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Paolo Aldo Rossi La conoscenza mistica, il cammino sapienziale basato sull’intuizione estatica, che tende alla comunicazione diretta con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale, è sempre stato negato da taluni interpreti della civiltà greca che l'hanno studiata come se questa fosse una storia sperimentabile e misurabile, ossia una disciplina empirica. La "visione eleusina", che rappresentava l'esperienza suprema nella vita di un greco e che avveniva durante la celebrazione dei Misteri, viene ridotta ad un evento socio-politico in cui si vede e si sente quello che tutti vedono e sentono: gli oggetti sacri, le immagini degli dei, i rituali religiosi, le rappresentazioni simboliche … Il verbo ojravw (vedere), presente in tutti i documenti eleusini, sta, infatti, per "comprendere, conoscere, capire", ossia un cammino mistico. L'iniziazione avveniva intervenendo ai Piccoli Misteri (celebrati in primavera ad Agra) e, sei mesi dopo (in settembre), partecipando ai Grandi Misteri di Eleusi tramite tutta una serie di istruzioni rituali, astensioni, purificazioni, digiuni … tanto che l'accesso al telesterion (la sala di iniziazione del tempio) era proibito ai non iniziati, a costo di pene severissime, e l'ejpopteiva (epopteia), il più alto grado della visione eleusina, era possibile, ma un anno dopo, ai soli superstiti di questo processo di selezione. La rinascita dalla morte era il segreto di Eleusi. Demetra cerca di negare la morte, poi tenta di conferirle l'eternità e infine riesce a guarire l'universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. Questo rito si compiva con l'assunzione del "ciceone" in un contesto contemplativo, visionario e mistico, ossia "il pascolo che si addice alla parte migliore dell'anima". La donna preparò il ciceone ... e Demetra accettandolo inaugurò il Mistero Inno Omerico a Demetra, vv. 210-212, Fondazione Valla, 1975, a cura di Filippo Càssola Felice chi entra sotto la terra dopo aver visto quelle cose: conosce il fine della vita, conosce il principio dato da Zeus. ojvlbio" oJvsti" ijdw;n kein j eij'" j uJpo; cqovn: oij'de me;n bivou teleutavn, oij'devvvn de; diovsdoton ajrcan (Pindaro, fr.137) Che l'evento misterico di Eleusi - uno dei vertici della vita greca, celebrato annualmente alla fine dell'estate - fosse una festa della conoscenza risulta chiaro dalle testimonianze antiche, ma i moderni, all'infuori di qualche timido accenno in contrario, non vogliono ammetterlo. La ragione è la solita: se di conoscenza si vuol parlare, dovrebbe trattarsi di conoscenza mistica - ma la conoscenza mistica non esiste, e se esistesse, sarebbe qualcosa di torbido … Giorgio Colli, La Sapienza Greca, vol. I, p. 28, Adelphi, Milano, 1977. L’esperienza ejmpeiriva (empeiria, esperienza) ed evjmpeiro" (empeiros, esperto) derivano da ejn pei'ra (entro l’esperienza) così come da ejn pevrajv" (entro i limiti). Si noti che lo stesso termine “apeiron” sta nello stesso tempo per designare sia l’infinito illimitato che il non sperimentabile, dove l’uno è conseguenza logica dell’altro., il saldo legame che tiene l’uomo entro i limiti della percezione sensoriale, accerta l’accadere istituendo il primo e fondamentale contatto fra l’individuo e la realtà ma, non avendo in sé la propria giustificazione, esige di essere trascesa chiamando in gioco la ragione. Fin dai primordi della speculazione ellenica, questa consapevolezza fondamentale (ossia che il referto dei sensi non è l’originario), dalla quale nasce la stessa razionalità filosofica, è generalmente da tutti condivisa. I sensi costituiscono il luogo del contatto immediato, mentre la ragione è il momento elettivo della mediazione, vale a dire la spiegazione intesa come sintesi fra il logico e l’empirico. Il fermarsi, infatti, al semplice referto sensoriale non porta da nessuna parte; è una strada senza via d’uscita Agli “apparenti” estremi, ne sono convinti sia Eraclito che Parmenide; questi supplica: “Ma tu, da questa via di ricerca allontana la mente, né l’abitudine nata dalle molteplice esperienze ti costringa lungo questa via a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori e la lingua, ma giudica col raziocinio...” [Parmenide, fra. 8], mentre l’altro dichiara: “Il ragionare con saggezza è la massima delle virtù, sapienza sta nella verità del pensare e del fare, comprendendo le cose a seconda della loro natura” [Eraclito, DK I, 176, cfr. Stobeo, Florilegio, 3, I, 178.]. A tale riguardo Platone sintetizza in modo magistrale la situazione: “Il grande Parmenide sostenne questo con estrema energia, dal principio alla fine, dichiarandolo in prosa e in versi: ‘No, non mai questo in nessun modo dice, che le cose che sono non siano, ma solo che tu da questa via di ricerca allontani il pensiero” (Platone, Sofista, 237 a].. Riconoscere, dunque, che l'immediato non è l'originario non comporta mai come soluzione l'arresto all'immediato, quanto piuttosto l'identificazione dell'originario. Questa strada non è stata percorsa soltanto dalla razionalità filosofica Il trascendimento dell'immediato porta ad un originario che è l'essenza, la quale si dà come originario in quanto risponde all'esigenza di comprendere il molteplice immediato (il diverso) attraverso l'identico (l'unità da cui si genera il molteplice). In seguito, quando ci si chiede perché l'immediato non è l'originario o perché l'identico si presenta come diverso, allora affiorano i due sensi del concetto di "causa" [ragione]: quello per cui è origine e principio del molteplice e quello per cui è la necessità la forza che trae l'uno dal molteplice. (che ha teorizzato, quale immediato, il dato d’esperienza) ma, prima ancora di questa e, quindi, parallelamente a questa, dalla mistica: il cammino (costruito, al contrario, sull’intuizione estatica) che tende alla comunicazione diretta (senza mediazioni) con il divino come alternativa escludente la via della ricerca razionale. L'epifania del divino è una tipica informazione di presenza, è un rivelarsi di una realtà altra la quale si manifesta sostanzialmente nel superamento dell’esperienza sensoriale. Il termine estasi evjcstasi" (estasi) deriva da ejxivsthmi (ex istemi), letteralmente “spostarsi da ciò che sta saldo”. indica l’azione del dislocare o meglio indica l’uscir fuori da ciò che sta saldo: l’episteme ejpivsthvmh (episteme, scienza intesa come conoscenza realizzata nella sintesi fra il logico e l’empirico) indica lo star saldi, il restare stabilmente sopra (ejpi) qualcosa che faccia da fondamento. Per comprendere questa fondamentale articolazione del pensiero greco si confronti Platone, Menone, 97d - 98a, dove Socrate paragona l'insicurezza dell'opinione e l'instabilità del suo "sapere" alle statue di Dedalo (il mitico artigiano ateniese, reputato padre del nuovo stile, che aveva sostituito alla staticità delle statue stilobate la dinamica plasticità delle sculture che davano il senso del movimento): “Queste [le statue di Dedalo] quando non siano legate al piedistallo se la svignano e scappano; se sono legate invece restano ... Possedere una di queste opere sciolte non è di gran valore, esse sono come uno schiavo fuggitivo ... anche le rette opinioni, per tutto il tempo che rimangono in noi sono una gran bella cosa e producono ogni bene, ma purtroppo esse non restano a lungo, e se ne fuggono dalla mente dell’uomo, sicché non sono di grande pregio fino a che non le si leghi con dei vincoli causali ... dopo che sono state legate diventano in primo luogo conoscenza e, inoltre, diventano stabili. Per questa ragione la scienza [episteme] è di maggior pregio della retta opinione e ancora la conoscenza scientifica differisce dalla retta opinione proprio in virtù di quei legami”. Tali legami che Platone chiama aijtiva" logismw/ (vincoli causali o meglio connessioni dimostrative) sono appunto ciò che il logos (la ragione) mette in atto per giustificare ciò che l’esperienza accerta, ma non spiega. (la conoscenza costituita sul fondamento). La percezione sensoriale (l’aistesis) aijvsqhsi" (aistesis, percezione sensoriale) da cui il termine “estetica”, usato per denotare la conoscenza sensibile. sta costituzionalmente alla base del processo conoscitivo tipico dell'episteme, il percorso della scienza, il cammino che tende a costruire una conoscenza capace di garantire la propria