Philosophy Kitchen - Rivista di filosofia contemporanea
www.philosophykitchen.com
Direttore: Giovanni Leghissa
Redazione: Alberto Giustiniano (caporedattore), Federica Buongiorno, Veronica Cavedagna, Giulio Piatti, Mauro Balestrieri, Benoît Monginot, Carlo Deregibus, Elettra De Biasi
Supervisors: Barry Smith, Gert-Jan van der Heiden, Pierre Montebello, Luciano Boi, Achille Varzi, Cary Wolfe, Maurizio Ferraris, Gaetano Rametta, Gianluca Cuozzo, Michele Cometa, Rocco Ronchi, Massimo Ferrari, Raimondo Cubeddu, Olivier Guerrier, Petar Bojanic, Mario Carpo, and Rossella Bonito Oliva
Address: Via Sant'Ottavio, 20, 10124 Torino TO
Direttore: Giovanni Leghissa
Redazione: Alberto Giustiniano (caporedattore), Federica Buongiorno, Veronica Cavedagna, Giulio Piatti, Mauro Balestrieri, Benoît Monginot, Carlo Deregibus, Elettra De Biasi
Supervisors: Barry Smith, Gert-Jan van der Heiden, Pierre Montebello, Luciano Boi, Achille Varzi, Cary Wolfe, Maurizio Ferraris, Gaetano Rametta, Gianluca Cuozzo, Michele Cometa, Rocco Ronchi, Massimo Ferrari, Raimondo Cubeddu, Olivier Guerrier, Petar Bojanic, Mario Carpo, and Rossella Bonito Oliva
Address: Via Sant'Ottavio, 20, 10124 Torino TO
less
InterestsView All (19)
Uploads
Complete issues by Philosophy Kitchen - Rivista di filosofia contemporanea
Eppure la rivendicazione dell’utopia come spazio per sfuggire all’inferno del reale, o di quel “Reale”, di cui l’onda lunga del lacanismo politico, da Zizek a Badiou, ha fatto l’oggetto principale della propria “passione”, resta ben presente nell’immaginario collettivo, così come lo era ancora ancora, anche a livello politico, nei propositi di Ernst Bloch. Un mondo ideale, dai tratti fantasmati, o fantasmatici, resta il telos di molte narrative della contemporaneità di grande successo: romanzi, serie televisive, produzioni cinematografiche spesso presentano e rappresentano mondi ideali dal forte potenziale di identificazione. Questo potenziale, però, come Caronia già nel 1996 rilevava, tende ad assumere rapidamente caratteri distopici: se le utopie rinascimentali (quella di Moro come la città del Sole di Campanella, quanto la Christianopolis di Andreae) appaiono al lettore odierno fortemente (pur involontariamente) distopiche, le “utopie” contemporanee, soprattutto quelle elaborate dopo le due Guerre Mondiali, appaiono sempre come utopie “di facciata”, che nascondono tratti distopici totalitari, eugenetici, bio- e tanatopolitici. Nelle distopie della letteratura sci-fi dagli anni ’60 fino a oggi, ma pure nei mondi post-apocalittici popolati da gruppi di uomini tornati allo stato di natura di molte narrazioni seriali e videogames, sembra che il potenziale critico dell’utopia sia stato mantenuto, rovesciando però il suo segno distintivo da positivo a negativo, andando così di pari passo con sfiducia per la ragione tipica dell’epoca che va dal Dopoguerra a oggi.
Il più grande obiettivo che ha guidato l’impostazione di questo fascicolo risiede nel tentativo di pensare quelle pratiche affabulatorie – e allo stesso intrinsecamente violente – che circoscrivono l’azione della legge. Il diritto ha da sempre svolto un ruolo primario nella “naturalizzazione” dei poteri di dominio dell’uomo sui propri simili, e dell’uomo sulla natura. La sovranità della legge – il suo ergersi magnificamente al di sopra del foro interiore dell’individuo – è null’altro che la forma formante, il risultato atteso, di un gesto violento e inaspettato, ma così naturale da informare la stessa costituzione dei corpi politici, e la loro esistenza attuale.
