APhEx 10, 2014 (ed. Vera Tripodi)
Ricevuto il: 10/02/2014
Accettato il: 19/05/2014
Redattore: Vera Tripodi
N°10 GIUGNO 2014
T E M I
DEMOCRAZIA
di Emanuela Ceva
ABSTRACT - Alcuni tra i dibattiti filosofici più vivaci nell’ambito della teoria democratica
contemporanea si articolano lungo due questioni: (1) Perché la democrazia è desiderabile? (2)
Quali istituzioni sono necessarie per realizzare l’ideale democratico? In risposta alla prima
questione, gli strumentalisti sostengono che la democrazia è giustificata esclusivamente se
produce buoni risultati; i non-strumentalisti considerano anche i valori che le procedure
democratiche realizzano in sé. Quanto alla seconda questione, il dibattito riguarda la forma che
le istituzioni democratiche dovrebbero avere – maggioritaria, deliberativa o contestataria – per
realizzare l’ideale democratico. Lo scopo di questo contributo è di offrire una presentazione
critica di questi dibattiti.
1. INTRODUZIONE
1.1 Una definizione minimale della democrazia
2. PERCHÉ LA DEMOCRAZIA?
2.1 La democrazia come strumento
2.2 La giustificazione non-strumentale delle procedure democratiche
3. QUALE FORMA DI DEMOCRAZIA?
3.1 La regola di maggioranza
3.2 Democrazia e deliberazione pubblica
3.3 Democrazia e contestazione
4. CONCLUSIONE
5. BIBLIOGRAFIA
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1. INTRODUZIONE
Le teorie della democrazia sono state oggetto di alcuni tra i più vivaci dibattiti all’interno
del panorama filosofico politico angloamericano contemporaneo. Accanto alle questioni
analitiche riguardanti la definizione dell’idea di democrazia, questi dibattiti si sono svolti
attorno alle implicazioni normative dell’ideale democratico per le risposte che possono
essere date a due importanti questioni: (1) perché la democrazia è desiderabile? E (2)
quale forma dovrebbero avere le istituzioni per realizzare a pieno l’ideale democratico?
In risposta alla prima questione, il dibattito si è diviso su due fronti proponenti un
approccio strumentalista o non-strumentalista alla giustificazione della democrazia. Gli
strumentalisti sostengono che la democrazia è giustificata esclusivamente nella misura in
cui l’implementazione di procedure decisionali democratiche produce buoni risultati in
termini di giustizia sociale e protezione dei diritti individuali fondamentali o interessi
comuni. Sul fronte opposto, i non-strumentalisti negano che la ragion d’essere delle
procedure democratiche consista esclusivamente nei risultati prodotti dalla loro
implementazione e focalizzano l’attenzione sui valori realizzati nelle interazioni
interpersonali strutturate secondo tali procedure. Va da sé che con il variare dei resoconti
delle ragioni a favore della democrazia varia anche la teoria dell’autorità e della
legittimità democratica, sia essa – rispettivamente – orientata agli esiti o di natura
procedurale.
A seconda che venga favorito il primo o il secondo resoconto della giustificazione della
democrazia, il dibattito si è poi articolato lungo diverse linee di lettura circa la forma che
le istituzioni democratiche dovrebbero avere – se maggioritaria, deliberativa o
contestataria – per realizzare a pieno l’ideale democratico.
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Lo scopo di questo contributo è di offrire una presentazione critica di questo complesso
dibattito per evidenziarne i punti di maggiore rilievo e le questioni aperte. A questo fine
procederò come segue. Dopo avere offerto una definizione minimale di democrazia,
dedicherò il secondo paragrafo alla presentazione delle giustificazioni strumentaliste e
non-strumentaliste della democrazia cercando di chiarirne alcune ambiguità concettuali.
Procederò poi, nel terzo paragrafo, a passare in rassegna diverse teorie sostantive che
offrono modelli democratici di matrice maggioritaria, deliberativa e contestataria. Così
facendo suggerirò che questi modelli possono essere visti come complementari, piuttosto
che alternativi gli uni agli altri, al fine di garantire una partecipazione politica dei cittadini
che sia massimamente inclusiva ed egualitaria. Concluderò, nel quarto paragrafo, con
l’indicazione di alcune questioni aperte.
1.1 Una definizione minimale della democrazia
In un senso piuttosto generale e ampiamente condiviso, il termine “democrazia” indica
un processo di decisione collettiva caratterizzato dalla distribuzione egualitaria del potere
decisionale tra tutti i partecipanti. La partecipazione può avvenire in modo diretto da parte
dei membri della società oppure attraverso la selezione di rappresentanti chiamati a
prendere decisioni vincolanti per tutti.
Questa definizione, seppur minimale, ha in sé i germi di uno dei problemi centrali alla
teoria democratica, il cosiddetto “paradosso del fondamento democratico”: un gruppo che
voglia costituirsi come corpo democratico come deve prendere questa decisione? Questo
paradosso, segnalato da Robert Dahl [1970] e formulato nell’ambito della democrazia
costituzionale da Frank Michelman [1997], è stato oggeto di un’ampia discussione per
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quando riguarda, in particolare, la possibilità di evitare il circolo vizioso per cui la
decisione circa chi deve essere incluso nel demos sia, nello stesso tempo, pre-condizione
ed esito di un processo decisionale democratico. Per affronatre il problema, formulato
esplicitamento da Frederick Whelan [1983], sono stati fatti numerosi tentativi di spezzare
questo circolo vizioso facendo dipendere l’inclusione nel demos da principi esterni alla
procedura democratica, quali la protezione degli interessi di tutte le persone toccate dagli
esiti del processo decisionale (si veda Goodin [2007]) o il controllo sull’esercizio del
potere coercitivo da parte di chi vi è soggetto (si veda Abizadeh [2008]).