validità, ossia un sapere in grado di "star fermo" (epistemi) nella verità. Il viaggio che conduce dall’estetico all’estatico trova, naturalmente, il proprio veicolo elettivo nella divina armonia che pervade l’universo e di cui è ricoperta la Verità ajlhvqeia (aletheia, verità) deriva, come è noto, da a - lanqavnw (a - lanthano, non - nascondo, rendo palese, quindi svelo). La complessa articolazione semantica della verità come disvelamento e rivelazione si istalla nella presa di coscienza ché il mettere a nudo tutta la verità offusca la mente, così come quando gli occhi sono colpiti da una luce abbacinante, per cui è necessario schermare la verità, ri-velandola, ossia nascondendola di nuovo onde proteggerla., quel velo metafisico che le rende possibile, ad opportune condizioni, di manifestarsi agli uomini (la mistica con i suoi strumenti). Lo strumento conoscitivo che può mettere l’uomo a contatto con le modalità del manifestarsi del dio non appartiene alla sfera dell’empirico, ma sta oltre, deborda dai limiti dei sensi; esso appartiene, quindi, alla sfera dell’estatico e non a quella dell’estetico. Lo stato di estasi mistica, che solo alcuni uomini riescono a vivere quando la loro anima si stacca dall’involucro mortale del corpo e sale verso le più alte sommità, è, anche dopo la morte (dopo la naturale separazione dal corpo), privilegio di pochi spiriti eletti: “Nel cielo vi sono molte visioni di felicità e sentieri che lo attraversano, sui quali si aggira la stirpe dei beati ... Là appunto si presenta di fronte all’anima la tenzone e l’angoscia suprema. Le anime che si dicono immortali, difatti, ogni volta che sono giunte al vertice, trapassando al di fuori, si arrestano sulla superficie esterna del cielo e, condotte dal moto circolare, contemplano le cose dal di fuori ... Le altre anime ripiene di questo tormento se ne vanno senza essere iniziate alla visione di ciò che è e, allontanandosi, si cibano del cibo dell’opinione. Ma ciò onde deriva il grande tormento per riuscire a vedere la pianura della verità e scoprire dov’è, riguarda questo: il pascolo che si addice alla parte migliore dell’anima si trae appunto da quelle alte praterie” Platone, Fedro, 247 a-c e 248 b-c.. Fin dall’inizio del suo poema Sulla Natura Parmenide di Elea, “che distolse la mente dall’inganno delle rappresentazioni” Timone, fr. 44 DK., è messo in guardia dalla dea di allontanare i propri passi dalla via dell’apparenza e, quindi, di non cibarsi del cibo dell’opinione. Il viaggio iniziatico che conduce l’uomo alla presenza dell’ineffabile mistero divino ha come proprie condizioni essenziali l’esser puri e liberi dai vincoli corporei : “... senza essere sigillati nella tomba che appunto portiamo in giro e chiamiamo corpo, avvinti strettamente a lui come l’ostrica al suo guscio” Platone, Fedro, 250 c., e l’esser genuinamente folli: “Onde appunto la follia, rivolgendosi alle purificazioni ed alle iniziazioni, liberò dal pericolo per il tempo presente e per quello futuro chi di essa partecipava, e procurò a chi era folle in modo autentico, ed era posseduto dal dio, la liberazione dai mali presenti” Platone, Fedro, 244-e e 245 b. Si noti che Platone mette in chiaro il legame fra l’esser folli in modo autentico e l’esser posseduti dal dio. . L’estasi - nel senso letterale del termine - è, come s’è detto, “l’uscir fuori da sé”, uno stato di autentica alienazione dove il posseduto dal dio ha la visione di quello che gli altri non vedono; l’estasi è, in ultima analisi, il modo per liberare il sovrappiù di conoscenza dall’azione inibitrice dei sensi. “Diversamente dal dio - dice Eraclito - l’uomo non possiede la conoscenza per sua caratteristica naturale (h'jqo") ” Eraclito, DK I 168 et Origene, Contro Celso, 6, 12.. Ma l’uomo ha una caratteristica naturale, che pur non essendo divina è demonica, ossia una qualità che lo potrebbe porre in posizione intermedia e intermediaria fra la terra e il cielo: “L’ethos dell’uomo è un demone (h'jqo" ajnqrwvpwi daivmwn) ” Eraclito, 22 B 119 BK et Stobeo, Florilegio, 4,40,23.. Ed è, appunto, a questa particolare qualità “demonica” che bisogna porre attenzione per comprendere quel particolare tipo d’uomo che anela al contatto diretto con la Sapienza. Allorché Diotima di Mantinea, l’amica di terre lontane che iniziò Socrate alla scienza d’amore, si trova a definire Eros come demone, dice: “Tale è la caratteristica di tutti gli esseri demonici: intermedi essi sono fra il Dio e gli esseri mortali ... Posti in mezzo fra l’uno e l’altro mondo, colmano interamente l’immenso vuoto che tali mondi separa e l’universo per tal mondo risulta un’unità complessa e coerente. Per opera di questi esseri superiori si svolge l’intera mantica, tutte le funzioni e le pratiche sacerdotali, i sacrifici, le iniziazioni, gli incantamenti, l’intera arte profetica e la magia. La divinità non ha diretto rapporto con il genere umano e soltanto attraverso i demoni ha relazioni con noi; ogni suo colloquio con gli uomini, così nella veglia come nel sonno, avviene per loro tramite. L’uomo che ha conoscenza di queste cose è un uomo in rapporto con potenze superiori, un uomo demonico” Platone, Convito, 23.. Come Eros, il figlio di Povertà e di Espediente, quest’uomo intermedio fra sapienza e ignoranza è Filosofo: “Amante per tutta la vita di Sapienza, ossia filosofo egli è un potente incantatore, esperto di filtri e dell’uso della parola ... non è né mortale né immortale” ibidem.. “Anima riarsa di sete - dice Eraclito - è la più sapiente ed è quella che eccelle” Eraclito DK 1 177 et Stobeo, Florilegio, 3, 5, 8.. A differenza degli dei che possiedono la sapienza per proprio ethos, il filosofo ne va costantemente alla ricerca; ma per lui la sapienza non è un qualcosa di mai raggiunto, che altrimenti non potrebbe essere oggetto del suo desiderio; al contrario, è come se alla sua psiche si affacciassero, ma solo per un inafferrabile istante, i frammenti scomposti del ricordo remoto di un tempo in cui Sophia aveva posto la propria dimora nelle stesse regioni dell’uomo. L'evento misterico di Eleusi era una delle circostanze della conoscenza mistica: ciò che avviene una sola volta nella vita e solo per alcuni. Come afferma il giovane Aristotele: "E l'intuizione dell'intuibile e del non mescolato e del santo, la quale lampeggia attraverso l'anima come un fulmine, permise in un certo tempo di toccare e di contemplare, per una volta sola. Perciò sia Platone sia Aristotele chiamano questa parte della filosofia l'iniziazione suprema, in quanto coloro ... che hanno toccato direttamente la verità pura riguardo a quell'oggetto ritengono di possedere il termine ultimo della filosofia, come in una iniziazione" Aristotele, Eudemo fr. 10. Forse, infatti, vi fu un tempo in cui esistettero i sapienti, uomini che, godendo di un diretto rapporto con il divino, avevano accesso alla casa di Aletheia. Un uomo, che il giovane Socrate diceva di aver conosciuto, aveva raccontato di un suo viaggio fino all’abitazione della Verità e ne aveva riportato le parole: “La dea mi accolse benevolmente e con la mano mi prese la mano destra e mi rivolse le seguenti parole: ‘O giovane, che insieme a immortali guide giungi alla nostra sacra casa con le cavalle che ti trasportano, salute a te! Non è un potere maligno quello che qui ti ha condotto per questa via (perché questa è, in realtà, fuori dagli itinerari degli uomini), ma un divino comando e la giustizia” Parmenide, fr. 1 et Sesto Empirico, Adv. Math. VII, 11 sgg.. Nell’opera platonica spesso si sente quell’infinito senso di nostalgia delle origini, un dolore per la lontananza che allude al tempo in cui la Sapienza, figlia della Follia, abitava ancora fra gli uomini cfr. Platone, Fedro 244 a-c: “Ora invece i più grandi fra i beni giungono a noi attraverso la follia, che è concessa per un dono divino. Infatti proprio la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, in quanto possedute dalla follia, hanno procurato alla Grecia molte e belle cose, sia agli individui sia alla comunità ... Ecco davvero quanto è degno di essere addotto a testimonianza, che cioè tra gli antichi la mania [follia] non fu ritenuta cosa vergognosa né oggetto di biasimo neppure da coloro che stabilivano i nomi: altrimenti infatti non avrebbero connesso questo stesso nome alla più bella delle arti, con cui si discerne il futuro, e non