 c.p. nel disporre che le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna, mentre “quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa”, sembra fissare un automatismo sul quale ci sarebbe ben poco da discettare. In realtà, le cose non stanno proprio così. Le stesse disposizioni del codice, da un lato, presentano problemi esegetici e di coordinamento di non poco conto, richiamando, dall'altro lato e nel contempo, la necessità di un'indagine sulla ratio stessa di tali pene nel complesso sanzionatorio penale italiano. Attraverso l'art.19 c.p. Il legislatore del 1930 ha voluto raccogliere in un'unica nuova categoria una serie di sanzioni che nel Codice Zanardelli erano collocate in parte tra le pene principali (pene inabilitative) e in parte tra gli effetti penali della sentenza di condanna le pene accessorie elencate nella disposizione in esame comportano la diminuzione di un bene giuridico; a differenza delle pene principali, che colpiscono la libertà personale strettamente intesa o il patrimonio, esse incidono, di regola, sulla capacità del condannato di esercitare diritti, poteri o funzioni. Le pene accessorie sono elencate nell'art. 19 c.p, rispettivamente per i delitti e per le contravvenzioni. Le prime sono costituite dall' interdizione dai pubblici uffici (art. 28, 29, 31 e 37 c.p.) dall' interdizione da una professione o da un'arte (art. 30 e 31 c.p) dall'interdizione legale (art. 32 e 37 c.p ), dall'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( art. 32 bis c.p.) ; dall'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 32ter e 32 quarter c.p ); dall'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro ( art. 32 quinques c.p) ; dalla decadenza o sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori ( art. 34 c.p.) le pene accessorie per le contravvenzioni sono: la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte (art. 35 c.p); la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( art. 35bis). Comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pena accessoria della pubblicazione della sentenza penale di condanna (art. 36 c.p). 2.1 l’originario assetto delle pene accessorie nel codice Rocco Il codice del ’30 fornisce alla materia delle pene accessorie una regolamentazione assai coerente e rigida, improntata al criterio dell’inderogabilità ed indefettibilità: di contrapposto alle pene principali, che sono inflitte dal giudice con sentenza i condanna, le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa. Ci si accorge immediatamente della totale mancanza di discrezionalità da parte del giudice non soltanto in merito ad una loro eventuale esclusione, ma soprattutto in ordine ad una loro quantificazione. L’art. 20 c.p stabiliva l’applicabilità automatica delle pene accessorie in modo indefettibile ed è stata portata avanti in modo ferreo dal legislatore che ha negato al giudice qualsiasi spazio di intervento, per cui la quantificazione, in caso di pene accessorie temporanee, è rapportata all’entità della pena principale. Da questro quadro emerge una precisa opzione del legislatore: in questa materia esclude che le sue previsioni possano essere ritoccate da un intervento del giudice; la ratio può essere trovata dal significato che il codice Rocco attribuiva alla sentenza penale di condanna e, più in generale, alle conseguenze che un sia pur eventuale contatto dell’individuo con il sistema penale doveva comportare. La definizione, però, dell’art. 20 c.p del codice Rocco apriva un problema che impegnerà dottrina e giurisprudenza per lungo tempo: se per il già ricordato art. 20 le pene accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa, allora esse sono distinte o fanno parte di tali effetti penali? Il forte automatismo delle pene accessorie poteva far propendere per la soluzione “unitaria”; tuttavia, deve sottolinearsi che tale automatismo non è affatto assoluto: disposizioni sia dalla parte speciale del codice, sia dalla stessa parte generale prevedono talvolta una discrezionalità del giudice non solo nel quantum ma perfino nell’an riguardo alle stesse. Le conseguenze erano notevoli. Ad esempio ove il giudice della cognizione avesse trascurato di disporle, il rilevato automatismo faceva sì che il giudice dell’esecuzione provvedesse in tal senso: tale intervento in sede di esecuzione era inibito nell’ipotesi di una mancata discrezionalità da parte del giudice della cognizione. Nella prima ipotesi, ovviamente, alla dimenticanza poteva sempre provvedere la corte di Cassazione, mentre la seconda postulava di necessità di un giudizio di rinvio. D’altro canto un intervento in tal senso in Appello non veniva a ledere il diritto di una reformatio in peius. L’istituto delle pene accessorie per lungo tempo venne considerato un istituto contraddittorio o per lo meno ibrido da alcuni autori dell’epoca. L’art. 19 c.p elenca le varie tipologie di pene accessorie contemplati dal codice, esse sono: l’interdizione dai pubblici uffici, l’interdizione o la sospensione dall’esercizio di una professione, arte o mestiere, l’interdizione legale, la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori, la pubblicazione della sentenza penale di condanna. Non si pensi tuttavia, che le pene accessorie fossero solo quelle previste dall’art. 9 c.p. ( specificate poi agli art. 28 e seguenti): nulla impediva alla legislazione speciale di istituirne altre. Di queste, in molti casi la natura giuridica era ben definita, in altri rimaneva oscura. Un esempio eloquente può essere costituito dall’istituto della sospensione della patente di guida previsto dall’abrogato codice della strada: pena accessoria, effetto penale della condanna, sanzione amministrativa, ovvero ancora sanzione penale atipica? . per decenni la configurazione di tali istituto ha tormentato l’interprete e la giurisprudenza. Solo alla fine degli anni ’90 il lungo arrovellarsi sembrò trovare soluzione nella prima ipotesi. Nel silenzio del codice, peraltro non pochi problemi tecnici si presentavano nell’ipotesi dell’applicazione delle pene accessorie. Per esempio: il dubbio se esse conseguissero necessariamente ad reato consumato ovvero ad un delitto tentato; il loro atteggiarsi nei confronti del reato continuato rispetto al reato base e a quelli componenti; la loro eventuale estensione ai concorrenti nell’ipotesi del reato plurisoggettivo. Non può dimenticarsi che l’art. 140 c.p. disponeva l’applicazione provvisoria delle pene accessorie prima della condanna, durante la fase istruttoria, “quando sussist[evano] specificate, inderogabili esigenze istruttorie o [fosse] necessario impedire che il reato ven[isse] portato a conseguenze ulteriori”. Una disposizione assai discussa e discutibile, specie sotto il profilo costituzionale, ma che sembrava avvicinare tale istituto a quello meramente processuale, delle misure cautelari, ispirate ad esigenze affatto diverse. Ulteriore problema che per lungo periodo afflisse dottrina e giurisprudenza riguardo alle pene accessorie fu sicuramente la ratio di queste ultime. L’indagine fu ardua e talvolta si riscontrarono non poche contraddizioni. Si partiva dal presupposto che per quante accessorie, trattasi comunque di pene; ergo non può prescindersi dalle classiche teorie sulla funzione della pena. Ma quale finalità può accomunare le diverse ipotesi previste dall’art. 19 c.p. ? Respinta in genere l’ipotesi della prevenzione generale, la dottrina oscillava tra la funzione di prevenzione speciale e quella neutralizzatrice, senza trascurarne gli aspetti indiscutibilmente afflittivi. Discorso difficile si diceva poiché era riferibile a sanzioni non omogenee, a volte legate alla gravità del reato ovvero alle sue modalità di esecuzione, ove affatto assente era ogni giudizio relativo alla personalità o alla capacità di delinquere del reo. Giudizio, invece, presente nell’ipotesi di una discrezionalità da parte del giudice. Secondo Pittaro la matrice storico- culturale delle pene accessorie erano le pene c.d infamanti dell’ancient regime: la pubblicazione della sentenza di condanna ricorda il libello e la gogna, l’interdizione legale ela perdita della capacità di testare la vetusta morte civile e le rimanenti capacità legali lo stigma e l’esclusione sociale che accompagnavano la condanna criminale. Tassatività dell'art.19 c.p In dottrina si è spesso affermato che l'elenco delle pene accessorie contenuto nell'art. 19 avrebbe carattere tassativo, con la conseguenza di individuare un numero chiuso di sanzioni; a sostegno di tali tesi si portano non solo il parallelismo con l'art.17 c.p., relativo alle pene principali, ma anche alla lettera dei lavori preparatori. Lav. prep. vol. V,I, 65. Smentiscono detto assunto le considerazioni che vi sono ipotesi di pene accessorie previste esclusivamente non solo nella parte speciale del codice (es. art.6000septies e art. 609 nonies), ma anche nella legislazione complementare; il testo dell'art. 19 avrebbe, dunque, mero carattere esemplificativo. Marinucci- Dolcini. Manuale di diritto penale. Parte generale. Giuffrè, 2012. È vero d'altra parte che il principio di stretta legalità, vigente anche per le pene accessorie, impedisce che il giudice ne crei di nuove. Secondo la giurisprudenza, comunque, le pene accessorie ulteriori rispetto all'elenco dell'art.19 debbono essere espressamente qualificate come tali dalla legge. Tale criterio rigidamente nominalistico per l'identificazione delle pene accessorie è peraltro contestato dalla dottrina, ritenendosi che rientrino nel novero delle pene accessorie tutte quelle sanzioni che ne presentino i caratteri sostanziali. la tendenza del legislatore ad individuare le pene accessorie speciali è tra l'altro confermata dal r.d 267/1942 (l. fall.) che agli art. 216,217 e 218 sanziona i delitti di bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice e ricorso abusivo al credito con le pene accessorie temporanee dell'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, che prevede all'art.3 la perdita della licenza d'esercizio e l'eventuale chiusura definitiva dello stesso per i gestori di locali aperti al pubblico che tollerino abitualmente la presenza di persone dedite alla prostituzione; dall'art. 5 l. 386/1990 che commina la pena accessoria del divieto di emettere assegni bancari e postali per i delitti di emissione di assegno senza autorizzazione; dal t.u.l.stup., che all'art. 85 ha previsto come pene accessorie il divieto di espatrio e il ritiro della patente di guida per un periodo non superiore a tre anni in caso di condanna per uno dei reati di cui all'art. 73,74,79 e 82. le sanzioni accessorie previste nella legislazione speciale non si sostituiscono ma si cumulano con quelle previste dal codice penale salvo che siano in rapporto di specialità. Ma sono le leggi penali finanziarie quelle che tradizionalmente contengono il maggior numero di pene accessorie Vedi il D.P.R. 29.9.73 che conteneva numerose pene accessorie ed anche il d.l. 10.7.82 conv. In l. 7.8.92 n. 516 Norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria. Questa disposizione conteneva un sistema di pene accessorie piuttosto articolato agli articoli 6 e 7. Ora trasfuso nel d.lg 10.3.00 n. 74 che prevede all’articolo 12, oltre all’interdizione dai pubblici uffici per taluno dei delitti previsti nel decreto, numerose pene accessorie specili conseguenti alla condanna per i delitti previsti nel decreto. . Pure la disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope contempla alcune pene accessorie che il giudice può disporre con la sentenza di condanna Ne è un esempio l’art. 85 della legge sugli stupefacenti. . Inoltre, la legislazione penale contro l’inquinamento prevede ipotesi di pene accessorie come ad esempio la sospensione del titolo professionale per il comandante della nave. Contenuto e funzioni delle pene accessorie. Dal punto di vista contenutistico, le pene accessorie consistono in misure interdittive o sospensive dall'esercizio di diritti, potestà, uffici, o misure incapacitanti e, nel caso della pubblicazione della sentenza di condanna in una misura infamante. In considerazione della disciplina originaria delle pene accessorie, che le escludeva dall'applicazione di una serie di istituti volti all'individuazione della risposta sanzionatoria, parte della dottrina ritiene che le pene accessorie perseguano in primo luogo una funzione di prevenzione generale o di difesa sociale. Bettiol- Pettoello Mantovani .. l'orientamento prevalente tuttavia esprime perplessità sulla possibilità di attribuire una funzione unitaria a tutte le pene accessorie Larizza “Le pene accessorie: normative e prospettive”. ciò in considerazione non solo della distinta accentuazione delle funzione stesse a seconda dei diversi presupposti (entità della condanna e tipo di reato) cui conseguono ma anche riguardo alle contrastanti indicazioni ricavabili dalla proliferazione di tali pene nella legislazione speciale e dalle intervenute modifiche della disciplina ad esse applicabili. Alcuni autori ribadiscono la funzione di prevenzione sociale De Felice “ Natura e funzione dellepene accessorie” Milano 1988 la dottrina pone l'accento, invece, soprattutto sulla prevenzione speciale quale finalità primaria delle pene accessorie Fiandaca-Larizza; a-Musco, Padovani; Pagliaro “ il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive alla detenzione breve nell’esperienza europea” Milano 1989. Con particolare riferimento poi alle pene interdittive, si sottolinea come esse mirino o debbano mirare alla neutralizzazione del reo, essendo volte a eliminare le condizioni che consentirebbero la reiterazione del reato; ciò in special modo ove l'attività illecita sia collegata all'esercizio di diritti, potestà e uffici Cerqueti “Pene accessorie”, Padova 1986 in modo che la loro interdizione o sospensione possa scongiurare il pericolo di recidiva specifica). In realtà esse costituiscono per lo più una pena aggiuntiva, vòlta ad accrescere l'afflittività di quella principale o a stigmatizzare il reo. A parere di alcuni autori esse presentano anche una finalità di prevenzione generale ma “rappresentando il più alto tributo pagato alle esigenze della prevenzione generale, un prezzo veramente altissimo per assicurare il massimo effetto deterrente della minaccia penale” Marinucci-Dolcini Manuale di diritto penale. Parte generale. Giuffrè, 2012.. A parere di altri tale capacità di prevenzione generale è scarsamente percepibile da parte della collettività dei cittadini per i caratteri dell'automaticità e della accessorietà che contraddistinguono le pene accessorie Larizza “Pene accessorie” pag. 154 ss.. Nell'assolvere alla funzione special preventiva di regola le pene accessorie incidono sulla capacità giuridica. Non è così per la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna invero, essa non svolge nessuna funzione di prevenzione speciale ma assolve unicamente ad un'esigenza stigmatizzante rappresentando un “residuo della berlina” Pedrazzi, “Diritto penale I.” Si tratta in effetti di una pena che sembra porsi in contrasto con l'idea di un diritto penale orientato alla tutela dell'uomo come fine in sé, nel cui ambito la pena dovrebbe essere sempre finalisticamente rivolta al recupero del reo ( art. 27, c. 3, Cost.) e mai ad “accentuare l'efficacia esemplare della pena principale, additando ai dimentichi, esempio pratico alla manola serietà delle minacce contenute nella legge” Pedrazzi, diritto penale I. Le pene accessorie, inoltre, in quanto effetti legali della condanna sono caratterizzate da un automatismo indefettibile che, sottraendole ad una valutazione di congruità finalistica in concreto, esalta il loro ruolo meramente afflittivo. L'assoluto automatismo nell'applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, comporta ,da un lato, che la erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice di cognizione puo' essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza , dal giudice dell'esecuzione, e dall'altro che, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria così dalla legge stabilita, il PM ne può chiedere l'applicazione al giudice dell'esecuzione qualora si sia omesso di provvedere con la sentenza di condanna Cass. sez. I 04/230129. Quando la determinazione della pena accessoria, entro i limiti minimi e massimi, è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice, si ha la violazione del divieto della reformatio in peius solo se viene aumentata la misura della pena accessoria già stabilita discrezionalmente dal giudice, non anche se viene applicata la misura minima, la quale consegue di diritto alla condanna ed è quindi applicabile anche in sede di impugnazione proposta dal solo imputato. Tratto caratterizzante delle pene accessorie è che esse “accedono” ad una pena principale, secondo il principio accessorium sequitur principale. Infatti, nonostante le spinte di una parte della dottrina, l'attuale sistema sanzionatorio non prevede le pene interdittive come pene principali. Finalità rieducativa delle pene accessorie Riguardo i rapporti tra pene accessorie e rieducazione del condannato, il problema da affrontare preliminarmente riguarda la riconducibilità delle pene accessorie al principio espresso dall'art. 27 co.3 Cost. Esclude tale possibilità l'orientamento secondo cui il Costituente intese riferirsi alle sole pene principali o addirittura, esclusivamente a quelle detentive. De Felice “” Natura e funzione delle pene accessorie” Milano 1988; Nuvolone “Il sistema di diritto penale” CEDAM Per altri autori l'art. 27 co3 Cost. Interesserebbe non solo le pene principali ma anche quelle pene accessorie che incidono su aspetti della libertà personale Pazienza; Pisa “ Pene accessorie” EG 1990. L'art.27 rappresenterebbe ,dunque, una garanzia minima volta ad impedire la configurazione di pene accessorie che rendano impossibile il reinserimento del condannato nella società, precludendogli una gamma troppo vasta di attività; le pene accessorie potrebbero divenire altrimenti strumento per aggirare i principi di garanzia stabiliti dalla costituzione, specie nel momento in cui le scelte di politica criminale del legislatore le possano portare ad assumere un ruolo di maggior rilievo nel sistema penale. Diverso problema è se le pene accessorie come delineate dal legislatore ordinarie siano idonee a perseguire le finalità rieducative. La questione è stata affrontata ponendo in rapporto la funzione della pena indicata dall'art.27 co.3 Cost., individuato nell'aiuto che lo stato dovrebbe prestare al condannato per il superamento o per l'attenuazione dei fattori che lo hanno indotto a delinquere Dolcini “ Il carcere ha alternative? Le sanzioni sostitutive alla detenzione breve nell’esperienza europea” Milano 1989con il contenuto delle pene accessorie. La dottrina dominante non ha ritenuto in contrasto con detto principio le pene accessorie, quali le interdizioni professionali, che sono connotate dalla finalità di prevenzione del pericolo di nuovi reati e che trovano giustificazioni nel tipo di reato commesso. A diversa soluzione si è giunti invece con riferimento alle pene accessorie definite “infamanti” quali l'interdizione dai pubblici uffici conseguente all'entità della pena principale irrogata; tale specie di pena accessoria non solo marchia come indegno il soggetto anche dopo l'esecuzione della pena principale, ma per l'ampio spettro di effetti, la durata perpetua e la scarsa flessibilità della disciplina, pone un serio ostacolo al reinserimento del condannato nel contesto sociale, fino al punto di renderlo assolutamente velleitario. Larizza, “Le pene accessorie: normativa e prospettive.” Risulta indispensabile quindi, anche in materia di pene accessorie, interpretare le disposizioni cui all'art.19 alla luce del principio di individuazione della sanzione e della funzione rieducativa della pena di cui all'art.27 co.3. Cost. Pertanto, le pene accessorie devono essere stabilite nella misura ritenuta più idonea dal giudice di merito in base ai parametri di cui all'art, 133 c.p, senza attendere la fase esecutiva. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE Sentenza 4 aprile 2012 - 21 settembre 2012, n. 36591. 1. Il Tribunale di Brescia con sentenza del 24 settembre 2010 ha condannato B.M. alla pena di mesi quattro di reclusione, per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, perchè, al fine di evasione fiscale, occultava e/o distruggeva i libri, registri e la documentazione contabile della società F.A.B. srl di Brescia. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione ex art. 569 c.p.p., il Procuratore generale presso la Corte di appello di Brescia, chiedendo l'annullamento della stessa limitatamente alla omessa applicazione delle pene accessorie previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12, che non essendo predeterminate nella durata non possono essere applicate in sede esecutiva. Motivi della decisione Osserva il Collegio che il ricorso è fondato, in quanto i giudici non hanno disposto la condanna del B. anche alle pene accessorie previste per in caso di condanna per il reato al medesimo ascritto, stabilite dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12 e cioè: "a) l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a tre anni; b) l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni; c) l'interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un periodo non inferiore ad un anno e non superiore a cinque anni; d) l'interdizione perpetua dall'ufficio di componente di commissione tributaria; e) la pubblicazione della sentenza a norma dell'art. 36 c.p.". L’applicazione delle pene accessorie: Pene accessorie discrezionali La norma in esame sembra escludere ogni ruolo del giudice nell’applicazione delle pene accessorie. a stare alla lettera della legge cioè, queste conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa: ora,, l’intervento automatico o ope legis delle pene accessorie è bensì la regola, ma vi sono anche eccezioni che introducono invece un potere discrezionale del giudice in relazione ad esse . l’esistenza di una discrezionalità sull’an non è seriamente discutibile. Es. la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 5 anni comporta la sospensione dall’esercizio della patria potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga diversamente (art. 32, co. 3°); la condanna del curatore per il delitto di cui all’art. 229 l.f (“ accettazione di retribuzione non dovuta”) può importare nei casi più gravi, l’inabilitazione temporanea all’ufficio di amministratore. Altrettanto certa è l’esistenza, talora, di una discrezionalità sul quamodo. Es. la pubblicazione della sentenza di condanna è fatta per estratto, salvo che il giudice disponga la pubblicazione per l’intero (art. 36, co.3°); al riguardo l’art. 1 r.d.l. 9 luglio 1936, n. 1539, affida la pubblicazione integrale al prudente arbitrio del magistrato. Più discussi sono i casi di discrezionalità sul quantum. Ma anche la loro presenza deve essere in taluni casi ammessa. Così lart. 2638 c.c versione originaria prevedeva la pena accessoria dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi in un limite da tre a dieci anni a seguito di una condanna per accettazione di retribuzione non dovuta da parte di amministratori giudiziari e commissari governativi; l’art. 6 l. 20 febbraio 1958 n.75, contro lo sfruttamento della prostituzione, dispone l’interdizione dai pubblici uffici per un periodo da due a venti anni. In questi casi ,quindi, deve riconoscersi una deroga al principio sancito dall’art.37, nonché di un conseguente potere discrezionale del giudice in ordine alla fissazione del quantum di pena accessoria secondo i criteri dell’rt. 133. Se ne è dubitato Frisoli “ la riforma della sospensione condizionale della pena” SCP 1965 sostenendo che anche in questi casi la pena accessoria seguirebbe, salvi i limiti inferiore o superiore, la durata della pena principale. Ma a torto: basta pensare che se così fosse, per quanto concerne l’art. 6 l. 1958 non si arriverebbe mai a venti anni.: mentre la norma risponde al di là di ogni dubbio ad una ratio di inasprimento del regime delle pene accessorie e quindi all’esigenza di garantire una interdizione anche molto prolungata, oltre i casi di reclusione da cinque anni in su, ai quali è già in via ordinaria collegata l’interdizione perpetua. Un altro esempio di discrezionalità sul quantum si potrebbe trovare nel sistema se si riconosce natura di pena accessoria alla sospensione e alla revoca giudiziale della patente di guida, che costituiscono misure che il giudice applica in caso di condanna per violazione del codice della strada da cui siano derivate lesioni personali o omicidio colposo. Omessa applicazione delle pene accessorie; pene accessorie e divieto di reformatio in peius. Esecuzione delle pene accessorie. La distinzione tra pene accessorie automatiche e discrezionali si riflette anche sull’operatività del divieto di reformatio in peius in appello (art. 597 c.p.p) che non osta all’applicazione in sede di appello delle pene accessorie definite dalla legge in ogni loro elemento, anche in assenza di gravame del p.m. C.s.u. 27.05.998, Ishaka, GI 2000, 381 . Per contro, mancando il gravame del p.m. opera il divieto di reformatio in peius nel caso in cui l’applicazione della pena accessoria sia rimessa in qualche elemento alla discrezionalità del giudice C. 19.6.1973, Bianchini, CED 125279, CPMA 1974, 1125. Proprio in ragione dell’automatismo che caratterizza l’applicabilità di alcune pene accessorie la corte di Cassazione ha ritenuto di poter intervenire anche d’ufficio in sede di legittimità sul contenuto di una sentenza di merito che aveva applicato erroneamente una sanzione accessoria speciale in luogo di quella di cui all’art. 30 c.p., trattandosi di errore non determinante annullamento e rettificabile ex art. 619 o 625bis c.p.p C. 11.4.2001, Brussato, CED 219839, CP 2002, 3105 ; in assenza di profili di discrezionalità, è stata altresì riconosciuta la possibilità di escludere l’applicazione e limitarne la durata in sede di giudizio di legittimità e, successivamente, ad opera del giudice dell’esecuzione. In particolare: Cassazione penale , sez. III, sentenza 21.01.2013 n° 3071 All’esecuzione delle pene accessorie si procede secondo l’art. 662 c.p.p ed è avviata dal p.m. mediante trasmissione dell’estratto della sentenza agli organi della polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza e, occorrendo, agli organi interessati, indicando le pene accessorie da eseguire, detraendosi il periodo di applicazione di eventuali misure cautelari interdittive sofferte ex. Art. 288, 289 e 290 c.p.p . Sul punto C. 10.11.2004, C., CED 230129;Nelle ipotesi invece previste dagli art. 32 e 34 il p.m. trasmette l’estratto della sentenza al giudice civile competente (art. 662 co.1 c.p.p.). Pene accessorie ed effetti penali L’art. 20 accomuna le pene accessorie agli effetti penali, ricomprendendole fra questi. Se è quindi indubbio che vi sia una parziale coincidenza tra effetti penali e pene accessorie, anche per alcuni aspetti contenutistici, controverso è in dottrina in base a quali criteri si possano distinguere gli uni dalle altre. Accanto al criterio nominalistico, cui alcuni autori affiancano diversi parametri sintomatici, quale l’analogia strutturale con le pene accessorie nominate, i limiti temporali di durata ecc. , si propone una distinzione basata su un dato quantitativo: mentre le pene accessorie imporrebbero limitazioni in diversi settori della sfera giuridica, contribuendo a delineare lo status del soggetto, gli effetti penali inciderebbero su una specifica area Frisoli “ La riforma della sospensione condizionale della pena” SCP 1965 pag. 410. Altra parte della dottrina collega le pene accessorie alla gravità del reato e alle modalità con cui è stato realizzato, mentre gli effetti penali alla pronunzia della sentenza di condanna; Cerquetti “ Pene accessorie” ED XXXII, 1982 pag. 825 ancora, muovendo dalla circostanza che l’art. 662 c.p.p opera solo per le pene accessorie, si sottolinea come queste ultime rappresentino delle conseguenze automatiche e certe della condanna, a differenza degli effetti penali che, pur automatici, il più delle volte sono solo una conseguenza eventuale Larizza “ Pene accessorie” pag. 209 e ss. . Sul carattere meramente eventuale degli effetti penali C. 8.7.1991, Figliuolo, CP 1993, 77, condivisibile appare peraltro quell’opinione che, preso atto dell’attenuazione dell’automatismo di alcune pene accessorie rispetto agli effetti penali, coglie il carattere distintivo delle stesse nell’applicazione necessariamente congiunta ad una pena principale. Pene accessorie e cause di estinzione di punibilità Le cause di estinzione della pena presuppongono che sia intervenuta una sentenza di condanna definitiva e che l’esecuzione della pena sia già iniziata. Esse sono: L’amnistia impropria che interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna, determinando la cessazione dell’esecuzione della condanna e delle pene accessorie, ma non degli effetti penali. La morte del reo dopo la condanna ( art. 171 c.p.) L’indulto ( art. 174 c.p.): è concesso con legge dal Parlamento ( art. 79 Cost.) e condona, in tutto o in parte, la pena o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna; La grazia ( art. 174 c.p.): come l’indulto, condona in tutto o in parte la pena inflitta o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. La concessione della grazia rientra nei poteri del Presidente della Repubblica ( art. 87 Cost.). a differenza dell’indulto, che è provvedimento di carattere generale, la grazia ha carattere individuale; La prescrizione ( artt. 172 e 173 c.p.): il decorso del tempo attenua l’interesse dello Stato non solo ad accertare il reato, ma anche ad eseguire la pena che sia stata inflitta. La prescrizione della pena può verificarsi solo dopo una sentenza o decreto irrevocabile di condanna ed ha per oggetto soltanto le pene principali, ad esclusione dell’ergastolo. I periodi di tempo necessari al verificarsi della prescrizioni vanno per le diverse specie di pene e sono fissati dagli aticoli 172 e 173 del codice penale; La liberazione condizionale ( art. 176 e 177 c.p.): costituisce una specie di premio per il condannato che abbia dato prove costanti di buona condotta. Infatti la liberazione può essere concessa al condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, purchè abbia scontato almeno 30 mesi e, almeno la metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i 5 anni. La riabilitazione ( art. 178 c.p.): essa estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, alle condizioni e con modalità previste dagli art. 179 e segg. C.p.; La non menzione della condanna nel certificato dl casellario giudiziario: più che una causa di estinzione della pena, si tratta di una causa di estinzione di uno degli effetti penali della condanna. Può essere concessa dal giudice solo in presenza di una prima condanna e se è inflitta una pena detentiva non superiore a due anni ovvero una pena pecuniaria non superiore a 1 milione di lire ( art. 175 c.p.); L’esito positivo del periodo di prova nel caso di affidamento in prova al servizio sociale ( art. 476 del nuovo ordinamento penitenziario); La liberazione anticipata, prevista dall’art. 54 del nuovo ordinamento penitenziario, che consiste nella riduzione della pena, per il condannato che abbia contribuito fattivamente alla propria rieducazione, nella misura di 20 giorni per ogni 6 mesi di detenzione subita. L’art. 183 c.p. stabilisce, infine, i principi da ossrvare in caso di concorso di cause estintive del reato o della pena, prevedendo che: In caso di concorso di una causa di estinzione del reato e di una causa di estinzione della pena, prevale la prima; Se intervengono, in tempi diversi, più cause di estinzione, la causa precedente estingue il reato o la pena, mentre quelle successive agiscono sugli effetti residui; Se più cause di estinzione intervengono, invece, nello stesso tempo, i relativi effetti si sommano. Da ultimo bisogna evidenziare che la legge 8 agosto 1995 n. 332 ha recato talune modificazioni in tema di disciplina della sospensione del corso della prescrizione, disponendo, più precisamente, che il corso della prescrizione rimane sospeso nei casi di autorizzazione a procedere, o di questioni differita ad altro giudizio, e in ogni caso in cui l sospensione de procedimento penale o dei termini di custodi cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge. La sospensione del corso della prescrizione, nei casi di autorizzazione a procedere, si verifica dal momento in cui il pubblico Ministero effettua la relativa richiesta. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa di sospensione. In caso di autorizzazione a procedere, il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. In particolare per le pene accessorie : L’amnistia impropria (art. 151 c.p) determina l’interruzione dell’esecuzione e la cessazione della pena accessoria; non opera se questa ha esaurito in precedenza i propri effetti C 29.10.1982, Privitera, GP 1983, III, 66;. Per l’ammissibilità dell’oblazione (art. 162 e 162bis) non rilevano le pene accessorie, ma solo quelle principali. Per effetto della riforma dell’art. 4 l. 19/1990 la sospensione condizionale della pena estende i propri effetti anche alle pene principali (art.166 c.p.). È causa estintiva specifica delle pene accessorie, oltre che degli effetti penali, la riabilitazione (art. 178) che consente di recuperare le facoltà giuridiche perdute, ma non ha efficacia retroattiva. L’indulto e la grazia incidono sulle pene accessorie solo se il relativo decreto lo preveda espressamente (art. 174 co.1). i provvedimenti clemenziali più risalenti limitavano l’indulto alle pene accessorie temporanee nella misura in cui fosse condonata la pena principale. La giurisprudenza ha posto come condizione indispensabile per l’estendibilità dell’indulto alle pene accessorie l’applicabilità in astratto del beneficio delle pene principali, non rilevando l’applicazione in concreto. C 11.10.1982 Bellini, CP 1984, 300 In più recenti provvedimenti il Legislatore, anticipato da isolate pronunzie i legittimità, ha invece disposto il condono integrale delle pene accessorie temporanee Art. 9 d.P.R. 744/1981; art.2 d.P.R 394/1990; in applicazione di tale ultima norma la S.C. ha stabilito, in ipotesi di reati uniti dalla continuazione, l’applicabilità dell’indulto per intero alle pene accessorie anche se il beneficio sia riconosciuto per le pene principali solo parzialmente in relazione al tempo di commissione del delitto e per alcuni dei delitti uniti dal vincolo de quo.. Non opera sulle pene accessorie la prescrizione della pena (art. 173) ; uniche eccezioni, le ipotesi in cui tali pene siano applicabili durante l’applicazione delle pene principali (rt. 32 co.3). tale mancata estensione degli effetti della prescrizione alle pene accessorie temporanee, tuttavia, solleva dubbi di ragionevolezza, considerato che con l’applicazione di tale istituto si rinuncia ad eseguire quelle principali. Pisa “ Le pene accessorie” Milano 1990 pag. 67 e ss. CAPITOLO 3 Art. 77 determinazione delle pene accessorie Le pene accessorie sono pene che possono essere definite aggiuntive poiché conseguono ad una pena principali. Diversi sono i modi in cui le pene accessorie possono essere comminate: le modalità comminatorie edittali a differenza di quelle principali è di regola contenuta nella stessa disposizione che prevede la fattispecie incriminatrice. La pena accessoria può essere comminata in rapporto ad una o più determinate fattispecie come avviene ad esempio con la pena accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici che consegue ai delitti di peculato (art. 314 c.p.) e di concussione (art. 317); la pena accessoria, inoltre, può essere applicata attraverso clausole generali che hanno la funzione di collegare una determinata pena accessoria ad una categoria di reati; le categorie di reati, poi, posso essere individuate o attraverso determinati caratteri strutturali della fattispecie, oppure possono essere individuati in modo ancora più generale, attraverso cioè il riferimento alla loro gravità. 