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La prima ascensione sul Monte Bianco - Voyages dans les alpes, Horace Benedict De Saussure
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Cimentarsi nell'impresa di trovare delle coordinate all'interno del nevrastenico pastiche gaddiano 1 non è cosa banale: non si vuole necessariamente mettere le mani avanti ma piuttosto chiarire l'incertezza di passo del lettore/critico... more
Cimentarsi nell'impresa di trovare delle coordinate all'interno del nevrastenico pastiche gaddiano 1 non è cosa banale: non si vuole necessariamente mettere le mani avanti ma piuttosto chiarire l'incertezza di passo del lettore/critico nella giungla dell'ingegnere. Questo doveva essere ben chiaro anche allo stesso Gadda se nelle pagine della rivista "Alfabeto", nel 1953, scriveva in riferimento al suo "Il primo libro delle favole" (di cui mi appresto a parlare): «Non ho visto critico dire bene delle mie Favole» 2. La cripticità di questo testo infatti ne ha risultato il degradamento ad opera secondaria e scarsamente conosciuta, tanto che l'interesse verso di essa è cosa recente e comunque frutto di una rivalutazione complessiva dell'opera di Gadda. Ora, chiaritene le difficoltà e armato il lettore dell'attenzione e sospetto necessari verso i terzi che si prendono l'onere e la libertà di analizzare la sua poetica (si pensi ai tanto odiati critici letterari che Gadda dipinge con velenosa ironia nelle favole 89, 97, 157), mi concentrerò su quelle che furono le fonti e i modelli del Gadda favolista. Nel 1940, a Firenze, presso l'editore Vallecchi, Pietro Pancrazi pubblicò "L'Esopo moderno: quattrocentotrenta favole" 3. Questa pregevole traduzione era sicuramente conosciuta dall'autore del Pasticciaccio che, si ricorderà, trascorse "manzonianamente" la decade 1940-1950 nella città gigliata per approfondire lo studio della lingua italiana e frequentare le biblioteche fiorentine e gli ambienti culturali del luogo 4. Risulta pertanto fondamentale principiare il nostro discorso da qui poiché questa pubblicazione coincise inevitabilmente con il moto ispirazionale che fece appropriare Gadda di un genere votato al travestimento simbolico e metaforico proprio mentre l'atmosfera culturale era resa difficile dal regime fascista. Come la ginestra leopardiana, per sua natura, la favola riesce a mettere radici sui terreni inariditi dagli abusi di potere grazie alla sua capacità animalesca di mimetismo fanerico che già Calvino annotava negli Appunti per una prefazione 1 Per riprendere il fortunato termine continiano.
'approcciare questo lavoro vorrei rimandare per un attimo il lettore ad una tela presente all'interno dei Musei Vaticani. Si tratta di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre di Wenzel Peter, pittore austriaco di fine Settecento/prima metà... more
'approcciare questo lavoro vorrei rimandare per un attimo il lettore ad una tela presente all'interno dei Musei Vaticani. Si tratta di Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre di Wenzel Peter, pittore austriaco di fine Settecento/prima metà dell'Ottocento, passato ai posteri come pittore "animalista", essendo specializzato in un naturalismo volto alla rappresentazione anatomicamente perfetta di animali delle specie più diverse. Il Paradiso Terrestre costituisce una delle più alte visioni dell'artista tale che convinse papa Gregorio XVI nel 1831 ad acquistarlo per l'arredo della Sala del Concistoro nell'Appartamento Papale di rappresentanza. Ora, per quanto essa non sia sicuramente una delle opere più iconiche della collezione vaticana, devo ammettere che mi ha colpito fin dal primo sguardo l'armonia tra creature immerse nel trionfo della natura, in quel giardino della perfezione, dove l'uomo era, esattamente al pari degli altri animali, un figlio del creato. Tenterò di esprimermi meglio: osservandolo mi è sempre piaciuto pensare che sia esistito un tempo dell'uomo (fuori da quello biblico) in cui la prospettiva non era antropocentrica, bensì in perfetto equilibrio con gli Umwelt 1 delle altre forme di vita. Visione estremamente fictional per così dire ma tuttavia non estranea al pensiero di molti intellettuali e scrittori che hanno a più riprese analizzato, spesso denunciando o piuttosto solamente compatendo, la follia di dominio e l'arroganza umana: «Volendo esser signore e padrone della natura, l'uomo vi ha impresso la propria impronta. Ovunque. Ogni uomo è stato partecipe di questo movimento, dal filosofo all'avvocato, dal politico al tecnocrate, dal contadino all'agricoltore, dall'architetto all'artista o al designer, siano essi espressione della rivoluzione industriale o della modernità artistica 2 ». Intellettuali, si è accennato, come il bellunese Dino Buzzati e la romana Anna Maria Ortese (autori di cui mi appresto a trattare), voci fuori dal coro dell'Italia della metà del XX secolo, un'Italia che stava conoscendo una forte industrializzazione e una prepotente ondata di opere civili ed edilizie. L'Italia dell'Autostrada del Sole, del viadotto Polcevera e del grattacielo Pirelli, l'Italia che innalzava in segno di trionfo la 1 Tra il 1907 e il 1909, Jacob von Uexküll, mise in discussione la nozione di «ambiente» (Umwelt in tedesco) che fino a quel momento era stata utilizzata soprattutto in senso sociologico per riferirsi a contesti storico-culturali umani. Uexküll mandò in crisi in modo definitivo il pregiudizio antropocentrico, ovvero che le varie specie animali vivano in uno spazio senso-motorio identico al nostro, come se le nostre modalità di senso e di azione costituissero il punto di riferimento per la vita di qualunque organismo. 2 René Descartes, Discorso sul metodo, 1637. Citazione tratta dalla Parte sesta: Le cose richieste per andare più avanti nello studio della natura e rielaborata nella mostra tematica Broken Nature: Design Takes on Human Survival dalla quale prende il nome la XXII Esposizione Internazionale alla Triennale di Milano.
