Jonathan Littell

"L. Ulbach’s 1868 attack on Zola’s Thérèse Raquin titled ‘La littérature putride’ provides the starting point for a reflection on the benefits of ‘putrid literature’ based on the striking analogy between criticisms directed at Thérèse Raquin, and, over a century later, at M. Houellebecq's Les Particules élémentaires and J. Littell’s Les Bienveillantes.  A case-study of the reception of both novels reveals the shortcomings of a feebly evolving literary field. However, from a historical perspective, Houellebecq’s and Littell’s contributions arguably present a form of progress. Thus, the article’s ultimate aim lies in the questioning of the intellectual benefits of putrid fiction.
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Il romanzo storico gode di ottima salute: i titoli ascrivibili a questo genere ampio e trasversale figurano spesso in cima alle selezioni dei premi più prestigiosi e riscuotono il consenso della critica quanto quello dei lettori. Queste opere presentano una varietà che va da forme disimpegnate a produzioni più ambiziose. Oggi in Italia, Francia e Inghilterra incontriamo romanzi storici attraversati da temi e questioni politiche attuali, le cui radici risiedono nel lato in ombra della Storia ufficiale. Sono storie di resistenza o di rimozione di eventi traumatici, dalla Shoah al colonialismo, che richiedono una nuova narrazione e interrogano il nostro presente. A raccontarle, autori come Laurent Binet, Jonathan Littell, Laurent Mauvignier, Wu Ming, Helena Janeczek, Antonio Scurati, Gabriella Ghermandi, Andrea Levy, Martin Amis. Il recupero di memorie perdute e vite sommerse, la lettura critica dell’archivio, l’utilizzo della polifonia nella narrazione e il racconto dell’inconscio politico costituiscono temi e pratiche narrative condivisi e cruciali. Tra letteratura, storia e psicoanalisi, questo libro è un percorso critico attraverso piccole epopee e meditazioni della vita offesa, attualità della rivoluzione e disagio della civiltà. Con l’analisi dei modi di vedere e dei modi di pensare, l’autrice riflette sulla rappresentazione nel romanzo storico contemporaneo della lotta e della sua impossibilità, il male agito e subito.

Il presente lavoro vuole indagare i modi in cui l'Olocausto viene rappresentato nella letteratura contemporanea, e i risultati estetici scaturiti dalla tensione tra verità storica e finzione narrativa, dalla penna di autori e autrici che non hanno mai vissuto il genocidio nazista.

Verranno prese in esame cinque opere esemplari, in un periodo di produzione che va dagli anni '80 ai '10 del Duemila: "Children of Holocaust" di Helen Epstein (1979), "Lezioni di tenebra" di Helena Janeczek (1997), la graphic novel "Maus" di Art Spiegelman (1991), "Les bienveillantes" di Jonathan Littell (2006) e "HHhH" di Laurent Binet (2010). Lo studio è interdisciplinare e si muove tra le più recenti pubblicazioni in materia di Holocaust Studies e Trauma Studies e, dall'altra parte, poggia la sua base sulla critica fornita dalla teoria della letteratura e della filosofia della Storia.

Lo scopo della tesi è indagare in che modo, e con quali esiti visuali ed estetici, i testi proposti fanno convivere le tensioni tra finzione e storicità, esperienza e assenza, distanza nel tempo e prossimità narrativa. La domanda, a cui qui si vuole rispondere, è se l'espediente della finzione letteraria sia un mezzo per detonare, e non mettere a repentaglio, la verità storica e i suoi significati nel nostro presente.

La questione del déracinement sembra costituire un nodo semantico rilevante in quelli che sono forse i tre principali interpreti della letteratura francese cosiddetta ipermoderna, vale a dire Emmanuel Carrère, Michel Houellebecq e Jonathan Littell. Si tratta di una problematica che, se da una parte mostra i suoi debiti verso la grande stagione del romanzo otto-novecentesco, dall'altra presenta un'articolazione originale, in cui il recupero della tradizione realista e modernista coesiste con tendenze peculiari della narrativa contemporanea. Una volta analizzate le configurazioni che questo tema assume nei diversi autori, sarà interessante valutare non soltanto le sue ricadute sulla costruzione del personaggio, ma anche i suoi legami con l'organizzazione formale del racconto. Parole chiave

The question of eradication is a relevant issue for the three main interpreters of hypermodern French literature, namely Emmanuel Carrère, Michel Houellebecq and Jonathan Littell. If on the one hand this issue shows its debts to the great season of the 19 th-and 20 th-century novel, on the other it clearly shows an altogether original articulation, where debts to the realist and modernist traditions coexist with some more recognisably contemporary fiction trends. Once we have analysed the forms taken by this theme, it will be of interest to evaluate not only its effects on the construction of the character, but also its links to the formal organisation of the story.