Oltre alla sua intrinseca problematicità, questo centrale paradosso mostra, in virtù
dell’impostazione che ne fa da cornice, come quando si parla di democrazia in senso
stretto si fa riferimento a una forma di governo che si articola attraverso istituzioni e
procedure formali (es. elezioni, referendum) che richiedono un atto fondativo specifico.
Tuttavia, c’è un senso più esteso nel quale intendere la democrazia come quell’insieme
di pratiche partecipative che, per quanto indirettamente, hanno un impatto sulla
formazione dell’agenda politica e il raggiungimento delle decisioni collettive. Da questa
prospettiva, i dibattiti e le consultazioni informali a livello della società civile vengono
spesso inclusi all’interno della valutazione dello stato di salute di un governo
democratico.
2. PERCHÉ LA DEMOCRAZIA?1
Un approccio normativo alla teoria democratica richiede, in primo luogo,
l’individuazione delle ragioni per le quali la democrazia è desiderabile e preferibile
1
Questo paragrafo si basa su materiale tratto da Ceva e Ottonelli [2014].
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rispetto ad altre forme di governo.
A questo fine è necessario sviluppare una giustificazione della democrazia. Questo
compito è stato portato avanti seguendo due principali linee di indagine, una
strumentalista – per la quale la democrazia è giustificata in virtù delle conseguenze
politiche e sociali che è in grado di produrre – e una non-strumentalista – per la quale
l’implementazione di procedure democratiche ha valore in sé.
Questa divisione ha importanti implicazioni quanto all’individuazione della fonte della
legittimità del processo decisionale democratico e dell’autorità dei suoi esiti. I sostenitori
di un approccio strumentalista si concentrano sulle caratteristiche proprie degli esiti
democratici dai quali dipende la legittimità del processo decisionale nel suo complesso.
Dal canto suo, il fronte non-strumentalista fa derivare, invece, l’autorità delle decisioni
democratiche dalle proprietà del processo decisionale che le ha prodotte.
2.1 La democrazia come strumento
La rivendicazione alla base dello strumentalismo democratico è piuttosto lineare: le
procedure democratiche hanno valore esclusivamente nella misura in cui servono alla
produzione di buoni risultati dotati di valore indipendente.
Richard Arneson [2003] ha offerto una delle più influenti formulazioni di questo
argomento sostenendo che ciò che conferisce legittimità alle forme di governo
democratico è che la loro implementazione produce nel tempo conseguenze migliori per
le persone che vi sono sottoposte rispetto alle alternative percorribili. Più precisamente,
secondo Arneson, le conseguenze rilevanti del governo democratico vanno misurate sulla
base della sua capacità di produrre decisioni collettive a tutela dei diritti fondamentali dei
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cittadini. A differenza di questi diritti (che corrispondono grossomodo alle libertà
fondamentali tradizionali), il diritto alla partecipazione democratica non può essere
considerato come fondamentale al punto da poter offrire una giustificazione nonstrumentale della democrazia. Questo diritto implica, infatti, il conferimento ai cittadini
del potere di esercitare influenza sulla vite degli altri nonostante non vi sia, Arneson
sostiene, alcun diritto morale fondamentale a esercitare questo tipo di influenza. Per
questa ragione il diritto di partecipazione democratica può essere giustificato solo in
modo derivato a condizione che l’esercizio di un simile potere avvenga per la tutela dei
diritti fondamentali delle persone a esso sottoposte. Arneson è pronto a riconoscere che,
in un certo senso, tutti i diritti implicano il conferimento di un qualche potere sulle vite
degli altri. Tuttavia, è persuaso che il diritto alla partecipazione democratica conferisca
un tale potere in modo più ampio e diretto di qualsiasi altro diritto; l’interferenza con le
vite degli altri non è solo un effetto collaterale dell’esercizio della nostra libertà di scelta,
ma è direttamente implicato dalla partecipazione democratica, la cui essenza consiste nel
mettere i cittadini nella posizione di pronunciarsi sul modo in cui gli altri dovrebbero
vivere la propria vita. Per questa ragione la giustificazione della democrazia è
necessariamente condizionata alla valutazione delle conseguenze da essa prodotte.
Philippe Van Parijs [2011] è forse lo studioso che ha tratto le implicazioni istituzionali
più controverse da un argomento strumentalista per la democrazia. Secondo Van Parijs,
quando si discute della desiderabilità della democrazia, la domanda fondamentale da porsi
è quale forma di governo sia meglio capace di condurre a decisioni collettive in grado di
assicurare il raggiungimento della giustizia sociale. La democrazia è giustificata, e la sua
attuazione è quindi desiderabile, nella misura in cui essa riesce a offrire garanzie migliori
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circa il raggiungimento della giustizia sociale rispetto a forme di governo autocratiche.
Su questa base possono essere giustificate alcune riforme istituzionali, anche piuttosto
drastiche, che rendano la democrazia più efficace quale garanzia di giustizia sociale,
anche a costo di compromettere il requisito dell’eguale diritto di voto. Van Parijs [1998]
invita a considerare, per esempio, quei paesi in cui le persone anziane sono tanto più
numerose rispetto a quelle più giovani da causare uno sbilanciamento della forza
elettorale che potrebbe minare la realizzazione della giustizia intergenerazionale. In
questi casi vi sarebbero le condizioni per togliere il diritto di voto agli anziani o per dare
più voti ai cittadini con figli.
Un’altra connotazione che gli argomenti strumentalisti hanno preso verte sul valore
epistemico della democrazia. In virtù della sua struttura inclusiva e consultiva, il processo
decisionale democratico è quello che offre le migliori opportunità di raggiungere
decisioni di qualità (siano esse valutate secondo una funzione di verità o di giustizia). La
pluralità dei punti di vista rappresentati durante il processo democratico e la quantità di
informazioni rese disponibili ai partecipanti permetterebbero di giungere a una
formulazione e valutazione critica delle decisioni collettive altrimenti impraticabile.