Il percorso genealogico che accompagna l’emergere della legge è il medesimo che ha seguito questo numero: un percorso di scoperte e di invenzioni, di teorie filosofiche, ma anche di cambiamenti repentini, di fratture, e di scosse politiche. La legge è il luogo della forza e della cogenza, si ripete, ma forse anche dell’aporia. In questo “confine sconfinato”, si apre la necessità di una nuova interrogazione sul diritto che si focalizzi su ciò che esso ha da sempre detto e, forse, sempre potrà dire all’agire dell’uomo, alla sua dinamica esistenziale e al suo orizzonte politico.
I contributi ospitati in questo numero aprono uno spazio di interrogazione critica sulla tradizione e sulle categorie del diritto, insieme a un tentativo di pensare diversamente il ruolo che esso può assumere nel contesto globale. Le sezioni che lo compongono istituiscono ciascuna un varco diretto verso quell’ambiguità sovrana che ancora rende affascinante e arcano lo studio del diritto.
Altro ambito in cui il concetto di forma acquista un ruolo centrale è quello della psicologia: dal primo decennio del secolo, un intero movimento, la Gestalttheorie, assume la forma (sinonimo di unità strutturata) come proprio oggetto d’indagine e fonda esplicitamente (Köhler, Wertheimer) la propria teoria della percezione sul postulato di un isomorfismo, almeno nomologico, tra piano fenomenico e fisiologico. Inoltre è proprio da tali ricerche, in particolare da quelle di Meinong ed Ehrenfels, che la fenomenologia eredita una specifica attenzione al rapporto tra parte e intero: dall’elaborazione formale delle intuizioni gestaltiste sulla percezione, come quella sulla differenza tra parti indipendenti e non indipendenti, Husserl getta nuovi basi per la riflessione mereologica.
Lo statuto e la genesi della struttura si ritrova al centro delle analisi strutturaliste, la cui definizione di struttura può essere sintetizzata, prendendo a prestito le parole di Piaget, come un sistema unitario di trasformazioni auto-regolatrici riscontrabile in diversi ambiti del reale e, dunque, oggetto di diverse discipline (linguistica, semiotica, antropologia). Insieme a simili indagini, si assiste alla riformulazione delle filosofie della forma: quelle di Ruyer e Simondon, entrambe fortemente influenzate dai più aggiornati dibattiti scientifici, possono essere prese a esempio giacché rintracciano nella forma una nozione imprescindibile per dar conto dei vari livelli del reale, sia esso fisico o biologico o psicologico.
Anche in altri domini di ricerca, e con altre declinazioni, seppur tangenti alle analisi avanzate in filosofia, prende corpo la formalizzazione della cosiddetta teoria sistemica, soprattutto a partire dai contributi della teoria dei sistemi generali di von Bertalanffy, della cibernetica di Wiener e della teoria dell'informazione di Shannon. Da questa si avviano tanto le indagini sulla morfogenesi e sull'autopoiesi di Maturana e Varela quanto quelle sulla morfogenesi di René Thom, a loro volta riprese, rafforzate e reinnestate in ambito strutturale da Jean Petitot attraverso la proposta di uno strutturalismo morfodinamico o strutturalismo naturalizzato.
Da quest’orizzonte di problemi, sopra succintamente delineato, il sesto numero di “Philosophy Kitchen” intende chiamare a indagare i caratteri epistemologico e ontologico dell'isomorfismo – strettamente connesso a nozioni quali forma e formazione, struttura e strutturazione –, nel tentativo di fare chiarezza sulla valenza della loro relazione. Primo obiettivo sarà dunque quello di appurare la natura, l'evoluzione storica e gli slittamenti di significato che l'isomorfismo, inteso come corrispondenza tra modelli o strutture aventi domini omogenei, ha assunto all'interno delle diverse discipline nel corso del Novecento.