«C’è nel fascismo un nichilismo realizzato» scrivono Gilles Deleuze e Félix Guattari, «giacché, diversamente dallo Stato totalitario che si sforza di bloccare tutte le possibili linee di fuga, il fascismo si costruisce una linea di fuga intensa, che trasforma in linea di distruzione e di abolizione pura. È strano come sin dall’inizio i nazisti annunciassero alla Germania quel che avrebbero portato: a un tempo nozze e morte, anche la loro propria morte, e la morte dei Tedeschi».
Per quanto eterogenee e difficili da ricostruire in modo univoco, le vicende del fascismo sembrano snodarsi seguendo l’ordine di alcune tappe: il fascismo è un complesso ideologico, rituale e politico che mette capo a un dispositivo militare lanciato verso la propria distruzione. L’ideologia razzista, i rituali, le prassi policratiche di governo, diventano la premessa per la costruzione di una macchina da guerra che ha il significato di un grande esperimento suicidario. Nata per proteggere e riterritorializzare a Est il popolo-nazione tedesco, la macchina si insubordina molto presto a qualsiasi compito che non sia quello della distruzione. Il fascismo voleva produrre l’“autentico” soggetto tedesco, seminare il mondo con maestose rovine capaci di testimoniare la vittoria sulla morte, ma il vortice della sua caduta ha prodotto soltanto la polvere di una catastrofe.

«Il passato non è mai finito». Queste parole, che Max Aue rivolge alla gemella Una in Les Bienveillantes (2006), alludono agli aspetti traumatici che definiscono la personalità del narratore del libro di Littell: sono diversi i luoghi del testo in cui emerge la peculiare relazione che Aue intrattiene con lo scorrere del tempo, con effetti importanti sia sul piano della diegesi che su quello della rappresentazione formale. Tempo che, inteso come categoria del racconto, svolge una funzione portante in un testo che oscilla per quasi mille pagine tra la perturbante infanzia dell'ex SS franco-tedesca e il suo anonimo presente di industriale nella Francia postbellica, passando per i terribili fatti della seconda guerra mondiale.
Partendo dall'analisi dei suoi aspetti interni, tematici e formali, il presente contributo si propone di indagare costanti e variabili di un'opera paradigmatica della contemporaneità come Les Bienveillantes rispetto alla tradizione letteraria, operazione che si colloca all'interno di uno studio diacronico delle forme di rappresentazione della Storia: il libro di Littell difatti, pur richiamandosi in parte ai dispositivi tradizionali tramite cui il flusso temporale viene "configurato" nell'intreccio del testo (la mimesis II secondo Ricœur), è al contempo un eccellente rappresentante di quella "svolta testimoniale" che ha interessato l'ambito delle rappresentazioni estetiche a partire dagli anni '60 per arrivare ai nostri giorni.

Les Bienveillantes (2006), a novel written in French by North-American author Jonathan Littell, contains several references to myths and themes of the medieval Western tradition, particularly to the legend of Tristan and Isolde. This essay shows how the contemporary writer resorts to the old myth to draw parallel lines between the story of Tristan and Isolde and the ill-fated love life of the main character, depicting the tragic aspect of an impossible love. The paper also demonstrates how Littell reworks and updates the medieval legend, overcoming the boundaries of the old story and adapting it to the troubled period in which the action of the novel is set. The writer uses this new view on the myth to describe the anxiety of an individual tortured by his tumultuous environment and by the impossibility to live by his ideals.

Grounded in Hannah Arendt and Bruno Bettelheim’s assertion that the symbolic aim of Nazi concentration camps was to produce “ideal” subjects of the totalitarian state, this article claims that the hypothetical identification between perpetrators and victims inherent to such a theory may prove key to the analysis of Littell’s novel. The article analyzes the development of the main character, Max Aue, and shows that certain traits which could point to a perpetrator’s trauma may also, following Ernst Jünger, indicate the gradual production of totalitarian allegiance. In addition, this allegiance motivates Littell’s reference to the Orestes myth, which ultimately raises the question of guilt.