l'avrebbero chiamata maniké [arte folle]. Ma poiché ritenevano che la follia sia una cosa bella, quando nasce per una sorte divina, stabilirono questo nome. Gli uomini di oggi invece, con ignoranza del bello, hanno inserito una t e l'hanno chiamata manthiké [arte divinatoria]”. Si noti che Platone si affretta a mettere in chiaro che la follia di cui parla è quella “che è concessa per un dono divino” e che non si tratta della dissennatezza obbrobriosa del pazzo.. E’ sempre Platone a ricordare come l’uscir fuori di sé sia una delle condizioni basilari per il contatto con la divinità: “Vi è un segno sufficiente che il dio abbia dato la divinazione alla follia dell’uomo; infatti nessuno che sia padrone dei propri pensieri raggiunge una divinazione ispirata e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedita dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l’abbia deviata essendo posseduto da un dio” Platone, Timeo, 71 e.. Quindi malattia Che l’epilessia fosse considerata, dalla medicina greca, una malattia sacra è noto. Eraclito: “la visione allucinatoria è una malattia sacra” (Diogene Laertio, 9,7). Ma lo stesso accade anche nel delirio della febbre o negli stati di sospensione e alterazione di coscienza indotti da eventi morbosi. Si veda al riguardo il trattato ippocratico Sulla Dieta (VI, 640 L) dove si dice che, durante il sonno, l’anima possiede una chiaroveggenza medica, dato che osserva il corpo “senza essere distratta”., sonno o, meglio, stato onirico Nella letteratura arcaica il sogno è solitamente considerato come una visita che un’immagine, indipendente dal sognatore, fa ad un dormiente per scopi diversi, ma quasi sempre per predire un evento futuro (a volte la predizione è chiara, altre è enigmatica, altre ancora abbisogna di un vero e proprio interprete). I sogni possono dipendere da una naturale chiaroveggenza del sognatore, oppure essere inviati dagli dei. La pratica dell’incubazione sembra essere stata coltivata sia a Dodona che a Delo. Per la spiegazione razionale del come si produca l’attività onirica valga per tutti Senofonte: “Nel sonno l’anima mostra meglio la sua natura divina, nel sonno gode di una certa intuizione circa l’avvenire, perché nel sonno essa gode della massima libertà” [Ciropedia, 8,7,21). e i fenomeni di delirio ispirato rappresentano i tre momenti significativi del contatto diretto con il divino. Questi ultimi li conoscevano così bene da suddividerli in numerose categorie: ejvvnqeo", entheos (entusiasmo o l’ispirazione che proviene dall’aver il dio in sé; una transe di possessione), evjcstasi", extasi (uscire fuori dal corpo o EFC Esperienza Fuori dal Corpo), katevcw ejk tou' qeou, katecho (essere invasati da un Dio) e il più famoso Ma>niva, mania : "Del delirio divino noi abbiamo distinto quattro tipi attribuendoli a quattro dèi, l'ispirazione profetica ad Apollo, quella mistica a Dioniso, quella poetica alle Muse e un quarto tipo che abbiamo definito il piu alto, delirio d'amore ad Afrodite ed Eros" Platone, Timeo, 265 b.. L’idea che la malattia sia, assieme al sogno ed al delirio ispirato, un indicatore di stato altro di coscienza e quindi elemento basilare del viaggio estatico, è diffusa in tutte le culture sciamaniche. Solitamente lo sciamano riceve la chiamata (essenziale anche nei più frequenti casi di trasmissione ereditaria) nel corso di una malattia che lo porta ad attivare la propria condizione potenziale di “individuo particolare”; la “malattia-vocazione” ha, infatti, un vero e proprio valore di iniziazione (un periodo di rigorosa disciplina nella quale prevalgono il controllo del dolore, un rigido isolamento ed un severo digiuno). Lo schema cerimoniale: passione-morte-resurrezione corrisponde sostanzialmente alle sofferenze della malattia fino al delirio dello stato agonico, quindi, alla morte rituale (dall’incoscienza al distacco dell’anima dal corpo ed al viaggio nel mondo dei morti) per terminare con il ritorno dell’anima nel corpo. E proprio parlando dei Grandi Misteri di Eleusi: “E giunta alla morte - scrive Plutarco - l’anima prova un’emozione come quella degli iniziati ai grandi misteri. Perciò riguardo al morire (teleuta'n, teleutàn) e all’essere iniziato (telei'sqai, teleisthai) la parola assomiglia alla parola e la cosa alla cosa. Anzitutto i vagabondaggi, i rigiri logoranti, e certi cammini senza fine e inquietanti attraverso le tenebre. In seguito, proprio prima della fine, tutte quelle cose terribili, i brividi e i tremiti e i sudori e gli sbigottimenti. Ma dopo di ciò, ecco viene incontro una luce mirabile, ad accogliere sono lì i luoghi puri e le praterie, con le voci e le danze e la solennità di suoni sacri e di sante apparizioni” Plutarco, framm. 178.. Morte è quanto vediamo da svegli; sogno(visionario), quanto vediamo dormendo Eraclito 22B21 DK qavnatov" ejstin oJkovsa ejgerqevnte" oJrevomen, oJkovsa de; euJvdonte" uJvpno", dove "ypnos" sta per "sogno" o "visione". I misteri di Eleusi sono l'evento religioso, cultuale e liturgico più importante e fondamentale dell'antichità e vennero festeggiati (all'incirca dalla metà del II millenio fino al IV secolo d.C.) ad Eleusi, in onore di Demetra e di sua figlia Persefone, ovvero la madre e "la fanciulla che nessuno può nominare", ajvrrhto" kovrh Euripide, framm. 63. Demetra e Core sono povtniai, "le Signore".. Il più antico culto, strettamente eleusino, è di carattere agrario, mentre quello eleusino-ateniese è di carattere misterio-sofico (misterio = l'obbligo del tacere sui riti d'iniziazione e sui culti tenuti occulti e sofia = la dottrina della salvezza e dell'immortalità). Nell' lnno a Demetra (ca. VII secolo a.C.) si racconta che Persefone, figlia di Demetra, stava raccogliendo fiori nei prati di Nisa, giocando in compagnia delle figlie di Oceano, quando Ade, signore degli inferi, la rapì, mentre ella tendeva le mani verso i fiori, per farla sua sposa. La madre, venuta a sapere del rapimento, iniziò a vagabondare disperata alla ricerca di qualcuno che avesse visto dove le avessero portato la figlia "dalla voce immortale". Ecate, che ha sentito ma non visto, la porta da Elio "che vigila sugli dei e sugli uomini" e da lui viene a sapere che Zeus l'ha destinata ad Ade, aggiungendo che questi è "non indegno di te come genero". La dea amareggiata, "abbandonato il consesso degli dei", si mise a vagare fra gli uomini finché giunse, sotto le spoglie di una comune mortale, ad Eleusi governata dal saggio Celeo, dove si fermò a riposare presso il pozzo di Partenio sotto l'ombra di un ulivo. Le figlie del re Celeo, "venute ad attingere acqua", la videro e le chiesero perché non andava in città nelle "sale piene d'ombra". La dea rispose di chiamarsi Dono e di venire da Creta da dove i pirati la rapirono, ma che lei, fuggita dai suoi rapitori, cercava una famiglia che la ospitasse dove avrebbe fatto tutti i lavori "adatti ad una donna attempata". La più bella fra le vergini figlie di Celeo allora disse che la loro madre Metanira aveva avuto un figlio, "nato tardi, ma lungamente desiderato", per cui se lo allevava fino alla giovinezza ne avrebbe avuta immensa mercede. Demetra allora venne al palazzo reale, dove ricevette cordiale ospitalita e, nonostante Iambe scherzasse, rimase assorta nel suo dolore silenziosamente seduta su uno sgabello con il viso coperto da un velo. Rifiutò la coppa di vino rosso che le venne offerta e chiese invece che le venisse portato il kykeon, una bevanda di acqua, orzo e menta che tanta parte avrà nei "misteri". Quindi accettò di prendersi cura e di allevare il piccolo Demofonte. Lo ungeva con l'ambrosia come un dio e lo avrebbe reso immortale e immune da vecchiaia se Metanira, spiando durante la notte, non avesse visto la dea che soffiava su di lui e lo celava nella vampa del fuoco; temendo per il figlio, si lamentò aspramente che "la straniera ti fa scomparire in una grande fiamma". La dea allora si fa riconoscere e non potendo più dare l'immortalità a Demofonte ordina che ogni anno a lui vengano dedicati dei giochi e a lei venga eretto un grande tempio, dove avrebbe insegnato il rito. Poi, per punire gli dei olimpici responsabili del rapimento di Persefone, Demetra fece sì che il suolo non lasciasse germogliare i semi, fece morire tutte le piante della terra e per la fame l'umanità intera fu minacciata di estinzione. Vanamente pregata da Zeus, che le inviò