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Letture (e scritture) allegoriche nella Grecia
pre-alessandrina
Patrizia Mureddu
(Università di Cagliari)
Abstract
Long before the appearance of the term ‘allegory’ (attested for the first time within Stoicism), there came
into use in ancient Greece, from the sixth century. a. C., an allegorical interpretation of the mythic
narratives preserved in the Homeric and Hesiodic poems; this practice took hold in the classical age,
especially at the hands of the Sophists. In more remote dates, perhaps as early as the Iliad, we can see the
interest of poets and philosophers towards such a device, so well-suited for didactic or satirical purposes.
Key words – Allegory; Archaic Epic; Praesocratics; Plato; Aristophanes
Molto prima della comparsa del termine ‘allegoria’ (attestato per la prima volta in ambito stoico) entrò in
uso nella Grecia arcaica, a partire dal VI sec. a. C., un’interpretazione allegorica delle narrazioni mitiche
conservate nei poemi omerici ed esiodei, che prese piede in età classica, soprattutto ad opera dei Sofisti.
In date ancora più remote, forse fin dall’Iliade, possiamo cogliere l’interesse di poeti e filosofi per un
meccanismo espositivo che ben si prestava a fini didascalici o satirici.
Parole chiave – Allegoria; Epica arcaica; Presocratici; Platone; Aristofane.
1. Letture allegoriche
Come nessuna voce enciclopedica omette di ricordare1, il composto greco
ἀλληγορία è formato dall’aggettivo ἄλλος (dal neutro ἄλλον/ἄλλα oppure dal dativo
avverbiale ἄλλῃ) unito al tema del verbo ἀγορεύω, con il valore etimologico
approssimativo di ‘dire un’altra cosa’, ‘dire cose diverse’ o ‘parlare diversamente’.
Negli stessi testi, si suole aggiungere che tale termine entrò nel linguaggio retoricofilosofico solo in età postclassica2, e che fin oltre Aristotele ancora si ricorreva, per
1
Cfr. ad es. Gian Paolo CAPRETTINI, “Allegoria”, in Enciclopedia Einaudi I, Torino, Einaudi, 1977, pp.
362-392.
2
Cfr. Isaak HEINEMANN, “Die wissenshaftliche Allegoristik der Griechen”, «Mnemosyne», 4.2 (1949)
pp. 5-18; Ilaria RAMELLI e Roberto RADICE (eds.), Allegoristi dell’età classica, Milano, Bompiani, 2007.
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esprimere un concetto simile, a parole come ὑπόνοια (“pensiero nascosto”)3 o αἴνιγμα
(“allusione”, “enigma”)4.
In questa circostanza vorrei invece esplorare il tratto più in ombra della vicenda
greca dell’allegoria, quello che pertiene alla letteratura arcaica e classica; e mi servirò,
come spunto iniziale, di un significativo passo dal Fedro di Platone, trascurato dalla
maggior parte degli studiosi contemporanei5. Il dialogo è immaginato dall’autore come
frutto di un casuale incontro ‘fuori le mura’ tra Socrate e il più entusiasta dei suoi
discepoli, in ein glücklicher Sommertag6, una gioiosa giornata d’estate. I due s’inoltrano
lungo l’Ilisso, il torrente che scorre alle pendici dell’Acropoli, cercando un luogo adatto
per la lettura dell’ultima fatica di Lisia, un Discorso sull’amore che ha stregato il
giovane Fedro. Il brano è bellissimo, e colgo l’occasione per rileggerlo per intero
(Phaedr. 229a - 230c):
Socrate: Se andiamo per di qua, seguendo l’Ilisso, potremo sederci in un posto
tranquillo, dove vorrai tu.
Fedro: Per fortuna ho lasciato a casa i sandali, cosa che del resto tu fai sempre.
Così, camminare tenendo i piedi nell’acqua bassa ci sarà più comodo – e per nulla
spiacevole, a quest’ora e in questo periodo dell’anno!
Socrate: Va’ avanti tu, e guarda dove ci si può sedere.
Le prime attestazioni sono di ambiente stoico (Cleante, Zenone); Demetrio, nel suo trattato Sullo stile, 99102, svilupperà in riferimento all’allegoria alcuni spunti che Aristotele (Rhet. 1405b 1; Poet. 1458a 2930) citava come esempi di metafora.