En el presente trabajo se analiza "Les Bienveillantes", novela que ficciona las memorias atormentadas de un nazi. A través de su lectura se viaja a los infiernos del holocausto, de la guerra y de una conciencia sin anclajes éticos ni estéticos, narrados por una mente perversa que apenas se conmueve ante las atrocidades más profundas. Tras contrastar a lo largo de su trama ficción y realidad, se destaca, a la luz de los debates sobre la reescritura de la Historia, la operatividad de esta novela para captar y transmitir la verdad de lo ocurrido favoreciendo de ese modo el desarrollo de una conciencia responsable y la no repetición de los hechos.

Da che parte possiamo entrare nello spazio urbano di una città? Da qualunque parte vogliamo. Possiamo accedere dalle porte principali, dagli accordi autostradali, dalle stazioni ferroviarie, dalle navette che troviamo a disposizione all'uscita di un aeroporto, da alcune vie secondarie o semplicemente scendendo a una fermata dell'autobus, così come, in modo un po' più furtivo e nascosto, tramite la rete fognaria o attraverso il circuito che seguono i rifiuti dal nostro appartamento fino alla discarica. Possiamo seguire il flusso di persone, di merci o di informazioni che si muovono, si ri-producono e si elaborano in un agglomerato urbano o anche individuare la rete elettrica, quella idrica e quella delle telecomunicazioni che vanno ad alimentare ininterrottamente le nostre città e intenderle come vie d'ingresso e di uscita. Entrare significa superare una soglia che delimita e definisce qualcosa, determinandone l'inizio e la fine: dovremmo in un certo senso chiederci dove inizia e dove finisce una città e quindi, in ultima istanza, trovare una risposta al nostro interrogarci su che cosa sia una città. Ma non è questa la nostra chiave di ingresso. Oggi più che mai, nell'epoca delle grandi metropoli, chiedersi dove possa iniziare una città da 37 milioni di abitanti come Tokyo o da 21 milioni come Città del Messico non fa che amplificare l'incapacità di una domanda come questa di descrivere la realtà: non è solo una questione di grandezze, ma il fatto è che si ha a che fare con una soglia che è sempre nel suo emergere, nel suo divenire. Vi è una sorta di divenire-città delle cose, come tra la vespa e l'orchidea, in una continua de-territorializzazione e ri-territorializzazione, de-codificazione e ri-codificazione dello spazio urbano che non risponde alla logica dell'è ma alla logica a cerniera dell'e…e…e… del sillogismo disgiuntivo: abbiamo molto più probabilmente a che fare con un rizoma.

Der Arzt im Konzentrationslager Auschwitz, Josef Mengele, wurde eine der paradigmatischen Verkörperungen des Holocaust-Schreckens und ist wiederholt in fiktionalen Werken thematisiert worden. Der Beitrag fragt anlässlich des Erscheinens des mit dem Prix Renaudot 2017 ausgezeichneten Romans La Disparition de Josef Mengele von Olivier Guez nach dem Verhältnis von Quelle und Erinnerung in einer Zeit der ‚letzten Zeugen' des Nationalsozialismus. Erinnerungsliteratur, Dokufiktion und Geschichtsroman entwickeln zeitspezifische Modelle des Umgangs mit den Traumata des Holocaust.

This volume is a collection in Critical White Studies with a specific focus on privilege. Our focus here is on white privilege, approached from disciplines as diverse as philosophy, literature, sociology, psychology, and intellectual history. We have invited our contributors to adopt an expository style called “braided narrative,” which links the authors’ critical analyses to events and values that they identify as formative within their own lives. Our hope is that this stylistic innovation will provide students and readers a useful pedagogical tool, motivating them to inquire into their own experience of privilege. Our aim here is to map out relations between conscious perception, self-evaluation, and the ideas and images of white privilege tied to cultural and social institutions. It is in the service of this mapping that the personal narratives which our expository choice “braids into” scholarly analysis emerges as a crucial feature of Critical White Studies, as we understand it.