Questa caratteristica è particolarmente apprezzabile, si sostiene, nelle circostanze di
disaccordo sul giusto e sul bene che caratterizzano le società contemporanee nelle quali
l’implementazione di procedure democratiche sembra essere l’unico strumento
disponibile per raggiungere decisioni collettive vincolanti per tutti (per una discussione
di questa prospettiva si veda, per esempio, Estlund [2007]).
Come emerge dalla ricostruzione appena offerta, la maggior parte degli argomenti
strumentalisti si concentra sulla capacità delle procedure democratiche di produrre
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decisioni aventi certe qualità dotate di valore indipendente rispetto a quelle delle
procedure che le hanno prodotte. Tuttavia, accanto a queste forme di strumentalismo
ristretto focalizzate sulle qualità delle decisioni, vi sono forme di strumentalismo più
ampie che estendono l’attenzione agli effetti politici e sociali che l’implementazione di
procedure democratiche è in grado di produrre. Per esempio, si può sostenere che le
pratiche democratiche producono effetti positivi, quali un clima sociale cooperativo, e
incoraggiano la diffusione di importanti virtù di cittadinanza, quali la fiducia e il rispetto
reciproci. Un celebre argomento di questo tipo è stato proposto da John Stuart Mill
[1861]. Secondo Mill la partecipazione democratica ha un duplice valore: da un lato essa
fornisce ai cittadini uno strumento per proteggere i propri interessi e promuovere il
benessere sociale, dall’altro genera un impatto positivo sulle virtù dei cittadini, fornendo
loro un’educazione civica tramite la promozione della loro capacità di ragionare da una
prospettiva pubblica e condivisa. Un argomento simile è stato recentemente proposto da
Christopher Griffin [2003], secondo il quale l’eguale distribuzione del potere sociale che
la democrazia rende possibile ha un impatto positivo sull’autostima dei cittadini nella
misura in cui le loro diverse voci sono prese in eguale considerazione.
Nonostante questi argomenti siano spesso stati presentati come alternativi alle forme
ristrette di strumentalismo che si concentrano sulle sole qualità delle decisioni
democratiche, mi sembra che possano essere – a ben vedere – considerate anch’esse come
forme di strumentalismo poiché insistono sulle relazioni causali tra l’implementazione di
procedure democratiche e la produzione di effetti desiderabili per ragioni indipendenti
dalle – ed esterne alle – procedure democratiche stesse.
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Una linea argomentativa di più difficile categorizzazione consiste nella difesa della
democrazia in virtù della sua capacità di proteggere i cittadini, la loro autonomia e libertà,
dagli abusi del potere politico nei casi in cui devono essere prese decisioni collettive.
David Held [1987] ha definito questi tipi di argomenti come “protettivi”. L’istanza più
rappresentativa di questa linea argomentativa può essere rintracciata nell’approccio
repubblicano alla democrazia elaborato da Philip Pettit [2012]. Secondo Pettit,
l’implementazione di procedure democratiche è giustificata nella misura in cui questa è
in grado di proteggere i cittadini dalla dominazione pubblica garantendo il controllo
popolare sui processi decisionali. Più precisamente, per Pettit, un sistema di governo è
giustificato se mette i cittadini nelle condizioni di esercitare controllo sull’interferenza
dello stato con l’esercizio della loro libertà. Il governo democratico, se concepito – come
vedremo in seguito – in modo da includere istituzioni sia elettorali sia contestatarie,
soddisfa questo requisito e la sua autorità è, quindi, giustificata.
Secondo Pettit, questo argomento è in grado di fornire un’alternativa agli argomenti
strumentalisti perché la libertà come non-dominazione non è l’esito dell’implementazione
di procedure democratiche. È la partecipazione democratica stessa che istituisce i cittadini
come soggetti liberi garantendo il loro controllo sull’uso del potere coercitivo da parte
dello stato. Ora, nonostante questa precisazione sia sufficiente a mostrare come
l’argomento protettivo non sia riducibile a una forma di strumentalismo ristretto, come
quelle difese per esempio da Arneson e Van Parjis, non sembra essere in grado di
rivendicarne la natura non-strumentalista quanto al senso più ampio caratterizzato in
precedenza. Le procedure democratiche sono giustificate solo nella misura in cui sono in
grado di fornire ai cittadini gli strumenti necessari per proteggere il loro status pre-politico
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di soggetti liberi dall’esercizio arbitrario del potere statale nei casi in cui sono richieste
decisioni collettive. Nulla viene detto circa il perché abbia valore non-strumentale
prendere decisioni collettive in modo democratico di per sé. Le procedure democratiche
hanno, anche in questo caso, valore strumentale in virtù della loro relazione causale con
la protezione della libertà dei cittadini. Detto altrimenti, e con maggiore precisione, per
Pettit, la realizzazione della libertà come non-dominazione non richiede direttamente né
che vengano prese decisioni collettive, né tantomeno che queste decisioni vengano prese
in modo democratico. Tuttavia, non appena riconosciamo la necessità che tali decisioni
siano prese – essenzialmente per questioni di coordinamento sociale – dobbiamo
assicurarci che il processo decisionale venga appropriatamente vincolato per evitare la
dominazione. L’implementazione delle procedure democratiche serve a questo scopo ed
è, quindi, giustificata strumentalmente.
Va notato che considerazioni strumentaliste sono state impiegate anche per mettere in
discussione la desiderabilità della democrazia. Facendo eco ad argomenti di derivazione
platonica e hobbesiana, alcuni teorici della scelta pubblica hanno insistito sulla scarsità
delle competenze decisionali dei cittadini e sul loro scarso impegno politico. Questi fattori
rischiano di rendere il processo decisionale collettivo schiavo di incompetenze,
particolarismi o, comunque e più in generale, esposto all’irrazionalità degli elettori (si
veda Caplan [2007] e, per una discussione delle diverse posizioni nel dibattito, Elkin e
Soltan [1999]).
