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LATINOAMERICA_54-55_1994

INDICE: Plana Manuel, Chiapas 1994: alle origini del conflitto, 3-7. Almeyra Guillermo, La rivoluzione democratica messicana, 9-15. Castagnaro Mauro, El Salvador: quale pace dopo il fiasco del secolo?, 17-25. Agudelo Taborda Jairo, Colombia, congiuntura pre-elettorale, 27-32. Vulpiani Pietro, Rivendicazione etnica e neonazionalismi in Bolivia, 37-40. L’altro marxismo di José Carlos Mariátegui, a cura di Antonio Melis, Melis Antonio, Presentazione, 41-42. Nazionalismo e internazionalismo, trad. di Riccardo Badini, 42-47. La democrazia cattolica, trad. di Natalia Giannoni, 47-49. Oriente e Occidente, trad. di Elina Patané, 49-50. Il semitismo e l’antisemitismo, trad. di Elina Patané, 51-56. Poeti nuovi e poesia vecchia, trad. di Maria Antonietta Peccianti, 56-58. Vite parallele: E. D. Morel - Pedro S. Zulen, trad. di Maria Antonietta Peccianti, 59-61. Eterodossia della tradizione, trad. di Antonio Melis, 61-63. L’opera di José Sabogal, trad. di Riccardo Badini, 63-65. Esiste un pensiero ispano-americano?, trad. di Elisabetta Fineschi, 65-67. L’ibero-americanismo e il pan-americanismo, trad. di Silvia Poggianti, 68-70. La civiltà e i capelli, trad. di Antonella Cancellier, 70-73. La civiltà e il cavallo, trad. di Antonella Cancellier, 73-75. Presentazione di “Amauta”, trad. di Alessandra Turchi, 75-76. Anniversario e bilancio, trad. di Alessandra Turchi, 76-78. L’anima mattutina, trad. di Ilide Carmagnani, 78-80. Due concezioni delle vita, trad. di Lia Ogno, 80-83. Esiste un’inquietitudine propria del nostro tempo?, trad. di Lia Ogno, 83-84. Il problema delle razze in America latina, trad. di Stella Soldani, 84-89. Henri de Man e la “crisi” del marxismo, trad. di Lucia Lorenzini, 89-92. Freudismo e marxismo, trad. di Lucia Lorenzini, 92-96. Cronologia di José Carlos Mariátegui, 94-95. Bibliografia essenziale, 95-96. Ramírez Vidal Gerardo, Le fonti letterarie della Conquista: alcune considerazioni, 97-106. Giannoni Natalia, La poetica di Juan Gonzalo Rose tra impegno politico e smitizzazione, 107-112. Culture indigene Cervone Emma, La “inca atahualpa” e la sua storia, 113-117. Carnevale Roberto, Patané Elina, Strumenti, scale, “arcani legami” con l’Oriente ed altro nella cultura musicale degli Incas e… dintorni, 118-122. Recensioni e schede, 123-132. Il fascicolo è illustrato con foto di José Carlos Mariátegui (archivio A. Melis). In copertina: José Carlos Mariátegui sulla nave che lo riporta in Perù nel 1923.

LATINOAMERICA analisi testi dibattiti L’altro marxismo di Mariàtegui / a cura di A. Melis J. Agudelo Taborda / Colombia, congiuntura pre-elettolare G. Almeyra / La rivoluzione democratica messicana M. Castagnaro / El Salvador: quale pace? N. Giannoni / La poetica di Juan Gonzalo Rose M. Plana / Chiapas 1994: alle origini del conflitto G. Ramirez Vidal / Le fonti letterarie della Conquista Culture indigene / R. Carnevale, E. Patané - E. Cervone Anno XV, n. 54-55 aprile-settembre 1994 Manuel Plana 3 Chiapas 1994: alle origini del conflitto Guillermo Almeyra c p .64091 00100 Roma tei. 807.37.42/ 807.21.97 9 La rivoluzione democratica messicana Mauro Castagnaro 17 El Salvador: quale pace dopo il fiasco del secolo? 27 Colombia, congiuntura pre-elettorale lairò Aguclelo Taborda Comitato di redazione Bruna Gobbi, Nicoletta Manuz­ zato, M assim o M ic a relli, M ariella M oresco F o rn asier, M anuel Plana, D aniele Pom pejano, José Rhi Sausi, Enzo Santarelli, M assim o Squillacciotti, M aria R osaria S tabili, Angelo Trento. Direttore responsabile: Alessandra Riccio La rivista non assume la respon­ sabilità delle opinioni espresse negli articoli firmati. In copertina: José Carlos Mariàtegui sulla nave che lo riporta in Perù nel 1923 Sped. abb. post. gr. IV, 70% Autorizz. del trib. di Roma n. 18142 del 6-6-1980 Stampa: Salemi Pro. Edit. Via Pianell 26, Roma Chiuso in tipografia il 18-6-1994 Pietro Vulpiani 33 Rivendicazione etnica e neonazionalismi in Bolivia 41 L’ALTRO MARXISMO DI JOSÉ CARLOS MARIÀTEGUI (a cura di Antonio Melis) 42 Nazionalismo e internazionalismo 47 La democrazia cattolica 49 Oriente e Occidente 51 Il semitismo e l’antisemitismo 56 Poeti nuovi e poesia vecchia 59 Vite parallele: E.D. Morel - Pedro S. Zulen 61 Eterodossia della tradizione 63 L’opera di José Sabogal 65 Esiste un pensiero ispano-americano? 68 L’ibero-americanismo e il Pan-americanismo 70 La civiltà e i capelli 73 La civiltà e il cavallo 75 Presentazione di «Amauta» 76 Anniversario e bilancio 79 L’anima mattutina 80 Due concezioni della vita 83 Esiste un’inquietudine propria del nostro tempo? 84 Il problema delle razze in America Latina 90 Henri de Man e la «crisi» del marxismo 92 Freudismo e Marxismo Gerardo Ramirez Vidal 97 Le fonti letterarie della Conquista: alcune considerazioni Natalia Giannoni 107 La poetica di Juan Gonzalo Rose tra impegno politico e smitizzazione CULTURE INDIGENE Emma Cervone 113 La «inca atahualpa» e la sua storia 118 Strumenti, scale, «arcani legami»... nella cultura musicale degli incas 123 RECENSIONI E SCHEDE Roberto Carnevale-Elina Fatane Manuel Plana Chiapas 1994: alle origini del conflitto Il 1° gennaio del 1994 un gruppo di ribelli appartenenti all’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale insorge e occupa alcuni comuni delle terre alte del Chiapas nella parte meridionale del Messico. La stampa riporta i fatti e nascono gli interrogativi circa una possibile ripresa della guerriglia in un grande paese latinoamericano come il Messico, sui problemi sociali della regione e sul contesto politico nazionale alla vigilia delle elezioni politiche generali e di quelle presidenziali del prossimo agosto. Tutte domande che hanno trovato larga eco sulla stampa L Azzardare una risposta sulla natura degli avvenimenti del Chiapas non è facile, perché, come è accaduto spesso di fronte a fenomeni improvvisi in aree periferiche del continente latinoamericano poco conosciute dall’opinione pubblica, si tende a invocare le strade interpretative più note in termini ideologici o di semplice arretratezza economica e sociale in zone a forte pre­ senza indigena. La funzione di queste note è quella di ammonire il lettore rispetto a possibili semplificazioni e di invitare ad una riflessione più articolata. Il Chiapas, stato meridionale della federazione messicana che segna buona parte del confine con il Guatemala, ha una estensione di 74 mila kmq con circa 3 milioni di abi­ tanti: qui la geografia, il clima e le caratteristiche degli insediamenti umani hanno crea­ to nel tempo profonde differenze tra le varie regioni, che vanno dalla frangia costiera del Pacifico, alle vallate del fiume Grijalva, alle terre alte e alla selva «lacandona» nella parte orientale, un deserto umano in origine che costituiva un vasto bacino idrografico comprendente inoltre la regione del Petén in Guatemala fino allo sbocco sul golfo del Messico negli stati di Tabasco e di Campeche. Lo studioso belga Jan de Vos che ha dedicato negli ultimi anni due splendidi libri, frutto di pazienti e minuziose ricerche, alla «Selva Lacandona» (il primo dall’arrivo degli spagnoli fino all’Indipendenza dalla Spagna nel 1821 e il secondo dedicato allo sfruttamento del legname - mogano soprattutto - nel corso dell’800 fino alla seconda guerra mondiale), conclude il secondo lavoro denunciando la distruzione del bosco tropicale negli ultimi decenni e, rispetto al periodo più recente, afferma:1*3 1 Per un resoconto degli avvenimenti si veda il recente lavoro di P. Coppo e L. Pisani (a cura di), A rm i indiane. Rivoluzione e profezie maya nel Chiapas messicano, Casciana Alta (Pisa), OrissEdizioni Colibrì, 1994, pp. 182. 3 «Il deterioramento ecologico non è, tuttavia, l’unico problema che preoccupa. Un numero impressionante di insediamenti contadini ha invaso a partire dal 1960, le antiche zone di approvvigionamento di legname di fine ‘800. Molti sono nati da una occupazione spontanea, vale a dire anarchica. Altri sono stati promossi dal governo federale o statale. Questi nuovi abitanti della Selva in parte sono meticci venuti da altri stati della repubbli­ ca, in parte sono meticci e indigenti del Chiapas. La maggioranza non ha risolto il pro­ blema della titolarità delle terre. In base al decreto presidenziale del 1972, che dichiarò la comunità lacandona proprietaria di oltre 600 mila ettari di terre selvatiche, si verificò uno scontro fra quest’ultima e gli abitanti delle colonie agricole rimaste all’interno del nuovo latifondo creato dal presidente Luis Echeverria. Questi ultimi furono obbligati ad abban­ donare i loro insediamenti e a trasferirsi in due giganteschi centri di popolamento fuori dalla zona proibita. Lo sfollamento significò un enorme onere politico ed economico per il governo statale e determinò gravi conseguenze sociali ed economiche per i contadini colpiti. Il panorama agrario, già conflittuale di per sé, si aggravò ancora di più con l’arri­ vo nel 1980 dei rifugiati guatemaltechi che esigevano cure mediche e aiuti alimentari immediati... [Il governo federale] - prosegue - è deciso a sfruttare, in forma intensiva, le risorse ancora vergini che la Selva offre, il petrolio e l’energia idroelettrica, e a continuare nello stesso tempo lo sfruttamento del legname pregiato nelle zone che le compagnie pri­ vate non riescono a raggiungere. Per facilitare l’estrazione del legname e del petrolio, il governo ha coperto la Selva con una rete di strade che comporta, come conseguenza ine­ vitabile, l’aumento degli insediamenti ed il taglio dei boschi. Ha introdotto così un nuovo agente di distruzione: gli ingegneri che costruiscono le strade e i pozzi petroliferi. Per quanto riguarda l’energia idroelettrica, ci sono in progetto di costruzione una decina di dighe sui fiumi di maggior portata della Selva che inonderanno buona parte delle zone circostanti, oggi occupate da contadini o coperte ancora da alberi» 2. Il Chiapas costituisce dunque una regione periferica della federazione messicana priva di una moderna struttura industriale, ma con risorse naturali importanti per l’economia del paese, come si evince dal brano citato, e con caratteristiche demografi­ che peculiari: una popolazione sparsa e, per converso, concentrata in pochi centri urbani, specie nelle terre alte (tra i 1.500 e i 2.500 metri sul livello del mare compren­ dente circa 17.500 kmq), sede dei principali gruppi indigeni di lingua tzotzil e tzetal3. L’insieme di questi fattori fa del Chiapas una realtà complessa nata dalla mescolanza di situazioni etniche e sociali molto diverse in spazi economici e geografici multiformi. Negli avvenimenti odierni del Chiapas si insinua innanzitutto quel passato che ci rinvia alla civiltà maya e alla questione indigena. Secondo il censimento del 1980 vi erano nel Chiapas poco più di 400 mila persone censite che parlavano varie lingue indigene. Delle molteplici lingue parlate all’epoca della conquista spagnola - circa una trentina - ne sono sopravvissute sei; i gruppi più numerosi sono quelli di lingua tzotzil e tzeltal (poco più di 100 mila per gruppo) 234. Le stime più attendibili calcolano la popolazione indigena globale messicana tra gli 8 e i 10 milioni di persone, una percen­ tuale tra il 10 e il 12,5% del totale degli abitanti del paese, distribuiti in gruppi che parlano 56 lingue diverse: si tratta di dati raccolti secondo criteri basati su un senso di identità etnica e di appartenenza alla società locale in rapporto ad un comune patrimo2 J. de Vos, Oro verde. La conquista de la Selva Lacandona por los madereros tabasquenos, 1822-1949, México, Fondo de Cultura Econòmica, 1988, pp. 258-59; per il periodo precedente cfr. J. de Vos, La paz de Dios y del Rey. La conquista de la Selva Lacandona (1525-1821), México, Fondo de Cultura Econòmica, 1988. 3 Si veda H. Favre, Cambio y continuidad entro los mayas de México, México, Siglo XXI, 1973. 4 L.M. Valdés, E l perfil demogràfico de los indios mexicanos, México, Siglo XXI, 1989, pp. 79-80 e 127-31. 4 nio culturale. Da questa diversità linguistica non si desume, però, la vera pluralità delle società etniche, visto che la lingua resta un indicatore imperfetto di una realtà che affonda le sue radici in un passato lontano. Guillermo Bonfil Batalla - recentemente scomparso -, uno degli intellettuali messi­ cani che con grande passione e intelligenza ha dedicato diversi libri e saggi al problema indigeno, scriveva in Mexico profundo, un importante testo di qualche anno fa: «La presenza di ciò che è indio sui muri, nei musei, nelle sculture e nelle zone archeo­ logiche aperte al pubblico viene concepita, essenzialmente, come la presenza di un mondo morto. Un mondo singolare, straordinario in molte delle sue manifestazioni; ma morto. L’ottica ufficiale tradotta in linguaggio plastico o museografico, esalta questo mondo morto come il seme originario del Messico attuale. Costituisce il passato glorioso di cui dobbiamo sentirci orgogliosi, il quale ci assicura un altro destino storico come nazione, malgrado non sia mai chiara la logica e la ragione di tale certezza. L’indio vivo, ciò che è vivo nel mondo indio, rimane relegato in secondo piano, quando non è ignorato o negato; occupa, come nel Museo National de Antropologia, uno spazio segregato, svincolato sia dal glorioso passato sia dal presente che non gli appartiene: uno spazio di cui si può prescinde­ re. Attraverso un’abile alchimia ideologica, quel passato è diventato il nostro, quello dei messicani non indigeni, malgrado sia un passato inerte, un semplice riferimento a ciò che fu, come una sorta di premonizione di cosa è il Messico oggi e di quello che sarà il futuro ma senza alcun legame effettivo con la nostra realtà attuale e con le nostre aspirazioni»5. Alla fine di questo saggio, che rappresenta una requisitoria contro il disprezzo e l’esclusione del mondo religioso dal Messico moderno scritta con i toni vibranti di una orazione civica, Bonfil arriva alla conclusione che si doveva: «costruire una nazione plurale, nella quale la civiltà mesoamericana, incarnata in una gran varietà di culture, abbia il luogo che le corrisponde e ci permetta di vedere l’occidente dal Messico, vale a dire, di comprenderlo e di utilizzare le sue conquiste da una prospettiva di civiltà che ci è propria in quanto forgiata su questo suolo, passo a passo, dalla più remota antichità; e perché questa civiltà non è morta ma ferve nelle viscere del Messico profondo» 6. E la storia antica del Chiapas ci rinvia alla civiltà maya, ma, dopo il suo crollo intorno al X secolo, giunsero qui altri popoli provenienti dal centro del Messico e divenne una regione che conobbe in epoca preispanica varie ondate migratorie: arrivarono i nahuas e i chiapanecas, questi ultimi originari di Cholula, i quali si spinsero in altre zone dell’America centrale. Questi gruppi si insediarono nella regione e si rifugiarono nelle terre alte com­ battendo gli abitanti del luogo. L’idea di una ancestrale tradizione di resistenza sotterra­ nea sembra essere sopravvissuta nella memoria collettiva attraverso il termine nagualismo, una simbologia magica legata a infausti presagi che si traduce in una serie di combinazioni tra la nascita e gli animali 7. Dopo l’arrivo degli spagnoli nel 1524 la regione divenne «l’impero dei domenicani» - e poi anche dei gesuiti -, i quali sfruttarono le valli fertili e i prodotti naturali (il cacao e più tardi le piante coloranti). I principali luoghi di colonizza­ zione sorsero attorno ai conventi e alle città, Ciudad Real - San Cristobal de las Casas - e capitale coloniale della provincia, Comitàn, Chiapa de los Indios - oggi Chiapa de Corzo - e San Marcos Tuxtia, capitale dello stato dal 1892 col nome di Tuxtia Gutiérrez. Gli ordini religiosi e i colonizzatori che si stabilirono nella regione si appropriarono delle zone fertili in cambio del riconoscimento agli indigeni del diritto di usufruire di 5 G. Bonfil Batalla, Mexico profundo. Una civilización negada, México, Grijalbo, 1990, p. 91. 6 Ibid., p. 245. 7 A. Garda de Leon, Resistencia y utopia. Memoria de agravios y crònica de revueltas y procecias acaecidas en la provincia de Chiapas durante los ùltim os quinientos ahos de su historia, México, Era, 1985,1, p. 34. 5 terre comunali e del tributo, secondo il modello diffuso in tutta l’America spagnola. La popolazione indigena conobbe una brusca caduta demografica nel corso del ‘500, come nel resto del Messico, a causa soprattutto delle epidemie e aggravata tra il 1680 e il 1824 - quando la popolazione si avvicinava ai 150 mila abitanti - da una serie di rivolte indie, la più nota delle quali fu la ribellione millenarista del 1712 8. Il Chiapas apparteneva all’epoca della conquista al vicereame della Nuova Spagna, ma, salvo alcuni brevi intervalli nel ‘500, dipese dalle autorità coloniali di Guatemala. Allorché nel 1821 venne proclamata l’Indipendenza in Messico, le ripercussioni si fece­ ro sentire in tutta l’America centrale e, dopo alcuni tentativi indipendentisti, i gruppi dominanti in Chiapas scelsero di unirsi nel 1824 alla federazione messicana, mentre la provincia costiera di Soconusco, da sempre legata al Guatemala, venne integrata militar­ mente nel 1842 e i problemi della definizione delle frontiere con il Guatemala furono risolti da un trattato nel 1882 e rivisti nel 1893. Le riforme avviate con la rivoluzione liberale del 1855 portarono alla nazionalizzazione dei beni del clero, ma non scalfirono il predominio del latifondo né il sistema prevalente di rapporti servili nelle aree tradizio­ nali del centro dello stato attorno a Chiapa, Tuxtla, Comitàn e lo stesso San Cristóbal9. Gli studi sulla regione collocano in maniera unanime nella seconda metà dell’800, e più precisamente intorno al 1880, lo sfruttamento su vasta scala delle risorse delle gran­ di aree periferiche disabitate del Chiapas, a cominciare dall’allevamento, dalle pianta­ gioni di caffè nel Soconusco ad opera di alcuni tedeschi residenti in Guatemala 101e dagli accampamenti per lo sfruttamento del legname o montenas nel bacino che contri­ buisce a formare il fiume Usumacinta n . In pratica, tra il 1875 e il 1908 ben 1.813.000 ettari di terre demaniali, il 27% della superficie statale, venne ceduto a singoli proprie­ tari e compagnie messicane e straniere per lo sfruttamento del legname e del caucciù, per la coltivazione del caffè e per le prospezioni petrolifere 12. Accanto alle compagnie straniere sorse così un gruppo ristretto di grandi proprietari terrieri indicato solitamente come la «familia chiapaneca» e che ha costituito da allora il ceto politico dominante, il cui più illustre esponente fu Emilio Rabasa, un prestigioso intellettuale positivista, governatore dal 1892 al 1894, e fautore di un programma di modernizzazione economi­ ca e di accentramento del potere politico 13. L’espansione economica di fine secolo comportò una fase di prosperità, determi­ nando però la nascita di un sistema di rapporti sociali di lavoro che fece leva sulle vec­ chie consuetudini di natura servile o sistema di enganche\ il reclutamento, cioè, di forza lavoro attraverso un piccolo anticipo di denaro che rappresentava in partenza un inde­ bitamento difficile da evadere e una fonte di inesauribili soprusi. Se da allora iniziò una corrente migratoria di negri e mulatti provenienti dalle isole francesi del Caribe e della Giamaica e di emigranti cinesi, rafforzata in questo secolo da contingenti di altre zone del Messico e dello stesso Centroamerica, gli indigeni delle terre alte del Chiapas costi­ tuiranno la base della forza lavoro per l’agricoltura di piantagione, una sorta di «schia­ vitù salariata», che alimenterà forme peculiari di indigenismo. Antonio Garcia de Leon, il quale ha studiato in dettaglio i convulsi anni della rivoluzione del 1910-1920 nella regione e che possono essere riassunti col titolo di 8 Ibid., pp. 56 e ss. 9 Ibid., pp. 156 e ss. 10 T.L. Benjamin, E l camino a Leviatàn, Chiapas y ed Estado Mexicano, 1891-1947, México, Consejo Nacional para la Cultura y las Artes, 1990. 11 Cfr. J. de Vos, Oro verde..., cit., pp. 130 ess. 12 A. Garcia de Leon, op. cit., I, pp. 173 e ss. 13 Cfr. T.L. Benjamin, op. cit., pp. 62 e ss. 6 un paragrafo del libro «le proprietà in fiamme» in quanto vennero coinvolti tutti i gruppi sociali, sottolinea la capacità di adattamento politico della vecchia oligarchia alle nuove condizioni del Messico post-rivoluzionario e il persistere delle forme di servitù nella realtà sociale, nonostante la riforma agraria del 1936 in epoca cardenista, i cambiamenti nella legislazione sociale, la nascita di nuclei di proprietà colletti­ va o ejidos nella zona dell’alto Grijalva e nel Soconusco in seguito alle lotte dei grup­ pi sindacalizzati e il riconoscimento delle terre comunali nelle aree indigene. Garcia de Leon fornisce una spiegazione di carattere generale per gli anni ‘20 che, guarda­ no al lungo periodo, merita di essere tenuta presente per leggere la realtà odierna: «Grazie all’esistenza - scrive - di territori poco popolati e di boschi demaniali (quei deserti che non riuscirono a dominare le compagnie alla fine del secolo), vengono invia­ ti come baldios [lavoratori senza terra e indebitati] verso queste regioni i richiedenti più bisognosi o intransigenti, i superstiti delle eruzioni vulcaniche o i rifugiati di tante dia­ spore recenti, ampliando la frontiera agricola e le zone di allevamento, diminuendo così preoccupanti tensioni e rivolte nelle regioni ad alta concentrazione demografica. Questa provvidenziale «valvola di sfogo» permetterà una colonizzazione che somiglia alla ridi­ stribuzione del bestiame (rimasta prioritaria) e che la contribuito a prevenire conflitti più gravi che avrebbero potuto scatenarsi dopo il 1940. Dal 1960, quando la pressione demografica tornò ad aumentare, si incoraggiò un disordinato flusso migratorio verso la selva Lacandona: che permise di distruggere quel che c’era, di fornire braccia alle monterias [gli accampamenti di legname], di ampliare i pascoli; tutto per non modifica­ re la struttura dell’allevamento nelle medie e grandi proprietà private» 14. Tuttavia, lo stesso Garcia de Leon allorché esamina le forme che ha assunto l’indigenismo, come percezione e volontà di modificare le condizioni di vita del mondo indio da parte della società non-india, parla, per quanto riguarda il Chiapas e sulla base di molte­ plici esempi ed episodi tratti dalla storia locale, di una sorta di «rovesciamento» o «producto invertido»; segnala, infatti, che esso ha avuto qui contenuti paternalistici con la finalità di perpetuare la servitù specie da parte dei signori delle terre alte, i quali si pro­ pongono ancora oggi come intermediari della manodopera indigena per le piantagioni e le imprese agricole e forestali. Attribuisce a questo indigenismo, da un lato, un carattere «sindacalista» che avrebbe trovato rispondenza, negli organismi indigenisti ufficiali a livello locale, e, dall’altro, sul terreno culturale ed educativo avrebbe trasmesso principi «etnistici» nel senso più propriamente antropologico del termine di difesa delle comu­ nità, ma anche del diritto ad istruire e ad evangelizzare gli indigeni secondo parametri ad essi estranei. Nelle conclusioni, scritte nei primi anni ‘80, Garda de Leon indicava che le lotte sociali e politiche dei decenni precedenti avevano messo in discussione il ruolo poli­ tico dei gruppi dominanti locali restii a modificare la struttura produttiva e, soprattutto, restii ad abbandonare quella particolare concezione dell’indigenismo chiapaneco nella duplice accezione di intermediazione dei rapporti sociali e di contenuto «etnicista» 15. Da questo insieme di succinte considerazioni dovrebbe emergere che, al di là del richiamo a Zapata del movimento del 1° gennaio di quest’anno - con una sua tradizio­ ne nella regione -, gli avvenimenti nel Chiapas rispondono ad alcune dinamiche di fondo ben più complesso rispetto alle osservazioni sulla arretratezza, su forme di rivol­ ta primitiva, su una generica questione indigena o sulla lotta guerrigliera, anche se molti di questi problemi vi confluiscono sovrapponendosi a conflitti politici tra i grup­ pi locali e interessi nazionali più ampi. 14 A. Garcia de Leon, op. tit., II, p. 225. 15 Ibid., II, pp. 231-32. 7 Mariàtegui a Roma, in piazza S. Pietro, 1922, il giorno della elezione di Pio XI. Il volume è illustrato con foto di Mariàtegui (Archivio del prof. Antonio Melis). Guillermo Almeyra La rivoluzione democratica messicana La rivoluzione zapatista, iniziata il primo gennaio nel Chiapas, è allo stesso tempo l’espressione di un processo politico nazionale che costituisce un momento cruciale della rivoluzione democratica in corso nel Messico, ed il detonante di un grande movi­ mento di massa. L’integrazione economica con gli Stati Uniti, con i suoi duri costi sociali per i setto­ ri più poveri della società messicana, è stata la base della esplosione nel Chiapas e ne è anche quella delle proteste e moti di massa in altri paesi latinoamericani. Essa, alla sua volta, è l’espressione, in America, di un processo mondiale di transnazionalizzazione del capitale, di predominio del capitale finanziario sull’industriale, commerciale ed agrario, e di concentrazione della ricchezza e polarizzazione delle società. Questa trasformazione del capitale, questa mondializzazione del sistema, ha provo­ cato dei grandi cambiamenti politici e sociali nei principali paesi dell’America latina e in Messico in particolare, ed ha stabilito le nuove regole del giuoco per la lotta tra le classi principali e anche per la costruzione di una nuova sinistra di massa. In questa trasfor­ mazione trova la sua base la fine del populismo distributivo e del nazionalismo più o meno autarchico e anche nel processo di mediazione e di riformismo che per decenni assicurò ai governi del Partito Rivoluzionario Istituzionale il consenso necessario per ridurre il peso delle opposizioni e controllare la protesta sociale, sempre latente. Le principali trasformazioni economiche, negli anni Ottanta-Novanta, sono infatti fondamentali. Ad esempio, l’agricoltura di semplice sussistenza e bassissima produttività, ma che assicurava comunque la vita di milioni di ejidatarios, ha ricevuto un colto mortale. E la modifica dell’articolo 27 della Costituzione, che permette adesso la privatizzazione dei latifondi ejidos, non soltanto apre la strada alla ricostituzione dei latifondi (perché i piccolissimi contadini, senza credito né tecnologia e senza possibilità di pagare i debiti saranno costretti a vendere i loro pezzetti di terra) ma l’apre pure alla modifica dell’uso di questa risorsa. Ossia, al passaggio delle produzioni di alimenti basici a quella di ali­ menti per il mercato ricco, soprattutto degli Usa (carne per hamburguers, ad esempio). La dipendenza messicana delle importazioni del cibo, già schiacciante, diventerà irreversibile e le migliori terre del Messico produrranno per l’agroindustria alimentare degli Usa, allo stesso tempo che crescerà il numero di rurali costretti alla migrazione. Giornalista argentino Ma, siccome l’espulsione dei contadini del mercato messicano non implica l’assorbi­ mento della mano d’opera eccedente per il mercato ricco (quello degli Stati Uniti, che è chiuso alla merce forza lavoro, abbondante e a buon mercato nel Messico, mentre il mercato messicano è apertissimo alle merci di consumo americane, il che rovina l’indu­ stria nazionale), gli espulsi delle campagne messicane, senza sbocco negli Usa né in una industria leggera messicana in crisi profonda, diventeranno marginali urbani non pro­ duttivi, consumatori passivi a livello di miseria. La conseguenza immediata sarà un aumento del già importante deficit delle importazioni e delle spese pubbliche, del defi­ cit pubblico, della criminalità e delle tensioni politiche e sociali. Se a questo aggiungiamo che la privatizzazione del suolo apre la strada anche alla privatizzazione del sottosuolo (leggere petrolio) si vede che i principali acquisti della rivoluzione messicana (la terra e la nazionalizzazione del petrolio) sono in un processo di ritorno al passato, alla ricostituzione del latifondo e della proprietà imperialista delle ricchezze nazionali non riproducibili e strategiche. Ossia, che questo ritorno è parte di un processo di «modernizzazione» capitalista che ricorda quella «modernizzazione» fatta da Porfirio Diaz all’inizio del secolo, col capitale straniero. La piccola e media industria, nata con la protezione e le sovvenzioni costanti dello Stato (all’energia, al trasporto, al costo della mano d’opera e della sua ripartizione) e dipendenti dallo Stato (leggi, corruzione dei sindacati, corruzione dei funzionari, giudici e legislatori) si trova adesso nuda e disarmata di fronte alla concorrenza delle imprese transnazionali e con uno stato antindustrialista, che privilegia la speculazione finanziaria ed è nelle mani di tecnocratici che sperano tutto dal capitale intemazionale, non dallo sviluppo del mercato interno né dei fattori nazionali. La crisi dell’apparato produttivo e la sua trasformazione è brutale ed il Messico diventa, strutturalmente, il paese degli investimenti fugaci (turismo, che dipende dalle mode e dalla sicurezza interna; borsa, la cui prosperità dipende dal rapporto tra le tasse di interessi messicani e quelli stranieri ma anche dalla sicurezza interna del paese; maquila, o produzione industriale dei subap­ paltatori in Messico delle forme americane, che dipende dai bassi salari nazionali e dalla continuità di un regime di corruzione, scarsa o nulla protezione ambientale, repressione e mancanza di veri sindacati), ossia, sempre nell’«ordine stabilito». La solidità della divisa messicana (il peso), d’altronde, è pure essa fugace. I capitali stranieri sono entrati in massa, ma soprattutto per comprare le imprese già esistenti e profittevoli o per giocare in Borsa. La produzione di merci reali e la creazione di indu­ strie e posti di lavoro è stata minima. Il peso è sopravvalutato e una quasi certa svaluta­ zione potrebbe mettere in questione tutta la politica del Pri, facendo aumentare l’infla­ zione, espropriando e politicizzando una parte importante dei ceti medi, oggi argo­ mentati dalla stabilità fittizia attuale, radicalizzando le classi povere, acutizzando la crisi del regime e del partito governanti. Cinque anni prima della firma del Nafta o Tic (Trattato sul Libero Commercio) il Messico aveva eliminato unilateralmente tutte le barriere doganali ai prodotti degli Usa con il risultato di una invasione di prodotti di consumo molto competitivi in prezzo e qua­ lità, che spiazzarono i messicani ed aumentarono la disoccupazione industriale, anche se il prodotto industriale è aumentato leggermente (dal 5% in rapporto a due anni fa) mentre il Pii a sua volta, aumentava di poco al di sopra della crescita demografica (appena dal 2,6%). Allo stesso tempo, la recessione ha fatto cadere il prezzo di tutte le materie prime (argento, cotone, caffè) che il Messico esporta, e ridurre l’ammontare del turismo statuni­ tense. La situazione economica è molto instabile, molto di più di quello che sembrano indicare la riduzione dell’inflazione e del debito estero (il quale ricomincia a crescere). La caduta verticale del prezzo del caffè e l’ingresso massiccio di mais ibrido del Kansas hanno dato un colpo di morte alla piccola economia di sussistenza del Chiapas. Espropriate dalle loro1buone terre basse, nel corso dei secoli, le comunità indigene 10 (come anche i piccoli contadini meticci) sono state costrette ad andare verso la selva, ad arrampicarsi nelle peggiori terre delle montagne, lontano dalle strade di comunicazione e dei mercati. Coltivano lì un pò di granturco e un pò di caffè per avere degli eccedenti con i quali ottenere contante per le cerimonie, la scuola dei figli, la compra di qualche utensile: l’annullamento di questi eccedenti li condanna alla ribellione o alla morte. Si accumulano le conduzioni di una crisi sociale, soprattutto, nel mondo rurale in profonda trasformazione dal punto di vista della proprietà, della produzione e del mer­ cato. Questa crisi è nazionale, ma ha i suoi punti critici negli stati più poveri (come Chiapas, Oaxaca, Guerrero) e in quelli tradizionali dell’emigrazione. A questa crisi sociale si aggiunge la crisi politica e quella del regime. La crisi politica e di regime La società messicana ha sofferto delle profonde trasformazioni, le quali si riflettono nello stato-partito, nel regime. Negli anni ‘30, lo stato moderno e la nuova borghesia industriale furono creati da un partito (Prm, che anni dopo sarà il Pri) che aveva un grande consenso di massa e integrava i movimenti reali operai e contadini e le loro orga­ nizzazioni sulla base di un nazionalismo rivoluzionario e del populismo distributivo (Làzaro Càrdenas ne era l’esempio). Negli anni ‘40 il Partito-Stato dà la base ad una bor­ ghesia finanziaria incipiente e ai legami con gli Usa. Nei decenni successivi la separazione dalle masse va di pari passo con la trasformazione del partito, diventato Pri che si espri­ me simbolicamente nel suo cambio di nome, di statuti e di funzioni e passa a perdere importanza di fronte allo stato (che è sempre monopolio suo). Il boom del petrolio inter­ rompe brevemente questo corso dando origine a un populismo distributivo-tecnocratico, basato sull’idea secondo la quale l’importazione di tecnologia utilizzando la rendita petroliera, che si credeva eterna e sempre crescente, potrebbe risparmiare le riforme eco­ nomiche e sociali (Luis Echeverria e José Lopez Portillo ne erano l’espressione). Gli anni ‘80 sono quelli del risveglio. Il partito, ormai dipendente dello stato, che lo sostituisce e agisce come stato-partito, non dipende già dal consenso, dalla politica clientelare, dal populismo, e non soltanto perché non c’è molto da distribuire. La nuova borghesia finanziaria, legata con doppio filo a Wall Strett, è il settore borghese dominante. E i tec­ nocrati formati a Harvard e Yale sostituiscono nella presidenza della Repubblica i vecchi generali-politici della Rivoluzione e i politici populisti che venivano dalla gavetta attraver­ so il partito. Senza legami con il popolo nè esperienza politica, governano con lo stato, particolarmente con il ministero dell’Interno e con i mass media, apparati separati. Governando dal 1929, il regime perde le radici e la relativa legittimazione riformi­ sta e popolare. Il settore dei vecchi politici, dei vecchi intellettuali populisti ma anche quello dei burocrati-gangsters delle organizzazioni di massa trasformatesi in rodaggi dello stato ma dipendenti dal partito, entrano in collisione con i tecnocrati, che non ricorrono già al partito ma allo stato. Alla crisi sociale si aggiunge così una crisi politica: quelli di sotto non vogliono più il regime e quelli di sopra non possono più governare come prima. La crisi economica porta in primo piano la necessità imperiosa della democrazia, della modernizzazione politica per permettere una democratizzazione e modernizzazione dell’economia. Si arriva alla crisi del regime, che risponde a questo bisogno con la frode elettorale siste­ matica (dal 1988 in poi, in tutte le elezioni) e con la repressione. Chiuso così ogni spi­ raglio per cercare una soluzione legale e una riforma del sistema, non rimane altra via che quella della ribellione, particolarmente nei posti dove l’alternativa è morire di fame e di malattie sociali (come nel Chiapas) o magari morire impugnando il fucile, almeno con dignità da uomini o da donne, non da bestie. 11 Lo stato-partito si frammenta tra quelli che vorrebbero negoziare e conciliare, cer­ care un certo consenso, evitare un’esplosione sociale, nella ricerca sempre della moder­ nizzazione capitalistica, e quelli che vorrebbero mantenere i vecchi metodi autoritari e/o clientelari. «Riformisti» e «morbidi» che cercano di cooptare l’opposizione si distanziano dai «dinosauri», che cercano di schiacciarla. In questa linea ricercano l’alleanza con una parte dell’opposizione di destra ivi compresa la gerarchia cattolica, che si appoggia sul governo per ottenere l’insegnamento privato e religioso e una situa­ zione di privilegio che gli permetta di sottomettere i ribelli della Teologia della Libera­ zione e anche i concorrenti protestanti. La Chiesa cattolica si divide così tra il settore istituzionale ad oltranza (la destra, il Nunzio apostolico Girolamo Prigione, legati al ministero dellTnterno e al Presidente che ha pagato questo appoggio modificando la Costituzione per riconoscere il Vaticano e dare privilegi ai cattolici), il centro naziona­ lista- burocratico (aperto a la negoziazione con altri settori), e la sinistra (i vescovi e i sacerdoti o congregazioni della Teologia della Liberazione, in particolare domenicani e gesuiti). Alla divisione del Pri si aggiunge quella della Chiesa, con le conseguenti ripercus­ sioni nello establishment e gli intellettuali. E alla divisione tra i settori borghesi (tra la parte colpita dalla concorrenza e dall’eliminazione del protezionismo e quella che approfitta del Nafta) si aggiunge un rimescolamento delle carte anche nell’opposizione legale: un settore cerca di negoziare posti, posizioni e politiche all’interno del Nafta e del sistema, un’alternanza politica, e riconosce quindi il governo come interlocutore, mentre un altro cerca un’alternativa al regime e al sistema, si rifiuta di riconoscere il governo e cerca di organizzare la società e i movimenti contro lo stato o almeno al mar­ gine di questo. Tra l’opposizione di centrosinistra il comune programma populista e redistributivo nasconde questa divisione, ad esempio, tra i dirigenti del Prd, capeggiati dagli ex membri del Pc e del Pri, come Porfirio Munoz Ledo, e lo stesso Cuauhtémoc Càrdenas e la sua équipe, ossia tra l’apparato politico-partitista e l’apparato movimen­ tista. Mentre nello stato-partito l’accettazione di un programma comune di moderniz­ zazione tecnocratica e d’integrazione con gli Usa nasconde male le differenze profonde tra i nazionalisti borghesi e i nuovi cientìficos, e tra i dinosauri e i negoziatori alla Camacho. I rapporti tra questi, ad esempio, ed un’ala della Chiesa (la nazionale), forma una fronda che si oppone all’alleanza tra la destra economica, la destra militare, la destra del Pri, i tecnocratici (Salinas, Cordoba), gli uomini del Vaticano, come il Nunzio Prigione. Quindi, alla crisi del regime si aggiunge una crisi profonda di tutti gli apparati di mediazione e di potere, persino dell’opposizione «possibilista». Il che lascia il movi­ mento di massa e democratico di fronte a un bivio, nel momento cruciale delle elezioni presidenziali e per il rinnovo delle Camere, che si faranno ad agosto. L’Ezln e le elezioni Le cause della sollevazione zapatista nel Chiapas sono molteplici. Ci sono, natural­ mente, le cause profonde, come l’oppressione etnica, sociale, economica e culturale che soffrono (e resistono) gli indigeni da 500 anni. O l’esproprio delle terre delle comunità, da Juàres in poi, passando per la ricostituzione del latifondo «rivoluziona­ rio» per mano dei carrancisti, in tempi della Rivoluzione, schiacciando gli zapatisti di allora, o per mano della Santissima Trinità (i proprietari terrieri che sono allo stesso tempo capi politici del Pri locale e capi militari, come Absalón Castellanos). Ci sono le cause contingenti, come la caduta del prezzo del caffè, che i contadini poveri cacciati sulla montagna dagli allevatori e latifondisti coltivano per aver denaro contante con cui 12 comprare le cose che non possono produrre o fare delle spese indispensabili. E ci sono le cause politiche: l’azione degli ex guerriglieri rifugiatisi nel Chiapas, quella dei preti e catechisti della Teologia della Liberazione e la brutalità e prepotenza dei governatori del Pri, proprietari terrieri e meticci, che disprezzano gli indios. Nella rivoluzione zapatista si unisce una sollevazione indigena, per l’autodeterminazione, il rispetto delle culture e della lingua, l’uguaglianza, la fine della discriminazione razziale, una solleva­ zione dei contadini poveri e sfruttati contro i proprietari terrieri e lo stato di questi, una ribellione democratica e una rivoluzione sociale (la continuità della rivoluzione messicana, interrotta, usurpata, dai burocrati, tecnocrati e borghesi del partito-regime). Le rivendicazioni degli zapatisti si basano, teoricamente, in Hidalgo, Morelos, Zapata, negli eroi politici e sociali del Messico, non in Marx e Lenin o in Mao o Trosky. E sono laiche, non cattoliche, né protestanti, né animiste (anche se nell’Ezln ci sono queste tre componenti principali della popolazione del Chiapas) e anche se, indubbiamente, alcuni quadri importanti si sono formati nella Teologia della Libera­ zione o nei movimenti guerriglieri castristi-maoisti degli anni 70. La forza degli zapatisti si appoggia sul fatto che loro hanno un programma minimo per le donne, per tutte le donne, urbane o rurali, un programma per l’edilizia popolare e l’abitazione, uno degli affittuari, per i lavoratori delle industrie straniere in Messico, per i sindacati e, soprattutto, un programma democratico nazionale: fare rispettare il voto, no alle frodi, no al governo nato dalla frode, governo transitorio e cambiare la legge elettorale per assicurare elezioni pulite. La forza dell’Ezln si basa nell’essere un detonante della rivoluzione democratica nazionale e nelle tradizioni messicane (la Rivoluzione messicana cominciò domandando la fine della frode - suffragio efectivo, no reelección - e si approfondì domandando Tierra y Libertad, con Zapata, che non per caso è l’ispiratore degli zapatisti odierni. Non credono di poter vincere militarmente un esercito molto più forte e meglio armato, ma cercando, con la loro azione militare, di mobilitare la popolazione sul campo politico e sociale, di usare la forza per evitare il ricorso alla forza, per spostare il problema al campo politico, anche elettorale. Hanno un programma democratico, nazionalista rivoluzionario, capace di mobilitare anche una base dell’esercito, di divi­ dere i settori più nazionalisti dei proprietari terrieri, legati al Pri, agenti degli Usa. Hanno un programma di modernizzazione e democratizzazione politica e sociale del Messico che può evitare che la società scoppi in modo incontrollato e, quindi, appare logico anche negli Usa, dove è evidente l’anacronismo del regime e l’isolamento dei tecnocrati che governano alla Profirio Diaz. Per questo l’azione degli zapatisti ha trovato un’ampia eco su scala nazionale, ha rotto il gabinetto di Salinas (dimissione del ministro degli Esteri, Manuel Camacho, per presentarsi come mediatore dopo aver sondato la parte sinistra della Chiesa, dimis­ sione del ministro dellTnterno ed ex governatore del Chiapas, Patrocinio Gonzàlez, allegato del Nunzio Prigione) e ha causato un terremoto politico nel Pri (dimissione del governatore del Chiapas, Etzer, proprietario terriero, assassinio del candidato a presidente del Pri, Luis D. Colosio che voleva separare il Pri dallo stato ed elezioni pulite, esilio dell’eminenza grigia di Salinas de Gortari, il francese José Maria Cordoba, inviato alla Banca internazionale per lo sviluppo). Ha costretto il governo a riconoscere l’esistenza del problema indigeno, creando una Commissione ad hoc, a riconoscere l’Ezln e negoziare con esso, dopo aver tentato lo sterminio militare, l’ha costretto a domandare la mediazione del vescovo Samuel Ruiz, che Prigione ed il ministro dellTnterno volevano mandare in Italia, l’ha costretto ad accettare degli osservatori stranieri per le elezioni nazionali, come domandava l’opposizione, a nominare una commissione di personalità indipendenti per risolvere il caso dell’assassinio di Colosio ed a cambiare la legislazione elettorale, l’ha costretto ad 13 offrire sovvenzioni al prezzo del caffè, crediti, denaro per le scuole indigene e l’abita­ zione popolare del Chiapas, modifiche alla Costituzione per garantire i diritti delle minoranze etniche ed a imporre un governatore indio (Lopez) in quello stato. L’Ezln ha isolato il Partito di azione nazionale (alleato da destra del Pri) costringen­ dolo a separarsi dal governo e ha provocato anche uno spartiacque nel Partito della rivoluzione democratica (Prd) dove è adesso impossibile appoggiare verbalmente gli zapatisti e non fare mobilitazioni, negoziando allo stesso tempo con il governo l’otteni­ mento di posizioni politiche e parlamentari. Per questo l’Ezln ha allargato il campo di azione e di partecipazione di massa collocando le elezioni di agosto in un quadro che superi il controllo dello stato-partito e degli apparati e che impedisca le frodi elettorali simili a quella del 1988. Per questo l’Ezln ha avuto forti ripercussioni negli Usa, ren­ dendo, ancor più evidenti che, a differenza del Centroamerica, il Messico è un proble­ ma interno degli Stati Uniti, e non semplicemente un problema di politica internazio­ nale. I mesi prossimi Se gli zapatisti hanno potuto provocare tutti questi cambiamenti è perché, dal ter­ remoto del 1985, ci sono importanti manifestazioni di autoorganizzazione, di parteci­ pazione popolare, non canalizzate dai partiti ma che esprimono una grande maturità politica e una fame di democrazia, di cambiamento. Questa forza si è espressa nel movimento cardenista nel 1988, che diede la vittoria elettorale a Cuauhtém oc Càrdenas. Il ripudio alla frode (Salinas apparì subito come il presidente della prepo­ tenza dello stato) si è mantenuto, come le mobilitazioni popolari di ogni tipo (per le case, contro i licenziamenti, dei contadini, contro la frode elettorale, ecc.). Gli zapati­ sti, con la loro azione, premono per le elezioni pulite e, quindi, in favore dell’opposi­ zione di sinistra e degli oppositori interni nel Pri e nella Chiesa cattolica. Ma è escluso che i dinosauri militari e civili e i «duri» del governo possano cedere senza combattere. L’assassinio di Colosio mostra la loro durezza. E i proprietari terrie­ ri del Chiapas, inoltre, non vogliono cedere le terre ai contadini e dichiarano soltanto di essere disposti a vendere qualche migliaia di ettari di terre occupate da questi, a caro prezzo pagato dallo stato, intanto si mobilitano, rafforzano la loro alleanza coi dinosau­ ri del Pri, armano le loro guardie bianche. Manca poco alle elezioni di agosto. Se il governo vedesse che la maggioranza degli elettori è disposta a votare, e che l’opposizione di sinistra può vincere, potrebbe tenta­ re un’avventura militare e politica, per rendere impossibili le elezioni tentando lo ster­ minio dell’Ezln. Già adesso Camacho e Samuel Ruiz, i mediatori, agiscono in parte nel vuoto perché non hanno un vero interlocutore governamentale malgrado la volontà zapatista di discutere e di negoziare in pace. E il Nunzio, con l’aiuto del governo, domanda al Vaticano che questo convochi il vescovo Ruiz, per diminuire la pressione democratica nel Chiapas e nel Messico e aprire la strada ad una eventuale via armata in quella regione senza dover pagare politicamente per il possibile assassinio di un vesco­ vo, di fronte all’opinione pubblica messicana, americana e mondiale (specialmente dopo l’assassinio del cardinale Posadas, ancora non chiarito e nel quale è implicato il Nunzio Prigione). Con i mediatori «svalutati» e i dinosauri che mordono il freno, se l’opposizione cre­ sce e l’economia peggiorasse (una svalutazione del peso, una fuga di capitali, una crisi della Borsa potrebbero essere fatali per il governo) è probabile che la tendenza «dura» potrebbe tentare un colpo decisivo contro l’Ezln e contro ogni opposizione, religiosa, politica, sociale, a costo di una possibile divisione dell’esercito e di una possibile guerra 14 civile. Washington mantiene dei contatti con l’opposizione, sostiene anche la politica del male minore (perché non si può permettere una guerra civile nel Messico, ma si potrebbero tentare degli accordi con un governo di Càrdenas) e appoggia una politica di concessioni economiche e democratiche nel Chiapas, ma non sarebbe la prima volta che un governo latinoamericano pensa prima di tutto ai propri interessi e, come Somoza o Stroessner, disubbedisce a Washington. I mesi prossimi, quindi, saranno decisivi. Esclusa una avventura da parte zapatista, quella dei duri e dei dinosauri potrebbe avverarsi nel caso di mobilitazioni importanti, di crescita della rabbia popolare, di crescita e unità dell’opposizione. Il governo, quin­ di, cerca di corrompere e dividere l’opposizione, di scoraggiare i possibili votanti, di ridurre la partecipazione popolare, di mantenere artificialmente alto il tasso di cambio della valuta messicana, di isolare gli zapatisti, di far reprimere dal Vaticano i preti sco­ modi. In questo braccio di ferro non appare ancora un vincitore, anche se il tempo lavora per l’opposizione e per gli zapatisti e costringe il governo a retrocedere passo a passo. Spagna contemporanea S e m e s tr a le d i sto r ia e b ib lio g r a fia p r o m o s s o d a ll’I stitu to d i s t u d i sto r ic i G a e ta n o S a lv e m in i d i T o r in o d ir e tto d a C la u d io V e n z a e A lfo n s o B o tti A b b o n a m e n to a n n u o p er l'Italia £ 45.000; E u r o p a £ 6 0.000; p a e si e x tr a e u r o p e i $ 5 0 . V e r s a m e n to s u c.c.p . n. 1 0 0 9 6 1 5 4 in te s ta to a " E d iz io n i d e ll'O r so sas". V ia P ia c e n z a 66, A le s s a n d r ia , o tr a s fe r im e n to b a n c a r io in te s ta to a llo s t e s s o SIAL Quindicinale di informazione America latina Abbonamento annuo: Italia L. 40.000 Europa L. 50.000 - Altri continenti L. 65.000 C.C.P. n. 10183374, Verona, Via Bacilieri 1/A 15 Mariàtegui in casa di D on Pedro Lopez Aliaga (Lima 1923) in occasione dell’esposizione di pittura italiana. Alla sua destra il giornalista Ladislao Meza, a sini­ stra Emilia Astete. 