Chapter 14. Andrea Timár engages with literary representations of the experience of perpetrators of dehumanization. Her chapter focuses on perpetrators of dehumanization who do not violate laws of their society (i.e., they are not criminals) but exemplify what Simona Forti, inspired by Hannah Arendt, calls “the normality of evil.” Through the parallel examples of Dezső Kosztolányi’s Anna Édes (1926) and Doris Lessing’s The Grass is Singing (1950), Timár first explores a possible clash between criminals and perpetrators of dehumanization, showing literature’s exceptional ability to reveal the gap between ethics and law. Second, she examines novels focalized through perpetrators and the difficult narrative empathy they provoke, arguing that only the critical reading of these novels can make one engage with the potential perpetrator in oneself. As case studies, Timár examines Daniel Defoe’s Robinson Crusoe (1719), which may potentially turn its reader into an accomplice in the process of dehumanization, and J.M. Coetzee’s Foe (1986), which puts on critical display the dehumanizing potentials of both aesthetic representation and sympathy as imaginative violence. Third, she reads Jonathan Littell’s The Kindly Ones [Les Bienveillantes, 2006], which can make the reader question, through the polyphony of the voice of its protagonist, the notions of narrative voice and readerly empathy, only to reveal that the difficulty involved in empathizing with perpetrator characters lies not so much in the characters’ being perpetrators, but rather in their being literary characters. Eventually, Timár briefly touches upon the problem of the aesthetic and the comic via Nabokov’s Lolita (1955) to ask whether one can avoid some necessarily dehumanizing aspects of humor.

Re-reading Freud masterwork on Mass Psychology, the article explores the transformations of some analytical categories as "mass", "individual", "fetish object", with an emphasis to the contemporary Italian context and, more generally, to the turning point of late capitalism. Fetishism is seen in relation to the Aestheticization of daily life and to the process of transitional agglomeration around a temporary ideological target.

Lo scopo dell’articolo è illustrare come, in Taccuino Siriano, frasi riportate, riflessioni del narratore, descrizioni di eventi o immagini si combinino come materiali intermediali che servono al narratore per autenticare la sua esperienza. Littell, infatti, vuole dare un’interpretazione della realtà personale e limitata, ma ancorata alla sua esperienza diretta e avvalorata dal vaglio critico di documenti e testimonianze. Per questo Taccuino siriano non è solo da considerare un reportage, ma una vera e propria “narrazione documentaria”.

This article will show how Littell combines reported words, narrator’s reflections, descriptions of events or images as intermediary materials useful to to authenticate his experience. In this work the narrator wants to give an interpretation of reality, personal and limited but anchored to its direct experience, to his physical involvement and supported by the critical examination of documents and testimonies. Therefore, Carnets de Homs is not only a reportage, but a “documentary narration”.

Resumen:
En los últimos años se está produciendo un creciente interés por el estudio de los victimarios. A diferencia de la víctima, el verdugo no suele testimoniar por voluntad propia, y si lo hace normalmente es para exonerarse de responsabilidad. Esta actitud plantea el problema de la voz enunciativa del victimario. Este artículo propone que la tarea de conocer acerca la identidad del perpetrador perfila un terreno para el intercambio entre la reflexión y la imaginación: el esbozo interdisciplinar de una antropología del verdugo. A través del tratamiento de este asunto en Las benévolas de Jonathan Littell, el texto muestra un ejemplo de cómo la literatura de ficción ofrece un marco para reflexionar acerca de las motivaciones de los perpetradores a partir de su actitud ante el testimonio. El objetivo último del artículo es no obstante señalar las dificultades que rodean la comprensión de los victimarios en el caso concreto de la guerra española de 1936–39 y sus secuelas. La reflexión sobre este asunto lleva a concluir que los problemas de conocimiento del perpetrador están menos en el objeto de estudio que en el propio observador.


Abstract:
There is a growing interest in the study of perpetrators. As opposed to victims, victimizers tend not to be willing to testify, and when they do they exonerate themselves from responsi-bility. This attitude poses the issue of the voice of the perpetrator. This article claims that the task of knowing about the identity of the victimizer offers a terrain for exchanges between reflection and imagination: the interdisciplinary outline of an anthropology of the perpetrator. Through the approach to this issue in The Kindly Ones by Jonathan Littell, the text shows an example of how fiction offers a framework for reflecting on the rationale of perpetrators by focusing on their attitude towards testimony. The final goal of the article is nevertheless to point out the difficulties surrounding the understanding of the victimizers in the case of the Spanish 1936–39 war and its sequels. Reflection on this issue leads to conclude that problems in the knowledge about the perpetrator are less in the object of study and rather more in the observer.