3
Jean PEPIN, Mythe et allégorie. Les origines grecques et les contestations judeo-chrétiennes, Paris,
Aubier, 1958, pp. 85-94, dedica un documentato paragrafo del suo ampio saggio alla nozione di ὑπόνοια
ed al rapporto che venne a istituirsi tra ὑπόνοια e ἀλληγορία in ambiente filosofico e retorico.
4
André LAKS, “Aristote, l’allégorie, et les débuts de la philosophie” in Brigitte PEREZ-JEAN et Patricia
EICHEL-LOJKINE (eds.), L’Allégorie de l’Antiquité à la Renaissance, Paris, Champion, 2004, pp. 211-220.
Questi meccanismi espressivi si possono riassumere nella formula aristotelica «non dire ciò che si sta
dicendo»: cfr. Rhet. 1412a 22-23, καὶ τῶν ἀποφθεγμάτων δὲ τὰ ἀστεῖά ἐστιν ἐκ τοῦ μὴ ὅ φησι λέγειν [...]
καὶ τὰ εὖ ᾐνιγμένα διὰ τὸ αὐτὸ ἡδέα (μάθησις γάρ ἐστι καὶ μεταφορά): “Anche tra gli apoftegmi, i più
eleganti son quelli in cui non si intende dire ciò che si sta dicendo […]. Per lo stesso motivo piace ciò che
è ben detto per enigmi (la metafora è infatti un modo per apprendere) […]”.
5
Ma ben noto a Torquato Tasso, che ne fece l’esempio principale di alcune sue riflessioni sul linguaggio
allegorico: cfr. Torquato TASSO, Discorsi dell’arte e del poema eroico, ed. Luigi POMA, Bari, Laterza,
1964, pp. 211 e sgg.: «Aristotele non fa menzione dell’allegoria, non perch’egli non la conoscesse, ma
perchè questo nome allora non era in uso. La conobbe Platone similmente, ma non la chiamò con questo
nome quando egli disse nel Fedro, ragionando in persona di lui e di Socrate: “[…]”. Ma s’egli chiama
rustica sapienza quella di coloro ch’abitano in villa, dove Socrate non volle mai abitare, dice, a mio
avviso, il vero senza alcun dubbio: perchè l’investigazione di sì fatte cose conviene ad uomo poco
occupato: tuttavolta Platone che non volle interpretarle, lasciò a molti altri filosofi la cura, anzi la noia
dell’interpretazione […]».
6
È questo il titolo di un fortunato capitolo dedicato da Ulrich von WILAMOWITZ MÖLLENDORFF al nostro
dialogo.
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Fedro: Lo vedi, quel platano altissimo?
Socrate: E allora?
Fedro: Là c’è ombra, e un leggero venticello, ed erba per sederci – o, se vogliamo,
per sdraiarci.
Socrate: Procedi pure!
Fedro: Dimmi, Socrate, non è da qui che dicono che Borea abbia rapito Orìzia?
Socrate: Così si dice.
Fedro: Da questo punto esatto? L’acqua è gradevole, pura, cristallina… è il posto
adatto per giochi di ragazze.
Socrate: No, due o tre stadi più avanti, dove si passa il fiume per andare al
santuario di Agra. C’è anche un altare di Borea.
Fedro: Non ci avevo mai badato. Ma tu, Socrate, per Zeus, credi che questa storia
sia vera?
Socrate: Se ne dubitassi, come fanno certi sapienti, non sarei così fuori dal mondo.
Farei l’intellettuale, e direi che una ventata di bora l’ha buttata giù da quelle rocce
mentre giocava con l’amica Farmacia, e che alla sua morte sia nata la leggenda che
sia stata rapita da Borea – o anche giù dall’Areopago, perché c’è anche questa
versione, che sia stata rapita da lì. Quanto a me, caro Fedro, roba del genere la
trovo divertente, ma la lascio a uno più intelligente, più impegnato, e che non
riesco a invidiare – non per altro, ma perché poi gli toccherà raddrizzare la
questione degli Ippocentauri, e quella della Chimera… ed ecco che gli piomba
addosso la folla delle Gòrgoni, dei Pègasi, e la massa di altri esseri strani, e le
assurdità di certe nature mostruose. E se, tra un dubbio e l’altro, volesse dare una
logica a tutto, ricorrendo a qualche grossolana sapienza, gli ci vorrebbe molto
tempo! Io invece non ho tempo per queste cose, mio caro, e ti spiego perché: non
posso ancora dire di conoscere me stesso, secondo la norma delfica; e mentre
ancora ignoro ciò, mi sembra ridicolo mettermi a indagare il resto. Perciò, tanti
saluti! Credo a quello a cui tutti credono, e più che altro penso a studiare me stesso,
come ti ho detto, se non sono magari una bestia più intricata e turbolenta di Tifone,
o al contrario un animale più docile e più semplice, che ha avuto in sorte una natura
divina e meno furiosa. Ma, amico mio, tra una parola e l’altra, non è questo,
l’albero che dovevamo raggiungere?