Sul piano epistemologico, si può affermare che l'isomorfismo assume una portata metodica se applicato, in qualità di strumento, a strutture afferenti a livelli diversi di realtà, talvolta apparentemente distanti. Ci si propone allora di valutare la possibilità di generalizzare un simile strumento d’indagine, in vista dell'accrescimento e dell'organizzazione del sapere.
Il quarto numero di Philosophy Kitchen intende dunque ricostruire tale recente dibattito nei suoi snodi teorici essenziali, offrendo così un utile e accessibile strumento scientifico per percorrere trasversalmente i maggiori modelli di ontologie oggi presenti nella discussione filosofica.
Even though the XXth century is usually described as a period marked by the crisis of ontology and metaphysics, nevertheless in recent years there has been an extended and widespread reprisal of ontological themes in both continental and analytical philosophy. In other words, contemporary thought has witnessed, up to present day, the emergence of a variety of different viewpoints on ontology and its fundamental role for philosophical discourse. Indeed, after the various attacks on traditional ontology conceived, among others, by Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap and Wittgenstein, a profound reconsideration of the validity of ontology and its capacity to comprehend reality has followed. As a matter of fact, long before Heidegger's Destruktion of Western metaphysics, even Husserl's phenomenology included decisive elements that render possible a re-evaluation of the issues concerning the ontological status of reality. For this reason, it is undisputable that the various critical approaches of contemporary thought to ontology resulted in the elaboration of new theoretical models capable of giving new multiple insights into the basic questions of ontology: what does it mean to assert that something exists or may be considered as existent?
Therefore, the fourth volume of Philosophy Kitchen aims to provide a reconstruction of this recent debate and its crucial points, in order to create a useful and accessible tool capable of covering the main ontological perspectives present in the current philosophical discourse.
Tuttavia, su scala globale la guerra continua ad essere praticata, coinvolgendo sia forze regolari che forze militari private, e il fatto che molte azioni belliche avvengano sotto l’egida delle Nazioni Unite e abbiano la forma di azioni di peace keeping non modifica la fenomenologia dello scontro bellico.
Da qui la necessità di porre alcune domande, alle quali probabilmente non sarà possibile dare una risposta semplice, ma che meritano di essere se non altro formulate con chiarezza...
“No more wars!” for many decades, the European collective consciousness after World War I and II, and the American one after the Vietnam War, has found in this motto an enduring and effective source of inspiration. Nevertheless such anti-war attitude did not arise from a rational reflection concerning the opportunity to choose different methods, apart from war, to settle conflicts. Indeed, it arose from a shared feeling of repulsion and disgust: the senselessness of war has appeared to many as something that doesn’t need to be argued and this seemed evident by simply considering the huge amount of suffering war itself caused to millions of men and women.
On the other hand, war is still practiced on a global scale, involving both regular forces as well as private military ones, and the fact that many military actions are conducted under the aegis of the United Nations in the form of peacekeeping operations does not alter the phenomenology of armed conflict.
This produces the necessity to ask the right questions, and even though they probably do not have a simple answer, nevertheless they need to be formulated clearly and with rigour...
Movement involves the production of spaces. The fact that spaces are constructed does not mean that the substance of plains, seas, mountains, rivers and forests is irrelevant: rather, the process of hominization originates precisely from the very restrictions imposed by such materiality. The role of human sciences consists therefore in conceptualising the interweaving of these physical boundaries ‒ what we may call the “givenness” of the geographical element ‒ and the collective and individual practices of production of meaning, that contribute to making these spaces the material a priori of history. Indeed there is no history without geography, just as there is no living space in the world that isn’t permeated by the shared meanings of a community of speakers...