16 Mauro C asta g n aro El Salvador: quale pace dopo il fiasco del secolo? «Il fiasco del secolo». Così «El Salvador Proceso», bollettino settim anale dell’Università Centroamericana «José Simeon Canas», retta dai gesuiti, maggiore ateneo di San Salvador e massimo centro intellettuale del paese, intitolava l’editoriale del nume­ ro del 23 marzo 1994, il primo dopo lo svolgimento delle consultazioni di tre giorni prima, nelle quali i salvadoregni erano stati chiamati a scegliere presidente e vicepresi­ dente della Repubblica, gli 84 membri dell’Assemblea nazionale, i sindaci dei 262 muni­ cipi della nazione e i 20 deputati al Parlamento Centroamericano. E l’attacco dell’articolo chiariva senza giri di parole, ma con una punta di amaro sarcasmo, le ragioni di un giudi­ zio così perentorio: «Le elezioni del 20 marzo, che gli ingenui ottimisti avevano conside­ rato d’importanza enorme al punto di definirle le elezioni del secolo si sono trasformate in una fiasco enorme. La quantità e la gravità delle irregolarità che si sono verificate diffi­ cilmente consentono di parlare di elezioni libere e limpide. Ancora una volta la dignità del popolo salvadoregno è stata vilipesa dalle autorità che hanno guidato il processo». Eppure non senza motivo si era parlato di «elezioni del secolo». Erano infatti le prime dopo la fine di una guerra civile di 12 anni che aveva provocato 75.000 morti e si era con­ clusa nel 1992 con gli accordi tra governo e Fronte Farabundo Marti per la Liberazione Nazionale (Fmln) che avevano sancito l’avvio della smilitarizzazione e della democratizza­ zione del paese; erano le prime cui potevano partecipare tutte le correnti politiche presen­ ti nel paese, comprese le forze popolari e rivoluzionarie, da sempre costrette alla clandesti­ nità dalla violenza dell’oligarchia, dell’esercito e dei gruppi paramilitari: a destra l’Alleanza repubblicana nazionalista (Arena), coi satelliti Partito di conciliazione nazionale (Pen), storico partito dei militari, e Movimento autentico cristiano (Mac), al centro il Partito democratico cristiano (Pdc) e due partiti «evangelici», il Movimento di solidarietà nazio­ nale (Msn) e il Movimento di unità (Mu), e, a sinistra, sia pur solo per le presidenziali, la Convergenza unita, coalizione tra lTmln, il socialdemocratico Movimento nazional rivolu­ zionario (Mnr) e la Convergenza democratica, divenuta partito dopo la fusione tra Movimento popolare social cristiano, Partito social democratico e gli ex comunisti dell’Unione democratica nazionalista; e avrebbero dovuto essere pure le prime davvero libere della storia salvadoregna, grazie alla predisposizione di meccanismi volti a impedire i brogli, a un’accurata revisione delle liste elettorali che cancellasse «elettori-fantasma» (perché morti o emigrati all’estero) o «elettori doppi/tripli» (perché in possesso dei certifi­ cati elettorali dei primi) e permettesse l’iscrizione di centinaia di migliaia di persone prima private del diritto di voto, e alla supervisione della comunità internazionale, iniziata lo 17 scorso anno dalla Missione delle nazioni unite per El Salvador (Onusal) e destinata a cul­ minare nei giorni delle votazioni con l’arrivo di 900 osservatori designati dalla Onusal e 3.000 personalità indipendenti provenienti da tutto il mondo. La «frode tecnica» Ma proprio la regolarità della consultazione è venuta clamorosamente meno, vanifi­ cando finterò processo, o almeno imprimendovi una grossa ombra: mentre i partiti poli­ tici, il Tribunale supremo elettorale (Tse) e il presidente della Repubblica uscente, Alfredo Cristiani, invitavano con insistenza la popolazione a recarsi alle urne, molti citta­ dini vi rinunciavano dopo aver constatato che avrebbero dovuto rimanere due ore in fila per poter entrare nel seggio; sempre che, naturalmente, non avessero accettato i 30 dolla­ ri offerti in cambio del voto dai militanti dell’Arena impegnati a distribuire adesivi e braccialetti di propaganda; altri, una volta arrivati alla porta scoprivano, scorrendo i fit­ tissimi elenchi appesi all’entrata (una vera impresa, naturalmente, per quel 45% di salva­ doregni che le statistiche ufficiali riconoscono analfabeti!), di non poter votare perché il loro nome non compariva nelle liste elettorali (guarda caso soprattutto nelle zone con­ trollate dall’Fmln durante la guerra civile, come Chalatenango, e questo è successo persi­ no a Francisco Jovel, massimo leader del Partito rivoluzionario dei lavoratori centroame­ ricani e membro del Comando generale dell’Fmln), oppure possedevano un certificato elettorale con dati errati («In oltre 3.000 seggi si sono verificati problemi di questo gene­ re, per un totale che potrebbe aggirarsi sui 25.000 casi», ha dichiarato l’Onusal, ma secondo altre fonti questa cifra potrebbe arrivare a 70.000) o qualcuno aveva già votato al loro posto; peraltro nelle liste non erano state incluse 422.000 persone perché il Tse «non aveva fatto in tempo» a consegnare i certificati elettorali, altre 79.000 perché le autorità municipali (leggasi molti sindaci dell’Arena) non avevano inviato i necessari atte­ stati di nascita, i 70.000 giovani divenuti diciottenni dopo il 20 novembre 1993 e 30.000 non vedenti (in maggioranza invalidi di guerra), esclusi perché «il voto è segreto»; invece vi comparivano ancora circa mezzo milione di cittadini emigrati all’estero o deceduti, alcuni dei più illustri dei quali (dal fondatore dell’Arena, Roberto d’Aubuisson, morto nel 1992, all’ex presidente della Repubblica e leader del Pdc, Napoleón Duarte, scom­ parso nel 1990) avrebbero persino regolarmente votato; tanto nelle campagne come nelle grandi città erano stati predisposti un numero ridotto di seggi, suddividendo gli elettori per ordine alfabetico, per cui essi dovevano recarsi anche molto lontano da casa, mentre gli spostamenti erano ostacolati dalla mancanza di trasporti, che pure il governo si era impegnato a garantire; d’altro canto molti seggi avevano aperto tardi per problemi logicisti e organizzativi, riducendo il già paradossale minuto e mezzo a disposizione per il voto, e alle cinque della sera, ora prevista per la chiusura, gli elettori ancora in attesa di poter votare (oltre 300 solo a Soyapango) sono stati allontanati, contrariamente alle istruzioni date; e, quando, dopo le dieci di sera, il Tse ha iniziato le operazioni di conteggio dei voti, le opposizioni hanno immediatamente denunciato come fosse stato loro impedito l’accesso al centro di calcolo; e quando sono saltati fuori pacchi di schede già votate qual­ cuno è tornato a domandarsi dove fossero finite le 600.000 schede che il Tse aveva dichiarato di avere distrutto per errori di stampa (tra l’altro dopo averle commissionate a una tipografia di proprietà della famiglia del generale Vides Casanova, ex ministro della Difesa implicato nell’assassinio delle 4 suore statunitensi nel 1980). In sostanza, per riprendere la valutazione di “El Salvador Proceso”, «è difficile con­ dividere l’idea secondo cui le attuali elezioni sono accettabili (come le ha definite l'Onusal - n.d.r.) in quanto “più democratiche” che nel passato. Se qualcosa si può con­ dividere è che esse sono state “meno antidemocratiche”, ma non per questo più accetta18 bili». Secco anche il giudizio di Felis Ulloa, coordinatore della Giunta di Vigilanza, che avrebbe dovuto controllare l’attività del Tse, ma che è stata esclusa dalle sale dove avve­ nivano i conteggi: «Dopo aver lottato contro l’impunità nel sistema giudiziario e nelle Forze Armate, ora dobbiamo lottare anche contro l’impunità elettorale». Alla fine su 2.700.000 di aventi diritto, il 45% non ha votato, una percentuale di poco minore a quella registrata alle presidenziali del 1989, svoltesi nel pieno del con­ flitto; di questa almeno il 25% è costituito da persone in realtà recatesi alle urne, ma alle quali le innumerevoli irregolarità («brogli tecnici», li ha definiti l’Fmln, a sottoli­ neare che la frode era stata pianificata dal Tse, e quindi dall’Arena che lo controlla) avevano impedito di deporre la scheda nell’urna. C’è poi il dato squisitamente politico di un astensionismo frutto del disinteresse e della sfiducia di molti salvadoregni nelle elezioni. D ’altro canto le lentezze nell’adempimento degli Accordi di pace, e in qual­ che caso il loro mancato rispetto, specie nel programma di trasferimento delle terre agli ex combattenti, nello spiegamento della Polizia nazionale civile, nell’attuazione delle raccomandazioni della Commissione della verità e nel fallimento del Foro di con­ certazione economica e sociale, avevano generato un forte scetticismo, giacché la popo­ lazione faticava a vedervi un vero strumento di cambiamento e non una mera forma­ lità. Senza contare che la campagna elettorale era stata caratterizzata dall’appoggio quasi totale dei mass media all’Arena, la quale aveva utilizzato per la propaganda di partito denaro (1,5 milioni di dollari) e strutture dello stato, e soprattutto da una san­ guinosa «campagna di terrore» dei più che mai redivivi «squadroni della morte», che avevano fatto in pochi mesi varie decine di vittime, specie tra i militanti della sinistra. I risultati dopo che solo l’intervento dell’Onusal aveva impedito all’Arena di attri­ buirsi la vittoria già al primo turno, assegnavano il 49% all’Arena, il 24,9% alla Convergenza Unita, il 16,4% al Pdc, il 5,4% al Pen, il 2,4% al Mu, 1’1,1 % al Msn e lo 0,8 al Mac. Così l’Arena ha ottenuto 39 seggi all’Assemblea nazionale, che, sommati ai 4 del Pen, gli garantiscono la maggioranza assoluta mentre 21 vanno all’Fmln, 18 al Pdc ed 1 ciascuno al Mu e a una deludente Cd. Le irregolarità sono state, se possibile, anco­ ra maggiori nelle elezioni municipali, tanto che le opposizioni, sottolineando i molti casi in cui la maggioranza era stata ottenuta per pochi voti mentre centinaia di elettori erano impossibilitati a partecipare, hanno impugnato i risultati di 44 comuni; i dati conclusivi assegnano comunque 211 municipi all’Arena, 29 al Pdc, 14 all’Fmln e 8 al Pen. II 24 aprile senza che il Tse avesse posto rimedio alle carenze del primo turno, con ciò favorendo un ulteriore calo della percentuale dei votanti, scesa al 44%, Calderón Sol ha stravinto il ballottaggio col 68,2% contro il 31,7% di Rubén Zamora. Elezioni «storiche»? La portata «storica» di questo appuntamento elettorale, era stato così descritto da Rubén Zamora, candidato presidenziale della coalizione di sinistra: «Gli accordi di Chapultepec hanno aperto tre processi di transizione politica. Il primo è quello dalla guerra, durata 13 anni, alla pace. Il secondo si riferisce al passaggio da un dominio milita­ re sulla politica, iniziato 60 anni fa, alla smilitarizzazione. La terza transizione è quella da una concezione e da un esercizio del potere escludenti, che durano da 200 anni, a una concezione e a un esercizio del potere fondati sulla concertazione. La prima trasmissione è stata completata con successo, giacché il ritorno al conflitto armato è del tutto impro­ babile a breve termine. Nella seconda sono stati compiuti passi molto importanti, come la soppressione dei corpi di sicurezza, il disarmo e la trasformazione della guerriglia in partito politico legale, la creazione della nuova Polizia nazionale civile separata dall’eser­ cito, ma non è stata ancora completata la riduzione e l’epurazione delle forze armate, né 19 lo smantellamento degli «squadroni della morte». La terza, la sola che può garantire la pace a medio termine, è bloccata, come dimostra l’impasse delle istituzioni nate dalle intese e che esprimono una visione del potere basata sul negoziato: il Foro di concerta­ zione economico e sociale, cui oltre all’esecutivo partecipano sindacati e imprenditori, e la Commissione per il consolidamento della pace (Copaz), composta pariteticamente da rappresentanti del governo e dell’opposizione. Proprio per rilanciare questa terza transi­ zione, che la destra non ha fatto propria, sono determinanti le elezioni del 20 marzo. Anche perché, dopo tre anni in cui al centro dell’attenzione del paese ci sono state le tematiche politiche, bisognerà avviare un quarto processo di transizione, quello economico-sociale, il quale, se eluso, lascerà innescata una situazione che resta una bomba a oro­ logeria, perché la guerra aveva le proprie radici in un’ingiusta struttura economica e in un’iniqua distribuzione della ricchezza, che vanno cambiate. In effetti la storia salvadoregna successiva all’indipendenza può essere interpretata come «ascesa e declino di un sistema di dominio». La Repubblica oligarchica L’inizio della dominazione oligarchica in E1 Salvator può essere collocato attorno al 1850, in concomitanza col passaggio da un’agricoltura fondata sulla produzione dell’inda­ co (che avveniva con metodi antiquati e non aveva fatto nascere un gruppo sociale domi­ nante omogeneo) alla monocultura del caffè, che alterò profondamente la struttura econo­ mica del paese sancendo, sul piano interno, l’introduzione di meccanismi propriamente capitalistici, con la liberalizzazione della proprietà fondiaria (previa abolizione degli ejidos e delle terre comunali, presto passati in mani private) e del mercato del lavoro (con l’appa­ rire di una manodopera salariata), e, sul piano esterno, un primo e parziale inserimento dell’economia salvadoregna nel commercio internazionale. La ricchezza derivata dalla produzione caffearia creò le condizioni per la trasformazione di un’aristocrazia semifeuda­ le in borghesia agricola e il nucleo agroesportatore svolse un ruolo decisivo nel consolida­ re un governo davvero nazionale, dando vita alla cosiddetta «repubblica oligarchica». Con la «rivoluzione liberale» del 1870 la crisi del sistema tradizionale giungeva al culmine e nasceva uno Stato capitalista preindustriale, dai trattati marcatamente elitari, giacché il governo non solo era nelle mani di un ristrettissimo numero di famiglie (le convenzionali «quattordici famiglie», che in alcuni periodi non furono in realtà più di due o tre), ma anche perseguiva in via prioritaria gli interessi del gruppo dominante, se necessario al di sopra e in contrasto con quelli nazionali. Le sostanziose entrate garantite dall’agricoltura di esportazione assicurarono la stabilità del sistema fino al 1931, quando il paese fu inve­ stito dagli effetti della «Grande Depressione» del 1929, e in particolare dal crollo del 50% del prezzo internazionale del caffè, aggravato dalle tensioni provocate dalla pressione demografica sul regime di proprietà della terra. Il malcontento, forte soprattutto tra i con­ tadini, portò alla nascita della Federazione regionale dei lavoratori salvadoregni (Frts), fondata nel 1930 dal dirigente comunista Farabundo Marti, il quale guidò l’insurrezione contadina nel 1932, sconfitta solo grazie alla «mattanza» di 30.000 persone compiuta dalle Forze Armate del generale Maximiliano Hernandez Martinez. Il militarismo, rimedio alla crisi di egemonia dell’oligarchia La crisi del 1932 dimostrò quindi che l’oligarchia non poteva più governare da sola: il regime sopravvisse, ma trasformandosi in un sistema di dominazione politica diverso, frutto dell’alleanza tra i tradizionali gruppi economici forti e i militari. Questa assunse 20 inizialmente la forma della «dittatura personalista», dello stesso generale Hernandez Martinez (1932-1944), che varò provvedimenti, come la creazione del Banco centrai de reserva de El Salvador, destinati a riordinare la struttura capitalista del paese, impedendo il fallimento di alcuni imprenditori e bloccando un’ulteriore concentrazione fondiaria; poi, attraverso il golpe de los mayores del 1948, quella della dittatura militare istituziona­ lizzata, dopo che era abortita la transizione alla democrazia avviata in seguito alla rinun­ cia di Hernandez Martinez, costretto a dimettersi dal combinarsi di una rivolta putschista, di uno sciopero generale e delle pressioni degli Stati Uniti. Ebbe inizio un esperimen­ to di «riformismo militare», proclamato più che praticato da un’istituzione castrense, che, pur controllando la società per tre decenni, non arrivò a dominarla e a trasformarsi nel soggetto egemonico capace di prendere il posto di un’oligarchia ancora dotata di suf­ ficiente potere economico per impedire qualunque riforma degna di questo nome. Tra il 1948 e il 1972 il regime, dibattendosi tra riformismo autoritario, populismo e dispotismo reazionario, non riuscì a stipulare un nuovo patto sociale che lo legittimasse né seppe risolvere la crisi di egemonia apertasi con l’ascesa al potere di Hernandez Martinez. Nella prima metà degli anni ‘60 il paese conobbe un rilevante processo di industria­ lizzazione grazie alle possibilità create dal Mercato comune centroamericano, ma la «guerra del calcio» con l’Honduras, decretando la fine del «Mercomun», impedì alla borghesia di rafforzarsi al punto da sfidare l’oligarchia o costruire nuove alleanze sociali coi ceti medi e le classi popolari. Anzi, quando all’inizio degli anni ‘70, anche in seguito alla massiccia emigrazione di ritorno provocata dal conflitto con Tegucigalpa, le condizioni di vita nelle campagne salvadoregne peggiorarono sensibilmente e la tra­ dizionale combinazione di paternalismo, promesse incompiute e repressione cominciò a rivelarsi insufficiente per tenere in soggezione i contadini, il gruppo dominante con­ fermò la capacità di compattarsi per far fronte alla mobilitazione delle classi popolari. La crisi organica del regime militare Così prima solo una gigantesca frode elettorale sconfisse nel 1972 José Napoleón Duarte, candidato presidenziale, dell’Unione nazionale di opposizione, formata, oltre che da un Pdc egemone tra i ceti medi, dal socialdemocratico Mnr e dall’Udn (nata nel 1970 per sostenere quel Francisco Lima, dissidente progressista del Pen, oggi candida­ tosi alla vicepresidenza per la coalizione di sinistra), e portò alla presidenza il colonnel­ lo Arturo Armando Molina. Poi, nel 1975, quando questi, nel tentativo di riconfermare il ruolo autonomo dell’istituzione castrense favorendo la nascita di uno strato di piccoli e medi produttori agricoli, creò, rompendo il tabù della «riforma agraria», l’Istituto salvadoregno di trasformazione agraria (Ista), l’oligarchia costrinse il governo a fare marcia indietro, creando al contempo le condizioni per restaurare la propria suprema­ zia politica. Infatti nel 1977 nuove elezioni disegnate ancora una volta da brogli clamo­ rosi portarono alla presidenza il generale Carlos Humberto Romero, deputato a conso­ lidare, attraverso lo sterminio sistematico degli avversari di classe, un modello di domi­ nio fondato su un autoritarismo esclusivista. Ma la sconfitta elettorale dell’opposizione moderata del 1972 aveva distrutto l’emergente centro politico, dimostrando l’impossi­ bilità di una democratizzazione del sistema per via legale e radicalizzando lo scontro tra un movimento popolare in crescita e un regime militare sempre più delegittimato. Nel 1974 era nato il Fronte di azione popolare unificato (Fapu), nel 1975 il Blocco popolare rivoluzionario (Bpr), nel 1978 le Leghe popolari 28 febbraio (Lp-28) e nel 1979 il Movimento di liberazione popolare (Mlp). Questi «fronti di massa» avevano intrecciato legami, più o meno stretti, con le formazioni guerrigliere - il Bpr con le Forze popolari di liberazione Farabundo Marti (Fpl-Fm), frutto di una scissione del 21 terzinternazionalista Partito comunista salvadoregno (Pcs), di cui criticavano la strate­ gia elettoralista; le Lp-28 con l’Esercito rivoluzionario del popolo (Erp), di matrice fochista, il Fapu con le Forze Armate della resistenza nazionale (Farn), staccatesi dall’Erp dopo l’assassinio del poeta Roque Dalton, e l’Mlp col piccolo Partito rivolu­ zionario dei lavoratori centroamericani - che, nate all’inizio degli anni ‘70, raggiunsero nella seconda metà del decennio dimensioni e capacità militare rilevanti. Sul versante opposto il regime dovette ricorrere a un livello sempre maggiore di violenza per mante­ nersi al potere, l’Organizzazione democratica nazionalista (Orden), l’organismo paramilitare creato alla metà degli anni ‘60 per contrastare l’espansione del movimento bracciantile nelle campagne, divenne una vera milizia di oltre 50.000 uomini in armi e nacquero le Forze armate di liberazione anticomunista di guerra di eliminazione (Falange) e l’Unione guerriera bianca, prototipi degli «squadroni della morte». La «democrazia controinsurrezionale made in Usa» Quando ormai un’insurrezione appariva alle porte, il 15 ottobre 1979 il golpe incruento compiuto da un gruppo di giovani militari depose il generale Romero e insediò una giunta composta da tre prestigiosi esponenti della società civile (Guillermo Ungo, leader dell’Mnr, Ramón Mayorga, ex rettore dell’Università Centroamericana di San Salvador, e Mario Andino, rappresentante dell’ala più moderna dell’impresa privata) e due militari (il colonnello Adolfo Majano, capo della rivolta, e il colonnello Jaime Abdul Gutierrez, personaggio cerniera con la destra militare), con una piattaforma riformista. Ma l’esclusione delle organizzazioni di massa, che costituivano il canale di espressione delle classi popolari e dei contadini privò la Giunta della base di consenso indispensabile per neutralizzare l’ostruzionismo dell’oligarchia e dell’ala reazionaria delle Forze Armate. Così il varo di alcune riforme politiche e sociali venne vanificato dall’escalation della vio­ lenza nei confronti della sinistra e dei movimenti popolari, riunitisi nel Fronte democrati­ co rivoluzionario (Fdr). La ricetta «riforme con repressione», che intendeva intaccare il potere oligarchico e contenere la mobilitazione popolare, mostrava fin dall’inizio la diffi­ coltà a imporsi come strategia «centrista»: la destabilizzazione portata avanti dall’estrema destra aveva ormai aperto la strada alla guerra civile, mentre i militari progressisti veniva­ no progressivamente emarginati. Nonostante i massicci aiuti militari ed economici (8 miliardi in dieci anni) finalizzati a liquidare militarmente il Fmln e a creare una base di consenso a un Pdc fortemente sbilanciato a destra, il progetto di «terza via» promosso e tenuto artificialmente in vita da Washington nel perenne sforzo di armonizzare i proposi­ ti «riformisti» con gli interessi dei gruppi dominanti, consuma il proprio fallimento; l’estrema destra, ottenendo la maggioranza dei seggi nell’Assemblea costituente e poten­ do reggere il governo fino al 1984, riesce prima a congelare la riforma agraria e, quando Duarte diventa presidente nel 1984, a neutralizzare il governo democristiano; questo, d’altro canto, si arrende a un ruolo puramente controinsurrezionale e naufraga inglorio­ samente in un’amministrazione inefficiente e corrotta. Così nel 1989, il Pdc è sonoramen­ te sconfitto dall’Arena: finisce l’epoca delle «riforme con repressione» (che peraltro ave­ vano visto poche riforme e molta repressione) e la classe dominante riprende pienamente e direttamente il controllo dell’apparato dello stato. Gli accordi di pace e la «rivoluzione democratica» Ma proprio l’ascesa alla presidenza di Alfredo Cristiani costituisce il primo tassello di un mosaico che, in meno di due anni porterà alla fine della guerra. L’ex vicepresi22 dente dell’Associazione nazionale dell’impresa privata (Anep) è infatti il rappresentan­ te di una «nuova destra» neoliberale sorta attorno alla Fondazione salvadoregna per lo sviluppo (Fusades) e composta dagli imprenditori rimasti nel paese durante la guerra e da tecnocrati cui i clan dell’oligarchia emigrati a Miami nel 1979 avevano affidato la gestione dei propri affari. Di fatto i grandi capitalisti salvadoregni restano gli stessi del 1979, ma le aziende sono ormai gestite non più come imprese familiari tradizionali, ma come moderne società anonime. La nazionalizzazione delle banche e del commercio estero, insieme alla riforma agraria, hanno favorito la diversificazione produttiva e una trasformazione del sistema finanziario, avvenute con la consulenza della statunitense Agency for international developement (Aid). All’interno della classe dominante salva­ doregna, la parte più moderna e legata al capitale internazionale comincia a guardare con impazienza alla fine delle ostilità, desiderosa di lasciarsi alle spalle un’instabilità politica ormai divenuta un grande handicap nel momento in cui nel mondo si impon­ gono tendenze alla liberalizzazione dei flussi finanziari e commerciali, dai quali il paese rischia di essere emarginato a causa della guerra. E a dimostrare che l’esercito non è in grado di vincerla ci pensa l’Fmln con l’offensiva del novembre del 1989, che convince anche Washington dell’impossibilità di sconfiggere con le armi la guerriglia e apre la strada al negoziato, iniziato, e non a caso, nel marzo del 1990. Nel frattempo, infatti il crollo dei regimi del «socialismo reale» ha chiuso l’epoca della «guerra fredda» e posto al centro delle preoccupazioni statunitensi la rinnovata concorrenza intercapitalistica con l’Europa unita e le emergenti economie del Pacifico asiatico; l’establishment nor­ damericano guarda all’America latina come lo spazio naturale per la formazione del proprio blocco regionale e la pacificazione di El Salvador è per l’amministrazione Bush un passaggio obbligato in vista della creazione di quell’area di libero commercio «dall’Alaska alla Terra del fuoco». Ma il mutamento dello scenario internazionale con­ ferma definitivamente anche la consapevolezza dell’Fmln di dover arrivare rapidamen­ te a una soluzione negoziata del conflitto armato, giacché non solo questo avrebbe potuto durare ancora anni, comportando costi umani elevatissimi e la virtuale distru­ zione del paese, ma senza l’appoggio di una retroguardia costituita dall’ormai defunto «campo socialista» un eventuale governo rivoluzionario non avrebbe potuto resistere alla sicura reazione militare ed economica statunitense, simile a quella che aveva stran­ golato l’esperienza sandinista in Nicaragua portando l’Fsln alla sconfitta elettorale di febbraio. A questi fattori si sommano le sempre più forti pressioni di una società civile coagulatasi attorno alla domanda della pace, delle Chiese e dei principali consessi internazionali. In ultima analisi la fine della guerra costituisce quindi il punto di con­ vergenza tra gli interessi - peraltro ben distinti, quando non contrapposti - dei tre principali attori del conflitto: gli Stati Uniti, l’oligarchia salvadoregna e l’Fmln. Il com­ promesso fotografa fedelmente i rapporti di forza politico-militari e si sostanzia nella definizione di un quadro di garanzie formali e di fatto che permette di spostare la lotta di classe dal terreno militare a quello politico. Non a caso i dirigenti dell’Fmln parlano di «rivoluzione democratica» e sottolineano che «la rivoluzione non è finita». Un futuro pieno di incognite Questa ricostruzione storica, per quanto sommaria, conferma l’analisi dalla quale Zamora partiva per delineare la proposta politica della sinistra salvadoregna: «In El Salvador il potere è sempre stato la linea di divisione tra inclusi ed esclusi nella società e lo strumento con cui l’élite manteneva emarginate le masse, cui restava solo la scelta tra obbedire e subire la repressione. Il sistema era chiuso a forme di cooptazione, compartecipazione o ricambio, la frode elettorale era il meccanismo per assicurare il 23 monopolio del governo alla minoranza e il militarismo era indispensabile alla sua sopravvivenza. La guerra ha messo in crisi e rivelato l’inefficienza di questo modello politico, dimostrando che esso porta alla nascita di un potere militare alternativo in grado di esercitare un veto. Col negoziato di pace lo schema viene rovesciato, perché l’élite riconosce che non può risolvere la crisi senza trattare con l’escluso. Si fa quindi strada una nuova concezione del potere politico come mezzo non di esclusione, ma di inclusione, del governo come strumento non per centralizzare il potere, ma per distri­ buirlo, e della politica non come imposizione, ma come concertazione. Perciò noi intendiamo produrre la concertazione come asse della politica del governo in tutti i campi, a partire dalla costituzione di un esecutivo di ampia coalizione democratica, per applicare la grande lezione della guerra: nessuno, da solo ed escludendo gli altri, può mandare avanti il paese; soltanto tutti insieme e includendo, lo manderemo avan­ ti. Altrettanto concentratrice è stata ed è tuttora l’economia salvadoregna: essa ha fon­ dato il suo dinamismo non sulla maggioranza della popolazione, ma su pochi grandi capitalisti, e ha sviluppato un significativo livello di produzione, ma una ridottissima capacità di distribuire quanto produce. Noi dobbiamo invece passare a un’economia il cui motore sia l’insieme dei salvadoregni e che, conservando la propria capacità produttiva, aumenti quella distributiva. In che modo? Svincolando il governo dallo strato superiore della società, cui finora è stato connesso e al servizio del quale si è posto, e ancorandolo a quel 75% della popolazione che ha redditi bassi o bassissimi, tramite un nuova politica economica e sociale che dia priorità alle piccole e medie imprese, sostenga l’agricoltura e il cooperativismo, investa nei servizi sociali, generi uno sviluppo autonomo delle classi popolari. In queste elezioni, in definitiva, vedre­ mo chi ha davvero vinto il negoziato. E il successo della destra neoliberista non consi­ sterebbe tanto nel liquidare la sinistra, ma nel costringerla a un ruolo subordinato, ridurla a un ‘bonsai’ con cui ornare il giardino di una ‘democrazia’ totalmente orien­ tata verso gli interessi imprenditoriali». In conclusione quindi, gli accordi di Chapultepec hanno posto fine all’agonia di un regime militare già entrato in coma col golpe dei «giovani ufficiali» del 1979 e tenuto artificialmente in vita dagli Stati Uniti per tutti gli anni ‘80. Le elezioni del 20 marzo promettevano di colmare il vuoto di legittimità del potere politico provocato dalla costante e violenta emarginazione delle forze popolari, ma il loro risultato, e più ancora il modo con cui a esso si è giunti, riempiono di incognite il futuro di E1 Salvador: non solo, infatti, le riforme sociali necessarie a sradicare le cause della guerra civile dovran­ no ancora attendere, in forse sono anche il completamento dell’applicazione degli accordi di pace e le condizioni minime del processo di democratizzazione. Anche se Calderón Sol si è detto disponibile a esaminare l’agenda per la concertazione nazionale presentatagli dai dirigenti della sinistra, i rischi di ulteriore restrizione di spazi di libertà ancora molto limitati, di incancrenimento delle violazioni dei diritti umani, di rilancio del militarismo, appaiono molto forti, giacché il neopresidente rappresenta il settore «duro» dell’Arena, quello più ferocemente anticomunista e contiguo agli «squadroni della morte» (nelle cui attività il «New York Times», citando documenti del Dipartimento di stato, lo ha esplicitamente coinvolto), nutre un’autentica venera­ zione per il maggiore Roberto d ’Abuisson, mandante riconosciuto dell’assassinio di mons. Romero, e ha festeggiato la vittoria cantando l’inno «arenerò»: «El Salvador sarà la tomba dei rossi». Il superamento del tradizionale sistema di dominio che si prolunga da oltre un secolo certo appare rinviato a tempo indeterminato, ma anche il governo di Calderón Sol, che per di più rappresenta i segmenti più arretrati dell’oligarchia (in par­ ticolare i medi produttori del settore agrozootecnico), penalizzati durante la presiden­ za di Cristiani a vantaggio di quelli tecnocratici e modernizzanti, può sperare di risol­ vere la crisi di egemonia che dura dal 1932 senza creare un nuovo blocco sociale. 24 Spetterà all’opposizione, e principalmente alla sinistra impedire una sorta di «coopta­ zione subalterna» di parti di ceti medi e classi popolari. E probabilmente il primo test riguarderà, ancora una volta, un problema di terre, quelle da assegnare a 7.500 ex guerriglieri, 15.000 soldati messi a riposo e 25.000 braccianti che durante la guerra ave­ vano occupato proprietà abbandonate dai latifondisti. E la questione agraria, autentico «filo rosso» della storia salvadoregna, non si esaurisce qui, giacché i contadini senza terra sono ancora 200.000. la situazione è eccellente cominciamo da capo GIANO/RICERCHE PER LA PACE Rivista quadrimestrale Direttore: L. Cortesi, via Fregene 10, 00183 Roma Abbonamento annuo L. 48.000 - Versamenti: Edizioni Cuen 80135 Napoli, P.le Tecchio, 80 - c.c.p. n. 19932805 è uscito il n. l-2 /'9 4 a sinistra LABORATORIO PER L'ALTERNATIVA SOCIALE E POLITICA Costitutente, perché no? Giuseppe Prestipino Un decennio di lotta per i dirit­ ti dei popoli indigeni Giulio Girardi G7 a Napoli: la disoccupazione ha toc­ cato il vertice Giovanni Russo Spena D ossier/Crisi dello S ta to -n a zio ­ ne e n u o v o in t e r n a z io n a lis m o Jervolino, Vecchi, M e cca rie llo , Castagnola, Clementi, Broncia, Pinto, Orlando abbonari "a sinistra" costa solo 5 0 .0 0 0 lire da versare sul CCP N . 6 1 8 1 6 0 0 5 intestato a: G iovanni Lisi, via. B. M a rlia n o 4 , 0 0 1 6 2 Roma 25 Foto inedita, opera di José Malanca, Lima, 1929. 26 Jairo A gudelo Taborda Colombia, congiuntura pre-elettorale Il processo di democratizzazione in Colombia cammina su due binari che sembra­ no distanziarsi sempre di più: da una parte il risanamento strutturale dell’economia parzialmente riuscito con un altissimo costo sociale pagato daU’80% dei 28 milioni di colombiani e, dall’altra, sempre più ristretti spazi democratici di partecipazione politi­ ca malgrado le riforme formali ed istituzionali compiute di recente. La decade del ‘90 sembrava promettente per questo paese andino-caraibico. Si voleva lasciare alle spalle il pesante bilancio economico e di costo di vite umane che avevano segnato gli anni ‘80. C’erano non pochi segnali di speranza: la riuscita degli accordi i pace tra la guerriglia ed il governo che generava la nascita di nuovi partiti e di un vasto movimento di convergenza delle opposizioni attorno all’Alleanza democratica M-19 condotta da Carlos Pizarro. L’Ad-M19 veniva a sommarsi all’Unione patriottica bersaglio privilegiato dei gruppi paramilitari di destra. La campagna elettorale per le presidenziali del ‘90 aveva lasciato sull’arena dei fuori combattimento tre candidati dell’opposizione uccisi: Galàn (ala dissidente del Partito liberale), Jaramillo (Unione patriottica) e Pizarro (Ad-M19). Il neopresidente César Gaviria del PI aveva avuto il 49,9% dei voti contro il 24,9% del Movimento di salvezza nazionale (Msn), nuovo secondo partito. Con l’uccisione di Pizarro l’Ad-M19 aveva mandato in campo come candidato l’ideo­ logo Antonio Navarro Wolff (reduce di diversi attentati paramilitari) che otteneva il 13,2%, collocandosi come terzo partito e dando il colpo di grazia al tradizionale biparti­ tismo tra il PI e il Partido social conservador che raggiungeva solo il 12,9% dei voti. Erano dei risultati senza precedenti nella storia colombiana se si tiene conto che in simultanea con le presidenziali c’era stata una consultazione plebiscitaria sull’avvia­ mento di un’assemblea costituente con un 90% per il Si. Così il 9 dicembre del ‘90 si andava all’elezione della quota di rappresentanza popolare per l’Assemblea Costituente che da la maggioranza relativa all’Ad-M l9 (27%) con una vasta presenza di settori delle minoranze etniche. Nel frattempo si giungeva a due accordi di pace con il Partido revolucionario de los trabajadores (Prt) e con YEjercito popular de liberación (Epl). Filosofo colombiano 27 Il processo di pacificazione si rinforzava ed ormai si cominciava a parlare della «Primavera colombiana» soprattutto al momento della proclamazione della Nuova Costituzione a giugno del ‘91. La nuova Costituzione politica colombiana definiva, per la prima volta, il paese come nazionale multietnica con il conseguente riconoscimento dei diritti alla proprietà collettiva della terra, al multilinguismo. Oltre al riconoscimento, quanto meno in linea di principio, anche i diritti umani acquistavano la figura del Defensor del pueblo, garan­ te dei diritti civili in un paese in cui la sparizione era diventata pratica alla stregua dei più accaniti regimi dittatoriali sudamericani degli anni ‘80. Parallelamente, un altro dialogo guadagnava terreno sebbene molto timidamente. Era quello delle trattative con il Cartello di Medellin che porterebbe poi Pablo Escobar a costituirsi tramite un accordo tacito non molto chiaro a livello di implicanze etico-giu­ ridiche, che comunque serviva ad attenuare la narcoviolenza di una guerra che tanto stava costando in vite umane ed in risorse economiche con il beneplacito degli Usa e dell’Europa. La lotta al narcotraffico era ormai diventata dall’89 la nuova bandiera da sventolare in sostituzione alla sistematica paura nei confronti del comuniSmo. L’invasio­ ne del Panama ed il vertice sulla droga a Cartagena avevano inaugurato l’interesse geo­ politico americano degli anni ‘90 in questa zona. Traduzione: militarizzazione attraverso la Dea. Non è un caso che il 9 gennaio il presidente Gaviria sia stato accusato dal Consiglio di Stato di aver violato la Costituzione del ‘91 (da lui stesso promulgata). Il Consiglio ha chiesto alla Camera dei deputati di indagare sulla massiccia presenza di militari nordamericani che negli ultimi mesi sono arrivati alla costa pacifica (Juanchaco) ed al Nordovest del paese. Gli analisti parlano di uno scambio di favori tra il governo Usa ed il presidente Gaviria mirato alla sua elezione come nuovo Segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), che si traduce in una forte pressione da parte degli Usa affinché il governo colombiano combatta con ogni mezzo e ad ogni costo il cartello di Cali. La risposta del presidente all’accusa di violazione della Costituzione si riduceva ad un invito a preoccuparsi di questioni più importanti come la nuova fonte di ricchezza generata dalla scoperta e lo sfruttamento dei nuovi pozzi di petrolio di Cusiana e Cupiagua. Va ricordato che è tuttora in vigore l’accordo «regalias» che concede alle multinazionali americane tutti i diritti e vantaggi dello sfruttamento dei pozzi petroliferi colombiani, ragione per cui il radicalismo guerrigliero non scende a patti se prima non viene revisionato e ridimensionato tale accordo. Quale primavera? Era durata poco la «primavera colombiana». Il ‘92 tornava ad essere come l’89 quando la guerra sporca aveva toccato il fondo. Gli stessi bersagli: indigeni, sindacali­ sti, sacerdoti progressisti, nuovi partiti politici, intellettuali. Il ritorno di Garcia Màrquez al paese apriva un nuovo discorso nell’ambito della sinistra colombiana ma i radicalismi lasciavano poco spazio alla real politique. Pochi intellettuali rientravano e tanti continuavano ad andarsene. L’incrocio delle violenze, a cominciare da quella politica, faceva salire dell’8% (da 25.100 a 27.000) rispetto al ‘91 il bilancio di morti violente durante, il ‘92. Il dialogo di pace tra il Coordinamento Guerrigliero Simón Bolivar (Cgsb) che poneva come condi­ zione alle trattative la revisione dell’accordo sul petrolio con le compagnie americane, si arenava definitivamente e Gaviria dichiarava lo “Stato di commozione interna” facoltativo nella Nuova Costituzione dopo l’uccisione di 26 poliziotti ad opera del Cgsb. Il presidente dichiarava anche la guerra integrai alla guerriglia e al narcotraffico indistintamente. 28 Così nel 1993 la Colombia passava ad essere il paese latinoamericano con la mag­ giore spesa militare. Si prevede che per il 1994 ci saranno 30 mila soldati professionisti in più ed un incremento di 510 milioni di dollari per la spesa miliare dei prossimi cin­ que anni. Il bilancio economico del 1993 è stato positivo. La Colombia entra così a far parte dell’elenco dei paesi «miracolati» dal neoliberismo che le permette di essere il primo paese del Sudamerica a chiedere l’ammissione al Nafta (22 febbraio ‘94). Il rapporto della Cepal parla di una crescita economica del 4,5%. Tuttavia questo non incide mini­ mamente sulle condizioni di vita dei colombiani. Ancora una volta l’aumento del sala­ rio minimo mensile (21,09% per decreto) è al di sotto dell’inflazione (22,6%), con la conseguente diminuzione del potere d’acquisto. Così il nuovo salario minimo mensile passa ad essere di 98.700 pesos (120 Us). La spesa sociale è calata ulteriormente passando dal 9,45% del 1992 all’8,2% del Pii nel 1993. Il 1994 Il 1994 colombiano è iniziato all’insegna delle elezioni e quindi con la paura che ciò comporta. Sul calendario ‘94 c’erano le legislative per il 13 marzo, quelle presidenziali il 29 maggio con un eventuale secondo turno il 19 giugno e, infine, le amministrative per il 30 ottobre. Se il 1993 si era chiuso con un tragico bilancio, il 1994 si apriva con dei clamorosi massacri a motivo politico, cioè di quel tipo di violenza che maggiormente incide sul quotidiano vivere e morire dei colombiani. Il Nordovest del paese è stato bersaglio pri­ vilegiato della tradizionale strategia pre-elettorale di eliminazione fisica degli avversari politici per mano sia del terrorismo di destra sia del radicalismo della guerriglia. Basti pensare che nel 1993 si sono verificati nella stessa città (Apartado) 400 uccisioni per motivi politici. Nella stessa zona ha avuto luogo il massacro di 33 contadini simpatiz­ zanti dell’Epl (Speranza, Pace e Libertà) partito sorto dai recenti accordi di pace con il governo. I dati ufficiali pubblicati dal Procuratore generale della nazione alla vigilia della Conferenza mondiale dei diritti umani a Vienna (giugno ‘93) parlano di una media annua di 74 massacri, 402 omicidi, 370 sparizioni, 618 detenzioni arbitrarie. Se si tiene conto che praticamente tutto il 1994 sarà vissuto sotto i tre appuntamenti elettorali, si capisce quanto possa essere delicato il momento politico. II rapporto di Amnesty International 1993, fatto su 161 paesi, colloca La Colombia come: - uno dei 110 paesi in cui si pratica la tortura, - uno dei 45 paesi che vede membri dell’esercito coinvolti in esecuzioni sommarie, - uno dei 25 in cui si verifica il fenomeno dei desaparecidos, - uno dei 40 in cui si attaccano gli indigeni e le minoranze etniche e sociali, - uno dei 50 in cui si violano i diritti dei bambini e si pratica l’eliminazione degli «indesiderabili», cioè, presunti delinquenti ed omosessuali. Secondo il rapporto del Consigliere presidenziale per i diritti umani a tutt’oggi ci sono 805 casi di denuncia contro lo stato colombiano per via extra-convenzionale pres­ so le Nazioni Unite. Il gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate ha presentato 45 casi per via ordinaria e 42 per via d’urgenza. Già la Missione Seta del Consiglio d’Europa aveva denunciato nel gennaio ‘93 tale situazione e faceva un appello alla comunità internazionale perché dedicasse maggiore attenzione al tema dei diritti umani. Lo stato colombiano ha dovuto 29 rispondere alla Corte interamericana dei diritti umani per i casi di sparizione di Isidro Caballero e Carmen Santana. In qualche modo però la situazione colombiana ha avuto eco a livello internaziona­ le. Sono parecchi i rapporti presentati da diversi organismi internazionali: - «La guerra nascosta» da una delegazione delle Chiese britanniche. - «La violenza continua» da Americas Watch degli Usa. - «Il terrorismo di stato in Colombia» da 10 Ong internazionali. - Rapporti specifici presentati alla Commissione di Du dell’Onu e dell’Osa. - Rapporto presentato dalle Ong colombiane alla Conferenza di Vienna (giugno ‘93). Le legislative: astensionismo, bipartitismo e continuismo Sono i tre fatti che hanno caratterizzato le elezioni legislative del 13 marzo. L’asten­ sionismo ha raggiunto il 70% degli 8 milioni di aventi diritto al voto. Il 46% dei votan­ ti ha premiato il Partito di Governo, cioè il PI (Partito liberare di tendenza socialdemo­ cratica) dell’attuale presidente César Gaviria. Nonostante il negativo bilancio democra­ tico già accennato, il PI fa leva, da una parte, sulla ferma lotta al narcotraffico che ha come bandiera la sconfitta di Pablo Escobar e, dall’altra, il miglioramento dell’econo­ mia nazionale con un aumento del reddito pro capite dello 0,9% in più rispetto al 1992 (Cepal ‘93). Collocandosi al secondo posto con il 20% dei voti il Partido social conservador (Psc) torna ad essere la seconda forza politica del paese, posizione che aveva perso alle presidenziali del ‘90 sorpassato dal Movimento di Salvezza nazionale (Msn di destra) e dall’Alleanza democratica 19 aprile (Adm-19 di sinistra e sorto dagli accordi di pace). Con il ripristino del bipartitismo la sinistra perde 8 dei 9 seggi al senato conquistati nelle legislative del ‘91. Verso le presidenziali In simultanea con le legislative il PI sceglieva il candidato unico alle presidenziali risultando ampiamente vincitore con il 48% delle preferenze Ernesto Samper Pizano della stessa scuola politica di Gaviria. Samper avrà come massimo concorrente il giova­ ne candidato del Psc Andrés Pastrana Arango già sindaco di Bogotà e ritenuto il migliore dei sindaci avuti dalla capitale, figlio dell’ex-presidente conservatore Misael Pastrana Borrero. Fino al 20 aprile 1994 si erano iscritte 18 «formule», nome dato al gruppo costitui­ to dal partito, candidato alla presidenza e candidato alla vice-presidenza. Il panorama va dal partito ecologico al Fronte morale. Navarro Wolff si presenta con il movimento Compromiso Colombia con il probabile appoggio della neonata Corriente de Renovación Socialista (Crs) dagli accordi di pace del 3 aprile. I pronostici favoriscono il candidato del PI, Samper Pizano che dopo la retrocessio­ ne dell’Ad-M19 raccoglierà non pochi voti da diverse aree di sinistra. Se si dovesse andare al ballottaggio si prevede che le alleanze dovrebbero favorirlo ulteriormente. Per quanto riguarda i Partiti politici la Nuova Costituzione all’art. 108 prevede la loro personalità giuridica e afferma che «in nessun caso la legge potrà stabilire esigenze relative all’organizzazione interna né dei diritti né dei movimenti politici, tantomeno obbligare alla loro adesione ai fini elettorali». Per essere riconosciuto dal Consiglio nazionale elettorale ed ottenere dunque per­ sonalità giuridica, ogni partito deve avere un minimo di 50.000 adesioni oppure aver 30 ottenuto alle precedenti elezioni legislative non meno di 50.000 voti e quindi esserne rappresentato. Ogni partito dovrà comunque dotarsi di simbolo, colore e statuto. Un progetto di legge del governo prevede la creazione di un Fondo nazionale di finanzia­ mento dei partiti e delle campagne elettorali. Il Fondo sarebbe costituito da due fonti principali: il governo nazionale contribuirebbe con 100 pesos (L. 200) ogni anno per ogni persona iscritta al censimento elettorale, destinato al finanziamento dei partiti; per finanziare le campagne presidenziali lo stato rimborserebbe 400 pesos (L. 800) per ogni voto valido ottenuto dal partito e per le legislative il rimborso sarebbe di 350 pesos (L. 700) per ogni voto valido. Di questo progetto non fanno parte le amministra­ tive. Viene limitato il contributo dei privati e si prevede il dovere di richiesta di auto­ rizzazione per aprire linee di credito per partiti e movimenti politici. La riforma elettorale ha provocato non poche confusioni tra gli elettori. Per le legi­ slative sono state introdotte le liste uniche per il Senato e liste separate per le minoran­ ze per eleggere i due senatori (totale 102) e due deputati (totale 163) a loro garantiti. Nell’attuale contesto politico e pre-elettorale bisogna dare atto agli appelli emanati da alcuni settori della Chiesa cattolica e dalla Conferenza episcopale a «non uccidere» ed al protagonismo civile per la pace proclamato dalle otto diocesi delle zone più col­ pite dalla violenza attorno al movimento «sconfiggiamo la guerra». In un paragrafo del testo del messaggio della Conferenza Episcopale Colombiana (13 luglio 1993) si legge: «Il governo nazionale, deve mantenere la più nobile tradizione giuridica del paese rispettando i solenni patti internazionali il cui adem pim ento è assicurato dalla Convenzione di Vienna sottoscritta dalla Colombia» (Sial 18-31 dicembre 1993). La persecuzione di cui sono oggetto Mons. Nel Beltran già mediatore dei dialoghi di pace e Mons. Sema testimoniano la crescita dell’impegno di settori della Chiesa gerarchica nel processo di democratizzazione che stenta a decollare in Colombia. D ’altra parte l’Organizzazione nazionale indigena colombiana (Onic) sta vivendo un processo di potenziamento della capacità organizzativa nonostante i permanenti attac­ chi subiti dalle comunità indigene. Composizione del Senato dopo le legislative del 13 marzo 1994: Partido liberal Partido social conservador Indipendenti Movimenti Religiosi Minoranze 57 senatori 23 senatori 18 senatori 2 senatori 2 senatori Totale 102 senatori 31 P e r u n e rro re tip o g rafico q u esto foglio sostituisce in te g ralm e n te la pag. 32 Formule (partiti) iscritte per le presidenziali del 29 maggio 1994 (aggiornato al 20 aprile 1994) Fi. Movimiento de Orientación Ecològica: P. Guillermo Alemàn; V. José V. Molano F2. Movimiento nacional progresista: P. Luis E. Rodriguez Orejuela; V. Plinio Lopez Aponte F3. Compromiso civico cristiano C-4: P. José A. Cortes H.; V. Stella Torres Rubio F4. Erent e moral: P.José Galat; V. Manuel N. Rodriguez F5. Partido Social Conservador: P. Andrés Pastrana Arango; V. Luis F. Ramirez Acuna F6. Alternativa democràtica nacional: P. Enrique Parejo Gonzalez; V. Ruben Dario Utria G. F7. Jega (Movimiento Jorge Elécier Gaitàn): P. Gloria Gaitan; V. Victor Mieles F8. Movimiento Cristiano Indipendiente: P. Doris de Castro; V. William Cifuentes Garcia F9. Crea - No alla guerra: P. Efrain Torres Plazas; V. Luis Alberto Barbosa FIO. Partido liberal colombiano: P. Ernesto Samper Pizano; V. Flumberto de la Calle Fll. Organización para la Paz nacional: P. Jorge Guillermo Barbosa; V. Silvino Yate Felix F12. Convergencia nacional: P. Alberto Mendoza Orales; V. Antonio Puentes Rodriguez F13. Somos Libres: P. Oscar Rojas Masso; V. Luis Alberto Arias Pelaez F14. Cgt Cristiano: P. Mario Diezgranados Llinas; V. Juan Ramón Gonzalez F15. Concertación civica nacional: P. Miguel Alfredo Maza Marquez; V. José Ignacio Romero Reyes F i6. Protestemos: P. Miguel Antonio Zamora: V. José Ignacio Romero R. F17. Compromiso Colombia: P. Antonio Navarro Wolf; V. Jesus E. Panaque A. F i8 Movimiento unitario metapolitico: P. Regina Betancourt de Liska; V. Jesus E. Avila (Fonte: Registraduria nacional del estado civil, 20 aprile 1994 Bogota) Roma 12 maggio 1994 32 Pietro Vulpiani Rivendicazione etnica e neonazionalismi in Bolivia Nello studio delle culture amerindiane e dei movimenti politici che ne rappresenta­ no le istanze, è necessario adottare un approccio in grado di evidenziare la fitta rete di legami diretti e indiretti che le mantiene in continuo contatto con il contesto nazionale e internazionale. I legami con il mondo esterno condizionano infatti i movimenti indi­ geni, le loro forme di protesta politica, il linguaggio utilizzato nelle rivendicazioni etni­ che. Questa influenza delle dinamiche esterne di trasformazione risale già ai primi con­ tatti culturali tra i gruppi etnici amerindiani e i conquistadores europei. Il regime di dominazione del sistema coloniale e, successivamente, statale, nei confronti dei gruppi etnici amerindiani, ha inesorabilmente modificato le originarie culture dominate. Una analisi della tradizione e della continuità con il passato è perciò estremamente debole se non accompagnata dalle differenze imposte e nate dalla conflittualità del confronto culturale. Le forme di resistenza indigena e le rivendicazioni etniche diventano in que­ sta prospettiva un ottimo campo d ’osservazione della conflittualità emergente dalla relazione Stato-società native, in contesti caratterizzati da una politica indigenista for­ temente discriminatoria. In Messico, Guatemala, Ecuador, Perù, Bolivia, sono numerosi i movimenti sociali caratterizzati da rivendicazioni di tipo etnico, e le organizzazioni etno-politiche, che nelle loro linee programmatiche assumono come centrale la salvaguardia o il recupero della propria identità culturale. Si tratta spesso di risposte differenzialiste esplicite ai tentativi di eliminazione o di neutralizzazione delle diversità culturali perpetrati dalle politiche governative dei vari paesi latinoamericani e dal più sottile ma efficace proces­ so di omologazione dei modelli culturali che la cultura di massa ha sviluppato con la modernizzazione del continente. Comunque, a volte è sufficiente una prima analisi delle attività e delle istanze di questi movimenti indigeni, per comprendere quanto stretto sia il legame tra le realtà culturali da loro rappresentate, ed il mondo esterno, cioè la Nazione-Stato di cui essi fanno parte, e la più generale realtà internazionale che li circonda. Per questo motivo ogni tentativo di comprensione delle specifiche strategie di risposta politica dei gruppi indigeni, implica necessariamente un approccio in grado di contestualizzare l’attuale realtà in cui si esprimono le organizzazioni native, la com­ plessa e continua interazione tra gruppi indigeni, i movimenti politici che li rappresen­ tano e le istituzioni con le quali interagiscono. Per le sue caratteristiche storiche, politiche, economiche, sociali e culturali, la con­ dizione indigena boliviana esprime ampiamente la complessità delle interrelazioni tra 33 la specificità etnico-culturale e la più generale politica indigena nazionale e internazio­ nale. Queste interrelazioni, come vedremo, si esprimono però attraverso forme ambi­ gue, mescolando linguaggio etnico e linguaggio politico, coscienza etnica e coscienza di classe, miti e simboli del passato e «tradizioni inventate». Un breve ma fondamentale riferimento al passato ed una analisi dei più recenti orientamenti politici indigeni boliviani, chiariranno le mie premesse. Rivolte indigene e lotte sindacali La popolazione indigena boliviana rappresenta oltre il 60% della popolazione totale del paese, accanto ad un 70% di popolazione meticcia, secondo l’ultimo censi­ mento nazionale del 1992. All’incirca tre boliviani su quattro continuano a vivere nella regione andina, che copre un terzo della superficie totale della nazione. Nelle pianure del paese sono approssimativamente 37 i gruppi etnici dispersi, dei quali la maggioranza sono numericamente esigui. I gruppi etnici andini, in maggioranza Avmara e Quechua, sono gli eredi degli abitanti del Kollasuyu, l’antica regione meri­ dionale dell’impero incaico o Tawantinsuyu. La fiera consapevolezza di tali origini, ha storicamente spinto Avmara e Quechua ad una resistenza continua nei confronti dei colonizzatori spagnoli. Il problema etnico emerse immediatamente dopo la conquista, con le prime forme di ordinamento coloniale. Nel 1570 il viceré Francisco de Toledo aggruppò la dispersa popolazione nativa in reducciones o villaggi di indios, che avevano la funzione di pro­ durre manodopera quasi-gratuita per lo sfruttamento delle miniere e delle tenute colo­ niali. Le continue migrazioni forzate della popolazione indigena continuarono fino alla seconda metà del diciottesimo secolo, generando un ribaltamento della distribuzione territoriale originaria della popolazione, e una divisione interna tra «indios locali» e «indios forestieri» [Bonilla, 1982:60-61]. Le guerre condotte dalle popolazioni creole per la trasformazione delle antiche colonie spagnole in nazioni indipendenti, portarono all’esclusione delle popolazioni native dal processo di costruzione nazionale. Lo Stato nazionale aveva le sue radici nel moderno Stato europeo, ed era caratteriz­ zato in particolare da: a) monopolio nell'uso legittimo della forza all’interno dei confini territoriali; b) autonomia relativa dagli altri stati; c) graduale sviluppo della cittadinan­ za come forma di appartenenza alla collettività. La egemone società creola aveva come scopo quello di assimilare nella società nazionale la maggioranza della popolazione, di origine indigena, da trasformare in cittadini indifferenziati soggetti alla sovranità del nuovo Stato. Quindi, mentre lo Stato coloniale cercava direttamente di soggiogare le popolazioni indigene con il lavoro, scopo dello Stato nazionale postcoloniale è stato quello di trasformare gli indios in cittadini ottenendo la sovranità sulle loro terre senza dover usare direttamente la forza [Urban e Sherzer, 1991:8-9]. Per questo è forse più comprensibile che le dure e violente insurrezioni spesso spontanee dei secoli passati, siano state sostituite in questo secolo da un diverso tipo di lotta. A partire dalla guerra del Chaco dal 1932 al 1935, la politica indigena si è indiriz­ zata sempre più verso un legame con le organizzazioni operaie e partitiche boliviane. Sono del 1936 i primi due sindacati campesinos, fondati e diretti dal popolo quechua. Inoltre, il Movimiento Nacionalista Revolucionario (Mnr), partito populista fondato nel 1941, e responsabile della Rivoluzione del 1952 che portò alla riforma agraria, al voto universale e alla mobilitazione contadina nei sindacati, aveva elaborato un progetto politico di integrazione nella nazione delle popolazioni del mondo rurale, principal­ mente di origine nativa. L'obiettivo era quello di trasformare l’indio in campesino, inte­ grare gli Avmara e i Quechua nella nazione boliviana [Lebot, 1982:156]. 