Fedro: Proprio questo.
Socrate: Per Era, che bel ricovero! Il platano è alto e frondoso, perfette l’altezza e
l’ombra di quell’agnocasto, che nel pieno della fioritura dà profumo a tutta la zona;
e sotto il platano sgorga una deliziosa sorgente, di acqua freschissima, a quanto
sento col piede. Dalle statuine e dalle offerte votive, direi che il luogo è sacro a
qualche Ninfa, e ad Acheloo. E per giunta, com’è gradevole e dolce qui la brezza:
una vera musica estiva, che risponde al coro delle cicale! Ma la miglior trovata è
quest’erba, perfettamente disposta sul dolce declivio, a far da cuscino a chi si
voglia sdraiare. Sei stato proprio un’ottima guida, caro Fedro7.
Non si può mancare di sottolineare il modo in cui Platone, come fa spesso, si prende
garbatamente gioco del suo lettore: Socrate fa dell’ironia su chi ha tempo da dedicare ad
una lettura del mito in chiave allegorica, su chi va cercando spiegazioni razionali per
storie mitiche di seduzioni e rapimenti – proprio nel dialogo che avrà al suo centro una
7
La traduzione, così come quella di tutti gli altri passi greci qui riportati, è mia.
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delle più celebri e ispirate allegorie platoniche, l’immagine dell’auriga che guida i
cavalli alati dell’anima. E il suo gioco potrebbe essere ancor più perverso; fin
dall’antichità, alcuni interpreti8 hanno ipotizzato che la scena che abbiamo appena visto
contenesse una rete di allusioni all’Accademia. Oltre le mura si trovava infatti anche il
ginnasio scelto da Platone come sede della scuola, alla quale farebbero criptico
riferimento alcuni elementi simbolici: l’agnocasto, in quanto simbolo di purezza, il
platano, che riecheggerebbe il nome del maestro, l’armonioso canto delle cicale,
emblema della sua piacevole oratoria, e così via.
Tuttavia, ciò che in questa sede più ci interessa è l’allusione ai sapienti (σοφοί)
che, non credendo nelle narrazioni tradizionali, e decisi a scoprirne le vere radici,
finirebbero con il cacciarsi in un vero e proprio ginepraio: utilizzando una qualche
“grossolana sapienza” per trovare una spiegazione a tutto, sopraffatti dall’enorme
numero delle questioni da risolvere, saranno costretti a dedicare a questo impegno tutto
il loro tempo libero (229e εἴ τις ἀπιστῶν προσβιβᾷ κατὰ τὸ εἰκὸς ἕκαστον, ἅτε ἀγροίκῳ
τινὶ σοφίᾳ χρώμενος, πολλῆς αὐτῷ σχολῆς δεήσει). Il richiamo all’ambiente dei sofisti è
abbastanza trasparente, sia per la menzione della ἀπιστία, evocativa della diffusa taccia
di ateismo che li accompagnava, sia per l’evidente presa di distanza dalla ἄγροικος
σοφία, la “grossolana sapienza” bastante per intraprendere una ricerca del genere9.
Com’è noto, la nostra conoscenza del movimento sofistico è fortemente
lacunosa; anzi, dobbiamo la maggior parte delle informazioni ad autori di campo
avverso, poco interessati a rendere conto della validità di elaborazioni teoriche che,
soprattutto per quanto riguarda linguistica, poetica e retorica, precorsero di più di un
secolo i trattati aristotelici. In questa situazione, può venirci incontro il dramma attico, e
in particolare Euripide, che, nel comporre le sue tragedie, non esitò a contaminarne il
mythos con spregiudicate incursioni nel dibattito contemporaneo.
È il caso del primo episodio delle Baccanti, in cui i due anziani e venerabili
Cadmo e Tiresia, nel tentativo di distogliere Penteo dalla sua ostilità nei confronti del
nuovo culto dionisiaco, si trovano a proporre una lettura metateatrale della stessa storia
in cui agiscono come personaggi, facendo dunque ricorso a quella «sapienza» di bassa
8
Si veda, per esempio, quanto osserva Giovanni REALE, Platone. Fedro, Milano, Mondadori, 20052, pp.