Si fa prima se si interrogano i saperi che descrivono ‒ o spiegano ‒ l’esperienza. Si fa prima se si imposta il discorso filosofico immettendolo nell’alveo del discorso scientifico, il quale parla direttamente dell’esperienza. Un po’ come quando si deve insegnare a qualcuno come si nuota. Gli si mostrano i gesti del nuoto stando sulla riva? No, lo si butta in acqua, magari in acque poco profonde, e gli si insegna, dentro l’acqua, a nuotare. Così, appunto, si fa prima. Assumere la posizione trascendentale, in tale prospettiva, non risulta essere altro che un’inutile perdita di tempo.
Tuttavia, è lecito almeno sollevare un dubbio: si può davvero accordare alla filosofia il ruolo di sapere critico, che interroga i propri fondamenti, quelli degli altri saperi e, più in generale, il fondamento del rapporto tra sapere ed esperienza, senza passare attraverso la nozione di trascendentale? Si può davvero fare a meno di chiedersi sia come è fatto, in generale, il soggetto che fa esperienza del mondo, sia come sono fatti quei mondi ai quali si rapporta ogni esperienza possibile?
Se tale domanda, tale dubbio, risulta anche solo vagamente plausibile, allora si vede bene che perseguire l’obiettivo di praticare una filosofia in qualche modo definibile come “trascendentale” non si configura più come una semplice perdita di tempo.
Tutta la difficoltà sta, ora, nel mettersi d’accordo su ciò che l’espressione “in qualche modo” indica. Lo scopo di questo primo numero consiste nel mettere alla prova alcune possibili letture e declinazioni di tale espressione
Extra by Philosophy Kitchen - Rivista di filosofia contemporanea
Eppure la rivendicazione dell’utopia come spazio per sfuggire all’inferno del reale, o di quel “Reale”, di cui l’onda lunga del lacanismo politico, da Zizek a Badiou, ha fatto l’oggetto principale della propria “passione”, resta ben presente nell’immaginario collettivo, così come lo era ancora ancora, anche a livello politico, nei propositi di Ernst Bloch. Un mondo ideale, dai tratti fantasmati, o fantasmatici, resta il telos di molte narrative della contemporaneità di grande successo: romanzi, serie televisive, produzioni cinematografiche spesso presentano e rappresentano mondi ideali dal forte potenziale di identificazione. Questo potenziale, però, come Caronia già nel 1996 rilevava, tende ad assumere rapidamente caratteri distopici: se le utopie rinascimentali (quella di Moro come la città del Sole di Campanella, quanto la Christianopolis di Andreae) appaiono al lettore odierno fortemente (pur involontariamente) distopiche, le “utopie” contemporanee, soprattutto quelle elaborate dopo le due Guerre Mondiali, appaiono sempre come utopie “di facciata”, che nascondono tratti distopici totalitari, eugenetici, bio- e tanatopolitici. Nelle distopie della letteratura sci-fi dagli anni ’60 fino a oggi, ma pure nei mondi post-apocalittici popolati da gruppi di uomini tornati allo stato di natura di molte narrazioni seriali e videogames, sembra che il potenziale critico dell’utopia sia stato mantenuto, rovesciando però il suo segno distintivo da positivo a negativo, andando così di pari passo con sfiducia per la ragione tipica dell’epoca che va dal Dopoguerra a oggi.
Il più grande obiettivo che ha guidato l’impostazione di questo fascicolo risiede nel tentativo di pensare quelle pratiche affabulatorie – e allo stesso intrinsecamente violente – che circoscrivono l’azione della legge. Il diritto ha da sempre svolto un ruolo primario nella “naturalizzazione” dei poteri di dominio dell’uomo sui propri simili, e dell’uomo sulla natura. La sovranità della legge – il suo ergersi magnificamente al di sopra del foro interiore dell’individuo – è null’altro che la forma formante, il risultato atteso, di un gesto violento e inaspettato, ma così naturale da informare la stessa costituzione dei corpi politici, e la loro esistenza attuale.