Iride e poi, uno dopo l'altro, tutti gli dei perché desistesse dal suo terribile proponimento e facesse ritorno sull'Olimpo, Demetra rispose che non sarebbe mai più tornata fra gli dei e che non avrebbe mai più lasciato crescere neppure un filo d'erba se non avesse rivisto "la figlia dal bel volto". Zeus fu così costretto a chiedere al fratello Ade "dalla chioma color porpora" di restituire Persefone alla madre e a lui mandò Ermes "dal caduceo d'oro". Egli acconsentì a patto che la figlia di Demetra facesse ritorno per un terzo dell'anno nel regno dell'oltretomba. Durante questo periodo, sulla terra sarebbe allora comparso l'inverno; poi, per il resto dell'anno, con la riapparizione di Persefone in primavera, il mondo vegetale si sarebbe risvegliato a nuova fioritura. Demetra potè così rivedere la figlia, ma mentre la riabbracciava le venne un dubbio e le chiese: "mentre eri laggiù, non hai mangiato, certo, alcun cibo?". A lei rispose Persefone: Ade "mi porse il seme del melograno, cibo dolce come il miele, e, contro la mia volontà, con la forza mi costrinse a mangiarlo". Allora Zeus inviò "Rea dalle belle chiome, perché riconducesse Demetra dal peplo tinto di cupa porpora alla stirpe degli dei; e promise di darle, fra gli dei immortali, qualunque privilegio ella scegliesse; e confermò che sua figlia, per la terza parte dell'anno che compie il suo ciclo, sarebbe rimasta laggiù, nella tenebra densa; per due terzi con la madre e con gli altri immortali". Prima di far ritorno sull'Olimpo, Demetra insegnò a Celeo e ai suoi figli: "la norma del sacro rito; e rivelò i misteri solenni, venerandi, che in nessun modo è lecito profanare, indagare o palesare, poiché la profonda reverenza per le dee frena la voce" Inno Omerico a Demetra. La rinascita dalla morte (non la vittoria sulla o della morte) era il segreto di Eleusi. Demetra cerca di negare la morte, rendendo immortale Demofonte, il figlio del mortale Celeo, celandolo, come un tizzone, nella vampa del fuoco. Quindi tenta di conferire l'eternità alla morte impedendo che il seme dia il frutto e rendendo il mondo arido e secco: "Molti ricurvi aratri i buoi trascinarono invano sui campi, e molto candido orzo cadde a vuoto nei solchi". Infine riesce a guarire l'universo con l’ininterrotto, incessante e perpetuo ciclo di morte-rinascita. Il dio greco, che è ordinatore ma non creatore, pone ordine nel caos, ricompone le sparse membra dell’universo, traccia limiti e confini risuggellando l’illimitato indeterminato entro precise strutture ordinate; egli è presente laddove c’è vita e s’allontana nel momento in cui la morte riconferma il disordine. La Grande Madre non può essere là dove impera il caos, la morte senza rinascita. Già nei poemi omerici si era assistito all’articolazione “dio = vita”. Omero, Iliade, XXII, 297-98. Allorché Ettore si accorge che il proprio scudiero Deifobo (in realtà Atena che ne aveva assunte le sembianze) scompare dal suo fianco proprio quando inizia il duello con Achille, si rende conto che l’eclisse del divino è il preludio della morte: “Misero io sono, a morte mi chiamarono gli dèi. Credevo d’aver Deifobo al mio fianco, egli è dentro le mura e mi tradì Atena. Al fianco ho già la morte e nessun scampo v’è per me”. In quanto ordinatore, il dio stesso deve consentire alle leggi di natura e, di conseguenza, non gli è permesso di violarle. Spesso i poeti ci ricordano che al dio tutto è concesso e che egli tutto può, ma questo tutto è iscritto nella sfera dell’accidentale, dell’evenementiel. Il più immediato dei limiti che sono imposti al dio greco è quello di non aver nessun potere sulla morte. Nessun dio può ridonare la vita ad un morto o può fermare ed invertire il destino di morte. Ci basti un esempio per tutti: “Neppur gli dei - dice Atena - possono distornare la morte dall’uomo amato, quando la Moira malvagia della Morte lo atterra” Omero, Odissea 3, 236 e sgg.. Nella religione greca il divino non compare eccezionalmente quando si tratta di salvare, ammonire, punire, premiare gli uomini; esso è presente nella Natura come sua forma, essenza ed essere. Nelle altre religioni il dio combatte per il suo popolo e lo fa mettendo in atto i suoi poteri eccezionali; quando il popolo lo trascura, se ne mostra adirato e dimostra a questi fin dove può giungere la sua ira. Quando si presenta, lo fa con quella stupefacente gravità che toglie il fiato agli astanti, egli comunica quel brivido di eternità che ha l’ineffabile elevatezza e l’inimmaginabile distanza. Il dio greco è sempre presente nella storia, combatte per i propri amici e quando si adira lo fa al medesimo modo degli uomini e, il più delle volte, quando si presenta, gli uomini neppure se ne accorgono. Egli non salva e non premia, non ammonisce né punisce, non ha alcun interesse a redimere o attirare a sé gli uomini. Fa parte della storia e quindi nella storia vive; nei poemi omerici incombe dietro ad ogni avvenimento, nulla avviene senza che si avverta la presenza del divino, ma questi si limita a dare consigli, risvegliare l’entusiasmo, infondere coraggio, ispirare accorti pensieri. Mai egli opera il miracolo. Se egli manca della santità degli dèi degli altri popoli, manca anche dei loro poteri eccezionali. Ma, a differenza di quelli, egli non appare come un che di sovrannaturale ed extrastorico. Il dio greco rappresenta la sacralità della natura, la quale, pur senza mai perdere i venerabili contorni del divino, si eleva nella sua condizione di realtà sensibile ed intelleggibile. Il pensiero greco non ha nei suoi schemi la nozione di miracolo. Nulla avviene se non per la necessità fissata nelle cose: la Legge, il Nomos, è la stessa che regola sia la polis che il periechon (“ciò che sta intorno”). I novizi, morti al mondo terreno, percorrono il mondo infero per poi rinascere al mondo sacro. Quindi anche il "miracolo" di Demetra, ossia il ciclo delle continue morti e rinascite, appartiene inesorabilmente alla sacralità e divinità della natura che per essere vita deve sempre passare attraverso la morte dalla quale apparirà nuova esistenza. Per i misteri di Eleusi la terra non è soltanto la dimora dei morti, ma è anche la riserva inestinguibile di cibo, il segreto dell'altemarsi di vita e di morte, che rendeva partecipe l'iniziato dell'intero universo. Il primo livello è costituito dai Piccoli Misteri che venivano celebrati ad Agra, un sobborgo di Atene, sulle rive dell'llisso, dove c'era un tempio dedicato a Persefone. Essi avvenivano durante il mese di Anthesterion (all'incirca a febbraio), il mese in cui i bulbi fioriscono, cioè durante la fredda stagione invernale. "Persefone … mentre giocava con le fanciulle dal florido seno, figlie di Oceano, e coglieva fiori: rose, croco, e le belle viole, sul tenero prato; e le iridi e il giacinto; e il narciso, che aveva generato, insidia per la fanciulla dal roseo volto, la Terra, per volere di Zeus compiacendo il dio che molti uomini accoglie; mirabile fiore raggiante, spettacolo prodigioso, quel giorno, per tutti: per gli dei immortali, e per gli uomini mortali. Dalla sua radice erano sbocciati cento fiori e all'effluvio fragrante tutto l'ampio cielo, in alto, e tutta la terra sorrideva, e i salsi flutti del mare. Attonita, ella protese le due mani insieme per cogliere il bel giocattolo: ma si aprì la terra dalle ampie strade nella pianura di Nisa e ne sorse il dio che molti uomini accoglie, il figlio di Crono che ha molti nomi, con le cavalle immortali" Inno Omerico a Demetra vs. 5-18.. Qui compare una pianta psicotropa estremamente apprezzabile e interessante: il narciso. Della famiglia delle Amaryllidacee, il cui bulbo è tossico a causa dell’alcaloide narcissina (non deve essere toccato a mani nude, né tantomeno ingerito), il narciso, da narkavw (narcào), intorpidisco, da cui il sostantivo narcosi e l'aggettivo narcotico, è una pianta infera per eccellenza e lo stesso suo profumo provoca una specie di torpore. Persefone, protendendo le mani, colse la radice dalla quale erano sbocciati "cento fiori" Si tratta, forse, del Narcissus tazetta, che fiorisce a febbraio, con un’ombrella di 3-15 fiori profumatissimi. Esistono altre specie tossiche, che però non fioriscono d'inverno, come il Narcissus poeticus o il Narcissus serotinus, e oltretutto danno un solo fiore. Anche la Giunchiglia maggiore o Narciso selvatico ha proprietà tossiche, fiorisce