XXV-XXVI.
9
Sulla posizione critica di Platone si veda PEPIN, Mythe et allégorie, pp. 112-121.
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lega criticata nel Fedro (Bacch. vv. 272 - 297):
(Tiresia): Questo nuovo dio, che tu schernisci,
non posso nemmeno dirti quanta importanza
avrà per la Grecia. Ragazzo mio, ci sono due cose
fondamentali per gli uomini: la dea Demetra
– è la Terra, chiamala pure col nome che vuoi:
nutre i mortali con il cibo solido – e poi lui,
che giunse al suo fianco, il figlio di Sèmele,
trovò la fluida bevanda della vite, e la portò
agli uomini, a placare gli affanni dei mortali,
quando si sazino del liquore dell’uva:
dona sonno e oblio dei mali d’ogni giorno
e non c’è altra medicina per i tormenti.
Fattosi dio, agli dei viene offerto in libagione
perché gli uomini ricevano ogni bene.
La lettura allegorica cui si fa cenno in questi versi è in genere attribuita a Prodico di
Ceo, sofista contemporaneo di Euripide e di Socrate, noto soprattutto per le sue ricerche
sul linguaggio, e in particolare per quelle sulla sinonimica. Da quanto riferisce Sesto
Empirico (Adv. Math. IX 18) restano pochi dubbi che lo si debba annoverare tra gli
anonimi σοφοί del Fedro, dialogo la cui ambientazione temporale (per quanto discussa)
è da collocarsi più o meno nello stesso decennio in cui Euripide mise in scena le
Baccanti:
Prodico di Ceo dice: “Il sole, la luna, i fiumi, le sorgenti e insomma tutto ciò che è
utile per la nostra vita, gli antichi li hanno onorati come dei, proprio in seguito alla
loro utilità, come gli Egiziani hanno fatto con il Nilo”; lui sostiene che perciò il
pane sia stato venerato come Demetra, il vino come Dioniso, l’acqua come
Posidone, il fuoco come Efesto, e così ciascuna delle cose più utili.
Si deve tuttavia andare ancora molto più indietro per rintracciare le origini di una simile
rilettura del mito. Essa nacque probabilmente tra gli stessi rapsodi che recitavano i
poemi omerici (e che spesso ne fornivano un commento)10, in qualche modo costretti,
10
Un uso attestato ancora dallo Ione, 530c-d. Che, al contrario, i rapsodi fossero solo capaci di ripetere
stolidamente il testo omerico, senza saperne illustrare le ὑπόνοιαι dichiara invece il Socrate senofonteo
(Symp. III 6). Sull’attività esegetica dei rapsodi, e la sua influenza nella fase più antica della trasmissione
dei testi epici v. Albio Cesare CASSIO, “Early Editions of the Greek Epics and Homeric Textual Criticism
in the Sixth and Fifth Centuries BC”, in Franco MONTANARI, Paola ASCHERI (eds.), Omero tremila anni
dopo, Roma, Ed. di storia e letteratura, 2002, pp. 118-123.
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non appena cominciò a porsi il problema della convenienza o della storicità dei fatti
narrati, a sviluppare una qualche ‘strategia di difesa’. Il caso di dissenso più conosciuto
è quello di Senofane, che diede voce ufficiale al disagio di chi avvertiva la divaricazione
esistente tra i valori etici che regolavano la vita comune e il comportamento che
secondo gli antichi poeti caratterizzava quella degli dei tradizionali (Xenophan. Silli, 21
B 11 D.-K.):
Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dei
quanto è motivo di infamia e biasimo tra gli uomini:
rubare, essere adulteri, ingannarsi tra loro.