1.1 Concorso di pene accessorie: Concorso di reati e limiti massimali di alcune pene accessorie Il concorso si verifica allorché l’agente, con un’unica azione od omissione o con una pluralità di azioni od omissioni violi la stessa o diverse disposizioni penali incriminatrici; ne primo caso si avrà un concorso formale, nel secondo caso si avrà un concorso materiale dei reati ( nel caso in cui la pluralità di azioni od omissioni siano esecutive dello stesso disegno criminoso, reato continuato). Concorso formale, concorso materiale e reato continuato prevedono risposte sanzionatorie diverse in considerazione del ritenuto minor disvalore penale della condotta unitaria violatrice di diverse disposizioni penali rispetto ad una pluralità di azioni integranti, ciascuna, un fatto di reato autonomo. Il concorso materiale di reati non è espressamente contemplato dal codice che ne disciplina esclusivamente la risposta sanzionatoria agli art. 73 ( nel caso in cui le pene da applicare siano della stessa specie) e art. 74 e 75 (ove le pene da applicare siano di specie diversa). Tuttavia possiamo stabilire che il concorso materiale si caratterizza per la compresenza di una pluralità di condotte ciascuna integrante gli elementi materiali di altrettanti autonomi reati e ciascuna sorretta da un’autonoma volizione. In caso di concorso materiale il legislatore prevede che la pena si ove possibile unica e risultante dalla sommarietà delle pene previste per ciascun reato. In ogni caso la rigoroso applicazione del tot crimina tot poenae è temperata da alcuni limiti previsti dagli art. 78 e 79 c.p e con riferimento all’ergastolo dall’art. 72. In particolare viene previsto che la pena detentiva, da sola o unitamente a quella dell’arresto non possa eccedere i 30 anni e che nel caso in cui all’art. 73 la pena da applicarsi non possa, in ogni caso, eccedere il quintuplo della pena prevista per il reato più grave ( il limite per l’arresto nel caso previsto dall’art. 73 cp è quello di sei anni). Il concorso formale invece si verifica allorché un soggetto con un’unica azione o omissione violi più volte la stessa disposizione di legge incriminatrice o diverse disposizioni incriminatrici. In tal caso la risposta sanzionatoria del legislatore è quella del cumulo giuridico, viene, cioè, applicata la pena prevista per il reato più grave commesso aumentata fino al triplo. Il concorso formale può essere distinti in concorso omogeneo o eterogeneo a seconda che la disposizione violata sia una sola o siano plurime. Se le per l’applicazione delle pene principali le linee guida sono abbastanza definite nel caso di concorso di reati, la stessa cosa non può affermarsi riguardo al concorso di pene accessorie che tal volta presentano una maggiore difficoltà. l’art. 77 del codice penale presenta un’importante deroga al principio enunciato dall’art.76. Le pene concorrenti sia della stessa specie sia di diversa specie, si considerano bensì come pena unica, ma per le pene accessorie e per “ogni altro effetto penale della condanna il giudice deve considerare le pene stabilite per ciascun reato, o comunque i singoli reati per cui la condanna è intervenuta. In questa eccezione non sono ricomprese le misure di sicurezza per le quali bisognerà distinguere il concorso di pene della stessa specie da quello di pene della specie diversa . Sono invece ricompresi gli effetti penali della condanna che si risolvono in situazioni soggettive del condannato limitative di benefici o aggravatrici della sua posizione giuridica : l’estensione del riferimento diviene in tal modo notevole. Il secondo comma dell’art. 77 c.p. detta una regola generale in tema di concorso di pene accessorie della stessa specie esplicando anche nei loro confronti il cumulo materiale; l’applicazione per l’intero sta a significare che non si hanno riduzioni di sorta nella loro durata (sono salvi però i limiti dell’art. 79), ma si comprende nello stesso tempo che le pene accessorie di specie diversa si cumulano a loro volta e sono applicate distintamente. Come risulta dall’art. 77 c.p. le pene accessorie in caso di concorso di reati si determinano sulla base dei singoli reati concorrenti e delle singole pene principali corrispondenti a ciascuno di essi ed il cumulo materiale vale anche per il concorso di pene accessorie. L’art. 79 tuttavia introduce anche per alcune di queste, come per le pene principali, il sistema del cumulo materiale temperato. La regola è dunque che ciascuna delle pene accessorie conseguenti alla condanna si applica non solo distintamente ma anche quando siano della medesima specie , per l’intero, cioè senza riduzioni. Se si tratta però di interdizione ( ovviamente temporanea) dai pubblici uffici, oppure da una professione o da un’arte l’eventuale durata della pena accessoria ( per i diversi e singoli reati ) complessivamente superiore ai dieci anni viene ridotta a tale termine; mentre per la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte il massimo complessivo è fissato a cinque anni. La durata non espressamente determinata: due impostazioni; critica L’art. 37 c.p prescrive che: “Quando la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria” . Sulla durata delle pene accessorie possono sorgere alcuni problemi; ovviamente nessun problema esiste quando si tratti di pene accessorie perpetue per disposizione di legge, salvo in questi casi, la possibilità di un’estinzione della pena principale Ricordiamo brevemente che casi di estinzione del reato sono riportati nel libro 1 titolo VI capo I del codice penale. cui accedono o delle pene accessorie medesime in via diretta. Cfr. p.e. art. 32/4 Prendiamo quindi in questo paragrafo in esame le sole pene accessorie temporanee, questione sulla quale si registra in dottrina e in giurisprudenza, in particolare per ciò che riguarda alcune pene accessorie previste da leggi speciali, un contrasto piuttosto netto. Secondo una prima impostazione, infatti l’art. 37 avrebbe una portata del tutto generale e sarebbe quindi sempre applicabile a meno che non si tratti ovviamente una pena accessoria per cui la legge preveda diversamente una durata fissa. Si faccia l’esempio dell’interdizione ai pubblici uffici per un periodo di anni 5 nel caso di condanna alla reclusione non inferiore a tre anni: vedi art. 29/1 Secondo un’altra tesi invece, la durata viene interpretata diversamente: la durata espressamente determinata di cui all’art 37 co 1 si interpreta non già nel senso di previsione di pena fissa bensì, di esplicita presa di posizione legislativa in ordine alla durata della pena accessoria. L’art. 37 sarebbe da applicare, secondo questa impostazione, soltanto quando la legge non indichi né una misura fissa, né un minimo e un massimo di durata per la singola pena. Dove viceversa si abbia questa indicazione legale, deve essere riconosciuto al giudice un potere discrezionale nella determinazione del periodo concreto, potere che egli eserciterà secondo i canoni consueti dell’art. 133. Questa impostazione è condivisa da diversi autori tra i quali spicca Pisa, Pene, 60, 132; nel risultato anche Nastro, in Msp, II,204; Mucciarelli, in Cmsp, 524; Vinciguerra, Riforma, 418; anche la giurisprudenza ha più volte abbracciato questa tesi: con riguardo all’art. 217 l.f., C. 29 marzo 1960, in Ridpp 1961, 501. Nessuna delle due impostazioni appare però del tutto soddisfacente. Non la seconda, perché finisce per relegare quello che appare ictu oculi un principio generale di applicazione delle pene accessorie, in linea con il fondamentale automatismo di accessione alle pene principali al quale senza dubbio si ispirano i compilatori del codice, nella posizione del tutto marginale di criterio meramente sussidiario, da applicare in sostanza, al di fuori delle ipotesi di pene accessorie fisse, soltanto quando la legge non abbia inopinabilmente indicato un limite minimo e massimo. A questo proposito Pisa, Pene, 60 Ma neppure la prima ipotesi può ritenersi accettabile dal momento che vi sono nel sistema normativo delle ipotesi per le quali il principio di equiparazione temporale tra pena principale e pena accessoria non può trovare accoglimento. Ciò avveniva per esempio già per l’art. 2638, co 2° c.c originario, ove la durata sino a dieci anni (“non inferiore a tre e non superiore a dieci “) era un evidente indice rivelatore della ricerca legislativa di una severità ben maggiore di quella consentita dall’equiparazione cronologica tra la pena principale irrogabile per i delitti in questione e la pena accessorie dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi. Lo stesso può dirsi per l’art. 6 l. 20 febbraio 1958 n. 75 dal quale si evince tra l’altro l’nesattezza dell’art. 37 là dove afferma che “in nessun caso essa può oltrepassare…”, poiché si hanno evidentemente previsioni specifiche come questa, in cui nella specie il limite massimo di durata dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici (vedi art. 28, co 4°) può essere superato ( vedi art. 20/13). E analogo discorso valeva per l’art. 5, co 1° l. 15 dicembre 1990 n. 386, dove la durata della pena accessoria del divieto di emettere assegni bancari e postali veniva fissata per un periodo da uno a due anni, a fronte di una previsione di pena principale, per i reati di cui all’art. 1 e 2 ( oggi depenalizzati in base alla legge 507/1999), rispettivamente di uno o di otto mesi nel massimo. La soluzione del problema può essere prospettata nei seguenti termini: non vi è alcuna ragione valida che, prima di una riforma legislativa che ampli anche in questa direzione il potere discrezionale del giudice, autorizzi a negare sin d’ora all’art. 37 il ruolo di norma che sancisce un principio generale applicabile, al solito, anche nella legislazione cosiddetta complementare fino a che non risulti in modo espresso o tacito una deroga per singole ipotesi o gruppi specifici di ipotesi. La disposizione in esame, cioè, detta un criterio guida, valido sia per le pene accessorie previste dal codice penale sia per le pene accessorie speciali in quanto non sia diversamente stabilito: “ quando (…) la durata (…) non sia espressamente determinata” significa, nell’art. 37, “ se la legge non provveda ad hoc per il caso o i casi di specie in termini incompatibili con il principio di equiparazione temporale”. computo delle pene accessorie. Valutazioni critiche sono state mosse sotto diversi aspetti, addirittura sul piano costituzionale, nei confronti di quanto previsto dall’articolo 139, c.p., ossia al computo delle pene accessorie. Questa disposizione del codice, a ben vedere, permette di superare i limiti stabiliti in relazione a singole pene accessorie temporanee. Su questo proposito si fa riferimento soprattutto sia al caso del mancato computo del periodo in cui il soggetto si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena, sia a quello della non computabilità della durata dell’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, nei casi nei quali avviene sostanzialmente una trasformazione della durata della pena accessoria da determinata o temporanea a indeterminata o perpetua, ma anche al caso del mancato computo del periodo di esecuzione della pena principale. La norma in esame appare di dubbia compatibilità con l’articolo 27, 3° comma Cost., in quanto se il legislatore è libero di articolare discrezionalmente nel tempo la reazione dell’ordinamento all’illecito, è comunque di precaria ragionevolezza un sistema che dopo l’esecuzione della pena detentiva principale fa agir, ovvero computa soltanto in quel momento, una ulteriore pena già conseguita alla condanna, che può notevolmente ostacolare il reinserimento sociale del soggetto. Le pene accessorie temporanee hanno effetto anche durante il tempo in cui è eseguita ovvero è eseguibile la pena principale, ma nel loro computo non si tiene conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva, ovvero è sottoposto a misura di sicurezza detentiva, e nemmeno del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza. Manzini osserva che, salvo l’effetto in discorso, la durata delle pene cominci a decorrere dal giorno in cui è cessata l’esecuzione della pena detentiva temporanea o della misura di sicurezza detentiva. Ai sensi dell’articolo 37, 135 e 139, c.p., in relazione alla pena detentiva, la pena accessoria temporanea decorre dal momento dell’irrevocabilità della condanna ma la sua durata si protrae dopo cessata l’esecuzione della pena principale detentiva inflitta; in relazione alla pena pecuniaria, la pena accessoria temporanea decorre sempre dall’irrevocabilità della decisione e dura quanto durerebbe la pena detentiva se ci fosse conversione, omettendosi di contare il periodo trascorso in stato detentivo nel caso di detenzione parziale o totale; in relazione alla misura di sicurezza detentiva, la pena accessoria temporanea opera correttamente finchè dura la misura di sicurezza, cioè per tutta la durata della pericolosità, ma anche non correttamente dopo cessata la sicurezza, ossia a pericolosità; inrelazione tanto alla pena principale, detentiva o pecuniaria, quanto alla misura di sicurezza detentiva, la pena accessoria temporanea produce i suoi effetti anche durante il periodo di tempo in cui il reo si è sottratto volontariamente alla sua esecuzione, ma il tempo in discorso non si computa nella sua durata. Frisoli, “ La riforma della sospensione condizionale della pena” 1965 pag. 841. L’articolo 139 c.p., non si applica nei casi in cui la legge specifica espressamente che la pena accessoria opera durante la pena, da intendersi come eseguibilità della pena, non come concreta espiazione Così ad esempio nell’interdizione legale del condannato alla reclusione non inferiore a cinque anni e nell’eventuale conseguente sospensione della potestà dei genitori ai sensi dell’articolo 32, 3° comma c.p. . Peraltro, alla luce della ratio della norma in oggetto, ovvero di non stemperare nella contemporaneità delle esecuzioni della pena principle e della pena accessoria la concretezza e l’efficacia della seconda, la norma in esame non dovrebbe applicarsi non soltanto laddove non sussista la contemporaneità di esecuzione della pena detentiva principale e della pena accessoria , ma anche nei casi in cui detta contemporaneità non comporti una pratica inerzia della pena accessoria stessa. Così si dovrebbe computare nella durata della pena accessoria temporanea non solo il periodo di rinvio obbligatorio o facoltativo della pena, ma anche il periodo di esecuzione della semidetenzione o della libertà controllata sostitutive delle pene detentive brevi, in deroga all’equiparazione assoluta tra pena detentiva sostitutiva e sanzione sostitutiva non pecuniaria di cui all’articolo 57, 1° co., l. 24. 11. 1981, n. 689. La pena accessoria temporanea non produce i suoi effetti soltanto nel tempo in cui l pena principale è eseguita o eseguibile, perché così fosse le pene accessorie sarebbero illusorie, ovvero il loro effetto si identificherebbe di regola con la pen principale. La scelta del legislatore espressa nel principio della norma in discorso on risponde d imprescindibili motivazioni logiche, sostanzialmente neutre, ma ad un’opzione di carattere punitivo nei confronti del reo. Invero, se è vero che determinate pene accessorie, ed in particolare l’interdizione dall’esercizio di pubblici uffici o professioni o altro, non possono essere applicate al detenuto o internato per il loro status soggettivo che le renderebbe un nonsenso, è anche vero che vi sono situazioni che rappresentano la possibilità di fatto di esercitare uffici o attività durante l’espiazione della pena , ad esempio per la concessione di una misura alternativa alla detenzione quale la semilibertà. Pisa, “ Le pene accessorie” 1964, pag. 62-64. La ratio della norma in oggetto è quella di non annacquare l’afflittività delle pene accessorie in una contemporaneità del decorso esecutivo con la pena principale o con la misura di sicurezza detentiva, nei fatti il legislatore aggiunge nuova ulteriore afflittività, distribuita nei tempi più lunghi. art. 389 Inosservanza di pene accessorie. A proposito del secondo comma dell’articolo in esame Art. 389 c.p. “ chiunque, avendo riportato una condanna da cui consegue una pena accessoria, trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti tale pena, è punito con la reclusione da due a sei mesi. 2. la stessa pena si applica a chi trasgredisce agli obblighi o ai divieti inerenti ad una pena accessoria provvisoriamente applicata”. Occorre precisare che l’articolo 140 c.p. in tema di applicazione provvisoria di pene accessorie è stato abrogato dall’art. 217 disp. Coord., c.p.p., il quale ha altresì abrogato ogni disposizione che prevedeva l’applicazione provvisoria di pene accessorie, e ciò in quanto il nuovo codice di procedura penale, e precisamente nel suo libro V, ha disciplinato in modo organico e ordinatole misure cautelari interdittive. conseguentemente, la fattispecie penale al suo secondo comma si applica oggi alle misure cautelari interdittive previste e regolate dal codice di procedura penale. bisogna innanzitutto far riferimento oggi non più al codice penale ma al codice di procedura penale nel quale sono contenute e specificate le sanzioni previste in caso di violazione delle pene interdittive provvisorie. Il reato in esame consiste nella reclusione da due a sei mesi PIOLETTI “ Inosservanza di pene accessorie” 1983 PAG. 283 e ss.. Soggetto attivo del provvedimento è il condannato in via definitiva ad una pena cui consegua una pena accessoria, per la fattispecie del primo comma dell’articolo in discorso, o è stato sottoposto ad una misura cautelare interdittiva, per la fattispecie di cui al secondo comma. Invero tra i reati di inosservanza, di cui agli articoli 389-391 del c.p., la disposizione in oggetto sull’inosservanza di pene accessorie è l’unica che incrimina l’attività del reo, laddove gli altri considerano l’attività degli agevolatori della ribellione del soggetto sottoposto a pena o misure di sicurezza detentive MANZINI 1981, Pag. 1107 con l’osservazione che del delitto in discorso commesso dal soggetto condannato alla pena accessoria con la connivenza di chi aveva l’obbligo giuridico di impedirlo risponde anche il connivente ai sensi dell’art. 40, 2° comma c.p.. L’interesse tutelato dalla norma in parola è quello che il condannato o l’imputato ottemperi agli obblighi o divieti imposti con la pena accessoria o con la misura interdittiva applicata, e la sua ratio è fondata sul fatto che le pene accessorie non sono suscettibili di esecuzione materiale e, pertanto, occorre una coazione indiretta rappresentata dalla sanzione penale PIOLETTI in “ inosservanza delle pene accessorie”, afferma invero che nella maggior parte dei casi l’esecuzione della pena accessoria o della misura interdittiva, non essendo suscettibile di esecuzione materiale, è affidata al condannato o all’imputato.. Nella scelta del legislatore di prevedere l’incriminazione in oggetto, può cogliersi la volontà di mantenere un parallelismo con le pene principali e le misure di sicurezza, onde evitare un declassamento delle pene accessorie in carenza di una norma incriminatrice dell’inosservanza, e quindi un atteggiamento di valorizzazione della pena accessoria Tale finalità è espressa soprattutto dall’allargamento dell’ambito di applicabilità e dalla modifica del profilo sanzionatorio della fattispecie penale in discorso. In particolare vedi Pisa “ Le pene accessorie” 1990, pag. 133-136.. La sanzione della sola pena detentiva per il reato in questione è un risvolto significativo del proposito del legislatore di un’ampia valorizzazione delle pene accessorie come misure interdittive. Nella sua formulazione la norma menziona espressamente anche la trasgressione ai divieti, con ciò riferendosi alle pene interdittive. La norma inoltre, si riferisce anche all’inosservanza di tutte quelle pene accessorie previste da leggi speciali A tal proposito Pisa in “Le pene accessorie” 1990, sostiene che la generalizzazione dell’incriminazione va intesa con riferimento alle pene accessorie suscettibili di inosservanza, ovvero che impongano obblighi o divieti che il reo può violare, così ad esempio, non è applicabile nel caso della pubblicazione della sentenza penale di condanna, anche se il soggetto cerchi di sottrarsi al pagamento delle spese relative alla pubblicazione della medesima.. La, disposizione in parola, particolarmente, si riferisce ai casi in cui l’esecuzione della pena accessoria è in medesima parte affidata al soggetto stesso, il quale deve astenersi da comportamenti in contrasto con il contenuto della pena accessoria applicata. È possibile applicare la fattispecie penale in esame anche nei casi in cui il soggetto condannato alla pena accessoria commette il reato di inosservanza delle pene accessorie per interposta persona Nella giurisprudenza Cass., Sez. I, 18-01-1937, Longinotti, Barchetti, RP, 1937, II, 928, motivazione secondo la quale costituisce questione di fatto insindacabile in cassazione il ritenere che la persona condannata alla sospensione dall’esercizio del commercio, nonostante abbia dichiarato ai competenti uffici amministrativi la cessazione del commercio per alienazione del suo stabilimento, continui invece ad esercitare il commercio per interposta persona allo scopo di sfuggire alle conseguenze della condanna. In dottrina Pisa, pag. 140-145, afferma che la questione riguarda il problema dell’elusione degli obblighi o divieti inerenti alla pena accessoria e, dopo aver approfondito l’analisi della casistica, ha sostenuto che in argomento è necessario riconoscere al giudice il potere di compiere valutazioni in profondità per non privare di margini reali di applicabilità delle pene accessorie, addebitando, poi, al legislatore un’ingenuità incredibile. . L’elemento psicologico del reato in oggetto, nelle sue due ipotesi, è il dolo generico PIOLETTI in “ Inosservanza delle pene accessorie”, sostiene che è necessaria la conoscenza del presupposto della condotta, ovvero che la pena accessoria è conseguita ad una sentenza di condanna o è stata applicata con provvedimento cautelare, mentre sono irrilevanti, invece, i motivi o lo scopo della condotta vietata. . Il reato in esame è eventualmente permanente e si consuma nel momento e nel luogo in cui è commesso il fatto tipico di trasgressione ANTOLISEI 1997, pag. 507 con la precisazione del riferimento al fatto che concreta la violazione di uno o più obblighi derivanti dalla pena accessoria. MANZINI pag. 1106 e ss, nel senso del reato unico anche se sono trasgrediti più obblighi riguardanti la stessa pena accessoria. . Il delitto in oggetto è un reato abituale, nel senso che l’inosservanza di una pena accessoria può concretarsi nel compimento anche di un solo atto di trasgressione agli obblighi o divieti, mentre l’eventuale reiterazione delle trasgressioni, non dà luogo ad altrettante autonome violazioni dell’articolo 389, c.p. ma integra un unico delitto PISA, “Le pene accessorie” 1984, 149-151, dove si afferma che vi sono situazioni nelle quali l’inosservanza di pene accessorie si concretizza in singole prestazioni o atti, saltuari o addirittura sporadici, di violazioni di obblighi o divieti, non sussumibili nello schema della permanenza. . La persona estranea che aiuti il condannato nella trasgressione di una pena accessoria risponde non a titolo di concorso, ma dell’autonomo reato dell’articolo 390, c.p., in tema di procurata inosservanza di pena MANZINI ha precisato, da un lato, che deve trattarsi di una persona non obbligata giuridicamente a impedire il delitto in questione, e, dall’altro, che è possibile altresì la compartecipazione ai sensi dell’art. 110 ss., c.p.. Il concorso di persone estranee nell’inosservanza di pene accessorie è riconducibile esclusivamente all’articolo 389 c.p. con la mediazione dell’art. 110, c.p. PISA “ Le pene accessorie”, con la considerazione dell’impossibilità la fattispecie di procurata inosservanza di pene all’inosservanza di pene accessorie, sia per la differenza strutturale e sanzionatoria tra le previsioni degli art. 389 e 390 c.p., laddove il secondo è avvicinabile all’art. 385, c.p. in tema di evasione e, quindi, applicabile solo alle pene principali. . nel caso della commissione del reato in questione non è possibile sospendere o reiterare l’applicazione della pena accessoria stessa. Si tratta di una grave lacuna dell’ordinamento giuridico assolutamente incolmabile in via interpretativa. L’esecuzione delle pene accessorie. La pena accessoria si attua per effetto del giudicato, e quindi con decorrenza dal giorno in cui la sentenza di condanna diviene irrevocabile. Un’attività propriamente esecutiva della relativa pronuncia non è concepibile, poiché nessun atto ulteriore potrebbe togliere o comunque modificare quella capacità che il condannato ha già perduto per effetto della sentenza. Per conseguenza, la sospensione dell’esecuzione delle pene accessorie, disposta dal giudice dell’esecuzione in sede di incidente, deve considerarsi nulla siccome abnorme Cass. 07-02-1966, Serra, C.E.D. Cass. Pen.,101877, la quale ha aggiunto che di un simile provvedimento non può tenersi conto nel computare la durata della pena accessoria, dovendosi in tal computo comprendere anche il periodo di tempo durante il quale l’esecuzione è stata in apparenza sospesa. . Le pene accessorie sono conseguenze immancabili e ineluttabili della sentenza di condanna, in relazione alla natura del reato o all’entità della pena inflitta. La natura delle pene accessorie, quindi, è di sanzioni previste dalla legge in caso di condanna per un determinato reato, la quale si aggiunge e accede alla pena principale, secondo il principio giuridico accessorium sequitur principale. Anche le pene accessorie, pertanto, sono regolate dal principio di legalità e, quindi, qualora una sanzione possa definirsi come pena accessoria, in quanto trova nella legge tale espressa qualificazione ovvero presenta i requisiti che l’ordinamento attribuisce a tale tipo di sanzione, tale sanzione penale consegue di diritto ad una sentenza di condanna ed è predeterminata in ogni sua parte, tra l’altro anche nelle modalità esecutive, dalla legge. Così anche in materia di esecuzione delle pene accessorie, si deve osservare il principio fondamentale dell’esecuzione secondo il quale il giudice dell’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale, non può apportare modifiche o integrazioni che implichino l’esercizio di un potere discrezionale sia come quantità di pena sia come modalità esecutive della sanzione, in quanto tale potere è riservato esclusivamente al giudice di cognizione CATELANI “Manuale dell’esecuzione penale” Giuffrè editore, 1998, pag. 587-589.. A proposito dell’esecuzione delle pene accessorie, l’interdizione legale e la decadenza o sospensione dell’esercizio della patria potestà dei genitori sono eseguite dal pubblico ministero attraverso la trasmissione dell’estratto della sentenza di condanna al giudice civile competente, mentre per le altre pene accessorie il pubblico ministero trasmette direttamente agli organi di polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza e, ove necessario, agli altri organi interessati, in tal caso indicando le pene accessorie da eseguire. Effetti della sospensione. Il testo attuale dell’art. 166 è stato introdotto con l’art.4 della legge 7.2.90 n. 19. Il testo previgente conteneva una regolamentazione antitetica della materia, stabilendo senz’altro che la sospensione condizionale della pena non estendesse i suoi effetti alle pene accessorie, agli effetti penali di condanna né alle obbligazioni civili nascenti da reato.ne conseguiva che le pene accessorie erano eseguite durante il tempo per il quale la pena detentiva rimaneva sospesa e venivano meno soltanto con il verificarsi dell’effetto estintivo della pena principale Art. 167 comma 2 nel testo precedente alla modifica attuata dall’art. 6 l. 7.2.90 n.19; ANTONINI “contributo alla dommatica delle cause estintive del reato e della pena”, Milano 1988. Proprio l’estensione alle pene accessorie dell’effetto estintivo (ma non di quello sospensivo) aveva indotto la giurisprudenza a sottolineare l’interesse del reo a vedersi concessa la sospensione condizionale anche nelle ipotesi in cui la pena principale fosse stata scontata in regime di custodia cautelare Cass. II 4.7.84, Aiosa, R PEN 1985, 739. Sulla base di analoghi rilievi, la giurisprudenza affermava l’interesse dell’imputato a vedersi concesso l’indulto anche in caso di condanna a pena sospesa, dato che tale pronuncia consentiva l’efficacia delle pene accessorie per il termine di tempo necessario al verificarsi dell’effetto estintivo, mentre on i più recenti provvedimenti sull’indulto si era stabilito che lo stesso si estendesse, con l’efficacia estintiva, anche alle pene accessorie Cass. II 15.6.83, Mazzaglia, R PEN 1986, 173; Cass. 16.6.83, Bionda, G PEN 1984, II, 291. La mancata estensione dell’efficacia sospensiva dell’istituto descritto dall’articolo 163 alle pene accessorie aveva indotto non poche perplessità in coloro i quali rilevavano la efficienza punitiva delle pene accessorie, tale da porre seri ( se non insormontabili) ostacoli alla possibilità del condannato di svolgere il proprio lavoro o di avere contatti con la propria famiglia CONTENTO “sospensione condizionale, sanzioni sostitutive e pene accessorie”, R IT DPP 1985, 1096.In altre parole, se la sospensione condizionale della pena, evitando l’incarcerazione del condannato per reati di relativa gravità ( sulla base di una valutazione prognostica quanto meno dell’inutilità di tale regime) ed in assenza di precedenti penali ostativi, perseguiva l’attuazione di un regime più favorevole al recupero sociale del reo, le pene accessorie potevano conseguire l’effetto di vanificare de tutto tale sforzo. Se il recupero, tradizionalmente inteso, presuppone il reinserimento sociale del reo attraverso il lavoro, la cultura e la famiglia, le pene accessorie interferivano sulla possibilità di attuare proprio tale progetto, inibendo contatti con la famiglia (art. 34) o impedendo al soggetto di svolgere un lavoro 8 art. 30 e ss). Dubbi di costituzionalità di tale regime erano però stati respinti dalla giurisprudenza come manifestamente infondati Fra tanti si veda Cass. 26.11.81, Faina, R PEN 1982, 1044. Si è così osservato come la riforma del 1990 si caratterizzi per uno spiccato connotato special- preventivo, in quanto animata dall’intento di non compromettere le opportunità di reinserimento del reo ROMANO- GRASSO-PADOVANI “Commentario sistematico del codice penale vol.3”; PALAZZO “commento art. 4 l. 19/1990”, pag. 65 e ss; sulla penetrante incidenza delle pene accessorie nella sfera giuridica del condannato MANTOVANI “Diritto penale. Parte generale”, CEDAM. In realtà le opportunità della riforma del 1990 deve fare i conti con i limiti della sospensione condizionale della pena. Essendo la riforma sprovvista di qualsiasi contenuto concretamente incisivo sulla pericolosità soggettiva del reo, la sua concessione finisce per rappresentare una forma di affidamento alle capacità del singolo di non tornare a commettere reati, sulle quali si cerca di incidere attraverso la minaccia di inflizione della pena sospesa ANTONINI “contributo alla dommatica delle cause estintive del reato e della pena”, Milano 1990.. Il vuoto dei contenuti della sospensione condizionale ed i limiti ontologici della valutazione prognostica che porta alla sua applicazione, hanno portato ad un automatismo nella concessione della stessa assolutamente inaccettabile. Tale automatismo si estende dal 1990 anche alle pene accessorie, senza che questo contribuisca a mutare i termini delle critiche già proposte. Alla ricerca di una soluzione che consenta una individualizzazione della proposta sanzionatoria caso per caso, che trasformi il regime punitivo in un abito tagliato su misura per il singolo delinquente, sarebbe allora stato più opportuno consentire la sospendibilità autonoma delle pene accessorie, non vincolando tale scelta a quella che inerisce la sospensione della pena principale. La normativa del 1990, infatti, non ha introdotto tale possibilità, ma si è limitata a prevedere che alla sospensione condizionale della pena principale consegua necessariamente la sospensione della pena accessoria GIUNTA “sospensione condizionale della pena” ED XLIII, 1990.. Pur nell’esigenza di evitare che il permanere dell’effetto punitivo accessorio nella mancata esecuzione di quello principale fosse inevitabile Silvia Larizza, "Le pene accessorie: normativa e prospettive", in: Pene accessorie e sistema penale (fa parte di Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche) (2001) 3, pp.23-63 il legislatore avrebbe potuto rimettere l’apprezzamento del significato della pena accessoria e della sua utilità al giudizio del magistrato, tenendo conto dell’efficacia special-preventiva, sia pure in senso priminentemente negativo, che le pene accessorie inabilitative possono avere. A ben vedere le pene accessorie in tale prospettiva finirebbero per assumere il compito di riempire di contenuti il periodo sospensivo, trasformando la misura condizionale da un mero affidamento alla sola volontà positiva del reo, in un regime di rinuncia al carcere associato a mezzi di controllo in libertà. Si pensi alla pericolosità che consegue al far permanere il soggetto a contatto con una attività imprenditoriale o professionale, allorché il reato per cui è stato condannato sia stato commesso con abuso di essa o con violazione dei doveri ad essa inerenti. In tali situazioni sarebbe stato utile consentire al giudice di apprezzare autonomamente l’opportunità di sospendere la pena principale e di sospendere quella accessoria, ferma restando la necessità che entrambe le valutazioni avvenissero sulla base del perseguimento di scopi special-preventivi e, quindi, non in un ottica repressiva. Sarebbe stato, in conclusione, opportuno che il legislatore avesse avuto maggior fiducia nelle pene accessorie, attribuendo al giudice un potere discrezionale di apprezzarne l’utilità in astratto e, quindi, la sospendibilità in concreto PALAZZO “ Commento art. 4 l. 19/1990”, L PEN 1990. P. 66: sarebbe stato così preferibile passare da un regime di automatismo ed indefettibilità ad un regime di facoltatività, specificità e defettibilità MANTOVANI “ Diritto penale. Parte generale” CEDAM p. 792; LARIZZA “ Pene accessorie” D Pen, IX. . La scelta operata è invece della automatica estensione della sospensione della pena principale anche alle pene accessorie, tanto che non occorre che sul punto il giudice adotti alcuna specifica pronuncia T.A.R Sicilia 7.1.97, Geraci, F Amm 1997, 2130, con la quale si è ritenuta illegittima la esclusione da una gara di appalto di un’impresa il cui amministratore abbia subito una condanna che comporterebbe la pena accessoria dell’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione, ma con la quale era stata concessa la sospensione condizionale della pena; Cass. V 9.1.92, R PEN 1992, 651; tale estensione è possibile anche il giudizio di legittimità di fronte al S.C.: Cass. III 6.7.90, Donatello, R Pen 1991, 556, o durante la fase esecutiva Cass. IV 5.2.91, Segretti, AGC 1992, 351.. Tra le conseguenze di tale dipendenza, quella che alla revoca della sospensione condizionale della pena principale conseguirà l’immediata esecutività delle pene accessorie, così da far pesare per intero sul reo il meccanismo sanzionatorio la cui sospensione ha dimostrato di non meritare. Pene accessorie e sanzioni amministrative Le pene accessorie interdittive e sospensive nei co. 1° e 2° concorrono con sanzioni amministrative di carattere disciplinare che pure abbiano contenuto omogeneo. Le sanzioni disciplinari, infatti, obbediscono a criteri e perseguono finalità loro proprie, interne a rapporti di supremazia o a singole “corporazioni” ed estranee alle ragioni generali tipiche del diritto penale: ciò risulta ribadito del resto anche dall’art 12 l.24 novembre 1981, n. 689, che esclude dall’applicazione dei principi generali di derivazione penalistica, enunciati nel capo I, le violazioni disciplinari. Problematico si presenta invece il concorso tra le pene accessorie di cui all’art. 19 ed eventuali sanzioni amministrative interdittive o sospensive di natura non disciplinare. Prima ella legge 689/1981 si tendeva per lo più ad ammettere il concorso. Riconosciuta poi dall’ordinamento con l’art. 9 l. 689/1981 l’operatività del principio di specialità tra sanzioni penali e sanzioni amministrative ( purché pecuniarie e, forse, pecuniarie afflittive con funzione preventiva generale o speciale, non se meramente ripristinatorie o risarcitorie9 ne deriva l’impossibilità di un concorso tra la pena accessoria prevista dalla legge per il reato ed una sanzione amministrativa interdittiva o sospensiva che sia a sua volta accessoria ad una pena principale pecuniaria prevista dalla legge per l’illecito amministrativo; ma nello stesso tempo può cogliersi nel sistema vigente un’indicazione contraria al cumulo di pene accessorie e sanzioni amministrative aventi contenuti omogenei, se non altro quante volte la sanzione amministrativa non abbia natura e finalità spiccatamente cautelare ( ma anche in tal caso, l’indicazione sistematica è nel senso del computo del periodo dell’una in quello dell’altra. 