Il percorso genealogico che accompagna l’emergere della legge è il medesimo che ha seguito questo numero: un percorso di scoperte e di invenzioni, di teorie filosofiche, ma anche di cambiamenti repentini, di fratture, e di scosse politiche. La legge è il luogo della forza e della cogenza, si ripete, ma forse anche dell’aporia. In questo “confine sconfinato”, si apre la necessità di una nuova interrogazione sul diritto che si focalizzi su ciò che esso ha da sempre detto e, forse, sempre potrà dire all’agire dell’uomo, alla sua dinamica esistenziale e al suo orizzonte politico.
I contributi ospitati in questo numero aprono uno spazio di interrogazione critica sulla tradizione e sulle categorie del diritto, insieme a un tentativo di pensare diversamente il ruolo che esso può assumere nel contesto globale. Le sezioni che lo compongono istituiscono ciascuna un varco diretto verso quell’ambiguità sovrana che ancora rende affascinante e arcano lo studio del diritto.
Altro ambito in cui il concetto di forma acquista un ruolo centrale è quello della psicologia: dal primo decennio del secolo, un intero movimento, la Gestalttheorie, assume la forma (sinonimo di unità strutturata) come proprio oggetto d’indagine e fonda esplicitamente (Köhler, Wertheimer) la propria teoria della percezione sul postulato di un isomorfismo, almeno nomologico, tra piano fenomenico e fisiologico. Inoltre è proprio da tali ricerche, in particolare da quelle di Meinong ed Ehrenfels, che la fenomenologia eredita una specifica attenzione al rapporto tra parte e intero: dall’elaborazione formale delle intuizioni gestaltiste sulla percezione, come quella sulla differenza tra parti indipendenti e non indipendenti, Husserl getta nuovi basi per la riflessione mereologica.
Lo statuto e la genesi della struttura si ritrova al centro delle analisi strutturaliste, la cui definizione di struttura può essere sintetizzata, prendendo a prestito le parole di Piaget, come un sistema unitario di trasformazioni auto-regolatrici riscontrabile in diversi ambiti del reale e, dunque, oggetto di diverse discipline (linguistica, semiotica, antropologia). Insieme a simili indagini, si assiste alla riformulazione delle filosofie della forma: quelle di Ruyer e Simondon, entrambe fortemente influenzate dai più aggiornati dibattiti scientifici, possono essere prese a esempio giacché rintracciano nella forma una nozione imprescindibile per dar conto dei vari livelli del reale, sia esso fisico o biologico o psicologico.
Anche in altri domini di ricerca, e con altre declinazioni, seppur tangenti alle analisi avanzate in filosofia, prende corpo la formalizzazione della cosiddetta teoria sistemica, soprattutto a partire dai contributi della teoria dei sistemi generali di von Bertalanffy, della cibernetica di Wiener e della teoria dell'informazione di Shannon. Da questa si avviano tanto le indagini sulla morfogenesi e sull'autopoiesi di Maturana e Varela quanto quelle sulla morfogenesi di René Thom, a loro volta riprese, rafforzate e reinnestate in ambito strutturale da Jean Petitot attraverso la proposta di uno strutturalismo morfodinamico o strutturalismo naturalizzato.
Da quest’orizzonte di problemi, sopra succintamente delineato, il sesto numero di “Philosophy Kitchen” intende chiamare a indagare i caratteri epistemologico e ontologico dell'isomorfismo – strettamente connesso a nozioni quali forma e formazione, struttura e strutturazione –, nel tentativo di fare chiarezza sulla valenza della loro relazione. Primo obiettivo sarà dunque quello di appurare la natura, l'evoluzione storica e gli slittamenti di significato che l'isomorfismo, inteso come corrispondenza tra modelli o strutture aventi domini omogenei, ha assunto all'interno delle diverse discipline nel corso del Novecento.