Fu forse dunque in risposta a questo genere di problemi che si sviluppò la tendenza
(documentabile fin dal VI secolo a. C.) a leggere i poemi in chiave allegorica11. I primi
autori ai quali le fonti attribuiscono questo genere di attività esegetica furono Ferecide
di Siro12 e Teagene di Reggio, sul quale uno scolio al libro XX dell’Iliade ci fornisce
informazioni abbastanza circostanziate (Schol. B Hom. Y 67= Theag. 8 A2 D.-K.):
La narrazione sugli dei contiene aspetti inadeguati e anche sconvenienti: si
raccontano infatti sulle divinità miti non certo edificanti. Riguardo a questo genere
di rilievi, alcuni cercano una soluzione sul piano dello stile, ritenendo che si tratti
di allegorie riguardanti gli elementi della natura, come se si trattasse di dei in lite
tra loro. Dicono infatti che il secco si oppone all’umido, il caldo al freddo, il
leggero al pesante (…). Nelle battaglie da lui proposte, Omero avrebbe chiamato il
fuoco Apollo o Helios, o Efesto, l’acqua Posidone o Scamandro, la luna Artemide,
l’aria Era, eccetera. E, allo stesso modo, a volte avrebbe dato nomi divini a
disposizioni d’animo, alla prudenza Atena, all’impulsività Ares, al desiderio
Afrodite, al ragionamento Hermes, e così via. Dunque, una difesa di questo genere,
11
Ne fu testimone ancora Platone, come risulta chiaramente da Resp.378b-e, un brano citatissimo negli
studi di estetica, oltre che di poetica e retorica: πολλοῦ δεῖ γιγαντομαχίας τε μυθολογητέον αὐτοῖς καὶ
ποικιλτέον, καὶ ἄλλας ἔχθρας πολλὰς καὶ παντοδαπὰς θεῶν τε καὶ ἡρώων πρὸς συγγενεῖς τε καὶ οἰκείους
αὐτῶν [...] καὶ θεομαχίας ὅσας Ὅμηρος πεποίηκεν οὐ παραδεκτέον εἰς τὴν πόλιν, οὔτ᾽ἐν ὑπονοίαις
πεποιημένας οὔτε ἄνευ ὑπονοιῶν. ὁ γὰρ νέος οὐκ οἷός τε κρίνειν ὅτι τε ὑπόνοια καὶ ὃ μή «E ancor meno
devono raccontare e descrivere gigantomachie, e tutte le varie inimicizie di dei ed eroi con i loro
congiunti e familiari [...], e le teomachie composte da Omero non bisogna introdurle nella polis, che si
tratti o no di composizioni allegoriche. Il giovane, infatti, non è in grado di riconoscere cosa sia allegoria
e cosa no».
12
Cfr. Jonathan TATE, “The Beginnings of Greek Allegory”, «Classical Review», 41 (1927), pp. 214-215.
In questo quadro potrebbero leggersi le testimonianze di Probo (In Verg. Buc. 6. 31) ed Hermias (Irrisio
gent. Philosoph. 12) = 7 A9 D.-K., nonché i frr. 7 B5-6 D.-K. Più prudente Hermann S. SCHIBLI,
Pherekydes of Syros, Oxford, Clarendon Press, 1990, p. 100 n. 54 «That Pherekydes was the first Homer
allegorist and ‘read some kind of new meaning into Homer’ […], perhaps in the lost portion of his book,
cannot be ruled out, just as some hold that he first ‘allegorized’ Kronos as Chronos».
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basata sullo stile, è molto antica: risale a Teagene di Reggio, che scrisse per primo
su Omero.
Quanto questa prassi andasse radicandosi, almeno tra gli appartenenti ai ceti
culturalmente più elevati, lo dimostra anche il procedimento espressivo adottato da
Empedocle, il quale, nell’esposizione della propria filosofia, operò una continua
contaminazione tra le divinità tradizionali e i suoi ‘elementi primi’, dimostrando di
avere alle spalle una consolidata abitudine alla lettura della religione tradizionale in
chiave allegorica13:
(fr. 31 B6 D.-K.):
Impara anzitutto le quattro radici di ogni cosa:
Zeus folgorante (ἀργής), Era nutrice (φερέσβιος) e Ade
e Nestis, che bagna di lacrime l’umana sorgente.
(fr. 31 B40 D.-K.):
Il sole dardeggiante (ὀξυβελής), la glaucopide luna
(fr. 31 B38 D.-K.):
Orsù, ti dirò, prima dell’origine del sole
donde proviene ogni cosa che vediamo,
la terra, il mare ondoso e l’aria umida
e il cielo Titano che si stringe attorno a tutto.