34 L’unità tra movimento sindacale urbano e minerario e movimenti indigeni, ha caratterizzato fino ad oggi la lotta dei popoli quechua e aymara. Le intrusioni dei parti­ ti, secondo una visione classista, hanno però tentato a volte di subordinare l’indigenocampesino alla classe operaia. I partiti di sinistra consideravano l’indio un campesino che doveva sottomettersi all’avanguardia operaia e ai minatori, mentre gli indios non si identificavano con una sinistra attenta principalmente a tutelare le istanze della classe operaia e del proletariato del mondo urbano [Barre, 1983:111-112]. Ma un dato fon­ damentale da evidenziare consiste nel fatto che il movimento sindacale contadino ha da sempre assunto un simbiotico adattamento con l’organizzazione sociale tradizionale andina. In molte comunità i leader sindacali sono infatti identificabili con le autorità stesse. Il popolo aymara adottò cioè il sindacalismo campesino, amalgamandolo con le sue autorità tradizionali [Cardenas, op. cite. 517]. L’utilizzo del sindacalismo come strumento di rivendicazione e di promozione sociale non è stato però immediato e privo di ostacoli. Dopo la Riforma Agraria del 2 agosto del 1953, che sancì l’espropriazione dei latifondi, la restituzione delle terre alle comunità e l’abolizione dei servizi personali gratuiti, nel corso del Congreso Nacional de Campesinos diretto da funzionari del governo, si procedette alla formazione di sin­ dacati agrari e di una Confederación de Trabajadores Campesinos con due milioni di affiliati. Ma questa organizzazione era imposta dall’alto e non poteva certamente sana­ re i problemi che la Riforma aveva introdotto con la parcellizzazione delle terre confi­ scate ai grandi proprietari1, né rappresentava un mezzo idoneo di rappresentazione e di rivendicazione delle popolazioni indigene. Con l’introduzione del regime dittatoriale di Banzer nel 1971, e con la sua politica di repressione e di controllo verticale imposto al sindacalismo campesino, si sviluppa una attività di resistenza indigena clandestina, che porterà al termine della dittatura alla costituzione di un partito campesino capeg­ giato dall’Aymara Jenaro Flores: il Movimiento Revolucionario Tupac Tatari, con un programma incentrato sulle rivendicazioni culturali ed etniche. Da allora si svilupperà un progetto di lotta caratterizzato da una triplice dimensione, sindacale, politica e cul­ turale [Lebot, op. cite. 158] che si esprimerà attraverso un organismo sindacale indige­ no di opposizione alla confederazione ufficiale, la Confederación Nacional de Trabajadores Campesinos Tupac Tatari, nata nel 1977. Tutti i delegati del paese membri di questa Confederazione, nel corso di un incontro nel 1979, stabilirono l’unità dei campesinos con i lavoratori delle miniere, operai, studenti e maestri del paese raggrup­ pati nella Confederación Obrera Boliviana. Q uesta direzione unificata, diretta dall’Aymara Jenaro Flores, prese il nome di Confederación Sindicai Unica de Trabajadores Campesinos de Bolivia (Csutcb). Il sistema sindacale, che dal 1953 era divenuto espressione del potere centrale, rientra in possesso dei movimenti sociali di origine aymara, che, in polemica con i partiti della sinistra, affiancano alla lotta di clas­ se l’affermazione etnica. Il sindacato diviene così uno strumento di espressione delle istanze della realtà indigena andina, come emerge dalla tesi politica del secondo con­ gresso nazionale della Csutcb del 1983, in cui si riconosce che: «Prima della nascita e adozione del sindacalismo le nostre mobilitazioni si realizzavano, e ancora si realizzano in alcune regioni, sotto le nostre organizzazioni tradizionali, come gli ayllus, cabildos, ecc. Crediamo che queste organizzazioni tradizionali non siano antagonistiche con il sindacato, ma che si complementino» [A.P.D.H.B., 1989:81].1 1 La Riforma agraria del 1953 ebbe un ruolo centrale nel crollo irreversibile dell’oligarchia latifondista, ma le terre confiscate ai proprietari terrieri e restituite ai villaggi, vennero redistri­ buite individualmente. La parcellizzazione dei terreni determinò come effetto imprevisto la disgregazione delYayllu, il reticolo delle relazioni sociali tradizionali andine che lega più famiglie in vincoli di reciprocità economica. 35 L ’Assemblea delle Nazionalità Il Movimiento Revolucionano Tupac Katari de Liberación attraverso il suo leader J. Flores, tenne la direzione della Confederazione dal 1979 al 1983, per poi condividerla fino al 1987 con il Movimiento Camp esilio de Bases in una coalizione bipartitica. Ma la politica di J. Flores, come l'orientamento katarista in generale2, rappresentava una realtà esclusivamente andina ed esprimeva le aspirazioni del movimento aymara, esclu­ dendo del tutto, con un atteggiamento radicalmente andino-centrico, le popolazioni indigene boliviane dell’Amazzonia e delle pianure. Soltanto nel 1987 si giunse a livello sindacale al superamento di una prospettiva esclusivamente andina, quando alla direzione della Confederazione campesina suben­ trò una pluralità di forze, sempre composta da organizzazioni andine, che convocò nella città di Potosì, per il luglio 1988, il I Congresso straordinario della Confederación Sindicai Unica Trabajadores Campesinos de Bolivia. Nel corso del congresso, fu votato un documento in cui la Confederazione si impegnava a promuovere una Assemblea delle Nazionalità, quale organismo istituzionale fondato sul principio del carattere plu­ rinazionale e pluriculturale della Bolivia, in cui avessero riconoscimento giuridico e partecipazione attiva tutti i gruppi etnici del paese, compresi meticci e creoli. Ogni campesino o membro della comunità doveva quindi considerarsi membro di una nazio­ nalità. Nel documento si affermava: «Quando parliamo di comunità, vogliamo dire comunità Aymara, Quechua, Guarani e altre e dobbiamo lottare per il recupero di queste nostre nazionalità» [Calla Ortega, 1989:16], ed ancora: «non siamo proletari, ne classe, ne popolo. Non siamo etnie ma nazioni. Siamo la nazione del KollasuyoTawantinsuyo» [Calla Ortega, 1989:32]. Vengono così poste le premesse per un riconoscimento della pluralità etnica boliviana, anche se ancora all’interno di una centralità della prospettiva etnico-culturale andina, come emerge dall’assimilazione delle decine di popoli presenti nel territorio boliviano nell’unica categoria di «Guarani». All’incontro di Potosì hanno fatto seguito una serie di eventi di notevole importanza nella costituzione di un percorso interetnico comune, condotti dalla Confederazione cam­ pesina insieme con il Consejo Indigena del Oriente Boliviano, (Cidob) organizzazione che dal 1982 raggruppa i gruppi etnici dell’Oriente, del Chaco e dell’Amazzonia boliviana. Dal 1989 al 1990 si sono svolti tre seminari nazionali, finalizzati alla costituzione dell’Assemblea delle Nazionalità [Vulpiani, 1993]. Nello stesso periodo si sono aggiunti altri eventi di grande importanza, ed in particolare, un incontro tra movimenti indigeni nel giugno 1990 e la «Marcia per la dignità e il territorio» realizzata dall’agosto al settembre 1990 dai popoli nativi dell’oriente del paese dall’Amazzonia alla capitale boliviana. Numerosi incontri continuano a caratterizzare questo periodo così ricco e creativo, che ha ormai una rilevanza storica indiscutibile per il futuro delle relazioni interetniche in Bolivia. Linguaggio etnico e linguaggio politico Ciò che va evidenziato è l’inedita convergenza tra i gruppi etnici boliviani intorno alla creazione dell’Assemblea delle Nazionalità, un organo collegiale di carattere rappresentativo-politico che comprenda tutte le realtà indigene del paese. Tutti i gruppi 2 II movimento katarista deve il suo nome a Julian Apasa, leader aymara del diciottesimo secolo, meglio conosciuto come Tupac Katari. Nel 1782 Apasa mantenne sotto assedio il potere coloniale spagnolo della città di La Paz. Ancora oggi la sua figura rappresenta un simbolo di lotta tra i movimenti etnici di liberazione delle Ande boliviane. 36 etnici boliviani acquisirebbero, in qualità di «Nazioni originarie», il diritto di parteci­ pare a tale Assemblea, dotata di una rappresentatività che verrebbe sottratta a partiti e sindacati. L’unità tra popoli e nazioni originarie si articolerebbe nell’indipendenza più totale dalle istituzioni ufficiali, per raggiungere l’autodeterminazione politica in un nuovo stato multinazionale, fondato sul diritto alla diversità culturale. Da questo progetto politico, portato avanti da movimenti con forti basi sociali, si possono desumere vari aspetti inediti della fisionomia delle rivendicazioni indigene. La rivendicazione come strumento politico acquista una rappresentatività interetnica nel momento in cui subordina il linguaggio etnico-culturale al linguaggio politico-sociale. La realizzazione di un’Assemblea composta da rappresentanti di tutti i gruppi etnici boliviani è possibile soltanto attraverso la parziale neutralizzazione delle spinte differenzialiste e separatiste insite soprattutto nelle istanze di alcuni movimenti andini del passato e, recentemente, di gruppi minoritari. Infatti, il linguaggio di lotta usato dai movimenti aymara e dai partiti politici india­ nisti che hanno rappresentato le popolazioni indigene delle Ande boliviane fino alla metà degli anni ‘80, ha fatto largo uso di riferimenti ad un passato pre-ispanico enfatiz­ zato a dismisura, e accompagnato da una simbologia tradizionale condivisa soltanto dalle popolazioni di origine aymara. Miti e simboli erano il supporto per la liberazione india, che esprimeva tra i suoi intenti il ribaltamento dell’ordine sociale ed il ristabili­ mento dell’antico Kollasuyu incaico, con la benedizione di lnti e della Pachamama, le maggiori entità del pantheon aymara. E ’ quanto emergeva, ad esempio, dal manifesto del Partito Indio Boliviano di Fausto Reinaga [1970:105-6]. All’interno del movimento katarista, questo orientamento è riscontrabile nel Movimiento Indio Tupaj Katari, (Mitka) che rifiutando ogni rapporto con il mondo degli «oppressori bianchi», lotta per il ritorno del Tawantinsuyu incaico, visto come un paradiso perduto da riconqui­ stare [Rocha, 1992:260]. C’è poi il caso del movimento katarista rivoluzionario di Ofensiva Roja de Ayllus Tupakataristas, che coniugando pensiero marxista e ideologia indianista, ha come obiettivo l’annientamento del capitalismo occidentale e della bor­ ghesia boliviana attraverso una rivoluzione socialista cruenta che parta dalle comunità andine, e che conduca ad una nuova società basata sull’antica gestione comunitaria della proprietà e della produzione attraverso Yayllu andino. Proseguendo la lotta del settecentesco eroe aymara Tupac Katari, la minoranza di Ofensiva Roja prevede al ter­ mine della rivoluzione la nascita di «stati e nazioni indipendenti di lavoratori Aymara e Quechua, come nei secoli passati, ma ora, in guerra a morte e separati dallo stato bor­ ghese boliviano» [Calla, Ortega, Pinelo, 1989:300]. Il riferimento a Tupac Katari, a sua moglie Bartolina Sisa, e a tutti gli eroi indigeni che si opposero al governo coloniale, è presente anche nei documenti del Movimiento Revolucionario Tupaj Katari (Mrktl), sotto la direzione di Jenaro Flores. Nel corso del citato 1° Congresso straordinario della Csutcb del 1988, nel documento del Mrktl di Flores si affermava: «La nazione andina (Aymara, Quichua, Warani, Chiquitano...) è alla base della ricca molteplicità culturale dell’America latina nell’universo culturale andino; è lì che il vero rispetto della differenza culturale, religiosa e politica giunge alla sua massima espressione e espansione» [Calla, 1989:35]. In questa affermazione si nota un primo riconoscimento di due gruppi etnici dell’Oriente e della regione amazzonica del paese, i Chiquitano, appartenenti alla famiglia linguistica Tupi-Guarani, e gli Ava Guarani. Si tenta però di inglobare gli amazzonici Chiquitano e gli Ava G uarani delle pianure del Chaco all’interno di una non ben definita nazione andina. Inoltre, il documento prosegue mostrando il modello di società che tutti i popoli indigeni dovrebbero contribuire a creare: una società basata sulla «ricostituzione economica dellAyllu, il consolidamento e la difesa dell’organizzazione politica e culturale del potere locale(...) fino alla costitu­ zione della grande Confederazione degli Ayllu delle Comunità; dove i jilakata e i 37 Mallku [Autorità tradizionali della comunità avmara] siano le autorità legittime del nuovo modello sociale» [Calla, 1989:35]. Secondo la visione del Mrktl, in un certo senso «etnocentrica», si propone quindi una sottomissione di tutti i gruppi etnici all’autorità tradizionale avmara e il ruolo andino dell'ayllu come un modello di orga­ nizzazione sociale da imporre anche alle popolazioni delle pianure3. Il linguaggio adottato da questi movimenti avmara, condivisibile soltanto all’interno di un orizzonte culturale andino, e arricchito da una terminologia di carattere politico­ sindacale, impedisce il dialogo con gli altri gruppi etnici boliviani. Al contrario, come si è già accennato, la nuova direzione della Confederazione sindacale campesina nel corso dello stesso 1° Congresso straordinario, con la proposta di un ’Assemblea delle Nazionalità boliviane, ha portato ad una stretta collaborazione con confederazioni indi­ gene dell’Oriente, mostrando perfetta consapevolezza della multietnicità del paese e raggiungendo, non senza opposizioni, il superamento dell’andinocentrismo del passato. Il linguaggio utilizzato, sempre influenzato dalla tradizione di lotta sindacale, è stato però depurato dagli espliciti riferimenti alla cultura avmara, per orientarsi verso obietti­ vi strategici che appartengono alla sfera dei diritti sociali, come il recupero delle terre originarie dei popoli indigeni, la rivalutazione delle forme di organizzazione economica e sociale locali, l’ampliamento dei programmi di educazione bilingue, il rafforzamento dei sistemi sanitari pubblici. Si tratta di obiettivi di lotta in cui tutti i gruppi indigeni possono riconoscersi, in perfetta sintonia con le rivendicazioni dei movimenti e delle confederazioni indigene dell’Oriente e dell’Amazzonia, rappresentative di circa 160.000 persone appartenenti a 29 gruppi etnici diversi, alcuni dei quali in pericolo d’estinzione, e prive di diritti di proprietà sui 931.000 chilometri quadrati di territorio in cui vivono. Tra questi, la Confederazione Indigena dell’Oriente Boliviano (Cidob), che dal 1982 rappresenta gruppi indigeni come i Guarani del sud, gli Ayoreo, i Guarayo e i Chiquitano, da anni rivendica il diritto alla proprietà comunitaria delle terre ancestrali, una richiesta espressa anche attraverso organizzazioni indigene internazionali come la Coica ('Coordinadora de Organizaciones Indigenas de la Cuenca Amazónica), e attraverso l’Organizzazione Intemazionale del Lavoro e le Nazioni Unite. Medesime rivendicazioni sono state portate avanti dalla Subcentrai de Pueblos Indigenas Mojenos del Parque IsidoroSécure, che rappresenta comunità di Yurucare, Mojo, Trinitario e Chiman; dalla Central Indigena de la Region Amazónica de Bolivia, che raccoglie i più esigui gruppi etnici della selva, come gli Araona, i Cavineno, i Chacobo, gli Es Eejja, i Pacaguara, i Tacana e gli Yaninagua; dall'Asamblea del Pueblo Guarani, che rappresenta tutti i Guarani che abitano sul territorio nazionale e che sono distribuiti in tre diversi dipartimenti. L’unione di queste confederazioni interetniche ha permesso di amplificare le richieste estremamente concrete di gruppi a volte troppo esigui per far giungere la propria voce4. La Confederazione Indigena dell’Oriente Boliviano ha avuto un ruolo determinante nel processo di riconosci- 3 Bisogna considerare che l’ayllu, l’unità sociale che raggruppa in un vasto territorio famiglie spesso imparentate tra loro in relazioni di reciprocità economica, è funzionale alla compresenza nella regione andina di piani ecologici diversificati. Il reticolo di gruppi familiari àAPayllu, garantiva a tutti l’accesso alle risorse naturali delle varie nicchie ecologiche andine, dall’allevamento di lama, vigogna e alpaca dell’altipiano, all’allevamento di ovini e la coltivazione di patate, cereali e leguminose nelle valli, alla produzione di coca, caffè, canna da zucchero e frutta dell’area subtropicale. Per la specificità ambientale in cui è sorto, il sistema di reciprocità econo­ mica basato suW'ayllu non è esportabile al di fuori della regione andina. 4 Le rivendicazioni di queste confederazioni hanno recentemente varcato i confini nazionali per porsi all’attenzione del mondo occidentale. Infatti, la necessità di salvaguardare il patrimonio ambientale amazzonico dai pericoli della forestazione e dello sfruttamento minerario e petrolife­ ro, ha condotto il governo boliviano e le Organizzazioni Internazionali per lo Sviluppo ad una 38 mento da parte andina delle «nazionalità» dei bassipiani. Questa confederazione insieme alla Csutcb ha costituito a Corqueamaya nel febbraio 1991 la Commissione di Coordinamento e Organizzazione dell’Assemblea delle Nazionalità, alTintemo della quale è stata stabilita l’unità delle nazioni originarie, rappresentate non solo dalle popolazioni andine, ma anche da quelle amazzoniche, orientali e del Chaco. Questa nuova unità, da allargare ai poveri del paese, siano essi creoli, meticci, operai, disoccupati del mondo urbano o intellettuali progressisti, ha lo scopo esplicito di condurre alla «autodetermina­ zione politica dei nostri popoli; al raggiungimento di una nuova identità e unità nazionale in base al riconoscimento della diversità» [Corqueamaya II, 1991:87]. Al di là dei risultati politici effettivi di questa collaborazione, su un piano di analisi culturale sembra emergere un’inedita identità di carattere sovraetnico, frutto del rico­ noscimento della comune condizione di popolazioni native, e della consapevolezza della necessità di un unitario fronte di risposta interetnico in grado di salvaguardare l’inevitabile processo di integrazione con la società più vasta. Alla nascita di questi nuovi rapporti interculturali non sembrano contribuire moda­ lità di comunicazione caratterizzate da un linguaggio denso di riferimenti al proprio mondo culturale, mentre l’utilizzo di categorie linguistiche proprie della tradizione politica occidentale (come ad esempio l’uso del concetto di nazionalità), insieme a forme e contenuti di rivendicazione non connotabili culturalmente (in quanto inaliena­ bili diritti delle minoranze etniche in una società democratica), ampliano l’impatto delle rivendicazioni e permettono che queste siano comprensibili e condivisibili anche da organizzazioni politiche e istituzionali esterne d’appoggio: le associazioni di operai, minatori, artigiani; le forze politiche indipendenti di sinistra; la chiesa progressista; le Organizzazioni Non Governative nazionali e straniere che collaborano con i movimen­ ti stessi. Si disinnesca così il pericolo di un’esplosione violenta della protesta etnica, mentre la rivendicazione si traduce in spinta vitale e innovativa per la società globale. E ’opportuno comunque sottolineare che il proficuo utilizzo di un linguaggio «moderno» può essere alla base di un indebolimento delle singole identità culturali; questo tuttavia non impedisce alle nuove forme rivendicative di coniugare le varie spe­ cificità culturali con gli universalistici modelli di espressione politica occidentali. In quest’ottica, il progetto di una Assemblea delle Nazionalità, che rappresenta una modalità di rivendicazione estremamente complessa, diretta espressione delle recipro­ che influenze tra sistema culturale e sistema sociale, va considerato come una strategia che aspira a superare la basilare distinzione tra assimilazione, intesa come cancellazio­ ne dei contrasti, e differenziazione, intesa come evidenziazione dei contrasti, per pro­ porsi come una risposta creativa di sintesi socio-culturale. serie di attività di enorme importanza per il futuro delle popolazioni indigene dei bassipiani boli­ viani. L ’United Nations Development Program (Undp), insieme con il governo boliviano, ha avviato un progetto per la promozione dello sviluppo sostenibile e la preservazione culturale e fisica delle popolazioni indigene delle regioni dell’Oriente, del Chaco e dell’Amazzonia boliviana. Il programma, che ha tra i donatori gli Usa, la Cee, la Svezia, l’Ifad ed il W orld Foond Program, rappresenta uno strumento finanziario per lo sviluppo delle popolazioni indigene. In questo clima di inedito interesse del governo nazionale nei confronti delle rivendicazioni indige­ ne, il presidente Jaime Paz Zamora nel 1993 promulga un decreto presidenziale con il quale ha riconosciuto i diritti originari delle popolazioni indigene sui territori da loro occupati ed ha resti­ tuito tre milioni di ettari di terre a vari gruppi etnici della regione amazzonica, dell’Oriente e del Chaco. Le rivendicazioni indigene a cui le popolazioni autoctone non hanno mai avuto risposta, sono state così recuperate dallo Stato nazionale nel momento in cui queste divenivano funzionali alle aspettative ed alle mutate richieste del mondo industrializzato. Per un quadro aggiornato della politica indigenista boliviana dal 1989 al 1993, vedi l’intervista a Wigberto Rivero Pinto, curata da Giulia Della Marina, in «Latinoamerica» 53 (1994): 95-108. 39 Bibliografia Abercrombie T., «To be Indian, to be Bolivian: ‘Ethnic’ and ‘National’ Discourses of Identity, in Urban G. e Sherzer T., Natton-States and Indians in Latin America, University of Texas Press, Austin, 1991:95-130. Albo X., Khitipxtansa Quienes somos?, Cipca, La Paz, 1980. Albo X., Bolivia: cuarenta naciones en una, in «Arinsana», 8, 1987:5-23. A.p.d.h.b. - Asamblea Permanente de los Derechos Humanos de Bolivia y la problematica indigena, in «Arinsana», 10, 1989:78-86. Barre M.C., Ideologlas indigenistas y movimientos indios, Siglo XXI, 1983. Bonilla H., Etnia, region, y la cuestion nacional en el àrea andina, in G.R.A.L., Indianité, Ethnocide, Indigenisme en Amérique Latine, C.N.R.S., Paris, 1982:59-77. 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La versione corretta rima­ ne pertanto L’immaginario letterario, un’identità di frontiera La redazione si scusa inamente con l’autore e con i lettori. 40 L’altro marxismo di José Carlos Mariàtegui Nel corso del 1994 verrà ricordata in tutto il mondo la figura del pensatore e diri­ gente politico peruviano José Carlos Mariàtegui (1894-1930). Il suo richiamo esplicito al marxismo sembrerebbe relegarlo nell’inattualità, soprattutto se si considera la sua morte precoce. Ma per chi non misura i valori culturali sui listini di borsa delle mode, il discorso è completamente diverso. Proprio perché Mariàtegui ha vissuto creativa­ mente il suo rapporto con il marxismo, il suo esempio si ripropone oggi come un epi­ sodio che illumina una possibile storia diversa del marxismo stesso. Nessun saggista latinoamericano ha raggiunto con le sue opere una diffusione che si avvicini a quella dei testi di Mariàtegui. I suoi 7 saggi di interpretazione della realtà peruviana da tempo hanno superato nella tiratura complessiva i due milioni di copie, e sono stati tradotti nelle principali lingue europee, oltre che in cinese e in giapponese. L’interesse intorno alla sua figura, anziché diminuire, cresce di anno in anno e soprattutto diventa più qualificato. È ormai alle spalle - anche se rimangono alcuni residui marginali - l’evocazione pura­ mente retorica del suo nome, piegato alle esigenze politiche più varie e contingenti. Con il contributo decisivo di diversi studiosi, tra i quali vanno ricordati almeno il peru­ viano Alberto Flores Gaiindo e l’argentino José Aricó, si è aperta una nuova stagione di studi, che ha permesso di recuperare in tutta la sua ricchezza l’immagine del grande intellettuale peruviano. Nell’unirsi all’omaggio internazionale «Latinoamerica» ha voluto farlo nel modo che ritiene più adatto al contesto italiano. Nel nostro paese non sono mancati nel pas­ sato contributi di rilievo alla conoscenze di Mariàtegui, dalle segnalazioni pionieristi­ che di Gianni Toti, agli ampi lavori di Ignazio Delogu, Malcom Sylvers, Renato Sandri, Giovanni Casetta. Essi, tuttavia, non hanno mai superato una cerchia relativamente ristretta di lettori. A ciò si aggiunge il fatto che le edizioni dei suoi libri tradotti in ita­ liano sono pressoché scomparse dalle librerie da diversi anni. Per questa ragione abbia­ mo scelto di offrire, per la prima volta in italiano, un’ampia scelta di scritti mariàteguiani che permettesse, pur nella sua parzialità, di formarsi un’idea della ricchezza di motivi che percorrono la sua opera. Delle brevi note intercalate tra i diversi testi, li inquadrano nell’itinerario dell’autore. Alla fine, una cronologia e una bibliografia essenziale forniscono delle indicazioni di base per chi voglia approfondire il tema. Antonio Melis Le traduzioni sono state realizzate dal Laboratorio di Babele, un collettivo formato da studenti e laureati nell’ambito del Corso di Perfezionamento in Traduzione lettera­ ria presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Siena. Il Laboratorio ha curato in passato, tra l’altro, il volume del poeta salvadoregno Roque Dalton, La parola 41 ferita, Roma, Datanews, 1991 e un numero della rivista “Bollettario”, Modena, a. Ili, n. 8-9, maggio-settembre 1992, dedicato alla letteratura del Nicaragua. Alla traduzione dei testi di Mariàtegui hanno collaborato Riccardo Badini, Antonella Cancellier, Hide Carmignani, Elisabetta Fineschi, Natalia Giannoni, Lucia Lorenzini, Antonio Melis, Lia Ogno, Elina Patanè, Maria Antonietta Peccianti, Silvia Poggianti, Stella Soldani, Alessandra Turchi. Dopo il ritorno dal soggiorno europeo, nel marzo 1923, Mariàtegui riprende contatto con il pubblico peruviano attraverso il ciclo di conferenze sulla «Storia della crisi mondiale», tenute presso l'Università Popolare «Manuel Gonzàles Prada». La quindicesima conver­ sazione, del 2 novembre 1923, tocca il tema dell’internazionalizzazione crescente della vita contemporanea, già enunciato nella presentazione dell’iniziativa. Il testo è raccolto nel voi. 8 delle Obras completas, Historia de la crisis mundial. Nazionalismo e internazionalismo In varie delle mie conferenze ho spiegato come ha acquistato solidarietà, come si è uniformata e come si è internazionalizzata, la vita del genere umano. Più esatta­ mente la vita del genere umano occidentale. Tra tutte le nazioni assimilate alla civiltà europea, alla civiltà occidentale, si sono stabiliti vincoli e legami nuovi nella storia dell’umanità. L’internazionalismo non è solamente un ideale; è una realtà storica. L’internazionalismo esiste come ideale perché è la nuova realtà, la realtà nascente. Non è un ideale arbitrario, non è un ideale assurdo di qualche sognatore e di qualche utopista. È quell’ideale che Hegel e Marx definiscono come la nuova e superiore realtà storica che, rinchiusa nelle viscere della realtà attuale, lotta per affermarsi e che fino a quando non è attuata o mentre è in via di attuazione, appare come un’ideale di fronte alla vecchia e decadente realtà. Un grande ideale umano, una grande aspirazione umana non nasce dal cervello né emerge dall’immaginazione di un uomo più o meno geniale. Nasce dalla vita. Emerge dalla realtà storica. E la pre­ sente realtà storica. L’umanità non insegue mai chimere insensate né irragiungibili; l’umanità corre dietro a quegli ideali la cui realizzazione avverte vicina, avverte matu­ ra e possibile. Con l’umanità avviene lo stesso che avviene con l’individuo. L ’indivi­ duo non aspira mai a una cosa assolutamente impossibile. Aspira sempre a una cosa relativamente possibile, una cosa relativamente raggiungibile. Un umile uomo di paese, a meno che non si tratti di un pazzo, non sogna mai l’amore di una principes­ sa né di una plurimilionaria lontana e sconosciuta, sogna invece l'am ore di una ragazza di paese a cui lui possa parlare e che possa convincere. Al bambino che inse-. gue una farfalla può capitare di non afferrarla, di non riuscire mai a prenderla; ma perché corra dietro ad essa è indispensabile che la creda o che la senta relativamente alla sua portata. Se la farfalla se ne va lontano, se il suo volo è molto veloce, il bambi­ no rinuncia alla sua impossibile conquista. Lo stesso è l’atteggiamento dell’umanità di fronte all’ideale. Un ideale capriccioso, un’utopia impossibile, per belli che siano, non commuovono mai le masse. Le masse si emozionano e si appassionano davanti a quella teoria che costituisce una meta vicina, una meta probabile; davanti a quella dottrina che si basa sulla possibilità; davanti a quella dottrina che non è altro che la rivelazione di una nuova realtà in movimento, di una nuova realtà in cammino. Vediamo per esempio come sono apparse le idee socialiste e perché hanno appassio42 nato le masse. Kautsky, quando ancora era un socialista rivoluzionario, insegnava, d’accordo con la storia, che la volontà di realizzare il socialismo nacque dalla crea­ zione della grande industria. Dove prevale la piccola industria l’ideale di chi non possiede nulla non è la socializzazione della proprietà ma l’ottenimento di un poco di proprietà individuale. La piccola industria genera sempre la volontà di conservare la proprietà privata dei mezzi di produzione e non la volontà di socializzare la pro­ prietà e di istituire il socialismo. Questa volontà sorge lì dove la grande industria è sviluppata, dove non vi siano ormai dubbi sulla sua superiorità rispetto alla piccola industria, dove il ritorno alla piccola industria sarebbe un passo indietro, significhe­ rebbe una regressione economica e sociale. La crescita della grande industria, il sor­ gere delle grandi fabbriche uccide la piccola industria, rovina il piccolo artigiano; ma allo stesso tempo crea la possibilità materiale della realizzazione del socialismo e crea, soprattutto, la volontà di portare a termine questa realizzazione. La fabbrica riunisce una grande massa di operai; cinquecento, mille, duemila operai; e genera in questa massa non il desiderio del lavoro individuale e solitario, ma il desiderio dello sfruttamento collettivo e associato di questo strumento di ricchezza. Pensate a come comprende e come sente l’operaio della fabbrica l’ideale sindacale e l’idea collettivi­ sta; e pensate, invece, come la stessa idea è difficilmente comprensibile per il lavora­ tore isolato della piccola officina, per l’operaio isolato che lavora per conto proprio. La coscienza di classe germoglia facilmente nelle grandi masse delle fabbriche e delle vaste contrattazioni; germoglia difficilmente nelle masse disperse dell’artigianato e della piccola industria. Il latifondo industriale e il latifondo agricolo conducono l'operaio prima alla organizzazione per la difesa dei suoi interessi di classe e, dopo, alla volontà di espropriare il latifondo e di sfruttarlo collettivamente. Il socialismo, il sindacalismo, non sono scaturiti così da nessun libro geniale. Sono sorti dalla nuova realtà sociale, dalla nuova realtà economica. E lo stesso accade con l’internazionalismo. Da molti lustri, da quasi un secolo approssimativamente, si osserva nella civiltà europea la tendenza a preparare un’organizzazione internazionale delle nazioni d’occi­ dente. Questa tendenza non ha solo manifestazioni proletarie; ma anche manifestazioni borghesi. Bene, nessuna di queste manifestazioni è stata arbitraria né si è prodotta a caso; è stato sempre, al contrario, il riconoscimento istintivo di un nuovo stato di cose, latente. Il regime borghese, il regime individualista liberò da ogni impaccio gli interessi economici. Il capitalismo, all’interno del regime borghese, non produce per il mercato nazionale; produce per il mercato internazionale. La sua necessità di aumentare ogni giorno di più la produzione lo lancia alla conquista di nuovi mercati. Il suo prodotto, la sua merce non conoscono frontiere; lotta per sorpassare e per assoggettare i confini politici. La concorrenza tra gli industriali è internazionale. Gli industriali, oltre ai mer­ cati, si contendono internazionalmente le materie prime. L ’industria di un paese si rifornisce del carbone, del petrolio, dei minerali di diversi e lontani paesi. In conse­ guenza di questo tessuto internazionale di interessi economici, le grandi banche dell'Europa e degli Stati Uniti risultano delle entità profondamente internazionali e cosmopolite. Queste banche investono capitali in Australia, in India, in Cina, nel Transvaall. La circolazione di capitali, attraverso le banche, è una circolazione interna­ zionale. Il finanziere inglese che deposita il suo denaro in una banca di Londra ignora forse dove sarà investito il suo capitale, da dove proviene il suo reddito, il suo dividen­ do. Ignora se la banca destina il suo capitale, per esempio, all’acquisto di azioni della Peruvian Corporation; in questo caso, il finanziere inglese risulta, senza saperlo, com­ proprietario delle ferrovie peruviane. Lo sciopero dei Ferrocarril Central può colpirlo, può diminuire il suo dividendo. Il finanziere inglese lo ignora. Allo stesso modo, l’ope­ raio delle ferrovie, il macchinista peruviano ignorano l’esistenza di questo finanziere 43 inglese, nel cui portafoglio andrà a finire una parte del loro lavoro. Questo esempio, questo caso, ci servono per spiegarci i legami economici, la solidarietà economica della vita internazionale della nostra epoca. E ci servono per spiegarci l’origine dell’interna­ zionalismo borghese e l’origine dell’internazionalismo operaio che è un’origine comu­ ne e opposta allo stesso tempo. Il proprietario di una fabbrica di tessuti dell’Inghilterra ha interesse a dare ai suoi operai un salario minore di quello pagato dal proprietario di una fabbrica di tessuti degli Stati Uniti, affinché la sua merce possa essere venduta più a buon prezzo e in modo vantaggioso e abbondante. E questo fa sì che l’operaio tessile nordamericano abbia interesse al fatto che non venga abbassato il salario dell’operaio tessile inglese. Una diminuzione dei salari nell’industria tessile inglese è una minaccia per l'operaio di Vitarte, per l’operaio di Santa Catalina. In virtù di questi fatti, i lavora­ tori hanno proclamato la loro solidarietà e la loro fratellanza al di sopra delle frontiere e delle nazionalità. I lavoratori hanno visto che quando conducevano una battaglia non era solo contro la classe capitalista del proprio paese, ma anche contro la classe capita­ lista del mondo. Quando gli operai dell’Europa hanno lottato per la conquista della giornata lavorativa di otto ore, hanno lottato non solo per il proletariato europeo ma anche per il proletariato mondiale. A voi, lavoratori del Perù, è stato facile conquistare la legge delle otto ore perché la legge delle otto ore era già in via di attuazione in Europa. Il capitalismo peruviano ha ceduto alle vostre richieste perché sapeva che anche il capitalismo europeo stava cedendo. E, allo stesso modo, naturalmente, non sono indifferenti alla vostra sorte le battaglie che conducono attualmente i lavoratori dell’Europa. Ognuno degli operai che cade in questi momenti sulle strade di Berlino o sulle barricate di Amburgo non cade solo per la causa del proletariato tedesco. Cade anche per la vostra causa, compagni del Perù. E per questo, è per questa constatazione di un fatto storico che da più di mezzo secolo, da quando Marx ed Engels fondarono la Prima Internazionale, le classi lavora­ trici del mondo tendono a creare associazioni di solidarietà internazionale che unisca­ no la loro azione e uniformino il loro ideale. Ma a questo stesso effetto della vita economica moderna non è insensibile, nel campo opposto, la politica capitalista. Il liberalismo borghese, il liberalismo economico che ha consentito agli interessi capitalistici di espandersi, di stabilire contatti e di asso­ ciarsi, al di sopra delle Nazioni e delle frontiere, ha dovuto per forza includere nel suo programma il libero scambio. Il libero scambio, la teoria del libero scambio corrisponde a una necessità profonda e concreta di un periodo della produzione capitalistica. Che cos’è il libero scambio? Il libero scambio, la libera circolazione, è il libero commercio delle merci attraverso tutte le frontiere di tutti i paesi. Tra le nazioni non esistono solo frontiere politiche, frontiere geografiche. Esistono anche frontiere economiche. Queste frontiere economiche sono le dogane. Le dogane che, all’entrata nel paese, gravano sulla merce con un’imposta. Il libero scambio pretende di abbattere queste frontiere econo­ miche, di abbattere le dogane, di esentare da tasse il libero passaggio delle merci in tutti i paesi. In questo periodo di apogeo della teoria del libero scambio la borghesia è stata, in conclusione, eminentemente internazionalista. Qual’era la causa del suo libero scam­ bio e la causa del suo internazionalismo? Era la necessità economica, la necessità com­ merciale dell’industria di espandersi liberamente nel mondo. Il capitalismo di alcuni paesi molto sviluppati economicamente trovava un impedimento alla sua espansione nelle frontiere economiche e pretendeva di abbatterle. Questo capitalismo basato sul libero scambio che naturalmente non comprende tutto il campo capitalista ma solo una parte di questo, fu anche pacifista. Sosteneva la pace e il disarmo, perché vedeva nella guerra un elemento di disordine e di turbamento della produzione. Il liberoscambismo era un’offensiva del capitalismo^ britannico, il più sviluppato del mondo, il più preparato a concorrere con i capitalismi rivali. In realtà, il capitalismo non poteva fare a meno di 44 essere internazionalista perché il capitalismo è per natura e per necessità imperialista. Il capitalismo crea un nuovo tipo di conflitti storici e di conflitti bellici. Conflitti non tra le nazioni, non tra le razze, non tra le nazionalità antagoniste, ma conflitti tra blocchi, tra i conglomerati di interessi economici e industriali. Questo confitto tra due capitalismi rivali, quello britannico e quello tedesco, ha condotto il mondo all’ultima grande guerra. E da questa, come già ho avuto occasione di spiegarvi, la società borghese è uscita profondamente minata e indebolita, proprio a causa del contrasto tra le passioni nazio­ naliste dei popoli, che li separano e li rendono nemici, e la necessità della collaborazio­ ne, della solidarietà e della amnistia reciproca tra di essi, come unico mezzo per una comune ricostruzione. La crisi capitalista, in uno dei suoi aspetti principali, risiede pro­ prio in questo: nella contraddizione della politica della società capitalista con l’econo­ mia della società capitalista. Nella società attuale la politica e l’economia hanno smesso di coincidere, hanno smesso di andare d’accordo. La politica della società attuale è nazionalista; la sua economia è internazionalista. Lo Stato borghese è costruito su una base nazionale; l’economia borghese ha bisogno di poggiare su di una base internazio­ nale. Lo Stato borghese ha educato l’uomo al culto della nazionalità, lo ha contagiato di avversioni e di differenza e anche di odio verso le altre nazionalità; l’economia borghese ha bisogno, invece, di accordi e di intesa tra nazionalità diverse e anche nemiche. L’inse­ gnamento tradizionalmente nazionalista dello Stato Borghese, eccitato e stimolato nel periodo della guerra, ha creato, soprattutto nella classe media, uno stato d ’animo inten­ samente nazionalista. E adesso è questo stato d’animo ciò che impedisce che le nazioni europee si mettano d’accordo e si coordinino intorno a un programma comune di rico­ struzione dell’economia capitalista. Questa contraddizione tra la struttura politica del regime capitalista e la sua struttura economica è il sintomo più profondo, più eloquen­ te della decadenza e della dissoluzione di questo ordine sociale. E anche la rivelazione, o meglio la conferma del fatto che la vecchia organizzazione politica della società non può sussistere perché all’interno dei suoi modelli, all’intemo delle sue forme rigida­ mente nazionaliste non possono prosperare, non possono svilupparsi le nuove tenden­ ze economiche e produttive del mondo, la cui caratteristica è l’internazionalismo. Questo ordine sociale è in declino e decade perché ormai dentro ad esso non trova spazio l’espansione delle forze economiche e produttive del mondo. Queste forze eco­ nomiche e produttive aspirano a un’organizzazione internazionale che consenta il loro sviluppo, la loro circolazione e la loro crescita. Questa organizzazione internazionale non può essere capitalista perché lo Stato capitalista, senza rinnegare la sua struttura, senza rinnegare la sua origine, non può smettere di essere Stato nazionalista. Ma questa incapacità della società capitalista e individualista a trasformarsi, in armo­ nia con le necessità internazionali dell’economia, non impedisce che appaiano in essa dei segnali preliminari di un’organizzazione internazionale dell’umanità. All’interno del regime borghese, nazionalista e sciovinista, che allontana i popoli e li rende nemici, si tesse una fitta rete di solidarietà internazionale che prepara il futuro dell’umanità. La borghesia stessa non può astenersi dal creare con le sue mani organismi e istituti internazionali che attenuino la rigidità della sua teoria e della sua pratica nazionalista. Abbiamo visto così apparire la Società delle Nazioni. La Società delle Nazioni, come ho detto nella conferenza ad essa dedicata, è nel fondo un omaggio dell’ideologia borghese all’ideologia internazionalista. La Società delle Nazioni è un’illusione perché nessun potere umano può evitare che al suo interno si producano i conflitti, le inimicizie e gli squilibri inerenti all’organizzazione capitalista e nazionalista della società. Supponendo che la Società delle Nazioni arrivasse a comprendere tutte le nazioni del mondo, non per questo la sua azione sarebbe efficacemente pacifista né capace di regolare efficace­ mente i conflitti e i contrasti tra le nazioni, perché l’umanità, riflessa e sintetizzata nella sua assemblea, sarebbe sempre la stessa umanità nazionalista di prima. La Società delle 45 Nazioni avrebbe riunito i delegati dei popoli; ma non avrebbe riunito i popoli stessi. Non avrebbe eliminato i motivi di contrasto tra questi. Le stesse divisioni, le stesse riva­ lità che avvicinano o rendono nemiche le nazioni nella geografia e nella storia, le avreb­ bero avvicinate o rese nemiche aH’interno della Società delle Nazioni. Si sarebbero con­ servate le alleanze, i compromessi, le ententes che riuniscono i popoli in blocchi antago­ nisti e nemici. La Società delle Nazioni, infine, sarebbe stata un’Internazionale di classi sociali, un’Internazionale di Stati; ma non un'Internazionale di popoli. La Società delle Nazioni sarebbe stata un internazionalismo di etichetta, un internazionalismo di faccia­ ta. Questa sarebbe stata la Società delle Nazioni nel caso in cui avesse riunito nel suo seno tutti i governi, tutti gli Stati. Attualmente, quando non riunisce altro che una parte dei governi e una parte degli Stati, la Società delle Nazioni rappresenta molto meno ancora. E un tribunale senza autorità, senza giurisdizione e senza forza, al margine del quale le nazioni contrattano e litigano, negoziano e si attaccano. Ma, nonostante tutto, la comparsa, l’esistenza dell’idea della Società delle Nazioni, il tentativo di realizzarla è un riconoscimento, è una dichiarazione dell’evidente realtà dell’internazionalismo della vita contemporanea, delle necessità internazionali della vita dei nostri tempi. Tutto tende a vincolare, tutto tende a collegare gli uomini e i popoli in questo secolo. Nei tempi passati lo scenario di una civiltà era ridotto, era pic­ colo; nella nostra storia è quasi tutto il mondo. Il colono inglese che si stabilisce in un angolo selvaggio dell’Africa porta in quell’angolo il telefono, il telegrafo, l’automobile. In quell’angolo risuona l’eco dell’ultima arringa di Poincaré o dell’ultimo discorso di Lloyd George. Il progresso delle comunicazioni ha collegato e unificato fino a un grado inverosimile l’attività e la storia delle nazioni. Accade che il pugno che mette a terra Firpo sul ring di New York sia conosciuto a Lima, in questa piccola capitale sudamericana, solo due minuti dopo essere stato visto dagli spettatori del macth. Due minuti dopo avere commosso gli spettatori delle tribune nordamericane, questo stesso pugno costernava la brava gente che stava facendo la coda davanti all’entrata dei gior­ nali di Lima. Ricordo questo esempio per darvi la sensazione precisa dell’intensa comunicazione che esiste tra le nazioni del mondo occidentale, a causa della crescita e del perfezionamento delle comunicazioni. Le comunicazioni sono il tessuto nervoso di questa umanità internazionalizzata e solidale. Una delle caratteristiche della nostra epoca è la rapidità, la velocità con cui si propagano le idee, con cui si trasmettono le correnti di pensiero e la cultura. Un’idea nuova, che spunta in Inghilterra, è un’idea inglese solo durante il tempo necessario affinché sia stampata. Una volta lanciata nello spazio dai giornali questa idea, se traduce qualche verità universale, può trasformarsi istantaneamente anch’essa in un’idea universale. Quanto avrebbe tardato Einstein in altri tempi a raggiungere una popolarità mondiale? Nel nostro tempo, la teoria della relatività, nonostante la sua complicazione e il suo tecnicismo, ha fatto il giro del mondo in pochissimi anni. Tutti questi fatti sono altrettanti segni dell’internazionali­ smo e della solidarietà della vita contemporanea. In tutte le attività intellettuali, artistiche, scientifiche, filantropiche, morali, ecc., si osserva oggi la tendenza a costruire organi internazionali di comunicazione e di coordi­ namento. In Svizzera ci sono le sedi di più di ottanta associazioni internazionali. C’è un’internazionale dei maestri, un’internazionale dei giornalisti, c’è un’internazionale femminista, c’è un’internazionale studentesca. Perfino i giocatori di scacchi, se non mi sbaglio, hanno uffici internazionali o cose simili. I maestri di ballo hanno tenuto a Parigi un congresso internazionale nel quale hanno discusso sulla convenienza di mantenere in voga il fox trot o di resuscitare la pavana. Si sono gettate così le basi di un’internaziona­ le dei ballerini. C’è di più. Tra le correnti internazionaliste, tra i movimenti internazio­ nalisti ce n’è uno che sta prendendo forma, curioso e paradossale come nessun altro. Mi riferisco all’internazionale fascista. I movimenti fascisti sono, come sapete, ferocemente 46 ì sciovinisti e patriottardi. Succede, tuttavia, che si stimolino e si aiutino tra di loro. I fascisti italiani aiutano, a quanto si dice, i fascisti ungheresi. Mussolini una volta fu invi­ tato dai fascisti tedeschi a visitare Monaco. Il governo fascista italiano ha accolto con esplicita ed entusiastica simpatia il sorgere del governo filofascista spagnolo. Perfino il nazionalismo, dunque, non può prescindere da una certa fisionomia internazionalista. (Trad, di Riccardo Badivi) «La Democrazia Cattolica», che fa parte del primo libro di Mariàtegui La escena contem­ poranea (1925) - ora voi. 1 delle Obras completas - sviluppa alcune osservazioni già presenti nelle corrispondenze inviate durante il soggiorno italiano. Il Partito Popolare di don Sturzo, infatti, fin dall’inizio ha richiamato la sua attenzione, per la singolarità del suo percorso politico. In questo scritto il partito cattolico italiano viene visto nel suo con­ testo europeo, all’interno di un’analisi sulle contraddizioni delle formazioni politiche di ispirazione cristiana di fronte all’ascesa reazionaria. La democrazia cattolica L’intesa tra la Democrazia e la Chiesa Cattolica, dopo aver cancellato e sanato rancori reciproci, ha prodotto in Europa un partito politico di tipo più o meno intemazionale che, in vari paesi, tenta un esperimento di ricostruzione sociale su basi democratiche e cristiane. Questa democrazia cattolica o cattolicesimo democratico ha prosperato, soprat­ tutto, nell’Europa Centrale. In Germania, dove si chiama centro cattolico, una delle sue grandi guide, Erzberger, che morì assassinato da un pangermanista, ebbe un ruolo di primo piano nei primi anni della repubblica. In Austria governano i cattolici democratici. In Francia, invece, i cattolici sono divisi e travagliati da contrasti. Alcuni, quelli della nobiltà orleanista, militano nelle file di Maurras e de\VAction Franqaise. Altri di estrazione repubblicana, si diluiscono nei partiti del blocco nazio­ nale. Altri, infine, seguono un orientamento democratico e pacifista. Il leader di que­ sti ultimi elementi è il deputato Marc Sagnier, propugnatore, fervido e mistico, di una riconciliazione franco-tedesca. Ma è stato in Italia, più che in qualunque altro popolo, che la democrazia cattolica ha svolto un’attività vigorosa, conosciuta e caratteristica. L’ha concentrata e mobilitata cin­ que anni fa, sotto il nome di partito popolare o populista, Don Sturzo, un prete dalle grandi doti organizzative e dall’intelligenza sagace. E il riassunto della sua storia, illustra chiaramente il carattere e il contenuto intemazionali di questa corrente politica. Prima del 1919 i cattolici italiani non intervenivano nella politica come partito. Il loro confessionalismo glielo proibiva. I sentimenti della resistenza e della lotta contro il liberalismo, artefice dell’unità italiana sotto la dinastia della casa Savoia, erano anco­ ra troppo vivi. Il liberalismo appariva ancora abbastanza intriso di spirito anticlericale e massonico. I cattolici si sentivano legati all’atteggiamento del Vaticano verso lo stato italiano. Tra i cattolici e i liberali, un patto di pace aveva sedato alcune acerrime divergenze. Ma tra gli uni e gli altri si frapponevano il ricordo e le conseguenze dello storico Venti Settembre. La guerra, liquidata con scarso beneficio per l’Italia, preparò il ritorno ufficiale dei cattolici alla politica italiana. Le antiche fazioni liberali, screditate dai malumori susci­ tati dalla pace, avevano perso parte della loro autorità. Le masse affluivano nelle file 47 socialiste, deluse dall’idea liberale e dai suoi uomini. Don Sturzo colse l’occasione per attirare una parte del popolo verso l’idea cattolica, opportunamente modernizzata e abilmente abbellita di motivi democratici. Don Sturzo aveva già irreggimentato in leghe e sindacati i lavoratori cattolici, che, pur essendo in minoranza nelle città, abbon­ davano e a volte predominavano nelle campagne. Queste associazioni di lavoratori, verso i quali Don Sturzo e i suoi luogotenenti usavano un linguaggio vagamente sociali­ sta, costituirono la base del Partito Popolare. Ad esse si sovrapposero gli elementi cat­ tolici della borghesia ed anche molti dell’aristocrazia, in precedenza contrari ad ogni approvazione formale del regime fondato da Vittorio Emanuele, Garibaldi, Cavour e Mazzini. Il nuovo partito, al fine di poter collaborare liberamente con questo regime, dichiarò nel suo programma la propria indipendenza dal Vaticano. Ma questa era una questione di forma. Si trattava in teoria e nella pratica, di un gruppo cattolico, destina­ to a utilizzare la propria influenza politica per la riconquista da parte della Chiesa di alcune posizioni morali - la Scuola soprattutto - dalle quali cinquantanni di politica demo-massonica l’avevano allontanata. Favorito dalle stesse circostanze ambientali e dalla stessa congiuntura politica che assecondarono la sua nascita, il partito cattolico italiano ottenne un clamoroso succes­ so nelle elezioni del 1919. Conquistò cento seggi alla Camera. Divenne il gruppo più numeroso del parlamento, dopo i socialisti che avevano centocinquantasei voti. La col­ laborazione dei popolari risultò indispensabile per il sostegno di un governo monarchi­ co. Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta contarono, successivamente, su tale collaborazione. Il Partito Popolare era la base di qualunque accordo ministeriale. Nelle elezioni del 1921 i deputati popolari aumentarono da 101 a 109. Il peso politico di Don Sturzo, segreta­ rio generale e leader dei popolari, crebbe straordinariamente . Ma la solidità del partito cattolico italiano era contingente, transitoria, precaria. La sua composizione chiaramente eterogenea conteneva i germi di una scissione inevitabi­ le. Gli elementi di destra del partito, a causa dei loro interessi economici, tendevano a una politica antisocialista. Gli elementi di sinistra, sostenuti da numerosi gruppi conta­ dini, esigevano, al contrario, un’impostazione socialdemocratica. La coesione, l’unità della democrazia cattolica italiana dipendevano, pertanto, dalla persistenza di una poli­ tica centrista nel governo. Non appena avesse prevalso la destra reazionaria o la sinistra rivoluzionaria, il centro, il cui fulcro erano i popolari, si sarebbe frantumato. Con lo sviluppo del movimento fascista, ossia della minaccia reazionaria, ebbe ini­ zio, perciò, la crisi del Partito Popolare. Miglioli e altri leaders della sinistra cattolica lavorarono a favore d’una coalizione popolar-socialista chiamata a rafforzare in modo decisivo la politica centrista e riformista. Una parte del Partito Socialista, ormai abban­ donato dai comunisti, era ugualmente favorevole alla formazione di un blocco dei popolari, dei socialisti e dei nittiani. Si avvertiva nell’uno e nell’altro settore che solo questo blocco avrebbe potuto resistere efficacemente all’ondata fascista. Ma gli sforzi che tendevano a crearlo erano neutralizzati, da parte dei popolari per l’azione della corrente conservatrice, da parte dei socialisti per l’azione della corrente rivoluzionaria, entrambe refrattarie a unirsi in un polo centrista. Più tardi, l’avvio della dittatura fascista, l’ostracismo della politica democratica, assestarono un colpo fatale al partito di Don Sturzo. I popolari capitolarono dinanzi al fascismo. Ad esso assicurarono la collaborazione dei loro uomini al governo e dei loro voti in parlamento. E questa collaborazione determinò di fatto l’assorbimento da parte del fascismo degli strati conservatori del Partito Popolare. Mediante una politica di ammiccamenti col Vaticano e di concessioni alla Chiesa nell’ambito dell’insegnamento, Mussolini conquistò la destra cattolica. I suoi attacchi alle conquiste dei lavoratori e i favori accordati agli interessi dei capitalisti, generarono, invece, nell’area operaia del 48 Partito Popolare una crescente opposizione ai metodi fascisti. Nella misura in cui si avvicinavano le elezioni, questa crisi si andava aggravando. Attualmente, la democrazia cattolica italiana è in piena fase di disgregazione. La destra ha ceduto al fascismo. Il centro, obbediente a Don Sturzo, ha riaffermato la pro­ pria estrazione democratica. La posizione storica dei partiti cattolici negli altri paesi è sostanzialmente la stessa. La fortuna di quei partiti è indissolubilmente legata alla fortuna della politica centrista e democratica. Laddove questa politica è sconfitta dalla politica reazionaria, la demo­ crazia cattolica illanguidisce e si dissolve. E il fatto è che la crisi politica contempora­ nea non è, in particolare, una crisi della democrazia irreligiosa ma, in generale, una crisi della democrazia capitalista. E, di conseguenza, a questa non serve a nulla sostitui­ re il suo abito vecchio con un abito cattolico. In queste cose, come in altre, l’abito non fa il monaco. {Trad, di Natalia Giannoni) Sempre a La scena contemporanea appartiene questa lucida visione dei rapporti tra «Oriente e Occidente». Oriente e Occidente L’ondata rivoluzionaria non scuote solo l’Occidente. Anche l’Oriente è agitato, inquieto, tempestoso. Uno degli eventi più attuali e importanti della storia contempo­ ranea è la trasformazione politica e sociale dell’Oriente. Questo periodo di agitazione e di gestazione orientale coincide con un periodo di insolita e reciproca ansia dell’Oriente e dell’Occidente per conoscersi, per studiarsi, per comprendersi. Nella sua giovinezza boriosa, la civiltà occidentale trattò con sdegno e alterigia i popoli orientali. L’uomo bianco considerò necessario, naturale e lecito il suo dominio sull’uomo di colore. Usò i termini orientale e barbaro come due parole equivalenti. Pensò che solamente ciò che era occidentale era civile. L’esplorazione e la colonizza­ zione dell’Oriente non fu mai compito di intellettuali, ma di commercianti e di guerrie­ ri. Gli occidentali sbarcavano in Oriente le loro mercanzie e le loro mitragliatrici, ma non i loro strumenti né le loro capacità di ricerca, di interpretazione e di conquista spi­ rituale. L’Occidente si preoccupò di portare a termine la conquista materiale del mondo orientale; ma non di tentare la sua conquista spirituale. E così il mondo orien­ tale conservò intatte la sua mentalità e la sua psicologia. Sino ad oggi permangono fre­ sche e vitali le radici millenarie dell’islamismo e del buddismo. L’indiano veste ancora il suo vecchio khaddar. Il giapponese, il più saturato di occidentalismo tra gli orientali, conserva qualcosa della sua essenza samurai. Ma oggi che l’Occidente, relativista e scettico, scopre la propria decadenza e preve­ de il suo prossimo tram onto, sente la necessità di esplorare e di capire meglio l’Oriente. Spinti da una curiosità febbrile e nuova, gli Occidentali si addentrano con entusiasmo nei costumi, nella storia e nelle religioni asiatiche. Migliaia di artisti e di pensatori traggono dall’Oriente la trama e il colore del loro pensiero e della loro arte. L’Europa accumula avidamente dipinti giapponesi e sculture cinesi, colori persiani e ritmi indostani. Si inebria dell’orientalismo di cui sono impregnate l’arte, la fantasia e la vita russa. E confessa quasi un morboso desiderio di orientalizzarsi. 49 L’Oriente, a sua volta, si rivela ora impregnato di pensiero occidentale. L’ideologia europea si è infiltrata abbondantemente nell’anima orientale. Una vecchia pianta orienta­ le, il dispotismo, agonizza minata da queste infiltrazioni. La Cina, trasformata in repubbli­ ca, rinuncia alla sua muraglia tradizionale. L’idea della democrazia, invecchiata in Europa, rigermoglia in Asia e in Africa. La Dea Libertà è la dea più prestigiosa del mondo colonia­ le, in questi tempi in cui Mussolini la dichiara rinnegata e abbandonata dall’Europa. («La Dea Libertà l’hanno uccisa i demagoghi», ha detto il condottiere delle camicie nere). Gli egiziani, i persiani, gli indiani, filippini, i marocchini, vogliono essere liberi. Accade, tra le altre cose, che l’Europa raccoglie i frutti della sua predicazione del periodo bellico. Gli alleati usarono durante la guerra, per sobillare il mondo contro gli austrotedeschi, un linguaggio demagogico e rivoluzionario. Proclamarono enfatica­ mente e fragorosamente il diritto di tutti i popoli all’indipendenza. Presentarono la guerra contro la Germania come una crociata per la democrazia. Propugnarono un nuovo Diritto Internazionale. Questa propaganda scosse profondamente i popoli colo­ niali. E terminata la guerra, questi popoli coloniali annunciarono, nel nome della dot­ trina europea, la loro volontà di emanciparsi. Penetra in Asia, importata dal capitale europeo, la dottrina di Marx. Il socialismo che, all’inizio, non fu altro che un fenomeno della civiltà occidentale, estende oggi il suo raggio storico e geografico. Le prime Internazionali operaie furono istituzioni unicamente occi­ dentali. Nella Prima e nella Seconda Intemazionale furono rappresentati soltanto i prole­ tari d’Europa e d’America. Al congresso di fondazione della Terza Internazionale nel 1920 parteciparono, invece, delegati del partito Operaio Cinese e dell’Unione Operaia Coreana. Ai congressi seguenti hanno preso parte delegazioni persiane, del Turkestan, armene. Nell'agosto del 1920 ebbe luogo a Bakù, patrocinata e promossa dalla Terza Internazionale, una conferenza rivoluzionaria dei popoli orientali. Ventiquattro popoli orientali parteciparono a quella conferenza. Alcuni socialisti europei, Hilferding tra que­ sti, rinfacciarono ai bolscevichi la loro intesa con movimenti di stampo nazionalista. Zinoviev, polemizzando con Hilferding, rispose: «Una rivoluzione mondiale non è possi­ bile senza l’Asia. Lì vive una quantità di uomini quattro volte superiore rispetto all’Europa. L’Europa è una piccola parte del mondo». La rivoluzione sociale ha bisogno storicamente dell’insurrezione dei popoli coloniali. La società capitalista tende a restaurar­ si mediante uno sfruttamento più metodico e più intenso delle sue colonie politiche ed economiche. E la rivoluzione sociale deve fare insorgere i popoli coloniali contro l’Europa e gli Stati Uniti, per ridurre il numero di vassalli e di tributari della società capitalista. Contro la dominazione europea sull’Asia e sull’Africa cospira anche la nuova coscienza morale d’Europa. Esistono attualmente in Europa diversi milioni di uomini di idee pacifiste che si oppongono ad ogni atto bellico, ad ogni atto sanguinoso, contro i popoli coloniali. Di conseguenza, l’Europa si vede obbligata a trattare, a negoziare, a cedere davanti a questi popoli. Il caso turco è, a tal proposito, molto significativo. In Oriente appare, quindi, una vigorosa volontà d’indipendenza, al tempo stesso in cui in Europa si indebolisce la capacità di violarla e soffocarla. Si constata, insomma, l’esistenza delle condizioni storiche necessarie per la liberazione dell’Oriente. Più di un secolo fa, è giunta dall’Europa a questi popoli d'America una ideologia rivoluzionaria. E, infiammata dalla sua rivoluzione borghese, l’Europa non potè evitare l’emancipazio­ ne americana generata da quella ideologia. Allo stesso modo ora, l’Europa, minata dalla rivoluzione sociale, non può reprimere militarmente l’insurrezione delle sue colonie. E, in questa ora grave e feconda della storia umana, sembra che qualcosa dell’anima orientale sia trasmigrata in Occidente e che qualcosa dell’anima occidentale sia trasmi­ grata in Oriente. (Trad, di Elina Patan è) 50 Allo stesso libro appartengono anche i due saggi complementari «Il semitismo e l’antise­ mitismo». Mariàtegui inquadra il risorgimento ebraico all’interno del più ampio processo di rinascita delle nazionalità che fa seguito alla prima guerra mondiale. Ma porta nella sua analisi anche un interesse specifico per la cultura ebraica, che negli ultimi anni lo legherà ad alcuni esponenti dell’ebraismo peruviano. Il semitismo e l’antisemitismo Il semitismo Uno dei fenomeni più interessanti del dopoguerra è quello della rinascita ebraica. I fautori del sionismo parlano di una risurrezione del popolo d ’Israele. Il popolo eterno del grande esodo si sente designato, nuovamente, a un grande ruolo nella storia. Il movimento sionista non monopolizza tutta l’attività del suo spirito. Molti ebrei guarda­ no con diffidenza questo movimento, controllato e pilotato dalla politica imperialista dell’Inghilterra. La rinascita ebraica è un fenomeno molto più vasto. Il sionismo rap­ presenta solo uno dei suoi aspetti, una delle sue correnti. Questo fenomeno affonda le sue radici più prossime nella guerra. Il programma di pace degli alleati non potè prescindere dalle vecchie rivendicazioni israelite. Il popolo ebraico era nell’Europa Orientale, dove si concentravano le sue più grandi masse, un popolo paria, condannato a tutte le vessazioni. La civiltà borghese aveva lasciato sussistere in Europa, tra gli altri residui dell’Età Medievale, l’inferiorità giu­ ridica dell’ebreo. Un nuovo codice internazionale doveva affermare e tutelare il diritto delle popolazioni israelite. L ’Inghilterra, accorta e perspicace, comprese opportunamente l’utilità politica di agitare, in un senso favorevole agli alleati, l’anti­ ca questione ebraica. La dichiarazione di Balfour proclamò, nel novembre del 1917, il diritto degli ebrei a stabilire in Palestina la propria dimora nazionale. La propa­ ganda wilsoniana consolidò, d ’altro canto, la posizione del popolo d ’Israele. Il ruolo rappresentato nella guerra e nella pace dagli Stati Uniti - la nazione che aveva trat­ tato gli ebrei con più liberalità in tempi prebellici - influì in modo decisivo a favore delle rivendicazioni israelite. Il trattato di pace affidò alla Società delle Nazioni la tutela di Israele. La pace inaugurò un periodo di emancipazione delle popolazioni israelite nell’Europa Orientale. In Polonia e in Romania, lo Stato concesse agli ebrei il diritto di cittadinanza. Il movimento sionista annunciò, a tutti i dispersi e vessati figli di Israele, la ricostruzione in Palestina della patria degli ebrei. Ma la rinascita israelita si basò, soprattutto, sull’agitazione rivoluzionaria nata dalla guerra. La rivoluzione russa non solo cancellò, insieme al regime zarista, i residui di disuguaglianza giuridica e politica degli ebrei: mise al governo della Russia diversi uomini di razza semita. La rivoluzione tedesca, con l’ascesa della socialdemocrazia al potere, fu caratterizzata dalla stessa con­ seguenza. Nello stato maggiore del socialismo tedesco, sin dai tempi di Marx e Lasalle, militavano molti israeliti. Tanto la politica della riforma quanto la politica della rivoluzione, si presenta­ rono, così, più o meno connesse con la rinascita ebraica. E questo fu il motivo per cui la politica della reazione si tinse in tutto l’Occidente con un intenso tono anti­ semita. I nazionalisti, i reazionari, denunciarono in Europa la pace di Versailles come una pace ispirata da interessi e sentimenti israeliti. E dichiararono il bolscevi­ smo un’oscura cospirazione degli ebrei contro le istituzioni della civiltà cristiana. L’antisemitismo assunse in Europa, ed anche negli Stati Uniti, una virulenza ed una aggressività inaudite. Il sionismo, al tempo stesso, nell’animo di alcuni dei suoi 51 seguaci, veniva contagiato dalla stessa inclinazione. Cercava di opporre agli innu­ merevoli nazionalismi occidentali e orientali un nazionalismo ebraico, inesistente prima della crisi postbellica. Per un osservatore obiettivo di questa crisi, la funzio­ ne degli ebrei nella politica riformista e nella politica rivoluzionaria era perfetta­ mente spiegabile. La razza ebraica, sotto il sistema politico medievale, era stata considerata come una razza reproba. L ’aristocrazia le aveva negato il diritto di esercitare ogni professione nobile. Questa esclusione aveva fatto degli ebrei nel mondo una razza di mercanti e di artigiani. Aveva im pedito allo stesso tempo l’insediamento degli ebrei nelle campagne. Gli ebrei obbligati a vivere nelle città, di commercio, di usura e di industria, rimasero legati alla vita e allo sviluppo urba­ no. La rivoluzione borghese, di conseguenza, si nutrì in parte di linfa ebraica. E nella formazione dell’economia capitalista spettò agli ebrei, commercianti ed indu­ striali esperti, un ruolo fondamentale e logico. La decadenza delle «professioni nobili», la trasformazione della proprietà agraria, la distruzione dei privilegi della aristocrazia, ecc., conferirono un posto dominante nell’ordine capitalista al ban­ chiere, al commerciante, all’industriale. Gli ebrei, preparati per queste attività, si avvantaggiarono grazie a tutte le manifestazioni di questo processo storico, che tra­ sferiva dalla campagna alla città il dominio dell’economia. Il fenomeno più tipico dell’economia moderna - lo sviluppo del capitale finanziario - accrebbe ancor più il potere della borghesia israelita. L’ebreo appariva, nella vita economica moderna, come uno dei più adeguati fattori biologici dei suoi movimenti sostanziali: capitali­ smo, industrialismo, urbanismo, internazionalismo. Il capitale finanziario, che tes­ seva al di sopra delle frontiere una sottile e forte rete di interessi, trovava negli ebrei, in tutte le capitali dell'occidente, i suoi più attivi e abili agenti. La borghesia israelita, per tutte queste ragioni, si sentiva solidale con le idee e le istituzioni dell’ordine democratico-capitalista. La sua posizione nell’economia la spingeva dalla parte del riformismo borghese. (Generalmente, la banca tende, in politica, a una tattica opportunista e democratica che confina a volte con la demagogia. I ban­ chieri sostengono, normalmente, i partiti progressisti della borghesia. I proprietari terrieri, invece, si affiliano ai partiti conservatori). Il riformismo borghese aveva creato la Società delle Nazioni, come uno strumento del suo blando internazionali­ smo. Coerente con i suoi interessi la borghesia israelita doveva logicamente simpa­ tizzare per un organismo che, nella pratica, non era altro che una creatura del capi­ tale finanziario. E poiché gli ebrei non si dividevano solo in borghesia e piccola borghesia ma anche in proletariato, era anche naturale che in gran numero risultassero mescolati al movimento socialista e comunista. Gli ebrei che, come razza e come classe, avevano patito doppiamente l’ingiustizia umana, potevano rimanere indifferenti alla suggestio­ ne rivoluzionaria? Il loro temperamento, la loro psicologia, la loro vita, impregnati di inquietudini urbane, facevano delle masse israelite uno dei combustibili più vicini alla rivoluzione. Il carattere mistico, la mentalità catastrofica della rivoluzione, dovevano suggestionare e commuovere, particolarmente, gli individui di razza ebraica. Il giudi­ zio sommario e semplicistico dell’estrema destra non prendeva in considerazione quasi nessuna di queste cose. Preferiva vedere nel socialismo una mera elaborazione dello spirito ebraico, cupamente alimentata dal rancore del ghetto contro la civiltà occidentale e cristiana. La rinascita ebraica non si presenta come la rinascita di una nazionalità. Non si pre­ senta neanche come la rinascita di una religione. Vuole essere, piuttosto, la rinascita del genio, dello spirito, del sentimento ebraico. Il sionismo - la ricostruzione della dimora nazionale ebraica - non è altro che un episodio di questa risurrezione. Il popo­ lo d’Israele, «il più sognatore ed il più pratico del mondo», come lo ha definito uno 52 scrittore francese, non si fa grandi illusioni sulla possibilità di ricostituirsi come nazio­ ne, dopo tanti secoli, sul territorio della Palestina. Il trattato di pace, in primo luogo, non ha potuto dare agli ebrei i mezzi per organizzarsi e stabilirsi liberamente in Palestina. La Palestina, secondo il trattato, costituisce fondamentalmente una colonia della Gran Bretagna. La Gran Bretagna considera il sionismo come un momento della sua politica imperialistica. Nei sei anni trascorsi dalla pace, si sono stabiliti in Palestina, secondo le cifre di «La Révue Juive» di Parigi, non più di 43.500 ebrei. L’immigrazione verso la Palestina, soprat­ tutto durante i primi anni, è stata sottomessa da parte dell’Inghilterra ad una serie di restrizioni poliziesche. Le autorità inglesi hanno compiuto una severa scelta degli immigranti alle frontiere e prima delle frontiere. Tra le masse ebraiche d ’Europa e d ’America, d ’altra parte, non si è manifestata una volontà realmente sentita di ripo­ polare la Palestina. La maggior parte degli immigranti proviene da quelle regioni dell’Europa Orientale, dove la vita degli ebrei, a causa delle condizioni economiche o del sentimento antisemita, è divenuta difficile o disagevole. Le masse ebraiche si trovano, nella loro maggioranza, troppo abituate al tenore e allo stile di vita urbano e occidentale per adattarsi, facilmente, alle necessità di una colonizzazione agricola. Gli ebrei sono generalmente industriali, commercianti, artigiani, operai; mentre l’organizzazione economica della Palestina deve essere opera di lavoratori rurali. Alla ricostruzione della dimora nazionale ebraica in Palestina si oppone, inoltre, la resistenza degli arabi, che da più di dodici secoli posseggono e popolano quel terri­ torio. Gli arabi della Palestina non superano le 800.000 unità. La Palestina può ospitare perlomeno una popolazione dai quattro ai cinque milioni. D ’altra parte come scrive Charles Gide, gli arabi «hanno fatto della Terra Promessa una Terra Morta». L’illustre economista ricorda loro «il versetto del Corano che dice che la terra appartiene a colui che l’ha lavorata, irrigata, vivificata, legge ammirevole, di gran lunga superiore alla legge romana, che noi abbiamo ereditato, che fonda la proprietà della terra sulla occupazione e la prescrizione». Questi argomenti vanno molto bene. Ma, per il momento, trascurano due particolari: 1°) Che gli israeliti non costituiscono attualmente più del dieci per cento della popolazione della Palestina, e che non è probabile un forte incremento del flusso immigratorio ebraico; 2°) Che gli arabi difendono non solo il loro diritto alla terra ma anche l’indipendenza dell’Arabia e della Mesopotamia e in generale del mondo musulmano, attaccato daU’imperialismo britannico. Gli stessi intellettuali israeliti, che hanno aderito al sionismo, non esaltano general­ mente questo movimento per quanto riguarda l’aspetto nazionalista. E necessario, dicono, che gli ebrei abbiano una dimora nazionale, affinché si rifugino in essa le popolazioni ebraiche «inassimilabili», che si sentono straniere e a disagio in Europa. Queste popolazioni ebraiche che non riescono ad integrarsi - quelle che vivono rin­ chiuse nei loro ghetti (quartieri israeliti), boicottate dai pregiudizi antisemiti degli euro­ pei, nell’Europa centrale e occidentale -, rappresentano una minoranza del popolo d’Israele. La maggioranza, inserita a pieno titolo nella civiltà occidentale, non rinuncerebbe ad essa, sicuramente non la abbandonerebbe per partire, di nuovo, alla conqui­ sta della Terra Promessa. Einstein riconosce il valore del sionismo nella sua forza spirituale. «Il sionismo scrive - sta per creare in Palestina un centro di vita spirituale ebraica». Ed aggiunge: «E per questo che io credo che il sionismo, movimento in apparenza nazionalista, è, in fin dei conti, benemerito dell’umanità». La rinascita ebraica, in realtà, esiste e vale, soprattutto, come opera spirituale ed intellettuale dei suoi grandi pensatori, dei suoi grandi artisti, dei suoi grandi combat­ tenti. Nell’elenco dei collaboratori di “Ltì Réuve Juive” figurano uomini come Albert 53 Einstein, Sigmund Freud, Georges Brandes, Charles Gide, Israel Zangwill, Waldo Frank, ecc. Nel movimento rivoluzionario d ’Oriente e d’Occidente, la razza ebraica è numerosa e brillantemente rappresentata. Sono questi valori quelli che nel nostro tempo danno al popolo d ’Israele diritto alla gratitudine e alla stima da parte dell’uma­ nità. E sono anche quelli che ricordano che la loro missione, nella storia moderna, come sente ed afferma Einstein, è principalmente una missione internazionale, una missione umana. L ’antisemitismo La rinascita dell’ebraismo ha provocato nel mondo la rinascita dell’antisemitismo. All’azione ebraica ha corrisposto la reazione antisemita. L’antisemitismo, addomestica­ to durante la guerra grazie alla politica della «Unione Sacra», ha recuperato violente­ mente nel dopoguerra la sua antica virulenza. La pace lo ha fatto diventare bellicoso. Questa frase può sembrare di gusto un po’ paradossale. Ma è facile convincersi del fatto che traduce una realtà storica. La pace di Versailles, com’è fin troppo risaputo, non ha soddisfatto alcun nazio­ nalismo. L’antisemitismo, com’è altrettanto risaputo, si nutre di nazionalismo e di conservatorismo. Rappresenta un sentimento e un’idea delle destre. E le destre, nelle nazioni vincitrici e nelle nazioni vinte, si sono sentite più o meno escluse dalla pace di Versailles. Invece, hanno riconosciuto nel testo del trattato di pace qualche traccia internazionalista. Hanno lì riconosciuto, attenuata ma inequivocabile, l’ispi­ razione delle sinistre. Le destre francesi hanno denunciato la pace come una pace ebraica, una pace puritana, una pace britannica. Non hanno temuto di contraddirsi in tutte queste successive o simultanee definizioni. La pace - hanno detto - è stata dettata dalla banca internazionale. La banca internazionale è, per gran parte, israeli­ ta. La sua sede principale è Londra. L'ebraismo è entrato, in forte dose spirituale, nella formazione del puritanesimo anglosassone. Di conseguenza, non è per niente strano che gli interessi israeliti, puritani e britannici coincidano. La loro convergen­ za e la loro solidarietà spiegano perché la pace è, allo stesso tempo, israelita, purita­ na e britannica. Non seguiamo gli scrittori della reazione francese nella formulazione della loro teo­ ria che si rifà, attraverso confusi ed astratti percorsi, alle più lontane origini del purita­ nesimo e del capitalismo. Accontentiamoci di constatare che, per ragioni sicuramente più semplici, gli artefici della pace hanno ammesso nel trattato alcune rivendicazioni israelite. Il trattato ha riconosciuto alle masse ebraiche della Polonia e della Romania i diritti accordati alle minoranze etniche e religiose, all’interno degli Stati aderenti alla Società delle Nazioni. In virtù di questa stipulazione, veniva di colpo abolita la disuguaglianza politica e giuridica in cui la sopravvivenza di un regime medievale aveva mantenuto gli israeliti nei territori della Polonia e della Romania. In Russia la rivoluzione aveva già cancellato questa disuguaglianza. Però la Polonia, ricostituita come nazione a Versailles, aveva ereditato dallo zarismo i suoi metodi ed i suoi costumi antisemiti. La Polonia, inoltre, ospitava la più numerosa comunità ebraica del mondo. Gli israeliti rinchiusi nei loro ghetti, segregati gelosamente dalla società nazionale, sottomessi a un pogrom permanente e sistematico, ammontavano a più di tre milioni. Da nessuna parte esisteva, pertanto, un problema ebraico di tale rilievo. In nes­ suna nazione le risoluzioni di Versailles a favore degli ebrei suscitavano, per la stes­ sa causa, una maggiore agitazione antisemita. Il ruolo che toccò alla Polonia nella 54 politica europea del dopoguerra permise che il potere cadesse sotto il controllo dell’antisemitismo. Posta sotto l’influenza ed il controllo della Francia, in un momento in cui dominava in Francia la reazione, la Polonia ricevette l’incarico di difendere e preservare l’Occidente dalle infiltrazioni della rivoluzione russa. Questa politica dovette appoggiarsi sulle classi conservatrici ed alimentarsi dei loro pregiu­ dizi e dei loro rancori antisemiti. L’ebreo risultava, sempre, sospetto di inclinazioni per il bolscevismo. La Polonia è, sino ad oggi, il paese in cui si registra il più brutale antisemitismo. Lì l’antisemitismo non si manifesta solamente nella forma dei pogrom compiuti dalle turbe di fanatici nazionalisti. Il governo è il primo a resistere agli obblighi della pace. Recenti notizie dalla Polonia dicono in proposito: «L’antisemitismo governativo e sociale sembra accentuarsi in Polonia. Sino ad oggi le leggi speciali estese alla Polonia dalla Russia zarista non sono state abrogate». Un altro focolaio attivo di antisemitismo è la Romania. Anche questo paese con­ tiene una consistente minoranza israelita. Le persecuzioni hanno provocato un esodo. Gran parte degli immigranti che affluiscono in Palestina provengono dalla Romania. Ciò nonostante, il numero di israeliti che rimangono in Romania si aggira intorno ai 755.000. Come in tutta Europa, gli ebrei costituiscono in Romania uno strato urbano. E, in Romania come in altre nazioni dell’Europa Orientale, l’appara­ to legislativo e quello amministrativo si ispirano principalmente agli interessi delle classi rurali. Non per questo gli ebrei sono meno osteggiati all’interno delle città, troppo sature naturalmente di sentimento contadino. Il nazionalismo e il conserva­ torismo rumeno non possono perdonargli l’acquisizione del diritto di cittadinanza, l’accesso alle professioni liberali. L’odio antisemita monta la guardia nelle univer­ sità. Si accanisce contro gli studenti israeliti. Reclama l’adozione del Numerus Clausus, che consiste nel ridurre al minimo il numero degli israeliti ammessi agli studi universitari. Il Numerus Clausus è vigente da tempo in Ungheria, dove alla sconfitta della rivoluzione comunista seguì un periodo di terrore antisemita. La persecuzione dei comunisti, non meno feroce della persecuzione dei cristiani nell’età romana impe­ riale, fu caratterizzata da una serie di pogrom. Gli ebrei, sotto questo regime di ter­ rore, persero praticamente ogni diritto alla tutela delle leggi e dei tribunali. Gli si attribuiva la responsabilità della rivoluzione sovietica. Un israelita, Bela Khun, non era stato il presidente della Repubblica Socialista Ungherese? Questo fatto sembra­ va sufficiente per condannare tutta la razza ebraica ad una spietata repressione. Nonostante il tempo trascorso da allora, il furore antisemita non si è ancora placato. Il fascismo ungherese lancia periodicamente le sue squadre contro gli ebrei. I loro soprusi - fatti in nome di un sedicente cristianesimo - hanno provocato ultimamen­ te u n ’accesa protesta da p arte del Cardinale C sernoch, P rincipe Prim ate di Ungheria. Il Cardinale ha negato con indignazione agli autori di questi «atti abomi­ nevoli» il diritto di invocare il cristianesimo per giustificare i propri fanatismi. «Dall’alto di questo seggio millenario - ha detto - io grido che sono uomini senza fede e senza legge». Nell’Europa Occidentale l’antisemitismo non presenta la stessa violenza. Il clima morale, l’ambiente storico, sono diversi. Il problema ebraico assume forme meno acute. L’antisemitismo, inoltre, è meno potente ed esteso. In Francia si trova loca­ lizzato nel ridotto, sebbene chiassoso settore dell’estrema destra. Il suo focolaio è L ’Action Franqaise. Il suo sommo pontefice, Charles Maurras. In Germania, dove la rivoluzione suscitò un acre fermento antisemita, l’antisemitismo è predominante solo in due partiti: il Deutsche national e quello fascista. Il razzismo che ha in Luddendorf il suo più alto condottiere vede nel socialismo una diabolica elabora55 zione dell’ebraismo. Ma all’interno della stessa destra un vasto settore non prende sul serio queste superstizioni. Nel Volks Partei milita quasi tutta la plutocrazia industriale e finanziaria - israelita. La reazione, in genere, ha certamente, in tutto il mondo, una tendenza antisemita. Israele combatte sul fronte della democrazia e della Rivoluzione. Uno scrittore antise­ mita e reazionario, Georges Batault, riassume la situazione in questa formula: «Mentre gli ebrei internazionali giocano due carte - Rivoluzione e Società delle Nazioni - l’anti­ semitismo gioca la carta nazionalista». Lo stesso scrittore aggiunge che dal sionismo ci si può attendere una soluzione del problema ebraico. I nazionalismi europei lavorano per creare un nazionalismo ebraico. Perché pensano che la costituzione di una nazione ebraica libererebbe il mondo dalla razza semita. E, soprattutto, perché non possono concepire la storia se non come una lotta di nazionalismi nemici e d’imperialismo belli­ gerante. {Trad, di Elina Patanè) «Poeti nuovi e poesia vecchia», pubblicato su «Mundial» il 24 ottobre 1924, è stato inclu­ so nel voi. II delle Obras completas, Peruanicemos al Perù. Dopo il ciclo delle conferen­ ze sulla crisi mondiale e dopo la brusca interruzione della sua attività causata dall’ampu­ tazione di una gamba, è uno degli scritti che, a partire dall’espressione letteraria, segnano l’inizio di uno studio sistematico della realtà nazionale. Poeti nuovi e poesia vecchia I giochi floreali mi hanno messo in contatto con la nuova generazione di poeti peruviani. Le mie vicissitudini e i miei studi cosmopoliti mi avevano distaccato dalle cose e dalle emozioni che qui si mettono in rima. Ancora oggi non credo di essere molto informato sulla qualità o sul numero dei poeti giovani; ma lo sono sulla tempera­ tura e sull’umore della loro poesia. Naturalmente, i giochi floreali non hanno attratto tutti i poeti nuovi. I più intimi, i più riservati, i più originali hanno scontrosamente rifiutato il loro contributo. In parte capisco e condivido il sentimento che li ha tenuti lontani dalla festa. I giochi floreali sono una cerimonia provinciale, pacchiana, medioevale. E, inoltre, qui appaiono come un’usanza straniera e posticcia. Posso capire che quella coreografia anacronistica non seduce tutti i poeti. Il verdetto definitivo della giuria non deve essere inteso, di conseguenza, come un giudizio sommario sulla poesia dell’ultima generazione. Al di fuori dei giochi floreali ho conosciuto diversi poeti che meritano di essere trattati in altro modo. Su nessuno di loro si può ancora dire una parola definitiva. Le loro personalità si stanno formando. Ci hanno però già dato alcune anticipazioni assai nobili del loro futuro. Luis Berninzone possiede una potente fantasia che ha solo bisogno di trovare una forma meno retorica e un gusto meno ornamentale. Armando Bazàn, che ha avuto con il pubblico appena qualche furtivo contatto, è già un interprete profondo del sentimento tragico della vita. Juan Maria Merino Vigil mostra nei suoi versi e nella sua prosa, un temperamento lirico e panteista dalle sfu­ mature insolite. Juan Luis Velasquez, bambino-poeta o poeta-bambino, possiede la divina incoerenza degli ispirati. Nel suo piccolo libro ci sono alcuni belli spropositi e 56 due o tre note ammirevoli. Jacobo Hurwitz non va giudicato per il suo primo libro, che contiene, comunque, alcune emozioni originali e penetranti. Magda Portai è qualcosa di molto raro e molto prezioso nella nostra letteratura: una poetessa. Mario Chàvez ama il funambolismo aggressivo e pittoresco dei futuristi. La sua poesia è un fuoco d’artificio policromo e stridente. Intorno a me si parla molto e molto bene di Juan José Lora, inedito fino ad oggi. E, probabilmente, il numero dei poeti di questa generazione è ancora maggiore. Non cerco di enumerarli né di qualificarli tutti nel mio elenco. Non ci mancano poeti nuovi. Ciò che ci manca, in realtà, è nuova poesia. I giochi floreali hanno riunito, sul tavolo della giuria, un esiguo campionario di cianfrusaglie sentimentali, di zeppe volgari e di trucchi screditati. La monotonia di questo paesag­ gio poetico ha spinto, indubbiamente, Luis Alberto Sànchez a negare, nel suo vigo­ roso discorso, che la tristezza sia l’elemento essenziale nella nostra poesia. Questa poesia, dice Sànchez, non è triste ma malinconica. Triste è Vallejo, ma non Ureta. Io aggiungo che, più che malinconico, il tono della nostra poesia è ipocondriaco. Ma non accetto la tesi che questi versi siano estranei all’ambiente. Non è vero che la nostra gente è allegra. Qui non c’è né c’è mai stata allegria. La nostra gente ha quasi sempre un umore annoiato, astenico e grigio. È amante della bisboccia ma non gio­ conda. La bisboccia è una forma della sua astenia. Ci manca l’euforia, ci manca la gioventù degli occidentali. Siamo più asiatici che europei. Quanto sembra vecchia e stanca questa giovane terra sudamericana in confronto alla vecchia Europa! Non si può sapere, non ce se ne rende conto se non quando, in un ambiente occidentale, si confronta la nostra psicologia con quella europea. L ’europeo possiede una sponta­ nea attitudine organica a credere che la vita è bella; noi a immaginarla triste, noiosa, pesante. «La vita è bella e degna di essere magnificamente vissuta» dice D ’Annunzio e la sua frase riflette l’ottimismo del suo popolo appassionato, voluttuoso e panteista. Il creolo è insensibile all’ingenuità dei «Lieder» tedeschi e scandinavi. Non capisce l’effusione, la pienezza con cui l’europeo si dà integralmente, senza riserve all’allegria e al piacere di una festa. E non sa nemmeno che l’europeo, con la stessa effusione e la stessa pienezza, si dà interamente alla vita. Qui l’ubriachezza è malinconica o liti­ giosa e gli ubriachi, senza sapere perché, piangono o litigano. Sebbene una conven­ zione letteraria e ridicola ci annetta alla razza latina - latini, noi! - la nostra anima gialla o malinconica non fraternizzerà mai con la bionda anima degli occidentali. Non capiremo mai il valore euforico del cielo azzurro né dei verdi grappoli del Latium. Perfino la voluttuosità, perfino il piacere qui sono un pò di malumore e scontenti. Eros è brontolone e agrodolce. La nostra gente sembra quasi sempre infa­ stidita, scoraggiata, nostalgica. Le battute di spirito galleggiano su un lago malato, su una palude di tedio. La tristezza, come tutte le cose, ha le sue qualità e le sue gerarchie. La nostra gente soffre di una tristezza superficiale e insipida. Per questo, Luis Alberto la chiama malinconia. Attraverso la letteratura e la vita europea è passata una gelida ventata di pessimismo e di scoramento. Andrejev, Gorkij, Blok, Barbusse, sono tri­ sti. Pirandello stesso, nel suo scetticismo e relativismo, lo è. L ’umorismo e lo scetti­ cismo contemporanei sono amari. Appaiono come il sorriso di un’anima disincan­ tata. Ma i creoli non sono tristi in questo modo. Non sono nemmeno disperatamente, tragicamente, wertherianamente tristi. Per questo la nostra poesia non ha distillato l’aspro succo, le «amare gocce» della poesia di José Asuncion Silva; le radici della malinconia creola, soprattutto della malinconia limegna, non sono molto profonde né molto eccelse. I suoi germi sono la povertà, l’anemia, la limita­ tezza, il provincialismo dell’ambiente. La gente, qui, ha orizzonti spirituali e mate­ riali molto modesti. Ed è, in parte, per questa causa grossolana, che si annoia e 57 sbadiglia. Inoltre, si nutre troppo di cattive letture spagnole. Abbondano, nella nostra poesia, mediocri rapsodie di motivi musicali flamenchi o spagnoli. Anche il clima e la meteorologia devono influire su questa cronica depressione delle anime. La malinconia peruviana è la foschia persistente e invincibile di un tropico senza grande sole e senza grandi tempeste. Il Perù non è solo Lima; in Perù ci sono, come in altri paesi, albe e tramonti magnifici, cieli azzurri, nevi candide, ecc. Ma Lima dà l’esempio e impone le mode. La sua irradiazione sulla vita spirituale delle province è intensa e costante. Solo i temperamenti forti - César Vallejo, César Rodriguez, ecc. - sanno resistere alla sua molle influenza. Questa malinconia, infi­ ne, non sarà un semplice prodotto biliare? «In amore e in altre cose di minore importanza tutto dipende dalla digestione» dice Luis C. Lopez. La cosa evidente è che viviamo dentro un circolo vizioso. La poesia malinconica annoia la gente e la noia della gente secerne poesia malinconica. Qualcuno dei nostri poeti dovrebbe confessarsi con un medico e dirgli, come nei versi di Silva: «Dottore, un disincanto della vita, ecc.». Il medico gli darebbe, sempre come nei versi di Silva, varii consi­ gli igienici e una diagnosi dolorosa. È vero che il mondo moderno è nevrastenico e un poco stanco, ma la nevrastenia delle grandi città è di un altro genere ed è anche molto complessa, molto profonda e molto pittoresca. La nevrastenia nella nostra gente è artificiale e monotona. La sua stanchezza è la stanchezza di quelli che non hanno fatto niente. E non è il caso di parlare di modernismo. Il modernismo non è solo questione di forma, bensì, soprattutto, di sostanza. Non è m odernista chi si accontenta di un’audacia o di un’arbitrarietà esteriori di sintassi o di metro. Sotto l’abito pacchia­ namente nuovo, si avverte intatta la vecchia sostanza. Perché trasgredire la gramma­ tica se gli ingredienti spirituali della poesia sono gli stessi di venti o cinquanta anni fa? «Il faut ètre absolument moderne», come diceva Rimbaud; ma bisogna essere m oderni spiritualm ente. Qui si respira, generalm ente, nei dom ini d ell’arte e dell’intelletto, un passatismo incurabile e malaticcio. I nostri poeti si rifugiano, volut­ tuosamente, nell’evocazione e nella nostalgia più puerili, come se ciò che attualmente li circonda fosse privo di emozione e di interesse. Non osano domare la bellezza se non quando la ritengono sufficientemente familiare. Il futurismo, il dadaismo, il cubismo, nelle grandi città sono un fenomeno spontaneo, un prodotto genuino della vita. Il nuovo stile della poesia è cosmopolita e urbano. È la spuma di una civiltà ultrasensibile e sublimata. Non è accessibile pertanto, a un ambiente provinciale. E una moda che qui non trova gli elementi necessari per acclimatarsi. E il profumo, è l’effluvio lirico dello spirito umoristico, scettico, relativista della decadenza borghe­ se. Questa poesia, senza solennità e senza drammaticità, che aspira ad essere un gioco, uno sport, una piroetta, tra di noi non fiorirà. Non è neanche il caso di parlare di decadenza della poesia peruviana. Può decadere solo ciò che una volta è stato grande. E basterà una rapida ricerca a convincerci che la poesia di ieri non era migliore della poesia di oggi. I poeti di oggi non usano come quelli di ieri, chiome molto lunghe e camice molto sporche, quanto a igiene e ad esteti­ ca hanno guadagnato parecchio. Le brezze e le navi portano dall’occidente un polline nuovo. Alcuni artisti della nuova generazione hanno ormai capito che la torre d’avorio era la triste cella di un’anima esangue e anemica. Abbandonano il grigio ritornello della malinconia, e si avvicinano al dolore sociale che rivelerà loro un mondo meno limitato. Da questi artisti possiamo sperare in una poesia più umana, più feconda, più sponta­ nea, più biologica. (Trad, di Maria Antonietta Peccianti) 58 Nella ricerca sulla realtà peruviana occupa un posto di rilievo «Vite parallele: E.D. Morel - Pedro S. Zulen», apparso in «Mundial» il 6 febbraio 1925 e ora raccolto in Peruanicemos al Perù. Accostando tra di loro due figure caratterizzate da un grande slan­ cio ideale, coglie l’occasione per esaltare uno dei pionieri dell’indigenismo peruviano e di proporre un modello di uomo nuovo per il paese in costruzione. Vite parallele: E.D. Morel - Pedro S. Zulen Chi, tra di noi, avrebbe dovuto scrivere l’elogio del grande professore di idealismo E.D. Morel? Tutti quelli che conoscono i tratti essenziali dello spirito di E.D. Morel risponderanno, senza dubbio, Pedro S. Zulen. Quando, alcuni giorni fa, vidi sulla stampa europea la notizia della morte di Morel, pensai che questa «figura della vita mondiale» apparteneva, soprattutto, a Zulen. E incaricai Jorge Basadre di comunicare a Zulen che E.D. Morel era morto. Zulen era molto più vicino a Morel di me. Nessuno poteva scriver su Morel con più aderenza alla sua personalità né con più emozione rispetto alla sua opera. Oggi questa associazione di Morel a Zulen si accentua e si precisa nella mia cono­ scenza. Penso che si tratti di due vite parallele. Non di due vite simili, ma solamente di due vite parallele, nel senso che il concetto di vite parallele ha in Plutarco. Sotto gli aspet­ ti esteriori delle due vite, così lontane nello spazio, si scopre la trama di un’affinità spiri­ tuale e di una parentela ideologica che le avvicina nel tempo e nella storia. Le due vite hanno in comune, in primo luogo, un profondo idealismo. Sono mosse da una fede osti­ nata nella forza creatrice dell’ideale e dello spirito. Sono possedute dal sentimento della propria predestinazione a un apostolato umanitario e altruista. Zulen e Morel sono, inol­ tre, accomunati e uniti da un’onesta e integra estrazione democratica. Il pensiero di Morel e di Zulen appare nutrito analogamente dall’ideologia della democrazia pura. Focalizziamo gli episodi essenziali della biografia di Morel. Prima della guerra mondiale, Morel occupa già un posto tra gli uomini d’avanguar­ dia della Gran Bretagna. Denuncia implacabilmente i metodi brutali del capitalismo in Africa e in Asia. Insorge in difesa dei popoli coloniali. Diventa il sostenitore più vee­ mente dei diritti degli uomini di colore. Una civiltà che assassina e rapina gli indigeni d’Asia e d’Africa è, per Morel, una civiltà criminale. E la voce del grande europeo non grida nel deserto. Morel riesce a mobilitare contro 1’imperialismo dispotico e marziale dell’Occidente molti spiriti liberi, molte coscienze indipendenti. L’imperialismo bri­ tannico trova uno dei suoi giudici più implacabili in questo austero fautore della demo­ crazia. Più tardi, quando la febbre bellica, che la guerra diffonde in Europa, sconvolge e intossica l’intelligenza occidentale, Morel è uno degli intellettuali che si mantengono fedeli alla causa della civiltà. Milita attivamente ed eroicamente in quello storico grup­ po di coscientious objectors che, in piena guerra, afferma coraggiosamente il proprio pacifismo. Con i più puri ed eminenti intellettuali inglesi - Bernard Shaw, Bertrand Russell, Normal Angeli, Israel Zangwill - Morel difende le prerogative della civiltà e dell’intelligenza di fronte alla guerra e alla barbarie. La sua propaganda pacifista, come segretario della Union o f Democratic Control, gli fa subire un processo. I giudici lo con­ dannano a sei mesi di prigione nell’agosto del 1917. Questa condanna, nonostante il silenzio della stampa, mobilitata militarmente, ha un’ampia ripercussione europea. Romain Rolland, in Svizzera, scrive una vibrante difesa di Morel. «Per tutto ciò che so di lui, - dice - per la sua attività anteriore alla guerra, per il suo apostolato contro i cri­ mini della civiltà in Africa, per i suoi articoli di guerra, riprodotti molto raramente nelle riviste svizzere o francesi, io lo stimo come un uomo di grande coraggio e di forte fede. Ha osato sempre servire la verità, servirla, esclusivamente, senza curarsi dei peri59 coli e dell’odio accumulatisi contro la sua persona, e cosa molto più rara e difficile, senza curarsi delle sue stesse simpatie, delle sue amicizie, della sua patria stessa, quan­ do la verità si trovava in disaccordo con la sua patria. Da questo punto di vista, egli è della stirpe di tutti i grandi credenti: cristiani dei primi tempi, riformatori del secolo delle battaglie, liberi pensatori delle epoche eroiche, tutti quelli che hanno posto al di sopra di tutto la propria fede nella verità, sotto qualsiasi forma si presenti loro, divina o laica, sempre sacra». Tornato libero, Morel riprende la sua campagna. Per la Union of Democratic Control arrivano tempi migliori. Alle elezioni del 1921 Ylndipendent Labour Party oppone la sua candidatura a quella di Winston Churchill, il più aggressi­ vo caporione dell’antisocialismo britannico, nel distretto elettorale di Dundee. E, ben­ ché Morel sia del tutto diverso dal tipo del politico o dell’agitatore di professione, la sua vittoria è completa. La vittoria si ripete alle elezioni del 1923 e in quelle del 1924. Morel si distingue tra le più illustri figure intellettuali e morali del Labour Party. Appare, in tutto il vasto scenario mondiale, come uno dei sostenitori più illustri della Pace e della Democrazia. Voci dell’Europa, dell’America e dell’Asia chiedono, per Morel, il premio Nobel per la pace. In questo istante, lo abbatte la morte. «La morte di E.D. Morel - scrive Paul Colin in “Europe” - è un capitolo della nostra vita che si chiude e uno di quelli ai quali penseremo più tardi con intensa emo­ zione. Poiché lui era, con Romain Rolland, il simbolo stesso dell’Indipendenza dello Spirito. Il suo invincibile ottimismo, la sua indomabile onestà, la sua modestia calvini­ sta, la sua bella intransigenza, tutto contribuiva a fare di quest’uomo una guida, un consigliere, un capo spirituale». Come dice Colin, tutto un capitolo della storia del pacifismo finisce con E.D. Morel. Morel è stato uno degli ultimi grandi idealisti della democrazia. Appartiene alla categoria degli uomini che, eroicamente, hanno fatto il processo al capitalismo europeo e ai suoi crimini ma che non hanno potuto né hanno saputo eseguire la loro condanna. II Rivendichiamo per Pedro S. Zulen, prima di tutto, l’onore e il merito di aver salva­ to il proprio pensiero e la propria vita dall’influenza della generazione con la quale gli toccò convivere nella sua giovinezza. Il passatismo di una generazione conservatrice e persino tradizionalista che, per uno di quei capricci del paradossale lessico creolo, è tuttora detta generazione «futurista» e che non è riuscita a depositare i suoi tarli nella mentalità di quest’uomo buono e inquieto. Non riuscirono a sedurla nemmeno il decadentismo e l’estetismo della generazione «colónida». Zulen si è mantenuto al margine di entrambe le generazioni. Con i «colónidas» condivideva l’ammirazione per il poeta Eguren; ma dal «colonidismo» lo separava in modo assoluto la sua indole austera e ascetica. La giovinezza di Zulen ci offre la prima concreta analogia con E.D. Morel, Zulen dirige lo sguardo sul dramma della razza peruviana. E, con una abnegazione nobilis­ sima, si consacra alla difesa dell’indigeno. La Secretarla de la Associación ProIndigena assorbe, consuma le sue energie. La rivendicazione dell’indio è il suo ideale. Alle redazioni dei quotidiani arrivano ogni giorno le denunce dell’Associazione. Ma, meno fortunato di Morel in Gran Bretagna, Zulen non ottiene l’adesione alla sua opera di molti spiriti liberi. Tuttavia la porta avanti con lo stesso fervore, quasi da solo, in mezzo all’indifferenza di un ambiente gelido. L'Asociación Prò-Indigena può servirci per constatare l’impossibilità di risolvere il problema dell’indio mediante patronati o leghe filantropiche, e a dirci la misura del grado di insensibilità morale della coscienza creola. 