3.1 le sanzioni amministrative accessorie Già nella seconda metà del settecento era riconosciuta l’importanza di introdurre sanzioni che avessero il potere dissuasivo nella commissione di reati. Cesare Beccaria in un passo de “ I delitti e delle pene” affermava che “ il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di difendere un delitto ormai commesso….il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal fine di far nuovi danniai suoi suoi cittadini, e di rimuovere gli altri dal farne uguali…[…] perché una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”. Il fatto che la necessità di introdurre anche nel diritto amministrativo le pene accessorie fosse sentita da lungo tempo, è ancora più evidente laddove nella relazione ministeriale al progetto governativo di legge del 1977 si leggeva : “…grave lacuna che nella vigente normativa di detta materia è stata già rilevata relativamente alla mancata utilizzazione di sanzioni amministrative diverse dal pagamento della pena pecuniaria, la cui applicabilità, come sanzioni accessorie di quelle pecuniarie, può avere una rilevante efficacia dissuasiva e può quindi consentire un ampliamento della depenalizzazione. È sufficiente porre mente alla possibilità che il prodotto della violazione amministrativa abbia un valore superiore all’entità della sanzione pecuniaria, per rendersi conto che la commissione della violazione medesima conserva una convenienza economica pur nei casi in cui venga scoperta…”. Alcune violazioni di legge (illeciti amministrativi) sono punite con sanzioni di tipo amministrativo, quali l’obbligo del pagamento allo Stato o alla pubblica amministrazione di una somma di denaro. Dopo la contestazione o notifica dell’avvenuta infrazione all’interessato, decorsi i termini per il pagamento in misura ridotta, l’autorità competente emette un’ordinanza-ingiunzione di pagamento che costituisce titolo esecutivo. Con la medesima ordinanza possono essere applicate sanzioni amministrative accessorie, previste dalle leggi vigenti per le singole violazioni. Ad esempio, in caso di violazione dell’obbligo di circolazione degli autoveicoli provvisti di carta di circolazione, è disposto il sequestro e la successiva confisca (sanzione accessoria) del veicolo che appartiene alla persona cui è ingiunto il pagamento. La valenza della sanzione accessoria è stata sottolineata dalla dottrina che ne evidenzia un aspetto preventivo tanto che talvolta viene avvicinata alle misure di sicurezza. L’art 20 della legge n. 689/1981 al comma 1 prevede la facoltà, per l’autorità, di applicare come sanzioni amministrative le sanzioni accessorie, previste in campo penale, consistenti nella privazione di facoltà e diritti derivanti da provvedimenti amministrativi. Significativa è l’applicazione in ambito amministrativo come vere e proprie pene le pene accessorie quali l’interdione o sospensione da una professione o arte, l’interdizione o sospensione da uffici direttivi di persone giuridiche e imprese aventi natura giuridica pubblica,la decadenza o sospensione da autorizzazione o licenze. Fondamentale per l’applicazione delle sanzioni accessorie è l’emissione di un’ordinanza- ingiunzione di pagamento. Il legislatore quindi si assicura che l’applicazione della sanzione accessoria sia successiva all’affermazione della responsabilità del trasgressore. In alcuni casi, tassativamente indicati, tuttavia, si può procede ad una applicazione delle sanzioni in via provvisoria. In particolare il provvedimento di confisca amministrativa si concretizza con l’espropriazione delle cose collegate all’illecito, al fine di prevenire nuove violazioni ed il quadro tracciato dall’art. 20 della legge 689/1981 evidenzia la possibilità di confisca obbligatoria o facoltativa. La confisca è obbligatoria per le cose che costituiscono il prodotto della violazione Si fa riferimento non soltanto al prodotto in senso stretto ma anche al prezzo o il lucro della trasgressione. a condizione che l’oggetto del sequestro appartenga alle persone cui è ingiunto il pagamento (art. 20, co. 3). È altresì disposta la confisca che alcuni definiscono “necessaria” anche prescindendo dall’emissione dell’ordinanza- ingiunzione ex art. 18, nel caso di cose la cui fabbricazione, uso, porto o alienazione costituisca violazione amministrativa (art. 20, co.4). tuttavia questa norma non trova applicazione nel caso in cui le cose appartengano a persone estranee alla violazione ed la cui fabbricazione, uso, ecc siano possibili mediante autorizzazione amministrativa. Per sanzioni amministrative accessorie devono intendersi quelle sanzioni che aggiungendosi, in relazione di secondarietà e complementarietà ne condividono comunque il carattere punitivo. Infatti, la sanzione amministrativa accessoria, aggiungendosi ad una sanzione amministrativa principale, ne condivide il carattere punitivo, cioè, rappresenta anch’essa una retribuzione per la violazione commessa. Vi deve essere uno stretto rapporto di complementarietà con la sanzione principale ed in questo caso il ricorso è proponibile ai sensi dell’art. 22 della legge 689/1981, diversamente, interverrebbe un difetto di giurisdizione perché si tratterebbe di atto amministrativo autonomo ricorribile alla giurisdizione amministrativa. La giurisprudenza di legittimità ha più volte sostenuto l’obbligatorietà della confisca a discapito della facoltatività della stessa in seguito ad una determinata violazione amministrativa. In particolare la sentenza della corte di cassazione civile a sezione unite del 13 febbraio 1999 n.59. in cui la corte dichiarava la giurisdizione del giudice amministrativo rispetto all’ordinanza del questore di cessazione dell’attività di ciarlatano ovvero di veggente, cassando la sentenza del pretore di Palermo, che aveva annullato gli atti dichiarandoli illegittimi. Infatti, secondo l’art. 22 della legge 689/1981 l’opposizione davanti al pretore può essere rivolta soltanto contro l’ordinanza di ingiunzione di pagamento della sanzione pecuniaria e delle spese, mentre nel caso di specie l’opposizione proposta ebbe ad oggetto, oltre al provvedimento del Questore, il semplice verbale di contestazione con cui precedentemente, l’autorità di P.S aveva avvisato della possibilità di eseguire il pagamento della sanzione in misura ridotta. La giurisprudenza ha dibattuto per lungo tempo sulla problematica inerente l’applicabilità della sanzione amministrativa accessoria della confisca rispetto alla sanzione pecuniaria principale oblata. L’orientamento maggioritario ha ritenuto che, in merito all’applicabilità della sanzione amministrativa accessoria, nessun effetto può avere l’eventuale estinzione ad esempio per avvenuta oblazione, in quanto l’art. 20 dispone l’obbligatorietà della confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione e debbono disporre la confisca delle cose che ne sono il prodotto, sempre che le cose suddette appartengano a una delle persone cui è ingiunto il pagamento. Questo legame indissolubile tra sanzione principale e sanzione accessoria è stato confermato dalla corte di Cassazione civile con la sentenza 461 del 12 gennaio 2006 nel procedimento di opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione prefettizia applicativa della sanzione accessoria della rimozione di un impianto pubblicitario e del ripristino dello stato dei luoghi non possono essere fatti valere vizi inerenti al verbale di accertamento della infrazione, avuto riguardo al fatto che l’avvenuto pagamento in misura ridotta della sanzione principale pecuniaria comporta l’accettazione della sanzione, e quindi il riconoscimento, da parte del destinatario della stessa, della propria responsabilità. Gli unici vizi che possono essere dedotti in sede di opposizione avverso il provvedimento applicativo della sanzione accessoria sono quelli propri del procedimento che si conclude con l’applicazione di detta sanzione e del provvedimento sanzionatorio. Altro tema affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, piuttosto recentemente, attiene all’applicazione delle spese sostenute dalla Pubblica Amministrazione, in seguito all’intervento sostitutivo della stessa, per poter effettuare il ripristino e la rimozione delle opere. L suprema corte di Cassazione ha stabilito che Cass. Civ. Sez. II Sent., 09-05-2007, n. 10650se ad una violazione del codice della strada consegua anche la sanzione accessoria dell’obbligo di ripristino dello stato dei luoghi o di rimozione delle opere abusive, da eseguire entro un determinato termine, nell’ipotesi di ottemperanza del trasgressore, l’ordinanza- ingiunzione emessa dal prefetto nei suoi confronti a titolo di rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione per il ripristino dei luoghi o la rimozione delle opere è un provvedimento amministrativo, funzionalmente collegato a quello impositivo della sanzione accessoria rimasto ineseguito, e sostitutivo di esso in modo da attuare la pretesa sanzionatoria dell’amministrazione. Ne consegue che anche l’ordinanza-ingiunzione contenente solo l’ordine di pagamento delle spese è opponibile nelle forme previste dall’art. 22 e 23 della legge 689/1981. la legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni. La disposizione rappresenta per così dire il pendant dell’art. 17: là sono descritte le specie di pene principali, qui si precisano invece le specie di pene accessorie In generale Pisa, “Le pene accessorie”,; Palazzo “Corso di diritto penale. Parte generale.” Giappichelli pag. , 239 e ss. ; Larizza, “ Le pene accessorie” ; Violante, “ , 263; Cerquetti, “ Pene accessorie” ED XXXII, 1982 PAG. 819e ss.. Anche in questo caso la legge enumera partiticamente le pene accessorie tipiche dei delitti e quelle tipiche delle contravvenzioni (co. 1 e 2): segue la pena comune agli uni e alle altre ( co. 3) e infine si programma le determinazione specifica di casi in cui una pena accessoria per i delitti diviene conseguenza di una condanna per contravvenzioni ( co. 4). La disciplina giuridica in materia di pene accessorie ha subito importanti modifiche con l’entrata in vigore della l. 24 Novembre 1981, n. 689 Sul punto, p. e. Fiore, Pene, 249; Tomaselli, in Cpcomm, art. 19/5 ss. In particolare con riferimento alla disposizione in esame la riforma è intervenuta: a) abolendo la pena accessoria della perdita della capacità i testare e della nullità del testamento fatto prima della condanna Cfr. art. 32/6; b) modificando in armonia con la nuova disciplina del diritto di famiglia ( l. 19 maggio 1975, n. 151) la pena accessoria della perdita o sospensione dell’esercizio della patria potestà o della autorità maritale ( cfr. art. 34/1 ss); c) introducendo tre nuove pene accessorie: per i delitti l’interdizione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 32 bis) e l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione ( cfr. art 32 ter e quater); per le contravvenzioni la sospensione degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( art. 35 bis). L’estinzione del rapporto di impiego di lavoro, poi ( art. 32 quinquies), per i delitti, è stata inserita dalla legge 27 marzo 2001, n. 97. Tali modifiche in linea con i precedenti interventi legislativi in materia sembrano accogliere l’opinione di quella parte della dottrina che, auspicando un potenziamento delle pene accessorie speciali (previste cioè per specifici reati o specifiche categorie di reati), ne sottolinea in particolare l’efficacia rafforzatrice in relazione all’afflittività delle pene accessorie, ribadendo in questi termini la natura sussidiaria delle pene in esame In questo senso Nuvolone, “Il sistema del diritto penale” CEDAM pag. 471; Bricola, “Teoria generale del reato. Estratto dal «Novissimo digesto italiano»”;. È tuttavia da tenere presente al riguardo, la crescita di un indirizzo dottrinale favorevole a una diversa utilizzazione dello strumento sanzionatorio rappresentato dalle pene accessorie, nel senso di un innalzamento di tali pene al rango di pene principali, e ciò in forza della particolare efficacia preventivo- repressiva che esse possono talvolta svolgere Al riguardo si veda Marinucci- Romano, Tecniche, 692; Padovani, Evoluzione, 499; Palazzo, Pene, 251; Gallo, Linee, 14; per una valorizzazione delle interdizioni come pene sia accessorie che principali, v. Progetto Grosso, art.49: Rel., in Ridpp 2001, 620; sul punto Larizza, Pene Accessorie: normativa, 51; Pittaro, Pene,17.. Si diceva a proposito delle pene principali che il repertorio dell’art. 17 è tassativo ( art. 17/5). La situazione per l’articolo 19 è leggermente diversa. L’elenco in esso contenuto non ricomprende rigorosamente tutte le pene accessorie dell’intero codice Vedi art. 609 nonies e la perdita del diritto agli alimenti: va da sé tuttavia, che il giudice non può escogitarne altre, valendo anche in questo riguardo il principio di stretta legalità Pisa, Principio,67; Bricola, Discrezionalità, 383; Giurispr. Costnte: v. p.e. C. 8 marzo 1979, in Cpma 1980, 1313. In altre leggi sono inoltre previste pene accessorie speciali, che si riferiscono a fattispecie normative e a casi particolari Es. per gli art. 216, co.4 e 223, co. 3 l. fall., accanto all’incapacità ad esercitare uffici direttive presso qualsiasi impresa, è disposta in caso di condanna anche l’inabilitazione all’esercizio di un impresa commerciale; l’art. 12 d.lgs 74/2000 prevede, nel caso di condanna per uno dei delitti di cui al decreto, una serie di interdizioni, tra le quali quelle delle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria e dall’ufficio di componente di commissione tributaria. Da ricordare anche l’art. 1082 cod. nav. Che a sua volta procede con una partizione di pene accessorie per i delitti e per le contravvenzioni. Si noti che in genere queste pene non si sostituiscono a quelle delle pene accessorie previste dal codice penale ma ( salvo che si pongono in rapporto di specialità rispetto a singole pene previste dal codice stesso) si aggiungono ad esse.. I co. 3° e 4° significano che la pubblicazione della sentenza di condanna è già predisposta dalla legge, in generale, come comune a delitti e contravvenzioni; mentre invece può avvenire che una pena accessoria astrattamente predisposta per i soli delitti sia poi in qualche ipotesi particolare prevista quale conseguenza della condanna per contravvenzioni Ad esempio. La sospensione dell’esercizio della patria potestà dei genitori o dall’ufficio di tutore per l’impiego di minori nell’accattonaggio, che è figura contravvenzionale: art. 671.. È da osservare sin d’ora comunque che nei casi di pubblicazione della sentenza devono essere per le contravvenzioni ( e per i delitti, salvo condanna all’ergastolo) appositamente determinati dalla legge (art. 36, co 4°), sicché per tal verso nessuna differenza pratica sussiste fra i due commi in esame; sarà sempre necessaria infatti una previsione legislativa espressa. Per i singoli tipi di pena accessoria elencati dalla norma- interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una professione o da un’arte, interdizione legale, etc.- art. 28 e ss. Per i rapporti tra pene accessorie e delitto tentato, cfr. 56/42; per le pene accessorie nel concorso di reati e nel delitto continuato, v. art. 77/1; art. 79/1; art. 81/10; art. 33. l’interdizione dai pubblici uffici. L’interdizione dai pubblici uffici è la pena interdittiva per eccellenza, in quanto opera sulla capacità dell’individuo di rivestire incarichi ed assumere uffici che hanno una natura, in senso ampio, pubblicistica È la pena accessoria che maggiormente trova riscontro nella tradizione storica e che compare con l’attuale denominazione anche nel codice penale sardo del 1859, artt. 13 e 19 e nel codice Zanardelli, art. 1 comma 1, n. 6 e art. 20, ove era prevista anche come pena principale: art. 31. Inoltre è utilizzata largamente nei sistemi giuridici contemporanei ed è stata accolta anche in ordinamenti penali piuttosto restii all’introduzione di pene accessorie.. Essa consiste, in particolare nella sostanziale decadenza da ogni pubblico ufficio o incarico di pubblico servizio non obbligatorio per legge; nella perdita della capacità di acquistare gli stessi durante l’interdizione; nella perdita delle corrispondenti qualità soggettive. L’interdizione dai pubblici uffici è la più rilevante sanzione interdittiva del nostro sistema penale. Secondo l’art. 28 c.p. essa è perpetua o temporanea. L’interdizione perpetua dai pubblici uffici, salvo che la legge disponga diversamente priva il condannato: 1. del diritto di elettorato attivo e passivo e di ogni altro diritto politico Il riferimento ad ogni “ comizio elettorale” indica chiaramente le elezioni politiche ed amministrative e sancisce la privazione del diritto all’elettorato attivo e passivo nelle stesse. Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che a differenza dell’abrogato istituto della privazione del diritto elettorale per il periodo fisso di 5 anni, la perdita del diritto di elettorato attivo, prevista dall’articolo 6 d.P.R. 1967/223, non costituisce un effetto penale della condanna che possa considerarsi distinto ed ulteriore rispetto alla detta pena accessoria. ; 2. di ogni pubblico ufficio, di ogni incarico non obbligatorio di pubblico servizio, e della qualità ad essi inerente di pubblico ufficiale ( art. 357 c.p.) o d’incaricato di pubblico servizio ( art. 358 c.p.p.); 3. degli uffici di tutore ( artt. 346 e 424 c.c.) e curatore ( art. 392 c.c.), anche provvisorio, e di ogni altro ufficio attinente alla tutela o alla cura ( artt. 350, 353, 393 c.c.; 541, 564, 569 c.p.); 4. di gradi e dignità accademiche, dei titoli, delle decorazioni o di altre pubbliche insegne onorifiche; 5. di stipendi, pensioni, assegni che siano a carico dello Stato o di altro ente pubblico La Corte Costituzionale, con sentenza 7.13 gennaio 1966 n. 3 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo disposto, limitatamente alla parte in cui i diritti in esso previsti traggono titolo da un rapporto di lavoro, e con sentenza n. 113 del 1968, ha rilevato l’illegittimità costituzionale per ciò che attiene alle pensioni di guerra;. 6. di ogni diritto onorifico, inerente a qualunque degli uffici, servizi, gradi o titoli e delle qualità, dignità e decorazioni indicati nei numeri precedenti; 7. della capacità di assumere o di acquistare qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità, grado, titolo, dignità, decorazione e insegna onorifica, indicati nei numeri precedenti . L’interdizione perpetua consegue ipso iure alla condanna all’ergastolo (art. 22 c.p.), alla condanna per delitto doloso o preteritenzionale alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni, alla dichiarazione di abitualità ( artt. 102, 103 c.p.), professionalità nel delitto ( art. 105 c.p.) o di tendenza a delinquere ( art. 108 c.p.), secondo quanto viene espresso nell’art. 29, comma 2 c.p. L’interdizione temporanea ( artt. 28 e 31 c.p.) priva invece il condannato delle capacità poste sopra in rilievo per un tempo limitato. L’interdizione temporanea non può avere una durata inferiore ad un anno, né superiore a cinque anni ( art. 37 e 79 c.p.). In alcuni casi ( si pensi agli artt. 512, 564, comma 4, 569 c.p.) l legge stabilisce che l’interdizione dai pubblici uffici sia limitata solo ad alcuni uffici. Circa i rapporti tra le pene accessorie e le sanzioni disciplinari in questa sede deve osservarsi che l’art. 9 l. 26.4.90 n. 86, armonizzando la materia con il dettato di una sentenza della Corte Costituzionale C. Cost. 1988/971, G COST 1988, I 4571 ha abrogato l’istituto della destituzione di diritto del pubblico impiegato Articolo 85 comm 1 lettera b) t.u. imp. Civ. St. introducendo la regola del previo procedimento disciplinare. La giurisprudenza amministrativa, tuttavia, ritiene sussistere una permanenza ex lege degli effetti dell’interdizione perpetua dai p.u., sostenendo che l’esperimento del procedimento disciplinare, se necessario sotto il profilo di valutare la gravità del reato ( per il quale sia stata emessa sentenza penale di condanna), allo scopo di determinare l’ulteriore compatibilità della permanenza in servizio del dipendente, avuto riguardo alla natura e ai fini delle pubbliche funzioni o attività da essp svolte, è irrilevante se al pubblico impiego sia stato inibito di ricoprire un pubblico ufficio per effetto della pena accessoria avente tale contenuto. Presupposti di applicazione della sanzione. La sanzione in commento evidenzia la natura ibrida delle pene accessorie ispirate ad esigenze di prevenzione speciale PALAZZO “ Le pene accessorie. Problemi nella riforma della parte generale e della parte speciale del codice” Studi Musotto. ma aventi anche una funzione afflittiva. In particolare, la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è prevista per i delitti dolosi, come si deduce dall’articolo 33, comma 1, e trova i propri presupposti di applicazione nella gravità del delitto, dedotta dalla misura della pena principale inflitta, o nella pericolosità del condannato, con evidenti finalità retributive e di prevenzione generale. Occorre ricordare come l’articolo 31 contenga la comminatoria astratta di tale pena accessoria, nella sua forma temporanea, per ogni condanna per delitti commessi con l’abuso di poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, o ad un pubblico servizio, o dell’ufficio di curatore o tutore e di ogni altro ufficio inerente la tutela e la cura. Il collegamento con l’attività o lo status evidenzia una funzione special-preventiva dell’articolo 31. Un problema interpretativo si è posto in relazione alle ipotesi, piuttosto frequenti nella pratica, di differenza in concreto tra la pena inflitta dal giudice nel giudizio di condanna ed eventuali riduzioni della stessa Cass. II 18.10.95, Costa, MCP 1995, n. 7, 71, 204745. L’ipotesi più frequente è rappresentata dall’indulto parziale. Secondo un’opinione dottrinale, la soluzione più corretta è quella che prescinde dall’intervento di cause di riduzione della durata della condanna estrinseche al fatto commesso, anche se di tale cause si faccia menzione nella sentenza di condanna Questa tesi in particolare è sostenuta da Pisa,” Le pene accessorie. Problemi e prospettive” Milano 1984. pag. 104 e ss.. Bisogna dire che l’argomento più importante portato al sostegno di tale tesi, basato sull’irrilevanza della sospensione condizionale della pena sulle pene accessorie eventualmente inflitte nella sentenza di condanna, non è oggi più invocabile, stante la modifica apportata all’articolo 166 dall’art. 4 l. 7.2.90 n. 19. Per il resto non sembrano potersi apporre ostacoli concettuali alla tesi contraria, giacché la casuale disparità di trattamento derivante dall’applicazione o meno in sentenza dell’indulto che la dottrina citata ha ritenuto di dover rilevare in questa ricostruzione, ha una ragione di esistere, così come esiste una disparità di trattamento, apparentemente casuale, tra due condannati per lo stesso fatto con due giudizi diversi, per il primo dei quali l’amnistia, temporaneamente intervenuta tra la prima sentenza divenuta irrevocabile e la seconda non ancora in giudicato, operi solo come amnistia impropria. Sembra interessante rilevare come la Suprema Corte abbia specificato che Vedi sentenza Cass. 10.4. 96, Bagnini., poiché con il termine sentenza di cui all’articolo 12 si intende qualsiasi provvedimento decisorio di un’autorità straniera relativo ad un’accusa penale, dal momento del riconoscimento della sentenza straniera, che ha natura costitutiva, automaticamente, prescindendo dal procedimento seguito dallo Stato estero, si producono nel nostro ordinamento gli effetti previsti dalla legge e rispetto ai quali è stato chiesto il riconoscimento, tra i quali rientra anche l’applicazione della interdizione dai pubblici uffici Nel caso di specie il ricorrente aveva dedotto che, poiché la sentenza er stata pronunciata in Spagna a seguito di un procedimento del tutto omologo a quello di cui all’articolo 444 c.p.p. non era consentita l’applicazione della pena accessoria. . Per le questioni relative al criterio di computo ai fini della determinazione della fattispecie condizionante l’applicazione dell’interdizione ai pubblici uffici in caso di giudizio abbreviato si faccia riferimento all’art. 19 c.p.; con riferimento all’effetto devolutivo dell’impugnazione, è stato ritenuto che non può escludersi dalla doglianza sul trattamento sanzionatorio il punto relativo all’applicazione delle pene accessorie erroneamente determinate dai giudici di merito, qualora, attraverso un’interpretazione dell’atto processuale di impugnazione, emerga che l’impugnante ha inteso sollevare una valutazione sull’intero trattamento sanzionatorio, cui certamente si connette il tema della pena accessoria Cass. III 28.4.97, Nicosia, MCP 1997, N. 11, 73, 208632. . La sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio ( art. 289 c.p.p.) Tra le misure interdittive, quella contenuta nella dizione dell’art. 289 c.p.p. presenta senz’altro i maggiori profili di delicatezza, perché attinente sia alla sfera più strettamente privatistica dell’indagato cui la misura viene applicata, sia alla sfera degli interessi e delle funzioni pubbliche di cui l’indagato stesso è portatore. Proprio questa norma, in passato, ha determinato le forti perplessità dottrinarie e non solo Le perplessità costituzionale che avvolgevano tale norma erano notevoli, dal momento che essa altro non era che un’anticipazione della pena accessoria definitiva, più che una applicazione provvisoria della stessa; le forti perplessità nascevano proprio dalla struttura applicativa dell’istituto in questione: era previsto, infatti, che potesse essere irrogata con provvedimento inoppugnabile e che non avesse termini massimi di durata- per cui protraibile ab libitum – seppure il presofferto poteva essere scomputato dalla pena accessoria poi definitivamente irrogata. La dizione sia letterale sia sostanziale della norma ha comunque resistito alle censure di incostituzionalità ( C. Cost. n. 78/1969; fu addirittura la stessa Corte Costituzionale a considerarle misure dalla natura cautelare. Sostenne la Consulta come non si potesse concludere per la natura giuridica di queste di vere e proprie pene, sulla base della semplice dizione letterale della rubrica di cui all’art. 140 c.p .che recitava “ applicazione provvisoria di pene accessorie”. La stesa era stata criticata dal legislatore per esigenze di brevità e comodità di espressione e avendo riguardo alle analogie strutturali di quei provvedimenti con alcune tra le pene accessorie elencate nell’art. 19 c.p. La stesa Corte stabilendo che deve esservi una preventiva valutazione del fumus boni iuris ha ritenuto che tale valutazione non differisse qualitativamente da quelle previste dagli articoli 252 e 374 c.p.p. del 1930 ai fini della emissione di ordini o mandati, nonché rispettivamente, del rinvio a giudizio, non violando perciò solo la presunzione di non colpevolezza, enunciata dal comma 2 dell’art. 27 Cost. per il suo carattere meramente delibativo in ordine all’adozione o meno del provvedimento sospensivo e perché destinata comunque a esaurirsi in quel momento. , nel potenziale conflitto di attribuzioni che sarebbe potuto insorgere tra autorità Amministrativa e Autorità giudiziaria Non è discutibile infatti, che le cautele interdittive possano essere perfettamente sovrapponibili alle misure che l’Autorità Amministrativa può adottare nei confronti dei propri collaboratori, siano essi o no in rapporto di subordinazione. Tale problema fu avvertito dal legislatore del 1978 che previde le conseguenze di tale potenziale contrasto nella possibile istituzionalizzazione della “funzione di supplenza del Giudice penale rispetto ad altre legittime autorità”. L’elemento di bilanciamento che avrebbe consentito nelle intenzioni il contemperamento tra la sfera di intervento amministrativa e la sfera di intervento penale, fu determinato dalla introduzione della norma che disponeva che l’Autorità penale, applicata la misura, dovesse operare anche la trasmissione dell’ordinanza applicativa della misura interdittiva alla autorità amministrativa di appartenenza. . Addirittura si è anche ritenuto che la previsione legislativa delle misure interdittive possa esautorare l’autorità amministrativa di ogni potere in ordine ad un provvedimento avente come scopo finale l’allontanamento dell’impiegato ancor prima dell’inizio del procedimento disciplinare L.FAVINO “ Le misure interdittive: misure cautelari soltanto?” in Riv. Pen.,1992, p. 925. . Proprio a causa delle perplessità di ogni tipo nate negli ambienti scientifici, sicuramente nell’applicazione della misura non si potrà fare a meno di collegare volta per volta le esigenze di giustizia alle esigenze di corretto andamento della Pubblica Amministrazione, sottese alla funzione pubblica riferibili al soggetto indagato. Con l’ordinanza che dispone l’applicazione di questa misura, il giudice preclude temporaneamente all’indagato l’esercizio, anche parziale, delle funzioni pubbliche che esso riveste. Parte della dottrina E. APRILE, “ Le misure cautelari”,cit., pa. 375 e ss. ha sostenuto come il provvedimento che applica la misura cautelare non interdica il compimento delle sole attività qualificabili come espressione di un pubblico ufficio o servizio, bensì qualsivoglia attività, indipendentemente dalla natura pubblicistica, riferibili all’esercizio di quel pubblico ufficio o servizio, argomentando da giurisprudenza di merito del tribunale di Milano Trib. Milano 18 settembre 2000, in foro ambrosiano, 2001, con nota di C. MANDOLA.. Viene pertanto da pensare se, ad esempio, per il medico che eserciti la propria professione quale privato, quali dipendente della AUSL e quale perito del Tribunale e fosse indagato per il reato di falsa perizia, la sospensione da funzione di CTU comporti automaticamente la sospensione dell’attività di medico presso le strutture pubbliche o presso il proprio studio privato, non essendo possibile, in tali ultime due attività, svolgere perizie, notoriamente effettuabili solo