Di natura ancora più fondamentale è la critica alla razionalità della democrazia quale
strumento per l’aggregazione delle preferenze. Numerosi paradossi sono stati formulati
per mostrare l’inadeguatezza della democrazia quale meccanismo capace di trasformare
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un insieme di preferenze individuali in una preferenza collettiva razionale (si veda
principalmente Arrow [1970] e per una discussione recente Ottonelli [2010]).
2.2 La giustificazione non-strumentale delle procedure democratiche
Lo strumentalismo ha incontrato una certa diffidenza all’interno del dibattito filosofico
circa il valore della democrazia. I suoi detrattori hanno enfatizzato il rischio che la
tendenza a ridurre il valore della democrazia a quello delle conseguenze attese dalla
realizzazione di questa forma di governo (in termini di decisioni o di più ampi effetti
politici e sociali) porti a perdere una dimensione di valore importante, propria delle
procedure democratiche e indipendente dagli esiti – più o meno contingenti – della loro
implementazione. Su questa base sono stati elaborati numerosi tentativi di giustificare la
democrazia in modo non-strumentale.
Un contributo importante in questo senso proviene dagli argomenti “espressivisti”, per i
quali le procedure democratiche hanno valore perché la loro implementazione
simboleggia (o esprime) pubblicamente l’eguale considerazione che le istituzioni hanno
per i cittadini. Questo genere di considerazioni figura in modo prominente all’interno di
uno degli argomenti non-strumentalisti più sofisticati presenti nel dibattito, quello
proposto da Thomas Christiano [2008]. Christiano costruisce il suo argomento su di una
teoria della dignità umana secondo la quale le persone devono essere trattate con eguale
rispetto in virtù della loro eguale autorità sulle questioni di valore. Secondo Christiano il
benessere di una persona consiste nell’attività di apprezzare e impegnarsi nel
perseguimento di valori intrinseci, esercitando così quella forma di autorità della quale
solo gli essere umani dispongono. Poiché la giustizia richiede che i casi eguali siano
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trattati in modo eguale, e le persone hanno questa autorità in eguale misura, le istituzioni
devono promuovere il benessere di ciascuno in maniera eguale.
Su questa base, Christiano prosegue sostenendo che la giustizia sociale, così intesa in
termini egualitari, non solo deve essere realizzata ma deve esserlo pubblicamente. La
democrazia, insieme alla tutela dei diritti fondamentali delle persone, è una delle
istituzioni fondamentali che realizza l’eguaglianza pubblicamente. Infatti, sotto questa
forma di governo, i cittadini non solo sono trattati da eguali, ma essi possono anche vedere
pubblicamente che sono trattati da eguali in un modo chiaramente riconoscibile al di là
dei loro limiti cognitivi e del disaccordo sulle altre dimensioni del bene e del giusto che
riguardano le qualità delle singole decisioni. Quindi, nonostante il disaccordo sulla
giustizia degli esiti democratici sia destinato a permanere, secondo Christiano le
procedure democratiche possono comunque trattenere il proprio valore in quanto loci ove
si realizza il riconoscimento pubblico dell’eguaglianza dei cittadini.
Considerazioni di analoga natura espressivista vengono proposte anche all’interno
dell’argomento non-strumentalista elaborato da Rainer Forst [2012]. Forst fonda la sua
linea argomentativa sulla premessa che gli esseri umani sono “esseri giustificativi” in
virtù della loro distintiva capacità di offrire ragioni per giustificare le proprie credenze e
le proprie azioni e di esigere che analoghe ragioni vengano prodotte dagli altri nei loro
confronti. Questa capacità permette alle persone di intrattenere relazioni sociali e
politiche tra titolari di un diritto alla giustificazione, che richiede che qualsiasi esercizio
di potere coercitivo sia sorretto da ragioni accettabili da tutte le parti coinvolte. Su questa
base, Forst offre una giustificazione non-strumentale della democrazia le cui procedure
sono giustificate nella misura in cui trattano i cittadini secondo i principi fondamentali
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della reciprocità e generalità nei quali consiste l’ideale della giustificazione pubblica. In
questo senso, l’implementazione delle procedure democratiche è presentata come dotata
di un valore proprio, e indipendente dalle sue conseguenze attese, sia in termini
espressivisti – quale espressione politica del diritto fondamentale alla giustificazione –
sia come componente necessaria del trattamento dovuto alle persone come esseri
giustificativi.
Gli argomenti non-strumentalisti sono stati criticati in virtù delle loro implicazioni per la
teoria dell’autorità democratica che ne deriva. Se l’unico criterio di legittimità riguarda
le caratteristiche inerenti al processo decisionale, dobbiamo necessariamente inferire da
questa premessa che qualsiasi esito prodotto da tale processo sarà autoritativo? Il
problema ha qui a che vedere con l’assenza di un criterio indipendente dalla procedura
per valutare l’accettabilità dell’esito (per una discussione più estesa rimando a Ceva
[2009]). Cosa fare nei casi in cui una decisione democratica viola i diritti fondamentali
individuali? Come proteggere la democrazia da esiti non democratici (per esempio, da
una decisione di maggioranza che decide di togliere voce politica a una minoranza)?
Di fronte a questi problemi è necessario notare che, mentre gli argomenti strumentalisti
negano che le procedure democratiche abbiano un valore proprio e irriducibile a quello
delle conseguenze della loro implementazione, gli argomenti non-strumentalisti non
rivendicano l’esclusivo valore non-strumentale della democrazia. Essi sottolineano,
piuttosto, che le procedure democratiche debbano essere intese come aventi un valore
proprio oltre a quello derivante dalla loro capacità di produrre conseguenze dotate di un
valore indipendente da quello delle procedure che le hanno prodotte. Sembra quindi
possibile elaborare forme miste di democrazia (come quella proposta da Corey
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Brettschneider [2007]) che bilancino criteri di legittimità procedurale con principi
qualificanti la sostanza degli esiti effettivamente accettabili e autoritativi. Il problema che
si apre a questo punto, però, riguarda il criterio di bilanciamento o la regola di priorità da
adottare nel caso in cui i criteri procedurali entrino in collisione con i principi relativi agli
esiti.