Per offrire una panoramica su questo lavoro penso sia necessario partire dalla chiave di lettura utilizzata nell’analisi delle opere dei tre autori presi in esame, ossia Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto e Mario Rigoni Stern. La corrente... more
Per offrire una panoramica su questo lavoro penso sia necessario partire dalla chiave di lettura utilizzata nell’analisi delle opere dei tre autori presi in esame, ossia Luigi Meneghello, Andrea Zanzotto e Mario Rigoni Stern. La corrente critica a cui mi sono accostato durante il lavoro di tesi è
quella dell’ecocriticism o ecologia letteraria, disciplina accademica nata intorno alla metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti (poi sviluppatasi con più energia negli anni Novanta), che si occupa di studiare le relazioni occorrenti tra natura e cultura nei testi letterari, unendo due discipline
apparentemente lontanissime come letteratura ed ecologia. È importante capire che essa mira ad uno scopo anzitutto etico e funzionale (questione sottolineata già nella premessa) poiché mira ad
educare e sensibilizzare il pubblico sulle questioni ecologiche in toto (“azione del mondo sul testo e azione del testo sul mondo”).
Chiarito questo punto possiamo ora passare alla tesi.
Oggetti di studio della mia tesi sono il paesaggio e il dialetto veneto nelle opere di Luigi Meneghello, Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto, tre autori veneti (un asiaghese, un solighese e un maladense) che hanno vissuto il passaggio, più generalmente italiano, da una società rurale e più vicina alle tempistiche naturali ad una società moderna venutasi a sviluppare dal boom economico degli anni Sessanta in poi. Proprio su questo passaggio, traumatico sotto molti aspetti, si fonda il senso di
denuncia o di volontà di preservazione, diciamo pure di sostenibilità, sia naturale che linguistica, di questi tre autori.
La tesi parte da una introduzione divisa tra una premessa, in cui ho spiegato come si sarebbe strutturato poi il lavoro, e una panoramica sulla metodologia, ovvero “ecologia e letteratura”, in cui
ho voluto chiarire il senso della chiave critica utilizzata. Ho poi diviso il corpo centrale dell’opera in due macrosezioni: “Paesaggio” e “Lingua”, di cui la prima suddivisa a sua volta in tre sottocapitoli:
1.1 L’Altipiano di Mario Rigoni Stern
1.2 La biosfera di Luigi Meneghello: tra Malo e l’Ortigara.
1.3 I paesaggi primi di Andrea Zanzotto

Per quanto riguarda la sezione sulla lingua intitolata “La memoria nella lingua: il dialetto veneto in Luigi Meneghello, Mario Rigoni Stern e Andrea Zanzotto” ho voluto condensare tutto in unico capitolo poiché quello che i tre autori cercano di evocare, utilizzando o parlando del dialetto natìo,
è un mondo perduto (quello appunto rurale) che poteva vantare ancora una biodiversità culturale oramai inghiottita dalla uniformizzazione mondiale capitalista che ha portato ad un impoverimento
o appiattimento generale delle identità locali. C’è una bella metafora che ho utilizzato anche nella tesi utile a comprendere bene il tutto: se si pensa ai dialetti italiani come alberi, allora sarà facile intuire l’importanza delle loro radici plurisecolari al fine di tenere saldo il terreno identitario e
culturale della penisola. Trovano così senso il dialetto infantile di Meneghello; il perduto cimbro simbolo di una cultura intera ormai perduta di Mario Rigoni Stern e, infine, il veneto originario di Zanzotto.