Nel fr. B6, Zeus simboleggia il fuoco, ed è di conseguenza dotato dell’epiteto (ἀργής)
tradizionalmente riferito al fulmine; Era, la sua sposa, che qui allegoricamente
rappresenta la terra, assume proprio da γαῖα l’epiteto φερέσβιος14. Al sole, nel fr. B40, è
attribuito un epiteto di Apollo e alla luna quello tipico di Atena, mentre nel fr. B38,
dove il cielo è connotato con l’appellativo Titano, il riferimento (particolarmente
elaborato e complesso) è alla Teogonia di Esiodo (vv. 176-78), dove Urano/il cielo, è
immaginato nell’atto di ‘distendersi’ su Gaia/la terra, fino a soffocarla, e può cogliersi
sottotraccia la paretimologia che collegava il nome dei Titani con la radice di τείνω,
13
Un discorso a parte meriterebbe il cosiddetto ‘papiro di Derveni’, un testo anonimo di ambito
filosofico-religioso, prodotto probabilmente verso la fine del V secolo e dedicato alla lettura allegorica di
una Teogonia Orfica. Sulla questione si veda André LAKS, “Between Religion and Philosophy: the
Function of Allegory in the Derveni Papyrus”, «Phronesis», 47 (1997), pp. 121-142.
14
O, quanto meno, è questa l’interpretazione più accreditata, fondata sulla testimonianza di Diog. Laert.
Vitae Philos. VIII 2, 76 e soprattutto su un puntuale confronto con la dizione epica: cfr. Carlitria
BORDIGONI, “Empedocle e la dizione omerica”, in Livio ROSSETTI, Carlo SANTANIELLO (eds.), Studi sul
pensiero e sulla lingua di Empedocle, Bari, Levante, 2004, pp. 199-289. Diversa la soluzione
dell’ainigma proposta da Carlo GALLAVOTTI, Empedocle. Poema fisico e lustrale, Milano, Mondadori,
1975, p. 173.
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τιταίνω, distendere, allungare15.
2. Scritture allegoriche
16
Le prime narrazioni consapevolmente allegoriche
risalgono ai primordi della
letteratura greca. Ne costituirebbe primo esempio un passo del discorso di Fenice
17
nell’ambasceria ad Achille (Il. IX vv. 502-512) , in cui viene adoperata a fini
persuasivi la personificazione delle Litai, le preghiere. La questione è discussa,
soprattutto perché nello stadio rispecchiato dall’Iliade dev’essere considerato normale il
ricorso alla ipostatizzazione di concetti astratti; ma non è mancato chi ha ravvisato nei
18
due poemi una presenza capillare di vere e proprie allegorie . Non esiste, invece,
nessun margine di dubbio sull’interpretazione del breve fabliau contenuto nelle Opere e
i giorni di Esiodo (Op. vv. 201-212):
Racconterò ora un ainos ai re, che mi possono capire:
“Disse un giorno lo sparviero all’usignoletta canora,
mentre la portava in alto, tra le nubi, afferrata negli artigli
– quella, costretta tra gli artigli ricurvi, piangeva
da far pietà – e lui, strafottente, le rivolse un discorso:
‘Cara mia, perché strilli? Sei in potere di uno più forte,
io, che ti porto qua o là, anche se sei un gran cantore,
e se voglio farò di te il mio pasto – o ti lascerò andare.
Sciocco, chi crede di poter opporsi ai potenti:
non avrà la vittoria, e al danno aggiungerà le beffe’.
Così disse lo sparviero veloce, che ampie le ali distende”.
Siamo agli albori della ‘favola di animali’, un espediente didascalico che verrà
15
Hes. Th. 207-210. Commenta Martin L. WEST, Hesiod. Theogony, Oxford, Clarendon Press, 1966, pp.
226: «As the story stands, it is Uranos who strains, and if Hesiod had written τιταίνοντος or –οντα, the
Titans would be named after a characteristic of their parent [...]».
16
Non è certo questa la sede per affrontare la questione della funzione simbolica del mito greco, oggetto
da secoli di innumerevoli studi pluridisciplinari.
17
V. ad es. Stephan SCHRÖDER, “Zur Λιταί-Allegorie Ilias Ι 502-512”, «Rheinisches Museum», 147
(2004), pp. 1-8.
18
Della decina di casi segnalati da Stuart J. SMALL, “On Allegory in Homer”, «Classical Journal», 44
(1949), pp. 423-430, nell’uno e nell’altro dei due grandi poemi omerici, mi sentirei di salvare la favola
delle due giare raccontata da Achille a Priamo (Il. XXIV vv. 527-534) e l’apologo di Penelope sui sogni
in Od. XIX vv. 562-569.
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19
utilizzato, in quegli stessi decenni, anche da Archiloco , e troverà, a partire da Esopo,
ampio spazio nella letteratura di tutti i tempi. Significativi sono, nel nostro caso, il
riferimento alla ‘oscurità’ del messaggio (destinato ai re «che sono in grado di capire»),
20
e il nome che vien dato alla favoletta, ainos , il cui tema è collegato tanto con il verbo
αἰνίσσω (alludo) quanto con il sostantivo αἴνιγμα, che, come abbiamo visto, precorre
nell’uso il termine ἀλληγορία.