3. QUALE FORMA DI DEMOCRAZIA?
Il secondo compito che un approccio normativo alla democrazia è chiamato a svolgere
concerne la caratterizzazione degli assetti istituzionali che possono realizzare al meglio
l’ideale democratico. Inevitabilmente, a seconda della risposta che viene data alla
domanda circa la desiderabilità della democrazia varieranno anche le ragioni offerte a
sostegno della realizzazione di una certa architettura istituzionale.
Così, la democrazia maggioritaria può essere difesa da una prospettiva strumentalista
come mezzo migliore ed efficiente per giungere a decisioni largamente accettabili in
circostanze di disaccordo sul bene e sul giusto; ma può anche essere sostenuta dai
difensori di una prospettiva non-strumentalista come metodo decisionale inerentemente
equo e imparziale. Dal canto loro, le forme deliberative di democrazia possono essere
difese quali strumenti per realizzare il potenziale epistemico delle procedure
democratiche in virtù della loro capacità di creazione di consenso; ma possono anche
trovare un sostegno non-strumentalista, come vedremo in quanto segue, quali
realizzazioni dell’ideale di giustificazione pubblica. Infine, le istituzioni contestatarie,
quali per esempio la revisione giudiziaria, possono essere strumentalmente difese come
mezzi per la protezione dei diritti e delle libertà dei cittadini a fronte di esiti democratici
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che li possono mettere in discussione; ma possono egualmente essere difese su base nonstrumentale quali estensioni dell’esercizio del diritto di partecipazione democratica.
In quanto segue passerò in rassegna queste tre forme di governo democratico –
maggioritaria, deliberativa e contestataria – per evidenziarne i tratti distintivi e i limiti
specialmente per quanto concerne la loro capacità di garantire il massimo spazio possibile
per l’esercizio egualitario del diritto di partecipazione politica per tutti i cittadini quale
tratto distintivo di un qualsiasi regime democratico.
3.1 La regola di maggioranza
L’argomento minimale standard per la realizzazione dell’ideale democratico attraverso
l’implementazione di procedure decisionali governate dalla regola di maggioranza è stato
proposto da Jeremy Waldron [1999]. Waldron sostiene che il processo democratico è
giustificato nella misura in cui esso realizza il principio dell’eguale rispetto per le persone.
Questa realizzazione consiste nella condizione che nessuna voce venga favorita o
penalizzata in vista della presunta importanza di raggiungere una qualche forma di
consenso. Più precisamente, per Waldron, solo se il processo democratico è guidato dalla
regola della maggioranza esso consente di raggiungere in modo efficace decisioni
collettive in un contesto di disaccordo fondamentale sul bene e sul giusto (componente
strumentalista) e di garantire che ciò avvenga in modo egualmente rispettoso delle diverse
voci discordanti (componente non-strumentalista).
Anche tralasciando i problemi relativi alla razionalità dell’aggregazione delle preferenze
tramite la regola di maggioranza, ai quali si è fatto riferimento poco sopra, la posizione
di Waldron è stata oggetto di numerose critiche quanto alla sua insensibilità rispetto allo
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svantaggio strutturale che affligge le eguali opportunità di partecipazione politica delle
minoranze.
Waldron sembra dare per scontato che quando una minoranza di cittadini dissente con
l’esito prodotto da un processo decisionale democratico maggioritario siamo di fronte a
un atto di arroganza e di irragionevolezza. Si tratterebbe, infatti, di una pretesa da parte
della minoranza che la propria posizione prevalga in società nonostante sia stata sconfitta
dal processo decisionale. In circostanze di disaccordo sul bene e sul giusto una pretesa di
questo tipo è certamente irragionevole. Tuttavia, come ho sostenuto altrove (Ceva
[2013]), l’approccio di Waldron alla questione del dissenso è semplicistico. Nello
specifico, Waldron riduce tutte le rivendicazioni minoritarie nei termini di
irragionevolezza appena presentati mancando, così, di prendere nota di rivendicazioni di
natura squisitamente procedurale attraverso le quali una minoranza di cittadini contesta
la decisione della maggioranza rivendicando che il processo che ha condotto a quella
decisione non ha dato eguale considerazione alla propria posizione alternativa. Detto
altrimenti, Waldron dà per scontato che il processo decisionale democratico governato
dalla regola di maggioranza garantisca una voce eguale a tutti i cittadini, ma questo è ben
lungi dall’essere verificato.
Accanto alla vexata quaestio delle minoranze permanenti, i cittadini portatori di posizioni
minoritarie, specialmente se molto controverse e impopolari, sono destinati a incontrare
significativi ostacoli a ottenere un’eguale considerazione sia durante la fase di agenda
setting, sia durante il processo decisionale vero e proprio. Si può vedere con facilità,
infatti, che i portatori di istanze minoritarie hanno bisogno di più tempo e devono
compiere uno sforzo maggiore per costruire consenso attorno alle loro posizioni, non
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fosse altro che per sincerarsi che sono state correttamente comprese (dissolvendo i
pregiudizi negativi che gli altri cittadini hanno tipicamente nei loro confronti). Si pensi,
per esempio, alla situazione di cittadini con convinzioni pro-choice che cercano di
sostenere la legalizzazione dell’eutanasia in una società a maggioranza cattolica. Anche
se godono formalmente dello stesso diritto di voto dei membri della maggioranza è
innegabile che essi incontrino maggiori difficoltà nell’esercitare il proprio diritto di
partecipazione politica e di avere, su questa base, eguali opportunità di influenzare la
presa di decisioni collettive in merito.