in primavera, ma ha un solo fiore. Vi è anche l'anemone, circa 120 specie, della famiglia delle ranuncolacee, di cui l'a. narcissiflora o a.narcissino che fiorisce in primavera, con molti fiori, contiene il glicoside tossico ranuncolina (alcune tribù dell'Asia la usavano per avvelenare le loro frecce). e, nel fare questo, si intossicò, per cui fu trasportata sulle acque con un corteo nuziale per l'oltretomba. I fatti parlano da soli, anche senza forzarne il significato: il bulbo (del narciso) potrebbe essere la creatura selvatica che si sottrae all'addomesticamento e alle arti della coltivazione (portatore di morte), mentre la spiga dell'orzo rimanda alla rinascita (potatrice di vita) o, addirittura, il bulbo ovale potrebbe essere quello di un fungo (mu?vkh", mykes), l'amanite muscaria, la pianta sacra di tutti i popoli indoeuropei, o anche al fiore che Demetra tiene nelle mani (con l'orzo e il narciso): la capsula del papavero (mhvkwn, mekon). Ma rimaniamo, invece, a quanto è scritto nell'Inno a Demetra. Fra i fiori che le fanciulle colgono vi sono "rose, croco, le belle viole, le iridi e il giacinto" (il plurale e il singolare nell'ordine). Il linguaggio botanico dell'aedo è estremamente preciso (anche se parecchi interpreti moderni, non conoscendo le piante erbacee, la pensano diversamente): si tratta di vegetali (notevolmente belli) dai frutti, dal bulbo e dai fiori utilizzabili per ottenerne dei profumi, delle droghe medicinali o venefiche. Dato che si è d'inverno, dobbiamo pensare a piante che fioriscono in quell'epoca, quindi non la rosa comune (che fiorisce a maggio-giugno), ma l'oleandro (rJodoeidhv", simile alla rosa), i cui grandi fiori profumati hanno la forma e i colori delle rose, o la kunov" rJodovn, la rosa canina Il termine (rJovdon, rosa) è qui usato in senso ampio, dato che si sapeva che la rosa comune era una pianta che fiorisce in estate. Simbolo dei fiori, nata con la nascita d'Afrodite, essa è l'arboscello spinoso per antonomasia. La dea dell'amore, un giorno che correva in aiuto ad Adone, ferito da un cinghiale inviato da Ares, si ferì con le spine delle rose e il sangue tinse di rosso il fiore dell'anemone, una ranuncolacea tossica, che dà un fiore invernale, condannato alle carezze di Borea (tramontana), che disperde i suoi petali. E ancora, il fiore invernale che più d'ogni altro ricorda la rosa (l'occidente cristiano l'ha chiamata "la rosa di Natale") è l'elleboro (eJllevboro"): la pianta capace di indurre alla follia. Chiamato Melampodion, dal nome del pastore (l'uomo dai piedi neri) ch'era capace di guarire gli ammalati, che conosceva il linguaggio degli animali e che liberò le figlie di Preto, re di Tirinto, dalla pazzia, l'elleboro è considerato tanto un tossico, quanto il suo rimedio. Contiene glicosidi bufadienolici, in particolare l'elleborina, e lo steroide saponigenina ed è particolarmente venefico.. Elena raccoglieva fiori di rhodon quando fu portata in Egitto Euripide, Elena 243sgg., la terra ove ella apprese, secondo la tradizione, l'arte delle droghe Omero, Odissea, 4. 227-32. . Il croco (crocus minimus o c. sativus) è un albero collegato al mondo delle Grandi Madri, è simbolo nuziale e funerario nello stesso tempo e, quindi, è chiaro che sia presente durante il rapimento (morte) di Persefone. A Eleusi operavano i sacerdoti "krokònidai" che avvolgevano i misti nelle bende e dovevano preparare una tintura, la crocina (fortemente colorante), dagli stami e dagli stilli della pianta. Plinio scriveva che, secondo Dioscoride, si ricavava dal croco un pericoloso veleno (sta di fatto che preso nell'ordine di qualche grammo è mortale) Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XXIV, 166; Dioscoride, I, 25.. Il mito racconta che la pianta era nata dal sangue del giovane Kròkos, colpito a morte da un disco accidentalmente lanciato da Hermes, come Giacinto era stato colpito dal disco involontariamente scagliato da Apollo. Le peripezie di Croco (come quelle di Giacinto) rimandano ad un rito vegetale rinnovatore, rigeneratore e di catarsi Pausania, che lavora da storico, dice: "il primo ad abitare di là dai Rheitoì, in quel luogo che si chiama ancora oggi 'reggia di Krócon'. Gli ateniesi dicono che questo Krócon sposò la figlia di Celeo, Sesara; non lo dicono tutti, ma soltanto quanti appartengono al demo degli Scambonidi. Da parte mia non sono stato capace di trovare la tomba di Krócon". Pausania, Guida della Grecia, I, 38.. Euridice, Creusa ed Europa, quando furono rapite, stavano cogliendi i fiori di "croco" e, addirittura, Zeus, sotto forma di toro, emanava un forte odore di kròkos quando porta la ninfa in un altro mondo. Euripide, Ione, 889; Moscus 2,68; cfr. scolio a Omero, Iliade, 12,292; Esiodo fr. 140. L'identità del rapitore durante queste esperienze estatiche non era celata: "Ma lo stesso dio è Ades e Dioniso, per cui delirano e concorrono alla gara drammatica delle Lenee" Eraclito; 22B15.. Cioè lo Zeus di Nisa L'etimologia di Nisa viene considerata da alcuni interpreti derivare da "nustavzw, nystazo", "sonnecchiare, mi assopisco", che potrebbe esser attribuibile al narkissos (navrkisso"), o a "nysos", parola tracia che sta per "futura sposa". Per la tradizione botanica, la pianta di Dioniso, il kissos (kissov") o 'edera', era chiamata "nysa" (Pseudo-Dioscoride, De Materia Medica, 2, 179). In ogni caso Nisa rimanda a parole che ricordano l'assopimento, la sposa e l'edera. Si pensa, anche, che il nome Dioniso significhi lo "Zeus di Nisa" o lo "Sposo Divino". Nisa viene identificata con un paese favoloso: un monte, una pianura, un prato, una città … in ogni caso dove si svolgevano rituali menadici. C'era una Nisa "la terra delle ninfe" (Euripide, Cycl.68) e un'altra sul Parnasso (Servius, in Virgilio, Eneide 6.805; scolio a Eschilo, I persiani, prologo 2), un'altra ancora sul monte Elicona (Strabone 9. 405; cfr. Omero, lliade 2. 508) e una in Eubea (Sofocle, Antigone 1131); anche in Euripide, Le baccanti 556. Dioniso fu allevato nelle valli di Nisa dalle ninfe (Cfr. Inno Omerico a Dioniso 26. 5) o nacque a Nisa nei pressi del Nilo (Igino 1. 8sgg.1, a Nisa in Etiopia (Erodoto 2. l46, 3. 97) e a Nisa in Arabia (Diodoro Siculo 3. 66. 3), nonchè nella Nisa libica (Diodoro Siculo 3. 66. 4) e in quella della Scizia (Plinio, Hist. Nat. 5. 74). In Caria esisteva una Nisa dove Demetra, Core e Pluto venivano venerati e onorati in un luogo chiamato il Prato. , la forma assunta quando il dio dell'Olimpo cospira con il fratello, il dio degli inferi: "Forse quando, o Tebe, rendesti eminente Dioniso dalla chioma ondeggiante, che siede accanto a Demetra strepitante coi bronzei cimbali?" Pindaro, Istmiche 7, 3-5. e "O tu dai molti nomi, gloria della sposa figlia di Cadmo e progenie di Zeus dal tuono possente, tu che proteggi l'Italia illustre e domini nelle valli a tutti comuni di Demetra Eleusina, o Bacco" Sofocle, Antigone 1115-1121.. Le viole (ijvon, ìon) sono quasi certamente le violaciocche gialle (Cheirantus cheiri, una brassicacea originaria della Grecia, che contiene la cheirantina, sostanza cardiotonica, e la cheirotossina) e la viola odorosa (che contiene l'alcaloide odorantina, ipotensiva, e l'irone, una sostanza fortemente odorante). Essa è il cibo per la ninfa Io, che trasformata in giovenca, quindi inadatta a nutrirsi dell'alimento dei bovini, si cibava di viole. La ninfa Io, trasformata in giovenca, viene affidata da Era all'insonne Argo, dai cento occhi. Zeus allora incaricò Hermes di liberarla e questi suonando la siringa riusci a trarne un suono così "narcotico" che gli fece chiudere tutti i suoi occhi e lo addormentò. Il dio dei ladri, quindi, trasse una falce e lo uccise, ma Era costellò con gli occhi di Argo la coda del pavone e obbligò Io a fuggire inseguita da un tafano. Giunta in Egitto essa fu perdonata e divenne regina con il nome di Iside. Le ajgalliv", il giaggiolo, l'iride o il giglio Della famiglia, invece, delle liliacee ricordiamo il colchico, una liliacea particolarmente pericolosa all'epoca della fioritura. Il bulbotubero ha concentrate una ventina di alcaloidi, in particolare la colchicina, che è letale a 70 mg. E il veratrum album (il giglio verde o elleboro bianco) che contiene alcaloidi che sono velenosi, acri, molto potenti e narcotici. Per essere mortale bastano 2gr. di rizoma., è il fiore delle Grandi Madri; difatti Demetra e