E, a proposito di primati letterari, è abitualmente attribuita ad Alceo l’invenzione
di un’allegoria che avrà un indubitabile successo, quella della ‘nave dello stato’, che
21
sarà consacrata dalla ripresa oraziana .
Dobbiamo comunque attendere ancora un secolo per incontrare un testo
pienamente allegorico. In tempi in cui si andava plasmando lo strumento ideale per
concepire ed esprimere lo sviluppo del pensiero, la prosa scientifica e filosofica, a Elea
Parmenide ed Empedocle ad Agrigento fecero ancora una volta ricorso al verso per
segnare un preciso stacco tra il ruolo del filosofo-profeta e quello dei suoi seguaci o
uditori. Nel caso di Parmenide, la scelta della versificazione si accompagnava a un
linguaggio oscuro, oracolare22, che trova un indubitabile potenziamento nell’allegoria
(30 1B D.-K., vv. 1-23):
Le cavalle che mi portano fin dove arriva l’animo,
mi accompagnavano, entrando nella famosa via del dio,
19
Fr. 174 WEST: αἶνός τις ἀνθρώπων ὅδε, ὡς ἆρ᾽ἀλώπηξ καἰετὸς ξυνεωνίην ἔμιξαν, “C’è tra gli uomini
questa favola, come una volpe e un’aquila strinsero tra loro un patto”. Anche in Archiloco ritorna il
termine ainos, qui e nel fr. 185 WEST, un’altra favola di animali.
20
«A fable or other story with an implied message in it for the hearer» (Martin L. WEST, Hesiod Works &
Days, Oxford, Clarendon Press, 1978, p. 205). Il termine è adoperato in Od. 14, 508 per definire il
racconto allusivo con cui Odisseo, in vesti di mendico, cerca di ottenere dal porcaro Eumeo un mantello.
Eustazio, nel suo commento all’Odissea (1768,60), lo definisce come λόγος μυθικὸς ἐκφερόμενος ἀπὸ
ἀλόγων ζῴων ἢ φυτῶν πρὸς ἀνθρώπων παραίνεσιν, “un racconto fantastico riguardante animali non
dotati di ragione o piante, come monito per gli uomini”.
21
Si tratta dei frr. 6, 73, 208a V. L’informazione, contenuta nelle Allegorie omeriche di Eraclito (I-II sec.
d. C.), è stata nell’ultimo secolo confortata dalla pubblicazione di alcuni papiri di Ossirinco, che hanno
permesso di ricostruire il complesso quadro allegorico: su ciò si veda Giuseppe LENTINI, “La nave e gli
ἐταῖροι: in margine ad Alceo frr 6, 73, 208a V.”, «Materiali e Discussioni», 46 (2001), pp. 159-170;
Maria Grazia BONANNO, “Sull’allegoria della nave (Alcae. 208 V. ; Hor. Carm. I 14)”, «Rivista di
Cultura Classica e Medievale», 18 (1976), pp.179-197.
22
Una dettagliata analisi del linguaggio poetico parmenideo e dei suoi rapporti con la poesia esametrica
tradizionale in Robert BÖHME, Die verkannte Muse. Dichtersprache und geistige Tradition des
Parmenides, Bern, Francke Verlag, 1986.
Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569)
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che conduce l’uomo esperto verso tutto ciò che è.
Là andavo; le cavalle ricche d’ingegno mi portavano,
tirando il carro, e guida alla via m’erano fanciulle.
L’asse girando mandava suono di zampogna
riscaldandosi (s’affrettava al volgere delle ruote
d’ambo le parti), mentre le fanciulle Eliadi
s’affaticavano a incalzarle, lasciando la casa della notte
per la luce, levando con le mani il velo dal capo.
Là sono le porte delle strade della Notte e del Giorno
con l’architrave e la soglia di pietra:
fino al cielo son chiuse da grandi battenti;
ne detiene le chiavi scambievoli la Giustizia dalle molte pene.
Parlandole con dolci discorsi le fanciulle
facilmente la persuasero a togliere la spranga dentata
alle porte; e a un grande baratro si aprirono,
spalancando i battenti, volgendo i cardini di bronzo
sonori, fissati con chiodi e bandelle. Là, varcandole
le fanciulle guidarono nella strada le cavalle ed il carro.