Si noti che numerosi tentativi sono stati compiuti per correggere un simile svantaggio
relativo alle opportunità di partecipazione politica delle minoranze all’interno di un
modello maggioritario di democrazia, per esempio lavorando sulle condizioni di
partecipazione al sistema elettorale (si veda, per esempio Dworkin [2006]). È stato
proposto, per esempio, che venissero imposti limiti circa l’uso di fondi privati per le
campagne elettorali per evitare che, attraverso questo strumento, i cittadini più facoltosi
possano avere maggiori opportunità di esercitare il proprio diritto alla partecipazione
politica. Ma si consideri anche la previsione di quote di rappresentanza nelle istituzioni
riservate a gruppi minoritari (es. minoranze etniche o linguistiche) o di cittadini portatori
di una storia di discriminazione (es. donne). Si tratta di rimedi importanti per migliorare
il carattere egualitario del processo decisionale democratico. Tuttavia, nonostante
rappresentino passi necessari, essi sono tutt’altro che sufficienti per ovviare ai
summenzionati problemi strutturali che sembrano richiedere, come illustrerò di seguito,
un ripensamento radicale del modello democratico e non solo aggiustamenti al margine
di esso.
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3.2 Democrazia e deliberazione pubblica
È proprio in questa direzione che procedono gli approcci deliberativi alla democrazia.
Questi modelli democratici sono caratterizzati dalla preoccupazione di assicurare a tutti i
cittadini, inclusi coloro che sono portatori di istanze minoritarie, reali eguali opportunità
di esercitare il proprio diritto alla partecipazione politica attraverso il sostegno della
cooperazione e della comprensione reciproca tra i partecipanti a un’impresa deliberativa
che richiede lo scambio di ragioni mutuamente accessibili. La deliberazione è concepita
come un processo aperto nel corso del quale la partizione tra maggioranza e minoranze è
sempre esposta alla revisione e il disaccordo pubblicamente articolato.
Secondo alcune versioni, le virtù di questo modello democratico risiederebbero nella
capacità delle interazioni deliberative di costruire consenso anche attraverso la modifica
e la convergenza delle preferenze (o del loro ordinamento) di cittadini inizialmente divisi.
Anche qualora il consenso non fosse raggiungibile, l’interazione deliberativa – attraverso
lo scambio di ragioni imparziali tra i partecipanti – sarebbe in grado di migliorare la
comprensione reciproca tra i cittadini e di promuovere atteggiamenti di rispetto e fiducia
reciproci (per una discussione estesa si rimanda a Gutmann e Thompson [2004]).
Accanto a questi argomenti di impronta strumentalista, un rappresentante esemplare
dell’approccio deliberativo al governo democratico sorretto da un’impostazione nonstrumentalista è quello offerto da Rainer Forst [2012]. L’approccio di Forst – come si è
visto sopra – è fondato sul riconoscimento di un diritto fondamentale alla giustificazione
al quale tutte le persone hanno titolo. Su questa base, la democrazia deliberativa è
caratterizzata come un processo durante il quale cittadini ragionevoli si scambiano ragioni
mostrando, in questo modo, rispetto reciproco in quanto autori e destinatari delle decisioni
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collettive. Se si dovesse verificare che alcune voci vengano escluse o non adeguatamente
rappresentate nel corso di questo processo anche l’esito del processo sarebbe privo di
autorità e andrebbe rivisto alla luce di un nuovo processo deliberativo corretto.
Nonostante questo approccio alle forme di governo democratico sia certamente più
ospitale verso le minoranze rispetto all’alternativa maggioritaria, numerosi problemi
riscontrati in merito a quest’ultima si ripresentano nel caso della democrazia deliberativa,
anche se in forma attenuata. In primo luogo, sembra non esservi ragione alcuna per
ritenere che lo svantaggio strutturale che affligge le minoranze si dissolva durante la
deliberazione. Numerosi studi empirici (tra i quali Delli Carpini, Cook, Jacobs [2004] e
Mendelberg [2002]) hanno mostrato, per esempio, che le posizioni minoritarie tendono
sistematicamente – e non accidentalmente – a sparire e a conformarsi a quelle di
maggioranza durante la deliberazione. Questo sembra minare le reali opportunità che le
minoranze hanno di fare sentire la propria voce.
Inoltre, numerosi studiosi hanno evidenziato i limiti cognitivi ed epistemici che è
probabile minino la partecipazione dei portatori di istanze minoritarie durante la
deliberazione. Come notato da Meira Levinson [2003], anche se questi sono formalmente
inclusi nel processo deliberativo, non è detto che tutto ciò che diranno verrà ascoltato e
compreso dalla maggioranza. Inoltre, chiedere alle minoranze epistemiche di conformarsi
allo stile deliberativo razionale, proprio del mainstream liberale e occidentale, potrebbe
assegnare un costo troppo alto alla loro partecipazione politica aggiungendo così
un’ulteriore fonte di svantaggio strutturale. Si potrebbe, invece, pensare – come suggerito
da Iris Young [2000] – di integrare altre forme espressive al di là dello scambio di ragioni,
quali per esempio la testimonianza o lo story-telling.
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Il fronte della democrazia deliberativa è ricco di tentativi sperimentali per la riforma dei
modi di partecipazione democratica mirati proprio a correggere questo tipo di problemi
strutturali. Innovazioni partecipative come i mini-pubblici o le giurie dei cittadini (che
prevedono la deliberazione in piccoli gruppi e su questioni specifiche – essenzialmente a
fini consultivi) si sono affiancate a strumenti più tradizionali come i diritti di
rappresentanza speciale o il potere di veto per le minoranze. Tuttavia, i primi, come nota
Archon Fung [2003], sono inevitabilmente esposti a vizi e distorsioni relative all’autoselezione dei partecipanti, mentre i secondi sembrano essere in grado di cogliere solo le
istanze portate avanti da gruppi minoritari formali e legalmente riconosciuti
(un’argomentazione estesa di questo punto è offerta in Ceva [2013]). Il problema
principale qui è la cecità di questi rimedi rispetto a quei casi in cui lo svantaggio
partecipativo non deriva in modo significativo dall’appartenenza di gruppo, ma dalle
convinzioni individuali del singolo cittadino (si consideri, per esempio, il caso dei genitori
che si oppongono all’obbligo di vaccinazione dei propri figli – si tratta di un fronte
estremamente eterogeneo che include portatori di ragioni religiose, mediche ed etiche al
quale manca ogni dimensione collettiva che abbia un qualche rilievo).