Core sono incoronate di gigli, di croco e di narcisi; esso è anche funerario. L'iris anguicularis fiorisce in inverno e la sottospecie nativa di Creta viene classificata come taxon a parte; ha il suo habitat naturale in Grecia. E' usato come profumo per via di un olio essenziale che contiene l'irone. Il nome giacinto (uJajvkinqo"), usato con epiteti differenti, rimanda a specie diverse: l'iris, il gladiolo, il delphinium … Il delphinium consolida (la speronella) è una ranuncolacea che contiene alcalodi diterpenici tossici (e anche ad azione curaro-simile: la delfocurarina). Il gladiolus communis o spadacciola fiorisce, a marzo-aprile, in spighe di 10-20 fiori. L'iris pseudacorus o iris d'acqua, l'iris pallida (il giaggiolo), ma anche il giglio bianco o il giacinto dai fiori violetti, sono tutte piante che fanno pensare a Hyákinthos. Esso rimanda l'attenzione alla festa di tre giorni, in onore di Giacinto, il giovane amato da Apollo e da lui colpito involontariamente a morte: le Giacinzie (Hyákinthia), che cadevano in inverno nel periodo, appunto, in cui il fiore sbocciava, e successivamente all'inizio dell'estate, in coincidenza con la raccolta dei cereali. Il nucleo profondo della celebrazione erano la morte e la resurrezione di Giacinto: un rito sacro di tipo iniziatico che era un cerimoniale di iniziazione puberale e un rituale soteriologico che alludeva all'ultimo passaggio dalla morte alla vita e oltre la vita; l'aspetto agrario ne era un corollario. All'epoca della solennità, che contemplava anche il sacrificio di una capra, animale dionisiaco, si svolgevano contese musicali, coreutiche, canti corali, allegorie equestri e si edificavano capanne nelle quali venivano stesi letti di frasche che servivano da giaciglio per i partecipanti. Pausania scrive che ad Amicle è : "[...] sepolto Giacinto, e alle Giacinzie, prima del sacrificio ad Apollo, gli dedicano offerte di tipo eroico che fanno entrare nell'altare attraverso una porta di bronzo: la porta è sulla sinistra dell'altare. Sull'altare aggettano qui una statua di Biride, là una di Anfitrite e di Poseidone, vicino a Zeus ed Ermes che conversano fra loro stanno in piedi Dioniso e Semele, vicino a Semele Ino. Sull'altare sono scolpiti anche Demetra, Core, Plutone, vicino ad essi le Moire e le Ore, e con loro Afrodite, Atena e Artemide: trasportano in cielo Giacinto e Polibea, la sorella - come dicono - di Giacinto, che morì ancora fanciulla. Questa statua di Giacinto è già barbata; Nicia invece, figlio di Nicodemo, lo dipinse di straordinaria bellezza giovanile alludendo con ciò all'amore di Apollo per Giacinto di cui parla il mito. Raffigurato sull'altare è anche Eracle, anch'egli portato in cielo da Atena e dagli altri dei. Sull'altare ci sono le figlie di Testio, e le Muse e le Ore" Pausania, Guida della Grecia, III, 19, 1-5.. La sorella Polibea è la personificazione femminile di un essere divino, che originariamente era androgino, e rimanda alle vergini Giacinzie. Una di queste era Orizia (“vento di monte”) rapita da Borea mentre giocava con Farmaceia (dono rimedio e veleno) Farmavkeia o Farmaceia (dono rimedio e veleno) è detentrice sia della guarigione che dell'avvelenamento; conosce l'arte medica, ma anche quella della maliarda avvelenatrice, il medicamento e il veneficio, il farmaco benevolo e la magia incantatrice.: "Dimmi, Socrate, non è proprio da qui, da uno di questi posti dell'Ilisso, che Borea, come dicono, rapì Orizia? … potrei dimostrare come la fanciulla, mentre giocava con Farmaceia, fu sospinta giù per le rupi che sono qui intorno da una ventata di Borea, e così dopo la sua morte si raccontò che fosse stata rapita" Platone, Fedro, 229 a-c.. Il nipote di Orizia era Eumolpo (bel cantore), primo ierofante di Eleusi (capo supremo del sacerdozio), e il figlio era Cerice (l'araldo) che svolgeva la funzione di daduco (portatore di fiaccole) e che doveva portare la doppia face durante i misteri. E questo è un fatto che parla da solo. A questi due competeva la carica a vita: lo ieronimato (sacerdozio) e oltre che i compiti della carica essi dovevano interdire agli omicidi e ai barbari la partecipazione alle celebrazioni, invitare tutte le città greche a portare le offerte e a partecipare al culto (gli spondofori araldi scelti fra le due famiglie si mettevano in viaggio, anche, sei mesi prima per bandire la tregua d'armi, di quindici giorni prima e dieci giorni dopo il mese di Boedromione). Vi erano altre famiglie addette alla dea: i Fillidi, da cui veniva scelta la sacerdotessa di Demetra; i Croconidi, da Crocone (krokos) figlio di Trittolemo, che legavano i mysti, con una benda color zafferano, alla mano destra e al piede sinistro; i Coironidi (che dirigono), gli Eudanemoi (i messaggeri), i Futalidi (i nutritori della pianticella del sacro fico) e i Buzugai (coloro che si occupavano dei buoi sacri ed aravano la pianura Raria), lo ierokerice (eletto a vita nella famiglia de Kerici) presenziava ai misteri, l'epibomio (compiva le cerimonie d'iniziazione), i phaiduntes (coloro che hanno cura delle due dee) e le due ierophantidi (che partecipavano alle cerimonie d'iniziazione) degli Eumolpidi. Ad Atene, dopo che i misteri eleusini entrarono a far parte della religione di stato, v'erano i magistrati del culto: l'arconte re (basileus) con due paredri (compagni) e due epimeleti (sorveglianti dei misteri), mentre gli altri due epimeleti erano scelti fra le famiglie degli ierofanti. Ad Agra, durante il mese di Anthesterion, l'iniziato diventava mystes attraverso l'imitazione del ratto di Persefone per mano di Ade; a Eleusi, durante il mese di Boedromione, egli eseguiva l'unione sacra con la divinità femminile divenendo idoneo di essere partecipe della sua visione e delle sue gioie e, così, gli iniziandi diventavano epoptes (colui che ha una visione suprema). Dalle purificazioni e preparativi, che avvenivano durante i Piccoli Misteri, si passava al periodo di preparazione dei Grandi Misteri. Il 13 di Boedromione partivano da Atene verso Eleusi un gruppo di efebi, che facevano da scorta agli iera (oggetti sacri) del santuario che, messi in una cesta e posti su di un plaustro (carro) tirato dai buoi, il giorno dopo venivani portati ad Atene (un viaggio di circa 20 km). Lungo la "via sacra" si trovava una palude, vicina ai laghi Rheitoi, e durante il transito del piccolo ponte le sacerdotesse trasportavano a mano gli 'iera" perché non cadessero dal carro e, giunti infine al "fico sacro", "coloro che hanno cura delle due dee" davano notizia dell'arrivo in città degli "oggetti sacri" che ministri del culto e magistrati si incaricavavo di portare all'Eleusinion (ai piedi dell'acropoli). Qui, il 15, davanti ad un'assemblea degli iniziandi, veniva pubblicata solennemente la proscrizione dalle feste dei barbari e degli omicidi e, solo allora, i "mysti" potevano entrare nell'Eleusinion. Si predisponevano con digiuni e astinenze (dalle fave, dal melograno, dalle uova, dai volatili, da certi tipi di pesce), con cerimonie lustrali nell'Ilisso e il 16 le grandi purificazioni, dove tutti gli iniziandi, gridando "mysti, al mare", facevano un bagno recando con sé un porcellino sacrificale. Il 17 e il 18 si svolgeva la festa di Asceplio, al di fuori dei misteri. Il 19 la processione partiva da Atene per raggiungere Eleusi, a tarda sera (secondo la cronologia greca il 20) tra canti di lode, inni, carmi e danze (di un inno abbiamo il titolo iaccos derivato da ijachv, clamore) cfr. Erodoto, VIII, 65; Aristofane, Le rane, 620. Euripide, Ione, 1074 e sgg. Quando, poi, lo iacchos fu personificato come il dio che guida il corteo, cioè l'archegete (Strabone, X, 468), allora gli fu tribatato un culto. "E scuotendo in mano un oggetto che illumina la notte, con passioni frenetiche sei giunto nei recessi fioriti di Eleusi. Evoè o Iobacco, o Peana. Là il popolo intero della Grecia, accanto agli abitanti di quella terra, ti celebra come Iacchos, benigno per gli iniziati dei sacri riti. Ai mortali hai aperto un rifugio dalle sofferenze, un porto senza dolore. (Filodamo, 27-36). La somiglianza fra i nomi di Iacchos e Bacchos e il fatto che Dioniso si trovi a proprio agio fra grida, chiasso e strepito fece il resto (Sofocle, Antigone,1154 ed Euripide, Cyclope, 69). . Apriva il corteo la statua di Iaccho (almeno dal V sec.) a cui seguivano il plaustro degli iera, lo ierofante, il