60 Sparisce la Asociación Pro-lndigena, ma la causa dell’indio trova sempre in Zulen il suo principale propugnatore. A Jauja, dove lo porta la sua malattia, Zulen studia l’indio e ne impara la lingua. In Zulen matura, lentamente, la fede nel socialismo. E una volta si rivolge agli indios in termini che allarmano e infastidiscono la perfetta stu­ pidità dei caciques e dei funzionari provinciali. Zulen viene arrestato. La sua posizione rispetto al problema indigeno si fa ogni giorno più precisa e definita. Né la filosofia né l’Università lo allontaneranno dalla più forte passione della sua anima. Ricordo il nostro incontro al Terzo Congresso Indigeno, un anno fa. Il palco e le prime panche della sala della Federación de Estudiantes erano occupate da una vario­ pinta folla indigena. Nelle panche di dietro erano seduti i due unici spettatori dell’Assemblea. I due unici spettatori eravamo Zulen ed io. Nessun’altro era stato attratto dal dibattito. Il nostro dialogo di quella notte avvicinò definitivamente i nostri spiriti. E ricordo un altro incontro ancora più commovente: l’incontro di Pedro S. Zulen con Ezequiel Urviola, organizzatore e delegato delle federazioni indigene di Cuzco, a casa mia, tre mesi fa. Zulen e Urviola si rallegrarono reciprocamente di essersi cono­ sciuti. «Il problema indigeno - disse Zulen - è l’unico problema del Perù». Zulen e Urviola non si sono più visti. Sono morti entrambi lo stesso giorno. Entrambi, l’intellettuale erudito e universitario e l’umile agitatore, sembrano aver avuto una stessa morte e uno stesso destino. (Trad, di Maria Antonietta Peccianti) «Eterodossia della tradizione», pubblicato su «Mundial» il 25 novembre 1927 e ora raccolto in Peruanicemos al Perù, è uno dei momenti più alti e originali della rifles­ sione teorica maridteguiana. In esso si definisce una nuova nozione di tradizione, contrapposta alla visione fossile dei tradizionalisti. Questo concetto rivoluzionario di tradizione sarà uno dei motivi di fondo che ispireranno la sua analisi della realtà nazionale. Eterodossia della tradizione Ho scritto alla fine del mio articolo Rivendicazione di Jorge Manrique: «Con la sua poesia ha a che fare la tradizione, ma non i tradizionalisti. Perché la tradizione è, in contrasto con quello che vogliono i tradizionalisti, viva e mobile. La creano coloro che la negano per rinnovarla e arricchirla. L’uccidono coloro che la vogliono morta e fissa, prolungamento di un passato in un presente senza la forza di inserire in essa il proprio spirito e di mettere in essa il proprio sangue». Queste parole meritano di essere immediatamente ribadite e spiegate. Da quando le ho scritte, mi sento impegnato a inaugurare una tesi rivoluzionaria sulla tradizione. Parlo, è chiaro, della tradizione intesa come patrimonio e continuità storica. E vero che i rivoluzionari la rinnegano e la ripudiano in blocco? Ciò è quello che pretendono coloro che si accontentano della formula gratuita: rivoluzionari iconoclasti. Ma sono solo iconoclasti i rivoluzionari? Quando Marinetti invitava l’Italia a vendere i suoi musei e i suoi monumenti, voleva solo affermare la potenza creativa della sua patria, troppo oppressa dal peso di un passato glorioso al punto di essere schiacciante. Sarebbe stato assurdo prendere alla lettera il suo impetuoso estremismo. Ogni dottrina 61 rivoluzionaria agisce sulla realtà attraverso negazioni intransigenti che è possibile capi­ re solo interpretandole nella loro funzione dialettica. I veri rivoluzionari, non procedono mai come se la storia cominciasse con loro. Sanno di rappresentare forze storiche, la cui realtà non permette che essi si compiac­ ciano con l’illusione verbale avanguardista di inaugurare tutte le cose. Marx estrasse dallo studio complessivo dell’economia borghese i suoi principi di politica socialista. Tutta l’esperienza industriale e finanziaria del capitalismo si trova nella sua dottrina anticapitalista. Proudhon, di cui tutti conoscono la frase iconoclasta, ma non l’opera estesa, fondò i suoi ideali su una complessa analisi delle istituzioni e dei costumi socia­ li, esaminando dalle radici perfino il suolo e l’aria di cui si nutrirono. E Sorel, in cui Marx e Proudhon si riconciliano, si mostrò profondamente preoccupato non solo della formazione della coscienza giuridica del proletariato, ma anche dell’influenza dell’organizzazione familiare e dei suoi stimoli morali, sia nel meccanismo della produ­ zione che nell’intero equilibrio sociale. Non bisogna identificare la tradizione con i tradizionalisti. Il tradizionalismo non mi riferisco alla dottrina filosofica ma a un atteggiamento politico e sentimenta­ le che si risolve invariabilmente in mero conservatorismo - è, in realtà, il maggiore nemico della tradizione. Perché si ostina, in maniera interessata, a definirla come un insieme di reliquie inerti e di simboli estinti. E a compendiarla in una ricetta angu­ sta e unica. La tradizione, invece, si caratterizza proprio per la sua resistenza a lasciarsi rinchiu­ dere in una formula ermetica. Come risultato di una serie di esperienze, - cioè di tra­ sformazioni successive della realtà sotto l’azione di un ideale che la supera consultan­ dola e la modella obbedendo ad essa -, la tradizione è eterogenea e contraddittoria nelle sue componenti. Per ridurla a un concetto unico, è necessario accontentarsi della sua essenza, rinunciando alle sue diverse cristallizzazioni. I monarchici francesi costruiscono tutta la loro dottrina sulla convinzione che la tradizione francese sia fondamentalmente aristocratica e monarchica, un’idea concepi­ bile soltanto da gente completamente ipnotizzata dall’immagine della Francia di Carlo Magno. René Johannet, anche lui reazionario, ma di un’altra stirpe, sostiene che la tra­ dizione francese è assolutamente borghese e che la nobiltà, sulla quale ripongono le loro speranze regressive Maurras e i suoi amici, è improponibile come classe dirigente da quando, per sopravvivere, ha dovuto imborghesirsi. Ma la fase sociale della Francia.sono le sue famiglie contadine, i suoi artigiani laboriosi. E dimostrato il ruolo svolto dagli «scamiciati» nel periodo culminante della rivoluzione borghese. Di modo che se nella prassi del socialismo francese entrasse la declamazione nazionalista, il pro­ letariato della Francia potrebbe anch’esso scoprire nel suo paese, senza troppa fatica, un’importante tradizione operaia. Questo ci rivela che la tradizione appare particolarmente invocata, e perfino fatta propria in maniera fittizia, da coloro che sono meno adatti a ricrearla. Di ciò, nessuno deve meravigliarsi. Il passatista ha sempre il destino paradossale di capire il passato molto meno del futurista. La facoltà di pensare la storia e la facoltà di farla o di crearla, si identificano. Il rivoluzionario ha del passato un’immagine forse un po’ soggettiva, ma animata e viva, mentre il passatista è incapace di rappresentarselo nella sua natura inquieta e fluida. Chi non è capace di immaginare il futuro, non è nemmeno capace, in genere, di immaginare il passato. Non esiste, quindi, un conflitto reale tra il rivoluzionario e la tradizione, se non per coloro che concepiscono la tradizione come un museo o una mummia. Il conflitto è effettivo solo con il tradizionalismo. I rivoluzionari incarnano la volontà della società di non fossilizzarsi in uno stadio, di non immobilizzarsi in un atteggiamento. A volte la società perde questa volontà creativa, paralizzata da una sensazione di esaurimento e di 62 disincanto Ma allora si constata, inesorabilmente, il suo invecchiamento e la sua deca­ denza. La tradizione di questa epoca, la stanno facendo quelli che sembrano a volte nega­ re, in maniera iconoclasta, ogni tradizione. A loro appartiene, almeno, la parte attiva. Senza di essi, la società accuserebbe l’abbandono o l’abdicazione della volontà di vive­ re rinnovandosi e superandosi incessantemente. Maurice Barrès ha lasciato in eredità ai suoi discepoli una definizione abbastanza funebre della Patria. «La Patria è la terra e i morti». Lo stesso Barrès era un uomo dall’aria funebre e mortuaria che, secondo Valle Inclàn, assomigliava fisicamente a un corvo bagnato. Ma le generazioni postbelliche si trovano di fronte al dilemma di seppellire con le spoglie di Barrès il suo pensiero di “paysan” solitario dominato dal culto eccessivo del suolo e dei suoi defunti o di rasse­ gnarsi a venire sepolta anch’essa dopo essere sopravvissuta senza un pensiero proprio, nutrito del suo sangue e delle sue speranze. Identica è la sua situazione di fronte al tra­ dizionalismo. {Trad, di Antonio Metis) «L’opera di José Sabogal», pubblicato su «Mundial» il 28 giugno 1928, e poi incluso nel voi. 6 delle Obras completas, E1 artista y la època, fa parte della campa­ gna di Mariàtegui a favore dell’arte indigenista. A Sabogal, tra l’altro, si deve la pro­ posta del titolo «Amauta» per la rivista fondata nel 1926, oltre che il disegno della sua copertina. L’opera di José Sabogal L’opera di José Sabogal, che questa settimana parte per Buenos Aires, guada­ gnerà in divulgazione e fama continentali tutto quello che, custodita tra le mura con­ ventuali della Escuela de Bellas Artes, non gli era consentito di raggiungere né di pre­ tendere, nonostante i suoi solidi meriti artistici. Buenos Aires è il maggiore mercato artistico e letterario dell’America Latina. Si può giudicare prematura la sua ambizio­ ne al titolo di meridiano - grido di guerra dei suoi gruppi di avanguardia, in opposi­ zione e risposta a una nostalgica e inopportuna rivendicazione di Madrid - ma ogget­ tivamente dobbiamo convenire che, per il numero dei suoi abitanti, per la sua qualità di urbe grande e prospera, per il suo grado crescente di comunicazione con la mag­ gior parte dei paesi del Sudamerica e per la quantità e qualità dei suoi elementi cul­ turali, Buenos Aires ormai, assolve, sotto molti aspetti, alla funzione di capitale suda­ mericana. Sebbene si mescolino a Buenos Aires molte correnti internazionali - o proprio per questo - l’urbe più cosmopolita dell’America Latina partecipa con attento inte­ resse e viva speranza, sotto il profilo intellettuale e artistico, alla formazione di uno spirito indo-americano fondato sui valori indigeni e creoli. L’arte di Sabogal, che costituisce un grande apporto a questo lavoro di definizione della cultura e della per­ sonalità indo-americana, è destinata a impressionare straordinariamente l’intelligenza e la sensibilità argentine. Nell’elaborazione di quest’opera non appare in nessun momento né l’improvvisa­ zione né l’artificio. Il suo è un processo biologico, spontaneo, ordinato. Sabogal pos­ siede le qualità del costruttore. Senza fretta, senza impazienza, aspetta il momento 63 giusto. La sua arte si identifica con la sua vita, completamente colma del piacere e della fatica della creazione. E gli oli e le xilografie che porta a Buenos Aires hanno per noi il valore di non costituire soltanto un insieme di opere artistiche riuscite, ma di significare uno dei fattori spirituali della nuova peruvianità. Sebogai dipinge senza la preoccupazione della tesi. La pittura in sé gli basta. La sua opera è puramente plastica, pittorica. Ma questo non impedisce che, a causa di una certa intima assonanza con sentimenti e rivendicazioni del momento, vada oltre e influisca potentemente sulla vita attuale del Perù. Il pittore pensa e sogna in immagini plastiche. Ma nel processo spirituale di un popolo, le immagini di un pittore sono a volte espressione culminante. Le immagini generano concetti, allo stesso modo che i concetti ispirano immagini. Sabogal appare così per il suo lavoro, estraneo nella sua intenzione a ogni implicazione ideologica, come uno dei costruttori del futuro di questo popolo. Ripeterò su Sabogal alcune cose che ho già espresso. Che indica con la sua opera un capitolo della storia dell’arte peruviana. È uno dei nostri valori-simbolo. Solida, onesta, vitale, la sua opera non esige gli elogi che, tra di noi, si prodigano così facil­ mente e con poca spesa. Una consacrazione locale la sminuirebbe invece di avvalo­ rarla. Sabogal non è ancora molto conosciuto; ma questo non lo preoccupa e ha ragione. Ciò che importa è che a suo tempo sia «riconosciuto». E questo «riconosci­ mento» se lo è già assicurato con il lavoro che ha realizzato. Sabogal è, prima di tutto, il primo «pittore peruviano». Prima di lui avevamo avuto alcuni pittori, ma propriamente «pittori peruviani» non ne avevamo avuto nessuno. Sabogal rivendicherà questo titolo probabilmente per qualcuno di quegli indios che, in modo anonimo ma a volte geniale, decorano mates* sulla sierra. Ma, anche se questa asserzione contiene un poco di verità, allo stesso modo ha anche un tocco di ironia. Quello stesso tocco di ironia che a Sabogal piace mettere nel suo linguaggio. L ’indigenismo continua a soffrire un evidente ostracismo della peruvianità. L ’impegno degli spiriti nuovi vuole, appunto, porre fine a questo ostracismo. Lo spirito di Sabogal è maturato in un momento in cui si osserva la decadenza, la dissoluzione dell’arte occidentale. Spirito forte e profondo di costruttore, di crea­ tore, dotato di una sensibilità geniale, questa arte anarchica e individualista che, secondo i suoi eleganti criteri ed esegeti, si disumanizza, non ha potuto conquistar­ lo. E stato in parte perché è arrivato in Europa in questo periodo di caos - in cui non si concretizza e definisce per ora una corrente costruttiva, sebbene la prom etta­ no le ricerche sincere e i tentativi intelligenti - che l’Europa non è riuscita a euro­ peizzarlo. Ma a sua difesa ha avuto Sabogal, soprattutto, la sua personalità, il suo istinto di artista. Credo, tuttavia, nell’utilità della sua esperienza europea. Il contatto diretto con le scuole e gli artisti di Europa, lo studio personale dei maestri di tutti i tempi, non solo ha arricchito e affinato, senza dubbio, il suo temperamento e ha temprato la sua tec­ nica, forgiata nella fucina di una rivoluzione artistica. Soprattutto lo ha aiutato - per reazione contro un mondo nel quale si sentiva straniero - a scoprirsi e a riconoscersi. La sua autonomia deve molto all’esperienza europea. Sabogal ha compreso o, per lo meno, chiarito in Europa la necessità di un humus storico, di una radice vitale in ogni grande creazione artistica. E se l’Europa non lo ha assimilato, in cambio lui ha assimilato l’Europa, nella formazione della sua tecnica. * Mate: zucca che quando è fresca viene incisa con il bulino e una volta secca conserva le decorazioni, con scene di festa, danze ecc. 64 Non è l’interesse generico del pittore per i motivi pittoreschi e caratteristici, ciò che ha spinto questo artista ammirevole a trovare la ricchezza plastica dell’elemento autoctono. Sabogal sente i suoi temi. Si identifica con la natura e con la razza che interpreta nei suoi quadri e nelle sue xilografie. Dopo di lui, si è diffusa la moda dell’indigenismo nella pittura, ma chi possiede uno sguardo penetrante non potrà mai confondere la profonda e austera versione che ci dà Sabogal del mondo indige­ no, con quella che ci offrono tanti superficiali sfruttatori di questa vena plastica, di cui si nutre adesso perfino la pittura turistica. Si potrebbe dire che nell’arte di Sabogal rinascono elementi dell’arte incaica, a tal punto che si avverte la sua compe­ netrazione con i temi vernacoli. Severo con gli altri, ma severo anche con se stesso, come ogni autentico creatore, Sabogal possiede l’integrità artistica di quei maestri prerinascimentali che tanto gli sono cari. Non si trovano nella sua opera concessioni al mercato né civetterie con la frivolezza dell’ambiente. Lavora per realizzarsi liberamente e pienamente. Per que­ sto la sua opera appartiene già alla storia, mentre altre non andranno al di là della cronaca. (Trad, di Riccardo Radini) «Esiste un pensiero ispanoamericano?», pubblicato su «Mundial» il 1° maggio 1923, oggi fa parte del voi. 12 delle Obras completas, Temas de N uestra América. In esso Mariàtegui afferma la sua visione sulle radici culturali dell’America latina respingendo ogni tendenza a rimuovere in termini semplicistici la componente europea. Esiste un pensiero ispano-americano? Quattro mesi fa, in un articolo sull’idea di un congresso di intellettuali ibero-americani, formulai questa domanda. L’idea del congresso ha fatto, in quattro mesi, molta strada. Ora appare come un’idea che, in maniera vaga ma simultanea, palpitava in vari circoli intellettuali dell’America indo-iberica. Come un’idea che germinava allo stesso tempo in diversi centri nevralgici del continente. Ancora schematica ed embrionale, comincia oggi a svilupparsi e a prendere consistenza. In Argentina, un gruppo energico e volitivo si propone di assumere la funzione di animarla e realizzarla. Il lavoro di questo gruppo tende a collegarsi con quello della maggior parte dei gruppi ibero-americani affini. Circolano fra questi gruppi alcuni questionari che propongono o suggeriscono temi che deve discutere il congresso. Il gruppo argentino ha tratteggiato il programma di una «Unione Latino-Americana». Esistono, insomma, gli elementi preparatori di un dibattito, nel corso del quale si ela­ boreranno e si preciseranno i fini e le basi di questo movimento di coordinamento o di organizzazione del pensiero ispano-americano come, ancora un po ’ astrattamente, sono soliti definirlo i suoi iniziatori. II Mi pare, pertanto, che è tempo di considerare e chiarire la questione proposta nel mio articolo citato. Esiste ormai un pensiero tipicamente ispano-americano? Credo che, a questo proposito le affermazioni dei fautori della sua organizzazione si spingano 65 troppo lontano. Certi concetti di un messaggio di Alfredo Palacios ai giovani universi­ tari dell’America iberica hanno indotto, alcuni temperamenti eccessivi e tropicali, ad una stima esorbitante del valore e della potenza del pensiero ispano-americano. Il mes­ saggio di Palacios, entusiasta e ottimista nelle sue asserzioni e nelle sue frasi, come con­ veniva al suo carattere di arringa o di proclama, ha generato una serie di esagerazioni. E indispensabile, pertanto, una rettifica di questi concetti troppo categorici. «La Nostra America - scrive Palacios - fino ad oggi ha vissuto d’Europa assumen­ dola come guida. La sua cultura l’ha nutrita e orientata. Ma l’ultima guerra ha reso evi­ dente ciò che si intuiva: che nel cuore di questa cultura c’erano i germi della sua stessa dissoluzione». Non ci si può sorprendere che queste frasi abbiano stimolato un’inter­ pretazione sbagliata della tesi della decadenza dell’Occidente. Palacios sembra annun­ ciare una radicale emancipazione della Nostra America dalla cultura europea. Il tempo del verbo si presta all’equivoco. Il giudizio del lettore semplicistico deduce dalla frase di Palacios che «fino ad ora la cultura europea ha nutrito e orientato» l’America; ma che a partire da oggi non la nutre e non la orienta più. Decide, almeno, che a partire da oggi l’Europa ha perso il diritto e la capacità di influire spiritualmente e intellettual­ mente sulla nostra giovane America. E questo giudizio si accentua e si esaspera, inevi­ tabilmente, quando, alcune righe dopo, Palacios aggiunge che «non ci servono i per­ corsi dell’Europa né le vecchie culture» e vuole che ci emancipiamo dal passato e dall’esempio europei. La Nostra America, secondo Palacios, si sente pronta a dare alla luce una cultura nuova. Estremizzando questa opinione o questo augurio, la rivista Valoraciones parla della necessità di «liquidare i conti con i luoghi comuni d’uso, espressioni agonizzanti dell’anima decrepita dell’Europa». Dobbiamo vedere in questo ottimismo un segno e un dato dello spirito afferma­ tivo e della volontà creativa della nuova generazione ispano-americana? Penso di riconoscere, prima di tutto, un tratto della vecchia e incurabile esaltazione verbale della nostra America. La fiducia dell’America nel suo futuro non ha bisogno di ali­ mentarsi di un’artificiosa e retorica esagerazione del suo presente. Va bene che l’America si creda predestinata ad essere il focolare della futura civiltà. Va bene che si dica: «per la mia razza parlerà lo spirito» *. Va bene che si consideri eletta per insegnare al mondo una nuova verità. Ma non che si pensi sul punto di sostituire l’Europa né che si dichiari ormai finita e tramontata l’egemonia intellettuale del popolo europeo. La civiltà occidentale è in crisi; ma non c’è ancora nessun indizio che stia per cade­ re in un definitivo collasso. L’Europa non è, come si dice assurdamente, esaurita e paralitica. Malgrado la guerra e il dopoguerra conserva il suo potere creativo. La nostra America continua ad importare dall’Europa idee, libri, macchine, mode. Ciò che fini­ sce, ciò che delinea, è il ciclo della civiltà capitalistica. La nuova forma sociale, il nuovo ordine politico, si stanno plasmando nel seno dell’Europa. La teoria della decadenza dell’occidente, prodotto del laboratorio occidentale, non prevede la morte dell’Europa ma della cultura che lì ha sede. Questa cultura europea che Spengler giudica in deca­ denza, senza per questo pronosticarle un decesso immediato, succedette alla cultura greco-romana, anch’essa europea. Nessuno scarta, nessuno esclude la possibilità che l’Europa si rinnovi e si trasformi ancora una volta. Nel panorama storico che domina il nostro sguardo, l’Europa si presenta come il continente delle più grandi palingenesi. I più grandi artisti, i più grandi pensatori contemporanei, non sono ancora europei? L’Europa si nutre della linfa universale. Il pensiero europeo affonda nei più lontani * Motto creato da José Vasconcelos per l’Università Nazionale del Messico. 66 misteri, nelle più antiche civiltà. Proprio per questo dimostra la sua possibilità di guari­ re e di rinascere. Ili Torniamo al nostro problema. Esiste un pensiero tipicamente ispano-america­ no? Mi pare evidente l’esistenza di un pensiero francese, di un pensiero tedesco, ecc. nella cultura d ’Occidente. Non mi pare ugualmente evidente, nello stesso senso, l’esistenza di un pensiero ispano-americano. Tutti i pensatori della nostra America si sono educati ad una scuola europea. Non si sente nella loro opera lo spi­ rito della razza. La produzione intellettuale del continente manca di tratti propri. Non ha contorni originali. Il pensiero ispano-am ericano generalm ente non è nient’altro che una rapsodia composta da motivi ed elementi del pensiero europeo. Per provarlo basta passar in rassegna l’opera dei più alti rappresentanti dell’intelli­ ghenzia indo-iberica. Lo spirito ispano-americano è in fase di elaborazione. Anche il continente, la razza, si stanno formando. Le alluvioni occidentali nelle quali si sono sviluppati gli embrioni della cultura ispano e latino-americana, - in Argentina, in Uruguay si può parlare di latinità - non sono riuscite a compenetrarsi né ad armonizzarsi col suolo sul quale la colonizzazione d’America le ha depositate. In gran parte della Nostra America costituiscono uno strato superficiale e indipen­ dente nel quale non affiora l’anima indigena, umiliata e schiva, a causa della brutalità di una conquista che in alcuni paesi ispano-americani non ha ancora cambiato meto­ do. Palacios dice: «Siamo popoli nascenti, liberi da legami e da atavismi, con immense possibilità e vasti orizzonti di fronte a noi. L’incrocio di razze ci ha dato un’anima nuova. Dentro le nostre frontiere si accampa l’umanità. Noi e i nostri figli siamo una sintesi di razze». In Argentina è possibile pensare così, in Perù e in altri paesi dell’America ispanica, no. Qui la sintesi non esiste ancora. Gli elementi della naziona­ lità in elaborazione non hanno ancora potuto fondersi o saldarsi. Il denso strato indi­ geno si mantiene quasi totalmente estraneo al processo di formazione di questa peruvianità che sono soliti esaltare e gonfiare i nostri sedicenti nazionalisti, predicatori di un nazionalismo senza radici sul suolo peruviano, imparato nei vangeli imperialisti d’Europa e che, come già ho avuto l’occasione di rimarcare, è il sentimento più stra­ niero e artificiale che esista in Perù. IV Il dibattito che comincia deve, appunto, chiarire tutti questi problemi. Non deve preferire la comoda finzione di dichiararle risolte. L’idea di un congresso di intellettua­ li ibero-americani sarà valida ed efficace, innanzitutto, nella misura in cui riuscirà a proporle. Il valore dell’idea si trova quasi interamente nel dibattito che suscita. Il programma della sezione argentina della accennata Unione Latino-Americana, il questionario della rivista Repertorio Americano della Costa Rica e la discussione del gruppo che qui lavora per il congresso, invitano gli intellettuali della nostra America a meditare e ad esprimersi su tutti i problemi fondamentali di questo continente in for­ mazione. Il programma della sezione argentina incoraggia uno spirito moderno e una volontà rinnovatrice. Questo spirito, questa volontà, gli conferiscono il diritto di diri­ gere il movimento. Perché il congresso, se non rappresenta e organizza la nuova gene­ razione ispano-americana, non rappresenterà né organizzerà assolutamente niente. (Trad, di Elisabetta Eineschi) 67 «U iberoamericanismo e il panamericanismo», uscito sempre in «Mundial» l’8 maggio 1925 e raccolto anch’esso in Temas de Nostra América, svolge una battaglia su due fron­ ti. Da una parte contro gli anacronistici tentativi egemonici della Spagna, in nome delle comuni matrici culturali. Dall’altra contro il panamericanismo degli Stati Uniti, che maschera il progetto imperialista. Libero-americanismo e il Pan-americanismo i L’ibero-americanismo riappare in forma sporadica nei dibattiti della Spagna e dell’America spagnola. E un ideale o un tema che ogni tanto occupa il dialogo degli intellettuali della lingua. (Mi pare che non si possa proprio dire gli intellettuali della razza). Ma ora la discussione ha una portata più ampia e un’intensità maggiore. Nei gior­ nali di Madrid i luoghi comuni deU’ibero-americanismo suscitano, attualmente, un notevole interesse. Il movimento di avvicinamento o di coordinamento delle forze intellettuali ibero-americane, gestito e propugnato da alcuni nuclei di scritto della nostra America, attribuisce oggi a questi luoghi comuni un valore concreto e un nuovo rilievo. Questa volta la discussione ripudia in molti casi, o almeno ignora, in altri, l’iberoamericanismo di protocollo (Ibero-americanismo ufficiale di don Alfonso, che si incar­ na nella borbonica e decorativa stupidità di un infante e della cortigiana mediocrità di Francos Rodriguez). L’ibero-americanismo si spoglia, nel dialogo degli intellettuali liberi, di qualsiasi ornamento diplomatico. Ci rivela così la sua realtà di ideale per la maggior parte dei rappresentanti dell’intellighenzia e della cultura della Spagna e dell’America indo-iberica. Il pan-americanismo, invece, non gode del favore degli intellettuali. Non conta, in questa astratta e disorganica categoria, su adesioni degne di nota e di stima. Raccoglie solo alcune larvate simpatie. La sua esistenza è esclusivamente diplomati­ ca. Anche la mente più tarda scopre facilmente nel pan-americanismo un travesti­ mento deU’imperialismo nordamericano. Il pan-americanismo non appare come un ideale del continente; appare, piuttosto, inequivocabilmente, come un ideale natu­ rale dell’Impero yankee. (Gli Stati Uniti, prima che una grande democrazia, come amano definirli gli apologeti di queste latitudini, costituiscono un grande Impero). Ma il pan-americanismo esercita - nonostante tutto questo, o meglio a causa di tutto questo - una vigorosa influenza sull’America indo-iberica. La politica norda­ mericana non si preoccupa troppo di far passare come un ideale del Continente l’ideale dell’Impero. Non ha eccessivo bisogno del consenso degli intellettuali. Il pan-americanismo ricama la sua propaganda su una forte maglia di interessi. Il capi­ talismo yankee invade l’America indo-iberica. Le vie del traffico commerciale pana­ mericano sono le vie di questa espansione. La moneta, la tecnica, le macchine e le merci dominano sempre più nell’economia delle nazioni del Centro e del Sud. Per questo l’Impero del nord può facilmente sorridere di una teorica indipendenza dell’intelligenza e dello spirito deH’America indo-spagnola. Gli interessi economici e politici gli assicureranno, a poco a poco, l’adesione o almeno la sottomissione della maggior parte degli intellettuali. Nel frattempo gli bastano, per le parate del pan-americanismo, i professori e i funzionari che riesce a mobilitare l’Unione pana­ mericana di Mr. Rowe. 68 II Niente risulta più inutile, quindi, che intrattenersi in platonici confronti tra l’ideale ibero-americano e l’ideale pan-americano. A poco giova all’ibero-americanismo il numero e le qualità delle adesioni intellettuali. Ed ancor meno gli giova l’elo­ quenza dei suoi letterati. Mentre l’ibero-americanismo si fonda sui sentimenti e sulle tradizioni, il pan-americanismo si fonda sugli interessi e sui traffici. La borghe­ sia ibero-americana ha molto più da imparare alla scuola del nuovo impero yankee che alla scuola della vecchia nazione spagnola. Il modello yankee, lo stile yankee, si propagano nell’America indo-iberica mentre l’eredità spagnola si consuma e si perde. Il proprietario terriero, il banchiere, il finanziere dell’America spagnola, guardano molto più attentamente a New York che a Madrid. L ’andamento del dol­ laro interessa loro m olto di più del pensiero di U nam uno o della Revista de Occidente di Ortega y Gasset. A questa gente che governa l’economia, e quindi la politica, dell’America del Centro e del Sud, dell’ideale ibero-americano importa pochissimo. Nel migliore dei casi sono disposti a sposarlo insieme all’ideale panamericanista. I commessi viaggiatori del pan-americanismo, d ’altra parte, sembrano loro più efficaci, anche se meno pittoreschi, dei commessi viaggiatori - accademici battaglieri - dell’ibero-americanismo ufficiale, che è l’unico che un borghese pru­ dente può prendere sul serio. Ili La nuova generazione ispanoamericana deve definire in maniera netta ed esatta il senso della sua opposizione agli Stati Uniti. Deve dichiararsi avversaria dell’Impero di Dawes e di Morgan, non del popolo né dell’uomo nordamericani. La storia della cultura nordamericana ci offre molti nobili casi di indipendenza dell’intelligenza e dello spirito. Roosevelt è il depositario dello spirito dell’Impero, ma Thoreau è il depositario dello spirito dell’Umanità. Henri Thoreau, che nell’epoca attuale riceve l’omaggio dei rivoluzionari europei, ha anche il diritto di ricevere la devozione dei rivoluzionari della Nostra America. È forse colpa degli Stati Uniti se noi ibero-americani conosciam o più il pensiero di T heodore Roosevelt che quello di H enri Thoreau? Gli Stati Uniti sono certamente la patria di Pierpont Morgan e di Henri Ford; ma sono anche la patria di Ralph Waldo Emerson, di Williams James, di Walt Whitman. La nazione che ha prodotto più grandi capitali dell’industria ha prodotto anche i più grandi maestri dell’idealismo continentale. E oggi la stessa inquietudine che agita l’avanguardia dell’America spagnola muove l’avanguardia dell’America del Nord. I problemi della nuova generazione ispanoamericana sono, con varianti dovu­ te al diverso contesto e alla diversa intensità, gli stessi problemi della nuova genera­ zione nordamericana. Waldo Frank, uno degli uomini nuovi del Nord, nei suoi studi sulla Nostra America dice cose valide sia per la gente della sua America che per la gente della nostra. Gli uomini nuovi dell’America indo-iberica possono e devono capirsi con gli uomini dell’America di Waldo Frank. Il lavoro della nuova generazione ibero-ame­ ricana può e deve articolarsi e solidarizzare con il lavoro della nuova generazione yankee. Queste due generazioni coincidono. Le differenzia la lingua e la razza, ma le unisce e le accomuna la stessa emozione storica. L ’America di Waldo Frank è anch’essa, come la Nostra America, avversaria dell’Impero di Pierpont Morgan e del Petrolio. Invece, la stessa emozione storica che ci avvicina all’America rivoluzionaria ci sepa­ ra dalla Spagna reazionaria dei Borboni e di Primo Rivera. Che cosa ci può insegnare la 69 Spagna di Vàsquez de Mella e di Maura, la Spagna di Pradera e di Francos Rodriguez? Niente; neppure il metodo di un grande stato industriale e capitalista. La civiltà della Potenza non ha la sua sede né a Madrid né a Barcellona, ma a New York, a Londra, a Berlino. La Spagna dei Re Cattolici non ci interessa assolutamente. Signor Pradera, Signor Francos Rodriguez, tenetevela pure. IV L’ibero-americanismo ha bisogno di un po’ più di idealismo e di un po’ più di realismo. Ha bisogno di compenetrarsi con i nuovi ideali deH’America indo-iberica. Ha bisogno di inserirsi nella nuova realtà storica di questi popoli. Il pan-americanismo si appoggia sugli interessi dell’ordine borghese; l’ibero-americanismo deve appoggiarsi sulle masse che lavorano per creare un ordine nuovo. L’ibero america­ nismo ufficiale sarà sempre un ideale accademico, burocratico, impotente, senza radici nella vita. Come ideale dei nuclei rinnovatori diventerà, invece, un ideale militante, attivo, di massa. (Trad, di Silvia Poggianti) L'attenzione agli aspetti del costume e della vita quotidiana, forgiata cizio del giornalismo, non viene meno negli anni della maturità. gustosa nota su «La civiltà e i capelli», pubblicata su «Mundial» il oggi raccolta nel voi. 4 delle Obras completas, La Novela y la Vida. sor Canella-Ensayos sintéticos-Reportaijes y encuestas. in tanti anni di eser­ Lo dimostra questa 7 novembre 1924, e Siegfried y el profe- La civiltà e i capelli ' Il tipo di vita che la civiltà produce è, necessariamente, un tipo di vita raffinato, depurato, artificioso. La civiltà stilizza, cesella e lustra gli uomini e le cose. È naturale, pertanto, che la civiltà occidentale non ami né barbe né capelli. L ’uomo di questa civiltà si è evoluto dalla più primitiva esuberanza delle chiome a una rasatura quasi assoluta. Le barbe e i capelli si trovano attualmente in decadenza. L’uomo della civiltà occidentale era originariamente barbuto e con lunghe chiome. Carlo Magno, l’imperatore dalla barba fiorita, rappresenta genuinamente il Medioevo da questo e da altri punti di vista. Merovingi e carolingi portarono, come Carlo Magno, frondose barbe. Il misticismo e la marzialità erano, nel Medioevo, due grandi generato­ ri di barbe e capelli. Né gli anacoreti, né i crociati avevano disposizione spirituale né fisica per radersi. Il Rinascimento esercitò grande influenza sull’acconciatura. L’umanità occiden­ tale tornò agli ideali e ai gusti pagani. Dopo alcuni secoli di cupo misticismo, retti­ ficò il suo atteggiamento di fronte alla bellezza effimera. Leonardo da Vinci passò alla posterità con una lunga e abbondante barba da astrologo e Papa Giulio II non pensò a tagliarsi la sua, prima di posare per il celebre ritratto di Raffaello. Ma con il suo recupero dell’estetica greco-romana, il Rinascimento provocò una crisi delle barbe medioevali. Michelangelo non potè fare a meno di immaginare solennemente e taumaturgicamente barbuto Mosè; ma, invece, concepì David ellenicamente nudo 70 e imberbe. In questo il Rinascimento era coerente con le sue origini e i suoi orienta­ menti. La scultura e la pittura greche e romane non screditavano totalm ente la barba. La attribuivano a Giove, a Ercole e a altri personaggi della mitologia e della storia. Ma, ad Atene e a Roma, la barba ebbe limiti discreti. Mai arrivò alla lun­ ghezza di una barba carolingia. E fu un attributo umano piuttosto che divino. Policleto, Fidia, Prassitele, ecc. sognarono per gli dei più leggiadri una bellezza totalmente imberbe. Apollo, Mercurio, Dioniso, nessuno li ha mai immaginati bar­ buti. L’Apollo di Belvedere con baffi e basette sarebbe stato, in verità, un Apollo assurdo. L’epoca barocca non portò l’umanità a una restaurazione delle barbe tagliate dal Rinascimento; ma mostrò evidente favore per gli eccessi delle chiome. Tutto fu esube­ rante e manierato nell’estetica barocca: la decorazione, l’architettura, la capigliatura. Questa estetica portò la gente all’uso delle chiome più lunghe che registra la storia dell ’acconciatura. L’estetica rococò segnò una nuova reazione contro la barba. Impose la moda delle parrucche incipriate.. La Rivoluzione, più tardi, lasciò poche parrucche intatte. E il Direttorio, molto sobrio per quello che riguarda la capigliatura, tollerò la moda pru­ dente e moderata della basetta. Le basette di Napoleone, di Bolivar e di San Martin appartengono a questo periodo dell’evoluzione dell’acconciatura. Il fenomeno romantico provocò un tentativo di restaurazione del più arcaico ed eccessivo uso delle chiome e delle barbe. Gli artisti romantici si comportarono in modo molto reazionario. Chi non ha visto in qualche incisione la testa chiomata e bar­ buta di Théophile Gautier? E dove non è arrivata una fotografia del quadro di Fantin Latour di un cenacolo letterario della sua epoca? Il parnassianesimo avrebbe dovuto indurre gli uomini di lettere a un certo atticismo nella loro acconciatura; ma, a quanto pare, non accadde così. Fino ai nostri tempi, Anatole France, letterato di ascendenza parnassiana, conservò e coltivò una barba poco patriarcale! Ma tutte queste restaurazioni di baffi, barbe e capigliature furono parziali, transi­ torie, interine. La civiltà capitalista non le ammetteva. Le considerava come tentativi reazionari. Lo sviluppo dell’igiene e del positivismo crearono, inoltre, un’atmosfera avversa a queste restaurazioni. La borghesia sentì una crescente necessità di alleggerir­ si da barbe e capelli. Gli yankee si rasarono radicalmente. E i tedeschi non rinunciaro­ no del tutto al baffo; ma, invece, rispettosi del progresso e delle leggi, decisero di radersi integralmente la testa. Si propagò in tutto il mondo la «gillette». Questa ten­ denza della borghesia alla depilazione provocò una protesta romantica di molti rivolu­ zionari che, per affermare la loro opposizione al capitalismo, decisero di lasciarsi cre­ scere smisuratamente la barba e i capelli. Le gloriose barbe di Karl Marx e di Leone Tolstoy influirono probabilmente su questa attitudine estetica, sostenuta con il suo esempio da Jean Jaurès e da altri leaders della Rivoluzione. Provengono da questi tempi, dal romanticismo delle chiome degli uomini della Rivoluzione, la parrucca liscia dell’ex-socialista Briand, l’acconciatura aristocratica di Mac Donald e la barba ruvida e procace di Turati. La parrucca femminile è l’ultimo capitolo di questo processo di decadenza dei capelli. Le donne si tagliavano i capelli per le stesse ragioni storiche degli uomini. Acquisiscono in ritardo questo progresso. Ma con ritardo hanno acquisito anche altri progressi sostanziali. La civiltà occidentale, dopo aver m odificato fisicamente l’uomo, non poteva lasciare intatta la donna. E probabile che questo sia un altro aspetto del destino delle culture. Abbiamo già visto come nemmeno la civiltà antica tollerò troppe barbe e capigliature eccessive. Le dee dell’Olimpo non portavano sciolti, né fluenti, né lunghi, i capelli. L’acconciatura della Venere di Milo e di tutte le altre Veneri era, senza dubbio, l’acconciatura ideale e prediletta dell’antichità. 71 Qualcuno osserverà, maliziosamente, che Venere fu una dama poco austera e poco casta. Ma nessuno dubiterà dell’onestà di Giunone che, nella capigliatura, non si dif­ ferenziava da Venere. La moda occidentale ha stilizzato, con un gusto cubista e sintetista, il vestito dell’uomo. La figura dell’uomo metropolitano è sobria, semplice, geometrica come quella di un grattacielo. La sua estetica rifiuta, per questo, le barbe e i capelli boscosi. A mala pena è accettato un esiguo e discreto baffo. Lo stile della moda femminile, malgrado alcune fugaci deviazioni, ha seguito la stessa direzione. Il processo della moda è stato, insomma, un processo di semplificazione del vestito e della acconciatu­ ra. Il vestito si è fatto sempre più utile e sommario. È stato così che sono morte, per non rinascere, le crinoline, le gorgiere, gli strascichi, le frondosità passate. Tutti i ten­ tativi di restaurazione dello stile rococò sono falliti. La moda femminile si ispira a estetiche più remote dell’estetica rococò o dell’estetica barocca. Adotta gusti egizi o greci. Tende alla semplicità. La parrucca nasce da questa tendenza. È uno sforzo per uniformare totalmente l’acconciatura femminile, il nuovo stile del vestito e della forma femminile. Georg Simmel, in un originale saggio, sosteneva la tesi dell’arbitrarietà più o meno assoluta della moda. «Quasi mai - scriveva - possiamo scoprire una ragione materiale, estetica o di altra indole che spieghi le creazioni. Così, per esempio, praticamente, i nostri vestiti sono, generalmente, adatti alle nostre necessità; ma non è possibile trova­ re la minima traccia di utilità nelle decisioni con cui la moda interviene per dare loro questa o quella forma». Mi sembra che l’unica arbitrarietà flagrante è, in questo caso, l’arbitrarietà della tesi dell’originale filosofo e saggista tedesco. Le creazioni della moda sono instabili e mutevoli; ma riappare sempre in esse una linea duratura, una trama persistente. Contrariamente a ciò che asseriva Georg Simmel, è possibile scoprire una ragione materiale, estetica o di altra indole che le spieghi. Il vestito dell’uomo moderno è una creazione utilitaria e pratica. Sottostà a ragioni di utilità e comodità, la moda ha adattato il vestito al nuovo genere di vita. Le sue cause non sono state disinteressate. Non sono state estranee, e meno ancora superiori, alla prosaica realtà umana. Ed è per questo, appunto, che il vestito maschile subisce la dia­ triba e il disprezzo romantici di molti artisti. La moda femminile ha avuto uno sviluppo più libero dalla pressione della realtà. Il vestito della donna può concedersi il lusso di essere più ornamentale, più decorativo, più arbitrario del vestito dell’uomo. L’uomo ha accettato la prosa della vita; la donna ha preferito generalmente la poesia. Le sue mode, pertanto, hanno sacrificato molte volte l’utilità alla civetteria. Ma, man mano che la donna è diventata impiegata, elettrice, politica ecc., ha cominciato a dipendere dalla stessa realtà prosaica del maschio. Questo cambiamento ha dovuto riflettersi nella moda. Una donna giornalista, per esempio, non può usare un vestito troppo mondano e frivolo. Ma non è indispensabile che rinunci alla bellezza, né alla grazia, né alla civette­ ria. Io conobbi alla Conferenza di Genova una giornalista inglese che era riuscita a com­ binare e a coordinare il suo tailleur, il suo cappello di feltro e i suoi occhiali di tartaruga con lo stile della sua bellezza. Nemmeno nei momenti in cui prendeva appunti per il suo giornale perdeva qualcosa della sua bellezza superiore, originale, strana. Non mancava di eleganza. Ed era la sua un’eleganza personale, nuova, insolita. Le abitudini, le funzioni e i diritti della donna moderna codificano inevitabilmente la sua moda e la sua estetica. La parrucca, considerata oggettivamente, appare come un fenomeno spontaneo, come un prodotto logico della civiltà. A molte persone la parruc­ ca pare quasi un attentato contro la natura. Ma la civiltà non è altro che artificio. La civiltà è un permanente attentato contro la natura, un continuo sforzo per correggerla. I romantici avversari della parrucca hanno sprecato le loro energie. La parrucca non è una creazione fugace della moda. E qualcosa di più di una tappa del suo itinerario. La 72 parrucca non conquisterà il mondo intero; ma si ambienterà ampiamente nelle urbi. E non sarà fatale né alla bellezza nè all’estetica. L’estetica e la bellezza sono volubili e instabili come la vita. E, in ogni caso, sono indipendenti dalla lunghezza dei capelli. La moda, insomma, non imporrà alle donne transizioni troppo brusche. Non è probabile per esempio, che le donne si decidano a radersi la testa come i tedeschi. Le donne, dopo tutto, sono più ragionevoli di quello che sembra. E sanno che un po’ di capelli saranno sempre molto decorativi, sebbene non siano rigorosamente necessari. (Trad, di Antonella Cancellier) Alcuni anni dopo Mariàtegui pubblica nella stessa rivista, I’l l settembre 1927, un artico­ lo dal titolo, nell’originale, quasi identico. «La civiltà e il cavallo», oggi raccolto nello stesso voi. 4 delle Obras completas, si ricollega in realtà al nucleo più profondo della riflessione dell’autore sulla società andina. La civiltà e il cavallo L’indio a cavallo è una delle testimonianze viventi su cui Luis E. Valcàrcel basa, nel suo libro Tempeste sulle Ande, il suo vangelo - proprio così vangelo: buona novella - del «nuovo indio». L’indio a cavallo costituisce, per Valcàrcel, un simbolo di carne. «L’indio a cavallo - scrive Valcàrcel - è un indio nuovo, altero, libero padrone, orgoglioso della sua razza, che disprezza il bianco e il meticcio. Là dove l’indio ha infranto la proibizione spagnola di cavalcare, ha infranto anche le catene». Lo scrittore cuzchegno parte da una valutazione esatta del ruolo del cavallo nella Conquista. Il cavallo, come ben si sa, contribuì in modo essenziale e decisivo a dare allo spagnolo, agli occhi dell’indio, un potere soprannaturale. Gli spagnoli, per sotto­ mettere l’indigeno, portarono con sé, come armi materiali, il ferro, la polvere da sparo e il cavallo. E stato detto che la debolezza fondamentale della civiltà autoctona fu la sua non conoscenza del ferro. Ma, in verità, non è esatto attribuire a un unico fattore di superiorità la vittoria della cultura occidentale sulle culture indigene dell’America. Questa vittoria trova la sua completa spiegazione in un insieme di supe­ riorità fra le quali non primeggiano, certamente, quelle fisiche. E tra queste, va rico­ nosciuta la priorità di quelle zoologiche. Primo, la creatura; poi l’elemento creato, artificiale, tecnico. E tutto ciò, a prescindere dal fatto che l’addomesticamento dell’animale, la sua utilizzazione per gli scopi e per il lavoro umani, rappresenta forse la più antica delle tecniche. Piuttosto che soggiogato dal ferro e dalla polvere da sparo, preferiamo immagi­ nare l’indio soggiogato non tanto dal cavallo bensì dal cavaliere. Nel cavaliere rivi­ veva ingentilito, spiritualizzato, umanizzato, il mito pagano del centauro. Il cavalie­ re, archetipo del Medioevo - che mantiene il suo dominio spirituale sulla moder­ nità, fino a tuttoggi, dato che il borghese psicologicamente non ha fatto altro che im itare e so p p ia n ta re il n o bile - è l ’eroe della C o n q u ista. E la C onquista dell’America, l’ultima crociata, appare come la più storica, la più illuminata, la più straordinaria impresa della cavalleria. Impresa tipicamente cavalleresca al punto che con essa doveva morire la cavalleria stessa, alla morte - tragica, cristiana e grandiosa - del Medioevo. Il Colonialismo intuì e rivendicò a tal punto il ruolo del cavallo nella Conquista che - con i suoi decreti che proibivano all’indio l’uso del cavallo - il merito dell’epo73 pea sembra appartenere più al cavallo che all’uomo. Il cavallo, sotto il dominio spa­ gnolo, era tabù per l’indio. Ciò poteva essere inteso come una conseguenza della sua condizione di servo, se si ricorda che Cervantes, attento al valore della cavalleria, non concepì Sancio cavaliere di un ronzino come don Chisciotte, bensì di un asino. Ma, poiché nella Conquista si mescolarono nobili e villani, bisogna supporre l’intenzione di riservare allo spagnolo gli strumenti - vale a dire il segreto - della Conquista. Perché il rigore di questo tabù condusse lo spagnolo a mostrarsi più generoso a con­ cedere il suo amore piuttosto che i suoi cavalli. L’indio ebbe il cavaliere prima del cavallo. La più acuta intuizione poetica di Chocano, sebbene come tutte le sue cose si rivesta di toni retorici e ampollosi, è forse quella che fu creata dal suo elogio de I cavalli dei conquistatori. Cantare in questo modo la Conquista è sentirla, prima di tutto, come epopea del cavallo senza il quale la Spagna non avrebbe imposto la sua legge nel Nuovo Mondo. L’immaginazione creola conservò dopo la Colonia questo senso medioevale del cavallo. Tutte le metafore del suo linguaggio politico denunciano eredità e pregiudi­ zi da cavalieri. L’espressione caratteristica di ciò che ambiva il «caudillo» sta nel luogo comune delle «redini del potere». E «montare a cavallo» fu chiamata sempre l’azione di insorgere per ottenerle. Il governo che vacillava si trovava «sopra un cat­ tivo cavallo». L’indio a piedi e, ancor più, la coppia malinconica dell’indio e del lama, è l’allego­ ria di una servitù. Valcàrcel ha ragione. Il gaucho deve la metà del suo esistere alla pampa e al cavallo. Senza il cavallo come sarebbe pesato sul creolo argentino lo spa­ zio e la distanza! Come pesano ancora adesso, sulle spalle dell’indio chasqui *. Gorkj ci presenta il mugik schiacciato dalla steppa senza fine. Il fatalismo, la rassegnazione del mugik, derivano da questa impotenza di fronte alla natura. Per sopportare di più, il mugik contava sulla sua tradizione di nomadismo e sui temprati e rurali cavallini tartari che così tanto assomigliavano a quelli di Chumbivilcas. Ma Valcàrcel ci deve un’altra stampa, un altro simbolo: l’indio chauffeur, come lo vide a Puno, quest’anno, quando erano già scritte le cartelle di Tempesta sulle Ande. L’epoca industriale borghese della civiltà occidentale rimase, per molte ragio­ ni, legata al cavallo. Non solo perché persistette nel suo spirito l’attaccamento ai moduli e allo stile della nobilità equestre, ma perché il cavallo continuò a essere, per molto tempo, un ausiliario indispensabile dell’uomo. La macchina sostituì, a poco a poco, il cavallo per molti dei suoi impieghi. Ma l’uomo, riconoscente, inserì per sempre il cavallo nella nuova civiltà, chiam ando «cavallo m otore» l’unità di potenza motrice. L’Inghilterra, che conservò sotto il capitalismo gran parte del suo stile e del suo gusto aristocratici, stilizzò e sublimò il cavallo inventando il pur sang da corsa. Vale a dire, il cavallo emancipato della tradizione servile dell’animale da tiro e dell’animale da soma. Il cavallo puro che, sebbene possa sembrare irriverente, rappresenterebbe, nel suo ambito, qualcosa di simile a ciò che la poesia pura rappresenta nel proprio. Il cavallo fine a se stesso, sopra al quale il cavaliere sparisce per essere sostituito dal jockey. Il cavaliere resta a piedi. Tuttavia questo sembra essere l’ultimo omaggio della civiltà occidentale alla spe­ cie equina. Con lo spostamento dall’Inghilterra agli Stati Uniti dell’asse del capitali­ smo, l’arte del cavalcare ha perso il suo senso cavalleresco. L’America del nord prefe­ risce la boxe alle corse. Proibito il gioco - la scommessa -, l’ippica si è ridotta * Corriere degli Inc^s. 74 all’equitazione. Questo, senza dubbio, ha portato Keyserling a supporre che il chauf­ feur succeda come simbolo al cavaliere. Ma il tipo, il campione verso il quale ci avvi­ ciniamo, è piuttosto quello dell’operaio. Ormai l’intellettuale accetta questo titolo che compendia e trascende tutti. Il cavallo, d ’altra parte, come mezzo di trasporto, è troppo individualista. E la nave a vapore e il treno, per eccellenza sociali e moderni, non lo sentono neanche come rivale. L’ultima esperienza bellica segna, infine, la decadenza definitiva della cavalleria. E qui concludo. Il tema di una decadenza conviene, più che a me, a qualunque discepolo di José Ortega y Gasset. (Trad, di Antonella Cancellier) Tra le creazioni di Mariàtegui, accanto ai suoi scritti, va certamente annoverata la rivista «Amauta». Pubblicata tra il 1926 e il 1930, è forse la più bella rivista politico-culturale prodotta dall’America latina. La «Presentazione di Amauta», apparsa nel n. 1 del settem­ bre 1926, e oggi raccolta nel voi. 13 della Obras completas, Ideologia y Politica, esprime con grande lucidità il progetto della rivista. Presentazione di «Amauta» Questa rivista, nel campo intellettuale non rappresenta un gruppo. Rappresenta, piuttosto, un movimento, uno spirito. In Perù si avverte da un pò di tempo una cor­ rente, sempre più vigorosa e definita di rinnovamento. I fautori di questo rinnova­ mento sono chiamati avanguardisti, socialisti, rivoluzionari, ecc. La storia non li ha ancora battezzati definitivamente. Esistono tra di loro alcune divergenze formali, alcune differenze psicologiche. Ma al di sopra di ciò che li differenzia, tutti questi spiriti pongono ciò che li avvicina e li accomuna: la loro volontà di creare un Perù nuovo all’interno del mondo nuovo. L’intelligenza, il coordinamento dei più volitivi di questi elementi, progrediscono gradualmente. Il movimento - intellettuale e spiri­ tuale - acquisisce