Infine, vorrei evidenziare che i teorici della democrazia deliberativa sono peculiarmente
silenti rispetto al comportamento atteso da parte dei cittadini che si trovano in posizione
di minoranza quando viene riaperta la deliberazione su di una questione decisa a
maggioranza. Le minoranze dovrebbero conformarsi oppure dovrebbero rifiutarsi di farlo
in attesa dell’esito del nuovo processo deliberativo? Come suggerito da Daniel Markovits
[2005], l’ordine democratico è caratterizzato da una certa inerzia anti-democratica; a
fronte di una decisione collettiva presa democraticamente vi sono, infatti, numerosi
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meccanismi di stabilità che ne rendono molto difficile il cambiamento. Questo rischia di
causare una certa resistenza conservatrice che dovrebbe preoccupare in modo particolare
coloro che si trovano in posizione minoritaria (ancor più se si tratta di minoranze
permanenti).
I teorici della democrazia deliberativa non sono certo inconsapevoli di questi problemi.
Molta discussione, per esempio, si è concentrata sul ruolo di canali informali e nonistituzionali attraverso i quali i cittadini possono migliorare le proprie opportunità di
partecipazione, particolarmente per quanto riguarda la composizione dell’agenda politica
sulla quale la deliberazione dovrà avvenire (si veda Cohen, Rogers [1992]). Questi canali
includono le associazioni della società civile e i movimenti dei cittadini. Una linea di
ricerca alternativa e più radicale mette in discussione il modello partecipativo che sta alla
base del progetto deliberativo nel suo complesso e propone un ritorno ai modelli
rappresentativi di democrazia che valorizzino il ruolo dei partiti e della difesa pubblica
degli interessi di parte, in contrasto con l’enfasi posta dai modelli deliberativi sulla
partecipazione diretta dei cittadini e lo scambio di ragioni impersonali e imparziali (si
vedano Mansbridge et al. [2010]; Rosenblum [2008]; Urbinati [2008]; White, Ypi
[2010]). Infine, altri critici della democrazia deliberativa hanno sottolineato la necessità
di rivedere i processi democratici al fine di incorporarvi spazi più significativi per la
contestazione delle decisioni democratiche e, in questo modo, permettere un controllo più
diretto da parte dei cittadini sull’operato dei loro rappresentanti. A queste forme di
democrazia “contestataria” è dedicato il prossimo paragrafo.
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3.3. Democrazia e contestazione
Se la democrazia deliberativa può essere vista come un’estensione correttiva della
democrazia maggioritaria (nella misura in cui si concentra sulle caratteristiche del
dibattito che precede il voto, ma non lo sostituisce), quella che Philip Pettit [2012] chiama
“democrazia contestataria” può essere considerata come un’estensione correttiva della
democrazia deliberativa.
Come si è visto sopra, Pettit costruisce il suo argomento per la democrazia sull’idea
repubblicana di libertà come non-dominazione. Secondo Pettit, le democrazia elettorale
maggioritaria è coerente con la realizzazione di questo ideale poiché fornisce ai governati
uno strumento (il suffragio universale) attraverso il quale essi possono esercitare il
controllo sui loro governanti. Si tratta, tuttavia, di una realizzazione parziale perché le
procedure democratiche maggioritarie sono in realtà spesso usate dalle élites di governo
come uno strumento per dominare le minoranze. Pettit, quindi, suggerisce che la libertà
deve essere realizzata non solo come libertà di partecipare al processo decisionale, ma
anche come libertà di opporsi alle decisioni collettive. A questo fine, a complemento delle
istituzioni elettorali, dovrebbero essere realizzate istituzioni contestatarie attraverso le
quali i cittadini possono richiedere la revisione o l’abrogazione delle decisioni
democratiche. Istituti quali le revisione giudiziaria operata da una corte costituzionale e
la presenza di difensori civici sono esempi delle previsioni richieste all’interno di questa
forma di democrazia.
Si sarà notato come Pettit si preoccupi di mettere lo spazio per la contestazione in
democrazia sotto il controllo di istituzioni formali. Ora, sembra certamente importante
discutere del ruolo dei tribunali e della loro funzione protettiva delle istanze minoritarie.
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Tuttavia, permangono dubbi circa la fiducia che le posizioni minoritarie possano davvero
raggiungere le sedi giuridiche preposte percorrendo le sole vie legali prospettate da Pettit.
Tali vie sono, infatti, spesso esposte agli stessi disequilibri di potere che minano il
processo politico. Come ci si può aspettare che i portatori di istanze minoritarie riescano
a fare sentire la propria voce in queste condizioni?
In risposta a questa domanda sembra promettente volgere lo sguardo anche alle forme
illegali di protesta, quali la disobbedienza civile, e al ruolo che esse possono giocare quali
strumenti di partecipazione democratica. Attraverso atti di protesta illegale, infatti, i portatori di istanze minoritarie possono aprire un canale diretto di comunicazione con le istituzioni e i concittadini, anche se si tratta di uno sparuto gruppo le cui posizioni sono
troppo impopolari per percorrere i canali formali.