per Autorità Giudiziaria. Secondo il restrittivo indirizzo prima ricordato, la sospensione di un delle attività connesse all’esercizio della professione, dovrebbe comportare automaticamente la sospensione da qualunque attività non strettamente pubblicistica connessa. Ma se così fosse l’obiezione più naturale che verrebbe di sollevare è quali siano, a questo punto, le differenze con la misura della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale disciplinata dal successivo art. 290 c.p.p. si può concludere come questo tipo di orientamento abbisogna di una verifica caso per caso, non essendo possibile dettare, in linea di principio, un paradigma di applicazione automatica ad altre attività non strettamente comprese nel novero legislativo, senza incorrere nel rischio di violazione del principio di riserva di legge e senza di rischiare di abrogare di fatto la norma in esame. Il legislatore utilizza il termine “imputato” tanto da far presumere che la norma possa essere applicata solo in seguito all’esercizio dell’azione penale Momento processuale questo in cui il soggetto viene ad assumere la qualità di imputato in luogo di quella di indagato., tuttavia questa interpretazione viene considerata inesatta dalla maggior parte della dottrina Mario De Giorgio- Guagliani “le misure interdittive a carico delle persone fisiche e giuridiche”: gli autori qui sostengono infatti che la sua inesattezza possa essere ravvisata già durante una prima lettura dell’articolo 289 comma 2 e precisamente nell’inciso “nel corso delle indagini preliminari”. Lettura questa che consente di applicare la misura de quo anche alla fase ancora procedimentale, facendo intendere che l’applicazione della misura in oggetto è consentita in ogni fase processuale.. L’apparente incongruenza tra il primo e il secondo comma dell’art. 289 c.p.p. probabilmente è da ricercarsi nella novella legislativa introdotta dall’art. , legge 16 luglio 1997, n. 234 che nel disciplinare l’ultrattività della norma ne ha dettato anche le condizioni indispensabili di operatività. Nell’individuazione del significato di “pubblico ufficio” o “pubblico servizio” diverse norme del codice penale possono essere prese in considerazione; in primis gli articoli 357 e 358 c.p.; in particolare l’articolo 537 c.p. stabilisce come debbano essere considerati pubblici ufficiali coloro i quali svolgono una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa, ricollegando così il “pubblico ufficio” di cui alla norma 289 c.p.p. quello relativo alla funzione descritta dalla suddetta norma. Lo stesso art. 357 c.p. disciplina ancora quale pubblico ufficio la funzione amministrativa regolata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi così come stabilito nel secondo comma. Attraverso un confronto degli articoli 358c.p. e 288 c.p.p. si giunge alla conclusione che l’articolo 289 c.p.p non sia altro che una forma di anticipazione delle pene accessorie In argomento la Corte Costituzionale, specificatamente riguardo a reati di criminalità organizzata, si è così pronunciata “la misura cautelare della sospensione obbligatoria della funzione o dall’ufficio dei dipendenti della P.A disposta dall’art. 15, comma 4 septies, legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall’art. 1 legge 18 gennaio 1992, n. 16, in conseguenza del loro rinvio a giudizio per delitti di criminalità organizzata di cui al comma 1, lett. a) art. 15, si differenzia dalle misure di interdizione dall’ufficio adottabili dal Giudice penale a norma dell’art. 289 c.p.p., assoggettate a condizioni connesse con gli scopi del processo, perché risponde, invece, ad esigenze proprie della funzione amministrativa ed è adottata con un provvedimento amministrativo, seppur vincolato, connesso all’interesse della collettività di evitare il pregiudizio per la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico”. Corte cost. 3 giugno 1999, n. 206, in Cons. Stato, 1999, II, p. 782. . In particolare la regolamentazione di riferimento è quella dettata dall’art. 28 c.p., le cui meccaniche applicative vengono poi esaminate nei successivi artt. 29 e 31 c.p. Interdizione dai pubblici uffici e incandidabilità derivanti dal d.lgs n. 235/2012. Questa disposizione ha suscitato non pochi dubbi di legittimità soprattutto se messa a confronto con l’art. 1 della Costituzione che sancisce la sovranità popolare Questa forma di privazione è stata pacificamente accettata sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza fin dagli anni Trenta ha iniziato a suscitare dubbi in seguito all’entrata in vigore della Costituzione che essendo successiva è ritenuta di grado superiore rispetto alla norma codicistica. . Sembrerebbe, infatti, ingiusto ammettere che il condannato alle pene accessorie possa essere privato definitivamente dei propri diritti politici che possa essere in questo modo totalmente escluso dalla vita politica, soffocando così un principio cardine del nostro ordinamento, ossia la sovranità popolare. Alcuni ritengono, infatti, che la Costituzione italiana non abbia conferito questo potere all’ordinamento giudiziario. Problematiche di questo tipo di certo non potevano nascere in seguito all’entrata in vigore del codice penale essendo questo nato in pieno regime fascista e che proponeva principi e valori del tutto contrapposti con quelli sanciti in seguito dalla Costituzione. alla superiorità dello Stato, allora principio cardine, si contrappone ora, la visione dell’individuo e in primis la sua libertà. Se prima la sovranità era detenuta dallo Stato, per mano del Governo, in uno stato democratico è detenuta dal popolo che attraverso i suoi rappresentanti ne esercita il potere. È proprio in seguito a tali concezioni che la negazione dei diritti politici, attraverso l’applicazione della pena accessoria all’interdizione di essi, ha generato i primi conflitti. Una distinzione fondamentale dovrebbe essere fatta alla luce della distinzione tra i pubblici uffici, cui si riferisce l’art. 28 e gli uffici di carattere amministrativo. Alcuni uffici sono “pubblici” in quanto politici e rispondo al principio della sovranità popolare, altri invece sono “ pubblici” poiché sono connessi ad incarichi di natura amministrativa. Così per alcuni sarebbe più corretto, parlare di interdizione dei secondi. Si è cercato di “ giustificare” la pena accessoria all’interdizione dai pubblici uffici con l’interesse pubblico soddisfatto dalle pene accessorie. La relazione illustrativa del Codice Rocco si limita, però, ad affermare il carattere di complementarietà delle pene accessorie rispetto alle pene principali “ per il loro intrinseco carattere mancano di un’efficacia tale, per cui possano riuscire, per se medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidativi ed afflittivi della repressione. Di qui la necessità di comminarle sempre congiuntamente ad altre pene, rispetto alle quali esse sono complementari e accessorie” Relazione al progetto definitivo di codice penale, in Testo del nuovo Codice penale con la relazione a Sua Maestà il Re del Guardasigilli ( Rocco), Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, Roma, tipografia delle Mantellate, 1930.; secondo la dottrina più tradizionale le pene accessorie, “ tendono ad un obiettivo di prevenzione generale o di difesa sociale” FIANDACA-MUSCO “Diritto penale” PAG. 667 ma si evidenzia anche “ una funzione di prevenzione speciale, nel senso che esse fungono da misure volte a evitare che il reo ricada nel delitto”. La pena principale sembra, quindi, svolgere una finalità di prevenzione ( sia essa generale o del singolo condannato) e una finalità retributiva ( essenzialmente quindi punitiva), mentre la pena accessoria dell’interdizione ai pubblici uffici sembra realizzare il fine di evitare che il condannato possa trovare nuove occasioni per delinquere svolgendo alcune attività. Sembra opportuno in questa sede trattare le problematiche costituzionali nate in seguito alla l. 6 novembre 2012, n. 190 che ha introdotto una serie di disposizioni che mirano a combattere il fenomeno corruttivo all’interno della Pubblica Amministrazione Ai sensi dell’art. 1, comma 1 tale disciplina è stata introdotta “ in attuazione dell’art.6 della Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dalla Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003 e ratificata ai sensi della legge 3 agosto 2009, n. 116, e degli articoli 20 e 21 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999 e ratificata ai sensi della legge 28 giugno 2012, n. 110”, al fine di individuare “ l’Autorità nazionale anticorruzione e gli altri organi incaricati di svolgere, con modalità tali da assicurare azione coordinata, attività di controllo, prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”. . Numerose sono state le problematiche sollevate in seguito alla sua introduzione, in primis la scelta di affidare ad un decreto legislativo, quindi all’Esecutivo, di disciplinare un istituto in grado di incidere in modo così significativo sull’esercizio del diritto di elettorato passivo. Le posizioni contrarie hanno sottolineato come vi sia il divieto per il Governo di adottare decreti legislativi in materia elettorale Questa particolare posizione nasce dalla regola della “riserva di legge in assemblea” che l’articolo 72, c. 4 Cost. dispone per l’esame dei disegni di legge in materia elettorale. . Tuttavia una simile posizione non viene condivisa dalla dottrina maggioritaria Si ritiene infatti “legittimo l’uso degli atti aventi forza di legge in tutti i campi d’intervento della legge ordinaria, con l’esclusione delle materie “ coperte” da riserva di legge formale” ZAGREBELSKY, “ Manuale di diritto Costituzionale”, Torino, 1990 pag. 55-56 poiché si ritiene che la via ordinaria sia obbligatoria unicamente su proposte concernenti le materie indicate dal comma 4; posto il rispetto di tale regola procedurale si ritiene quindi, che l’art. 72 comma 4 non impedisca alla legge di prevedere una delega legislativa nelle materie “ coperte” da riserva di assemblea. Va sottolineato che non è la prima volta che si scegli di disciplinare aspetti così rilevanti attraverso il decreto legislativo. Si pensi fra tutti alla disciplina dell’ineligibilità per le cariche di deputati e senatori contenuta nel Decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 ( art. 7 ss) emanato in forza della delega conferita al Governo dall’art. 50, l. 16 maggio 1956, n. 493. Riguardo ai contenuti della disciplina in esame, il d.lgs n. 235/2012 esordisce con la disciplina dell’incandidabilità rispetto ad un contesto sia nazionale che europeo per poi proseguire a livello sub-statali e infine prevedendo alcuni aspetti comuni. Elemento di novità è sicuramente l’introduzione delle incandidabilità anche alla carica di parlamentare europeo. Secondo un certo orientamento, però, tale nuovo strumento contrasterebbe con l’art. 65, c. 1 Cost. il quale sembrerebbe escludere la possibilità di introdurre con fonte sub- costituzionale, limiti all’esercizio dell’elettorato passivo diversi dalle cause di ineligibilità ed incompatibilità. Tuttavia la Corte costituzionale sembrerebbe pensarla in diverso modo laddove ha espressamente affermato da un lato che le ipotesi di “ non candidabilità” costituiscono “ nuove cause di ineligibilità che il legislatore ha ritenuto di configurare in relazione al fatto di aver subito condanne ( o misure di prevenzione) per determinati delitti di particolare gravità” e che “ non è illegittima l’esclusione della eleggibilità seguito di condanna definitiva, secondo quanto si ricava anche dall’art. 48 quarto comma della Costituzione, che ammette possa farsi discendere da una condanna penale la perdita dell’elettorato attivo e dunque anche di quello passivo”. Corte Cost., sent. 15 maggio 2001, n. 132. Al suo art. 1 il d.lgs 235/2012 stabilisce le tre categorie di reato cui segue l’incandidabilità: la prima comprende l’ipotesi di condanna ala reclusione superiore a due anni per alcune forme di delitti non colposi di grave allarme sociale, previsti dall’art. 51, commi 3 bis e 3- quater del c.p.p., commessi in forma di associazione per delinquere ( anche) mafiosa. La seconda categoria riguarda invece le ipotesi di condanna pari o superiore a due anni di reclusione per i delitti consumati o tentati dai pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione previsti dal codice penale. La terza contiene, infine, qualsiasi delitto non colposo per il quale la legge preveda la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. Per quanto riguarda le prime due ipotesi di reato non sembrano esserci problemi di legittimità poiché il decreto legge ha seguito le previsioni del comma 64 lett. a) e b) della l. 190/2012, ma rispetto alle altre due ipotesi sono sorti alcune problematiche. Nella delega infatti veniva considerata rilevante la condanna definitiva per “altri delitti per i quali la legge preveda una pena pena detentiva superiore nel massimo a tre anni”. Sotto un profilo strettamente costituzionale sembrerebbe profilarsi una scelta di illegittimità costituzionale del provvedimento in oggetto per eccesso di delega. Tralasciando gli ulteriori dubbi e problematiche nascenti da questa disciplina appare in questa sede più opportuno soffermarsi sulle disposizioni comuni tra il rapporto di incandidabilità e l’interdizione ai pubblici uffici. L’art. 13 ai commi 1 e 2 introduce il capo V, relativo alle disposizioni “ comuni, transitorie e finali”. Tale disposizione dispone che l’incandidabilità prevista per le cariche di parlamentare e di euro parlamentare “ decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna ed ha effetto per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria all’interdizione temporanea dei pubblici uffici comminata dal giudica” e che “ l’incandidabilità, anche in assenza della pena accessoria, non è inferiore a sei anni”. Si prevede inoltre che se la condanna è stata pronunciata per un reato commesso “ con abuso di poteri o in violazione dei doveri connessi” alo svolgimento di una delle cariche contemplate, ciò comporta l’aumento della durata dell’incandidabilità o del divieto di un terzo. È evidente, qui la finalità punitiva delle suddette previsioni. Dubbi sono nati sull’utilità della nuova sanzione e ci si è chiesti se non fosse stato più corretto disporre espressamente l’applicazione della pena accessoria all’interdizione dei pubblici uffici in seguito ala commissione dei reati elencati. Sembra infatti che le disposizioni in esame viaggino fra loro su un binario parallelo. Contro questa soluzione però, si è osservato, che la pena accessoria all’interdizione dei pubblici uffici opera in forza di una pena concretamente irrogata di almeno 3 anni e quindi potrebbero nascere situazioni nelle quali il singolo condannato potrebbe ricevere una pena inferiore a tale minimo edittale. L’art. 15 “ l’incandidabilità disciplinata dal presente testo unico produce i suoi effetti indipendenetemente dalla concomitanza con la limitazione del diritto di elettorato attivo e passivo derivante dall’applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici” del decreto in esame sembra però, configurare una operatività di fatto assoluta dell’incandidabilità, limitata unicamente alle ipotesi di sentenza di riabilitazione ex art. 178 c.p. da quanto finora esaminato l’incandidabilità ed interdizione dai pubblici uffici sembrerebbero perciò, correre su due linee parallele. C’è da dire che probabilmente se si fosse optato per una riconduzione delle fattispecie nell’alveo delle pene accessorie, probabilmente sarebbero sorti molti meno dubbi interpretativi. L’interdizione da una professione o da un’arte. L'interdizione dall'esercizio di una professione o un'arte è una pena accessoria prevista dal codice penale italiano all'art. 30 e priva chi ne sia colpito della capacità di esercitare, durante l’interdizione, una professione, un'arte, un mestiere che preveda il rilascio di un'autorizzazione, abilitazione, licenza o altro genere di permesso, e comporta la decadenza dal permesso, abilitazione, licenza; la decadenza si intende rivolta a chi è già in possesso di una abilitazione, licenza ecc, mentre privazione della capacità chi non sia abitualmente titolare del permesso. Secondo l’opinione maggioritaria la pena in questione sarebbe applicabile solo a coloro i quali esercitano effettivamente le professioni indicate. Tra i maggiori sostenitori di questa tesi troviamo fra i tanti Violante in “ contenuto e funzioni delle pene accessorie: conseguenze in tema di applicabilità al concorso di persone nel reato”. La norma limita l’interdizione alle sole professioni per il cui esercizio è richiesto uno specifico permesso o una speciale abilitazione, autorizzazione o licenza dell’autorità. La ratio di tale restrizione dell’ambito di applicabilità della pena accessoria è stata individuata nello scarso numero delle professioni che non sono vigilate e nel danno sociale che potrebbero derivare dall’estensione degli effetti interdittivi a tali professioni; inoltre, nei minori doveri e pericoli ravvisabili nelle attività escluse LARIZZA “ Le pene accessorie: normativa e prospettive”. Tale ultima motivazione lascia, però, aperti alcuni interrogativi riguardo alla sua attuale validità, specie a fronte dell’affermarsi di nuove professioni. L’interdizione professionale non si applica in seguito a condanna per delitto colposo, sempre che la pena alla reclusione sia inferiore a tre anni o sia inflitta la sola multa ( art. 33,4). È esclusa l’applicazione in caso di condanna per delitto realizzato da minore (art.98 co.2). In giurisprudenza e in dottrina è controverso se la titolarità dell’autorizzazione e l’esercizio effettivo dell’attività siano presupposti indefettibili per l’applicazione della pena accessoria in esame; le diverse soluzioni proposte comportano importanti riflessi sull’applicazione della pena accessoria soprattutto nelle ipotesi di concorso di persone. La corte di Cassazione ha ritenuto, dapprima, che si trattasse di una pena accessoria comune applicabile anche a chi non fosse titolare di licenza, autorizzazione, permesso o abilitazione Cass. penale, sez. VI, 14-07-2000 (C.C. 15-06-2000), n. 2811 : “E' configurabile il reato di esercizio abusivo di una professione anche nell'ipotesi in cui l'atto posto in essere da parte del soggetto non iscritto all'apposito albo (nella specie, il ruolo dei periti assicurativi) consista nell'espletamento di consulenza tecnica per l'autorità giudiziaria, non rilevando la circostanza che le norme regolanti la nomina di consulenti e periti abbiano carattere ordinario e che l'autorità giudiziaria possa nominare persone munite di particolare competenza, in determinate materie, indipendentemente dall'iscrizione in apposito albo, atteso che, in ogni caso, la scelta non è assolutamente discrezionale e che un'indicazione eccentrica rispetto al normale accesso agli albi esige adeguata motivazione, la cui mancanza rende impugnabile la nomina.”. Successivamente la suprema corte ha ristretto l’applicabilità a chi effettivamente eserciti la professione. Anche parte della dottrina ha aderito a tale interpretazione restrittiva Secondo questa interpretazione la pena accessori in questione sarebbe una pena propria o speciale. Cerquetti, invece, in “le pene accessorie” ED XXXII p. 843 e ss. Sostiene che la pena accessoria non sarebbe inutiliter data in quanto impedirebbe comunque l’esercizio della professione nel caso in cui il condannato divenga, durante detta pena, titolare dello stesso diritto professionale; , argomentando sulla base del riferimento legislativo alla decadenza quale effetto proprio della pena accessoria; nello stesso ordine di idee si è sostenuto che non vi può essere abuso di poteri o violazione di doveri se non vi sia stata legittimazione all’uso della professione LARIZZA “ Le pene accessorie: normative e prospettive” pag. 125 e ss.. Un differente orientamento dottrinale CERQUETTI “ Pene accessorie” ED XXXII, 1982; PISA “ Le pene accessorie” Milano 1984. Pag. 116 individua invece nella norma in esame due distinte sanzioni, dirette a soggetti non necessariamente coincidenti: la decadenza colpisce chi sia già in possesso della richiesta autorizzazione, mentre la privazione della capacità di esercitare una professione prevista nella prima parte si indirizza a chi non sia attualmente titolare dell’apposito permesso. Come è stato opportunamente rilevato, in effetti, l’interpretazione restrittiva introdurrebbe un’ingiustificata asimmetria rispetto alla pena accessoria sospensiva di analogo contenuto prevista dall’art. 35. Considerare necessaria la titolarità del provvedimento autorizzativo significherebbe, inoltre, favorire quanti esercitino l’attività senza autorizzazione o vi rinunzino in vista del processo. D’altra parte, l’interpretazione restrittiva comporterebbe un’ulteriore elemento di incertezza riguardo al momento in cui deve essere svolta l’attività PISA “ Le pene accessorie” Milano, 1984 pag. 118. Secondo l’autore la pena accessoria dell’interdizione professionale sarebbe applicabile anche a chi non è titolare del relativo provvedimento amministrativo, ma di fatto esercita le attività corrispondenti. Ciò per un triplice ordine di ragioni: a) per non creare un ingiustificato privilegio a favore dell’abusivismo; b) per evitare che il reo vi si sottragga prima della condanna; c) per esigenza di armonizzare il contenuto dell’art. 30 con quello dell’art. 35 c.p. che prevede la sospensione dell’esercizio di una professione o di un’arte e non fa cenno alcuno al concetto di decadenza, così legittimando l’interpretazione, unanimamente condivisa, che la qualifica come pena comune. . Infine perché possa esservi abuso , non sembra necessario l’uso legittimo, ma basterà l’uso di fatto dell’attività. La pena accessoria in esame comporta in primo luogo la perdita della capacità di svolgere determinate attività professionali; gli effetti interdittivi sono dunque circoscritti alle attività proprie della professione, arte o mestiere nell’esercizio della quale il reo abbia agito con abuso di poteri o violazione di doveri. Ulteriore conseguenza è la decadenza da permessi, abilitazioni, autorizzazioni e licenze relativi alla stessa professione. Scontata la pena accessoria il condannato dovrà dunque chiedere nuovamente le autorizzazioni, affrontando gli esami e i procedimenti amministrativi prescritti: con la conseguenza che gli effetti interdittivi si protrarranno oltre l’esecuzione della pena, e anzi, l’esclusione da un determinato ambito professionale potrebbe trasformarsi, di fatto, da temporanea a perpetua ROMANO in Commsist I, art. 30, 259; SALAFIA “La riforma del diritto societario”. Contenuto in “ quaderni del Consiglio Superiore di Magistratura”. 2003p. 45 ,. . Resta salva comunque la possibilità di richiedere, anche durante l’esecuzione della pena accessoria, l’autorizzazione per differenti professioni, arti o mestieri. Si tratta di pena accessoria temporanea, con durata da un mese a cinque anni, da determinare nel caso concreto, salvo diversa previsione, secondo il criterio fornito dall’art. 37 c.p. ; per alcune interdizioni professionali contenute nella legislazione complementare è peraltro prevista una diversa durata: l’art. 216 co. 4 r.d. 267/1942 (l. fall.) fissa in 10 anni la durata dell’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e quella dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi a seguito di condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta, mentre l’art. 217 co. 3 dello stesso r.d. 267/1942, prevedendo le medesime pene accessorie per la bancarotta semplice ne determina in due anni la durata massima. Da sottolineare anche la legge 644/1975 che disciplina la materia dei trapianti, pone un limite massimo di due anni per l’interdizione dalla professione sanitaria come conseguenza di una condanna per la violazione delle disposizioni della legge medesima. L’unica ipotesi di interdizione professionale perpetua prevista dal Codice Penale (art. 555 co. 2, delitti contro l’integrità e sanità della stirpe commessi da chi svolgesse una professione sanitaria) è stata abrogata con la legge 194/ 1978. Nella legislazione speciale è prevista come eventualmente perpetua la perdita della licenza d’esercizio in caso di tolleranza abituale della prostituzione da parte del proprietario, gerente o preposto ad un locale aperto al pubblico ( albergo, pensione, etc.). Art. 3 co. 31 legge prostituzione. Altri due tipi di pene accessorie sono poi introdotte dagli art. 120 e 123, legge 24 novembre 1981 n. 689. In particolare l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( art. 32 bis c.p.) e la sospensione dell’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese ( art. 35 bis c.p.). 10.1 Condanna per delitti commessi con abuso di un pubblico ufficio o di una professione o di un’arte. Interdizione. Esaminate le fattispecie stabilite dagli articoli 29 e 30 del c.p. necessaria è l’analisi più approfondita della interdizione disposta dall’articolo 31 c.p. l’articolo in esame diversamente da quanto stabilito nell’articolo 29 c.p. Si ricordi brevemente che qui la fattispecie condizionante l’interdizione dai pubblici uffici è costituita da un limite di pena determinato ovvero da una particolare attitudine a delinquere del soggetto. commina la stessa pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici ovvero da una professione o un’arte quale sanzione di comportamenti strumentalmente collegati all’attività svolta dal condannato: attività che viene quindi interdetta. Questa sanzione rappresenta senz’altro una forte risposta del meccanismo sanzionatorio e trova riscontro nelle esigenze di prevenzione speciale. Importante nell’esame di questa disposizione è la problematica relativa alle nozioni di “pubbliche funzioni” e “ pubblici servizi” e non può che farsi un collegamento stretto con i concetti di “ abuso di potere” e “violazioni di doveri” disposti dagli articoli 357 e 358 del c.p.p.; è importante sottolineare, però, che il legislatore ha voluto distinguere la nozione di “abuso della funzione” dalla nozione di “ abuso della qualità”. Questa distinzione è riscontrabile con una semplice lettura dell’articolo 317 c.p. ove tra gli elementi del fatto di concussione vengono alternativamente inserite sia l’abuso della qualità che l’abuso dei poteri. Più specificatamente possiamo dire che entrambi le fattispecie di abuso si risolvono in un’indebita strumentalizzazione che, nel caso di di abuso della qualità, ha per oggetto la qualità soggettiva dell’agente in quanto presupposto per un distorto esercizio dei poteri ad essa inerenti al fine di costringere la vittima; Affinché si abbia la fattispecie descritta dall’art. 317 c.p. non è necessaria né l’attualità dell’esercizio né la competenza funzionale ma è sufficiente che la qualità di p.u. abbia comunque facilitato l’esecuzione del reato con il relativo abuso dei poteri o la violazione dei doveri. Tornando alla norma in commento, invece, l’abuso di potere richiesto consiste in un’obiettiva difformità dall’esercizio della funzione o dal servizio dalle regole inerenti. Va inoltre ricordato che, secondo un’opinione prevalente in dottrina e giurisprudenza, l’esistenza di un semplice nesso di occasionalità tra l’attività del soggetto e la condotta delittuosa non è sufficiente per la realizzazione della fattispecie descritta dall’art. 31. Occorre, infatti, che l’esecuzione del reato sia stata resa più agevole dall’esercizio della funzione o del servizio. Tuttavia la questione è ancora dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza; la dottrina in particolare tenda a distinguere le ipotesi nelle quali l’abuso e le violazioni sono contemplati tra gli elementi costitutivi di reato, c.d. abuso strutturale per le quali è contemplata una disciplina più rigorosa in materie di pene accessorie ( vedi ad esempio l’articolo 317 bis c.p.) dalle ipotesi nelle quali l’abuso non è inserito tra gli elementi normativi del fatto di reato. l’interdizione legale. L’interdizione legale è una pena accessoria che consegue ai delitti di maggiore gravità. Tale pena priva il condannato della capacità di agire, con riguardo ai diritti patrimoniali: il soggetto ne conserva la titolarità, ma potrà disporne solo attraverso un tutore seguendo la disciplina civilistica dell’articolo 424 c.c richiamata dall’articolo 32 comma 4 c.p Art. 424 c.c. ( Tutela dell’interdetto e curatela dell’inabilitato) “Le disposizioni sulla tutela dei minori e quelle sulla curatela dei minori emancipati si applicano rispettivamente alla tutela degli interdetti e alla curatela degli inabilitati . Le stesse disposizioni si applicano rispettivamente anche nei casi di nomina del tutore provvisorio dell'interdicendo e del curatore provvisorio dell'inabilitando a norma dell'articolo 419. Per l'interdicendo non si nomina il protutore provvisorio. Nella scelta del tutore dell'interdetto e del curatore dell'inabilitato il giudice tutelare [344; 43, 45 disp. att.] individua di preferenza la persona più idonea all'incarico tra i soggetti, e con i criteri, indicati nell'articolo 408.. L’interdizione si sostanzia, quindi, nella privazione della capacità di diritto privato. Questo tipo di sanzione è forse tra le più antiche sanzioni conosciute dall’ordinamento e può essere ravvisata già nel diritto romano. Attualmente l’interdizione si sostanzia nella perdita da parte del condannato della capacità di porre in essere atti giuridici negoziali anche se l’interdetto, in realtà, gode di una limitata capacità. Fondamentale qui è la distinzione tra capacità legale e capacità giudiziale: l’interdetto giudiziale, infatti, gode di un minimum di capacità soltanto in linea di fatto, in relazione a quelli che sono i diritti minimi che gli assicurano uno spazio vitale ( ad es. la proprietà delle cose personalissime), l’interdetto legale, invece, gode di una capacità più ampia, assicuratagli soprattutto dall’ordinamento penitenziario. Infatti ai sensi dell’art. 4 reg. penit. L’interdetto legale che sia detenuto o internato ha la possibilità di esercitare personalmente tutti i diritti che lo stesso ordinamento giudiziario gli riconosce.il regime giuridico dei negozi posti in essere dall’interdetto legale è quello dell’annullabilità. La giurisprudenza ha precisato che il principio secondo cui alla interdizione legale si applicano le norme civilistiche sulla interdizione giudiziale Secondo questo principio gli atti compiuti dall’interdetto sono annullabili su istanza del tutore dell’interdetto o dai suoi eredi o aventi causa., attiene unicamente alla disponibilità e all’amministrazione dei beni, nonché alla rappresentanza negli atti ad esso relativi. Ne consegue che ogni altro negozio giuridico è annullabile in considerazione della pena accessoria all’interdizione legale, e che l’annullabilità ( assoluta) è rilevabile da chiunque. Cass. civile, sez. I del 1993 numero 8918 (24/08/1993) Recentemente la Corte ha avuto modo di precisare che l’interdizione legale “ concerne l’amministrazione di beni e non influisce sulla capacità di esercitare il diritto di querela, che rimane in capo all’interdetto” Cass. 13.2.02 Questa pena accessoria segue ope legis alla condanna alla pena dell’ergastolo, nonché alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni ( art. 32 co. 3 c.p.). la condanna produce inoltre, durante la pena, la sospensione della potestà dei genitori, salvo che il giudice disponga diversamente ( art. 32 co. 3 c.p.). L’interdizione legale in deroga al disposto dell’articolo 139 c.p. è eseguita contemporaneamente alla pena principale e ha durata pari a questa ( a norma dell’articolo 37 c.p. principio di equivalenza). Lo stato di interdizione legale non impedisce a detenuti ed internati l’esercizio personale dei diritti loro riconosciuti dall’ordinamento penitenziario ( articolo 4 della Legge 26 luglio 1975 n. 354) L’articolo 4 è di fondamentale importanza perché assicura ai detenuti e agli internati l’esercizio personale dei loro diritti anche se si trovano in stato di interdizione legale. La decisiva svolta rispetto al regolamento del 1931 si esprime dunque, anche nel riconoscimento al detenuto di una propria soggettività giuridica, venendo identificato e definito quale titolare di diritti e di aspettative e legittimato all’agire giuridico proprio nella qualità di titolare di diritti che appartengono alla condizione di detenuto. E si tratta per lo più, di valori tutelati dalla Costituzione, esprimendosi nei diritti relativi all’integrità fisica, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale. Vedi RUOTOLO M. “ I diritti dei detenuti e Costituzione” , Giappichelli, 2002. 