a poco a poco organicità. Con l’apparizione di «Amauta» entra in una fase di definizione. «Amauta» ha avuto un processo normale di gestazione. Non nasce improvvisa­ mente da una determinazione esclusivamente mia. Sono venuto dall’Europa col pro­ posito di fondare una rivista. Dolorose vicende personali non mi hanno permesso di portarlo a termine. Ma questo tempo non è trascorso invano. Il mio sforzo si è unito a quello di altri intellettuali e artisti che pensano e sentono come me. Due anni fa, questa rivista sarebbe stata una voce personale. Ora è la voce di un movimento e di una generazione. Il primo risultato che noi scrittori di «Amauta» ci proponiamo di ottenere è di accordarci e conoscere meglio noi stessi. Il lavoro della rivista ci renderà più solidali. Nello stesso momento in cui attrarrà altri buoni elementi, ne allontanerà altri fluttuanti e svogliati che per il momento civettano con l’avanguardismo, ma che appena questo gli chiederà un sacrificio, si affretteranno a lasciarlo. «Amauta» vaglierà gli uomini dell’avanguardia - militanti e simpatizzanti - fino a separare la paglia dal grano. Produrrà o farà precipitare un fenomeno di polarizzazione e concentrazione. Non c’è bisogno di dichiarare esplicitamente che «Amauta» non è una tribuna libe­ ra, aperta a tutti i venti dello spirito. Noi che abbiamo fondato questa rivista non con75 cepiamo una cultura e un’arte agnostiche. Ci sentiamo una forza militante, polemica. Non facciamo nessuna concessione al criterio generalmente fallace della tolleranza delle idee. Per noi ci sono idee buone e idee cattive. Nel prologo del mio libro La scena contemporanea, ho scritto che sono un uomo con una filiazione e una fede. Lo stesso posso dire di questa rivista, che rifiuta tutto ciò che è contrario alla sua ideologia così come tutto ciò che non esprime nessuna ideologia. Per presentare «Amauta» sono di troppo le parole solenni. Voglio eliminare da questa rivista la retorica. Mi sembrano assolutamente inutili i programmi. Il Perù è un paese di insegne e di etichette. Facciamo finalmente qualcosa con contenuto, vale a dire con spirito. «Amauta» d ’altra parte non ha bisogno di un programma; ha bisogno solamente di una destinazione, di uno scopo. Il titolo probabilmente preoccuperà qualcuno. Ciò si dovrà all’importanza eccessi­ va, fondamentale, che ha tra noi l’insegna. Non si guardi in questo caso all’accezione stretta della parola. Il titolo non traduce nient’altro che l’adesione alla Razza, non riflette nient’altro che il nostro omaggio all’Incaismo. Ma specificamente la parola «Amauta» acquisisce con questa rivista una nuova accezione. La creeremo un’altra volta. L’obiettivo di questa rivista è quello di proporre, chiarire e conoscere i problemi peruviani da punti di vista dottrinari e scientifici. Ma considereremo sempre il Perù all’interno del panorama mondiale. Studieremo tutti i grandi movimenti di rinnova­ mento politici, filosofici, artistici, letterari, scientifici. Tutto ciò che è umano ci appar­ tiene. Questa rivista legherà gli uomini nuovi del Perù, prima di tutto con quelli degli altri popoli d’America, poi con quelli degli altri popoli del mondo. Non aggiungerò altro. Bisognerebbe essere ben poco perspicaci per non rendersi conto che in Perù nasce in questo momento una rivista storica. (Trad, di Alessandra Turchi) A distanza di due anni, nel n. 17 di «Amauta», «Anniversario e bilancio» (poi raccolto in Ideologia y Politicai annuncia la scelta di campo della rivista. Il lavoro di definizione ideologico si è ormai compiuto e Amauta si proclama decisamente come una rivista socia­ lista. Si è intanto consumata la rottura con il populismo dell Apra e Mariàtegui si muove rapidamente verso la fondazione del Partito socialista. Ma afferma che il socialismo deve essere una creazione eroica, radicato nella realtà americana, e non una trasposizione mec­ canica di un modello europeo. Anniversario e bilancio «Amauta» giunge con questo numero al suo secondo compleanno. È stata sul punto di naufragare al nono numero, prima del primo anniversario. L’ammonimen­ to di Unamuno - «rivista che invecchia, degenera» - sarebbe stata l’epitaffio di un’opera risonante, ma effimera. Ma «Amauta» non era nata per rimanere un episo­ dio, bensì per essere storia e per farla. Se la storia è creazione degli uomini e delle idee, possiamo affrontare con speranza l’avvenire. Di uomini e di idee, è la nostra forza. Il primo obbligo di tutta l’opera, del genere di quello che «Amauta» si è impo­ sta, è questo: durare. La storia è durata. Non conta il grido isolato, per quanto 76 lunga sia la sua eco; conta la predica costante, continua, persistente. Non conta l’idea perfetta, assoluta, astratta, indifferente ai fatti, alla realtà mutevole e instabile, conta l’idea germinale, concreta, dialettica, operante, ricca di energia e capace di movimento. «Amauta» non è un divertimento né un gioco da intellettuali puri: pro­ fessa un’idea storica, confessa una fede attiva e moltitudinaria, obbedisce ad un movimento sociale contemporaneo. Nella lotta tra due sistemi, tra due idee, non ci viene in mente di sentirci spettatori né di inventare un terzo termine. L’originalità ad oltranza, è una preoccupazione letteraria e anarchica. Nella nostra bandiera, iscriviamo questa sola, semplice e grande parola: Socialismo. (Con questa parola affermiamo la nostra assoluta indipendenza di fronte all’idea di un partito nazionali­ sta, piccolo borghese e demagogico). Abbiamo voluto che «Amauta» avesse uno sviluppo organico, autonomo, indivi­ duale, nazionale. Per questo abbiamo cominciato a ricercare il suo titolo nella tradizio­ ne peruviana. Prendevamo una parola incaica, per crearla di nuovo. Affinché il Perù indio, l’America indigenà, sentissero propria questa rivista. E abbiamo presentato «Amauta» come la voce di un movimento e di una generazione. «Amauta» é stata, in questi due anni, una rivista di definizione ideologica, che ha raccolto nelle sue pagine i propositi di quanti, con sincerità e competenza, hanno voluto parlare in nome di que­ sta generazione e di questo movimento. Il lavoro di definizione ideologica ci sembra compiuto. In ogni caso abbiamo ormai sentito esprimersi le opinioni categoriche sollecite. Ogni dibattito si apre verso coloro che esprimono opinioni, non verso coloro che tacciono. La prim a stagione di «Amauta» è conclusa. Nella seconda stagione, non ha più bisogno di chiamarsi rivista della «nuova generazione», dell’«avanguardia», delle «sinistre». Per essere fedele alla Rivoluzione, le basta essere una rivista socialista. «Nuova generazione», «nuovo spirito», «nuova sensibilità», tutti questi termini sono invecchiati. Lo stesso si può dire di queste altre insegne: «avanguardia», «sini­ stra», «rinnovamento». Furono nuovi e validi a suo tempo. Ci siamo serviti di essi per stabilire demarcazioni provvisorie, per ragioni contingenti di topografia e orien­ tamento. Oggi risultano ormai troppo generici anfibologici. Sotto queste insegne, cominciano a passare grandi contrabbandi. La nuova generazione non sarà effettiva­ mente nuova se non nella misura in cui saprà essere, infine, adulta, creativa. La stessa parola Rivoluzione, in quest’America di piccole rivoluzioni, si presta abbastanza all’equivoco. Dobbiamo rivendicarla rigorosamente e intransigentemen­ te. Dobbiamo restituirle il suo significato preciso e pieno. La rivoluzione latino­ americana sarà né più né meno che una tappa, una fase della rivoluzione mondiale. Sarà semplicemente e puramente, la rivoluzione socialista. A questa parola aggiun­ gete, secondo i casi, tutti gli aggettivi che volete: «anti-imperialista», «agrarista», «nazionalista-rivoluzionaria». Il socialismo li suppone, li precede, li comprende tutti. Al Nord America capitalista, plutocratico, imperialista, è possibile solamente opporre efficacemente un’America latina o iberica, socialista. L ’epoca della libera concorrenza nell’economia capitalista è terminata in ogni campo ed in ogni aspetto. Siamo nell’epoca dei monopoli, vale a dire degli imperi. I paesi latino-americani giungono con ritardo alla competizione capitalistica. I primi posti sono già stati asse­ gnati definitivamente. Il destino di questi paesi, nell’ordine capitalista, è quello di semplici colonie. L’opposizione di idiomi, di razze, di spiriti, non ha alcun significato decisivo. È ridicolo parlare ancora del contrasto tra un’America sassone materialista e un’America latina idealista, tra una Roma bionda e una Grecia pallida. Tutti questi sono luoghi comuni definitivamente screditati. Il mito di Rodò non opera più - non ha mai operato - in modo utile e fecondo sulle anime. Scartiamo, inesorabilmente, 77 tutte queste caricature simulacri di ideologie e facciamo i conti, seriamente e franca­ mente, con la realtà. Il socialismo non è, certamente, una dottrina indo-americana. Ma nessuna dottri­ na, nessun sistema contemporaneo lo è né può esserlo. Ed il socialismo, malgrado sia nato in Europa, come il capitalismo, non è specificatamente né particolarmente euro­ peo. E un movimento mondiale, al quale non si sottrae nessuno dei paesi che si muo­ vono nell’orbita della civiltà occidentale. Questa civiltà conduce, con una forza e con dei mezzi dei quali nessuna civiltà ha disposto, all’universalità. L’Indoamerica, in quest’ordine mondiale, può e deve possedere individualità e stile; ma non una cultu­ ra né un destino particolari. Cento anni fa abbiamo dovuto la nostra indipendenza come nazioni al ritmo della storia di Occidente, che a partire dalla colonizzazione ci impose ineluttabilmente il suo ritmo. Libertà, Democrazia, Parlamento, Sovranità del Popolo, tutte le grandi parole che hanno pronunciato i nostri uomini di allora, derivano dal repertorio europeo. La storia, tuttavia, non misura la grandezza di que­ sti uomini dall’originalità di queste idee, ma dall’efficacia e dallo spirito con i quali le servirono. E i popoli che marciano più avanti nel continente sono quelli in cui si radicarono meglio e più velocemente. L’interdipendenza, la solidarietà dei popoli e dei continenti, erano senza dubbio, a quel tempo, minori di adesso. Il socialismo, insomma, è nella tradizione americana. La più avanzata organizzazione comunista, primitiva, che registra la storia, è quella Incaica. Non vogliamo, certamente, che il socialismo sia in America calco e copia. Deve essere creazione eroica. Dobbiamo dar vita, con la nostra realtà, nel nostro linguaggio, al socialismo indo-americano. Ecco una missione degna di una generazione nuova. In Europa la degenerazione parlamentare e riformista del socialismo ha imposto, dopo la guerra, designazioni specifiche. Nei popoli dove questo fenomeno non si è sviluppato, perché il socialismo appare solo ora nel loro processo storico, la vecchia e grande parola mantiene intatta la sua grandezza. La conserverà anche nella storia, domani, quando le necessità contingenti e convenzionali di demarcazione che oggi distinguono pratiche e metodi, saranno scomparse. Capitalismo o Socialismo. Questo è il problema della nostra epoca. Non antici­ piamo la sintesi, le transazioni, che possono operarsi soltanto nella storia. Pensiamo e sentiamo come Gobetti che la storia è un riformismo, ma a condizione che i rivolu­ zionari operino come tali. Marx, Sorel, Lenin, ecco gli uomini che fanno la storia. E possibile che molti artisti e intellettuali osservino che rispettiamo assolutamen­ te l’autorità di maestri irremissibilmente compresi nel processo per «la trahison des clercs». Confessiamo, senza scrupoli, che ci sentiamo, nel campo di ciò che è tempo­ rale, di ciò che è storico, e che non abbiamo nessuna intenzione di abbandonarlo. Lasciamo alle loro preoccupazioni sterili e alle loro lacrimose metafisiche, gli spiriti incapaci di accettare e comprendere la loro epoca. Il materialismo socialista racchiu­ de tutte le possibilità di ascesa spirituale, etica e filosofica. E mai ci sentiamo in maniera più rabbiosa ed efficace e religiosa idealisti come quando teniamo ben pian­ tati i piedi nella materia. (Trad, di Alessandra Turchi) «L’anima mattutina» è il saggio d’apertura del libro omonimo, El alma matinal y otras estaciones del hombre de hoy (voi. 3 delle Obras completasi pubblicato postumo nel 1950, ma preparato dall’autore nella sua organizzazione interna. E un esempio 78 dell’importanza che assume nell’elaborazione di Mariàtegui la dimensione simbolica. L ’immagine dell’alba, così frequente anche nella creazione letteraria dell’epoca, incarna un’aspirazione più generale alla rinascita e alla liberazione. Lo scritto apparve per la prima volta il 3 febbraio 1928 su «Mundial». L’anima mattutina Tutti sanno che la Rivoluzione mise avanti gli orologi della Russia sovietica nella stagione estiva. Anche l’Europa occidentale adottò l’ora legale dopo la guerra. Ma lo fece solo per risparmiare sull’illuminazione. Era una misura da tempi di crisi e di care­ stia, priva di qualsiasi convincimento mattutino. L’alta e media borghesia continuava a frequentare il tabarin. La civiltà capitalistica accendeva tutte le sue luci la notte, anche se clandestinamente. A questo periodo corrisponde la voga del dancing e di Paul Morand. Ma con Paul Morand era già stato licenziato il crepuscolo. Paul Morand rappresen­ tava la moda della notte. I suoi romanzi ci portavano a passeggio in un’Europa nottur­ na, illuminata da una perenne luce artificiale. E il nome che con maggiore legittimità presiede la notte della decadenza postbellica non è quello di Morand, ma di Proust. Marcel Proust inaugurò con la sua letteratura una notte estenuata, elegante, metropolitana, licenziosa, da cui l’Occidente capitalistico non è ancora uscito. Proust era il not­ tambulo raffinato, ambiguo e di bell’aspetto che si congeda alle due del mattino, prima che le coppie siano ubriache e commettano eccessi di cattivo gusto. Si ritirò dalla soirée della decadenza quando non era ancora arrivato il charleston, né Josephine Baker. Paul Morand, diplomatico e demimondain, potè presentarci solo la notte postproustiana. La voga del crepuscolo appartenne alla moda fine secolo e decadente d ’anteguerra. I suoi grandi pontefici furono Anatole France e Gabriele D ’Annunzio. Il vecchio Anatole si distinse nel genere dei crepuscoli classici e archeologici; cre­ puscoli d ’Alessandria, di Siracusa, di Roma, di Firenze, economicamente conosciuti nei volumi delle biblioteche ufficiali e nei viaggi da turista lento che non dimentica mai le valige sul treno e che ha già previsto tutte le stazioni e gli alberghi del suo itinerario. Era al momento del tramonto, sempre discreto, senza eccessive nuvole rosse o scanda­ losi cirri policromi, che a monsieur Bergeret piaceva affilare le sue ironie. Quelle ironie che dieci anni fa ci incantavano con il loro spirito tagliente e sottile, e che ora ci annoiano con la loro monotona incredulità e il loro fastidioso scetticismo. D’Annunzio era più fastoso e teatrale, e anche più vario, nei suoi crepuscoli di Venezia vagamente wagneriani, con il campanile di San Giorgio Maggiore su un lato, assaporati sulla terrazza dell’Hotel Danieli da amanti inevitabilmente celebri, alloggiati nella stessa stanza dove trovò rifugio, sotto antiche coltri ricamate, il famoso amore di George Sand e Alfred de Musset; crepuscoli abruzzesi deliberatamente rustici e agresti, con capre, capro­ ni, pastori, falò, formaggi, fichi e un incesto da tragedia greca; crepuscoli dell’Adriatico con barche di pescatori, spiagge lubriche, cieli patetici e fetore afrodisiaco; crepuscoli semiorientali, semibizantini di Ravenna e di Rimini, con vergini innamorate dalle trecce inverosimili e ondeggianti e un lieve sapore di ostrica perlifera; crepuscoli romani, traste­ verini, declamatori, olimpici, goduti sul colle del Gianicolo, rinfrescati dall’acqua paola che cade in conche di marmo antico, con reminiscenze del sogno di Scipione e dei discorsi di Cola di Rienzo; crepuscoli di Quinto al Mare, eroici, repubblicani, garibaldini, retorici, un po’ marinari, dignitosissimi nonostante la compromettente vicinanza di Portofino Kulm e la prospettiva equivoca di Montecarlo. D ’Annunzio esaurì nella sua opera magni­ ficamente crepuscolare, tutti i colori, tutti i deliqui, tutte le ambiguità del tramonto. 79 Concluso il periodo dannunziano e anatoliano, in Spagna, se non fosse per le sona­ te del grande Valle Inclàn, non resterebbe altra traccia che i sonetti di Villaespesa, i romanzi del Marchese di Hoyos y Vinent e le false gemme orientali di Tòrtola Valenciascese in una stazione ferroviaria di Madrid, con una sola valigia in mano, pas­ seggero di terza classe, Ramón Gómez de la Serna, scopritore dell’alba. La sua scoperta era un po’ prematura. Ma come è giocoforza che sia ogni vera sco­ perta. Proust, col suo smoking severo e una perla sullo sparato, languido, tacito, palli­ do, presiedeva invisibile la più lunga notte europea -notte un po’ boreale talmente era prolungata-, dai piaceri estremi e dai terribili presagi, ninnata dal fuoco delle mitraglia­ trici di Noske a Berlino e delle bombe a mano fasciste sulle vie della pianura lombarda e romana e dei monti dell’Appennino. Adesso, benché conservi molto della notte di Charlottenburg e della notte di Dublino, l’Europa che vuole salvarsi, l’Europa che non vuole morire, anche se è sem­ pre l’Europa borghese, stanca dei suoi piaceri notturni, sospira perché venga presto l’alba. Mussolini manda a letto l’Italia alle dieci di sera, chiude cabaret, proibisce il charleston. Il suo ideale è un’Italia di provincia che si sveglia di buon’ora, contadina, priva di mollezze e di artifici urbani, con molti figli rustici nel suo ampio grembo. Per suo ordine, come ai tempi di Virgilio, i poeti cantano la campagna, la semina, la mieti­ tura. E anche la borghesia francese, quella che ama la tradizione e il lavoro, borghesia laboriosa, economa, misurata, continente -non malthusiana-, reclama a casa propria l’orario fascista e sogna un dittatore dalle virtù romane e dal genio napoleonico che coltivi nelle vacanze il suo grano e la sua vigna. Sentite come ammonisce Lucien Romier la Francia nottambula: «E grave che un popolo si dia ai piaceri della notte, non per il male che vi trovano i predicatori. E grave come indice del fatto che quel popolo perde i suoi giorni. Se vuoi crescere e prosperare, oh francese!, ricordati che la virilità dell’uomo si afferma nel trionfo mattutino. E all’alba che l’invasore viene inseguito dal sol levante». E improbabile che Lucien Romier sappia rinunciare alla notte. Appartiene a una borghesia, lungimirante nella sua rovina, conscia che l’uomo nuovo è l’uomo mattutino. ('Traduz. di Hide Carmignani) Un esempio degli aspetti vitalistici presenti nel pensiero di Maridtegui si trova in «Due concezioni della vita», apparso su «Mundial» il 9 gennaio 1925 e poi inserito nel libro El Alma Matinal. La battaglia contro le concezioni positiviste, presenti anche nella tradizio­ ne socialista, ispira questa rivendicazione della soggettività e del mito. Due concezioni della vita i La guerra mondiale non ha modificato e fratturato solo l’economia e la politica dell’Occidente. Ne ha anche modificato o fratturato la mentalità e lo spirito. Le conse­ guenze economiche, definite e precisate da John Maynard Keynes, non sono più evi­ denti né più sensibili delle conseguenze spirituali e psicologiche. I politici, gli statisti, attraverso una serie di esperimenti, troveranno forse una formula e un metodo per risolvere le prime; ma non troveranno, sicuramente, una teoria e una pratica adeguate 80 ì per annullare le seconde. Più probabile mi sembra che debbano adeguare i loro pro­ grammi alla pressione dell’atmosfera spirituale, alla cui influenza il loro lavoro non può sottrarsi. Ciò che differenzia gli uomini di questo tempo non è soltanto la dottrina, ma, soprattutto, il sentimento. Due concezioni della vita opposta, una pre-bellica, l’altra post-bellica, ostacolano l’intelligenza di uomini che, apparentemente, servono lo stesso interesse storico. Ecco il conflitto centrale della crisi contemporanea. La filosofia evoluzionista, storicista, razionalista, univa nei tempi pre-bellici, al di sopra delle frontiere politiche e sociali, le due classi antagoniste. Il benessere materiale, la potenza fisica delle urbi avevano generato un rispetto superstizioso verso l’idea di progresso. L’umanità sembrava aver trovato una strada definitiva. Conservatori e rivo­ luzionari accettavano praticamente le conseguenze della tesi evoluzionista. Sia gli uni che gli altri concordavano nella stessa adesione all’idea di progresso e nella stessa avversione nei confronti della violenza. Ma c’erano anche uomini che non si lasciavano attrarre né sedurre da questa piatta e comoda filosofia. Georges Sorel, uno degli scrittori più acuti della Francia pre-belli­ ca, denunciava per esempio, le illusioni del progresso. Don Miguel de Unamuno predi­ cava il donchisciottismo. Ma la maggior parte degli europei aveva perso il gusto dell’avventura e dei miti eroici. La democrazia otteneva il favore delle masse socialiste e sindacalizzate, compiaciute dalle loro facili conquiste graduali, orgogliose delle loro cooperative, della loro organizzazione, delle loro «case del popolo» e della loro buro­ crazia. I capi e gli oratori della lotta di classe godevano di una popolarità, senza rischi, che faceva sopire nelle loro anime ogni velleità rivoluzionaria. La borghesia si lasciava guidare da leaders intelligenti e progressisti che, sedotti dalla stoltezza e dall’impru­ denza di una politica di persecuzione delle idee e degli uomini del proletariato, preferi­ vano una politica diretta ad addomesticarli e ad ammorbidirli con sagaci transazioni. Uno spirito decadente ed estetizzante si diffondeva, sottilmente, tra gli strati supe­ riori della società. Il critico italiano Adriano Tilgher, in uno dei suoi notevoli saggi, definisce così l’ultima generazione della borghesia parigina: «Prodotto di una civiltà plurisecolare, satura di esperienza e di riflessione, analitica ed introspettiva, artificiale e libresca, a questa generazione cresciuta prima della guerra è toccato di vivere in un mondo che sembrava consolidato per sempre ed assicurato contro ogni possibilità di cambiamento. E a questo mondo si è adattata senza sforzo. Generazione dai nervi e dal cervello totalmente consumati e stanchi a causa delle grandi fatiche dei loro genitori: non sopportava gli sforzi tenaci, le tensioni prolungate, le scosse brusche, i rumori forti, le luci vive, l’aria libera e agitata; amava la penombra e i crepuscoli, le luci dolci e discrete, i suoni smorzati e lontani, i movimenti misurati e regolari». L’ideale di questa generazione era quello di vivere dolcemente. II Quando l’atmosfera dell’Europa, prossima alla guerra, si caricò troppo di elettri­ cità, i nervi di questa generazione sensuale, elegante e ipersensibile, soffrirono di uno strano malessere e di un’insolita nostalgia. Un po’ annoiati dal vivre avec douceur, ven­ nero scossi da un appetito morboso, da un desiderio malsano. Invocarono, quasi con ansia, quasi con impazienza, la guerra. La guerra non appariva come una tragedia, come un cataclisma, ma piuttosto come uno sport, come un alcaloide o come uno spet­ tacolo. Ah!, la guerra, - come in un romanzo di Jean Bernier, questa gente la presagiva e l’auspicava - elle serait très chic la guerre. Ma la guerra non corrispose a questa previsione frivola e stupida. La guerra non volle essere così mediocre. Parigi sentì, nelle sue viscere, lo strazio del dramma bellico. L’Europa, incendiata, lacerata, cambiò mentalità e psicologia. 81 Tutte le energie romantiche dell’uomo occidentale, anestetizzate da tanti lustri di pace confortevole e pingue, rinacquero tempestose e prepotenti. Risuscitò il culto della violenza. La Rivoluzione Russa infuse nella dottrina socialista un’anima guerriera e mistica. E al fenomeno bolscevico seguì il fenomeno fascista. Bolscevichi e fascisti non assomigliavano ai rivoluzionari e ai conservatori pre-bellici. Erano privi dell’antica superstizione del progresso. Erano testimoni, coscienti o incoscienti, del fatto che la guerra aveva dimostrato all’umanità che potevano ancora sopraggiungere dei fatti superiori alle previsioni della Scienza e anche dei fatti contrari all’interesse della Civiltà. La borghesia, spaventata dalla violenza bolscevica, fece appello alla violenza fasci­ sta. Era molto scettica sul fatto che le sue forze legali bastassero a difenderla dagli assalti della rivoluzione. Ma, a poco a poco, appare, successivamente, nel suo animo, la nostalgia della crassa tranquillità pre-bellica. Questa vita ad alta tensione la disgusta e l’affatica. La vecchia burocrazia socialista e sindacale condivide questa nostalgia. Perché non tornare - si domanda - ai bei tempi pre-bellici? Uno stesso sentimento della vita lega e accorda spiritualmente questi settori della borghesia e del proletariato, che lavorano, in accomandita, per screditare, in un colpo solo, il metodo bolscevico e il metodo fascista. In Italia, quest’episodio della crisi contemporanea presenta i contorni più nitidi e più precisi. Lì, la vecchia guardia borghese ha abbandonato il fascismo e si è accordata sul terreno della democrazia, con la vecchia guardia socialista. Il program­ ma di tutta questa gente si condensa in una sola parola: normalizzazione. La normaliz­ zazione sarebbe il ritorno alla vita tranquilla, il licenziamento o il seppellimento di ogni romanticismo, di ogni eroismo, di ogni donchisciottismo di destra o di sinistra. No al ritorno, con i fascisti, al Medio Evo. No all’avanzare, con i bolscevichi, verso l’Utopia. Il fascismo parla un linguaggio belligerante e violento che allarma coloro che aspirano solo alla normalizzazione. Mussolini in un discorso, ha detto: «Non vale la pena di vivere come uomini e come partito e soprattutto non varrebbe la pena di chiamarsi fascisti, se non si sapesse che si sta in mezzo alla tempesta. Chiunque è capace di navigare in bonaccia, quando i venti gonfiano le vele, quando non ci sono onde né cicloni. La bellezza, la grandiosità, e oserei dire l’eroismo, consiste nel navi­ gare quando infuria la tempesta. Un filosofo tedesco diceva: vivi pericolosamente. Io vorrei che questa fosse la parola d ’ordine del giovane fascismo italiano: vivere pericolosamente. Questo significa essere pronti a tutto, a qualsiasi sacrificio, a qual­ siasi pericolo, a qualsiasi azione, quando si tratta di difendere la patria e il fasci­ smo». Il fascismo non concepisce la controrivoluzione come un’impresa volgare e poliziesca ma come un’impresa epica ed eroica. Tesi eccessiva, tesi incandescente, tesi esorbitante per la vecchia borghesia, che non vuole assolutamente andare così lontano. Che si fermi e fallisca la rivoluzione, chiaro, ma se è possibile con le buone maniere. Il manganello non deve essere impiegato se non in casi estremi. E non bisogna toccare, in nessun caso, né la Costituzione né il Parlamento. Bisogna lascia­ re le cose come stavano. La vecchia borghesia aspira a vivere in modo dolce e parla­ mentare. «Liberamente e tranquillamente», scriveva in polemica con Mussolini 11 Corriere della Sera di Milano. Ma sia gli uni che gli altri termini designano la stessa aspirazione. Da parte loro i rivoluzionari, così come i fascisti, si propongono di vivere pericolo­ samente. Nei rivoluzionari, così come nei fascisti, si avverte lo stesso impulso romanti­ co, lo stesso spirito donchisciottesco. La nuova umanità, nelle sue due espressioni antitetiche, accusa una nuova intuizione della vita. Questa intuizione della vita non si affaccia, esclusivamente, nella prosa belligerante dei politici. In alcune divagazioni di Luis Bello trovo questa frase: «Bisogna correggere Cartesio: Combatto, quindi esi­ sto». La correzione risulta, in verità opportuna. La formula filosofica di un’età razio82 nalista doveva essere: «Penso, quindi esisto». Ma a quest’età romantica, rivoluzionaria e donchisciottesca, non serve più la stessa formula. La vita, più che pensiero, oggi vuol essere azione, cioè lotta. L’uomo contemporaneo ha bisogno di fede. E l’unica fede, che può occupare il suo io profondo, è una fede combattiva. Non torneranno, chissà per quanto, i tempi del dolce vivere. La dolce vita pre-bellica non ha generato altro che scetticismo e nichilismo. E dalla crisi di questo scetticismo e di questo nichi­ lismo, nasce l’aspra, la forte, la perentoria necessità di una fede e di un mito che spin­ ga gli uomini a vivere pericolosamente. {Trad, di Lia Ogno) «Esiste u n ’inquietudine propria nel nostro tempo?» è uno degli ultim i scritti dell’autore, uscito su «Mundial» il 29 marzo 1930 e poi inserito nella raccolta El arti­ sta y la època. Si tratta della risposta a un’inchiesta della rivista francese «Cahiers de l’Etoile». Esiste un’inquietudine propria del nostro tempo? L’inquietudine contemporanea è un fenomeno che comprende gli atteggiamenti più opposti. Pertanto, il termine si presta necessariamente alla speculazione e all’equi­ voco. All’interno dell’inquetudine contemporanea si muovono sia coloro che professano una fede sia coloro che ne vanno in cerca. Il cattolicesimo di Max Jacob figura tra i segni di quest’inquietudine alla stessa stregua del marxismo di André Breton e dei suoi compagni de La Révolution Surréaliste. Il fascismo pretende di rappresentare uno «spi­ rito nuovo», esattamente come il bolscevismo. Esiste un’inquietudine propria del nostro tempo, nel senso che questo tempo pos­ siede, come tutti i periodi di transizione e di crisi, dei problemi che lo caratterizzano. Ma quest’inquietudine in alcuni è disperazione, in altri è vuoto. Non si può parlare di un ’inquietudine contemporanea come dell’uniforme e miste­ riosa preparazione spirituale di un mondo nuovo. Così come nell’arte delle avanguardie, gli elementi di rivoluzione vengono confusi con gli elementi di decadenza, nell 'inquietudine contemporanea si confonde la fede fit­ tizia, intellettuale, pragmatica di quelli che trovano il loro equilibrio nei dogmi e nell’ordine antico, con la fede appassionata, rischiosa, eroica di quelli che combattono pericolosamente per la vittoria di un ordine nuovo. La storia clinica dell’inquietudine contemporanea prenderà nota, con meticolosa obiettività, di tutti i sintomi della crisi del mondo moderno, ma ci servirà ben poco come mezzo per risolverla. L’inchiesta dei «Cahiers de l’Etoile» non invita a nient’altro che a un esame di coscienza, dal quale non può emergere altro, come risultato o indica­ zione complessiva, che la pluralità disorientante di proposte. Ciò che si designa con il nome di inquietudine non è altro, in ultima analisi, che l’espressione intellettuale e sentimentale. Gli artisti e i pensatori del nostro tempo si rifiutano, per orgoglio o per timore, di vedere nel loro disagio e nella loro angoscia il riflesso della crisi del capitalismo. Si vogliono sentire estranei o superiori a questa crisi. Non si rendono conto che la morte dei principi e dei dogmi che costituivano l’Assoluto borghese è stata decretata su un piano diverso da quello della loro speculazione personale. 83 La borghesia ha perduto il potere morale che prima le aveva permesso di includere tra le sue schiere, senza conflitto interno, la maggior parte degli intellettuali. Le forze centrifughe, secessioniste, agiscono su di essi con un’intensità e una molteplicità prima sconosciuta. Derivano da ciò tanto le diserzioni quanto le conversioni. L’inquietudine appare come una grande crisi di coscienza. L’inquietudine contemporanea, pertanto, si compone di fattori negativi e di fattori positivi. L’inquietudine degli spiriti che tendono esclusivamente alla sicurezza e al riposo è priva di qualsiasi valore creativo. Attraverso questo sentiero si scopriranno solo i rifugi, le cittadelle del passato. Nell’uomo moderno, l’abdicazione più vile è quella di chi cerca asilo in essi. La nostra prima dichiarazione di guerra deve essere fatta a ciò che il mio compa­ triota iberico definisce «filosofie di ritorno». Il fiorire di queste filosofie, in un clima malaticcio di decadenza, rientra in gran misura in Occidente nell 'inquietudine contem­ poranea? Questa è la questione principale che bisogna chiarire se non si vogliono scambiare dei sottili alibi dell’Intelligenza e delle teorie disfattiste sulla modernità per elaborazioni di uno spirito nuovo. (Trad, di Lia Ogno) «Il problema delle razze in America Latina» è un documento preparato per la Conferenza dei Partiti Comunisti Latinoamericani, svoltasi a Buenos Aires nel giugno del 1929. Riportiamo la prima parte del testo, redatta da Maridtegui, che non potè intervenire per­ sonalmente alla riunione . In essa troviamo uno dei tentativi più lucidi di operare una sintesi tra un discorso classista e una considerazione della specificità dei problemi tecnici. Il testo è compreso nel volume Ideologia y Polìtica. Il problema delle razze in America Latina 1. Impostazione del problema Il problema delle razze in America Latina, nella speculazione intellettuale bor­ ghese, serve tra le altre cose ad occultare o ignorare i veri problemi del continente. La critica marxista ha l’obbligo improrogabile di impostarlo nei suoi termini reali, separandolo da ogni deformazione pretestuosa e pedantesca. Dal punto di vista eco­ nomico, sociale e politico, il problema delle razze, come quello della terra, è fonda­ mentalmente, quello della liquidazione del feudalesimo. Le razze indigene in America Latina si trovano in uno stato di arretratezza e di ignoranza clamoroso a causa della schiavitù che pesa sulle loro spalle a partire dalla conquista spagnola. L’interesse della classe sfruttatrice, - prima spagnola poi creola - ha mirato costantemente, sotto vari travestimenti, a spiegare la condizione delle razze indigene con l’argomento della loro inferiorità o del loro primitivismo. Con ciò, quella classe non ha fatto altro che riprodurre, in questa questione nazionale interna, le ragioni della razza bianca nella questione del trattamento e della tutela dei popoli coloniali. Il sociologo Vilfredo Pareto, che riduce la razza a uno solamente dei vari fatto­ ri che determinano le forme di sviluppo di una società, ha denunciato l’ipocrisia 84 dell’idea di razza nella politica imperialista e schiavista dei popoli bianchi nei seguenti termini: «La teoria di Aristotele sulla schiavitù naturale è anche quella dei popoli civili moderni per giustificare le proprie conquiste e il proprio dominio su popoli da loro definiti di razza inferiore. E come Aristotele diceva che esistono uomini naturalmente schiavi e altri padroni, che è conveniente che quelli servano e questi comandino, il che è inoltre giusto e proficuo per tutti; allo stesso modo i popoli moderni che si gratificano da soli con l’epiteto di civili, sostengono l’esi­ stenza di popoli che devono naturalmente dominare, e sono loro e altri popoli che non meno naturalmente devono obbedire, e sono quelli che vogliono sfruttare; essendo giusto, conveniente e per tutti proficuo che gli uni comandino e gli altri servano. Da ciò risulta che se un inglese, un tedesco, un francese, un belga, un ita­ liano lotta e muore per la patria è un eroe; ma se un africano osa difendere la pro­ pria patria contro queste nazioni è un vile ribelle e un traditore. E gli europei compiono il sacrosanto dovere di distruggere gli africani, come per esempio in Congo, per insegnare loro ad essere civili. Non manca poi chi acriticam ente ammira quest’opera ‘di pace, di progresso, di civiltà’. E necessario aggiungere che con un’ipocrisia veramente ammirevole, i buoni popoli civili pretendono di fare il bene dei popoli a loro sottomessi, quando li opprim ono e addirittura li distruggo­ no; e dedicano loro così tanto amore che li vogliono ‘liberi’ per forza. Così gli inglesi liberarono gli indiani dalla tirannia dei Rajah, i tedeschi liberarono gli afri­ cani dalla tirannia dei re negri, i francesi liberarono gli abitanti del Madagascar e, per renderli più liberi, ne uccisero molti riducendo gli altri a uno stato che solo nel nome non è di schiavitù; così gli italiani liberarono gli arabi dall’oppressione dei turchi. Tutto ciò viene detto seriamente e c’è perfino chi ci crede. Il gatto afferra il topo e se lo mangia, ma non dice che lo fa per il bene del topo, non pro­ clama il dogma dell’uguaglianza di tutti gli animali e non alza ipocritamente gli occhi al cielo per adorare il ‘Padre N ostro’ (Trattato di Sociologia Generale, voi. II)». Lo sfruttamento degli indigeni in America Latina cerca anche di giustificarsi con il pretesto che serve alla redenzione culturale e morale delle razze oppresse. La colo­ nizzazione dell’America Latina da parte della razza bianca ha avuto, come è facile provarlo, solo effetti regressivi e deprimenti sulla vita delle razze indigene. La loro evoluzione naturale è stata interrotta dall’oppressione umiliante del bianco e del meticcio. Popoli come quello quechua e quello azteco che avevano raggiunto un livello avanzato di organizzazione sociale, regredirono sotto il regime coloniale alla condizione di tribù agricole disperse. Gli elementi di civiltà che sussistono nelle comunità indigene del Perù sono soprattutto ciò che sopravvive dell’antica organiz­ zazione autoctona. Nella campagna feudalizzata la civiltà bianca non ha creato nuclei di vita urbana, non ha nemmeno sempre significato industrializzazione e meccanizza­ zione: nel latifondo della sierra, eccetto in certe aziende dove si alleva il bestiame, la dominazione bianca non rappresenta, nemmeno tecnologicamente, alcun progresso nei confronti della cultura aborigena. Ciò che definiamo problema indigeno è lo sfruttamento feudale dei nativi nella grande proprietà agraria. L’indio, nel 90 per cento dei casi, non è un proletario ma un servo. Il capitalismo, come sistema economico e politico, si rivela incapace in America Latina di costruire un’economia emancipata dalle tare feudali. Il pregiudi­ zio dell’inferiorità della razza indigena, gli consente il massimo sfruttamento del lavoro di questa razza, e non è disposto a rinunciare a questo vantaggio da cui ottie­ ne tanti profitti. In agricoltura, l’istituzione del salario, l’adozione della macchina, non cancellano il carattere feudale della grande proprietà. Perfezionano semplicemente il sistema di sfruttamento della terra e delle masse contadine. Buona parte dei 85 nostri borghesi e proprietari rurali sostiene calorosamente la tesi dell’inferiorità dell’indio: il problema indigeno è a loro giudizio un problema etnico la cui soluzione dipende dall’incrocio della razza indigena con razze superiori straniere. La perma­ nenza di un’economia di stampo feudale si presenta però in opposizione inconcilia­ bile con un movimento immigratorio sufficiente a produrre quella trasformazione per mezzo dell’incrocio. I salari che vengono pagati nelle aziende della costa e della sierra (quando in quest’ultima si adotta il salario) eliminano la possibilità di impiega­ re immigranti europei in agricoltura. Gli immigranti contadini non accetterebbero mai di lavorare nelle condizioni degli indigeni; si potrebbero convincere solo trasfor­ mandoli in piccoli proprietari. L’indio non ha mai potuto essere sostituito nei lavori agricoli delle aziende della costa se non con lo schiavo negro o con il «coolie» cinese. I piani di colonizzazione con immigranti europei hanno come ambito esclusivo, per ora, la regione boscosa d ’Oriente, conosciuta con il nome di Selva. La tesi secondo cui il problema indigeno è un problema etnico, non merita neppure di essere discus­ sa; ma conviene osservare fino a che punto la soluzione che propone è in contrasto con gli interessi e le possibilità della borghesia e dei proprietari terrieri, all’interno dei quali trova i suoi aderenti. Per l’imperialismo yankee o inglese, il valore economico di queste terre sarebbe molto minore se oltre alla loro ricchezza naturale non possedessero una popolazione indigena, arretrata e miserabile che, con l’appoggio della borghesia locale, si può sfruttare al massimo. La storia dell’industria zuccheriera peruviana, attualmente in crisi, dimostra che i suoi utili si sono basati, soprattutto sulla manodopera a buon mercato, cioè sulla miseria dei braccianti. Tecnicamente questa industria non è stata in grado di competere con quelle degli altri paesi del mercato mondiale in nessuna epoca. La distanza dei mercati di consumo gravava con elevati carichi sulla sua esportazione. Ma tutti questi svantaggi venivano compensati largamente dalla mano­ dopera a buon mercato. Il lavoro delle masse contadine schiavizzate, alloggiate in capanne ripugnanti, prive di ogni libertà e diritto, sottomesse a una giornata di lavo­ ro opprimente, metteva gli zuccherieri peruviani in condizione di competere con coloro che in altri paesi coltivavano meglio la propria terra o erano protetti da tariffe protezionistiche o collocati in una situazione geografica più vantaggiosa. Il capitali­ smo straniero si serve della classe feudale per sfruttare a proprio vantaggio queste masse contadine. Ma a volte l’incapacità dei latifondisti (eredi dei pregiudizi, della superbia e dell’arbitrarietà medievali) a ricoprire la funzione di dirigenti di imprese capitaliste, è tale che esso si vede obbligato a prendere in mano l’amministrazione dei latifondi e quella degli zuccherifici. Questo è ciò che avviene, particolarmente, nell’industria zuccheriera, m onopolizzata quasi com pletam ente nella valle di Chicama da un’azienda inglese e una tedesca. La razza ha soprattutto quest’importanza per la questione dell’imperialismo. Ma ha anche un altro ruolo, che impedisce di assimilare il problema della lotta per l’indi­ pendenza nazionale nei paesi d ’America, con una forte percentuale di popolazione indigena, allo stesso problema in Asia o in Africa. Gli elementi feudali o borghesi, nei nostri paesi, provano per gli indios, come per i negri e i mulatti, lo stesso disprez­ zo degli imperialisti bianchi. Il sentimento razziale agisce sulla classe dominante in senso assolutamente favorevole alla penetrazione imperialista. Il signore o borghese creolo ed i suoi braccianti di colore non hanno niente in comune. La solidarietà di classe si unisce alla solidarietà di razza o di pregiudizio, per fare delle borghesie nazionali uno strumento docile dell’imperialismo yankee o britannico. E quel senti­ mento si estende a gran parte delle classi medie, che imitano l’aristocrazia e la bor­ ghesia nel disprezzo per la plebe di colore, anche se il proprio meticciato è anche troppo evidente. 86 La razza negra, importata in America Latina dai colonizzatori per aumentare il proprio potere sulla razza indigena americana, svolse passivamente la propria fun­ zione colonialista. Sfruttata essa stessa duramente, rafforzò l’oppressione della clas­ se indigena da parte dei conquistatori spagnoli. Un maggior grado di mescolanza, di familiarità e di convivenza con questi nelle città coloniali, la trasformò in alleato del dominio bianco, nonostante qualsiasi slancio di umore turbolento o ribelle. Il negro o il mulatto, nelle proprie prestazioni di artigiano o di domestico, costituì la plebe di cui dispose sempre, più o meno incondizionatamente la casta feudale. L ’indu­ stria, la fabbrica, il sindacato, redim ono il negro da questa sottom issione. Cancellando tra i proletari la frontiera della razza, la coscienza di classe eleva moralmente e storicamente il negro. Il sindacato significa la rottura definitiva delle abitudini servili che perpetuano in lui, al contrario, la condizione di artigiano o ser­ vitore. L’indio, per le sue facoltà di assimilazione al progresso, alla tecnica di produzione moderna, non è assolutamente inferiore al meticcio. Al contrario è, generalmente, superiore. L’idea della sua inferiorità razziale è troppo screditata perché meriti, di questi tempi, l’onore di una confutazione. Il pregiudizio del bianco, che è stato anche quello del creolo, sull’inferiorità dell’indio, non si basa su nessun fatto degno di essere preso in considerazione nello studio scientifico della questione. La dipen­ denza da coca e l’alcolismo della razza indigena, molto esagerati dai loro critici, non sono nient’altro che la conseguenza, i risultati dell’oppressione bianca. I proprietari terrieri fomentano e sfruttano questi vizi, che per certi aspetti si alimentano con gli impulsi della lotta contro il dolore, particolarmente vivi e operanti in un popolo sog­ giogato. L’indio nell’antichità non beveva nient’altro che «chicha», bevanda fermen­ tata di mais, ma da quando il bianco introdusse nel continente la coltivazione della canna da zucchero, beve alcool. La produzione di alcool di canna è uno degli affari più «garantiti» e sicuri del latifondismo, nelle cui mani si trova anche la produzione di coca nelle valli calde della selva. Da un po’ di tempo l’esperienza giapponese ha dimostrato la facilità con cui popoli di razza e tradizioni diverse da quelle europee, si appropriano della scienza occidentale e si adattano all’uso della sua tecnica di produzione. Nelle miniere e delle fabbriche della Sierra del Perù, l’indio contadino conferma quella esperienza. E già la sociologia marxista ha fatto giustizia sommaria delle idee razziste, tutte prodotto dello spirito imperialista. Bukharin scrive nella Teoria del Materialismo Storico: «La teoria delle razze è prima di tutto contraria ai fatti. Si considera la razza nera come una razza ‘inferiore’, incapace di svilupparsi per sua propria natura. Tuttavia è provato che gli antichi rappresentanti di questa razza nera, i kushiti, ave­ vano creato una civiltà molto avanzata in India (prima degli indù) e in Egitto. La razza gialla, che neppure gode di un gran favore, ha creato con la civiltà cinese una cultura che era infinitamente più elevata di quella dei propri contemporanei bian­ chi; allora i bianchi non erano che bambini se paragonati ai cinesi. Oggi sappiamo molto bene ciò che i greci antichi attinsero dagli assiro-babilonesi e dagli egizi. Questi fatti sono sufficienti per dimostrare che le spiegazioni basate sull’argomento della razza non servono a nulla. Comunque ci si potrebbe dire: “Forse avete ragio­ ne; ma potete affermare che un negro medio corrisponda per le sue qualità a un europeo medio?” Non si può rispondere a tale domanda con una battuta come quella di certi professori liberali: “Tutti gli uomini sono uguali”; secondo Kant la personalità umana costituisce un fine in se stessa; Gesù Cristo insegnava che non c’erano nè Greci nè Ebrei, ecc. (si veda, per esempio, in Khvestov: “è molto proba­ bile che la verità sia dalla parte dei difensori dell’uguaglianza degli uomini”. La Teoria del processo storico). Quindi tendere all’uguaglianza degli uomini, non vuol 87 dire riconoscere l’uguaglianza delle loro qualità e, d ’altra parte, si tende sempre verso ciò che non esiste ancora, perché sarebbe altra cosa forzare una porta aperta. Noi non cerchiamo per il momento di sapere verso cosa si debba tendere. Ciò che interessa è sapere se esiste una differenza tra il livello di cultura dei bianchi e quello dei negri in generale. Certamente questa differenza esiste. Attualmente i “bianchi” sono superiori agli altri. Ma questo cosa prova? Prova che attualmente le razze hanno cambiato di posto. E questo contraddice la teoria delle razze. Infatti questa teoria riduce tutto alla qualità delle razze, alla loro “natura” si sarebbe fatta sentire in tutti i periodi della storia. Che cosa si può dedurre da tutto ciò? Che la «natura» stessa cambia costantemente, in relazione alle condizioni di esistenza di una deter­ minata razza. Queste condizioni sono prodotte dalle relazioni tra la società e la natura, cioè dallo stato delle forze produttive. Quindi la teoria delle razze non spie­ ga assolutamente le condizioni dell’evoluzione sociale. Appare qui chiaro che dob­ biamo iniziare l’analisi dallo studio del movimento delle forze produttive» (La teo­ ria del materialismo storico, p. 129-130). Dal pregiudizio deH’inferiorità della razza indigena si inizia a passare all’estremo opposto: quello per cui la creazione di una nuova cultura americana sarà essenzial­ mente opera delle forze razziali più autoctone. Sottoscrivere questa tesi equivale a cadere nel più ingenuo e assurdo misticismo. Al razzismo di coloro che disprezzano l’indio perché credono nella superiorità assoluta e permanente della razza bianca, sarebbe insensato e pericoloso opporre il razzismo di coloro che sopravvalutano l’indio, con una fede messianica nella sua missione di razza nella rinascita americana. Le possibilità che l’indio si elevi dal punto di vista materiale ed intellettuale dipendono dal cambiamento delle condizioni economico-sociali. Non sono determi­ nate dalla razza ma dall’economia e dalla politica. La razza da sola non si è sveglia­ ta, nè potrebbe risvegliarsi, fino a comprendere un’idea emancipatrice. Soprattutto non acquisirebbe mai il potere di imporla e realizzarla. Ciò che assicura la sua emancipazione è il dinamismo di un’economia e di una cultura che hanno nelle loro viscere il germe del socialismo. La razza india non fu vinta, nella guerra di conqui­ sta, da una razza superiore dal punto di vista etnico o qualitativo; ma fu certamente vinta dalla tecnica che era molto superiore alla tecnica degli aborigeni. La polvere da sparo, il ferro, la cavalleria, non erano vantaggi razziali, erano vantaggi tecnici. Gli spagnoli arrivarono in queste terre lontane perché disponevano di mezzi di navigazione che consentivano loro di attraversare gli oceani. La navigazione ed il commercio gli permisero più tardi lo sfruttamento di alcune risorse naturali delle proprie colonie. Il feudalesimo spagnolo si sovrappose al sistema agricolo indigeno, rispettando in parte le sue forme comunitarie. Ma questo stesso adattamento creava un ordine statico, un sistema economico i cui fattori di stagnazione erano la miglio­ re garanzia della servitù indigena. L ’industria capitalista rompe questo equilibrio, interrompe questo ristagno, creando nuove forze produttive e nuovi rapporti di produzione. Il proletario cresce gradualmente a discapito dell’artigianato e della servitù. L’evoluzione economica e sociale della nazione entra in un’era di attività e di contraddizioni che, sul piano ideologico, causa la comparsa e lo sviluppo del pensiero. In tutto ciò, l’influenza del fattore razza si dimostra evidentemente insignificante di fronte all’influenza del fattore economia, - produzione, tecnica, scienza, ecc. -. Senza gli elementi materiali che crea l’industria moderna, o se si vuole il capitalismo, sarebbe possibile abbozzare il piano, o almeno l’intenzione, di uno stato socialista, basato sulle rivendicazioni, sull’emancipazione delle masse indigene? Il dinamismo di questa eco­ nomia, di questo regime che rende instabile ogni rapporto e che, oltre alle classi con­ trappone le ideologie, è senza dubbio ciò che rende possibile la resurrezione indigena, 88 un evento deciso dal gioco di forze economiche, politiche, culturali, ideologiche, non di forze razziali. La più grossa accusa contro le classi dominanti della repubblica è quella di non essere riuscite ad accelerare, con un’intelligenza più liberale, più borghe­ se, più capitalista della loro missione, il processo di trasformazione dell’economia colo­ niale in economia capitalista. La feudalità oppone all’emancipazione, alla rinascita indi­ gena, la sua stagnazione e la sua inerzia; il capitalismo, con i suoi conflitti, con i suoi stessi strumenti di sfruttamento, spinge le masse verso le loro rivendicazioni, le destina ad una lotta in cui acquisiscono un’abilità materiale e mentale per presiedere a un ordi­ ne nuovo. Il problema delle razze non è comune a tutti i paesi deH’America Latina, né pre­ senta in tutti quelli che lo vivono le stesse proporzioni e gli stessi caratteri. In alcuni paesi latinoamericani ha una localizzazione regionale e non influisce significativa­ mente sul processo sociale ed economico. Ma in paesi come il Perù e la Bolivia e un po’ meno in Ecuador, dove la maggior parte della popolazione è indigena, la rivendi­ cazione dell’indio è la rivendicazione popolare e sociale dominante. In questi paesi il fattore razza si complica con il fattore classe in modo tale che una politica rivoluzionaria non può evitare di prenderlo in considerazione. L’indio que­ chua o aymara vede il suo oppressore nel «misti», nel bianco. E nel meticcio, soltanto la coscienza di classe è capace di distruggere l’abitudine al disprezzo, alla repulsione nei confronti dell’indio. Non è raro trovare negli stessi elementi della città che si pro­ clamano rivoluzionari il pregiudizio dell’inferiorità dell’indio e la resistenza a ricono­ scere questo pregiudizio come una semplice eredità o contagio mentale dell’ambiente. La barriera della lingua si interpone tra le masse contadine indie e i nuclei operai rivoluzionari di razza bianca o meticcia. Ma, attraverso i propagandisti indigeni, la dottrina socialista, per la natura delle sue rivendicazioni, attecchirà velocemente tra le masse indigene. Ciò che finora è mancata è stata la preparazione sistematica di questi propagandisti. L’indio alfabetiz­ zato, che viene corrotto dalla città, si trasforma regolarmente in un collaboratore degli sfruttatori della sua razza. Ma nella città, nell’ambiente operaio rivoluzionario, l’indio inizia già ad assimilare l’idea rivoluzionaria, ad appropriarsene, a capire il suo valore come strumento di emancipazione di questa razza, oppressa dalla stessa classe che sfrutta in fabbrica l’operaio, in cui scopre un fratello di classe. Il realismo di una politica socialista sicura e precisa nella valutazione e nell’utiliz­ zazione dei fatti sui quali deve agire in questi paesi, può e deve convertire il fattore razza in fattore rivoluzionario. Lo Stato attuale in questi paesi si basa sull’alleanza della classe feudale di proprietari terrieri con la borghesia mercantile. Abbattuta la feudalità latifondista, al capitalismo urbano mancheranno le forze per resistere a quella operaia in ascesa. Lo rappresenta una borghesia mediocre, debole, cresciuta nel privilegio, senza spirito combattivo e organizzato, che perde ogni giorno di più il suo ascendente sull’oscillante strato intellettuale. {Trad, di Stella Soldani) Anche Difesa del marxismo è un’opera organica, benché l’autore non sia riuscito a veder­ ne la pubblicazione, che avverrà solo nel 1959, dopo un’edizione parziale del 1934. Oggi costituisce il voi. 5 delle Obras completas, Defensa del marxismo. Polémica revolucionaria. Il primo saggio è un confronto serrato con Henri de Man e il suo celebre libro «revisionista» Au-delà du marxisme. 