La dea mi accolse benigna, e prese nella destra
la mia mano destra e parlandomi disse....
Il Proemio del poema, nella sua forte elaborazione formale, raggiunge una totale,
enigmatica oscurità, divenendo fin dall’antichità oggetto di un intenso dibattito23. Anche
se c’è chi ha creduto di potere sciogliere il nodo gordiano dell’interpretazione di questi
versi leggendoli alla luce della struttura urbanistica della città di Elea24, non c’è dubbio
che, dato per acquisito il senso generale (l’iniziazione alla ricerca filosofica), resta arduo
collocare in questo quadro correttamente ogni singolo particolare (le cavalle ricche
d’ingegno, le fanciulle Eliadi, l’asse delle ruote che suona come una zampogna, le porte
della notte e del giorno...). Comunque, la trasformazione simbolica della figura
dell’auriga, icona della narrazione tradizionale epica e lirica, troverà pieno compimento
nel Fedro di Platone25, entrando per questa via nell’immaginario collettivo di tutti i
tempi.
Ma a partire dal quinto secolo a.C. troverà spazio ad Atene un portentoso
laboratorio di costruzioni e rappresentazioni fantastiche, la Commedia attica, il cui
23
Una recente lettura, con ampia disamina delle principali interpretazioni dell’ultimo secolo, in Franco
FERRARI, Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei Presocratici, Roma, Aracne, 2010.
24
Antonio CAPIZZI, La porta di Parmenide, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975, pp. 16-70.
25
Cfr. Svetla SLAVEVA-GRIFFIN, “Of Gods, Philosophers, and Charioteers: Content and Form in
Parmenides’ Proem and Plato’s Phaedrus”, «Transactions of American Philological Association», 133
(2003), pp. 227-253.
Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569)
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principale
rappresentante,
Aristofane,
svilupperà
in
modo
magistrale
l’arte
dell’allegoria, a fini satirici e, in ultima istanza, didascalici. Personificazioni e grandi
quadri allegorici ricorrono in quasi tutte le sue commedie26: Pace, Festa, Estate nella
Pace; Regalità negli Uccelli, Riconciliazione nella Lisistrata; Ricchezza e Povertà nel
Pluto. Nell’immaginario comico, realtà simbolica e realtà storica convivono e si
intrecciano, a costo di stravaganti aporie logiche: come avviene nei Cavalieri, dove
Demos, il vecchio rimbambito che rappresenta il popolo ateniese, è contemporaneamente incarnato dal pubblico seduto sulle gradinate del teatro di Dioniso, dai
personaggi che agiscono sulla scena e dal Coro che danza nell’orchestra, in una
straniante coincidenza di “io”, “lui”, “noi”, “voi”, “loro”.
Per chiudere in bellezza questa mia incompleta rassegna, ho scovato, tra le
pieghe delle sue parabasi, un delizioso quadretto (Cav. vv. 1300-1312), che può ben
rappresentare la sua raffinata arte teatrale; le triremi vi sono raffigurate nelle vesti di un
gruppo di donne da marito, in rivolta all’idea di andare a nozze con uno sgradito
pretendente, Iperbolo – il nuovo demagogo che si affaccia nella politica ateniese.
L’allegoria è perciò il meccanismo narrativo di cui il versatile commediografo si serve
per stemperare in un sorriso la tradizionale virulenza dell’invettiva giambica:
Raccontano che le triremi si riunirono per chiacchierare;
e parlò una di loro, la più anziana: «Ragazze, le avete sapute
le ultime in città? Si dice che un tale, un pessimo cittadino,
quell’acido di Iperbolo, pretenderebbe cento di noi contro Cartagine».
Tutte dichiararono che era tremendo, intollerabile,
ed una, che mai si era accostata ad uomo, disse:
«Dio ne guardi! Me, non mi avrà, a costo di invecchiare
qui dove sono, marcita dai tarli!». «E neppure me, Naufante
figlia di Nausone, davvero no, santi dei!, com’è vero
che son fatta di pece e legname. E se gli Ateniesi
gli daranno retta, credo che noi si debba far vela
per cercare asilo nel Teseion, o nel tempio delle sacre dee!»
26
Uno studio dettagliato in Hans-Joachim NEWIGER, Metapher und Allegorie. Studien zu Aristophanes,
München, Beck, 1957 («Zetemata» Heft 16), opera tuttora fondamentale, ristampata nel 2000 nella serie
«Drama».
Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569)
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pmureddu@unica.it
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