Sul piano epistemologico, si può affermare che l'isomorfismo assume una portata metodica se applicato, in qualità di strumento, a strutture afferenti a livelli diversi di realtà, talvolta apparentemente distanti. Ci si propone allora di valutare la possibilità di generalizzare un simile strumento d’indagine, in vista dell'accrescimento e dell'organizzazione del sapere.
Il quarto numero di Philosophy Kitchen intende dunque ricostruire tale recente dibattito nei suoi snodi teorici essenziali, offrendo così un utile e accessibile strumento scientifico per percorrere trasversalmente i maggiori modelli di ontologie oggi presenti nella discussione filosofica.
Even though the XXth century is usually described as a period marked by the crisis of ontology and metaphysics, nevertheless in recent years there has been an extended and widespread reprisal of ontological themes in both continental and analytical philosophy. In other words, contemporary thought has witnessed, up to present day, the emergence of a variety of different viewpoints on ontology and its fundamental role for philosophical discourse. Indeed, after the various attacks on traditional ontology conceived, among others, by Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap and Wittgenstein, a profound reconsideration of the validity of ontology and its capacity to comprehend reality has followed. As a matter of fact, long before Heidegger's Destruktion of Western metaphysics, even Husserl's phenomenology included decisive elements that render possible a re-evaluation of the issues concerning the ontological status of reality. For this reason, it is undisputable that the various critical approaches of contemporary thought to ontology resulted in the elaboration of new theoretical models capable of giving new multiple insights into the basic questions of ontology: what does it mean to assert that something exists or may be considered as existent?
Therefore, the fourth volume of Philosophy Kitchen aims to provide a reconstruction of this recent debate and its crucial points, in order to create a useful and accessible tool capable of covering the main ontological perspectives present in the current philosophical discourse.
Tuttavia, su scala globale la guerra continua ad essere praticata, coinvolgendo sia forze regolari che forze militari private, e il fatto che molte azioni belliche avvengano sotto l’egida delle Nazioni Unite e abbiano la forma di azioni di peace keeping non modifica la fenomenologia dello scontro bellico.
Da qui la necessità di porre alcune domande, alle quali probabilmente non sarà possibile dare una risposta semplice, ma che meritano di essere se non altro formulate con chiarezza...
“No more wars!” for many decades, the European collective consciousness after World War I and II, and the American one after the Vietnam War, has found in this motto an enduring and effective source of inspiration. Nevertheless such anti-war attitude did not arise from a rational reflection concerning the opportunity to choose different methods, apart from war, to settle conflicts. Indeed, it arose from a shared feeling of repulsion and disgust: the senselessness of war has appeared to many as something that doesn’t need to be argued and this seemed evident by simply considering the huge amount of suffering war itself caused to millions of men and women.
On the other hand, war is still practiced on a global scale, involving both regular forces as well as private military ones, and the fact that many military actions are conducted under the aegis of the United Nations in the form of peacekeeping operations does not alter the phenomenology of armed conflict.
This produces the necessity to ask the right questions, and even though they probably do not have a simple answer, nevertheless they need to be formulated clearly and with rigour...
Movement involves the production of spaces. The fact that spaces are constructed does not mean that the substance of plains, seas, mountains, rivers and forests is irrelevant: rather, the process of hominization originates precisely from the very restrictions imposed by such materiality. The role of human sciences consists therefore in conceptualising the interweaving of these physical boundaries ‒ what we may call the “givenness” of the geographical element ‒ and the collective and individual practices of production of meaning, that contribute to making these spaces the material a priori of history. Indeed there is no history without geography, just as there is no living space in the world that isn’t permeated by the shared meanings of a community of speakers...