89 Henri de Man e la «crisi» del marxismo In un volume che probabilmente aspira alla stessa popolarità e divulgazione dei due temi de II Tramonto dell’Occidente di Spengler, Henri de Man si propone - andan­ do al di là dell’impegno di Eduard Bernstein che risale a un quarto di secolo fa - non solo la «revisione», ma la «liquidazione» del marxismo. Il tentativo non è certamente originale. Il marxismo è stato vittima, fin dalla fine del XIX secolo - cioè da prima che avesse inizio la reazione contro le caratteristi­ che di quel secolo razionalista, tra le quali viene annoverato -, degli attacchi, più o meno documentati e istintivi, di professori universitari, eredi del rancore della scienza ufficiale verso Marx e Engels, e di militanti eterodossi, disgustati dal forma­ lismo della dottrina del partito. Nel 1897, il professor Charles Andler pronosticava la «dissoluzione» del marxismo e dalla cattedra intratteneva i suoi ascoltatori, con le sue divagazioni erudite su questo tema. Il professor Masaryk, oggi Presidente della Repubblica Cecoslovacca, diagnosticò, nel 1898, la «crisi del marxismo», e questa frase, meno categorica e più universitaria di quella di Andler, ebbe maggiore fortuna. Masaryk accumulò, più tardi, in seicento pagine a caratteri gotici, le sue dotte argomentazioni di sociologo e filosofo sul Materialismo Storico, senza che la sua critica pedante che, come venne subito dimostrato da vari commentatori, non coglieva il senso della dottrina di Marx, riuscisse a scalzare minimamente i fonda­ menti di essa. E nella stessa epoca, E duardo B ernstein, insigne studioso di Economia, proveniente dalla scuola social-democratica, formulò la sua tesi revisio­ nista, elaborata con dati sullo sviluppo del capitalismo, che non confermavano le previsioni di Marx rispetto alla concentrazione del capitale e aU’impoverimento del proletariato. A causa del suo carattere economico, la tesi di Bernstein ebbe una eco più vasta di quella dei professori Andler e Masaryk; ma né Bernstein, né gli altri «revisionisti» della sua scuola, riuscirono a espugnare la cittadella del marxismo. Bernstein, che non pretendeva di suscitare una corrente secessionista, ma di esigere la considerazione delle circostanze non previste da Marx, si mantenne aH’interno della social-democrazia tedesca, che in quell’epoca era dominata, d ’altra parte, dallo spirito riform ista di Lasalle p iu tto sto che dal pensiero rivoluzionario dell’autore de II Capitale. Non vale la pena di elencare altre offensive minori, effettuate con argomenti identi­ ci o analoghi e circoscritte ai rapporti tra il marxismo e una scienza determinata, ad esempio il diritto. L’eresia è indispensabile per verificare la salute del dogma. Alcune sono servite a stimolare l’attività intellettuale del socialismo, compiendo un’opportuna azione di reagenti. Di altre, puramente individuali, ha fatto giustizia implacabile il tempo. La vera revisione del marxismo, nel senso di rinnovamento e continuazione dell’opera di Marx, è stata realizzata, nella teoria e nella pratica, da un’altra catego­ ria di intellettuali rivoluzionari. Georges Sorel, nei suoi studi che separano e distin­ guono ciò che in Marx è essenziale e sostanziale da ciò che è formale e contingente, ha rappresentato, nei primi decenni di questo secolo, forse più che la reazione del sentimento classista dei sindacati, contro la degenerazione evoluzionistica e parla­ mentare del socialismo, il ritorno alla concezione dinamica e rivoluzionaria di Marx e il suo inserimento nella nuova realtà intellettuale e organica. Attraverso Sorel, il marxismo assimila gli elementi e le acquisizioni sostanziali delle correnti filosofiche posteriori a Marx. Superando i fondamenti razionalistici e positivisti del socialismo della sua epoca, Sorel trova in Bergson e nei pragmatisti delle idee che corroborano il pensiero socialista, restituendolo alla missione rivoluzionaria da cui era stato pro­ gressivamente allontanato dall’imborghesimento intellettuale e spirituale dei partiti 90 e dei loro parlamentari, che si accontentavano, in campo filosofico, dello storicismo più inconsistente e dell’evoluzionismo più pavido. La teoria dei miti rivoluzionari, che applica al movimento socialista l’esperienza dei movimenti religiosi, stabilisce le basi di una filosofia della rivoluzione, profondamente impregnata di realismo psico­ logico e sociologico, e allo stesso tempo precorre le conclusioni del relativismo con­ temporaneo, così care a Henri de Man. La rivendicazione del sindacato, come fatto­ re primordiale di una coscienza genuinamente socialista e come istituzione caratteri­ stica di un nuovo ordine economico e politico, indica la rinascita dell’idea classista messa a tacere dalle illusioni democratiche nel periodo di apogeo del suffragio uni­ versale, in cui risuonò, magnifica, l’eloquenza di Juarès. Sorel, nel chiarire il ruolo storico della violenza, è il continuatore più vigoroso di Marx in quel periodo di par­ lamentarismo social-democratico, il cui effetto più evidente, nell’ambito della crisi rivoluzionaria post-bellica, fu la resistenza psicologica e intellettuale dei leaders operai alla presa del potere a cui li spingevano le masse. Le Riflessioni sulla Violenza sembrano avere avuto un’influenza decisiva sulla formazione mentale di due capi così antagonistici come Lenin e Mussolini. E in questo periodo Lenin appare incon­ testabilmente come il restauratore più energico e fecondo del pensiero marxista, qualunque siano i dubbi che a questo proposito tormentino il disilluso autore di Oltre il Marxismo. La rivoluzione russa costituisce, che piaccia o no ai riformisti, l’avvenimento più importante del socialismo contemporaneo. E in questo avveni­ mento, la cui portata storica non si può ancora misurare, che bisogna andare a cer­ care la nuova tappa marxista. In Oltre il Marxismo, Henri de Man, per una sorta di impossibilità ad accettare e comprendere la rivoluzione, preferisce raccogliere i malumori e le disillusioni del dopoguerra del proletariato occidentale, come espressione dello stato attuale del sen­ timento e della mentalità socialisti. Henri de Man è un riformista disilluso. Egli stesso racconta, nel prologo al suo libro, come le delusioni della guerra distrussero la sua fede socialista. All’origine del suo libro c’è, senza dubbio, «l’abisso, sempre più profondo, che lo separava dai suoi vecchi correligionari marxisti convertiti al bolsce­ vismo». Disilluso dalla prassi riformista, de Man - discepolo dei teorici della socialdem ocrazia tedesca, benché la sua ortodossia fosse sensibilm ente attenuata dall’influenza di Juarès -, ma decise, come i correligionari di cui parla, di seguire la strada della rivoluzione. La «liquidazione del marxismo», di cui si occupa, rappresen­ ta prima di tutto la sua esperienza personale. Quella «liquidazione» è avvenuta nella coscienza di Henri de Man, come in quella di molti altri socialisti intellettuali, che con l’egocentrismo tipico della loro mentalità, si affrettarono a identificare il giudizio della storia con la loro esperienza. Per questo de Man ha scritto, potremo dire deliberatamente, un libro disfattista e negativo. L’aspetto più importante di Oltre il Marxismo è, senza dubbio, la sua critica della politica riformista. L’ambiente in cui si colloca, per la sua analisi dei moventi e delle motivazioni del proletariato, è l’ambiente mediocre e passivo in cui ha combattuto: quello del sindacato e quello della social-democrazia belga. Non è mai l’ambiente eroico della Rivoluzione che, durante l’agitazione del dopoguerra, non fu esclusivo della Russia, come qualsiasi lettore di queste righe può verificare nelle pagine rigorosamente storiche, giornalistiche - sebbene l’autore introduca in questo tema un lieve elemento romanzesco - de II Sentiero Rosso, di Alvarez del Vayo. De Man ignora e elude l’emozione, il pathos rivoluzionario. Il proposito di liquidare e di superare il marxismo, lo ha condotto ad una critica minuziosa di un ambiente sindacale e politico che, ai nostri giorni, non è assolutam ente quello marxista. Gli studiosi più severi e autorevoli del movimento socialista constatano che il dirigente effettivo della social-democrazia tedesca, quella a cui teoricamente 91 e praticamente si sente così vicino de Man, non fu Marx ma Lassalle. Il riformismo lassalliano concordava molto di più con le motivazioni e la prassi impiegate dalla social-democrazia nel processo della sua crescita che con il rivoluzionarismo marxi­ sta. Tutte le incongruenze, tutte le discrepanze che de Man osserva tra la teoria e la pratica della social-democrazia tedesca, non sono, quindi, strettamente imputabili al marxismo, se non nella misura in cui si voglia chiamare marxismo qualcosa che aveva smesso di esserlo quasi fin dalla sua origine. Il marxismo attivo, vivo, di oggi, ha molto poco a che vedere con le desolate dimostrazioni di Henri de Man, le quali devono preoccupare, piuttosto, Vandervelde, e altri politici, della social-democra­ zia belga, i quali, a quanto pare, sono rimasti profondamente impressionati dal suo libro. {Trad, di Lucia Lorenzini) «Freudismo e Marxismo», oltre a ribadire il profondo interesse di Maridtegui per la psicanalisi, rappresenta la resa dei conti con un altro tipo di revisionismo, quello inter­ pretato da Max Eastman. Criticando la tendenza di una scienza a erigersi a criterio di interpretazione globale della realtà, critica anche ogni pretesa totalizzante dello stesso marxismo. Freudismo e Marxismo Il recente libro di Max Eastman, La Scienza della Rivoluzione, coincide con quello di Henri de Man nella tendenza a studiare il marxismo con i dati della nuova psicolo­ gia. Ma Eastman, che, risentito verso i bolscevichi, non è esente da moventi revisioni­ stici, parte da punti di vista diversi da quelli dello scrittore belga e, per certi aspetti, offre alla critica del marxismo un contributo più originale. Henri de Man è un eretico del riformismo e della social-democrazia; Max Eastman è un eretico della Rivoluzione. Il suo atteggiamento critico da intellettuale supertrotskista, lo allontanò dai Soviets di cui aveva attaccato violentemente i capi, soprattutto Stalin, nel suo libro Depuis de la Morte de Lenin. Ma Eastman è ben lontano da credere che la psicologia contemporanea in gene­ rale, e la psicologia freudiana in particolare, sminuiscano la validità del marxismo come scienza pratica della rivoluzione. Al contrario: afferma che la rafforzano e indi­ ca delle interessanti affinità sia tra il carattere delle scoperte essenziali di Marx e quello delle scoperte di Freud, che tra le reazioni provocate nella scienza ufficiale dall’uno e dall’altro. Marx dimostrò che le classi idealizzavano o mascheravano i loro momenti e che, dietro alle loro ideologie, cioè ai loro principi politici, filosofici e religiosi, agivano i loro interessi e i loro bisogni economici. Questa asserzione, for­ mulata con il rigore e l’assolutismo che caratterizzano sempre all’origine ogni teoria rivoluzionaria, e che si acuisce per ragioni polemiche nel dibattito con i suoi avversa­ ri, feriva profondamente l’idealismo degli intellettuali, restii fino ad oggi ad ammet­ tere qualsiasi nozione scientifica che implichi una negazione o una riduzione dell’autonomia e del prestigio del pensiero o, più precisamente, dei professionisti o funzionari del pensiero. Freudismo e marxismo, benché i discepoli di Freud e di Marx non siano ancora i più propensi a capirlo e a rendersene conto, sono imparentati, nei loro rispettivi 92 domini, non solo per ciò che le loro teorie avevano di «umiliazione», come dice Freud, per le concezioni idealistiche dell’umanità, ma per il modo in cui affrontano i problemi di cui si occupano. «Per curare i turbamenti individuali - osserva Max Eastman -, lo psicanalista presta un’attenzione particolare alle deformazioni della coscienza causate dai moventi sessuali repressi. Il marxista, che cerca di curare i tur­ bamenti della società, presta un’attenzione particolare alle deformazioni generate dalla fame e dall’egoismo». Il vocabolo «ideologia», di Marx è semplicemente un nome che serve a designare le deformazioni del pensiero sociale e politico prodotte dai moventi repressi. Questo vocabolo traduce l’idea dei freudiani, quando parlano di razionalizzazione, di sostituzione, di trasferimento, di dislocazione, di sublimazione. L’interpretazione economica della storia non è altro che una psicoanalisi generalizza­ ta dello spirito sociale e politico. La prova di ciò è la resistenza spasmodica e irrazio­ nale opposta dal paziente. La diagnosi marxista viene considerata come un oltraggio, piuttosto che come una constatazione scientifica. Invece di essere accolta con spirito critico davvero comprensivo, si scontra con razionalizzazioni e «reazioni di difesa» delle più violente e infantili. Freud, nell’esaminare le resistenze alla Psicoanalisi, ha già descritto queste reazioni, che né nei medici né nei filosofi hanno obbedito a criteri propriamente scientifici o filosofici. La Psicoanalisi veniva contestata, prima di tutto, perché contrastava e smuoveva una spessa cappa di sentimenti e di superstizioni. Le sue affermazioni sul subcosciente, e soprattutto sulla libido, infliggevano agli uomini un’umiliazione grave quanto quella provata con la teoria di Darwin e con la scoperta di Copernico. All’umiliazione biolo­ gica e all’umiliazione cosmologica, Freud avrebbe potuto aggiungere un terzo prece­ dente: quello dell’umiliazione ideologica, causata dal materialismo economico, quando la filosofia idealista era all’apogeo. L’accusa di pan-sessualismo a cui va incontro la teoria di Freud, ha un preciso equivalente nell’accusa di pan-economicismo a cui è ancora soggetta la teoria di Marx. A parte il fatto che il concetto di economia in Marx è altrettanto ampio e profondo di quello della libido in Freud, il principio dialettico su cui si basa tutta la concezione marxista escludeva la riduzione del processo storico a un mero meccanismo economi­ co. E i marxisti possono confutare e distruggere l’accusa di pan-economismo con la stessa logica con cui Freud difende la Psicoanalisi affermando che «le è stato rimprove­ rato il suo pan-sessualismo, benché lo studio psicanalitico degli istinti fosse sempre stato rigorosamente dualistico e non avesse mai trascurato di riconoscere, accanto agli appetiti sessuali, altri moventi abbastanza forti da produrre il rifiuto dell’istinto sessua­ le». Allo stesso modo, l’influenza del sentimento antisemitico negli attacchi alla Psicoanalisi non è stata minore nelle resistenze al marxismo. E molte delle ironie e delle riserve con cui in Francia viene accolta la Psicoanalisi, per il fatto che proviene da un tedesco, la cui nebulosità si concilia poco con la chiarezza e la misura latine e fran­ cesi, assomigliano in modo sorprendente a quelle che ha sempre trovato il Marxismo, e non solo tra gli anti-socialisti, in quel paese, dove un nazionalismo subconscio ha por­ tato abitualmente la gente a considerare il pensiero di Marx come quello di un boche* oscuro e metafisico. Gli italiani, da parte loro, non gli hanno risparmiato gli stessi epi­ teti né sono stati meno estremisti e zelanti nell’opporre, a seconda dei casi, l’idealismo o il positivismo latini al materialismo e all’astrazione tedeschi di Marx. Come osserva Max Eastman, ai movimenti di classe e di educazione intellettuale che sono alla base della resistenza al metodo marxista, non riescono a sottrarsi, tra gli Termine spregiativo con cui i francesi designano i tedeschi. 93 uomini di scienza, gli stessi discepoli di Freud, propensi a considerare l’atteggiamento rivoluzionario come una semplice nevrosi. L’istinto di classe determina questo giudizio di stampo reazionario. Il valore scientifico, logico, del libro di Max Eastman - e questa è la curiosa conclu­ sione a cui si arriva al termine della sua lettura, ricordando i precedenti del suo Depuis de la Morte di Lenin e della sua clamorosa scomunica da parte dei comunisti russi risulta essere molto relativo, non appena si indaghi sui sentimenti che inevitabilmente lo hanno ispirato. La Psicoanalisi, da questo punto di vista può essere dannosa per Max Eastman come elemento di critica marxista. Per l’autore di La Scienza della Rivoluzione sarebbe impossibile provare che sui suoi ragionamenti neo-revisionisti, sulla sua posizione eretica e, soprattutto, sui suoi concetti a proposito del bolscevismo, non influiscono minimamente i suoi risentimenti personali. Il sentimento prevale trop­ po spesso sul ragionamento di questo scrittore, che così appassionatamente pretende di collocarsi su un terreno oggettivo e scientifico. {Trad, di Lucia Loren zi ni) Cronologia di José Carlos Mariàtegui 1894 Nasce il 14 giugno a Moquegua, nel sud del Perù, da Francisco Javier Mariàtegui e Amalia La Chira. Il padre abbandona quasi subito la famiglia, che si trasferisce a Lima. 1902 Per un incidente di gioco resta invalido alla gamba sinistra. 1908 Dopo la morte del padre, avvenuta l’anno prima, entra come operaio al quotidia­ no «La Prensa». 1912 Inizia a scrivere alcuni articoli di cronaca. 1914 Comincia a utilizzare lo pseudonimo di Juan Croniqueur. 1915 Scrive, insieme a Julio de la Paz, Las Tapadas, un dramma in versi di ambiente coloniale. 1916 Passa al quotidiano «E1 Tiempo», dove s’incarica di una rubrica sulle attività par­ lamentari. Pubblica un altro dramma in versi, La Mariscala, in collaborazione con Abraham Valdelomar. 1917 Ottiene un premio per un suo articolo sulla processione tradizionale. Viene arre­ stato, insieme a un gruppo di amici, dopo avere assistito alla danza notturna di una ballerina nel cimitero. 1918 Con gli amici César Falcón e Félix del Valle fonda la rivista «Nuestra Epoca» di cui escono solo due numeri. Per un articolo sulle spese dell’esercito, subisce un’aggressione da parte di un gruppo di militari. 1919 Fonda il quotidiano «La Razón», che sostiene le lotte operaie e studentesche. Dopo la chiusura del giornale, viene allontanato dal paese, con un esilio masche­ rato dalla nomina ad agente di propaganda del Perù in Italia. 1920 Dopo un viaggio che lo ha portato, attraverso New York, in Francia, si trasferisce in Italia. Inizia le sue corrispondenze per «El Tiempo» di Lima sotto il titolo Cartas de Italia («Lettere dall’Italia»). 1921 Dal suo matrimonio con la lucchese Anna Chiappe nasce il primogenito Sandro. Assiste al Congresso di Livorno che vede la nascita del Partito Comunista d’Italia. 1922 Partecipa come giornalista alla Conferenza Economica Internazionale di Genova. Viaggia in Germania, Austria, Ungheria e Cecoslovacchia. 94 1923 II 18 marzo ritorna in Perù. In giugno inizia un ciclo di conferenze sulla crisi mondiale presso l ’Università Popolare «Manuel Gonzàlez Prada». Dopo la deportazione di Haya de la Torre, assume la direzione della rivista «Claridad» Viene arrestato insieme ai docenti dell’Università Popolare. 1924 Dopo una violenta crisi che lo porta sull’orlo della morte, subisce l’amputazione della gamba destra. 1925 Fonda la casa editrice Minerva. Pubblica La scena contemporanea. 1926 In settembre esce il primo numero della rivista «Amauta». 1927 «Amauta» viene chiusa dal governo e Mariàtegui arrestato per un presunto «complotto comunista». Dopo alcuni mesi di sospensione, la rivista riprende le pubblicazioni. 1928 Si consuma la rottura con l’Apra e viene fondato il Partito Socialista Peruviano. Il quindicinale «Labor», dedicato alle lotte sindacali, affianca «Amauta». Pubblica 7 saggi di interpretazione della realtà peruviana. 1929 Fonda La Confederazione Generale dei Lavoratori del Perù. I documenti da lui preparati per il Congresso Sindacale di M ontevideo e per la Conferenza Comunista di Buenos Aires sono criticati dai rappresentanti dell’ortodossia. Il governo impone la chiusura di «Labor». Pubblica i saggi destinati a Difesa del marxismo. Pubblica a puntate II romanzo e la vita, ispirato al celebre caso Bruneri-Canella. 1930 Sottoposto a un assedio sempre più stretto dalla dittatura di Leguia, progetta di trasferirsi a Buenos Aires. Il 16 aprile muore a Lima. Bibliografìa essenziale a) Opere di Mariàtegui: L’edizione più ampia e accessibile di Mariàtegui è quella popolare delle Obras com­ pletasi pubblicata a Lima dalla Biblioteca Amauta tra il 1959 e il 1970. Sono venti volu­ metti, continuamente ristampati, di cui sedici contengono propriamente le opere di Mariàtegui: voi. 1: La escena contemporànea voi. 2: 7 ensayos de interpretación de la realidad peruana voi. 3 : El alma matinal y otras estaciones del hombre de boy voi. 4: La novela y la vida. Siegfried y el profesor Can ella - Ensayos sintéticos Reportajes y encuestas voi. 5 : Defensa del marxismo. Polémica revolucionaria voi. 6: El artista y la època voi. 7 : Signos y obras voi. 8: Historia de la crisis mundial (Conferencias) voi. 11: Peruanicemos al Perù voi. 12: Temas de nuestra América voi. 13: Ideologia y politica voi. 14: Temas de educación voi. 15: Cartas de Italia voi. 16: Figuras y aspectos de la vida mundial (I) voi. 17: Figuras y aspectos de la vida mundial (II) voi. 18: Figuras y aspectos de la vida mundial (III) 95 Recentemente è stata intrapresa la pubblicazione, presso la stessa casa editrice, degli Escritos juveniles, con il sottotitolo La edad de piedra, come lo stesso autore aveva qualificato questa sua prima stagione. A partire dal 1987 sono usciti finora 6 volumi degli 8 complessivamente previsti. Uno strumento imprenscindibile per ricostruire l’attività dell’autore sono, inoltre, i due volumi della Corrispondencia (1915-1930), Lima, Biblioteca Amauta, 1984. Sono state inoltre pubblicate ristampe anastatiche delle riviste «Nuestra Epoca», «Amauta» e «Labor». Dal 1989 esce a Lima un Anuario Mariateguiano. b) Traduzioni italiane: Lettere dall’Italia e altri saggi, trad, e scelta a cura di Gaetano Foresta, Palermo, Editori Stampatori Associati, 1970. Sette saggi sulla realtà peruviana, Saggio introduttivo di Robert Paris, trad, di Bruno Mari e Gabriella Lapasini, Torino, Einaudi, 1972. Lettere dall’Italia e altri scritti, a cura di Ignazio Delogu, Roma, Editori Riuniti, 1973. Avanguardia artistica e avanguardia politica, a cura di Antonio Melis, Milano, Mazzotta, 1975. Il romanzo e la vita, a cura di Antonio Melis, Genova, Marietti - In Forma di Parole, 1990. Mariàtegui con la moglie Anna Chiappe, nella loro casa, 1928. 96 G erardo Ram irez Vidal Le fonti letterarie della conquista: alcune considerazioni 1. La “scoperta” e la conquista dell’America diedero origine a una ricca letteratura testimoniale, sia dei nuovi arrivati come degli aborigeni, che oggi rimane come fonte preziosa per lo studio tanto delle civiltà incontrate e distrutte che delle azioni dei pro­ tagonisti della Conquista. Le nostre attuali conoscenze e l’immagine che abbiamo di quei popoli e dei fatti avvenuti si basa proprio su questa letteratura testimoniale. Ovviamente le diverse tendenze ideologiche dei singoli studiosi hanno comportato l’uso o l’abuso solo di alcune fonti specifiche e la sottovalutazione o l’omissione di altre. Forse l’esempio più noto è la preziosa opera divulgativa di M. León-Portilla ini­ ziata nel lontano 1959 con la quale l’autore cercava di rappresentare l’importanza degli scritti dei testimoni indigeni: “In questo libro parleranno i vinti”, dice l’autore all’inizio de II rovescio della Conquista, “ecco le parole che sulla Conquista ci hanno lasciato alcuni superstiti aztechi, maya e quechua”. E alcuni paragrafi dopo presenta l’obiettivo del suo lavoro: “Questa antologia... vuole avvicinarci alla valutazione definitiva e piena­ mente cosciente che ci hanno lasciato i superstiti delle tre culture” (corsivo mio). LeónPortilla aveva pienamente ragione nel diffondere una voce che era stata dimenticata fino a quel momento, e la sua opera ebbe una fortuna meritata. Dietro il tentativo dello studioso messicano si intravede un atteggiamento critico nei confronti delle altre fonti letterarie della Conquista, cioè quelle degli europei, e ciò, chiaramente, con assoluta ragione. Tuttavia i dubbi o addirittura il totale rifiuto di ciò che i testimoni del “Vecchio M ondo” avevano scritto sulla Conquista non è cosa nuova, ha una lunga storia che inizia proprio con gli stessi scrittori delle indie. Si potrebbe fare una relazione interessante sul diverso atteggiamento che gli studiosi hanno avuto nei confronti degli scritti dei testimoni. Qui però ci limiteremo a fare una breve esemplificazione di quello che gli stessi autori dell’epoca pensavano reciproca­ mente delle loro testimonianze e a fornire qualche idea di come queste fonti potrebbe­ ro essere meglio utilizzate.* * Filologo, ricercatore presso V In stitu to de Investigaciones Filológicas dell’Unam Universidad Nacional Autònoma de Mexico. Un ringraziamento a Laura Lepore per la lettura e le osservazioni al testo. 97 2. Già nel primo documento scritto indirizzato al Re di Spagna sulla conquista dell’impero azteca, la Prima Lettera di Relazione, attribuita per errore al capitano spa­ gnolo Hernàn Cortés, gli autori affermavano senza complimenti che “tutte le relazioni finora fatte su queste terre non sono attendibili, perché i loro autori non seppero mai dei loro segreti se non quello che hanno voluto dire” (Cortés, 1987, p. 29). Questa frase sintetizza con tutta chiarezza l’utilizzazione di un luogo comune negli autori cin­ quecenteschi sulla Conquista: essi si accusavano a vicenda di dire menzogne dichiaran­ dosi ognuno come portatore della verità; affermavano con forza che gli altri scrittori avevano una totale ignoranza del mondo indigeno e che le loro relazioni erano piene di invenzioni e modificazioni dei fatti. Uno degli esempi più noti di questo luogo comune lo troviamo in una opera singo­ lare della letteratura sulla Conquista, la Storia vera della conquista della Nuova Spagna (1632) di Bernal Diaz del Castillo. Quest’uomo ebbe una profonda conoscenza dei fatti poiché aveva partecipato come soldato fin da giovanissimo alle prime incursioni nell’attuale territorio messicano e soprattutto alla conquista dell’impero azteca. Del Castillo scrisse la sua opera molto tempo dopo lo svolgimento dei fatti, quando era diventato vecchio, e quindi poteva ponderare con buon giudizio i fatti accaduti. L’obiettivo dell’opera era indirizzato propio in questo senso. Infatti, l’autore afferma che scrisse l’opera col fine di lasciare ai suoi discendenti una narrazione vera dei fatti, considerati da lui talmente straordinari che meritavano di non essere dimenticati. L’intenzione dell’autore si manifesta appunto nel titolo dell’opera: dire la verità sui fatti, rifiutare le menzogne e correggere gli errori che altri cronisti della Conquista ave­ vano divulgato (cf. Cap. XVII). I meriti dell’opera vengono rafforzati dalla straordina­ ria memoria degli avvenimenti che l’autore mostra di avere. Infatti egli fa una relazione dei fatti in modo geniale, presentando immagini nitide e luminose dell’accaduto come se quei fatti gli fossero ancora davanti agli occhi. Ricorda un numero impressionante di nomi dei suoi compagni, di cui fornisce anche segni particolari (cf. Cap. CCV e CCVI), narra con vivacità e precisione delle battaglie, descrive con accuratezza e a volte riferisce addirittura i nomi, le qualità e i colori dei cavalli, eccetera. La Storia di del Castillo è diventata quindi una lunga e pregiatissima fonte sulla Conquista. Il cronista, informatissimo com’era, accusa i cronisti che l’avevano preceduto di avere raccontato solo falsità. Oggetto delle sue accuse era soprattutto Francisco Lopez de Gómara, uomo che - secondo lui - aveva scritto Hispania Victrix (1552) solo col fine di lodare senza limiti Hernàn Cortés, senza valutare invece i grandi meriti dei soldati. Da una parte il cronista afferma che Gómara non diceva neppure un po’ (“ni cabo”) di ciò che era successo nella Nuova Spagna (Cap. XVIII) e dall’altra che egli, con la sua Storia, cercherà appunto di fare giustizia verso tutti gli altri conquistatori e verso se stesso facendo una storia “vera” di ciò che era accaduto. Nel prendere in considerazio­ ne le sue conoscenze sui fatti e la sua narrazione straordinariamente bella non si può non ritenere affidabili le sue accuse e la sua storia. Infatti, secondo C. Pereyra, oltre al genio letterario, quest’opera ha la qualità della verità: “in tutto ciò che viene raccontan­ do non c’è un solo indugio, una calcolata reticenza, un dato ingannevole” h Tuttavia, nel considerare l’opera nei suoi dettagli ci si rende conto che la singolare relazione dei fatti presenta molti punti deboli e che l’autore cade, forse ingenuamente, in errori impressionanti. Così per esempio, quando del Castillo vuole rifiutare l’accusa1 1 In genere gli studiosi si innamorano dell’oggetto del proprio studio, cf. ad esempio J. Miranda che, come Pereyra, afferma, in relazione a Gonzalo Fernandez de Oviedo: “la verità nella narrazione di ciò che per lui [Oviedo] era noto è una delle grandi virtù di Fernandez de Oviedo... la verità e il suo fine supremo” (1950, p. 59). . 98 fatta ai conquistatori riguardo alle stragi di indiani, argomenta che gli indiani morti non potevano essere tanti come i cronisti dicevano. Inoltre che tal cosa era inverosimile perché, essendo gli Spagnoli quattrocentocinquanta e gli indiani moltissimi, si sarebbe­ ro trovati nella condizione più di difendersi che di uccidere, soprattutto se si conside­ rava che l’armamento degli indiani era ottimo e talvolta superiore al loro (il che rappre­ senta un bel eikos sofistico). Non c’è bisogno di dilungarsi su questo argomento. Sul numero di indiani morti la testimonianza di Cortés rifiuta la difesa fatta da del Castillo. E’ chiaro che del Castillo fa considerazioni assurde sull’armamento degli indiani; parte da argomenti falsi per provare ciò che lui voleva: gli spagnoli erano pochi, l’armamento indiano era uguale all’armamento dei conquistatori, quindi non ci sono stati i massacri che si attribuivano agli spagnoli. Inoltre quando si riferisce all’accusa che i conquistatori marcavano col ferro gli indiani, egli afferma che non erano affatto loro che lo facevano, ma coloro che erano arrivati dopo la Conquista: “spagnoli poveri e molto cupidi” (Cap. CCXIII). Prima aveva riferito di una punizione capitale (che per caso non si fece) decisa da Cortés nel 1519 contro uno dei suoi uomini per aver rubato tre galline agli indiani (Cap. LI), per dimostrare il rispetto che il Capitano aveva imposto ai soldati per le proprietà degli indiani e per dare un esempio ai sacerdoti del suo tempo perché questi non prendesse­ ro i beni degli indiani. Sono due metodi argomentativi per respingere le accuse. Uno è responsabilizzare gli altri di un fatto negativo; l’altro è generalizzare un fatto isolato per mostrare un aspetto positivo2. E ’ evidente che la sua narrazione è parziale: così come Gómara cercava di ingrandire la figura del Capitano, del Castillo vuole rafforzare il ruolo svolto dai partecipanti alla Conquista, “ripulendo” le storie a loro favore (senza però sminuire la forza e la grandezza dell’immagine di Cortés). Del resto la storia di del Castillo non ha sempre avuto fortuna. I suoi manoscritti furono pubblicati solo nel 1632; l’autore fu considerato come un’uomo invidioso di Cortés e rivalutato solo alla fine del secolo scorso. Qualcuno addirittura affermava che in realtà del Castillo non aveva neppure partecipato alla Conquista. Questi due fatti testimoniano la valutazione negativa della sua utilizzazione delle testimonianze scritte, e ciò presumibilmente dipendeva degli interessi della Corona Spagnola; togliere cioè potere agli encomenderos che pretendevano di continuare a sfruttare i loro privilegi sugli indiani. L’accusa di menzogna di del Castillo era anche indirizzata implicitamente contro Hernàn Cortés. La figura del Capitano fu oggetto di una lunga disputa tra gli scrittori cinquecenteschi: c’erano quelli che lo biasimavano e quelli che lo lodavano. L’accusa di menzogna contro il Capitano viene soprattutto da Las Casas. Per esempio, nel Cap. CXX della sua Storia delle Indie (1559) il domenicano si esprime nel modo seguente: “Vedete qui come Cortés si prenda gioco d’ogni persona; e non senza colpa di molti tra quanti leggono la sua falsissima storia [cdr], non tenendo in nessun conto che quelli se ne stavano tranquilli nelle loro dimore, senza recar offesa a noi e a nessuno”. Altri autori invece prendevano la difesa di Cortés e tacciavano gli altri di essere bugiardi. Un esempio singolare di questa posizione è rappresentata da un frate dell’ordine di san Lrancesco, Diego Valadés, il quale, secondo molti studiosi, sarebbe stato figlio di un conquistatore e di una indiana tlaxcalteca; il suo atteggiamento però è del tutto europeo. Al di là del fatto che fosse o no meticcio, Valadés visse fin da picco- 2 Valbuena Briones afferma “Bernal Diaz vuole mostrarci un Bernal Diaz che non fu”, e rife­ risce come l’autore cerca di ingrandire la sua figura. Il suo è un memoriale di meriti e servizi. Nella seconda metà della sua vita, Diaz ebbe due fervorosi momenti: quello di aumentare le sue encomiende e quello di redigere un favoloso memoriale con destino alla Corte per facilitare que­ sto aumento (1969, p. 5). 99 lo nella Nuova Spagna dove fece i suoi studi e dove si dedicò per intero alla evangeliz­ zazione degli indiani. Il prete francescano, il quale aveva imparato quattro lingue indi­ gene, si trovava in una eccellente posizione per raccontare i fatti posteriori alla Conquista, giacché ne aveva una conoscenza diretta. Nel 1579 Valadés pubblicò la sua Rhetorica Christiana, opera in lingua latina che costituisce il primo testo pubblicato in Europa da uno scrittore novoispano. Valadés si riferisce a ciò che sapeva della Conquista affermando con autorità che: “abbonda di molti errori e menzogne la storia della Nuova Spagna e di tutto il Nuovo M ondo” 3, e prosegue facendo le lodi di Cortés, che è chiamato “bonus” e “optimus”, e del lavoro evangelizzatore dei missio­ nari, soprattutto dei francescani, senza fare neppure un accenno alla situazione degli indiani sotto il dominio spagnolo, riferendosi di solito soltanto all’idolatria, ai sacrifici umani e alla ferocità degli indiani prima di essere conquistati ed evangelizzati. Ovviamente l’accusa di menzogna viene indirizzata contro quelli che denunciavano le stragi e i misfatti commessi da Cortés e dai suoi uomini. Un’attenta analisi del testo mostra con chiarezza la tendenziosità del francescano nei confronti degli indiani. La parzialità domina la sua opera e quindi non la si può considerare degna di fede. Tra gli “scrittori delle Indias” fu però fra Bartolomé de Las Casas il principale accu­ sato. Non solo nel secolo XVI ma anche nei secoli posteriori, fino ai nostri giorni, la sua opera è stata oggetto delle peggiori critiche. Ad esempio, in relazione all’accusa di Las Casas per la strage commessa dai conquistatori in Cholula (cf. Las Casas 1988, p. 64), del Castillo risponde che: “[esso] afferma che senza nessun motivo, se non per passatempo nostro e perché ci venne la voglia si fece quella punizione, e ciò lo dice in modo artificioso nel suo libro a quelli che non videro ciò né lo sanno, così che gli farà credere questa ed altre crudeltà sulle quali scrive; tutto ciò però fu l’opposto, e non accadde così come egli lo scrive” (Cap. CXXXIII) 4. Tuttavia la testimonianza de Las Casas è stata rivalutata, benché insufficientemente. Oggi non pare esagerato che l’isola Spagnola sia stata abitata da tre milioni di persone (cf. però Biscione 1992). Las Casas si avvicina, più di quanto ci si potrebbe aspettare, ai calcoli moderni, soprattutto a quelli della cosiddetta “Scuola di Berkeley” (cf. Cook-Borah 1971, Sànchez-Albornoz 1977). Per quanto riguarda la popolazione totale del continente Americano, la cifra fornitaci da Las Casas è pure inferiore ai calcoli moderni. Il difensore degli Indios però non scappa alla caratterizzazione generale. Molte cifre infatti sono chiaramente sbagliate. Ad esempio, nella sua Apologetica storia sommaria (Cap. L) calcola per la città del Messico-Tenochtitlan una popolazione di ben più di un 3 L’opera è stata tradotta in spagnolo a città del Messico dal Fondo di Cultura Economica, 1979 (il riferimento è alla pag. 465 di questa edizione). Contro l’ipotesi sull’origine meticcia del Valadés mi convincono gli argomenti di Vàzquez Janeiro 1987, pp. 842-871. Sul francescano si è fatto di recente un convegno a Perugia, dal 28 al 30 maggio 1992, dal titolo “Diego Valadés e la Rhetorica Christiana”. 4 Ovviamente in Spagna i giudizi si sono manifestati in modo radicale contro le sue relazioni sul trattamento degli spagnoli verso gli indiani e sui dati fomiti sulla vastità del massacro com­ piuto dai conquistatori. Menéndez Pidal, convinto che Las Casas era un bugiardo, cercò di tro­ vare le cause di tale comportamento, concludendo che: “Las Casas era un paranoico. Non un demente o un pazzo in stato di incoscienza. La sua lucidità abituale fa sì che la sua anormalità sia cosa difficile da stabilire o misurare, come è molto difficile con alcuni malati mentali decidere se ricoverarli o no in un manicomio”. Un tale Fiieter non risparmia accuse contro il domenicano. Tra le altre cose dice: “Egli è un teorico fanatico, un perfetto dottrinario che non sa trarre alcun insegnamento neanche dalle peggiori esperienze” (cf. l ’Introduzione di A. Pincherle in Las Casas 1972, p. XXX). La valanga di critiche contro Las Casas constituiscono tentativi disperati per nascondere l’enorme ingiustizia commessa contro gli indigeni. 100 milione. Il calcolo erroneo forse proviene da Cortés il quale pensava che soltanto nel mercato di Tlaltelolco ci fossero ben 70 mila persone. Tuttavia, ci sono anche alterazio­ ni più pericolose nelle opere del domenicano, come il non vedere le differenze tra le diverse culture indiane e raccomunare tutti gli aborigeni con giudizi generali, benché senza dubbio Bartolomé conoscesse molto bene la loro diversità. L’alterazione princi­ pale però consiste nella caratterizzazione che fa degli indiani, con cui contribuì notevol­ mente a modellare l’immagine del “buon selvaggio”. Uomini buoni, mansueti, pacifici, amichevoli, ecc. mentre descrive i conquistatori come il contrario di tutto questo. La caratterizzazione di Las Casas dà come risultato un’immagine falsamente idilliaca nel cercare, con spirito umanitario e cristiano, di contrastare le manifestazione contrarie. Las Casas intendeva elaborare un’argomentazione verosimile a partire della sua pro­ pria esperienza (che non era poca), facendo appello non solo alle fonti e agli informa­ tori oculari degni di fede che egli riusciva a interrogare, ma anche al giuramento pren­ dendo come testimone Dio: “davanti a Dio dirò la verità”. Tuttavia, se il religioso aveva avuto la possibilità di denunciare con qualche fortuna gli atti brutali dei conqui­ statori, ciò era stato possibile grazie al benestare dei Re della Spagna, fin tanto che non divenisse contrario ai loro interessi. Il domenicano era uno strumento utilizzato dalla Corona spagnola contro coloro che si schieravano contro il potere regale, cioè gli stessi encomenderos. Questi volevano avere le mani libere nel Nuovo Mondo per continuare a sfruttare a loro capriccio e senza limiti gli indiani. Lasciare crescere queste pretese portava svantaggio economico per la Corona e quindi queste voci fornivano le argo­ mentazioni per ridurre la giurisdizione e il potere degli encomenderos. Quelle voci però in genere risultavano vere testimonianze. Las Casas non attaccava la Chiesa o la Corona, ma gli encomenderos 5. Alla fine, quando le sue denunce furono considerate pericolose anche per il prestigio della Spagna, Las Casas fu isolato e fu vietata la pub­ blicazione delle sue opere. Un’altra eccellente testimonianza sulla falsità delle fonti letterarie spagnole è la dichiarazione marginale di fra Diego Duràn il quale, dopo aver accennato che “hanno sempre lodato, innalzato e glorificato in ogni parte del mondo il coraggio mostrato dagli spagnoli”, afferma che “se dovessi attenermi al vero, e per ciò seguire le relazioni e memoriali degli Indigeni; e allora la storia mi obbligherebbe a scrivere, fra le mille nobili ed eroiche gesta, le atrocità disumane che causano morte e dolore; ché, trattan­ do di ciò, rischierei di offendere e di contrariare coloro che è mia intenzione compiace­ re e servire con questo mio libro” (Cap. LXXIV). In Duràn c’erano quindi due versio­ ni della storia, e quella raccontata dagli indiani è da lui considerata “vera”; egli però si vede nel bisogno di raccontare gli avvenimenti degni di memoria e cancellare ciò che era accaduto realmente. Ma i dubbi sulla veridicità storica non si limitavano alle testimonianze scritte degli spagnoli, esisteva anche l’idea molto diffusa che gli indiani stessi ingannavano gli spa­ gnoli. Fra Bernardino de Sahagun, nel compilare il prezioso materiale sull’eloquenza degli indigeni, che costituisce il sesto libro della sua Storia generale delle cose della Nuova Spagna, vide la necessità di difendere la veridicità delle testimonianze dei suoi informatori e non trovò altro argomento se non il fatto che la maniera nella quale si 5 R. Romano (1974, p. 50) accenna che “la posizione di Las Casas, desideroso di sottrarre gli indiani alla tutela degli encomenderos, riflette assai bene quella della Corona, mentre Sepulveda, partigiano della «giusta guerra» contro gli indiani e forte del buon diritto degli spagnoli a ridurli in schiavitù, non è altro che il portavoce degli encomenderos". Sepulveda aveva pure “ricevuto del denaro dagli encomenderos e Las Casas un’ottima accoglienza presso il potere centrale” (cf. Gliozzi 1977, p. 64). 101 esprimevano gli indiani non poteva essere menzognera: “alcuni emuli hanno affermato che tutto ciò che è stato scritto in questi libri prima e dopo di questo sono finzioni e menzogne: parlano in modo appassionato e sono bugiardi giacché ciò che in questo libro si trova scritto non può essere finto da nessun uomo intenditore e nessun uomo vivo può imitare il linguaggio nel quale è scritto, e qualsiasi Indiano intenditore che verrà interpellato dirà che questo linguaggio è proprio dei suoi antenati e delle opere fatte da loro”. L’argomento di Sahagun è verosimile nella sfera del senso comune, ma dal punto di vista “scientifico” è poco consistente. 3. Le osservazioni precedenti permettono di esemplificare con molta chiarezza la situazione di fronte alla quale si trova lo studioso dell’America indigena all’epoca della Conquista, e da ciò si può arrivare alla conclusione che i testi letterari sulla Conquista non sono degni di fiducia come documenti storici, che si deve dubitare di ogni affer­ mazione, ogni valutazione e ogni giudizio degli scrittori delle Indie. Tuttavia gli studio­ si moderni non hanno considerato con sufficiente attenzione l’importanza di tale feno­ meno e generalmente cadono nella trappola degli autori cinquecenteschi. Un esempio tra molti è l’accettazione acritica e quasi assoluta della supposta credenza degli Aztechi nel carattere divino degli spagnoli. Gli studiosi moderni hanno creduto senza reticenze a tale idea, e non sono riusciti a pensare che possa trattarsi di una invenzione che tro­ vava la sua spiegazione falsamente razionale nella concezione azteca del divenire cicli­ co. Come si potrebbe dimostrare, tale idea fu elaborata dagli spagnoli stessi dopo la Conquista e servì a giustificare le atrocità compiute contro gli Aztechi, che mai credet­ tero a tale cosa; si potrebbe invece ipotizzare che abbiano sempre visto con disprezzo gli spagnoli (inoltre sul cannibalismo cf. Arens 1980). La valutazione delle opere scritte sull’America indigena e sulla Conquista può esse­ re fatta con le parole di Montaigne: “le persone d ’ingegno..., per far valere le loro interpretazioni e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la sto­ ria; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincerne, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano” {Saggi, Lib. 1, Cap. XXXI). Così, uno studioso conclude con tutta ragione che “non possiamo considerarli [gli storici delle Indie] fonti vere d’informazione sul mondo precolombiano” (Alvarez 1991, p. 55). Ovviamente gli studiosi, pur accettando il giudizio critico che qui abbiamo dato, non possono permettersi di fare tabula rasa delle testimonianze scritte. Il fenomeno non è caratteristico soltanto di questi testi, lo stesso problema infatti ritrova chi si occupa di altre culture. Quindi, dal nostro punto di vista, tali testi possono essere uti­ lizzati come fonti storiche soltanto se sono analizzati prima secondo una prospettiva antropologica e retorica. C’è bisogno infatti di osservare attentamente il complesso culturale, e in particolare la forma mentis della quale erano portatori gli scopritori e i conquistatori. Così l’influenza della Chiesa, che era un freno assoluto alla libertà di esprimere il pensiero: in merito, la bruciatura della maggior parte dei codici preispanici dà un’idea della por­ tata di questi limiti. Oltre al pregiudizio religioso si trovava anche un profondo atteg­ giamento etnocentrico, sviluppatosi sul sostrato della cultura classica greco-romana. La considerazione aristotelica dell’esistenza degli schiavi per natura (cf. Hanke 1959) ebbe un ruolo centrale nelle discussioni sulla natura dell’indio e né Las Casas né nessuno in quell’epoca tentò di rifiutare tale impostazione, ma si cercò a volte di adattarla alla finalità perseguita. Lo studio antropologico del sistema di pensiero dell’europeo del secolo quindicesimo dovrebbe permettere di capire la cornice culturale degli scrittori della Conquista. 102 Inoltre penso che per capire meglio i testi dei cronisti e di altri scrittori, oltre all’applicazione dei metodi antropologici, è necessario applicare anche altri strumenti di indagine: devono essere sottoposti ad una analisi retorica, cioè devono essere studia­ ti come se fossero opere indirizzate a convincere i loro destinatari, in un contesto e in un momento particolari. L’analisi retorica potrà mostrare come si può essere ingannati dall’apparente semplicità di un’opera, dalla ricchezza dell’informazione, dalla veridi­ cità dichiarata dall’autore, eccetera. Lo studio dei testi sulla “scoperta” e sulla Conquista mi sembra che non sia stato fatto fino ad oggi secondo questa prospettiva 6. E ciò non è un problema di facile soluzione, sebbene potrebbe sembrare banale; a quanto pare infatti non siamo riusciti a sottrarci al potere retorico di questi testi caden­ do nell’errore di fidarci troppo di loro o semplicemente di rifiutarli. Gli autori dei testi della Conquista fin dall’inizio cercano, con una serie di accorgi­ menti di natura diversa, di condizionare i destinatari fino ad azzerare la loro forma men­ tis e sovrapporre o sostituire a quella la forma mentis di cui essi sono portatori. Infatti, gli autori non avevano “buone intenzione”: Cortés cercava di ottenere da parte del Re il riconoscimento delle sue azioni; del Castillo presentava una relazione dei fatti per mostrare i suoi meriti, cercando con ciò di conservare e aumentare i benefici ricevuti grazie alla Conquista; Gómara aveva soprattutto l’obiettivo di innalzare la figura del Capitano spagnolo; Las Casas cercava di sminuire il potere degli encomenderos facendo così un servizio al Re ed alla famiglia di Colombo, eccetera. Tutti loro tentavano di per­ suadere i destinatari delle loro opere, ma in genere ebbero poca fortuna. L’opera di del Castillo fu pubblicata molto tempo dopo essere stata scritta; le opere di Las Casas furo­ no incluse tra i libri che potevano circolare. Cortés ebbe una fortuna diversa, giacché le sue Lettere di Relazione furono pubblicate immediatamente e molto diffuse in varie lin­ gue, ed egli stesso ottenne dal Re di Spagna il comando delle truppe spagnole. Per otte­ nere ciò gli fu necessaria una descrizione parziale e tendenziosa dei fatti. Gli studiosi moderni però sono più ricettivi dei destinatari originari ai racconti dei cronisti, sono predisposti a credere ciò che viene raccontato da alcuni, ma non da altri, e questa è una condizione importante per il buon esito di un’opera. Gli autori della Conquista utilizzano una lunga serie di accorgimenti retorici per convincere di ciò che loro vogliono. Qui ci riferiremo soltanto ad alcuni espedienti uti­ lizzati dai cronisti per creare nel destinatario un atteggiamento a loro favorevole; tali espedienti costituiscono una parte della retorica. In primo luogo cercano di lasciare i destinatari senza dubbi sulla verità del loro rac­ conto dicendo che non hanno la capacità di scrivere con belle parole, come fanno gli altri, e che invece scriveranno in modo semplice però diranno la verità. Non c’è da stu­ pirsi. Questo modo di esprimersi era una tecnica comune nella retorica classica. Gli oratori greci davanti al tribunale fingevano di non saper parlare bene (in realtà leggeva­ no testi preparati in anticipo da persone espertissime nel mestiere di logografo) e rassi­ curavano i giudici che ciò che dicevano era il vero. L’esempio più chiaro di questo pro­ cedimento lo troviamo in Diaz del Castillo che nel suo brevissimo prologo afferma: “molti famosi cronisti prima di iniziare a scrivere le loro storie fanno prima il loro pro- 6 Uno studio di alcuni accorgimenti retorici in un’opera particolare è stato fatto da M. Scaramuzza Vidoni, Algunas cosas de Hernàn Cortés y M exico : un’elaborazione retorica della figura del conquistatore, in Bellini 1990, pp. 153-164. La studiosa afferma: “Le prime storie delle imprese dei conquistatori non solo sono state costruite attraverso determinati filtri retorici, ma sono state anche elaborate in base a determinati moduli retorici provenienti dalla tradizione classica” (p. 153). Il nostro studio presuppone anche questo tipo di analisi a partire dalla retori­ ca tradizionale, analisi che mette in chiaro la manipolazione retorica anche nell’aspetto formale. 