11.1 Interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. L’articolo 2641 c.c. prevedeva “ incapacità di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”. La norma in questione è stata però abrogata in seguito all’entrata in vigore dell’art. 148 della legge mod. sist. Pen. ( legge 24 novembre 1981 n. 685). La scelta di inserire l’istituto, adeguatamente ridisegnato dall’art. 32 bis, nella parte generale del codice penale corrisponde alla scelta di politica legislativa di estendere il campo di applicazione. La fattispecie descritta dall’art. 2641 c.c. si riteneva applicabile anche ai reati comuni anche se collocata a chiusura delle norme penali del codice civile in materia societaria. Con l’introduzione dell’art. 32 bis è stato ampliato il campo dell’interdizione dagli uffici direttivi, giacché la fattispecie di cui all’art. 2641 era riferita unicamente agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di un’impresa, mentre la norma in commento estende la pena a qualsiasi altro ufficio Il concetto di ufficio richiamato dalla norma non riguarda tanto l’aspetto formale della carica ricoperta, quanto l’attività svolta in concreto; né pare necessario che il soggetto sia formalmente investito di un ufficio perché possa abusare dei relativi poteri o violare i relativi doveri. dotato di potere di rappresentanza delle persone giuridiche o dell’imprenditore. Per chi svolga le funzioni in regime di diritto pubblico è prevista invece, la pena accessoria di cui all’art. 28 e 31. L’art. 15 co.3 lett. a) della legge 262/2005 ha espressamente esteso la pena accessoria all’ufficio del “ dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari”. L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese deriva ope legis dalla sentenza di condanna quando sussistano due condizioni oggettive: l’entità della pena principale, pari almeno a sei mesi di reclusione, e la presenza di specifiche modalità realizzative del delitto. Quanto al secondo presupposto, si richiede che il delitto sia stato commesso “ con abuso dei poteri o violazioni dei doveri inerenti all’ufficio”. L’abrogato art. 2641 c.c. si riferiva invece a delitti commessi “nell’esercizio o a causa” dell’ufficio. La modifica non pare meramente formale: l’ambito dell’attuale disciplina risulta in effetti più circoscritto, poiché lo stretto rapporto richiesto tra ufficio ricoperto e norme violate esclude ogni possibilità di applicazione della pena accessoria nel caso in cui tra l’ufficio e il delitto intercorra un mero nesso di occasionalità. Pisa in “pene accessorie”, in particolare ritiene, invece, più ampia la nuova formula per il suo carattere “ elastico”. In relazione alla norma in esame sembrano utilizzabili i canoni interpretativi elaborati da giurisprudenza e dottrina riguardo alla circostanza aggravante di cui all’art. 61 n.9 Per abuso di poteri si intende sviamento del potere dallo scopo per il quale esso è riconosciuto al soggetto e per violazione dei doveri l’inosservanza di un obbligo specifico e non semplicemente di doveri generici di correttezza e probità usualmente connessi alla qualifica. ; si ritiene dunque, che la pena accessoria in esame sia applicabile non solo nelle ipotesi in cui l’abuso di poteri o la violazione di doveri siano elementi costitutivi del delitto, ma pure nei casi in cui caratterizzino il singolo fatto concreto, richiedendosi l’accertamento di un rapporto di strumentalità tra l’ufficio ricoperto ed il delitto commesso. L’interdizione è applicabile anche al soggetto non qualificato che abusi dei poteri o violi i doveri in concorso con il titolare dell’ufficio, non essendovi nella norma alcuna indicazione che consenta di escludere dai suoi destinatari chi non ricopra l’ufficio. I poteri e i doveri che sono oggetto rispettivamente dell’abuso o violazione debbono esser propri dell’autore o della categoria cui egli appartiene Contra VINCIGUERRA che ritiene che essi debbano essere esclusivi.. Il rispetto del principio di legalità porta ad escludere che possa rilevare per l’applicazione della pena accessoria la violazione di doveri o l’abuso di poteri derivanti da una disciplina negoziale. Il soggetto a cui è irrogata la pena accessoria di cui all’art. 32 bis perde temporaneamente la capacità di esercitare gli uffici direttivi o di rappresentanza delle norme giuridiche o delle imprese. A differenza dell’art. 30 la norma in esame interessa attività che non sono sottoposte a permesso. Abilitazione, autorizzazione o licenza dell’autorità. L’effetto interdittivo non è circoscritto all’ufficio concretamente ricoperto al momento dell’avvenuta interdizione ma riguarda tutte le funzioni dirigenziali e rappresentative presso la stessa o altra o altre imprese o persone giuridiche di diritto privato. Importante sottolineare come la pena accessori non comporta a decadenza automatica dall’ufficio, questo effetto consegue automaticamente solo in alcune ipotesi espressamente indicate dalla legge Art. 2382 c.c. per gli amministratori di società commerciali; art. 2399 c.c. per i sindaci. ; le eventuali ripercussioni sul rapporto di lavoro restano pertanto regolate dalla disciplina privatistica e dalle clausole contrattuali. L’interdizione ex art. 32 bis è pena accessoria temporanea Si ricordi che l’art. 2641 c.c. stabiliva una durata fissa di dieci anni., tuttavia nella formulazione vigente manca del tutto l’indicazione di un minimo e massimo edittale. Occorre, quindi, applicare il principio di equivalenza con l pena principale a norma dell’articolo 37 c.p. restando esclusa la possibilità di scelte discrezionali da parte del giudice. 11.2 Incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione. Nell’ambito delle pene accessorie particolare rilevanza assume l’art. 32 ter del codice penale. L’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione consegue automaticamente qualora il soggetto sia condannato per i reati previsti dall’art. 32 ter Art. 316 bis, 316ter, 317, 318, 319, 319 bis, 320, 321,322, 322bis, 353, 355,356, 416, 416bis, 437, 501, 501bis, 640 n.1 secondo comma, 640 bis, 644. qualora siano stati commessi in danno o a vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa. Dal punto di vista della sua natura l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione si presenta indubbiamente come una pena accessoria comune, in quanto non collegata a particolari status o qualità soggettive. Il concetto di P.A. viene utilizzato dal legislatore in senso lato in modo da ricomprendere anche gli enti pubblici economici e le aziende controllate da enti pubblici. Si tratta inoltre di una pena accessoria speciale nel senso che essa è collegata alla commissione di talune condotte delittuose perpetrate in danno o in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad essa. Queste attività sono prontamente elencate dall’articolo 32 quarter. La dottrina ha criticato alcune scelte del legislatore nell’includere o escludere determinati delitti dall’elenco dei presupposti. Si è ritenuta ultronea l’indicazione dell’art. 319 bis riguardante non una fattispecie autonoma ma circostanze aggravanti dell’art. 319 già richiamato e ingiustificati ad esempio, l’omesso inserimento della corruzione in atti giudiziari e dell’abuso di ufficio, mentre, specie prima della modifica della formula legislativa che collega il reato all’attività imprenditoriale, non era ritenuto conforme alla ratio della pena accessoria l’inserimento dei delitti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Tuttavia questa disciplina deve essere analizzata non solo attraverso le disposizioni interne ma in un’ottica comunitario in seguito all’ingresso nell’ordinamento italiano della responsabilità amministrativa da reato. La ricerca di un possibile punto di giunzione tra le disposizioni che regolano le cause di esclusione dalle pubbliche gare ed il d.lgs 231/2001 non può non passare attraverso la disamina delle norme contenute nell’art. 45, comma 1 della Direttiva n. 2004/18/CE. Il legislatore comunitario in modo molto netto e marcato che l’esclusione dei concorrenti possa essere comminata solo quando nei loro confronti siano state emesse “sentenze di condanna definitive” inerenti la fattispecie di reato elencate dalle lett. a), b), c) e d) del primo comma del già citato art. 45 che testualmente recita: “ E’ escluso dalla partecipazione ad un appalto pubblico il candidato o l’offerente condannato, con sentenza definitiva di cui l’amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza; per una o più delle ragioni elencate qui di seguito: Partecipazione a un’organizzazione criminale, quale definita all’art.2,par. 1, dell’azione comune 98/773/GAI del Consiglio; Corruzione, quale definita rispettivamente all’art. 3 dell’atto del Consiglio del 26 maggio 1997 e dell’art, 3, par. 1, dell’azione comune 98/742/GAI del Consiglio; Frode ai sensi dell’art. 1 della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle comunità Europee; Riciclaggio dei proventi di attività illecite, quale definito all’art. 1 della direttiva 91/308/CEE del Consiglio del 10 giugno 1991 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite.” Leggendo il testo della norma appare chiaro come il legislatore comunitario abbia voluto parificare ai fini della valutazione della moralità d’impresa, le pene inflitte alle persone fisiche alle sanzioni comminate alle persone giuridiche, il tutto, naturalmente, strettamente connesso alla commissione dei reati indicati nelle lett. a), b), c) e d). Come è noto ai fini della partecipazione all’appalto, i concorrenti devono essere soggetti affidabili sia sotto il profilo tecnico/ economico sia sotto quello etico. In altre parole essi devono possedere una storia che dimostri la loro idoneità morale a recepire incarichi di derivazione pubblica e, soprattutto, a percepire gli emolumenti che dall’esecuzione di tali contratti scaturiscono. L’ordinamento si pone quindi l’obbiettivo di avere nel privato contraente un referente la cui condotta professionale e di vita sia moralmente accettabile rispetto i fini di trasparenza, efficienza ed imparzialità che l’azione amministrativa deve sempre perseguire. Questi requisiti, inerenti l’ affidabilità del contraente, oltre ad a dover sussistere alla data di sottoscrizione del contratto devono essere posseduti al momento della presentazione della domanda di partecipazione. Per alcuni aspetti concernenti l’assenza di condanne penali, questo requisito viene richiesto anche rispetto alla stori più o meno recente del concorrente. Si deve però osservare che l’esclusione è da intendersi come automatica e obbligatoria solo qualora ricorrano gli estremi per l’applicazione dell’art. 32 quarter c.p. cioè la commissione di uno degli indicati delitti e la sua realizzazione a danno o a vantaggio di un’attività imprenditoriale. I reati previsti dalla norma sono : malversazione ai danni dello Stato(art.316bis) ; concussione (art. 317); corruzione per un atto d’ufficio ( art. 318); corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ( art. 319 e circostanze aggravanti); corruzione di una persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320); istigazione alla corruzione (art. 322); turbata libertà degli incanti (art 353); frode nelle pubbliche forniture (art. 356); associazione per delinquere (art. 416); associazione di tipo mafioso (art. 416bis); rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro ( art. 437); rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio (art. 501); manovre speculative su merci ( art. 501 bis); truffa commessa a danno dello Stato o di un ente pubblico ( art. 640); truffa aggravata per il conferimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis); ovviamente ai sensi dell’art. 32 ter c.p. l’incapacità di contrarre con la pubblica Amministrazione non può avere durata inferiore a un anno né superiore a tre anni, e va dichiarata dal giudice penale. Decadenza dalla potestà dei genitori e sospensione dell’esercizio da essa. La potestà genitoriale è un potere attribuito ai genitori esclusivamente nell’interesse dei figli, nei cui confronti il genitore ha il triplice dovere del mantenimento, dell’istruzione e dell’educazione. È riconosciuta dall’art. 30, comma primo e secondo, della Costituzione come diritto- dovere che trova nell’interesse del figlio la sua funzione ed il suo limite. Il soggetto è soggetto a tale potestà fino al raggiungimento della maggiore età. La decadenza della potestà genitoriale è la perdita, da parte di uno o entrambi i genitori, di tale potere. Può essere dichiarata dal Giudice qualora un genitore violi o trascuri i doveri nei confronti dei figli minori o abuso dei relativi poteri con grave pregiudizio per il figlio. Tale pregiudizio può essere morale o materiale e non solo di natura patrimoniale. Oltre alla ver e propria decadenza della potestà genitoriale, cioè la perdita completa, esistono anche semplici limitazioni alla stessa, disciplinate dagli art. 333 e 334 del codice civile. La finalità della norma è comunque quella di garantire al minore di crescere ed essere educato nella propria famiglia di origine, affidando al giudice il compito di verificare la possibilità di recupero della funzione genitoriale. In altri casi, infatti, il Tribunale per i minorenni consente al genitore nei cui confronti si chiede il procedimento di decadenza della potestà genitoriale, la possibilità di riscattarsi. La dichiarazione della decadenza della potestà non comporta l’automatica interruzione dei rapporti con il genitore dichiarato decaduto, in quanto non viene esclusa l’esistenza di sentimenti di affetto validi e sinceri nei confronti dei figli. Il genitore decaduto dovrà sottostare alle indicazioni del Giudice minorile, avendo perduto la libertà delle decisioni e dei tempi di frequentazione del figlio ed anche il suo comportamento sarà, in ogni caso, soggetto a controllo. Sotto il profilo penale, la perdita della potestà genitoriale, consegue automaticamente in seguito alla condanna principale per il reato che la prevede, nei casi previsti dalla legge ( art. 32 comma 2 e 34 comma 1 c.p.). La sospensione ella potestà genitoriale può conseguire automaticamente, nei casi previsti dall’art. 32 comma 3 c.p. oppure essere conseguenza di una specifica valutazione del giudice, con riferimento all’accertamento di un abuso commesso dal genitore nei confronti della prole. ( art. 34 comma 2 c.p.). Avendo funzione sanzionatoria, i provvedimenti di sospensione o decadenza della potestà dei genitori assumono una durata prestabilita dalla legge e non sono revocabili o modificabili nel tempo, salvo gli effetti della riabilitazione 90 Art. 178 c.p. e ss La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti.. In questi casi la legge presume il pregiudizio per il minore come conseguenza del fatto illecito. La legge penale prevede la decadenza della patria potestà genitoriale in caso di: Condanna all’ergastolo ( art. 32 comma 2 c.p.); Incesto ( art. 564 comma 4 c.p.), Reati contro lo stato di famiglia ( art. 566, 567, 568, c.p.) ai sensi dell’art. 569 c.p.; Mutilazioni genitali femminili ( art. 583-bis c.p.) ai sensi dell’art. 602 bis intro. Art. 3 comma 19, l. 94/2009; Riduzione o mantenimento in schiavitù ( art. 600, 601 e 602 c.p.); Impiego di minori nell’accattonaggio( art. 600- octies c.p.) ; Reati contro la libertà sessuale ( art. 609- bis c.p. e ss); Affidamento abusivo (art. 71, l. 183/ 1984). La riforma “Maroni” del 2009 ha esteso la sanzione penale accessoria in esame anche ai reati contro la libertà sessuale art. 609 bis, 609- quater, 609- quinques e 609 octies c.p. nonostante per tali reati essa fosse già prevista dall’art. 609 nonies c.p. Le norme penali richiamate fanno derivare la perdita o la sospensione della potestà genitoriale dalla condanna penale. Oltre a queste norme, che prevedono la sanzione penale accessoria quale conseguenza automatica della condanna, sussiste una norma generale che non si applica a specifiche fattispecie di reato ma ad ogni illecito compiuto con abuso della potestà dei genitori. In questi casi il presupposto dell’abuso della potestà genitoriale deve essere accertato in concreto, secondo l’equa discrezione del Giudice. L’art. 34 comma 2 c.p. stabilisce che “ la condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori importa la sospensione dell’esercizio di essa per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta”. L’art. 34 comma 2 c.p. non specifica per quali reati trovi applicazione, tuttavia tale condanna non è facoltativa, bensì, a tenore della norma, obbligatoria, qualora venga accertato un abuso della potestà genitoriale nei confronti dei figli. La discrezionalità del giudice risiede pertanto nell’accertamento dell’abuso sul minore da parte del genitore e non nella facoltà di applicare la sanzione penale accessoria. art. 32- quinquies: l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego. All’interno del nostro ordinamento giuridico attualmente esistono e, quindi, sono pienamente ammissibili delle ipotesi di destituzione automatica per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni Per esempio l’interdizione dai pubblici uffici ex art. 28 c.p., la rimozione a seguito di perdita del grado ex art. 29 del codice penale militare di pace.. In questo contesto si inserisce l’art. 32 quinquies del codice penale che è stato introdotto dall’art. 5, comma 2, della legge 27 marzo 2001, n. 97 “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.”. In particolare la predetta disposizione normativa ha introdotto all’interno del nostro ordinamento giuridico una nuova ipotesi di licenziamento per giusta causa nei confronti dei dipendenti della amministrazioni pubbliche. Pertanto, la finalità perseguita dal legislatore penale è stata proprio quella di regolare i rapporti tra il procedimento penale e il procedimento disciplinare. Inoltre, attraverso tale disposizione si è incentivata l’efficacia della norma sanzionatoria penale per i delitti di peculato ( art. 314 c.p.), concussione ( art. 317 c.p.), corruzione per un atto d’ufficio ( art. 318 c.p.), corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio ( art. 319 c.p.),corruzione in atti giudiziari ( art. 319-ter) e della corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio ( art. 320 c.p.). In sintesi con il predetto articolo l’ente datore di lavoro, fatte salve le ipotesi previste dagli articoli 29 e 31 del codice penale può far cessare il rapporto di lavoro con il dipendente nel caso in cui questi venga condannato, in via definitiva per un periodo di tempo non inferiore ai tre anni e per uno fra i reati sopra riportati. Infine, si osserva che la norma consente l’allontanamento automatico dei dipendenti delle amministrazioni o enti pubblici o di enti a prevalente partecipazione pubblica Organismi di diritto pubblico, senza lasciare nessuno spazio discrezionale all’ente di appartenenza del reo. Pertanto, sulla base delle precedenti osservazioni si deve affermare che nell’introdurre l’art. 32 quinquies il legislatore penale si è mosso nell’ottica di evitare il discredito ed una lesione del prestigio rivestito dalla pubbliche amministrazioni. 13.1 La rilevanza della vicenda penale nel rapporto di pubblico impiego del personale militare. Gli effetti della vicenda sui rapporti di pubblico impiego del personale militare costituiscono ad oggi un tema di grande attualità in considerazione dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa che ha profondamente modificato il sistema previgente. In particolare si fa riferimento alla legge 27 marzo 2001 n. 97 e alla legge 12 giugno 2003 n. 134 recante “ modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti”. Tali interventi normativi, peraltro, costituiscono lo sblocco di una vicenda giurisprudenziale iniziata con la storica sentenza della Corte Costituzionale del 14 ottobre 1988 n. 971. Questa sentenza [2] La sentenza ? pubblicata su Giur. Cost., 1988,I, 4571; Foro It., 1989,I,22, con commento di G.Virga ?Revirements? della Corte Costituzionale e conseguenze della pronuncia d?incostituzionalit? della destituzione di diritto nel campo del pubblico impiego come è noto agli operatori del settore, ha sancito l’illegittimità di ogni forma di meccanismo di destituzione automatica del rapporto di pubblico impiego in conseguenza di una sentenza penale di condanna. Come si è anticipato significativi sono stati gli interventi normativo giurisprudenziali che hanno portato all’affermazione dei correlati principi dell’autonomo accertamento del fatto e dell’autonoma valutazione dello stesso che per lungo tempo hanno caratterizzato i rapporti tra l’illecito disciplinare e quello penale. Come è noto l’illecito disciplinare costituisce una specie dell’illecito amministrativo. Infatti l’illecito disciplinare, pur concretandosi dosi al pari di ogni altro illecito amministrativo in una trasgressione che dà luogo per scelta del legislatore, alla irrogazione, da parte dei pubblici poteri, di quella tipica forma di sanzione definita appunto amministrativa, si distingue dagli altri illeciti amministrativi perché la trasgressione non riguarda un dovere comune alla generalità degli amministrati, ma categorie di soggetti nei confronti dei quali l’amministrazione si trova in una posizione di supremazia speciale. Con riguardo all’autonomo accertamento del fatto, in principio l’art. 653 c.p.p disponeva che “ la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso”. .: Con riguardo all’autonoma valutazione del fatto si deve necessariamente far riferimento alla storica sentenza della Corte Costituzionale di cui si è parlato all’inizio, la n. 971/1988. Il legislatore sulla scia di questa pronuncia della Corte ha prontamente recepito le statuizioni di quest’ultima prescrivendo con l’art. 9 l. 7 febbraio 1990 n. 19 che “ il pubblico dipendente non può essere destituito di diritto a seguito di condanna penale. È abrogata ogni contraria disposizione di legge. Con la legge 27 marzo 2001 n. 97 nasce un nuovo modo di concepire i rapporti tra procedimento disciplinare e penale intervenendo la novella sul principio dell’autonomo accertamento del fatto, statuendo così l’art. 653 c.p.p: “ la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia nel giudizio per la responsbilità disciplinare davanti alla pubblica autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso ( comma 1)” mentre “ la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alla pubblica autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso ( comma 1 bis)”. Risultano pertanto in questo modo significativamente ridotti i margini di reciproca autonomia dei procedimenti penali e disciplinari Ved. CASERTA, i rapporti tra processo penale e procedimento disciplinare .Riflessioni sulla l. 27 marzo 2001, n. 97, in Giur. It. 2002, 223 ss.. Di portata dirompente è invece la modifica introdotta dalla legge 97/2001 che rompe con il passato stabilendo che “ salvo quanto stabilito dall’art. 653 c.p.p anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento la sentenza ( di applicazione della pena su richiesta delle parti) non ha efficacia nei giudizi civili e amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata ad una pronuncia di condanna”. Pertanto attraverso il rinvio all’art. 653 c.p.p. la norma attribuisce alla sentenza di patteggiamento efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare con questo ragionamento la Consulta con sentenza n. 394/2002 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 10 . co.1 l. 97/2001 nella parte in cui dispone l’applicabilità della nuova disciplina degli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare, ai patteggiamenti perfezionatisi anteriormente alla sua entrata in vigore.. Anche il principio dell’autonoma valutazione del fatto risulta ad oggi fortemente limitato all’introduzione della nuova disciplina della pena accessoria dell’estinzione del rapporto di impiego e di lavoro pubblico. Di particolare evidenza per i suoi rilevanti aspetti pratici è la correlazione esistente tra la sentenza penale di condanna applicativa delle pene accessorie, comuni e militari, e le conseguenti determinazioni dell’autorità militare in ordine al proseguo del rapporto di servizio, potendosi certamente affermare che anche in tal caso il principio di autonomia della valutazione agli effetti disciplinari della condotta costituente reato soffre di una significativa deroga. Infatti, il c.p.m.p. prevede, nell’ambito del sistema delle pene accessorie create dal legislatore l’istituto della rimozione di cui all’art. 29 e quello della degradazione di cui all’art. 28. Pur accumunate dalla denominazione impropria di sanzioni destitutive, in realtà le due pene mantengono un’autonomia concettuale posto che solo la degradazione comporta l’espulsione dall’ordinamento militare, mentre la rimozione la sola perdita del grado, con conseguente condizione di soldato semplice o di prima classe. La gravità di una tale sanzione i cui effetti sono puntualmente disciplinati dagli art. 28 e 29 e i presupposti applicativi dell’art. 33 c.p.m.p. induce a chiedersi quale sia il residuo spazio applicativo della discrezionalità amministrativa a fronte di una pronuncia di condanna penale contenente una statuizione del genere. Ed in realtà si deve concludere per l’automaticità delle stesse pene accessorie, prescrivendo l’art. 20 c.p.m.p che “ conseguono di diritto alla condanna come effetti penali della stessa”. Anzi l’art. 183 disp. Att. C.p.p. ribadisce ulteriormente tale riserva giurisdizionale stabilendo che “ è il pubblico ministero richiederne l’applicazione al giudice dell’esecuzione, se non si è già provveduto con la sentenza di condanna” In forza di tale previsione resta pertanto esclusa la possibilità che sia l’autorità militare a dare esecuzione ad una tale decisione con un proprio provvedimento discrezionale. Risulta evidente come ormai sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2002,n. 6669 che la p.a risulta vincolata all’esito della statuizione penale, dovendo anzi dare esecuzione senza discrezionalità alcuna, alla pena accessoria irrogata dal giudice: trattasi dunque di attività vincolata, per la quale non esisterebbe neppure l’obbligo di dare l condannato la comunicazione dell’avvio del procedimento Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2001, n.2823. Quindi l’effetto estintivo del rapporto di impiego, dovrebbe essere la conseguenza automatica di una sentenza comportante la degradazione ai sensi dell’art. 28 quale risultato di una condanna all’ergastolo, alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e alla dichiarazione di abitualità, professionalità nel delitto ovvero di tendenza a delinquere, pronunciata nei confronti del militare per reati militari.. pertanto al di fuori di questa ipotesi non potrebbe essere disposta alcun provvedimento destitutivo automatico, essendo comunque necessario avviare un procedimento disciplinare come imposto dalla legge 19/1990 che ha prontamente recepito l’orientamento della Corte Costituzionale. In particolare la sospensione e revoca della patente di guida. Nei casi previsti dal Codice della Strada (CDS), la patente di guida può essere revocata, ritirata o sospesa. Nella maggior parte dei casi si tratta di sanzioni accessorie in aggiunta alle sanzioni amministrative (pagamento si somme di denaro). Quando invece sorgano dubbi sulla mancanza o sulla perdita dei requisiti fisici, psichici e tecnici necessari alla guida, la patente può essere sottoposta a revisione. Se la persona perde i requisiti fisici, psichici e tecnici necessari alla guida del veicolo la sua patente viene revocata con un provvedimento emanato dal competente ufficio di motorizzazione. Se la revoca è stata determinata dalla scomparsa dei requisiti psicofisici, nel momento in cui il titolare riacquista tali requisiti può immediatamente chiedere una nuova patente che riporterà la data di abilitazione di quella precedente. Il titolare non è considerato neopatentato e non valgono i criteri di propedeuticità previsti dal codice Se infatti la persona era titolare di una patente di tipo C o D può riaverla senza aver prima chiedere l patente di tipo B.. Il provvedimento della revoca con carattere permanente a causa della perdita dei requisiti psichici e fisici prescritti l’atto è definitivo. Negli altri casi invece è ammesso il ricorso al Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Il ministro valuterà il ricorso della persona e comunicherà la sua decisione all’interessato e ai competenti uffici della Motorizzazione. Se il ricorso è accolto, la patente è restituita all’interessato. In casi di violazioni particolarmente gravi del odice della strada è prevista la revoca della patente. La patente viene quindi revocata per motivi di condotta, come sanzione accessoria rispetto alla sanzione amministrativa conseguente alla violazione, e non per perdita dei requisiti necessari alla guida. È prevista la revoca della patente ad esempio se il titolare: Circoli durante il periodo di sospensione della patente; Percorra contromano autostrade o strade extraurbane; Guidi in stato di ebbrezza da alcool o sostanze stupefacenti un autobus, un autocarro o altro veicolo superiore come massa complessiva alle 3.5 t o un complesso di veicoli; Recidività nel superamento di oltre 60k/h dei limiti di velocità; Recidività per la guida in stato di ebbrezza ( tasso alcolemico di 1,5 g/l o superiore) o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. La normativa attuale italiana stabilisce come valore limite legale il tasso di alcolemia di 0,5 g/litro: guidare un veicolo oltre questo limite - e quindi in stato di ebbrezza - costituisce un reato, punito, oltre che con la perdita di 10 punti della patente, con le severe sanzioni previste dagli articoli 186 e 186 bis del Codice della Strada: In questi casi l’autorità che accerta la trasgressione e quindi l’esistenza di una di queste condizioni ne deve dare comunicazione al prefetto del luogo della commessa violazione entro i cinque giorni successivi. Il provvedimento di revoca verrà emanata da quest’ultimo. Il titolare della patente potrà ottenerne un’altra ma solo quando siano trascorsi due o tre anni. Se poi il titolare aveva una patente C o D per riaverla deve prima riottenere la patente di tipo B. inoltre sarà considerato neopatentato a tutti gli effetti, dunque dovrà rispettare i limiti di velocità e di potenza e in caso di infrazione gli verrà decurtato il doppio dei punti rispetto agli altri conducenti. Diverse violazioni del codice della strada provvedono la sospensione della patente di guida per un periodo che va da un minimo ad un massimo stabiliti dalla legge per ciascuna violazione. Si tratta di una sanzione accessoria in aggiunta ad una sanzione amministrativa ( pagamento di una somma di denaro). La durata della sospensione della patente dipende da diverse circostanze come ad esempio, la gravità dell’illecito, la recidiva, l’aver provocato un incidente stradale ecc. La patente di guida è sospesa dal prefetto del luogo di residenza del titolare; il provvedimento di sospensione è comunicato anche alla Motorizzazione. Al termine del periodo di sospensione fissato la patente viene restituita dal prefetto, generalmente per il tramite della polizia locale del luogo di residenza. La patente può essere sospesa direttamente dalla Motorizzazione qualora, in sede di accertamento sanitario per la conferma della validità o per la revisione della patente, risulti la temporanea perdita dei requisiti fisici e psichici necessari alla guida. In tal caso la patente è sospesa fintanto che l’interessato non produca la certificazione della commissione medica locale attestante il recupero dei requisiti richiesti. Entro 30 giorni dalla notifica, contro il provvedimento di sospensione della patente, è ammesso ricorso dinanzi al Giudice di Pace del luogo in cui la violazione è stata commessa. L’art. 186 co.2d.lg. 38571992 (c.strad.) prevede la sanzione della sospensione della patente in caso di accertamento di “guida sotto l’influenza dell’alcool”; il successivo art. 222 aggiunge la sospensione o la revoca della patente in caso di condanna per violazioni delle norme sulla circolazione stradale cui siano conseguite “lesioni personali” o “omicidio colposo”. Nell’operatività del codice della strada previgente ( d.P.R. 393/1959) l’individuazione della natura delle sanzioni previste dall’art. 91 è stata oggetto di contrasti in dottrina e in giurisprudenza. Un primo orientamento, frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, le collocava tra le sanzioni criminali atipiche, irriducibili ai paradigmi delle pene principali, delle pene accessorie o delle misure di sicurezza. C 26.4.1978, Santaniello, RP 1979, 194; C 31.1.1975, Perdicaro, GP 1976, II, 43; C 4.7.1969, Vidulich, GP 1970, II, 717. Se ne evidenziava infatti, la disciplina in parte distinta rispetto a quella delle pene principali e accessorie , nonché il carattere preventivo- cautelare. Ne conseguiva, tra l’altro, la non ostatività alla concessione della non menzione della condanna. La dottrina dominante, invece, ha qualificato tali sanzioni come pene accessorie in considerazione del contenuto impeditivo dell’esercizio dell’attività per le quali è richiesta apposita autorizzazione, analogo a quello degli art. 30 e 35; questa impostazione è stata recepita anche dalla Corte Costituzionale e n alcune successive pronunce della giurisprudenza di legittimità. Conseguenza diretta di tale scelta interpretativa era l’inapplicabilità della sospensione e della revoca della patente nell’ambito di una sentenza pronunziata ai sensi dell’art. 444 c.p.p. e l’operatività della sospensione condizionale come estesa dalla l. 19/1990. Scarso contributo al chiarimento del problema aveva recato, infine, l’introduzione da parte della l. 689/1981 dell’art. 80 ter, che, pur indicando nella sospensione della patente una pena accessoria, si riferiva ad ipotesi particolari. Tale stato di incertezza sembra però superato dal nuovo codice della Strada che qualifica sia la sospensione di cui all’art. 186 co. 2, che la sospensione e la revoca di cui all’art 222 come sanzioni amministrative accessorie In specie sull’art.222 c. strada: C. 10.10.1997, Picone, Gdir 1997, n.43, 101; C. 21.3.1996, Caglione, gdir 1996, n. 29, 80; sui dubbi sorti in giurisprudenza riguardo l’applicabilità di tale ultima sanzione in caso di definizione del processo ex art. 444 c.p.p. cfr. RIGO, in CppComm, art 445, 880 e pronunce ivi richiamate; risolutiva, ne senso dell’applicabilità della sanzione anche in tal caso è la sentenza C. s.u 21.7.1998, Bosio, CED 210983, CP 1999, 833; in dottrina GALLUCCI (9) 1451.. La natura amministrativa già enunciata da alcune voci in dottrina riguardo al previgente art. 91 e da isolate sentenze disciplina del procedimento applicativo: la competenza del provvedimento aspetta al prefetto (art. 224) dopo che la sentenza penale o il decreto di accertamento e di condanna anche a pena condizionalmente sospesa siano divenuti irrevocabili; è pure del prefetto il compito di detrarre dalla misura determinata dal giudice il periodo di sospensione pre-sofferto a seguito dell’applicazione provvisoria ex art. 223 c. strada. Ai fini dell’applicazione di tali sanzioni non rileva l’intervenuta estinzione della pena e, ciò che la distingue ulteriormente dalle pene accessorie, in caso di estinzione del reato per cause differenti dalla morte del reo, spetta al prefetto accertare la sussistenza delle condizioni per la loro applicazione. art. 36 c.p. pubblicazione della sentenza penale di condanna. In tema di pene accessorie l’art. 36 del codice penale dispone che la sentenza di ergastolo e la sentenza penale di condanna nei casi in cui la legge lo prevede, siano oltre che affisse nel comune dove fu commesso il delitto, anche pubblicate nel sito internet del Ministero di giustizia per un periodo stabilito dal giudice e comunque non superiore a trenta giorni. Tra le disposizioni modificate dal decreto legge 6 luglio 2011, n. 98 - c.d. manovra finanziaria- convertito in legge 12 luglio 2011, n. 106- figura l’art. 36 c.p. che come è noto reca la disciplina generale della pubblicazione della sentenza di condanna a titolo di pena accessoria. La novella legislativa interviene a meno di due anni di distanza da una precedente modifica che ha interessato l’art. 36 c.p., opera con la legge 18 giugno 2009, n. 69 ed in sostanziale continuità