Alcuni romanzi contemporanei si sono misurati con il racconto finzionale delle tragedie del Novecento, e con gli orrori della Seconda guerra mondiale e la Shoah. Per far fronte all’intensità fuori scala dell’orrore avvenuto nel corso di questi eventi, la letteratura si avvale di diverse strategie testuali. Un esempio ne sono i romanzi Les Bienveillants (2006) di Jonathan Littell e The Zone of Interest (2014) di Martin Amis, dove la dismisura, la pienezza descrittiva di ciò che è indicibile del primo lascia il posto alla sua evocazione nelle forme della reticenza nel secondo. In questo studio mi propongo di riflettere su come questi romanzi affrontino gli eventi traumatici novecenteschi con la scrittura letteraria e quali significati esprimano in termini di rimemorazione e coscienza storica dei traumi collettivi. Nello specifico, il focus della riflessione è il rapporto tra la coscienza storica e il ritorno del modo tragico, in una direzione che individua nella rappresentazione della scissione dell’io la saldatura tra dimensione psicanalitica e dimensione tragica, e tra inconscio privato e politico.

“Los culpables nunca hablan. El silencio es su esencia”. A partir de esta simple constatación, Jonathan Littell emprende una tarea que nos resulta íntimamente subversiva, terriblemente ambigua y esencialmente escandalosa: dar voz, en Les Bienveillantes (2006), a los verdugos, a todos aquellos, es decir, a los que históricamente les ha sido vedado, porque tradicionalmente considerados como inhumanos, el acceso al campo de la palabra pública. Cabe recordar, desde esta perspectiva, el caso ejemplar del proceso contra el jerarca nazis Adolf Eichmann, durante el cual –mientras desfilaban frente a las cámaras centenares de testigos en contra del procesado– no fue admitido ningún testigo de descargo. Lo que hace de la escritura de Littell algo pertubador para el lector es que todo lo que solemos tachar de indecible nos he contado, en primera persona y con abundancia de detalles, por Maximilien Aue, oficial de las SS nazis.
Esta atrevida elección en el enfoque narrativo de la novela de Littell ha suscitado tajantes tomas de posición. A las críticas que lo acusan de un sadismo gratuito que hace hincapié en una peligrosa estetización del mal, se oponen lecturas como es la de Jorge Semprún, para quien Littell, como nadie en la historia literaria del segundo posguerra, ha sabido percibir y representar la verdad de los campos de exterminio.
Alrededor de la compleja verdad histórica de la deportación queda también organizada la última novela de Javier Cercas. Casi imposible de clasificar de acuerdo a los modelos tradicionales de los géneros literarios, El impostor (2014) se presenta, como advierte el mismo Cercas, como una extraña “novela sin ficción”, una aventurada investigación del pasado individual de Enric Marco Batlle, supuesta víctima de la deportación nazis y “el mayor impostor de la historia de la humanidad”, tal como lo define Vargas Llosa. El libro es –y Cercas tiene plena conciencia de todo esto– un verdadero “combate a muerte entre verdad y mentira”.
Lo que tienen en común las escrituras de Cercas y Littell es entonces la voluntad de investigar uno de los acontecimientos más traumáticos de nuestro pasado a partir de una perspectiva que es a la vez inédita y extremamente peligrosa. Sin embargo, el peligro de lo que se trata aquí no implica tanto una amenaza que se dirige conscientemente hacia el lector, sino que desestabiliza, en primera instancia, la misma posición autorial que se encarga de las investigaciones, minuciosamente documentadas en los dos casos, a partir de las cuales se desarrollan los experimentos narrativos de las dos novelas. Y son estos un peligro y una amenaza que derivan, primeramente, de aquel gesto radical que, restituyendo la posibilidad de la palabra al culpable –mitómano o verdugo–, niega tajantemente esa dimensión sagrada del Holocausto que, como afirma Bidussa (Dopo l’ultimo testimone, 2009), preside a la narración histórica canonizada de ese acontecimiento a la vez que impide, a través de una trivialización y un aplastamiento del pasado, su real conocimiento histórico y crítico.