daduco, i vari addetti e preposti al culto e alla liturgia, le grandi famigli degli Eumolpidi e dei Kerici, le famiglie eleusine, i mysti con fiaccole e fasci di spighe, i magistrati ateniesi, i rappresentanti delle città greche ed infine i cittadini. Durante il ritorno al "sacro fico” v'era lo scambio di lazzi e facezie sconce e scurrili fra i presenti, secondo un costume diffuso in tutte le feste agricole; la raffigurazione è quella della vecchia lambe, che coi suoi scherzi fece sorridere Demetra, mentre era in lutto per la scomparsa della figlia. Quindi passava davanti alla palude dei laghi Rheitoi, acque salmastre dedicate agli inferi Pausania, I,38,1-2, che assicuravano la fertilità ai campi vicini. Qui v'erano degli uomini mascherati in maniera disgustosa che, lungo il ponte (troppo angusto), insultavano in modo sconcio i pellegrini. Poi la processione, giunta alla casa di Kròkon, dove i mysti venivano bendati, e passata la tomba di Eumolpo, la piana di Riaria e il Pozzo della Vergine (o Kallichoron), tra danze, canti e strepiti arrivava, al chiarore delle fiaccole, ad Eleusi. Qui i mystes si separavano dagli altri ed andavano nei pressi del telesterion. Il telesterion (aula d'iniziazione) era una sala ipostila con 42 colonne al cui interno v'era l'anaktoron (il sacrario) accessibile solo ai sacerdoti. Da questo momento, nulla è stato tramandato, sappiamo solo che era iniziato il mysterion. O tre volte felici quelli fra i mortali, che vanno nell'Ade dopo di aver contemplato questi misteri: difatti solo a essi laggiù spetta la vita, mentre agli altri tutto va male laggiù. Sofocle fr. 837. Demetra, prima di ritornare all'Olimpo con la figlia Persefone, che con lei sarebbe rimasta per i due terzi dell'anno, fonda il tempio di Eleusi: " … istruì i re che rendono giustizia, sulla norma del sacro rito, Trittolemo e Polisseno, e inoltre Diocle, agitatore di cavalli, il forte Eumolpo, e Celeo signore di eserciti; e rivelò i misteri solenni e venerandi che non si possono trasgredire né indagare né proferire: difatti una grande attonita atterrita reverenza per le dee impedisce la voce. Felice colui - tra gli uomini viventi sulla terra - che ha visto queste cose: chi invece non è stato iniziato ai sacri riti, chi non ha avuto questa sorte non avrà mai un uguale destino, da morto, nelle umide tenebre marcescenti di laggiù". Inno omerico a Demetra, 476-482. Si intende con misteri (da muvw, mùo = taccio, chiudo la bocca) quello su cui si deve mantenere il segreto. cfr. Mystes = "colui che tiene chiusi gli occhi" in confronto all'epoptes = "colui che tiene gli occhi aperti" perché a Eleusi si va per vedere; infatti tutti gl'iniziati sono mystai, ma in senso rigoroso la parola sta solo per quelli che partecipano al rito per la prima volta; gli altri sono chiamati epoptai: "coloro che vedono", o "che hanno visto". Cfr Sofocle, Edipo, dove il protagonista diventa cieco, per acquisire una profonda conoscenza non più con gli occhi. Ma anche "chiudere la bocca" potrebbe significare il vincolo del segreto, ossia l'obbligo del tacere quanto avveniva nel telesterion o, ancora, al silenzio che tutti i presenti erano tenuti a rispettare durante alcune fasi della cerimonia notturna (Ippolito, Refutatio haereseon V 8, 39: cfr. Plutarco, de garrulitate 505 f; Filostrato, Apollonii I 15). E' probabile che il culto risalga a epoca preellenica (terzo millennio); la segretezza rimanda al carattere magico dei culti della fertilità e non è essenziale ipotizzare che fín dagli inizi Eleusi assicurasse la beatitudine dopo la morte e, visto che le persecuzioni religiose nel mondo antico sono un fatto assai raro, è molto improbabile che a ciò si debba il suo carattere misterico. Sulla parte celata del rituale gli antichi autori sono molto sobri di notizie, più prolissi e particolareggiati sono i cristiani, ma è indubitabile che non siano molto bene aggiornati e messi al corrente dei misteri; anzi, furono proprio i cristiani che, dopo che Serse (unico caso!) aveva attaccato Eleusi per distruggervi i suoi (falsi) dei, riuscirono a annientarla completamente 880 anni dopo (391 d.C.) cancellando e abbattendo al suolo il santuario. Tutte le loro descrizioni sono contenute in quei libelli (tipicamente cristiani) "contra haereses o refutatio hereseon" che non sono mai sopra le parti, ed è chiaro che chi ha conosciuto l'ineffabile non ama avventurarsi in spiegazioni, mentre coloro che non l'hanno sperimentato non solo sono increduli, ma deridono, scherniscono e dileggiano. Ora fare una storia di ciò che avviene nel telesterion di Eleusi, utilizzando fonti prevalentemente cristiane (perche quelle greche non ne parlano quasi), è quantomeno grottesco, ridicolo e assurdo . La parola omerica histor, il testimone, ossia “colui che vede” e, di conseguenza, “colui che sa in quanto è informato” (la radice indoeuropea vid, che in greco è id in latino video), indica che il tipo di approccio con l'empirico passa attraverso l'osservazione di quel che si vede; il verbo ionico istoreo sta quindi per investigo”, “esploro”, “osservo”, “indago”, “ricerco” il come stanno le cose al fine di esserne informato e non "invento" al fine di convincere con l'arte del retore che io ho ragione ed il mio nemico ha torto. Inoltre, questi (e gli autori pagani del loro tempo) si riferiscono a una fase molto tarda, in cui il culto poteva aver subito decisivi mutamenti, trasformazioni e correzioni. Ciò che avveniva il 20 di Boedromione all'interno del telesterion, secondo un cristiano dell'età dei Flavi, era: "ho digiunato, ho bevuto il ciceone, ho preso dalla cista; dopo aver maneggiato, ho deposto nel calathos (canestro), e dal calathos nella cista" Clemente Alessandrino, Protrepticon II 2l, 2 e Arnobio 5, 25. Le parole (banali e insulse) che venivano fatte pronunciare agli iniziati son ben poca cosa di fronte ad un rito che durava da un millenio e mezzo e a cui partecipavaneo circa 300 città greche, durante il mese di settembre-ottobre e preparato per tutto un anno. Probabilmente era proibito indicare l'oggetto che passava dalla cista al canestro e viceversa e il termine usato per designare l'atto rituale, (ejrgasavmeno", maneggiare) è il più indeterminato possibile, ma anche il più sconcio; questo era il simbolo dell'organo sessuale femminile kteis (Teodoreto di Ciro, Graecarum affectionum curatio VII, II, cfr. Clemente, Protrepticon II,22,5) o del simbolo fallico, che in mancanza d'altro, nelle polemiche cristiane contro i pagani, fanno sempre la loro figura. Al contrario, "aver visto il sacro" (incontrarsi con la contemplazione della divinità in conoscenza mistica) è il mistero di Eleusi Inno Omerico a Demetra, vv. 482 sgg, Pindaro, fr.137, Sofocle fr 837, Euripide, Ippolito, 25 e Eracle, 613, Andocide, Dei misteri, 31.. Durante la notte, con i mysti riuniti nel telesterion, si richiamava alla memoria il rapimento di Persefone, la sofferenza, l'angoscia e la dolorosa ricerca di Demetra non in forma drammatica, ma con canti, inni, musiche, preghiere salmodianti. Non è una rappresentazione teatrale, ma una visione allucinatoria. I greci erano troppo sofisticati per quanto attiene gli spettacoli tragici per lasciarsi sedurre da trucchi teatrali anche particolarmente attraenti e seducenti. Inoltre non vi sono fonti che ci parlano di somme di denaro per artifizi ed accorgimenti scenici e per pagare gli attori e, perdipiù, tutto il rito si svolgeva come sacra liturgia in cui l'officiante mantiene il proprio nome e la propria carica, resta in possesso del suo appellativo sacro, indossa le vesti prescritte per conservare la propria fisionomia e compie azioni di cui il protagonista è il dio di cui egli è solo ministro. Contenuto della visione era un'apparizione (schemasi, schvmasi) che si librava nell'etere come un fantasma Sopatro, 339,25. o delle "presenze spirituali": "E la bellezza era fulgida a vedersi nel tempo in cui vedemmo, assieme al coro felice, la beata apparizione e visione, noi nel corteggio di Zeus e altri al seguito di un altro dio, ed eravamo iniziati in quella che è giusto chiamare la più beata fra le iniziazioni, quel rito segreto che celebravamo, noi stessi integralmente perfetti e sottratti a tutti i mali che ci attendevano nel tempo successivo, mentre integralmente perfette e semplici e senza tremore e felici erano le presenze spirituali - entro uno