con essa. Nel 2009, infatti, il legislatore aveva affiancato alla pubblicazione della sentenza di condanna su uno o più quotidiani la pubblicazione della medesima nel sito internet del Ministero della Giustizia; con la più recente modifica invece, si abbandona definitivamente la pubblicazione sui giornali in favore dell’adempimento per via telematica Il d.l. n. 98/2011, infatti abroga ogni riferimento alla pubblicazione della sentenza sulla stampa periodica lasciando inalterata la previsione, inserita nel 2009, relativa alla pubblicazione “ nel sito internet del Ministero della giustizia”.. Il fatto che una simile modifica sia contenuta in un testo normativo di carattere prettamente economico non deve stupire: esplicitamente, infatti, il legislatore ha disposto la novella “ al fine di ridurre le spese di giustizia” Così incipit dell’art. 37, co 18, d.l. 98/2011, non modificato in sede di conversione in legge.. Secondo quanto disposto dall’art. 4 d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 ( T.U. spese di Giustizia), infatti, salvo il particolare caso in cui la condanna abbia riguardato il direttore responsabile di un giornale per reati da lui stesso commessi Cfr. art. 694 co 1 c.p.p. , le spese per la pubblicazione della sentenza di condanna sono sempre anticipate dallo Stato, il quale potrà poi rivalersi sul condannato e sul responsabile civile. Evidente quindi il risparmio economico perseguito con la modifica dell’art. 36 c.p. : eliminando la pubblicazione sulla carta stampata, lo Stato non dovrà più sostenere le spese dell’acquisto dello spazio sui giornali, né affrontare il rischio che il condannato si riveli insolvente. Il risparmio, peraltro, è limitato alle ipotesi in cui la pubblicazione della sentenza di condanna va eseguita ai sensi dell’art. 36 c.p., e non riguarda invece le non poche ipotesi in cui la medesima pena accessoria è autonomamente disciplinare. La riforma della disciplina dell’art. 36 c.p. dettata da intenti di contenimento della spesa pubblica, ci sembra però vanificare di fatto, la ratio della pubblicazione della sentenza di condanna a titolo di pena accessoria: la divulgazione della pronuncia giudiziale in uno o più quotidiani, infatti, mette a conoscenza i lettori dei giornali stesi, diffondendo adeguatamente la notizia; viceversa la semplice menzione nel sito internet del Ministero della Giustizia non garantisce affatto che il contenuto della decisione giudiziale sia diffuso in maniera efficace e rilevante, poiché ne avrà contezza soltanto chi, per sua autonoma iniziativa, si premuri di consultare l’apposita sezione del sito internet del Ministero della Giustizia ( presumibilmente si tratterà della vittima e dell’autore del reato, e di pochi altri curiosi). La rilevanza del problema non pare essere esclusivamente teorica: è infatti destinata ad avere riflessi sulla disciplina sanzionatoria di numerose ipotesi di reato per cui la pubblicazione della sentenza, ai sensi dell’art. 36 c.p., costituisce pena accessoria Si pensi, anzitutto, alle numerose figure di delitto contemplate nel codice penale, tra cui i delitti contro l’incolumità pubblica ( cfr. art 448 c.p.), i reati in tema di contraffazione di marchi e brevetti industriali e la relativa importazione nel nostro paese(cfr. art. 475 c.p.), e le varie fattispecie di frode in commercio ( cfr. art. 501 bis e 517 c.p. ), fino alle contravvenzioni in materia di gioco d’azzardo ( cfr. art 722 c.p.). Ancora, anche rilevanti ipotesi previste dalla legislazione speciale vedono mutata, nei contenuti, la pena accessoria in discorso: è il caso ad esempio dei reati tributari Si veda l’art. 12 d.lgs 74/2000. E la novella ha ripercussioni altresì sulla disciplina della responsabilità da reato degli enti L’art. 18 d.lgs 231/2001 richiama espressamente l’art. 36 c.p. quanto alle modalità di pubblicazione della sentenza di condanna dell’ente.. Non sono destinate ad essere coinvolte dalla modifica, essendo soggette ad autonoma disciplina, altre disposizioni contenute nella legislazione complementare. Così ad esempio l’art. 186 d. lgs. 24 febbraio 1998, n.58 ( Testo Unico della Finanza), nell’enumerare le pene accessorie che conseguono alla commissione dei reati previsti dagli articoli precedenti, stabilisce che “ la condanna per taluno dei delitti previsti dal presente capo importa l’applicazione delle pene accessorie previste dagli art. 28, 30, 32 bis, e 32 ter del codice penale per una durata non inferiore a sei mesi e non superiore a due anni, nonché la pubblicazione della sentenza su lmeno due quotidiani, di cui uno economico, a diffusione nazionale”. Pare significativo che il legislatore abbia elencato il rinvio alle relative pene accessorie mediante indicazione delle norme penali mentre abbia autonomamente disciplinato il regime della pubblicazione della sentenza penale di condanna, senza in alcun modo riferirsi all’art. 36 c.p. ; ancora l’art. 6 l. 30 aprile 1962, n. 283, in materia di conservazione degli alimenti, stabilisce che “ nei casi previsti dl precedente comma, la condanna importa la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali, a diffusione nazionale, designati dal giudice, nei modi stabiliti dal terzo comma dell’art. 36, codice penale”. Nemmeno in questa seconda ipotesi, dunque la modifica operata dal d.l. 98/2011 sembra destinata ad operare: il rinvio dell’art. 36 co. 3 c.p. attribuisce al giudice soltanto il potere di disporre la pubblicazione della pronuncia per intero o per estratto. Per tali specifiche ipotesi continuerà dunque a trovare autonoma applicazione la normativa processuale dettata dal codice di rito: il Giudice, pertanto, dovrà indicare nel dispositivo della sentenza di condanna i titoli dei quotidiani in cui dovrà trovare pubblicazione la pronuncia, specificando se sia necessaria la pubblicazione integrale della decisone o se invece sia sufficiente dare notizia della condanna mediante diffusone dell’estratto Cfr. art. 536 c.p.p.; la materiale esecuzione della sanzione avverrà a cura del Pubblico Ministero, e potrà essere eventualmente contenuta in apposito supplemento alla pubblicazione cartacea Cfr. art. 694, co. 2 e 3, c.p.p.. In definitiva, mediante la modifica dell’art. 36 c.p. il legislatore viene ad incidere profondamente sulla fisionomia della sanzione accessoria in esame, distinguendo nettamente due ordini di ipotesi: un primo gruppo disciplinato da norme speciali e quindi non toccato dalla novella legislativa, in cui la sanzione conserva la sua carica afflittiva, che dipende dalla scelta del quotidiano su cui eseguire la pubblicazione della sentenza Si pensi ad esempio alla pubblicazione della sentenza su un quotidiano economico a diffusione nazione della pronuncia di condanna per un promotore finanziario responsabile del reato di insider trading.; un secondo gruppo di ipotesi di ordine generale, in cui la novella qui segnalata priva del carattere afflittivo l’irrogazione della pena accessoria in discorso, che si risolverà verosimilmente in una pubblicazione destinata a cadere nell’oblio. CAPITOLO 4 Teorie generali delle norme penali nel sistema colombiano Quando si procede nello studio delle norme che caratterizzano questo settore dell’ordinamento giuridico si deve tenere presente che bisognerebbe focalizzare lo studio su tre diversi aspetti ossia, la naturalezza, la sua ubicazione nel sistema giuridico e la sua genesi. Questi tre aspetti hanno dato origine nel XIX secolo alla cosiddetta “ teoria de le norme”. Naturalezza. Al fine di precisare l’essenza e le caratteristiche proprie delle norme penali sono state elaborate diverse teorie. In primo luogo la teoria “ monista” o “ degli imperativi”. Secondo questa elaborazione la norma penale ha la caratteristica di un ordine al quale i concittadini devono obbedire, senza tener conto, però, delle consegenze giuridiche corrispondenti. Si tratta in altre parole di puri e semplici comandi per mezzo dei quali si esercita l’autorità e la volontà dello Stato o del legislatore diretta a tutti gli abitanti dai quali si pretende un comportamento consono ai comandi. I maggiori esponenti di questa teoria possono considerarsi A.VON FERNECK, A. THON, E. R. BIERLING, e J. AUSTIN. In secondo luogo la teoria delle norme di Binding Questa teoria fu poi completata da A. KAUFMANN nel 1954.. Una concezione, questa, abbastanza vicina a quella monista ma che presenta caratteristiche che la distanziano sensibilmente da quest’ultima. Secondo questa concezione devono essere tenuti distinte le norme dalle leggi penali: le norme sono proposizioni di diritto che voglio imporre un obbligo di fare o un obbligo di non fare qualcosa. Sono quindi semplici ordini che posso presentarsi come scritti o meno e sono anteriori alla stessa legge. La legge penale, invece, si presenta come una disposizione di diritto scritta, diretta al giudice che lo autorizza ad imporre gli effetti penali conseguenti alla trasgressione della norma. I questo odo il reo viene a contatto con la legge penale solo quando con il suo comportamento non ha infranto una delle norme giuridiche, quindi egli non infrange la legge penale in alcun modo. In terzo luogo si deve menzionare la teoria dualista. Questa concezione si pone in opposizione con la teoria monista . i primi passi si hanno con F. von Liszt che afferma “ la pena si pone al servizio della protezione dei beni giuridici” e la storia del diritto penale non è altro che lo sviluppo “ degli interessi dell’umanità dichiarati beni giuridici”. Partendo da questa ottica si può concepire la norma come un giudizio di valore. L’antigiuridicità contiene un giudizio di disvalore del fatto, e la colpevolezza un giudizio di disvalore sull’autore. E. Mezger formulò la teoria dualista secondo la quale la regola giuridica non solo sono norme oggettive di disvalore ma sono anche norme soggettive di motivazione ( o di determinazione); la prima influenza il giudizio penale e la seconda la colpevolezza. La norma giuridica che ne discende quindi ha la caratteristica insieme di un giudizio e di un imperativo. In ultimo un’altra importante posizione sulla naturalezza deriva dalla teoria pura del diritto difesa da H. Kelsen che respinge in modo netto la teoria delle norme di Binding, ritenendo l’essenza dell’ordinamento e delle norme giuridiche nell’imposizione dei doveri. Si così fosse tutte le norme avrebbero la stessa struttura e per questo sarebbe difficile distinguere tra e norme e la legge penale. La norma giuridica si presenta come un giudizio ipotetico che collega determinate conseguenze a determinate condizioni, queste ultime consistono nella condotta umana alle quali si collegano determinate conseguenze riscontrabili nella stessa struttura della norma. Se è A si avrà B. Grazie a questo possiamo parlare di norme primarie e norme secondarie: “ sono norme primarie quelle che stabiliscono la relazione tra il fatto illecito e a sanzione; sono norme secondarie quella che prescrive la condotta che permette di evitare la sanzione.” Così ad esempio all’art. 103 del Codigo Penal si avrà “ se uccidi, avrai la sanzione della prigione che andrà dai 208 ai 450 mesi” ( norma primaria) “ non devi uccidere, se….” ( norma secondaria). Questa teoria a differenza di quella basata sugli imperativi pone la su attenzione sulla coazione o sanzione, ce è la definizione della norma stessa. Ubicazione della norma e struttura del sistema giuridico. Due tipi di approcci si riscontrano in questo campo: la teoria analitica inglese e il funzionalismo tedesco. In primo luogo secondo H. L. A. Hart il linguaggio utilizzato nell’enunciazione e nell’applicazione delle norme giuridiche costituisce un settore speciale del discoro umano che può portare a confondersi se non si presta la dovuta attenzione. Il diritto dice, è un esempio molto completo di questo tipo e alcune volte per recepire le sue caratteristiche si deve distogliere lo sguardo da esso e dirigerlo verso qualcosa di più semplice. Questo gli permette di criticare le tesi kelseniane che, afferma, funziona solo per le leggi penali e alcune civili, e dimentica l’esistenza di un importante gruppo di norme le cui funzioni sono di conferire facoltà o potestà. Il diritto, poi, non può ridursi ad una sola classe di regole, e deve essere concepito come la unione di diversi tipi di norme, evitando di deformare la realtà giuridica. Per questo per Hart, le regole o norme di diritto si possono classificare nel modo seguente: primarie, che prescrivono all’individuo la realizzazione di certi atti, lo vogliano o no, e impone loro obblighi, data la loro forza impositiva così come succede alle norme del Còdigo Penal; secondarie che non si occupano in modo diretto di quello che gli individui possono o non possono fare ma che possono essere suddivise in tre modi diversi: le norme di riconoscimento, che permettono di identificare quali norme sono parte del sistema giuridico e quali no; le norme di scambio, che dinamizzano l’ordine giuridico e indicano i procedimenti affinchè cambino ne sistema le norme primarie; le norme di aggiudicazione che danno la competenza a determinati individui, per esempio i giudici, per stabilire se qualcuno ha infranto la norma giuridica o meno. In secondo luogo deve essere menzionata la teoria di R. P. Callies che concepisce la norma come un processo comunicativo interattivo. Per Callies la norma giuridica come struttura comunicativa non si riferisce a soggetti isolati gli uni dagli altri ma ad un contesto di persone o gruppi in un contesto sociale Così ad esempio l’art. 239 comma 1 del Còdigo Penal dice “ chi si appropria di una cosa mobile altrui, con il proposito di ottenere un profitto per se o gli altri incorrerà nella reclusione da trenta a a centotto mesi”. In questa prescrizione ci si rivolge a diverse persone: il soggetto che agisce in modo attivo, la vittima che subisce il reato e un terzo ( il giudice) che è chiamato ad emettere una pena in conseguenza della violazione della norma giuridica.. Si tratta quindi di un insieme di aspettative reciproche in cui ogni soggetto coinvolto si aspetta un determinato comportamento gli uni dagli altri. Secondo l’utore questo metodo andrebbe applicato a tutto il diritto ma in realtà dà origine ad una concezione monista in cui la virtù si uniforma al trattamento delle diverse norme giuridiche a seconda della loro struttura. Come è evidente l’autore non è interessato alle norme penali in particolare con la loro dinamica sociale ma alla loro funzione nell’intero sistema sociale. In questo, è giusto dirlo, si ritrova la novità del suo approccio che pretende senza dubbio, di richiamare l’attenzione sulla necessità di avvicinare il diritto penale alle scienze sociali. La genesi della norma Nell’ambito penale non è frequente incontrare scritti che spieghino la procedura di origine della norma. Per questo si deve ritenere fondamentale il contributo di M.E. Mayer che da un piano sociologico, studia la loro nascita. Per Mayer tutte le regole dello Stato hanno avuto una valenza culturale nella società, poiché “la creazione del diritto positivo è in realtà il riconoscimento da parte dello Stato delle norme culturali”. Ad un primo sguarda si può pensare che si tratti di una variante della teoria di Binding, con la differenza che Mayer la regola di diritto ha origine sociale e si espone alle stesse critiche. Senza dubbio la reazione delle norme penali è il prodotto di una decisione politica, anche se non si deve dimenticare che si può anche spiegare partendo dalla necessità di vertere i principi ispiratori della legge Fondamentale dello Stato con la normativa penale. Le posizioni che studiano questo problema, da un punto di vista sociologico, s possono suddividere in due macro gruppi : i teorici del consenso e i teorici del conflitto. Secondo i primi la società si rivela a partire da un modello di organizzazione collettiva frutto di un accordo, in modo che tutte le istituzioni che lo compongono, incluso il diritto penale, riscontrino le convinzioni della maggior parte della comunità. In questo modo, le norme penali appaiono accettate in forma generale e si ha un’integrazione delle aspettative differenti nelle quali i valori della società funziona con la stessa armonia di un organismo, nonostante le contraddizioni che possono presentarsi. Portatori di questa teoria sono E. DURKEIM, T. PARSONS, N. LUHMANN e R. MERTON. Secondo coloro che invece propendono per la teoria del conflitto, l’organizzazione sociale è frutto di una lotta fra contrari. Un archetipo che spiega il permanente cambiamento della struttura collettiva e che presuppone la coercizione di alcuni membri della collettività. Le norme, dunque, non sono socialmente accettate, ma costituiscono gli strumenti di potere nelle mani un gruppo dominante, che ha disegnato un sistema legale di naturale coercizione. Esponenti di questa tesi sono R. DAHRENDORF, W.J. CHAMBLISS, A. PLATT, H. HAFERKAMP. Le pene in generale nel sistema penale colombiano: Da un punto di vista formale la pena è un male segnalato dal legislatore per chiunque commetta un determinato delitto. Da un punto di vista materiale, invece, è oggetto di vaste discussioni circa il suo fondamento, giustificazione, senso e fine. Senza dubbio la pena è la privazione o la restrizione dei beni giuridici imposta dall’organo giurisdizionale competente a la persona che ha realizzato una condotta punibile secondo gli orientamenti giuridici corrispondenti. Compito fondamentale della pena è la protezione dei beni giuridici per assicurare la coesistenza umana sebbene, in qualche modo, abbia anche una funzione restauratrice dell’ordine giuridico conseguente all’infrazione della legge penale. Secondo la prima concezione, quella della privazione o restrizione dei beni giuridici, si presuppone che siano limitati i diritti penali, cioè quei diritti fondamentali per l’essere umani quali la libertà, il patrimonio, la vita, l’onore ecc. Tuttavia le stesse conseguenza possono aversi in rami diversi dell’ordinamento giuridico come le sanzioni contemplate dal diritto amministrativo le cui pene si distinguono da un punto di vista meramente quantitativo e formale.. Importante anche richiamare l’attenzione sull’organo giurisdizionale chiamato ad imporre la legge penale in conformità con le strutture previamente indicate dalla legge secondo il principio della jurisdiccionalidad. Così allo stesso modo si suole dire come si attribuisce alla persona che ha realizzato la condotta punibile, poiché solo quei comportamenti umani costituenti una condotta tipica, antigiuridica e colpevole sono meritevoli di una pena criminale. La pena, il senso, la funzione e la finalità non può essere del tutto compresa se allo stesso tempo non viene analizzata in un contesto socio economico determinato e in una struttura statale. La teoria della pena è quindi indefettibilmente legata alla teoria dello Stato. Cfr. BUSTOS RAMIREZ y HORMAZABAL “Pena y Estado” Man mano che questo si trasforma anche la pena lo fa. Per spiegare e meglio capire l’evoluzione del diritto penale colombiano e per poter studiare il còdigo penal bisogna analizzare le diverse teorie. Si possono raggruppare le teorie a seconda dei diversi fini che la pena ha avuto. 2.1teorias absolutas. Alcuni fautori della stessa teoria assoluta l’ hanno suddiviso in teoria della espiazione e teoria della retribuzione Cfr. HEIKO “la funcion de la pena”, JAVIER SANCHèZ VERA (trad.) universidad externado de Colombia 2000 Bogotà, pp 18 y ss.. Quando lo stato assoluto inizia il suo declino grazie alla nascita di una nuova classe sociale ( la classe mercantile) , si inizia il ripensamento sul tema: il potere non deriva da Dio ma dagli uomini ( contratto sociale), sorge quindi lo stato liberale borghese auspicato dalla rivoluzione francese ( 1789). La pena non può quindi essere la espiazione del peccato ma è la retribuzione al disordine causato all’ordine giuridico che è stato dato agli uomini e è stato consacrato dalla legge: la pena nasce dalla necessità di ristabilire l’ordine giuridico interrotto. Cfr. BUSTOS “ pena…” cit. pag. 103 e ss.La funzione della pena si limita semplicemente alla realizzazione della giustizia ( retribuzione). Le teorie assolute, chiamate teorie retributive , trovarono il loro appoggio nell’idealismo tedesco, fondamentalmente attraverso i postulati teorici proposti da Kant ed Hegel, per i quali la funzione della pena semplicemente è la realizzazione della giustizia. Per Kant la pena non può essere semplicemente imposta come mezzo per procurare ad altri un benessere ma deve essere imposta per il solo fatto che ci sia stato il delitto. L’uomo non può essere usato come mezzo delle intenzioni degli altri, né confuso tra gli oggetti dei diritto. Cfr. Kant citado por Heiko, Bosch “ la funciòn..” cit. p. 21 Per Hegel la pena ha la funzione di annichilire e negare l’esistenza del delitto. Il reo con la sua condotta nega l’esistenza della norma. Nell’imporre la norma si nega l’esistenza del delitto come nuova norma e si cerca di ristabilire la liceità della condotta. In questo modo si avrà una dialettica della negazione della negazione. La libertà senza responsabilità non è vera libertà, ma un mero arbitrio soggettivo. Cfr. Heiko Lesch “ la funciòn..” La posizione centrale di queste teorie assolute girano intorno all’idea che l’uomo è un fine a se stesso, quindi risulta ammissibile punire un reo per il beneficio della società. Alcune critiche sollevate contro queste teorie si possono così riassumere: non è accettabile la posizione della pena come retribuzione della colpevolezza ( teoria normativa) per essere questa dimostrabile empiricamente, nemmeno è accettabile come la retribuzione per il fatto commesso, ma la pena è un’amara necessità della società per conseguire i fini razionali e permettere la convivenza tra i membri. Le teorie assolute contraddicono il carattere frammentario del diritto penale e la protezione parziale dei beni giuridici. Coì risultano incompatibili con l’idea della giustizia assoluta disposizioni come la libertà condizionale, la prescrizione, l’amnistia, l’indulto, il perdono dell’offeso e le condizioni oggettive di punibilità ecc. Cfr. Santiago mir “ Introducciòn a las bases del derecho penal” In quanto alla funzione dello Stato si riferisce è sbagliato partire da un ordine assoluto non riconoscendo le disuguaglianze che lo stesso Stato genera. Non è possibile accettare la teoria della retribuzione come fine della pena, poiché i presupposti da cui parte sono incompatibili con le base teoriche di uno Stato di diritto. Le teorie retributive compiono una funzione che è la realizzazione della giustizia ma non hanno alcuna finalità. 2.2 teorias relativas. In contrapposizione con le teorie assolute nascono le teorie relative, le quali pretendono, attraverso la pena, determinati fini, sia per mezzo della prevenzione generale che della, prevenzione speciale. La prevenzione generale Il fine della pena che si presenta come alternativa allo Stato liberale non interventista ed è dominata dalle correnti razionali utilitarie e laiche. Tra i suoi esponenti Beccaria, Bentham e Feuerbach, quest’ultimo fu il fautore della teoria della “ concezione psicologica”. Nella sua concezione tradizionale la prevenzione generale si intende una privazione generale negativa . Nel vedere la pena come la minaccia di un male , il suo fine è di intimidire gli individui che potrebbero essere attratti dalla commissione del delitto. Alcune critiche però sono state mosse. 2.3 costituzione politica, Còdigo Penal del 1980, legge 599 del 2000 e fini della pena. La costituzione politica colombiana Costituciòn polìtica de Colombia 1991, nei suoi articoli 11, 12, 28, 24 e 34, tra gli altri segnala i parametri generali ai quali si deve far riferimento per la regolazione e l’interpretazione di tutto ciò che concerne il diritto penale e in particolare ai fini della stessa. L’articolo 12 del Codigo Penal del 1980 sui fini della pena recita: “ la pena ha una funzione retributiva, preventiva, protettiva e risocializzatrice. I mezzi di sicurezza perseguono un fine di guarigione, tutela e riabilitazione” La legge 599 del 2000 ( nuovo codice penale) ai suoi articoli 3 e 4 disciplina i principi delle sanzioni penali così come le funzioni della pena. Art. 4 “ la pena avrà la funzione di prevenzione generale, giusta retribuzione, prevenzione speciale, reinserimento sociale e protezione al condannato. Si analizziamo la regolazione dei fini della pena secondo il codice penale del 1980 possiamo notare che: L’articolo 12 confonde i concetti di fine e funzione della pena, confusine non di poca importanza, poiché quando si parla di funzione della pena si fa riferimento all’”essere”, ossia, al perché si impone una pena o come afferma Bustos la funzione della pena in uno Stato sociale e democratico di diritto non è altro che la costatazione del proprio sistema mediante la quale si proteggono i bene giuridici. Invece, quando si parla del fine della pena si deve far riferimento al “ dover essere” . La retribuzione inoltre, può essere considerata come fine della pena. Consideriamo che il concetto di retribuzione si incontra sempre implicitamente ma non per questo può essere considerata come fine di essa. Riguardo ai fini della pena la corte Costituzionale dice: “ una volta ancora deve segnalarsi che lo ius puniendi corrisponde allo Stato in difesa della società, in quanta richiede che siano perseguite e sanzionate quelle condotte che la infettano collettivamente avendo attentato ai beni giuridici ritenuti preziosi e che hanno causato danni ai diritti dei consociati” Sentenza costituzionale, sentenza C-157 del 19 marzo 1997. M.P. JOSè GREGORIO HERNANDEZ GALINDO. . In un’altra occasione ha affermato “ … in uno Stato di diritto fondato sulla dignità umana ( art. 1 C. N), l’esecuzione delle pene deve avere una funzione di privazione speciale positiva, ossia, in questa fase si deve cercare prima di tutto il reinserimento sociale del condannato, ovviamente previo rispetto della sua autonomia e dignità […]il diritto penale non solo deve difendere le persone contro i delitti ma deve anche garantire i diritti individuali, che sono anche i limiti del potere punitivo. La pena deve essere il risultato dell’applicazione del diritto penale come ultima ratio e come tale deve essere necessaria, ragionevole, efficiente e proporzionata.” Corte Costituzionale sentenza C- 144 del 19 marzo 1997 M.P. ALEJANDRO MARTINEZ CABALLERO Con la sentenza C-430 del 1996 affermava: “ la pena ha nel nostro sistema giuridico un fine preventivo, che si compie essenzialmente nel momento in cui viene stabilita la sanzione, la quale si presenta come la minaccia al male prima della violazione delle proibizioni; un fine retributivo che si manifesta nel momento della sua imposizione da parte del giudice, e un fine “risocializzatore” che orienta l’esecuzione della stessa, in conformità con i principi umanitari e delle norme di diritto internazionale” La funzione di reinserimento sociale venne spesso presa in considerazione dalla corte Costituzionale colombiana che l’ha ribadita anche nella sentenza C-261 del 13 Giugno 1996, M.P. ALEJANDRO MARTINEZ CABALLERO.. le funzioni della pena nel codice penale del 2000 la norma penale può avere diverse funzioni tra cui vanno elencate: di garanzia. In connessione con il principio di legalità, inteso come il supremo limite all’esercizio del jus puniendi dello Stato da un punto di vista politico, si suole parlare della sua funzione di garanzia in una quadrupla visione: la sanzione penale non può fondarsi né aggravarsi in base al diritto consuetudinario, l’analogia ad una applicazione retroattiva della legge penale; le leggi penali devono essere redatte con la maggiore chiarezza, in modo che non solo il suo contenuto ma anche i suoi limiti possano essere dedotti dal testo legale con la maggiore precisione possibile. Le prime due disposizioni sono rivolte al giudice, mentre le ultime due si rivolgono al legislatore. Questa funzione non si riferisce al solo diritto penale ma è riscontrabile in ogni campo dell’ordinamento. Si noti come questa funzione sia ben visibile nella Costituciòn Politica, articulos 29 e nel Codigo Penal agli articoli 6 e seguenti. Di protezione. Alla norma penale corrisponde anche un fine di protezione che si traduce nella tutela dei beni giuridici, inteso non solo da n punto di vista formale ma anche materiale. Non solo ma i concetti di protezione e di motivazione risultano in questo caso inseparabili e interdipendenti. Come è facilmente intuibile questa finalità è più apparente che reale, posto che è la classe al potere che decide quali beni vuole proteggere, come e quando questo debba essere fatto, il che non significa che un governo liberale debba rinunciare a questa ma proprio il contrario lo deve promuovere. Detto in altri termini la norma penale ha la funzione strumentale di proteggere i beni giuridici producendo nei consociati un effetto dissuasorio. Di motivazione. Partendo da un concezione imperativa della norma, influenzata dalle elaborazioni psicoanalitiche, per mano della vecchia tesi della coazione psicologica di Feuerbach si è arrivati a parlare di una “ teoria della motivazione”. In conformità con questa, la minaccia della pena, e quindi della sua imposizione, è un mezzo per raggiungere le condotte dei concittadini e di esercitare un controllo sociale su di essi. Si tratta di un elemento al quale la società deve ricorrere per poter convivere pacificamente, e per elevare e rafforzare i meccanismi di inibizione delle condotte che sono vietate. La funzione motivazionale della norma penale si può capire completamente se si inserisce in un contesto di controllo sociale. Simbolica Per finire come succede in ogni ramo normativo del sistema attuale, è usuale che molte norme penali non nascano per essere applicate e che gli ordinamenti giuridici finiscano per essere i depositari di una buona parte della violenza emblematica che vuole tutta la società per realizzare una certa coesione e portare avanti determinati valori. Per questo possiamo affermare che la norma penale ha una funzione simbolica. Possiamo fare riferimento ad esempio al processo di inflazione legislativo vissuto dall’ordine giuridico colombiano nelle ultime decadi, più volte influenzato solo da scelte politiche ed elettorali ma che è ben lontana dalla vera protezione dei beni giuridici. La vera funzione della norma penale. Senza dubbio ogni singolo elemento e funzione prima analizzato è presente nella norma penale colombiana senza dover inevitabilmente avvicinarsi al suo studio con un approccio troppo totalitario ed esclusivo. Si può pensare invece al diritto penale colombiano come ad un diritto penale oggettivo o ad un insieme di norme giuridiche penali che hanno una funzione garantista. Il principio di legalità inoltre, presuppone un cumulo di prerogative non solo di natura sostanziale ma anche processuale e di esecuzione; così il principio della protezione dei beni giuridici è inteso come il massimo limite all’esercizio del diritto penale soggettivo e, in armonia con questo, ha da sempre mostrato il suo carattere finalista o teologico del diritto penale oggettivo. Tuttavia bisogna evidenziare come la norma penale non sia una norma di valorizzazione oggettiva ma di determinazione e quindi non va mai dimenticata la sua funzione motivazionale. Non deve neanche essere esclusa la sua funzione simbolica Classificazione delle pene Il diritto penale colombiano divide le pene in quattro diversi gruppi distinti, secondo diversi criteri classificatori. In primo luogo le pene vengono divise secondo l’importanza o il rango interno, si parla in questo caso di pene principali, sostitutive e accessorie. Le prime si impongono in modo indipendente senza nessun vincolo, in modo autonomo, come succede nel caso della prigione, la multa o le pene privative di altri diritti che hanno questo carattere. Le seconde sono quelle che si applicano in luogo di altre come ad esempio gli arresti domiciliari o l’arresto nel fine settimana o quello ininterrotto di alcuni diritti positivi. Le pene accessorie possono essere definite come quelle pene che non hanno una propria esistenza ma si applicano in modo successivo o simultaneamente a seconda dei casi insieme a quelle principali. Le pene vengono poi divise a seconda della loro forma di applicazione in due modi diversi: da un lato le pene semplici e quelle composte, le prime che possono essere anche definite uniche, si presentano quando la legge penale prevede un’unica sanzione come conseguenza penale ad un illecito commesso. Così ad esempio il codice penale prevede per l’omicidio la pena alla sola reclusione. Le pene complesse, invece, si hanno quando il legislatore dispone diverse pene applicabili in maniera combinata, anche chiamate pene congiunte, alternative o facoltative. Un esempio classico è la condotta punibile di abuso di autorità che va sanzionata con la multa e la perdita dell’impiego. A seconda della loro applicazione invece le pene possono essere divisibili o indivisibili: le prime sono quelle pene che possono essere frazionate da un punto di vista quantitativo e temporale Pene tipicamente divisibili sono nel codigo penal la multa e la reclusione.; le seconde, invece, non sono suscettibili di alcuna separazione Ne sono un esempio la perdita dell’impiego o l’espulsine dal territorio nazionale per gli stranieri.. A seconda del diritto influenzato, ossia a seconda del bene giuridico di cui il condannato viene privato, le pene possono suddividersi in estintive, quando pongono fine alla vita del condannato La pena di morte che in Colombia è proibita ex art. 11 Costituciòn politica. ; sono corporali se hanno effetto sulla integrità fisica del condannato o se causano dolore materiale, come la fustigazione, la mutilazione, la rottura di membra, la tortura o la castrazione ecc. ; sono pene infamanti quelle pene che toccano l’integrità psicologica, l’onore o l dignità del reo; tali possono anche considerarsi la sua morte civile, l’espulsione dal territorio nazionale, l’inabilitazione dall’esercizio di diritti e funzioni pubbliche. Possono, inoltre essere pene di privazione della libertà quando limitano in modo temporale o definitivo la libertà personale per mezzo della reclusione in istituti penitenziari( prigione, arresto etc.); possono essere restrittive della libertà quando invece limitano il diritto alla libertà personale come ad esempio il confinamento, l’esilio, l’espulsione, la libertà vigilata o il divieto di a concorrere a cariche pubbliche. Sono interdittive quando hanno la capacità di spogliare il reo dall’esercizio dei propri diritti civili e politici, come quelle l’interdizione dalle cariche pubbliche, la perdita della patria potestà, l’interdizione da un arte o una professione, etc. questo tipo pene vengono anche chiamate di “morte civile” ed in passato si aveva la perdita totale di ogni diritto. Infine le pene possono ledere il patrimonio del reo: tipico esempio è la multa che presuppone il pagamento di una somma di denaro allo Stato. Ultima suddivisione che può essere fatta è quella a seconda della durata o limite temporale. Le pene possono essere perpetue o temporali: le prime hanno una durata indefinita essendo collegate alla vita del condannato; le seconde invece una durata fissa e limitata. Possono essere classificate, sempre nell’ambito della durata della pena, in pene determinate o indeterminate essendo le prime stabilite in modo fisso dalla legge mentre per le seconde non può essere indicata la loro durata. le caratteristiche della pena nel sistema penale colombiano A seconda della classificazione quindi che viene data alla pena, nel Còdigo Penal colombiano la pena ha determinate caratteristiche le quali ci permettono di distinguerle dalle pene degli altri ordinamenti giuridici. 