Al di là del bene e del male si trova la realtà. Proprio per questo è originaria di ‟sens-azioni”. «L'aria tiepida, triste, immobile, era carezzevole e faceva ricordare le cose che non ritornano più. Come se fosse malato, il sole ardeva...
moreAl di là del bene e del male si trova la realtà. Proprio per questo è originaria di ‟sens-azioni”. «L'aria tiepida, triste, immobile, era carezzevole e faceva ricordare le cose che non ritornano più. Come se fosse malato, il sole ardeva fioco e scarlatto nel cielo pallido ed esausto. Le foglie secche giacevano rassegnate sulla terra scura, morte...». La realtà, in quanto già data, si presenta come fenomeno originario. È da questa origine che nasce il sentire, che si inizia a vivere. La vita come sentire, dal canto suo, non può che essere originale: sono io che vivo, sono io che sento... in prima persona. ‟Realtà” e ‟vita”, ‟origine” e ‟originalità” sono due facce della stessa medaglia. Perché questa moneta abbia un valore, devono coesistere. Realtà e vita si compenetrano di fatto in un vissuto in continua metamorfosi. Quest'ultima, però, può muoversi verso sentieri, che non permettono il fluire e il fruire dell'esperienza del proprio, sia nel senso dell'‟originario” che dell'‟originale”. La realtà come inizio può anche mutarsi in una partenza senza ritorno ad essa. Quando ciò accade, la direzione verso il ‟proprio” viene deviata, lasciando una ‟per-versione della vicinanza”, un allontanamento dal vicino. Diviene questo un nuovo senso del cammino od uno smarrimento della rotta?
Fra tutta quella pena nelle strade e nelle case, sotto quell'alienazione che veniva dal cielo, sulla terra impura e impotente camminava Peredònov e si struggeva in vaghe paure e per lui non c'era consolazione in ciò che è elevato, né conforto in ciò che è terrestre, perché anche ora, come sempre, egli guardava al mondo con occhi da morto, come un demone languente di terrore e d'angoscia di cupa solitudine.
I suoi sentimenti erano inerti e la sua coscienza era un apparecchio che corrompeva e uccideva. Tutto ciò che arrivava alla sua coscienza si tramutava in abominio e in fango. Degli oggetti, gli saltavano agli occhi e lo rallegravano i difetti. Quando passava davanti a un palo diritto e pulito, subito gli veniva voglia di piegarlo o di insudiciarlo. Rideva di gioia quando qualcosa veniva sporcato in sua presenza. Disprezzava e perseguiva i ginnasiali lindi e lavati. Li chiamava saponofili. Capiva di più gli sciattoni. Non aveva oggetti che amasse, come non aveva persone che amasse, e perciò la natura poteva agire sui suoi sentimenti in una sola direzione: poteva soltanto schiacciarli. E così era per i suoi incontri umani. Specialmente per gli incontri con estranei e sconosciuti ai quali non poteva dire delle volgarità. Essere felice per lui significava non fare nulla e, chiudendosi in se stesso, compiacersi dei propri visceri.
È su questo terreno che si insinua strisciante il ‟demone oscuro”. Il δαίμων non può essere definito o – proprio per definizione – è ‟ciò che rimane costitutivamente indefinito”: l'Ineffabile, l'Inafferrabile. Non necessariamente, tuttavia, esso è anche meschino. Rimane un'ombra. Etimologicamente e filosoficamente l'idea di δαίμων si lega in particolare a quelle di divinità e genio. Al contrario, quindi, mostra una natura potenzialmente originaria ed originale, propria dell'incarnazione vitale nella realtà. «Erano tutt'e due seminudi e alla loro carne liberata si legavano il desiderio e il pudore che la protegge, ma in che cosa consisteva quel mistero della carne?». L'ombra del δαίμων fende la carne ed in quanto ‟in mezzo” costituisce ‟il mezzo” inafferrabile di legame fra l'io e l'altro. Questa unità non identifica, anzi diversifica. La tesi del seguente articolo propone la visione del δαίμων come soggettività dell'io, come essenza comune ad ogni io, che, però, proprio nel suo manifestarsi relazionale, conduce gli ‟io” all'espressione più propria ed originaria: il loro essere originale, il loro essere per l'appunto un'unicità ‟io-soggetto”. Quest'ultima è, perciò, per essenza relazionale, sia nel legame fra ‟io” e ‟soggetto”, sia in quello tra ‟io” (io-soggetto) e ‟altro” (io-soggetto); ed è qui che, come l'ombra non si può staccare dal corpo rendendolo tridimensionale, così il δαίμων non si può non sentire nei legami della carne, rendendoli, per l'appunto, reali: realizzandoli.
Quando, però, uno dei poli della relazione viene assimilato – come nel caso del romanzo di Fëdor Sologub Il demone meschino, dove per l'appunto il ‟soggetto” prende il sopravvento sull'‟io” – l'equilibrio della metamorfosi si ferma, portando l'inafferrabile movimento della vita all'auto-annullamento. «E come immolare la propria carne e il proprio corpo come una deliziosa vittima dei desideri di lei, della vergogna di lui?». Nascondendo la realtà attraverso una maschera non propria dell'io, il ‟demone oscuro” risulta essere un ‟male meschino”.
Peredònov era ormai completamente in potere delle sue assurde allucinazioni. Le visioni gli impedivano di vedere il mondo reale. I suoi occhi, folli e ottusi, vagolavano, non si soffermavano sugli oggetti, come se lui volesse sempre sbirciare al di là di essi, dall'altra parte del mondo materiale, e volesse trovare degli squarci per vedere al di là.
Quand'era solo, chiacchierava con se stesso, urlava assurde minacce all'indirizzo di chissà chi: «Ti uccido! Ti sgozzo! Ti strozzo!».
In quanto forza ‟in-terna” del ‟mezzo” il δαίμων spinge, tira verso un movimento di legame a tre che gorgoglia in un climax a spirale: si apre, si allarga, si moltiplica. Il suo εῖδος ‟a tre” diviene una moltitudine relazionale, un'orgia di ‟io-soggetto-altro” che conduce ‟alle cose stesse”. Un'astrazione da tale legame toglie di mezzo la realtà; ma non la struttura delle relazioni, che di conseguenza vengono riempite in modo non originario. «La faccia di Peredònov era sempre ebete e non esprimeva nulla. Gli occhiali d'oro sul naso e i capelli corti sulla testa saltellavano in modo meccanico, come su un essere non vivo»; «nella sua testa sogni e pensieri s'erano spenti, lasciando il posto a una concupiscenza greve e priva d'oggetto». Ecco che il δαίμων trova un'oscura eco, che risuona di tinte meschine in una composizione fittizia e ‟pseudo-vitale”, creando una mortale morale del bene e del male.
La messa domenicale era finita e i fedeli s'incamminavano verso casa. Certuni s'erano fermati sul sagrato, sotto i tigli e gli aceri antichi, dietro le bianche mura di pietra, e conversavano. Erano vestiti tutti a festa, si guardavano contenti, sicché pareva che in quella città si vivesse d'amore e d'accordo. E persino in allegria. Ed era invece soltanto un'impressione...