Si fa prima se si interrogano i saperi che descrivono ‒ o spiegano ‒ l’esperienza. Si fa prima se si imposta il discorso filosofico immettendolo nell’alveo del discorso scientifico, il quale parla direttamente dell’esperienza. Un po’ come quando si deve insegnare a qualcuno come si nuota. Gli si mostrano i gesti del nuoto stando sulla riva? No, lo si butta in acqua, magari in acque poco profonde, e gli si insegna, dentro l’acqua, a nuotare. Così, appunto, si fa prima. Assumere la posizione trascendentale, in tale prospettiva, non risulta essere altro che un’inutile perdita di tempo.
Tuttavia, è lecito almeno sollevare un dubbio: si può davvero accordare alla filosofia il ruolo di sapere critico, che interroga i propri fondamenti, quelli degli altri saperi e, più in generale, il fondamento del rapporto tra sapere ed esperienza, senza passare attraverso la nozione di trascendentale? Si può davvero fare a meno di chiedersi sia come è fatto, in generale, il soggetto che fa esperienza del mondo, sia come sono fatti quei mondi ai quali si rapporta ogni esperienza possibile?
Se tale domanda, tale dubbio, risulta anche solo vagamente plausibile, allora si vede bene che perseguire l’obiettivo di praticare una filosofia in qualche modo definibile come “trascendentale” non si configura più come una semplice perdita di tempo.
Tutta la difficoltà sta, ora, nel mettersi d’accordo su ciò che l’espressione “in qualche modo” indica. Lo scopo di questo primo numero consiste nel mettere alla prova alcune possibili letture e declinazioni di tale espressione
Nel caso di arte, letteratura e cinema, curati rispettivamente da Martina Corgnati, Giulia Boggio Marzet Tremoloso e Giampiero Frasca, si tratta, come è immaginabile, di mostrare gli aspetti estetici e poietici del mito nella cultura del Novecento, con tagli e prospettive che sono propri di ogni ambito, nel riferimento al mito come repertorio di soggetti e temi o strumento analitico, ma anche come generatori di nuova e specifica miticità. Il saggio di Gianluca Solla su Kantorowicz, nel contesto del George-Kreis e della cultura nella Repubblica di Weimar, nella sua singolarità mostra come anche la scienza storica, nella sua prassi scritturale e metodologica, possa essere strettamente intrecciata alla dimensione mitologica e si inscriva in cortocircuito tra passato e presente, che richiede anche sorveglianza. In una sorta di antipodo, il saggio di Francesco Baroni illumina in termini storico-storiografici e di storia delle idee un ambito in cui il mito, nella produzione testuale di figure come Guénon e Evola, consuma l'intero spazio del reale, della storia e del divenire fino a trasformarsi in contro-mondo finanche allucinato e ideologizzato, dove la dimensione metafisica tende ad azzerare o sovradeterminare quella sensibile e materiale. Il saggio dedicato alle neuroscienze cognitive, scritto da Edoardo Acotto mostra un'approccio biologico, evoluzionista e in qualche modo neo-trascendentale al mito, innovativo e tendenzialmente recente, almeno per gli standard italiani, che apre prospettive particolarmente interessanti che non possono non essere problematiche per chiunque si rapporti alla dimensione del mito in termini “classici” e metafisici.
Contro i fanatici rimitizzatori e per avvertire gli ingenui demitizzatori, pensiamo sia opportuno guardare al “mito” o meglio al MITO, nelle sue declinazioni – mitologie, miticità, mitopoiesi, mitodinamiche; per tracciarne gli slittamenti, le intermittenze e le folgorazioni, inseguendoli negli ambiti delle pratiche sociali in virtù delle quali i vincoli collettivi trovano stabilità e fondamento. Con l'idea che in questo quadro si inscriva parte significativa del modo in cui i moderni narrano sé stessi e definiscono portata e limiti del luogo, supposto altro, abitato dal mito.
The first perspective intends to exploit the intersection of history, sociology and anthropology. It seems appropriate to start from here because love occupies a place in the affective life of individuals only starting from culturally codified behavioural models, which manifest the weight of their performativity even when the subject is not looking for love or has not yet had the chance to be overwhelmed by the power of love passion...
Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi. Ora, è piuttosto facile rispondere a questa obiezione mostrando quanto un pensiero esplicitamente metafisico possa essere al contempo vigorosamente attuale: si prenda a titolo di esempio la figura di Gilles Deleuze, la cui riflessione scotista sull’univocità molteplice del reale finisce per chiamare in causa il problema della distribuzione dello (e nello) spazio politico.
In effetti così interpretato il pensiero filosofico, lato sensu, anche il più distante dalla dimensione materiale della prassi, nell’atto stesso del suo porsi non può che implicare al contempo una concreta riflessione sulla realtà. Più precisamente – ed è l’ipotesi che vorremmo vagliare proponendovi il presente CFP – la filosofia teorica per eccellenza, la prote philosophia come pensiero della meraviglia e dell’astrazione, non è tale (“filosofia prima”) se non per la sua specifica capacità di cercare – a partire dai diversi ambiti del sapere - le ragioni e le modalità di questo primo incontro con il reale. Prendendo le mosse da una certa tradizione di pensiero, si tratterebbe allora di considerare come genuinamente “Metafisico”, e pertanto autenticamente filosofico, il tentativo di cogliere l’esperienza nel suo nascere. Significherebbe, in altre parole, approfondire la ricerca del fondamento immettendola in un processo che precede ogni polarità e che risale, appunto, al livello prettamente impersonale.
It could be argued that similar ideas maintain, in a negative way, a typical metaphysical perspective, supporting obsolete speculations that are too abstract and disconnected from our contemporaneity. Related to this kind of criticism and its attempt to elude, probably in an incautious manner, Heidegger’s and Derrida’s monitions – Is it possible to escape from the age of metaphysics? Is a non-metaphysical philosophy possible? – there is in the present day a well-established approach that tends to dismiss “pure” thought, deemed as outdated and incapable of grasping the different ways in which our world is manifested. However it has to be also considered the risk of underestimating the significance of similar objections by merely showing how an explicitly metaphysical thought can be at the same time strongly attached to the present: for example the philosophy of Gilles Deleuze, whose scotist thought of a multiple univocity of the real leads to the problematization of the distribution of (and in) the political space.
Indeed, philosophical thought in general, even in its most abstract expressions distant from the material dimension of practices, in the very act of positing itself it also entails inevitably a concrete reflection on reality. To be more precise, this is the main thesis we would like to investigate with this CFP: theoretical philosophy as the prote philosophia that reflects on wonder and abstraction, can’t be considered as a “first philosophy” if not by its specific capacity of investigating – in the various fields of knowledge – the reasons and the conditions of this first encounter with the real. Building on this kind of line of thought, this means to consider as genuinely “metaphysical”, and therefore authentically “philosophical”, the very effort to conceive experience in its construction. In other words, it would mean to delve deeper into the research of foundations by inserting it in a process that precedes any kind polarity and that it resides precisely at the level of the impersonal.
Even though the XXth century is usually described as a period marked by the crisis of ontology and metaphysics, nevertheless in recent years there has been an extended and widespread reprisal of ontological themes in both continental and analytical philosophy. In other words, contemporary thought has witnessed, up to present day, the emergence of a variety of different viewpoints on ontology and its fundamental role for philosophical discourse. Indeed, after the various attacks on traditional ontology conceived, among others, by Heidegger, Derrida, Whitehead, Russell, Carnap and Wittgenstein, a profound reconsideration of the validity of ontology and its capacity to comprehend reality has followed. As a matter of fact, long before Heidegger's Destruktion of Western metaphysics, even Husserl's phenomenology included decisive elements that render possible a re-evaluation of the issues concerning the ontological status of reality. For this reason, it is undisputable that the various critical approaches of contemporary thought to ontology resulted in the elaboration of new theoretical models capable of giving new multiple insights into the basic questions of ontology: what does it mean to assert that something exists or may be considered as existent?