1.UMANA. Il diritto penale si ispira ad un principio di dignità della persona umana, che poi, è la vera colonna portante del diritto in uno Stato sociale e democratico. Questo concetto quindi, ha in sé il rispetto e l’integrità di ogni singolo essere umano e come conseguenza la preservazione dell’indennità personale e lincolumità della persona come essere sociale, c.d. principio di umanità. Quindi la pena non è lo strumento per sottomettere l’individuo o che può comportare disuguaglianze. Questo principio, impone quindi al legislatore, il divieto assoluto di creare pene che possono ledere l’essere umano attraverso atti crudeli, inumani e degradanti. Costituciòn politica articulos 1, 5, 12, 16, 28 e 34; Còdigo Penal articulos 1 y 2. Vi è una lotta continua contro le pene privative della libertà di eccessiva durata nonché il divieto della pena di morte Costituciòn Politica articulo 11. Il codice penale colombiano quindi vieta qualsiasi pena che possa in qualsiasi modo infliggere al soggetto una sanzione contro la sua dignità come essere sociale quale è. Tuttavia nonostante questo principio esistono espresse eccezioni a livello costituzionale Vedi ad esempio l’art. 93 Costituciòn politica, modificato dalla legge 2 del 2001 che prevedono l’ergastolo quando si tratti di crimini che sono oggetto di processo per la Corte penale internazionale Articolo 77 1B recepito dall’art. 1 della legge 742 del 2002.. Ulteriore eccezione è prevista dalla legge 890 del 2004 che all’art. 1 prevede pene che possono avere anche una durata di 60 anni. La legge 1453 del 2011, inoltre, all’articolo 6 prevede pene massime anche di 90 anni per il traffico di minori; ancora, la legge 1474 del 2011 in materia di riciclaggio prevede la pena di 118.1 anni. Articolo 323 Còdigo Penal. LEGALE. Questo principio prevede che ogni sanzione irrogata abbia il proprio fondamento nel principio di legalità dei delitti e delle pene, massimo limite formale dello Stato nel esercizio della sua attività punitiva. Questo principio che può essere riscontrato nell’assunto nulla pena sine lege può essere inteso sia su un piano di prerogative e privilegi ( non vi è pena senza legge scritta, certa e preordinata), sia su un piano processuale ( non vi sarà l’applicazione della pena senza un processo penale) o ancora come esecuzione della pena ( non vi è pena senza una adeguato trattamento penitenziario e assitenziale, di carattere umano o di reinserimento: principio dell’esecuzione della pena). Questi privilegi ono stati riconosciuti dall’ordinamento giuridico Costituciòn Politica articulos 1 e seguenti e articolo 29 inciso 2; Còdigo Penal articolo 6 inciso 1; Patto internazionale dei diritti civili e politici recepio dalla legge 74 del 1968, articolo 15; Convenzione Americana sui diritti umani recepita mediante la legge 16 del 1972 ( 30 dicembre) articolo 9. . La pena quindi può essere imposta secondo quanto disposto dalla legge; è vietata poi, qualsiasi arbitrarietà da parte del giudice nella sua applicazione. DETERMINATA. La pena è preceduta da un postulato di determinazione, certezza e tassatività, principio strettamente collegato a quello di legalità. Le leggi quindi devono prevedere sanzioni determinate per quanto riguarda il grado, la durata, l’importo, etc. ; le pene inoltre devono essere, espresse, precise, manifeste, concrete affinché non vi sia alcun dubbio sulla loro portata. Proprio per questo un diritto penale liberale e democratico deve respingere l’idea di una qualsiasi pena indeterminata , con contenuti sfuocati ed imprecisi ecc. che collidono con la sicurezza giuridica, presupposto indefettibile dello stato di diritto in cui il giudice non potrà compiere adeguatamente la sua missione. Se il legislatore non provvede adeguatamente ad applicare questo principio l’attività del giudice, infatti, diviene impossibile poiché sarebbe impensabile individuare pene che rimangono incerte. Questa caratteristica è riscontrabile anche dall’art. 77 dello Statuto della Corte penale internazionale e dalla legge 890 del 2004 all’articolo 1. UGUALE. La sanzione deve essere applicata a tutti coloro che infrangono la legge penale senza distinzione di alcuna natura in considerazione di età, classe sociale, gerarchia, sesso, razza, nazionalità ecc. Siamo di fronte al cosiddetto principio di uguaglianza materiale della legge penale Costituciòn politica articolo 13 e Còdigo Penal articolo 7. . Con questo principio non si fa riferimento al diritto di essere uguali ma al concetto di uguaglianza di fronte all’applicazione della legge penale qualora si presentino casi simili. Qui, più che negli altri rami dell’ordinamento, il giudice deve tener conto dei criteri di differenziazione che prevedono appunto l’applicazione di questo principio e partendo da questi applicare una pena in base alle differenze che possono essere riscontrate, basandosi su criteri come la ragionevolezza, la proporzionalità della pena e i suoi fini. PROPORZIONALE Secondo questo assioma la pena che dovrà essere inflitta dal giudice non deve mai eccedere ma corrispondere alla gravità ed entità della condotta punibile in modo che le sanzioni più gravi siano destinate a quei crimini considerati atroci mentre i crimini meno gravi siano puniti con sanzioni più lievi Costituciòn politica articoli 1, 2, 5,6,11 e 13; Còdigo Penal artiolo 3. . Una delle conquiste moderne più importanti dall’epoca di Cesare Beccaria è il rifiuto di uguali sanzioni per crimini di diversa gravità. La proporzionalità deve essere sia di carattere qualitativo dove infrazioni di diversa natura sono soggetti a sanzioni diverse, ma anche di carattere quantitativo, ossia, ad ogni condotta punibile devono corrispondere pene diverse a seconda della gravità del fatto. Uno Stato democratico quindi, deve avvalersi di principi fondamentali come: la gravità del reato commesso e il grado di colpevolezza. RAGIONEVOLE La sanzione penale imponibile deve essere frutto di determinazioni giudiziali che insieme alla legge penale si allineino con i principi di equilibrio, moderazione e ragionevolezza così come direttamente previsto dal diritto penale. Il principio di ragionevolezza può essere individuato nell’articolo 3 del Còdigo Penal. Questo principio appare fondamentale, poiché solo così si avrà una pena equilibrata e adeguata ai fini perseguiti; sarà possibile ristabilire l’equilibrio delle relazioni fra i concittadini che hanno infranto la legge penale alla al quale è proprio lo stato che deve provvedere salvaguardando tale equilibrio mediante la sua giusta risposta punitiva. Quando si tratta quindi, di stabilire la ragionevolezza della sanzione, si deve sempre far riferimento alla finalità essenziale perseguita dalla normativa penale ossia nella tutela dei beni giuridici più preziosi. La sanzione penale non è frutto della casualità, del capriccio o della discrezione del giudice ma è il prodotto riscontrabile nell’attività propria dello Stato di diritto chiamato a eliminare ogni elemento di irragionevolezza. NECESSARIA Nel diritto penale di garanzia, ispirato al rispetto della dignità della persona umana e delineato da un principio più generale della necessità di intervento, la sanzione penale imponibile può essere solo quella che sia considerata indispensabile per la concretezza del programma politico criminale delineato dal legislatore: nulla poena sine necessitate. Questo principio inoltre comporta che derivi il minimo danno per il colpevole. Tutto questo trova la sua origine nella filosofia utilitarista, portate avanti da Cesare Beccaria e da J. Bentham tra i tanti con pieno recepimento da parte del diritto positivo Costituciòn politica articoli 1, 2, 5 e 12; Còdigo Penal articolo 3.. La pena, inoltre, può essere imposta solo a quei trasgressori che hanno realizzato un comportamento oggettivo di disvalore grave e che abbiano un elevato grado di nocività e di dannosità per la società. Il reo inoltre, deve pregiudicare i beni giuridici o almeno minacciarli in modo effettivo così come esige l’articolo 11 del Còdigo Penal. Quando si parla di pena necessaria si parte dal presupposto che essa sia meritata. Senza confondere però il principio di necessità ( il reo necessita della pena) con il principio di meritevolezza “Idea de merecimiento.” ( il reo si è meritato una pena). GIUDIZIALE Così come il prodotto di quel diritto penale proprio dello stato sociale democratico deve essere riscontrato nel postulato del giudice costituzionale, legale e naturale ( limite formale all’esercizio della potestà punitiva statale), l’imposizione della pena è riservata unicamente agli organi giurisdizionali competenti, ai tribunali di giustizia debitamente costituiti, che devono applicarla solo quando si riscontri una condotta punibile dell’agente. Inoltre l’imposizione della pena deve trovare la sua base nel rito processuale ordinario fornendo al reo la possibilità di sfruttare tutte le garanzie e prerogative che lo stato di diritto gli assicura Costituciòn politica articolo 29 inciso 2 e Còdigo penal articolo 6 inciso 1.. INDIVIDUALE In virtù del fatto che la pena è personale, e che può essere inflitta a colui che trasgredisce la legge penale in qualità di suo autore o complice, ma non ai terzi, che si trovano legati al soggetto colpevole in virtù di vincoli di amicizia, credo politico o religioso, sangue, affetti ecc, come impone il principio di colpevolezza o di responsabilità soggettiva, nulla poena sine culpa, si suole assegnare a diritto penale il concetto di individualità. La pena non può trascendere dalla persona del colpevole Convenzione americana sui diritti umanu recepita dalla legge 16 del 1972 articolo 5-1 numerale 3; costituciòn politica articoli 6,16 e 29 inciso 2; Còdigo penal articolo 12. . Per fortuna può essere considerata passata quell’epoca in cui la sanzione non solo era applicata al colpevole ma anche ai prossimi congiunti e ai parenti. Oggi è accettato, almeno nei sistemi ispirati al diritto occidentale, che la punizione statale debba essere imposta solo al colpevole del reato che può essere considerato come conseguenza del postulato della dignità umana come pilastro di tutti gli orientamenti presenti nelle nazioni civilizzate. IRREVOCABILE L’imposizione della pena è legata all’idea della permanenza, della durata, della persistenza ( in realtà una conseguenza del concetto più generale della cosa giudicata, incluso dal legislatore nel catalogo “ le norme che governano la legge penale colombiana”), in virtù della quale una volta imposta la sanzione deve compiersi in maniera stretta sena che sia suscettibile di revocazione, modificazione o sospensione. Quando il giudice, cioè, nel caso concreto e mediante l’imposizione di una sentenza esecutiva realizza ‘individuazione della pena, emette una decisione irrevocabile che deve essere osservata dal condannato, dal giudice dell’esecuzione, le autorità penitenziarie e tutti gli associati. In questo momento si può riscontrare la finalità retributiva menzionata nell’articolo 4 del codice penale colombiano. Tuttavia questo non significa che in alcune ipotesi, previste dal legislatore, le sentenze non siano suscettibili di sospensione o revocazione. Il principio in questione quindi non può essere considerato un principio assoluto. Così ad esempio, si può concedere una modificazione della pena come nel caso della sospensione condizionale della pena o la libertà condizionata ecc. Articoli 63 e seguenti del còdigo penal in armonia con la legge 890 del 2004.. Vi potrebbe essere anche una revoca della pena in caso di amnistia o indulto Còdigo penal articolo 82o potrebbe intervenire la prescrizione dell’esecuzione della pena imposta Codigo penal articolo 88 e seguenti.; vi potrebbe essere una sentenza di revisione o intervenire una sentenza della corte di Cassazione Codigo de Procedimiento penal articoli 180 e seguenti, e 192 e seguenti.; oppure grazie ad un’abrogazione legislativa la condotta punibile perda il suo carattere di illeceità. È importante anche sottolineare il principio del ne bis in idem che è la conseguenza diretta del principio della cosa giudicata , secondo i quale il condannato no può essere nuovamente punito in occasione della realizzazione della stessa condotta. PUBBLICA L’idea delle conseguenze giuridiche è legata fortemente all’idea della diffusione, della comunicazione del fatto tanto al reo quanto ai consociati; proprio per questo fin dall’epoca del pensiero penale si è sostenuta la necessità che le sanzioni penali abbiano il carattere di pubblicità e che siano conoscibili, in modo che l’opinione pubblica possa non solo venire a conoscenza del comportamento dei giudici ma anche affinché il condannato possa avere l’opportunità di impugnare la decisione con i ricorsi previsti dalla legge processuale. Non è quindi possibile che il giudice possa mantenere segreta la sua decisione così come invece prevedono alcuni ordinamenti che lasciano il condannato all’oscuro della propria sorte. le pene nel diritto positivo Il legislatore nel ripartire le pene si avvale principalmente del criterio dell’importanza ossia del rango nel diritto interno; vengono così suddivise le pene principali e le pene accessorie privative di altri diritti. Come sanzione principale prevede la prigione la multa e le privative di altri diritti nella parte specile (articolo 35 del Còdigo Penal); per le seconde invece indica la detenzione domiciliaria, l’arresto nei fine settimana, l’arresto interrotto e il lavoro non renumerativo in ragione della sua natura sociale. Nel terzo gruppo sono previste: l’inabilitazione all’esercizio di diritti e funzioni pubbliche; la perdita dell’impiego e incarico pubblico; l’inabilitazione all’esercizio di una professione, arte, ufficio, industria o commercio; l’inabilitazione all’esercizio della patria potestà, tutela e curatela; il divieto a condurre autoveicoli o motoveicoli; il divieto di porto d’armi; il divieto di risiere in determinati luoghi; il divieto di consumare bevande alcoliche o sostanze stupefacenti o psicotrope; l’espulsione dal territorio nazionale per gli stranieri; il divieto di comunicare con la vittima o i suoi prossimi congiunti Articolo 43 modificato dall’articolo 24 della legge 1257 del 2008.. In questo terzo gruppo sono ricomprese le sanzioni che “ quando non operano come pene principali sono considerate pene accessorie” Articoli 34- 53 del Còdigo penal. . Queste pene possono essere intese come obbligatorie ( l’inabilitazione all’esercizio e funzioni pubbliche, cui fa riferimento l’articolo 52 inciso 3) o discrezionali ( tutte le restanti). CAPITOLO 5 introduzione L’analisi della pena accessoria nel diritto penale colombiano non può non essere direttamente collegata ad un’analisi approfondita dell’articolo 43 del Còdigo Penal, il quale pur stabilendo le pene privative di altri diritti in realtà elenca in modo chiaro e preciso quelle che sono le pene accessorie considerate tali quando non siano pene indipendenti ma siano, invece, legate ad un’altra pena principale così come stabilisce l’articolo 52 del suddetto codice. Lo studio di tali pene, siano esse considerate pene privative di altri diritti o pene accessorie, deve essere fatto alla luce del concetto di diritto portato avanti dalla dottrina e dalla giurisprudenza con particolare riguardo alle decisioni della corte costituzionale colombiana. Il diritto alla libertà, tema cardine di questo studio, può essere oggetto di restrizione da parte del legislatore in casi eccezionali e con l’osservanza dei requisiti stabiliti dalla stessa Costituzione. Nell’ambito dell’ordinamento costituzionale colombiano la libertà è un principio fondamentale e un valore essenziale del nostro stato di diritto Così nel preambolo della Carta Costituzionale viene definito come uno dei beni che deve assicurato e nell’articolo 2 si stbilisce che fine essenziale dello Stato è quello di garantire l’effettività di questo diritto; l’articolo 28 decreta che “ tutte le persone sono libere”.. La libertà ricomprende “la possibilità e l’esercizio positivo di tutte le azioni dirette allo sviluppo delle proprie attitudini ed interessi individuali senza ledere i diritti altrui né abusando dei propri….” Sentenza C- 301/93 M.P. EDUARDO CIFUENTES MUNOS.. L’articolo 28 dello Statuto Superiore, prescrive “ nessuno può essere molestato nella sua persona o nella sua famiglia, né detenuto o arrestato… se non in virtù di una disposizione giudiziale dell’autorità competente, nelle forme stabilite dalla legge e per motivi previamente stabiliti dalla legge”. Come si deduce dai due passi precedenti il Legislatore non ha concepito il principio della libertà come un concetto assoluto e quindi intangibile. Al contrario essa ne autorizza la sua limitazione in determinati casi, con l’unico limite che vi siano i requisiti e i presupposti riportati dall’articolo 28. La limitazione del diritto alla libertà deve essere quindi pienamente giustificato nel compimento dei fini necessari alla protezione dei diritti e dei beni costituzionali e deve inoltre avere il carattere dell’utilità e dell’indispensabilità. Una prima accezione, del nucleo essenziale equivale alla “naturalezza giuridica di ogni diritto” ossia al modo di concepirlo o raffigurarlo. Il diritto viene ad esistere in modo astratto nel momento in cui il legislatore riconosce la sua esistenza e vi è una regolazione concreta. In questa ottica i costituisce il contenuto essenziale del diritto soggettivo in quelle facoltà o possibilità di attuazione necessarie affinché il diritto sia riconoscibile come pertinente al tipo descritto. Una seconda accezione corrisponde agli interessi giuridicamente protetti come nucleo del diritto. Si può quindi parlare dell’essenzialità del contenuto del diritto ma affinché vi sia questa concezione i diritti protetti devono essere previsti in modo reale concreto ed effettivo. Vedi sentenza C- 179/1994 M.P. CARLOS GAVIRIA DIAZ. La costituzione abilita il congresso alla facoltà i restringere l’esercizio di alcuni diritti, basandosi su un criterio di ragionevolezza e proporzionalità, per mezzo di disposizioni soggette anche esse a limiti ben definiti. Tuttavia la carta Costituzionale stabilisce che sì i diritti fondamentali possono essere ristretti ma per nessuna ragione può essere intaccato la loro essenza primaria considerata indispensabile in uno Stato di diritto. Compito fondamentale del Legislatore, quindi, è armonizzare i diversi diritti e quando ciò non risulti possibile definire quali diritti devono “prevalere” sugli altri. le pene accessorie nel codice penale del 2000. Le pene accessorie, denominate pene complementari o secondarie interdittive Cort. Cost. de Colombia Sent. C-026 del 1995. Queste tipo di pene fnno parte delle pene privative di diritti e non possono essere confuse con le pene sostitutive, supplettive o alternative, che appartengono ad altre modalità di sanzioni giuridiche penali. Nelle prime l’ordinamento colombiano prevede la prigione (prisiòn) e l’arresto domiciliare come pena sostitutiva alla prigione. La moderna legislazione non prevede e pene “ supplettive” o alternative. , sono una tecnica giuridica per la restrizione ( interdizione, inabilitazione, sospensione ed espulsione) temporanea delle relazioni giuridiche o dei diritti costituzionali di natura politica, di lavoro o civili, che accompagnano in modo obbligatorio o discrezionale le pene principali privative di libertà o pecuniarie, sempre che non siano state previste dal legislatore nella parte speciale del CP come pene principali A tal proposito Bettiol “ Derecho penal” pag. 684 ritiene che si trattino di vere e proprie pene e che non possono essere distinte dalle pene principali; Lòpez Baria De Quiroga invece ritiene che questo tipo di pene possano essere distinte unicamente per la loro forma di imposizione giuridica come sanzione ad un comportamento antigiuridico. CP L. 599 DEL 2000 Art. 34, inc. 1°; CPM, L. 1404 del 2010 art. 37 Come pene discrezionali o facoltative, la loro imposizione qualitativa e quantitativa deve essere sostenuta in modo esplicito CP art. 59: Motivazione del processo e individuazione della pena “ tutte le sentenze devono contenere un fondamento esplicito sui motivi della determinazione qualitativa e quantitativa della pena e la loro esecuzione può essere simultanea o successiva alle pene principali imposte nella sentenza di condanna Guzmàn Dàlbora sostiene “ queste debbono incidere sulla capacità giuridica del condannato, ossia nella sua idoneità di esserne titolare o esercitare le facoltà nascenti dalle relazioni di diritto, siano queste pubbliche che private…”. La particolare natura cautelare implica che la forma giuridica concreta di restrizione e il quantum non siano fissati in modo tassativo nella parte speciale, anche se così è nella parte nella parte generale del Codice penale CP art. 43 Libro I Titolo IV “ le conseguenze giuridiche della condotta punibile” salvo alcune eccezioni. Questa astrazione è stata oggetto di numerose critiche da parte della dottrina che ne intravede una violazione del principio di legalità delle sanzioni penali CP art. 10 “ la legge definisce in maniera univoca, espressa e chiara le caratteristiche basi strutturali della tipologia penale. e dei postulati dello stato sociale e democratico di diritto In particolare si intravede una violazione della Costituzione politica colombiana ( CN preambolo e art. 1 ). Tuttavia possiamo sollevare alcune critiche a questa impostazione. In primo luogo, perché esigere una tassatività assoluta per questo tipo di pene nella parte speciale del CP presuppone equiparare erroneamente l naturalezza e il fondamento delle pene principali con quelli propri delle pene accessorie discrezionali nella criminalizzazione secondaria. Più chiaramente, le pene principali e accessorie obbligatorie si caratterizzano per essere pene previste in conseguenza di una condotta punibile dallo Stato, secondo la previsione che il legislatore ha effettuato in astratta e conseguente alla gravità del delitto. Le pene accessorie discrezionali, invece, fanno parte della valorizzazione giudiziale della gravità del delitto nell’individuazione generale della pena: possiamo quindi definirle pene residuali. È proprio per questo motivo che il giudice le imporrà nella condanna con l’autorizzazione espressa del legislatore se lo ritiene necessario, adeguato e proporzionale. In secondo luogo l’indeterminazione relativa delle pene accessorie è ciò che permette al giudice di cognizione, in un sistema punitivo flessibile basato sulla discrezionalità regolata, di ponderare i disvalori di ingiustizia ed esigibilità del delitto concreto, e di completare la valorizzazione astratta effettuata dal legislatore irrogando misure supplementari a le pene principali ( in senso qualitativo e quantitativo), secondo criteri previsti nel Codice Penale CP art. 3 “l’imposizione della pena o misura di sicurezza risponderà ai principi di necessità, proporzionalità e ragionevolezza” . Da un punto di vista politico criminale, queste pene si giustificano se comportano una riduzione dell’impiego della pena privativa di libertà come pene alternative. Ferrajoli “Diritto e Ragione” pag. 418, poichè restringono condizioni elementari di lavoro e sopravvivenza del condannato In terzo luogo, a differenza delle pene principali, le pene accessorie discrezionali si caratterizzano per non prevalere su di esse una finalità retributiva sul fine preventivo generale e speciale della sanzione Secondo Gil/ Lacruz Lopez/ Melendo, “Corso” pag. 801 ritengono che abbiano una funzione speciale negativa; CP rt. 4 “ la pena avrà una funzione di prevenzione generale, giusta retribuzione, prevenzione speciale, reinserimento sociale e protezione del condannato. La prevenzione speciale e il reinserimento sociale operano nel momento dell’esecuzione della pena alla prigione”, così che richiedono un equilibrio tra le giustificazioni extra e intra sistematiche, il che contribuisce alla loro completa natura; tra pena e misura di sicurezza, la cui finalità primordiale è evitare la realizzazione dei delitti futuri mediante la restrizione temporale di attività o diritti di natura professionale, civile e lavorativa. In questo modo le pene accessorie discrezionali sono vere pene fondate sul principio della necessità della sanzione penale e nella funzione che queste devono svolgere nel caso concreto CP art. 61, inc. 3 “… stabilito il quarto o quarti entro cui deve essere determinata la pena, il giudice la imporrà seguendo i seguenti criteri: la maggiore o minore gravità della condotta, il danno reale o potenziale causato, la natura delle cause che aggravano o attenuano la punibilità, l’intensità del dolo, la preterintenzione o la colpa concorrente, la necessità di pena e la funzione che questa deve compiere nel caso concreto”; tuttavia Lopez Baria De Quiroga ritiene che si tratti di conseguenze giuridiche accessorie. una volta che sia stata provata la realizzazione di una condotta punibile. CP art. 9 “ affinché la condotta sia punibile si richiede che sia tipica, antigiuridica e colpevole. La causa da sola non basta per imputare il risultato. Affinchè la condotta dell’imputato sia punibile si richiede che sia tipica, antigiuridica e non vi siano cause di estinzione della colpevolezza”le restrizioni accessorie sono condizionate solamente all’esistenza di una connessione diretta e sostanziale tra la pena e la realizzazione modale del delitto punito. Questa connessione deve avere in sostanza l’esistenza di una maggiore gravità o esigibilità dell’infrazione sanzionata con la pena principale che può essere applicata discrezionalmente dal giudice per mezzo di altre pene che eccedono alla pena obbligatoria, conformemente alla completa valorizzazione del sanzionato. Si impongono anche per evitare la realizzazione di condotte similari a quella sanzionata ed evitare rischi o lesioni concrete ai beni giuridici della comunità o delle vittime. Questo carattere preventivo generale e speciale, che rafforza il fine delle pene principali, si contrappone all’idea di plasmare nella legge una regolamentazione assoluta del sistema dele pene accessorie per ogni delitto e procedura, si eliminerebbe inoltre la discrezionalità del giudice che caratterizza il processo penale vigente. Inoltre, non sempre è opportuno regolamentare le restrizioni accessorie per un delitto senza valutare la necessità e la proporzionalità di tali effetti nel caso concreto. Infine, bisogna sottolineare, che le pene accessorie in nessun caso, possono trovare fondamento nella personalità pericolosa del reo, nel suo carattere o nella forma in cui egli conduce la sa vita, poiché questo potrebbe violare il principio di colpevolezza CP art. 12 “ possono essere imposte pene solamente per le condotte realizzate con colpevolezza.” Per colpevolezza il legislatore colombiano ha voluto intendere l’attitudine cosciente e volontaria dell’agente, l’antigiuridicità che ha dato luogo ad un inevitabile giudizio personale . il legislatore considera la colpevolezza come condizione indeclinabile nel considerare la condotta tipica e antigiuridica come fatto punibile . . Un’importante quesito portato avanti in dottrina è la natura di questo tipo di pene e se esse siano compatibili con il sistema accusatorio dove il giudice ha un potere limitato e dove la sua discrezionalità è subordinato alla richiesta delle parti. Senza dubbio, nonostante in alcune occasioni si sia affermato come questo tipo di pene debbano essere richieste dalle parti CPP art. 447, è certo che esse sono una manifestazione della discrezionalità regolata del giudice che risulta una forma di extra petita e che in qualche modo ricorda un giudizio inquisitorio dove, appunto, il giudice gode di decisioni unilaterali. Tutto indica un’incompatibilità con il sistema accusatorio puro e queste pene accessorie considerate per l’appunto discrezionali. la classificazione delle pene accessorie. Le pene accessorie possono essere classificate in: A) obbligatorie o discrezionali; B) privative dei diritti di libertà ( o di autonomia) o di diritti economici; C) pene ad esecuzione immediata o successiva. Le pene accessorie obbligatorie sono quelle che per volontà del legislatore conseguono automaticamente, in ragione del delitto, alla pena principale Esempi di queste pene sono : l’interdizione o inabilitazione dell’esercizio di diritti politici e funzioni pubbliche. Le pene all’inabilitazione avranno una durata uguale alla pena principale che seguono e possono superarle anche di un terzo della pena, senza essere però mai inferiori a 5 anni né superiore a 20; ulteriore pena obbligatoria è l’interdizione all’esercizio del commercio sempre il reo sia stato condannato per delitti contro la proprietà, la fede pubblica, l’economia nazionale, l’industria e il commercio, o per contrabbando, per concorrenza sleale, usurpazione di diritti della proprietà industriale o assegni in bianco. La loro durata varia da 2 a 10 anni; sono considerate obbligatorie anche le pene che impediscono l’avvicinamento alla vittima o al suo nucleo familiare. . È obbligo legale del giudice imporle nella sentenza penale di condanna senza che egli prenda in considerazione la loro concreta necessità; questa loro caratteristica spesso è sta considerata da molti come una piena manifestazione del loro carattere retributivo Pabòn Parra “Manual de derecho penal” 8° edizione pp. 586. Le pene discrezionali invece sono quelle che il giudice può imporre o meno nel caso concreto sempre che ricorrano i requisiti stabiliti dal legislatore CP art. 52 “ … le pene accessorie discrezionali possono essere imposte dal giudice sempre che vi sia una relazione diretta con la realizzazione della condotta punibile, che ne abbiano abusato o che queste abbiano facilitato la commissione del delitto, o quando la restrizione dei diritti contribuisca ad una prevenzione delle condotte similari…”. La loro applicazione è libera e non si richiede che siano sospese nel caso in cui la pena principale venga sospesa o sia sostituita Ad esempio con gli arresti domiciliari ex art. 38 CP.. Le pene accessorie possono essere interdittive di diritti di libertà o di diritti patrimoniali. Le pene accessorie discrezionali, come in generale le pene privative di altri diritti, possono essere classificate a seconda del diritto fondamentale di cui il reo è stato privato Il legislatore ha previsto in questo caso la restrizione dei diritti di libertà, dei diritti di natura politica, diritti del lavoro e dell’esercizio delle attività economiche, nonché quelli di natura economica derivati dalla patria potestà, i diritti di tutela e curatela, il diritto a scegliere la propria residenza o domicilio, i diritto alla circolazione o al consumo di bevande alcolico o psicotrope fra tanti. . Le pene accessorie discrezionali, inoltre, possono essere distinte a seconda della loro esecuzione. Sono pene accessorie ad esecuzione immediata ad esempio: la perdita dell’impiego o incarico pubblico, l’espulsione dal territorio nazionale per gli stranieri e la perdita della patria potestà o della tutela. Al contrario sono pene ad esecuzione temporale l’inabilitazione all’esercizio di determinate professioni o l’inabilitazione a condurre autoveicoli. Deve essere inoltre, sottolineato come le pene discrezionali accessorie possono essere imposte come misure di sicurezza CP art. 81 secondo il principio di duplicità sempre che vi siano i requisiti previsti dall’art. 33 CP e quando “ non si imponga l’esecuzione della misura di sicurezza imposta e siano compatibili con le sue funzioni”. i criteri legali per l’imposizione delle pene accessorie. L’articolo 43 del codice penale colombiano contiene, come si è detto, l’elencazione delle “pene privative di altri diritti”; pene che sono considerate dall’articolo 52 del suddetto codice pene “accessorie”. Proprio l’articolo 52 del codice penale colombiano è la chiave per l’individuazione dei criteri richiesti dal legislatore per l’applicazione delle pene accessorie e in particolare delle pene accessorie discrezionali. L’art. 52 CP però contiene due propositi fondamentali: innanzitutto, esso vuole limitare la discrezionalità del giudice nell’imporre questo tipo di sanzioni; proprio per questo si parla in questo caso di discrezionalità regolamentata o fondata, in modo che la decisioni del giudice risulti meno irrazionale e più sicura in confronto con le restanti norme regolatrici, ed in particolare con i principi delle sanzioni penali della necessità, proporzionalità e ragionevolezza CP ART. 3 2 l’imposizione della pena o misura di sicurezza deve rispondere ai principi di necessità, proporzionalità e ragionevolezza.” Il legislatore prevede un ampio margine di libertà nello stabilire le condotte punibili e nel determinare le sanzioni. Tuttavia la Corte Costituzionale stabilisce come sia il Congresso della Repubblica a dover vigilare in particolare sul rispetto dei diritti costituzionali; ne è un esempio la sentenza C- 070 del 1996 in cui la corte stabilisce che “ in materia penale la potestà legislativa è subordinata al controllo costituzionale affinchè vengano protetti i diritti fondamentali di ogni cittadino” ; in secondo luogo si vuole garantire il principio di giurisdizionalità della sanzione e la sua applicazione con le sue garanzie CN art. 29 in particolar modo quelle