A partir de estas constataciones preliminares, la ponencia se propone investigar los modos y las formas a través de los cuales, en los dos casos analizados, la figura autorial se constituye, se desarrolla y modifica a partir de la confrontación que ella emprende –desde el lugar de los falibles y en búsqueda de una verdad, aunque parcial e incompleta– con lo que social e históricamente lleva la marca de la mentira. De acuerdo con esta hipótesis, además de las dos novelas mencionadas, se tendrán también en cuenta todos esos escritos –ensayos, entrevistas, etc.– donde las voces autoriales reflejan directamente sobre la valencia estética, histórica y social de sus operaciones literarias y críticas.

Jonathan Littell’s latest works are closely linked with each other with respect to both form and content. Triptyque. Trois études sur Francis Bacon is an essay about the work of the Dublin-born painter; Une vieille histoire is an unconventional novel in which the same story is told twice by using almost the same plot and means in order to create something new. In Triptyque Littell looks for the «grammar of Francis Bacon’s paintings», by focusing mainly on the codes and uses of the triptych form. Triptyque’s cover shows one of the documents found in Francis Bacon’s workshop, considered to be one of his first triptych draft, called Three studies for figures at the base of a crucifixion. This document embodies a poetical device that Jonathan Littell put in the background of his narrative piece. Une vieille histoire reproduces the concept structure of two figures connected with each other by meticulous correspondences and mises en abyme. By exploring this poetical link between Triptyque and Une vieille histoire, the author will also deal with Maurice Blanchot’s first novel, Thomas l’Obscur. Rewritten after nine years and greatly reduced in its length, this one-in-two book could be a relevant reference for Jonathan Littell works.

The essay offers a study on the representation of space in Les Bienveillantes (2006) by Jonathan Littell. From a methodological standpoint, the article benefits from the theoretical tools developed by Trauma Studies, along with Littell’s analysis on the ‘fascist’ language carried out in his essay Le Sec et L’Humide. The work aims at showing the intimate relationship between Maximilien Aue and the external environment, whose description follows the collapse of the narrator’s mind.

En los ultimos anos se esta produciendo un creciente interes por el estudio de los victimarios. A diferencia de la victima, el verdugo no suele testimoniar por voluntad propia, y si lo hace normalmente es para exonerarse de responsabilidad. Esta actitud plantea el problema de la voz enunciativa del victimario. Este articulo propone que la tarea de conocer acerca la identidad del perpetrador perfila un terreno para el intercambio entre la reflexion y la imaginacion: el esbozo interdisciplinar de una antropologia del verdugo. A traves del tratamiento de este asunto en Las benevolas de Jonathan Littell, el texto muestra un ejemplo de como la literatura de ficcion ofrece un marco para reflexionar acerca de las motivaciones de los perpetradores a partir de su actitud ante el testimonio. El objetivo ultimo del articulo es no obstante senalar las dificultades que rodean la comprension de los victimarios en el caso concreto de la guerra espanola de 1936–39 y sus secuelas. La reflexion sobre...

The relationship between Laibach and Rammstein is a dialectical one, which no serious interrogation of either band can, at this point, ignore. The bands share a musical and aesthetic palette, and an affiliation with a totalitarian aesthetics produced through a performance of Germanicity. The link between the two groups opens a space from which it is possible to identify ongoing conversations on the intersections between power, ideology, capitalism, and popular culture, specifically pop and rock music. How the two groups – one wildly successful on the global mainstream rock stage as well as the goth/industrial music scene which spawned it;  the other a darling of critics, intellectuals, and assorted cultivators of angst – connect and intersect provides the semblance of a debate; one that hangs between Laibach’s rigidly constructed identity as embodiment of critique, and Rammstein’s identity as globally successful German rock band and brand.

El trabajo aborda el modo en que dos novelas contemporáneas, al tratar dos de los hechos históricos más traumáticos del siglo XX, asumen una serie de patrones y de motivos provenientes en última instancia de la tragedia clásica, lo cual da ocasión para reflexionar sobre la cuestión de la representación de la historia en la novela y la relación que se establece entre dos géneros considerados por las teorías literarias clásicas como antitéticos.