splendore puro - in cui eravamo iniziati e raggiungevamo il culmine della contemplazione: puri noi stessi, senza essere sigillati nella tomba che ora appunto portiamo in giro e chiamiamo corpo, avvinti strettamente a lui come l'ostrica al suo guscio” Platone, Fedro 250 b-c. Che Platone confronti qui la sua visione mistica con quella di Eleusi lo si vede dall'uso, in questo contesto, di due parole tipiche della iniziaziazione eleusina: "eravamo iniziati" (mystes) e "il culmine della contemplazione" (epopteia).. Il telesterion si riempiva di spiriti, tanto, che uno degli iniziandi si spaventò tanto che morì Pausania, 10, 32, 17.; Erodoto racconta che quando arrivaro i Persiani, e i Greci erano tutti fuggiti per non essere perseguitati, Iaccho si lamenta perchè come unici officianti eran rimasti gli spiriti Erodoto, 8, 65.. Quel che avveniva nel telesterion lo possiamo soltanto immaginare. "Avanziamo sui prati fioriti, dove abbondano le rose, giocando alla nostra maniera, la più vicina alle belle danze, sotto la guida delle Moire felici. Per noi soltanto è gioioso il sole e il lume delle torce, per tutti noi che siamo iniziati e abbiamo condotto una vita religiosa verso gli stranieri e i concittadini". Aristofane, Rane, 448-459. Gli antichi usano sempre le parole "felice (o tre volte felice) colui che ha visto queste cose", "ho avuto la fortuna di vedere queste cose"… Già visti: Inno Omerico a Demetra, 476-82; Pindaro, fr.137; Sofocle, fr. 837 e fr. 80; Euripide, Eracle, 613; "Proprio poche rimangono che possono ancora ricordare in modo bastante; e queste, quando scorgono qualche imitazione delle cose del cielo, vanno in estasi e non si tengono più, pur non sapendo di che patimento si tratti perché la percezione di ciò non è sufficientemente profonda". Platone, Fedro 250 a; 250 b-c., ma anche autori pagani più tardi dichiarano che gli iniziati compivano stancanti peregrinazioni attraverso le profonde oscurità e tenebre oscure (il confine della morte ) con sgomenti, brividi, sudori per poi raggiungere la visione di una luce mirabile: "... che vede molte apparizioni mistiche e ascolta molte voci di questa natura, mentre si manifestano in alternanza tenebra e luce ..." Dione Crisostomo, Orazione, 12. e "… raggiunsi il confine della morte, dopo di aver varcato la soglia di Proserpina fui condotto attraverso tutti gli elementi, e ritornai indietro. A metà della notte vidi un sole lampeggiante di fulgida luce. Mi presentai al cospetto degli dèi inferi e degli dèi superni, e proprio da presso li venerai.” Apuleio, Metamorfosi II, 23. e, ancora: "Anzitutto i vagabondaggi, i rigiri logoranti, e certi cammini senza fine e inquietanti attraverso le tenebre. In seguito, proprio prima della fine, tutte quelle cose terribili, i brividi e i tremiti e i sudori e gli sbigottimenti. Ma dopo di ciò, ecco viene incontro una luce mirabile, ad accogliere sono lì i luoghi puri e le praterie, con le voci e le danze e la solennità di suoni sacri e di sante apparizioni”. Plutarco, framm. 178. Aristofane fa allusione a "una splendida luce, simile a quella di quassù", a una "luce gioiosa", e addirittura alla luce solare verso la quale, le anime degl'iniziati continuano a celebrare le loro sacre cerimonie, come in vita Aristofane, Rane, 155; 454-5.. Un sacerdote, nel ricordare Eleusi, dice semplicemente: "O mystai, allora voi mi vedeste, quando apparivo sulla soglia dell'anaktoron, nelle notti luminose..." Inscriptiones Grecae, II2 3811.. Certo che a stare a sentire i cristiani i misteri di Eleusi sono volgari, primitive e oscene allegorie di un cerimoniale di trasformazione ed evoluzione della natura, ossia un culto agrario, che aveva come suo fine quello di garantire - nel tempo della seminagione - l'abbondanza delle messi; ma il rifacimento dei misteri è imperniato su dati molto più tardi non solo dell'età omerica, ma anche dell'età classica, e, anche se fossero rimossi ed epurati i dubbi sulla credibilità e sull’oggettività dei documenti originali, avrebbe valore solo per l'età imperiale (dai Flavi in poi). Il 21 di Boedromione aveva luogo la ierogamia fra il Cielo Padre (Zeus) e la Madre Terra (Demetra) In realtà presso molte culture arcaiche l'atto sessuale del congiungimento avveniva fra lo ierofante e la sacerdotessa in rappresentanza degli dei; in seguito la virtù magica della manifestazione della volontà nuziale si è evoluta in un rapporto mistico tra le due divinità., in una stagione in cui, appunto, la pioggia fecondava la spiga; quindi, lo ierofante, interpellando prima il cielo, poi la terra, pronunciava la frase: ujve, kuve “piovi! concepisci! ” Isocrate, 4, 28; Clemente, Protrepticon II, 22,2). L' apice del cerimoniale era costituito dall’evocazione e dall’epifania di Core; lo ierofante, chiuso nell'anaktoron, evocava la dea - senza proferirne il nome - e percuoteva una lastra di bronzo, con un grande e terribile rumore cfr. Apollodoro, 244; cfr. Velleio Patercolo, 14, l., quindi veniva accesa una “grande fiamma”, si apriva la porta dell'anaktoron, da cui la luce si diffondeva ed emanava per tutto il telesterion, e lo ierofante si presentava alzando in alto una spiga d'orzo Plutarco, de profectibus in virtute 81; Ippolito, Refutatio haereseon V 8, 39-40; la dea signora è Demetra (chiamata Brimò da Clemente, Protrepticon II 1 5,1). Ma in quest'ultimo si dovrà riconoscere Pluto, il raccolto abbondante: già nel nostro inno Pluto appare accanto alle dee come colui "che dispensa ricchezza agli uomini mortali." (vv. 488-90). proclamando: iJero;n ejvteke povtnia kuo'ron, Brimw; Brimo;n (la dea signora ha generato il sacro fanciullo; da Brimò, Brimos fu generato!) "... gli Ateniesi, nell'iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero visionario di là: la spiga di grano mietuta in silenzio. Lo ierofante in persona ... che si è reso impotente con la cicuta e si è staccato da ogni generazione carnale, di notte a Eleusi, in mezzo alla luce delle fiaccole, nel compiere il rituale dei grandi e ineffabili misteri, grida e urla proclamando: Brimò Signora ha generato il sacro fanciullo Brimós ..." Ippolito, Confutazione, 58, 39-40.. Ma questo era ciò che si sapeva del culto a uno/due secoli dalla sua estinzione. Imbattersi con la contemplazione della divinità, in conoscenza mistica, all'interno di un contesto visionario (stati alterati di coscienza,visioni, apparizioni di eventi inconcepibili, fenomeni inspiegabili …) era quel che accadeva a grandi folle che praticavano delle cerimonie, dei riti e delle liturgie ripetitive con alla base delle formule magiche iterate con urla, strepiti, canti, danze, inni… Gli iniziati compivano e portavano a termine stancanti vagabondaggi attraverso le perfette oscurità e le tenebre oscure (il confine della morte ) con sgomenti, brividi, sudori, per poi raggiungere la visione di una luce mirabile. Per ottenere tutto ciò è necessario una sostanza psicotropa (eccitante, euforica e, a certe condizioni, allucinogena). "Allora Metanira, riempita una coppa di vino dolce come il miele, a lei la porgeva; ma la dea la respinse: disse che, in verità, le era vietato bere il rosso vino, e comandò che le offrisse come bevanda acqua, con farina d'orzo, mescolandovi la menta delicata. (ajvnwge d jajvvr j ajvlfi kaiv ujvdor dou'nai mivxasan pivemen glhcw'nni tereivnh/) La donna preparò il ciceone e lo porse alla dea come ella aveva ordinato: Demetra, la molto venerata, accettandolo, inaugurò il rito". Inno Omerico a Demetra, vv. 206-212, Fondazione Valla, 1975, a cura di Filippo Càssola. Sappiamo, dall'Inno Omerico a Demetra, che il kykeon (il ciceone), la bevanda sacra, era una parte determinante dei Misteri: gli ingredienti di questa pozione sono riportati: orzo (alphi), acqua e menta (blechon). Sembra banale: è una bevanda ristoratrice per Demetra, e la menta (mentha pulegium, viridis, acquatica …), unico ingrediente a bassissimo contenuto eccitante, dà il gusto alla mistura di acqua e orzo. E se non fosse così ovvio? E se il ciceone fosse un composto "farmaceutico" con alla base una sostanza psicotropa? E come doveva venire preparato per essere rimedio e droga? ("kai; oJ kukew;n diivstatai (mh;) kinouvmeno"" "Anche il ciceone si digrega se (non) è agitato" 22 B 125 DK; Teofrasto, Sulla vertigine, 9.). Quali sono le reazioni degli iniziati alla ingestione di questo stupefacente, ipnotico e narcotico? .