riferite alla pubblicità, contraddizione e pertinenza delle pene. Questi criteri permettono al giudice di fondare e motivare adeguatamente la propria decisione. Le pene accessorie così come le pene principali, sono oggetto di misurazione nella fase dell’individuazione giudiziale. CP art. 61 criteri per l’individuazione della pena. I criteri di procedibilità delle pene accessorie possono essere generali o speciali. Tra i fattori generali possiamo ritrovare: la relazione diretta tra la restrizione di diritti da imporsi e la realizzazione della condotta punibile; che la restrizione dei diritti contribuisca alla prevenzione delle condotte similari. A sua volta la relazione diretta, chiamata connessione sostanziale, prevede due differenti di modi di individuare suddetta connessione: 1) che nella realizzazione del delitto si abbia abusato del diritto che viene ristretto dalla pena CP artt. 43 e ss. : la funzione pubblica, i diritti politici, il lavoro, i diritti del porto d’armi ecc. ; 2) che questi diritti abbiano facilitato la commissione del delitto. In quanto alla relazione diretta tra la restrizione di diritti e la realizzazione della condotta punibile Carnelutti “El problema de la pena”: l’autore parla della relazione causale- cronologica tra il delitto e la pena, la relazione tra l’identità personale e la relazione oggettiva ( tra il mal sofferto e il male inflitto). A questo si aggiunga il principio della correlazione ed equivalenza tra il delitto e la pena. , la connessione sostanziale esige che il giudice motivi che l’abuso del diritto sia stata una causa scatenante nella commissione della condotta punibile. In questo caso deve essere dimostrato che vi sia stato un cattivo esercizio o che vi sia stato un esercizio illegittimo del diritto Fontàn Balestra, ritiene che “l’abuso sia qualsiasi modo di agire che comporti un’ allontanamento dalle regole dell’incarico, funzione o attività professionale al fine di commettere un illecito. Abusa chi, consapevolmente, usa illegittimamente le facoltà, le capacità o le conoscenze dell’attività che esercita. o delle facoltà. Alcuni diritti, poi, sono regolamentati, così come avviene, ad esempio, per gli incarichi pubblici o per le attività professionali. In queste ipotesi i giudice deve precisare in maniera esatta in che cosa è consistito l’abuso del diritto e in che modo la decisone giudiziale vuole restringere il diritto mediante la pena. Difficoltà maggiori sono riscontrate in quelle professioni o attività che non vengono regolamentate ma il cui esercizio è libero. A differenza delle precedenti in questo caso l’abuso non può essere riferito ad un aspetto specifico dell’attività, ma al cattivo esercizio della stessa considerata nel suo insieme. Quando dette attività hanno facilitato la commissione del delitto. La seconda causa della relazione diretta non presuppone un abuso , ma implica che il condannato abbia sfruttato l’attività o il diritto concesso per l commissione del delitto. Così deve essere dimostrata l’esistenza di un determinata relazione tra la realizzazione dl diritto e l’uso ( non l’abuso) dei diritti come mezzo effettivo e idoneo che ha facilitato la condotta punibile e la ficcoltà di difesa della vittima. Il secondo criterio legale per applicare le pene accessorie deve essere individuato nella prevenzione delle condotte similari a quella sanzionata dalla pena principale. In questo modo il giudice deciderà di applicare una pena accessoria in modo che questa contribuisca o aiuti in maniera reale a proteggere altri beni giuridici, in primis quelli della comunità o della vittima. Non si tratta di imporre una pena basata sulla pericolosità del reo, aspetto questo che violerebbe il principio di colpevolezza. Il giudice invece, deve chiarire i seguenti aspetti: in che cosa consiste concretamente la privazione che non può infatti, essere solo ipotetica; la necessità di proteggere altri beni giuridici diversi da quelli previsti nella pena principale e la sua proporzionalità rispetto al delitto con cui hanno una relazione diretta; inoltre, la pena imposta deve essere, fra tutte le possibili sanzioni, la più efficace e la meno pregiudizievole per il condannato ed infine non deve essere lesa la dignità umana. D’altro canto il legislatore penale ha previsto anche fattori speciali per l’applicazione di alcune pene accessorie privative di diritti. Così ad esempio affinchè venga imposta la pena accessoria dell’interdizione all’esercizio del commercio o dell’industria, è necessario che il soggetto abbia abusato di dette attività o abbia contravvenuto alla loro regolamentazione o obblighi derivanti dal loro esercizio. Si faccia presente che in quest’ultimo caso, gli obblighi devono essere regolamentati negli statuti come ad esempio succede nello statuto dell’avvocatura ( Còdigo Disiplinario del Avogado, L. 1123 del 2007, art. 28 e ss.) Una volta stabilita la pena accessoria il giudice deve concretamente stabilire la modalità della pena e l’effetto da essa imposto. Così ad esempio il giudice che stabilisce la pena accessoria del divieto di residenza o domicilio in determinati luoghi, deve stabilire anche dove sia proibito risiedere ecc. Non è del tutto chiaro se, nel sistema processuale penale colombiano, il giudice per poter applicare questo tipo di sanzioni debba essere sollecitato dalla vittima; si discute infatti se questa debba essere inserita tra le richieste dell’accusa. Tuttavia, poiché non si tratta di pene principali, ed essendo la loro applicazione a discrezione del giudice risulta logico che la loro richiesta abbia luogo quanto meno quando il soggetto sia stato dichiarato colpevole e sia stata stabilta una pena principale. Le pene accessorie previste nel sistema penale colombiano. l’interdizione dall’esercizio di diritti e funzioni pubbliche come pena obbligatoria. Sono diritti politici il diritto ad essere eletti e ad eleggere i propri rappresentanti politici. Nessuno di questi due diritti è un diritto assoluto e per esserne titolari bisogna prima di tutto avere la cittadinanza che si ottiene quando si hanno i requisiti e l’età stabilita dal legislatore. La cittadinanza quindi è il requisito essenziale per poter essere titolari dei diritti suddetti. La costituzione permette che la cittadinanza sia sospesa in virtù di una decisione giudiziale “ nei casi stabiliti dalla legge” come è ad esempio il caso dell’articolo 44 del Còdigo Penal; è bene ricordare come le persone che sono detenute ma che sono ancora in attesa di una condanna godano di tutte le garanzie e protezione dello stato per l’esercizio dei propri poteri politici. L’articolo 57 della legge 65/93 permette ai detenuti, ma non ai condannati, di esercitare il diritto di voto così come confermato nella sentenza C- 394/95. Quando si parla di interdizione In realtà il codice penale colombiano riporta l parola “inhabilitaciòn”. si intende che la persona al momento della condanna si trova nella situazione di non poter esercitare i suoi poteri politici o qualsiasi funzione pubblica. Così dice la norma “ la pena dell’interdizione all’’esercizio dei diritti e funzioni pubbliche priva il condannato della facoltà di eleggere ed essere eletto, all’esercizio di qualsiasi altro diritto politico, funzione pubblica, dignità o onori che si riferiscano alla sua entità ufficiale” Articolo 44 del Còdigo Penal. Quindi dopo aver letto la norma in questione non bisogna sorprendersi del fatto che il testo legale includesse anche, come ulteriore pena privativa di diritti, anche la perdita dell’impiego o incarico pubblico Articolo 45 Còdigo Penal., quando sia evidente che questa ha il carattere della funzione pubblica. Tuttavia nell’elaborazione del codice si è preferito seguire una tecnica legislativa che permettesse si di includere la seconda nella prima ma di rendere le due disposizioni indipendenti fra loro. Questa sanzione, che consegue sempre alla pena principale della reclusione Còdigo Penl. Articolo 43 1° comm e articolo 52 comma 3° è estremamente afflittiva poiché presuppone la restrizione dei diritti irrinunciabili per qualsiasi essere umano. È tanto severa questa disposizione che viene disposto un termine iniziale equivalente al termine previsto dalla pena alla reclusione con la possibilità di estenderlo per un terzo senza eccedere il termine massimo però fissato dalla legge. Così l’articlo 52 comma 3°mai inferiore a 5 né superiore al massimo di 20 anni. Nonostante la durata minima prevista per questa pena, se si impone come pena accessoria, ci si trova di fronte ad un’interessante discussione tenendo presente che l’articolo 52 comme 3° stabilisce che il limite minimo imponibile sia di cinque anni; le ragioni possono essere due: da un lato il testo parla di un tempo uguale alla pena che segue”; dall’altro l’articolo 51 dispone che la durata vada dai cinque ai venti anni “ salvo il caso del comma 3° dell’articolo 52”. Così si può stabilire che la durata della pena accessoria obbligatoria in studio può avere un limite inferiore a quanto previsto dall’articolo 51 del Còdigo Penal nei casi nei quali la pena principale della reclusione sia meno di cinque anni. Anche riguardo al massimo di questa pena accessoria ci sono delle osservazioni da fare. Secondo l’articolo 52 al comma 3° la pena imponibile equivale al tempo della pena che segue e fino ad un aumento di un terzo, senza eccedere il massimo fissato dalla legge. Quindi a niente sembra servire l regola generale quando indica che il minimo si di cinque anni e il massimo di venti poiché in questo caso il punto di partenza sarà sempre la pena privativa della libertà ossia la reclusione. Questo fa nascere alcune considerazioni assurde; per esempio se una persona viene condannata a 25 anni di carcere la pena accessoria sarà sempre di 20 anni, stessa pena che deve essere imposta quando vi sia una condanna a 60 anni di reclusione; inoltre, se la pena privativa è nel minimo e nel massimo prevista dall’articolo 51 comma 1° non è possibile tenere in conto i criteri individuatori dell’articolo 61. Si ha così un conflitto di sistema con i principi stabiliti dall’articolo 3. I legislator inoltre stabilisce che questa pena può essere imposta solo per mezzo di un processo e quindi di una sentenza fornita di motivazione articolo 52 comma 2° e articolo 59 del Còdigo Penal. chiara espressione di principi di razionalità e di proporzionalità. Così, dato il carattere obbligatorio di questa disposizione, questo tipo di sanzione si deve applicare sempre quando sussistano i presupposti legali per l’imposizione delle pene accessorie: ossia, che vi sia una relazione diretta con la condotta punibile e che contribuisca alla prevenzione delle condotti simili Articolo 52 comma 1°; queste esigenze naturalmente, quando questa operi in modo discrezionale Sentenza C- 393 del 22 Maggio 2002.. Della stessa forma, nota come delle pene accessorie discrezionali, l’applicazione e l’esecuzione di questa sanzione deve avvenire in maniera simultanea con la pena alla reclusione; così l’articolo 53 “ le pene privative di altri diritti concorrenti con le pene privative della libertà si applicano e sono eseguite simultaneamente.”. pene discrezionali o potestative. Le pene accessorie discrezionali o potestative sono quelle sanzioni che, come indica la denominazione, sono soggette all’arbitrio del funzionario giudiziale, che ha la facoltà di imporle senza rinnegare però, i criteri che la legge penale prevede. Sono quindi sanzioni facoltative o “ prudenziali”. L’esistenza di queste pene suscita enormi resistenze , se si tiene conto che nel diritto penale vigente è strettamente collegato ai principi di legalità, determinazione e proporzionalità; è difficile quindi tollerare sanzioni che non rispettano questi principi. Nonostante si cerchi di evitare l’arbitrarietà e la insicurezza giuridica il legislatore indica nella legge alcuni criteri affinché si proceda alla loro applicazione. Queste sanzioni, che includono l’inabilitazione all’esercizio dei diritti e delle funzioni pubbliche, sono le seguenti: perdita dell’impiego e dell’incarico pubblico La perdita dell’impiego e dell’incarico pubblico è prevista dall’art. 43 num. 2, 45 e 51, e comporta la perdita definitiva e istantanea dell’impiego o incarico pubblico di qualsiasi tipo e modo ( esecutivo, legislativo, amministrativo o di controllo) o di livello CP art. 20 “ a tutti gli effetti della legge penale sono considerati servitori pubblici i membri delle pubbliche amministrazioni, gli impiegati e lavoratori dello stato e delle sue amministrazioni decentralizzate”. Il legislatore utilizza l’espressione “ servidor pùblico” per designare qualsiasi persona vincolata ad uno dei rami del pubblico potere o degli enti pubblici. Questa sanzione consiste nell’inabilitazione del condannato, fino a cinque anni, di ricoprire qualsiasi incarico pubblico o ufficio Articolo 43 comma 2° e articolo 45 del Codice penale.. Infatti, il codificatore ha previsto come pena discrezionale di carattere indipendente una vera modalità attenuata dell’inabilitazione di diritti o funzioni pubbliche che è un segno più della mancanza di tecnica legislativa del redattore dell’istituto che, si ricordi, viene previsto come conseguenza giuridica di carattere principale in dodici articoli della parte speciale, nei quali non è previsto nessun limite temporale. Non si può però, ovviamente, affermare che la pena in questi casi abbia una durata indeterminata poiché urterebbe con i principi ispiratore della sanzione penale, ma anche perché il legislatore all’articolo 45 , senza distinguere i casi in cui si applica come sanzione principale o come pena accessoria, ha previsto una durata massima di cinque anni ma non indica un minimo edittale potendo, in modo assurdo, questo variare da 1 a 1825 giorni di pena secondo quanto stabilito dall’articolo 52 e 61 comma 3°. 2.L’inabilitazione dall’esercizio di una professione, arte, ufficio, industria o commercio. In virtù di questa disposizione si priva il responsabile del diritto ad esercitare una delle attività elencate per un lasso di tempo compreso tra i sei mesi e i venti anni Articolo 43 comma 3° e articolo 51 comma 3° Còdico Penal. a condizione che esista un nesso tra la condotta punibile e le infrazioni delle obbligazioni inerenti alla professione così come stabilisce l’articolo 46 “ la pena dell’inabilitazione dall’esercizio di una professione, arte, ufficio, industria o commercio, si imporrà ogni volta che il reato sia commesso per mezzo dell’abuso di una qualsiasi delle attività menzionate, o contravvenendo alle obbligazioni che da esse derivano”. Infatti, se vi è il caso dell’inesistenza di una regolamentazione della professione in causa, il giudice non potrebbe in nessun modo applicare questa pena accessoria poiché questo implicherebbe il disconoscimento dei principi di tassatività o di determinazione, nonché il principio di legalità, poiché le obbligazioni pertinenti devono essere stabilite dalla legge regolamentaria in maniera esplicita. Quanto alla durata di questa pena, non può non richiamare l’attenzione l’ampio lasso di tempo punitivo, contrario sotto diversi aspetti ai postulati di proporzionalità, necessità e ragionevolezza. Questa disposizione crea nella sua applicazione diversi problemi di arbitrarietà in particolar modo se si tiene presente che siamo di fronte ad una sanzione lesiva del diritto al lavoro che è uno dei principi della Carta Fondamentale dei Diritti ( articoli 25 e 26). Questa disposizione non stabilisce la soppressione delle limitazioni all’esercizio delle attività corrispondenti quando vi siano i presupposti corrispondenti, ma la restrizione si impone trattandosi di una pena privativa di diritti. Si vuole sottolineare la forma irrazionale, sproporzionata e non necessaria nella parte in cui viene stabilita la durata massima di questa disposizione, che può facilmente diventare indegna, crudele e degradante per la persona umana. Questa disposizione è prevista come pena principale in ben sette articoli della parte speciale nei quali, a differenza della parte generale, ha i caratteri di proporzionalità e ragionevolezza. Articolo 125 ( 2-4 anni); 126 (1-2 anni); 187 ( 2-6 anni); 320 in armonia con la legge 788 del 2002; art. 71 ( fino a sei anni); 372 (2-8 anni); 373 e 374 ( da 2 a 6 anni) 3.L’inabilitazione all’esercizio della patria potestà, la tutela e la curatela. Questa sanzione, che non appare mai prevista nella parte speciale, priva il condannato della possibilità di esercitare determinati diritti e determinate prerogative che gli sono concessi dalla Costituzione e dalla legge civile in relazione ai suoi figli non emancipati: la patria potestà, ossia, “ l’insieme di diritti che la legge riconosce ai genitori sui figli non emancipati, per facilitare loro il compimento dei doveri imposti dal loro ruolo” Così la legge 75 del 1968 articolo 19 comma 1°; gli impedisce inoltre l’esercizio degli uffici di tutore o curatore ossia “ gli incarichi imposti a determinate persone a favore di coloro che non sono in grado di provvedere a loro stessi, di amministrare in modo competente i propri negozi giuridici o che non siano sotto la potestà del padre o del marito e che possono dargli la dovuta protezione” Codice civile articolo 428.. Si tratta in realtà di tre distinte sanzioni: la perdita della patria potestà; la perdita della tutela; l’inabilitazione dall’esercizio della curatela. Così l’articolo 47 del codice penale colombiano, che è la ripetizione quasi testuale dell’articolo 45 del codice penale spagnolo: “ inabilitazione per l’esercizio della patria potestà, tutela o curatela, priva il condannato dei diritti inerenti alla prima e comporta l’estinzione delle altre, così come l’incapacità dall’ottenere la nomina per detti incarichi, durante il tempo della condanna”. Questo non significa senza dubbio che la privazione dei diritti che predispone questa sanzione copra l’intera durata della pena, così come stabilito nell’ultima parte della norma altrimenti il legislatore non si sarebbe preso la pena di indicare la durata dai sei mesi ai quindici anni Si veda l’articolo 51 comma 4°. “ L’inabilitazione all’esercizio della patria potestà, tutela o curatela da sei mesi a cinque anni”; in altre parole per un corretta interpretazione della norma si deve intendere che la sanzione in esame venga ad esistenza durante l’esecuzione della pena principale ma non può superare i limiti di durata stabiliti dalla legge. Infine deve richiamarsi l’attenzione sul fatto che, per essere effettivamente disposte la condanna alla pena accessoria in questione deve essere comunicata all’ufficio direttivo dell’Istituto Colombiano Bienestar Familiar e ad altri enti. 4. la perdita del diritto a condurre autoveicoli e motoveicoli. Il condannato che subisce l’applicazione di questa pena accessoria si vede limitato il diritto di condurre i suddetti veicoli per un lasso di tempo che varia dai sei mesi ai dieci anni Articolo 48 e 51 comma 5° del Còdigo Penal. “ l’imposizione della pena alla privazione del diritto a condurre autoveicoli e motoveicoli inabilita il condannato all’esercizio di entrambi i diritti durante il tempo fissato nella condanna” Articolo 40 parzialmente copiato dall’articolo 47 del codice penale spagnolo del 1995 ancora vigente.. Non è chiaro però quali siano “entrambi” i diritti ai quali allude la legge, ma interpretando l’articolo letteralmente, si dovrebbe intendere che si riferisca tanto alla privazione del diritto di condurre autoveicoli quanto al divieto di condurre motoveicoli, che implica, però la privazione di un solo diritto: la conduzione di tali veicoli. Tuttavia, tutto indica che il legislatore colombiano dimenticò il vero senso che il codice penale spagnolo introduce con questa norma: si riferisce non solo alla perdita del permesso o licenza a condurre ma anche all’impossibilità di ottenerli, per chi ovviamente non li aveva al momento della condanna. Così sembra che la giusta interpretazione della norma sia quest’ultima poiché sembra assurdo punire in maniera più grave chi al momento della commissione de delitto era in possesso di suddetti permessi, piuttosto che colui che non ne era in possesso. Per essere esecutiva questo tipo di sanzione necessita del controllo delle autorità incaricate di spedire e rilasciare queste licenze Codice di procedura penale colombiano articolo 462 numero 7 inciso 2. che, però, appare insufficiente affinché realmente vi sia l’esecuzione della suddetta pena. Questa pena inoltre ha la natura di pena principale poiché è prevista in diversi casi: articoli 109, 110, 120 e 136 del Còdigo penal. È criticabile la previsione di questa pena accessoria solo per quei delitti commessi mediante l’impiego di autoveicoli e motoveicoli, quando sarebbe più logico che la pena si estendesse, così come nel sistema spagnolo, a tutti i veicoli a motori ( barche, aerei, treni ecc.) e ai ciclomotori in generale. La decadenza dal diritto di possesso e porto d’ armi. La pena accessoria in questione impedisce al condannato di detenere o portare con se qualsiasi tipo di arma che richieda una licenza amministrativa, per un lasso di tempo compreso fra uno e quindici anni Articolo 43 nemerale 6° e rticolo 51 iniso 6, durata molto estesa e criticabile per le ragioni già accennate. Secondo l’articolo 49 “ l’imposizione della pena alla decadenza del diritto di tenere armi inabiliterà il condannato dall’esercizio di questo diritto per il tempo fissato dalla sentenza. Per la sua esecuzione deve darsi avviso alle autorità incaricate di rilasciare suddette licenze il che limita il concetto di arma. Questa sanzione inoltre ha la natura di sanzione principale nella parte speciale del codice penale colombiano: articoli 109, 110, 120 e 136. Quando si osserva il testo di questa norma ci si trova di fronte ad una denominazione ridondante, poiché non si può pensare di impedire ad una persona di portare armi con sé ma non di detenerle; critica mossa anche al codice spagnolo del 1995. La decadenza dal diritto di risiedere in determinati luoghi o di accedere ad essi. Questa consiste nell’obbligo imposto al condannato di astenersi dal risiedere in determinati luoghi o accedervi, in special modo in quelli dove è stata realizzata l condotta punibile, o quelli in cui abbia dimora la vittima o i suoi familiari, per un periodo che varia dai 6 mesi ai cinque anni come stabilisce la legge: “ la decadenza dal diritto di risiedere o accedere in determinati luoghi, impedisce al condannato di tornare nel luogo dove ha commesso il fatto o in quelli in cui risiede la vittima e i suoi familiari..” articolo 43 numero 7 e articolo 50 del Còdigo Penal. in verità le privazioni sono due : la prima è di fissare la propria dimora o residenza nel luogo fissato dal giudice, che non può essere altro che il luogo del reato o quello in cui risiede la vittima o la sua famiglia; la seconda di accedere a detti luoghi ossia il divieto di visitarli o recarvisi. Il giudice deve essere cauto nell’imporre questa sanzione, che non può oltrepassare i criteri fissati dall’articolo 52, per non commettere un’ingiustizia, poiché nella sua applicazione può ledere il diritto al lavoro o quello di far visita ai propri familiari o amici, causando grave pregiudizio al condannato e ai familiari soprattutto quando tale divieto sia riferito a luoghi più estesi come regioni, comuni o frazioni. Il divieto di consumare bevande alcoliche o sostanze stupefacenti o psicotrope. La norma prevede il divieto per il reo di ingerire qualsiasi bevanda contenente alcol etilico che come è risaputo è il più utilizzato dall’uomo, visto l’effetto che ha sul sistema nervoso centrale. Tuttavia nessuno impedisce che tale divieto sia esteso in maniera eventuale al consumo di altri alcolici, che hanno però, un alto grado di tossicità con effetti letali quando vengono superate certe dosi, come ad esempio l’alcol isopropilico, butilico e anilico. Così, secondo questa sanzione si limita anche il consumo di determinate sostanze come le anfetamine e droghe simili, la marijuana, la cocaina, gli allucinogeni, , i narcotici ( oppiacei), la fenilciclidina o sostanze simili, i sedativi, gli ipnotici e ansiolitici che possono essere ricompresi nell’espressione sostanze stupefacenti o psicotrope, la cui portata non appare chiara. Appare chiaro che questa disposizione si riferisce alle dosi personali non punibile da un punto di vista del diritto penale Nel diritto positivo prima previsto si stabilivano limiti serrati che non comprendevano i minori: articolo 1 e seguenti della legge 745 del 2002. Ora per disposizione costituzionale prescritta in ogni ambito: Atto Legislativo 02 del 2009 che ha modificato l’articolo 49 della Costituciòn Politica. Per il compimento di suddetta limitazione si dispone il controllo della polizia e del pubblico ministero Còdigo de Procedimiento Penal articulo 462 numeral 6°affinché tale divieto possa realmente essere osservato e non solo essere una mera disposizione disposta nella carta. Si osservi, inoltre, che si tratta di una disposizione con un durata indeterminata, poiché non viene stabilito nessun termine né iniziale né finale il che potrebbe costituire una violazione del principio di legalità della pena. L’espulsione dal territorio nazionale. Consiste nell’allontanamento dal territorio nazionale per colui che ha infranto la legge penale, per porlo fuori dalle frontiere, quando si tratti di un cittadino straniero, unico soggetto punibile con questa sanzione. La persona deve essere posta dal giudice a disposizione della Unidad Administrativa Especial Migraciòn Colombia ( D. 4062 DEL 2011) affinchè si incarichi di pora il soggetto fuori dai confini nazionali, dopo che sia stata compiuta la pena privativa di libertà imposta e si disponga la libertà corrispondente Còdigo Nacional de Policia articolo 174; Còdigo de Procedimiento Penal articolo 462 numero 5 e Coigo Penal articolo 43 numero 9; tuttavia tutto indica che questa pena debba avere una durata minima di cinque anni se si tiene conto delle disposizioni del Decreto numero 4000 del 2004, attinente al rilascio dei visti, controlli degli stranieri e immigrazione. Il divieto di avvicinare la vittima e/o ai suoi familiari. Questa sanzione è prevista dall’articolo 43 al numero 10 È stata introdotta dall’articolo 24 della legge 1257 del 2008 ed impedisce al reo di avere un qualsiasi contatto con la vittima o con i membri del suo nucleo familiare per un periodo uguale a quello previsto nella pena principale e aumentato fino a 12 mesi quando si tratti di delitti commessi con l’uso della violenza nei confronti di una donna. Il divieto di comunicare con la vittima e/o i suoi familiari. Questa norma accessoria è molto simile alla precedente ma in questo caso si impedisce al condannato anche di comunicare con qualsiasi mezzo con la vittima sia essa una comunicazione verbale o scritta. La sua durata corrisponde alla durata della pena principale cui segue e può essere aumentata fino a 12 mesi Si veda l’articolo 51 inciso finale.. Né in questo caso né in quello precedente la legge dispone però le modalità per la sua esecuzione. Altre pene accessorie anche l’articolo 163 della legge 685 del 2001 ( Còdigo de minas) prevede come pene accessorie applicabili solo alle ipotesi di esplorazione illecita di giacimenti minerari l’inabilitazione a ottenere concessioni minerarie per una durata di cinque anni. Si tratta di una pena accessoria obbligatoria per un caso concreto che viene presentato come “inabilitazione speciale”. Chi sia stato condannato per appropriamento illecito o per esplorazione illecita di mezzi minerari si vedrà impossibilitato ad ottenere le concessioni minerarie per un termine di cinque anni. Questa pena accessoria sarà impost dal giudice nella sentenza. 2.3 le pene privative di altri diritti stabilite nella parte speciale. L’articolo 43 del Còdigo penal stabilisce, come si è detto le pene privative di altri diritti che come è stato stabilito hanno una doppia natura: da un lato si considerano come principali quando sono applicate in modo indipendente, dall’altro l’articolo 52 inciso 1 stabilisce che “ le pene privative di altri diritti che possono essere imposte come principali sono accessorie e il giudice le imporrà quando vi sia una relazione diretta con la condotta punibile, per averne abusato o perché queste abbiano facilitato la commissione dell’illecito o, ancora, quando la loro previsione possa prevenire la commissione di condotte simili”. A queste pene deve essere aggiunta il divieto di recarsi presso strutture sportive che invece non è prevista nella parte generale ma è sancita dall’articolo 359 inciso 2 del Còdigo Penal. Ad esempio: l’inabilitazione all’esercizio dei diritti e delle funzioni pubbliche si ritrova negli articoli 102,135,137,142,144, 148, 157, 159, 166,167,178,276,282,286 ecc.; la perdita dell’impiego e dell’incarico pubblico si riscontra negli articoli: 175,177, 190, 416, 422, 450; l’inabilitazione ad esercitare una professione, arte, ufficio, industria e commercio si ritrova negli articoli: 125, 126,187,320 in armonia con la legge 788 del 2002 articolo 71. ; il divieto di condurre autoveicoli e motoveicoli agli articoli: 109, 110, 120, 136; il divieto di possedere o portare armi: articoli 109, 110, 120, 136. Si noti che le pene accessorie quali, la perdita della patria potestà della tutela e della curatela, non compaiono nella parte speciale così come non sono presenti disposizioni che comportino come pene accessorie il divieto di risiedere in determinati luoghi o di accedervi, il divieto di consumare bevande alcoliche o sostanze stupefacenti o psicotrope, l’espulsione dal territorio nazionale, il divieto di comunicare con la vittima o con i suoi familiari. pene accessorie e persone giuridiche. Per finire deve anche essere analizzato il rapporto tra le pene accessorie e le persone giuridiche, sanzioni previste quando vi sia statu un’ illecito penale da parte di quest’ultima Articolo 2 legge 365/ 1997. . Così l’articolo 91 del codice di procedura penale vigente, così come l’articolo 65 della legge 600 del 2000 e dell’articolo 61° del vecchio statuto: “.”Cancellazione delle persone giuridiche o organizzazioni dedite ad attività illecite, o chiusure dei locali e degli stabilimenti aperti al pubblico”. Qualora in qualsiasi momento nel corso del processo, si dimostri che la persona giuridica o l’organizzazione era dedita totalmente o parzialmente alla commissioni di illeciti penali, il giudice ordinerà l’immediata chiusura o ne ordinerà la cancellazione. Principali sentenze della Corte Costituzionale colombiana in merito alla pena accessoria. Sentenza Corte Costituzionale 329 del 2003 Premessa. L’imposizione della pena, sostiene la Corte, oltre che un effetto sanzionatorio e una funzione dissuasiva al fine di impedire alle persone di compiere condotte punibili al fine di preservare l’armonia e la convivenza della comunità deve avere una funzione reintegrativa che permetta al condannato di rientrare nella società affinché possa nuovamente far parte di essa una volta scontata la sua pena nelle stesse condizioni degli altri cittadini. Quando il legislatore fa uso della sua potestà stabilendo le pene che devono essere adottate in seguito ad un fatto di reato, incontra alcuni limiti stabiliti dai principi costituzionali quali la dignità umana e il rispetto dei diritti umani, oltre che ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità contenuti nei trattati internazionali dei diritti umani che fanno parte a tutti gli effetti del blocco costituzionale. In particolare la Corte fa riferimento all’art. 23 della Convenzione Americana dei Diritti umani del 1969. Il suddetto articolo disciplina i diritti di partecipazione politica stabilendo che ogni cittadino gode dei seguenti diritti: “ a) di prendere parte alla conduzione degli affari pubblici, direttamente o attraverso rappresentanti liberamente scelti; b) di votare e di essere eletto in elezioni periodiche e genuine, a suffragio universale e uguale, a voto segreto che garantisca l’espressione della volontà dei votanti; e c) di avere accesso, a condizioni generali di uguaglianza, alla funzione pubblica nel proprio paese. “ Il legislatore ha previsto che i giudice penale è obbligato a imporre come pena accessoria all’inabilitazione dell’esercizio dei diritti e delle funzioni pubbliche, sempre che sia imposta come pena principale la reclusione. L’imposizione di questa sanzione ha come conseguenza la privazione per il condannato della facoltà di eleggere ed essere eletto, dell’esercizio di qualsiasi altro diritto politico Secondo a Costituzione Colombiana ogni cittadino gode del diritto a partecipare alla formazione, esercizio e controllo del potere politico, in questo ordine di idee può essere eletto o essere eletto, prende parte alle elezioni, plebisciti, referendum, consultazioni popolari e altre forme di partecipazione politica, ha il diritto di formare partiti, movimenti e aggruppamenti senza alcun limite, e può far parte di essi liberamente nonché diffonderne le idee e il programma. , funzione pubblica, dignità o onorificenze; la durata della pena potrà essere la stessa della pena principale o essere aumentata, rispetto ad essa, fino ad un massimo di un terzo senza eccedere però il limite fissato dal legislatore Il limite stabilito è di 20 anni. L’imposizione della pena inoltre richiede una motivazione esplicita da parte del giudice suoi motivi che hanno determinato la sua decisione sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. In confotmità con l’art. 59 della legge 599 del 2000. Venendo alla sentenza 329 del 2003, la Corte è chiamata a decidere sulla richiesta da parte del condannato Andrès Mauricio Vela Correa Il ricorrente ritiene che questo violi gli articoli 1, 2, 40 e 98 della Costituzione Politica. A fondamento del gravame egli sostiene che “ ogni persona, titolare della sovranità popolare, e in seguito alla sua condizione di soggetto degno, sociale e gregario, o semplicemente come animale politico, reclama istintivamente il desiderio di partecipare alle sfere che hanno modellato la sua personalità( famiglia, scuola e Stato), che che il suo diritto non può essere limitato senza contravvenire ai diritti fondamentali stabiliti dalla Costituzione., che solleva il dubbio di legittimità dell’ultimo comma dell’art. 52 del Codice Penale colombiano. Brevemente si ricordi che l’art. 52 CP stabilisce che “… in ogni caso la pena alla reclusione comporta la pena accessoria dell’inabilitazione all’esercizio dei diritti e funzioni pubbliche….” Bibliografia 1 ?