David Lefkowitz [2007] ha recentemente proposto una difesa del ruolo democratico della
disobbedienza civile proprio in questi termini. Lefkowitz sostiene un diritto morale alla
disobbedienza civile, quale modo in cui i cittadini di una democrazia liberale possono
onorare il proprio dovere correlato al diritto legittimo di governare detenuto dallo stato.
Secondo Lefkowitz, i cittadini di uno stato legittimo devono decidere se obbedire alle
decisioni collettive oppure disobbedirvi pubblicamente per iniziare un confronto con i
propri concittadini finalizzato a individuare modi largamente accettabili per superare il
loro disaccordo ragionevole circa i fini che l’azione collettiva dovrebbe perseguire. A
questo proposito, che una persona si trovi in posizione minoritaria o maggioritaria in
società è una questione di mera sorte; dovrebbe, tuttavia, essere una priorità per uno stato
legittimo limitare il più possibile l’impatto della sorte sulle opportunità di esercizio
dell’autonomia individuale. Su questa base, Lefkowitz propone che coloro ai quali è
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toccata la cattiva sorte di essere in una posizione di minoranza devono o rassegnarsi a
obbedire alla maggioranza oppure intraprendere azioni pubbliche di disobbedienza civile
per esprimere il loro disaccordo e provare a cambiare lo stato di cose. Ne segue che le
istituzioni hanno il dovere di non punire i disobbedienti civili, quale parte integrante dello
sforzo che viene loro richiesto per rimuovere gli ostacoli alla partecipazione politica dei
cittadini.
In modo simile, Daniel Markovits [2005] ha proposto un argomento proceduralista che
presenta la disobbedienza civile come risposta al “deficit democratico” proprio dei
processi decisionali maggioritari. Markovits presenta la disobbedienza democratica come
capace di svolgere una funzione analoga alla revisione giudiziaria; si tratta in entrambi i
casi di mezzi per superare l’inerzia politica e riattivare la discussione pubblica su
questioni che lo status quo ha estromesso dall’agenda. Per questa ragione la
disobbedienza civile non si presenta affatto come una sfida esterna alla democrazia, ma
come avente un’importante funzione a tutela delle minoranze al suo interno.
Le diverse forme di istituzione democratica discusse in questo paragrafo possono essere
viste come complementari, e non alternative, per realizzare massimamente lo spazio di
partecipazione politica dei cittadini e superare gli ostacoli strutturali alla partecipazione
egualitaria delle minoranze. Va notata, tuttavia, una certa diffidenza nei confronti delle
forme contestatarie, che sono spesso presentate come un correttivo extra-democratico
piuttosto che come parte integrante del processo democratico stesso (l’estraneità di
istituzioni contestatarie quali la revisione giudiziaria rispetto alla pratica democratica è
stata difesa con vigore, per esempio, da Jeremy Waldron [2006]). Inoltre si teme spesso
che forme illegali di protesta, come la disobbedienza civile, possano minare il principio
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della certezza della legge, caposaldo dello stato di diritto, ed esporre i cittadini
all’arbitrarietà e a pericolose fonti di tensione sociale, che male si combinerebbero con lo
spirito cooperativo proprio dell’ethos democratico. Un modo possibile per attenuare
almeno queste critiche è di caratterizzare le forme contestatarie di partecipazione politica
come extrema ratio, percorribili una volta che i canali partecipativi ufficiali si fossero
ripetutamente dimostrati ciechi alle ragioni di una qualche minoranza.
4. CONCLUSIONE
L’introduzione a un tema ampio e complesso come quello della democrazia implica
inevitabilmente un certo grado di arbitrarietà nella selezione delle questioni trattate. In
questo articolo ho privilegiato due questioni fondamentali direttamente implicate dalla
discussione normativa della teoria democratica: (1) perché la democrazia è desiderabile?
E (2) quali assetti istituzionali sono in grado di realizzare al meglio l’ideale democratico?
Affrontando queste questioni ho discusso le posizioni di maggiore rilievo all’interno dei
dibattiti circa la giustificazione strumentale o non-strumentale della democrazia e
riguardanti le forme maggioritarie, deliberative e contestatarie nelle quali il diritto alla
partecipazione democratica può essere tradotto.
Atre questioni – quali la razionalità del processo democratico come meccanismo di scelta
pubblica, il ruolo politico dei tribunali, l’autorità e la rivedibilità degli esiti democratici e
il rapporto tra giustizia e legittimità democratica – sono state toccate pur se
tangenzialmente; altre ancora restano, inevase, sullo sfondo. Tra queste questioni vale la
pena di ricordare il dibattito sui criteri di cittadinanza e le condizioni di conferimento e
di esercizio del diritto di voto. Si tratta di questioni rese particolarmente urgenti dagli
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accresciuti flussi migratori che hanno messo in discussione la tenuta dei criteri di
inclusione e di partecipazione politica (si veda, per una panoramica, Bellamy [2008]).
Interessanti sviluppi sono emersi anche dal dibattito sulla giustizia internazionale
all’interno del quale due linee di ricerca sono particolarmente vivaci. La prima riguarda
le prospettive di una giustificazione di un diritto umano alla democrazia (una discussione
critica è offerta in Cohen [2006]); la seconda si concentra sulle implicazioni del
cosmopolitismo per una teoria della democrazia globale e la democratizzazione delle
istituzioni internazionali. Tra i diversi modelli di democrazia transnazionale ha assunto
particolare rilievo l’idea di una democrazia dei popoli, o demoicrazia, in special modo per
quanto riguarda le prospettive di democratizzazione dell’Unione Europea al di là di un
più tradizionale modello federalista (si vedano Bohman [2007] e Nicolaïdis [2004]).
Si tratta, comunque, di questioni che possono essere affrontate su base solida solo una
volta che si sia raggiunta una chiara comprensione della ragion d’essere del governo
democratico e delle sue forme istituzionali proprie. È all’elaborazione di una mappa
introduttiva e ragionata per raggiungere una simile comprensione che questo articolo è
stato dedicato.
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