103 logo e preambolo con ragionamenti e retorica molto alta per dare luce e rendere degni di fiducia i loro argomenti... ma io, che non so il latino, non mi azzardo a fare pream­ bolo né prologo... tuttavia ciò che io udii e a cui partecipai lottando, essendo buon testimone oculare, io lo scriverò, con l’aiuto di Dio, in modo molto semplice, senza deviare da una parte o dall’altra...”. Però le cose non stanno così anche se, dal punto di vista letterario, la cronaca di del Castillo è forse la più bella delle opere scritte dai testi­ moni della Conquista. Un’altra tecnica utilizzata è quella di presentarsi in modo adeguato per attirare la benevolenza dei destinatari. Normalmente - possiamo supporre - fingono di essere per­ sone di un certo tipo, cioè leali, giuste, brave, di nobili natali, buoni cristiani, che hanno sofferto molte fatiche, eccetera. Le cronache della Conquista sono piene di que­ ste cose: “poiché siamo molto buoni e leali vassalli e devoti della Sua Maestà... abbia­ mo offerto tutti i nostri beni e le nostre persone...” (Castillo, Cap. CCXTV). Inoltre, i cronisti cercavano di mettere in buona luce i loro amici ed in cattiva luce i loro nemici. Con lo stesso fine, i cronisti cercano di lodare il più possibile i loro destinatari, di solito il Re di Spagna. Ci sono infatti delle forme specifiche per lodare il Re (cf. ad esempio l’inizio delle Lettere di Cortés). Inoltre, i cronisti affermano molto frequentemente che facevano e sopportavano tutto il lavoro e tutte le loro fatiche solo per servire il Re. Si potrebbe dire che questo modo di procedere è assolutamente normale in testi di que­ sto genere, e non deve sfuggire neanche che queste sono essenzialmente forme retori­ che adottate allo scopo di captatio benevolentiae. 4. Inoltre si deve applicare l’analisi storica alle fonti. E’ normalissimo trovare nelle opere storiche di carattere generale la classificazione e valutazione delle fonti. Ci sono vari tipi di classificazione: una è quella basata sul contenuto. Ci sono le fonti dirette e le fonti indirette; le prime hanno un maggior valore storico. Normalmente si potrebbero considerare le cronache come fonti dirette perché i loro autori furono testimoni degli avvenimenti. Però la cronaca non è un documento, come potrebbero essere le Lettere di relazione di Cortés. Le testimonianze indigene sono a volte fonti primarie (come il famoso Colloquio dei Dodici, basato su un documento) a volte fonti secondarie, come le opere storiche. Oltre alle classificazioni basate sul contenuto, sulla trasmissione, sul genere, c’è bisogno di operare la distribuzione cronologica delle fonti e le relazioni che intercorrono fra di loro. E ’ necessario analizzare la consistenza storica delle fonti. Nella prima Lettera di relazione si dice che Cortés iniziò il suo viaggio con dieci caravelle e cinquecento soldati tra cui numerosi nobili e gentiluomini (cosa del tutto falsa), e sedici uomini a cavallo (Cortés 1987, p. 31). Del Castillo informa che all’isola di Cozumel il Capitano fece l’appello dei suoi uomini: cinquecentootto soldati, circa cento marinai ed altri; sedici cavalli; undici navi grandi e piccole, ecc. (Cap. XXVI). Le cifre, tranne i cavalli, non corrispondono. Ciò non è un argomento importante e potrebbe anche essere spiegabile (ovviamente nella lettera le cifre sono arrotondate). Si trattava però di un dato che sarebbe dovuto rimanere impresso nella memoria dei con­ quistatori. Quindi è verosimile che in altri fatti meno importanti o più difficili da capi­ re da parte degli spagnoli, gli “sbagli” potrebbero essere stati deliberatamente più abbondanti e più gravi. Del Castillo voleva dimostrare, con fragili argomenti, che i conquistatori non avevano compiuto i massacri degli Indios durante la Conquista, ma lo stesso Cortés smentisce il cronista frequentemente, come quando racconta ciò che era accaduto a Cholula: “Riuniti i signori in quella sala, lasciai che li legassero e uscii a cavallo, diedi ordine di sparare e il nostro attacco fu così violento che in due ore mori­ rono più di tremila uomini [cdr]” (ib., p. 78). La strage del Tempio Maggiore e le morti di Moctezuma e Cuauhtémoc sono altri esempi paradigmatici di contraddizioni fra i cronisti. Le contraddizioni però possono 104 trovarsi non soltanto tra autori diversi, ma anche nello stesso autore e pure nella stessa opera. Ad esempio, nel Cap. CCXII della sua Storia, Diaz del Castillo afferma di non “correggere nessuna cosa, giacché tutto ciò che scrivo è molto vero”. Le cose però non vanno così. Quando il cronista fa il conto dei morti degli spagnoli durante la loro fuga da Città del Messico-Tenochtitlan afferma che “nell’arco di cinque giorni furono uccisi e sacrificati circa ottocento soldati, e settanta e due che uccisero nel paese chiamato Tustepeque e cinque donne di Castiglia... Cortés ci disse che erano pochi perché non ne rimanevamo più di quattrocentoquaranta e venti cavalli, dodici balestrieri e sette escopeteros” (Cap. CXXVIII). Dopo invece (nel Cap. CLXIX) dice che “dei mille tre­ cento soldati ne m orirono più di ottocentocinquanta, insieme a quelli uccisi a Tuxtepeque e per i sentieri, e sono rimasti vivi soltanto quattrocentoquaranta di cui molti feriti” e, nel cap. CCXIII, accenna che “dei milletrecento soldati... che in nove giorni che combatterono, di tutti riuscirono a salvarsi solo quattrocentosessantotto”. Cioè nel primo passo si dice che morirono 872 soldati, nel secondo invece che i morti furono 850 e nell’ultimo che in 9 giorni i morti furono 832 (1300-468=832). Il totale dei conquistatori era 1450, cioè 80 che rimasero a Città del Messico (Cap. CXV), circa 1300 di fanteria, 90 cavalli e 80 escopeteros che arrivarono con Cortés da Veracruz (Cap. CXXV). La differenza qui riportata non è insignificante se si considera che il cronista aveva come scopo di narrare le prodezze e i fatti dei soldati. Si potrebbe cerca­ re di far coincidere le cifre forzando il testo di del Castillo. Ma in ogni modo la caratte­ rizzazione generale di questo tipo di opere non potrà subire delle variazioni. 5. Bibliografia di riferimento Alvarez J.F. H., 1991, Utopia e realtà nella conquista del Nuovo Mondo, «I Quaderni di Avallon». 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In lui, come in altri autori della stessa generazione poetica, si scorge l’influenza di Vallejo, di Neruda e degli autori spa­ gnoli della Repubblica. Chiare sono le assonanze della poesia di Rose Si Espana resucita con Espana aparta de mi este caliz\ in una abbiamo toni di speranza, nell’altra di perico­ lo e di minaccia, ma sono evidenti nel poema di Rose i riferimenti ai ritmi vallejiani. Già in questa prima produzione si scorge uno dei nodi della problematica di Rose: la tensione e la contrapposizione tra il dialogo intimo-sentimentale con la propria amata e la volontà di condividere con essa l’esigenza di inserimento in un progetto sociale, necessità, questa, che scaturisce dal suo impegno di militante politico. Tale contrapposizione risulta palese ne La oración sencilla che apparve nel 1931 sulla rivista «Letra Peruana», ma rappresenterà per lungo tempo la costante polarizzazione interna all’opera di Rose, da cui avrà origine la tormentosa dialettica tra avvenimenti esterni, di taglio politico, e la tendenza a filtrare la realtà, sia individuale sia oggettiva, attraverso la prospettiva di una tenera intimità. In Rose, dunque, la duplice tensione centrifugo-sociale e centripeto-intimista ha radici profonde e durature. Tuttavia l’iter letterario rosiano risolverà questa polarizzazione attraverso il conse­ guimento dell’unità simbolica all’interno dei testi della successiva raccolta Informe al rey (1967), nella quale opera un netto cambiamento di prospettiva rispetto ai testi pre­ cedenti, e di cui è prima testimonianza la poesia Machu Picchu. Il risultato di questa nuova tendenza sarà una mutata indole del linguaggio utilizzato. Il suo impegno consisterà dunque nel desiderio di infrangere le false immagini, per mettere a nudo la realtà occulta. 107 Attraverso dissonanti accostamenti lessicali, in cui obsoleti espedienti stilistici con­ trastano con sempre più marcate espressioni colloquiali, Rose crea ed alimenta, con questo nuovo registro linguistico, un clima ironico e disilluso. Si può dunque dire che le ultime composizioni di Rose rappresentano una smitizzazione del potere attraverso la denuncia di ogni genere di ipocrisia. (da cantos desde lejos, 1957) se la Spagna risorge E quando ci vedremo con gli al­ tri, sull’orlo d’una mattina eterna, sazi tutti. César Vallejo Se la Spagna risorge, quanti pugni assediano la cintura del giorno, quanti roseti sgretolano la notte, quanto muschio sul labbro vermiglio della ferita, quanta urgenza nel pianto per giungere all’incontro, quanto Miguel Hemàndez e quanto Federico, quanto César Vallejo se la Spagna risorge. Nella branda spoglia appoggiata alla porta, nelle mute alcove con cuscini a lutto, nella chiave incastrata in caparbia serratura, nell’aria avambraccio del giorno che galoppa ci sarà un’aurora immensa se la Spagna risorge! Tornerà il miliziano a separar le sue dita cucite dalla morte della Spagna fascista, tornerà il miliziano alla porta di sempre a togliersi le bende putride e calde, l’amore che ritorna se la Spagna risorge! Torneranno sul Tago montando le loro canzoni i giovani di Spagna che nel partire sotterrarono i loro dittonghi di amori e le loro fotografie. Torneranno, svolazzanti volatori, Pascual alla sua donna, Pedro al suo turno agreste d’olive e indosseranno l’abito del sorriso con tutti i suoi bottoni! Per questo, risorgi! Risorgi ragazza contadina nel cui cestino è rimasta ì 108 la sera incompiuta; risorgi spagnola nel mare e sulla sierra. Quel giorno così tanto farai bollire il brodo della gioia che si dovrà versare a fiotti in tutti le cucine della terra! la domanda Mia madre mi diceva: se uccidi a sassate gli uccellini bianchi, Dio ti punirà; se picchi il tuo amico, quello dal faccino d’asino, Dio ti punirà. Era il simbolo di Dio due legnetti: e i suoi dieci teologali comandamenti stavano nella mia mano come dieci dita in più. Oggi mi dicono: se non ami la guerra, se non uccidi ogni giorno una colomba, Dio ti punirà; se non picchi il negro, se non odi il rosso, Dio ti punirà; se al povero dai idee invece di dargli un bacio, se gli parli di giustizia invece di carità, Dio ti punirà. Dio ti punirà. Non è questo il nostro Dio, vero, mamma? 109 (dapoeta en la costa) anche se Anche se la guerra è scatenata, anche dopo l’angosciata ora di tutte le ceneri, anche dopo che la tristezza sarà come un gomitolo nero nel ventre di tutte le donne, anche dopo che le fidanzate torneranno in lacrime dai ponti e gli amici saranno santi di gesso in dolorosa statua; anche, dopo tutto questo, creeremo l’aria esultante e una crepa di rose sulla parete del tempo. le lettere sequestrate Ho nell’anima una ringhiera in ombra. Ad essa quotidianamente m’affaccio, mattutino, per chieder se non è giunta lettera; e quante volte la tristezza celebra col mio volto le sue opere di nulla. una lettera Che mi scriva una lettera chi mi ha reso gli occhi cupi e la scrittura gotica, che mi scriva una lettera quell’amica analfabeta di passione cristiana; pèschi della mia terra: che mi scrivano, e componga una lettera piccina mia sorella sillabante e pensierosa. Morti quelli della mia infanzia che se n’andarono assopiti tra l’effluvio dei fiori, fidanzate che si allontanarono sotto un faro dicendo eternità, amici fino al vino tormentato: non c’è una lettera per Juan Gonzalo? Se non fossi poeta, ex-detenuto, straniero fino al colmo della grazia, scopritore di strade nella notte, 110 collezionista di cognomi pallidi: vorrei essere postino degli affliti perché essi benedicano le mie scarpe. (da informe al rey y otros libros secretos, 1963-1967) a Guaman Poma de Ayala bravo scrivano, cattivo letterato, uomo magnifico. machn picchu Machu Picchu, due volte mi sono seduto sulle tue pendici per guardare la mia vita. Per guardare la mia vita e non per contemplarti, perché abbiamo bisogno di meno bellezza, Padre, e di più saggezza. terre del re Chi è il Re? Chi è il Re? domandano. Il Re è ciò che resta dopo gli incendi. Il Re è solo il Tempo. E questo, Guaman, il Re non lo sapeva. (da cuarantena, 1968) lucciole e versus Che sorte ammirevole quella dell’insetto che più illumina quanto più muore. E non quella dell’uomo che si offusca lentamente ed è tanto più cupa quanto più dura. (peldanos sin escalera) Continuità Questa notte vado verso la mia vita a seminare un figlio a scrivere un albero. Fratelli taglialegna non abbattete quel bosco perché crescano sempre le luci degli uomini, l'ombra degli alberi il seme del tempo. Mausoleo di Mariàtegui nel Cimitero Generale di Lima. Opera di E. Gastelu Macho. 112 C ulture indigene La «Inca atahualpa» e la sua storia Il movimento indigeno ecuadoriano, che negli ultimi anni ha fatto con forza irruzione nella scena politica del paese, ha una struttura che è stata definita a piramide, alla cui apice troviamo la Conaie (Confederation de Naaonalidades Indigenas del Ecuador) seguita da organizzazioni regionali (costa, sierra ed Amazzonia), provinciali e cantonali, Queste ultime sono anche chiamate organizzazioni di secondo grado (Osgs). L’immagine della piramide, però, non deve farci pensare che esiste una forte interdipendenza fra i diversi livelli descritti. Ogni organizzazione mantiene, infatti, la sua autonomia: l’affiliazione al nucleo «gerarchicamente» superiore non è obbligatoria e ciascuna può mantenere la sua indipendenza. In questo articolo analizzerò gli elementi che hanno portato alla formazione di una organizzazione di secondo grado, la Inca Atahualpa, per cercare di capire i mecca­ nismi interni di una Osg che non ha mai voluto affiliarsi a nessuna istanza superiore. Siamo a Tixàn, un nebbioso paesino della sierra ecuadoriana nella provincia del Chimborazo, cantone Alausi L Novecentosedici abitanti bianco-meticci costituiscono la popolazione del capoluogo parrocchiale, da cui amministrativamente dipendono 32 comunità indigene e meticce. L’attività economica dominante è costituita dall’agricol­ tura: lo sfruttamento delle terre è generalmente familiare e nel caso delle comunità anche comunitario. Il conflitto etnico è sempre stato, e lo è ancora, il nodo cruciale della vita sociale della parrocchia, realtà non dissimile da quella di molte altre parroc­ chie rurali del paese nelle quali il «plusvalore» simbolico dei bianco-meticci è il frutto dello sfruttamento e del razzismo di cui gli indios sono oggetto. Nel 1982 di catechisti indigeni del settore di Tixàn iniziarono a parlare di federazione ai presidenti delle comunità in base a una iniziativa della chiesa cattolica. Dal 1986 si comin­ ciò a promuovere grandi riunioni chiamate in lingua quechua tendanacui alle quali parteci­ pavano i presidenti delle varie comunità di Tixàn e di Achupallas, altra parrocchia del can­ tone. Al principio la partecipazione della gente era piuttosto rilevante, ma qualcosa accad­ de: al tandanacui di febbraio nel 1988 non partecipò quasi nessuno. Il parroco Pedro Torres vede nella presenza della Fei12 nella zona la causa principale della mancata parteci­ pazione; alcune delle comunità del settore, che avevano lottato per le terre durante la rifor1 I termini cantone e parrocchia si riferiscono alla divisione amministrativa del territorio delle varie province del paese. 2 La Fei, Federación Ecuatoriana de Indios, prima federazione indigena del paese, nata nel 1944 nel seno del Partido Comunista Ecuadoriano, portò avanti le lotte per le terre e per la rego­ lamentazione del lavoro agricolo prima e durate la promulgazione delle due leggi di riforma agraria rispettivamente nel 1964 e 1972. 113 ma agraria erano ancora affiliate alla Fei. Nel 1986 un dirigente di quest’ultima, Estuardo Gualle, aveva fatto irruzione in una riunione di catechisti per ostacolare il processo di for­ mazione di un’altra organizzazione sostenendo che non valeva la pena di continuare a sud­ dividere il movimento dato che molte delle comunità appartenevano alla Fei. Tuttavia, sembra esserci un’altra ragione: lo stesso parroco Torres spiega che la gente non compren­ deva ancora il concetto di federazione, non sapeva di cosa si trattasse esattamente e agli scontri tra la Fei e la chiesa rispose con un allarmante assenteismo. Altri, dunque, furono gli elementi che spinsero alla formazione dell’organizzazione. Le comunità di un settore della parrocchia di Tixàn denominato Totoras, zona di paramo nonché mineraria a 4.000 metri di altitudine, le comunità di «sopra» erano profondamente divise: due famiglie di bianchi, i Coronel e i Jayas, erano riusciti a coinvolgere queste comunità nelle loro dispute per otte­ nere l’appalto della miniera di marmo di Zula, approfittando delle controversie esistenti fra di esse dovute alle divergenze fra cattolici e evangelici. Nel 1988 alcune di queste comunità erano entrate in un processo di formazione di una associazione attraverso la quale intende­ vano ottenere esse stesse l’appalto della miniera in questione, ma dati gli scontri esistenti, si videro nella necessità di dover chiedere l’appoggio delle comunità di «sotto» 3. Non si trattò, secondo ciò che racconta la gente di «sotto», di una semplice richiesta di aiuto ma della imposizione di un obbligo accompagnata da minacce di saccheggio, di fronte alle quali le comunità di sotto, alla fine del 1988, decisero di partecipare a una riunione nella quale si sarebbe dovuto dar vita all’associazione di minatori indigeni Atamzich (.Asociación de Trabajadores Autónomos Minas de Zula Indigenas de Chimborazo). Ma una soffiata li trattenne, il saccheggio stava arrivando. Di fronte al pericolo le comunità di sotto, perlomeno le 11 più attiviste, si riunirono fra di loro e decisero di formare un’altra organizzazione il cui nome in un primo momento fu Rey Atahualpa. Una volta presa questa decisione, tutta la gente entusiasmata si recò in corteo al luogo prefissato per la riunione con le comunità di sopra al grido di «viva Rey Atahualpa». Questa dimostrazione di forza e determinazione non permise alla gente di sopra di imporsi; fu così che nacquero due organizzazioni, una di sopra Atamzich ed una di sotto che prese poi il nome di Inca Atahualpa. Come abbiamo visto, il processo di formazione della Inca Atahualpa partecipa in un primo momento degli stessi elementi che intervennero nel processo formativo di molte altre Ong del paese. La Fei aveva iniziato la sua attività di coscientizzazione e politicizza­ zione del settore rurale negli anni ‘50, incentrando la tematica delle rivendicazioni conta­ dine sulla lotta per il recupero delle terre e contro il sistema di sfruttamento latifondista. Nella decade del 70 la chiesa cattolica, in base al Concilio Vaticano Secondo, smette di essere il terzo asse su cui si basava il sistema di potere latifondista ed inizia un lavoro di coscientizzazione e formazione a favore dei contadini indigeni, promuovendo la tematica del riscatto culturale su cui baserà anche la lotta per il recupero delle terre. Attraverso la lettura della bibbia, in cui si legge che Dio crea la terra per tutti, e considerazioni storiche sulla conquista dalle quali si apprende come i bianchi si impossessarono delle terre degli indios, si costruisce il discorso indigenista della chiesa e le rivendicazioni etniche con le quali si procedeva a far prendere coscienza gli indios. Tutti questi elementi hanno avuto il loro peso anche nel caso di Tixàn ma, come abbiamo visto, non furono sufficienti. E’ stata la rivalità fra quelli di sopra e quelli di sotto, rivalità che secondo molti studi antropologici sembra essere una caratteristica del mondo indigeno andino, più che una reale coscienza di unione a determinare la nascita della organizzazione Inca Atahualpa. Un altro elemento contingente che agglutinò le comunità e che favorì l’unione fu la difesa contro il banditi3 La differenziazione «sopra» «sotto» non si riferisce esclusivamente all’ubicazione geografi­ ca secondo la altitudine ma anche a differenze di natura culturale secondo le quali le comunità di sopra sono considerate, e si considerano, più tradizionali ed animose. 114 smo. Come molte persone del settore raccontano, esisteva una forte incidenza di furti ed atti di violenza perpetrati da indios e contadini meticci, i chagras 4, della zona; «i ladri arri­ vavano di notte con le facce coperte, entravano nelle nostre misere capanne e ci buttavano fuori tutti e poi si portavano via tutto, animali, soldi, tutto quello che trovavano; a volte ci picchiavano o addirittura uccidevano, così senza ragione. Non ci si poteva più difendere: l’unica cosa era unirsi per cercare di acciuffare i malfattori e castigarli». Con un’azione congiunta nell’ottobre del 1988, si riuscì a smascherarne alcuni i quali furono interrogati e castigati duramente. Con tale dimostrazione di forza si ottennero due cose: i furti diminui­ rono e la gente iniziò a convincersi che solo con l’unità potevano conquistare il benessere delle comunità. Questo avvenimento conferì molta forza alla futura organizzazione fino al punto che attualmente tutti considerano la vittoria sul banditismo come il primo successo della Inca anche se in quell’ottobre l’organizzazione non si era ancora formalmente costi­ tuita. In più, la giustizia fatta contro i ladri portò all’imposizione degli indios sui chagras. Infatti, molti dei furti commessi avevano per colpevoli alcuni chagras di due comunità di un settore denominato Pishillig; gli indios di questa zona raccontano che avevano sempre avuto problemi con i chagras di lì, subendo gli abusi e gli insulti; era stato per questo moti­ vo che si erano divisi in quattro comunità, una indigena, una mista e due di meticci. Dopo il castigo, i colpevoli furono reintegrati alla vita delle comunità ed iniziarono anche a colla­ borare con l’organizzazione. Un altro grande successo che marcò un momento molto importante nella storia della Inca è l’intervento dell’organizzazione nei conflitti di terre, le cui dinamiche ho trattato in altra sede5. Ricorderei solo che grazie alla forza catalizzatrice della Inca, si verificavano concentrazioni di massa nelle comunità in problema con i latifondisti i quali, di fronte alla presenza di 500, 600 o anche 1000 indios si vedevano costretti al dialogo ed alla negoziazione. La Inca Atahualpa continuava il suo cammino ponendosi come obiettivo princi­ pale delle sue azioni il benessere delle comunità affiliate e la difesa dei propri dirit­ ti in quanto indios. Con il conseguimento della personalità giuridica nel 1990 si aprono tutte le porte: «adesso siamo giuridici per cui abbiamo il diritto di farci giustizia» dice Miguel Paca, ex presidente dell’organizzazione. Tutte le domeniche negli spogli locali del convento del paese i cinque dirigenti della Inca ricevevano, e lo fanno ancora, tutti coloro che avevano qualche problema come, per esempio, litigi matrimoniali, riconoscimenti di figli, dispute familiari per eredità e così via, problemi ai quali i dirigenti delle singole comunità non erano riusciti a trovare una soluzione. Il temente politico, massima autorità governativa a livello parrocchiale, rimase poco a poco con le mani in mano, senza più casi da risolvere a parte quelli dei «bianchi» del paese. Sono finiti i tempi dei cantari 6 da offrire alle autorità loca­ li per farsi semplicemente ascoltare, sono finiti Ì tempi degli abusi di potere dei bianchi che si difendono sempre tra di loro; adesso si fa giustizia sul serio, senza riscuotere nulla. Lentam ente anche la gente del paese ha iniziato a ricorrere all’aiuto dell’organizzazione soprattutto in quei casi in cui una delle due contro­ parti era indigena. In questo modo gli indios si sono ormai guadagnati, secondo Miguel Paca, il rispetto delle persone; non si dirigono più ai bianchi con parole come «signore» o «padrone» ma si trattano da compari, anche se non lo sono; «la 4 Chagras è il termine dispreggiativo usato dagli indios per riferirsi ai contadini meticci che vivono nelle comunità. 5 Cfr. «Latinoamerica» n. 48. 6 In lingua quecha camari indica una forma di regalo fra persone subalterne. Nel caso in cui era dovuto ad un bianco, ed usando una terminologia molto attualizzata, lo potremmo definire come una piccola forma di tangente. 115 gente della parrocchia non voleva capire ma dopo che hanno visto che noi faccia­ mo le feste 7, che cerchiamo di risolvere i problemi rapidamente senza spese, loro stessi prendono coscienza... C’era molta gente che prima non salutava proprio... allora formando l’organizzazione abbiamo ottenuto che adesso ci salutano» (Miguel Paca). Fino ad ora sembra che l’attività della Inca Atahuapla sia stata orientata esclusivamente alla risoluzione di conflitti: «la cosa principale è cercare di risolvere problemi da tutte le parti»; i furti, i conflitti di terre, i problemi quotidiani. Persino la personalità giuridica è in funzione di questo, non ancora di progetti di sviluppo. La Inca sostituisce le autorità locali, gli avvocati e gli scribacchini per dimostrare che gli indios sono capaci e per conquistarsi il proprio spazio di potere e la propria capacità di negoziazione nella parrocchia. Nel 1992 questa espansione di potere cerca di raggiungere il cantone quando Miguel Paca, allora presidente, si presenta alle elezioni come candidato alla presidenza del consiglio cantonale nelle liste del Fadi (Frente Amplio De Izquierda). Le lotte interne, l’analfabetismo ed il pote­ re gamonalista 8 ancora vigente nel cantone furono le cause della sua sconfìtta. Nel frattempo la Inca Atahualpa era entrata nella fase del cosiddetto sviluppo. Grazie all’appoggio del parroco Torres e di alcune organizzazioni non governative nazionali erano stati ottenuti fondi per finanziare progetti di sviluppo nel settore: un centro di deposito per lana e cereali, un mulino, attività culturali e la presenza di due cooperanti canadesi che si dedicano l’uno alla istallazione di sistemi di acqua potabile 0 intubata nelle comunità e l’altra a corsi di formazione sullo sviluppo infantile per le promotrici di un programma rurale del governo che concerne l’attenzione dei bambini in età prescolare. Nell’agosto 1992 cambia totalmente la dirigenza dell’organizzazione; la vicepresidenza e la segreteria toccano a due giovani indios provenienti da una comu­ nità con il più alto tasso di migrazioni periodiche alla costa mentre la presidenza viene affidata ad un indio evangelico non più giovane che nonostante il suo analfabetismo gode di un forte prestigio sociale nella sua comunità d’origine. Di tutti i progetti segnalati quello ad avere maggior peso è quello che ha portato alla istallazione di mulini e depositi di cereali nel paese. Infatti il problema dello sfruttamento e degli abusi perpetrati dai bianchi nel capoluogo parrocchiale continuava ad essere una realtà, soprattutto nel caso dell’acquisto e della commercializzazione della produzione delle comunità. I mulini ed i depositi, dunque, non rappresentano semplicemente una attività produttiva ma si trasformano in uno strumento di rivendicazione etnica. L’attuale presidente afferma che il mulino è stato istallato nel capoluogo affinché i bianchi si renda­ no conto di quanto sta facendo l’organizzazione e anche del fatto che gli indios sono capa­ ci; inoltre, è più conveniente per le comunità perché offre prezzi migliori per la macinazio­ ne e per la vendita di cereali, la qual cosa vale anche per gli abitanti del paese. La risposta dei bianchi non si fa attendere: usufruiscono dei servizi offerti dagli indios quando gli con­ viene ma non si fanno mai mancare commenti del tipo: «questi indios adesso hanno anche 1 soldi!». Inoltre gli fanno la concorrenza: il proprietario di quello che prima era l’unico mulino del paese ha dovuto ribassare subito i prezzi per poter mantenere la sua clientela; non può più speculare. Lo scontro continua ma stavolta ad armi più o meno pari. Purtroppo la medaglia del fatidico sviluppo ha anche il suo rovescio; le contraddi­ zioni interne al mondo indigeno si sono inasprite mettendo a volte in pericolo l’unità della stessa organizzazione. La possibilità di facili entrate scatena le invidie ed i contra­ sti che si celano sotto critiche e rimproveri; ognuno cerca di approfittare delle oppor7 In agosto nella piazza del paese ha luogo una festa indigena, la festa del raccolto, che è vis­ suta come momento di riaffermazione pubblica della cultura propria da una parte e della stessa forza dell’organizzazione dall’altra. 8 II termine indica un sistema di potere di stampo mafioso in cui il latifondista controlla anche la scena politica locale. 116 tunità offerte a beneficio di se stesso e del suo gruppo familiare; si verifica una forma di clientelismo comunale che porta a voler ottenere vantaggi solo per la propria comu­ nità di provenienza. Iniziano anche oggi le lotte interne a livello di dirigenza: i giovani criticano l’operato del presidente; il suo analfabetismo è il punto di partenza con il quale si mettono in dubbio le sue capacità ed il suo prestigio. In più, la concorrenza mette a volte in pericolo le stesse rivendicazioni etniche: se il mulino del mishu, offre un prezzo migliore, perché usufruire del mulino della Inca? Si è arrivati anche a casi di furto: il segretario ha rubato dei quintali di cereali dai depositi dell’organizzazione. La Inca in questo caso non sembra essere sentita come qualcosa di proprio ma come una istituzione che offre dei vantaggi e della quale vale approfittare. Come riprova lo stesso personaggio, ormai non più segretario, sta cercando di formare una associazione paral­ lela per richiedere fondi per la realizzazione di un sistema di irrigazione. Questo pro­ getto, inizialmente limitato all’ambito della sua comunità, dovrebbe ora essere aperto a tutte le comunità interessate che in tal caso dovrebbero rinunciare alla loro affiliazione alla Inca. Sembra che la politica dello sviluppo, per lo meno nel caso di Tixàn, abbia esasperato la già esistente tendenza al settarismo ed all’individualismo, mettendo in pericolo l’unità e la forza della stessa organizzazione. Queste ultime considerazioni fanno riflettere. Lo spirito ed i valori comunitari che molte volte sono stati attribuiti alla cultura indigena hanno assunto le sembianze di un mito nel discorso portato avanti dalla chiesa cattolica, dalla sinistra ed anche da alcuni antropologi ed etnologi i quali hanno parlato di un socialismo comunitario che ha preso il posto del mito del buon selvaggio. Questi discorsi sono diventati parte del discorso politi­ co della dirigenza indigena a livello nazionale ed hanno ispirato politiche di sviluppo agra­ rio che richiedono lo spirito comunitario come condizione sine qua non per ottenere finanziamenti. Per fare un esempio, la condizione fondamentale per poter accedere ai pre­ stiti del Fepp 9101per l’acquisto di terre è che tali terre non siano divise e, per tanto, lavorate comunitariamente. Un dirigente di questa Ong mi confessò che una volta estinto il debito, la maggioranza delle comunità procedevano a dividersi le terre tra i vari soci. Con questo non voglio suggerire che i valori comunitari siano stati totalmente inventati ma che andrebbero smitizzati e cercati in altri meccanismi quali, per esempio, la reciprocità del «prestamano», della minga 11 e delle feste. Inoltre, bisogna considerare che le migrazioni periodiche ed i contatti sempre più frequenti con il mondo esterno hanno prodotto la necessità di riadattamenti e la nascita di nuove esigenze che in certi casi mettono a dura prova alcuni dei valori tradizionali. Mi riferisco soprattutto a nuove esigenze economiche ed a cambiamenti dei criteri di prestigio sociale. I contrasti nati fra il presidente ed il vicepresidente e segretario della Inca fanno luce sul problema: il fatto di godere del prestigio sociale a livello comunale, il fatto cioè di sapersi far rispettare ed ascoltare non sono più considerati, agli occhi di due esponenti giovani di una comunità fortemente migratoria, requisiti sufficienti per poter assumere l’incarico di presidente. Evidentemente si stanno verificando dei cambiamenti nelle dinamiche interne del mondo indigeno, cambiamenti che possono portare ad una ridefinizione di alcuni dei valori tradizionali. Emma Cervone 9 Parola dispregiativa usata dagli indios per riferirsi ai bianchi. 10 II Fepp è una Ong nata nel seno della chiesa cattolica, che concede prestiti a basso tasso di interesse alle organizzazioni contadine di base del paese o per l’acquisto di terre. 11 II prestamano si riferisce a una pratica di reciprocità, fra parenti, nella prestazione di lavo­ ro, mentre la minga è una forma di lavoro comunitario per il quale ogni famiglia ha l’obbligo di partecipare con un suo membro. 117 Strumenti, scale, “arcani legam i” con l’Oriente ed altro nella cultura musicale degli Incas e... dintorni Com’è noto l’impero Inca comprendeva i territori dell’Ecuador settentrionale, della Bolivia meridionale, del Cile settentrionale, dell’Argentina nord-occidentale, del Perù, in particolare, della regione di Cuzco - toponimo che significa «ombelico» - la quale, data la sua posizione geografica, costituiva il cuore dell’impero. Si presu­ me che gli Incas non abbiano esercitato il loro dominio su quelle terre prima del 1200 d.C. La cultura musicale di questo popolo risentì profondamente delle tradizioni cul­ turali formatesi precedentemente nelle zone costiere, come quella chimu, nazca e mochica. Nonostante la relativa vicinanza cronologica, la ricostruzione dell’attività musicale incaica non è stata impresa facile: innanzi tutto perché questa civiltà non elabora alcun sistema di notazione musicale, e poi perché la stessa tradizione orale, con l’avvento degli spagnoli, subì tante di quelle alterazioni da causare, già agli inizi del XVII see., la totale perdita della fisionomia originaria (per esempio: la tendenza a melodizzare per salti melodici assai ampi, non sopravvisse sotto il peso di quella europea basata, per lo più, su articolazioni per gradi congiunti; inoltre, come osser­ va Gilbert Chase: «[...] l’usanza - già raffigurata negli antichi vasi dipinti del Perù secondo la quale i suonatori di quena suonano a coppie, continua ancora al giorno d’oggi, ma ora avviene di frequente che il secondo suonatore accompagni la melodia a una terza inferiore con un risultato decisamente europeo [...] Nella musica indige­ na l’influenza europea non si è fatta sentire soltanto nel modo, nella melodia e nell’armonia, bensì anche nella forma. Ciò si manifesta nella tendenza alla regolarità del metro e al periodare simmetrico.» 1). Dobbiamo rassegnarci all’idea che quel tipo di canto «armonizzato» a distanza di terza, praticato ancora oggi in Perù (ed esportato in tutto il mondo), ben strutturato sul piano metrico (con frasi e periodi regolari),si presume abbia assai poco a che vede­ re con quello degli antichi suonatori a coppie di quena, di cui l’iconografia vascolare ci trasmette, purtroppo, solo il ricordo. Le stesse cronache e i vocabolari relativi ai due principali idiomi indigeni, quechua e aymara, redatti dai missionari spagnoli durante i secoli XVI e XVII, presentano scarse informazioni relative all’attività musicale di questo popolo. Non risulta, inoltre, che gli spagnoli abbiano trascritto alcun esempio musicale di canto indio; o meglio, se ne tra­ scrissero alcuno, è andato perduto. Tuttavia, è stato usualmente possibile ricostruire in parte il sistema musicale di cui si servirono gli Inca e le popolazioni che li precedettero, grazie agli strumenti musicali superstiti. L’organologia, in tal senso, ha fornito un contributo determinante per la ricostruzione delle scale e del modalismo insito nella cultura musicale di queste antiche civiltà. Cultura musicale, questa, che, come si vedrà, presenta sorprendenti analogie con altre culture geograficamente assai lontane. Scrive a tal proposito Armand Machabey: «Il carattere etico e simbolico delle note della scala cromatica cinese e delle cinque note (più tardi aumentate a sette) che fino all’XI secolo a.C. ne erano state tratte per formare la scala pentatonica hanno dato luogo, soprattutto dal XVIII secolo (P. Amiot) a studi talmente sviluppati a cui sarebbe inutile soffermarvisi sopra; ma, quasi 1 Gilbet Chase, America Latina. Musica primitiva e popolare, in “La Musica. Enciclopedia sto­ rica”, dir. G.M. Gatti, Utet, Torino 1966, voi. I, p. 68 118 agli antipodi presso gli Indiani d ’America (Perù, Messico, ecc.) ritroviamo in certe melodie precolombiane press’a poco conservate e confermate dalla struttura dei flauti antichi, questa scala pentatonica priva di semitoni, implicante cinque modi [...] cinque forme diverse, delle quali la più usata è SOL-MI-RE-DO-LA (la tendenza generale è discendente) [...]» 2. Della stessa idea sembra essere Tran Van Khé, il quale, dopo aver preso in esame le scale regolari del ciclo delle quinte (ossia: la tritonica, la tetratonica e la pentatonica) in uso in varie zone del continente asiatico, giunge alla seguente con­ clusione: «Tra tutte queste scale, quella che s’incontra più spesso nel mondo cino-giapponese è la pentatonica. Questa scala, sovente definita ‘cinese’, non esiste soltanto nella musica dei paesi asiatici del sud-est (Cina, Giappone, Corea, Viet-Nam, Mongolia, Tibet, Cambogia, Laos, Tailandia, India) ma anche in Europa (Scozia, Ungheria, Romania, Sardegna), in America (Incas, Perù)»3. Curt Sachs, il padre dell’organologia moderna, nel celeberrimo The History of Musical Instruments, e per l’esattezza al capitolo relativo alle siringhe (huayra-puhura) 4 sud-americane, focalizza anch’egli questo misterioso legame con la cultura musicale asiatica: «Le siringhe sembra siano state portate in questo continente tramite qualche contatto con l’Estremo Oriente. La corrente oceanica che si dirige dalla Melanesia verso il Sud a girare intorno alla Nuova Zelanda e quindi all’Est e al Nord verso il Perù, può aver trasportato occasionalmente navigli e uomini. [...] Diverse caratteri­ stiche nelle siringhe sudamericane indicano l’Occidente: lo strumento stesso, ben noto e molto usato nell’Asia Orientale e meridionale e nelle isole del Pacifico; la disposizione in due file di canne che si trova in certe isole della Melanesia e della Polinesia; la legatura peculiarmente melanesiana e polinesiana per cui i tubi son tenuti in posizione contro una stecca di canna da una corda annodata. Per di più, Erich M. von Hornbostel ha riscontrato una sorprendente somiglianza tra le altezze assolute e le scale delle siringhe americane, melanesiane e dell’Oriente asiatico. I risultati di Hornbostel non furono completamente accettati dagli americanisti i quali, più di altri antropologi, tendono a negare influenze straniere sui loro speciali protetti. [...] le siringhe dell’Asia orientale erano accordate nei dodici liu. Son que­ sti i semitoni canonici, derivati da una serie di quinte consecutive e trasposti alla medesima ottava; sei di essi, quelli di numero dispari all’interno della serie, son con­ siderati maschili, e i sei di numero pari son considerati femminili. Le due scale a toni interi che ne risultano son tra loro ben conciliabili, ma le serie maschili e fem­ minili vengono divise o tra due separati strumenti, o in due parti distinte dello stes­ so strumento. Il che avvenne pure in America. Molte terrecotte dell’antico Perù rappresentano siringhe gemelle esattamente della forma che l’archeologo americano Charles W. Mead (il quale non conosce il parallelo strumento cinese), descrive con 2 Armand Machebey, Modalità, in “La Musica. Enciclopedia storica”, cit., voi. Ili, p. 357. 3 Tran van Khé, Asia, in “La Musica...”, cit. voi. I, p. 202. 4 Raoul e Marguerite Béclard d ’Harcourt nel loro prezioso studio La M usique des Incas, Parigi, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, 1925 (ristampato di recente in Perù col titolo: La mùsica de los Incas y sus supervivenicias. Lima, Occidental Petroleum Corporation of Perù, 1990) elencano i vari nomi che da sempre vengono attribuiti in America latina al flauto di Pan: antara (in quechua), siku (in ayamara), ayarichi (nella regione di Cusco), pfucu (cfr. Leandro Alvina, La Musica Incaica, tesi, Cusco. 1908), huayara-puhura, zampona (in Perù), rondandor (in Ecuador), capador (in Colombia). 119 queste parole: «Due siringhe legate insieme da una lunga corda e sonate da due ese­ cutori sono molto comuni oggi in Bolivia. Ogni strumento possiede soltanto metà delle note della scala, e manca di tutte le altre, le quali debbono essere fornite dall’esecutore che suona la siringa complementare» 5. Gli indiani Cuna a Panama (detentori d’una scrittura che ha rapporti con la più antica scrittura cinese) unisco­ no siringhe «maschili» e «femminili» al fine d ’ottenere quinte parallele [...] Nessuno scetticismo potrebbe negare l’origine occidentale delle siringhe americane. «E difficile poter supporre che una scala, distribuita alternativamente tra due sirin­ ghe unite da una corda allentata, possa essersi originata spontaneamente in diverse parti del mondo.[...] Le scale riportate in alcuni cataloghi di antichi strumenti peru­ viani, ottenute soffiando in questi flauti6 e occludendone i fori con varie diteggiatu­ re a forchetta e altri artifizi di correzione, sono del tutto prive di significato e certa­ mente false, in particolare perché ‘la nota scritta è in molti casi non quella prodotta dallo strumento, ma la più vicina a essa nella nostra scala diatonica’. Sarebbe più importante trovare una misurazione non musicale tra i fori per le dita, quale abbiam visto usata in altri flauti. Seguendo questa idea l’autore trovò, su un flauto ben con­ servato della collezione Gaffron, che le distanze tra l’estremità superiori e i centri dei sette fori anteriori corrispondevano all’antichissimo piede cinese di 229,9 mm; lo scarto massimo era di 1,1 mm e quello minimo di 0,1 mm: lo scarto medio equi­ valeva a soli 0,6 mm. E questa è un’altra prova d’una connessione con l’Estremo Oriente.» 7 Dallo scritto di Sachs, oltre alla straordinaria connessione con l’Estremo Oriente, emerge un altro dato importante: la pentafonia del sistema musicale incaico potreb­ be essere messa in discussione dall’analisi di alcuni antichi strum enti musicali (soprattutto aerofoni) rinvenuti in quelle zone. Infatti, dall’analisi mediante frequenziometro di alcuni esemplari di antara si evince che lo strumento poteva produrre intervalli di semitono e, perfino, microtoni; smentendo così la tesi sostenuta da molti studiosi, e in particolare dai francesi Raoul e Marguerite Béclard d ’Harcourt, secon­ do la quale il sistema melodico di questo antico strumento sarebbe stato «esclusivamente» pentatonico. Ciò non esclude, tuttavia, che l’impiego della scala pentatonica fosse assai frequente presso quei popoli. Occorre anche ricordare che alcuni canti presentano particolari «fioriture», le quali confermano l’ipotesi di un sistema ove figuravano anche i semitoni: l’inserimento di note di passaggio e di volta all’interno dell’ambito melodico è assai ricorrente nella musica dei suonatori quechua; tale aumento delle note ornamentali conduce, inevitabilmente, allo sgretolamento del puro genere pentafonico. Gli stessi coniugi Harcourt, pur sostenendo a spada tratta la teoria pentafonica, confermano l’esistenza di un tipo di canto in «stile fiorito»: «Los cantos indìgenos se adornan con notas que les dan un aire bastante particular, gracioso y flexible. Està preceden a la nota principal a intervalos conjuntos o a intervalos disjuntos, algunas veces de gran dimension, corno por ejemplo a distancias de sexta o de séptima, disposición verdaderamente tipica.» 8 5 Charles W. Mead, The musical instruments o f the Incas, supplemento de “America Museum Journal” voi. Ili n. 4, New York 1903. 6 Sachs si riferisce ad un tipo di antico flauto diritto peruviano d ’osso, provvisto di 3-5 fori. In quechua prende il nome di pinkullo o kena-kena. I primi a descrivere quest’aerofono furono i cronisti europei F.G. Poma de Ayala e P.B. Cobo. 7 Curt Sachs, Storia degli strumenti musicali, a cura di P. Isotta e M. Papini, Milano, 1990, pp. 230-233 (tit. orig.: The History o f Musical Instruments, New York, 1940). 8 R. e M. d ’Harcourt, op. cit., p. 137. 120 Si noti come i due studiosi francesi, pur confermando l’esistenza di queste note accidentali melodiche, non facciano alcun riferimento al possibile impiego di un sistema modale che andasse oltre la scala pentatonica. I Due, inoltre, attaccano Charles Mead, il quale, dopo aver esaminato alcuni esemplari di flauti, per primo ipotizzò l’esistenza di un sistema che prevedesse l’impiego di semitoni e di micro­ intervalli: «[...] pues algunos autores al analizar las escalas de los instrumentos que se encuentran en los museos han llegado a conclusiones, si no opuestas, al menos muy alejadas de las nuestras. Asi, sobre las veintiséis flautas rectas cuyas escalas proporciona Ch. Mead, apenas existen cinco o seis instrumentos de escala pentatònica muy clara. [...] De las veintiséis flautas estudiadas por Mead, veintidós son de hueso y parecen mas rudimentarias. Nos apartamos de la opinion de Hombostel para sostener que es entre estas flautas donde se encuentran las escalas mas incoherentes y que no responden seguramente a las intenciones de su constructor» 9E possibile che difetti di costruzione o alterazioni dovute al tempo abbiano potuto generare tale «equivoco». Ma, occorre ricordare che, oltre agli strumenti «mal riusciti», vi sono diversi canti raccolti da W inthrop Sargeant 101nei quali figura un massiccio impiego di semitoni e anche di micro-intervalli; impiego che scaturisce da un tipo di articolazione melodica ricca di note di passaggio. Si osservi il seguente yaravi registrato da Sargeant a Huancayo (si tenga presente che il nostro sistema di notazione, figlio di una cultura musicale assai diversa da quella americana con tutti i limiti imposti dal temperamento equabile e dall’ organizzazione del tempo mediante le figure di durata, non potrà mai riprodurre fedelmente il canto indio): 4 UIC1 12i■icjfl r FEP 4M ? a 1 i | ^ ^ 1 l fc 1 - ..ED L3 1 J F = = = tF E Emerge da questi canti in «stile fiorito» (perdonate questa ennesima dicitura da manuale d’armonia) raccolti da Sargeant verso gli anni Trenta, un sostrato pentatoni­ co, una sorta di stampo sul quale l’artista indio è riuscito a liberare il proprio estro «melismatico». Sul fatto che possa esserci stata una reale «coscienza» pentatonica all’interno della cultura musicale degli Incas, non vi è alcun dubbio. Ancor prima dei coniugi Harcourt, Frédéric Lacroix n , Leandro Alvina 12 e Albert Friedenthal13 indi­ viduarono tale tendenza. Raoul e Marguerite d’Harcourt escludono, inoltre, che la scala pentatonica sia stata portata in quelle terre d’America dai conquistadores spagnoli: difatti, in Europa quel tipo di scala si trova solo nella musica popolare scozzese. I Due assecondano la tesi sostenuta dal musicologo spagnolo Felipe Pedrell, il quale scrive: «[...] lo que no se encuentra, que yo sepa, en Espana, es el modo pentàfono [...]» 14. Questa «coscienza 9 Ibid., pp. 45-47. 10 W. Sargeant e J. Lahiri, Types o f Quechua Melody, in “The Musical Quarterly”, 1934. 11 Cfr. Frédéric Lacroix, Pérou, Parigi, l’Univers pittoresque. Amérique, 1843. 12 Cfr. L. Alvina, op. cit. 13 Cfr. Albert Friedenthal, Stimme, der Vólker in Liedern, Tanzen und Charakterstuken, Berlino 1911. 14 Felipe Pedrell, Cancionero popular musical espanol, Valls, 1920,1.1, p. 27. 121 pentatonica», che nel corso dei secoli non sembra aver mai rappresentato per la civiltà incaica, entità dogmatica, ma, diadema ove incastonare le gemme di un gusto melismatico, straordinariamente ricco di frequenze (e non ci si riferisce solo a toni e semitoni!), non può essere giunta in America dall’Europa. Ancora una volta, appare all’orizzonte il mondo orientale, la Cina, come punto di partenza. Scrive l’etnomusicologo Richard Garthe: «[...] nell’Estremo Oriente troviamo l’Estremo Oriente, in Europa troviamo l’Oriente, in America Latina ritroviamo l’Estremo Oriente.» 15 . Il seguente itinerario organologico, ipotizzato da Sachs, potrebbe, forse chiarirci (se si ha un po’ di fede!) le idee: «[...] [è] probabile che questi strumenti siano stati portati, in epoca neolita, in America dalla Cina[?] Sarebbe difficile negare una connessione sia tra i flauti a tacca della Cina con quelli sud-americani, che tra le siringhe cinesi e quelle del Sud America. [...] dobbiamo prendere in esame il campo nella sua interezza e trovare l’area di diffu­ sione di tutti gli antichi strumenti americani [...] Gli antichi strumenti americani inclu­ dono un primo gruppo, esistente in tutto il mondo: sonagli, campanelli, trombe di con­ chiglia, fischietti, flauti diritti e flauti globulari. Ma i restanti strumenti offrono un qua­ dro significativo. La curiosa ‘fessura esterna’ dei fischietti è nota nel Bhutan, Borneo e nelle Filippine; la fessura centrale si trova nel Bengala orientale,nella Birmania e nelle isole Nicobar; flauti a salsiccia si costruiscono nella Nuova Zelanda [...] Ciò implica che, a eccezione di pochi strumenti universali, tutti gli strumenti affini a quelli america­ ni si trovano esclusivamente in un territorio che comprende la Cina, l’area tra Cina e India, l’Arcipelago Malese e le Isole del Pacifico. Oltre la metà possono essere localiz­ zati nell’interno della Birmania e nelle adiacenti regioni, ossia tra i popoli che si suppo­ ne siano stati spinti verso sud dai Cinesi invasori in epoca neolitica. Gli antichi stru­ menti americani possono venir classificati come ‘strumenti del Pacifico’». 16 Per concludere: è forse, di una «cultura musicale del Pacifico» che la moderna musicologia dovrebbe parlare? L’organologia può svelare il mistero che avvolge il siste­ ma musicale di questi antichi popoli? L’etnomusicologia fino a che punto può fornire delle indicazioni attendibili? Una cosa è certa: tante sono le risposte, ma anche tante le perplessità. Roberto Carnevale - Elina Patané 15 R. Garthe, M usik der Indianer , Hullma, 1960, p. 201. 16 C. Sachs, op. cit., pp. 236-237. 122 Recensioni e schede Daniele Pompejano, La crisi dell’Ancien Regime in America Centrale. Guatemala 1839-1871, Franco Angeli, Milano, 1993, pp. 248. È soltanto da pochi anni che gli studi sul liberalismo latinoamericano tentano di usci­ re fuori dalle secche di una storiografia che, imponendo paradigmi elaborati e consolida­ tisi nell’analisi di specifiche esperienze euro­ pee a una realtà molto diversa, ha prodotto, nella sostanza, interpretazioni piatte e lineari che non evidenziano la complessità dei pro­ cessi. Il risultato di tale storiografia non spiega in sostanza, la genesi dei regimi libe­ rali della seconda metà dell’Ottocento lati­ noamericano e i contesti in cui maturano, che, nella maggioranza dei casi, vengono analizzati in base a coppie di opposti: pro­ gresso contro conservazione, modernità contro tradizione, continuità contro rottura. Pertanto, per ciò che si riferisce al Guatemala, il periodo di ininterrotto potere dei conservatori (1839-1871), viene conside­ rato come una parentesi, una stasi nell’evo­ luzione, dalla quale le società centroameri­ cane riescono a venir fuori grazie all’opera dei liberali della seconda generazione. Il lavoro di Pompejano si colloca nella scia della più recente storiografia, tutta tesa nella ricerca e valorizzazione delle specificità '* dei vari liberalismi latinoamericani rispetto a quelli europei, preoccupata di evidenziare la complessità dei processi che rivelano la con­ tinua coniugazione e intreccio degli opposti dianzi citati. L’analisi del «caso» Guatemala è il suo contributo al dibattito storiografico in atto. Pompejano, partendo dal panorama più vasto delle complesse dinamiche che opera­ no nella società centroamericana e che pro­ ducono, nella seconda metà dell’800, la nascita degli stati oligarchici e liberali, ana­ lizza i processi e le tensioni che rendono possibile, in Guatemala, la rivoluzione libe­ rale del 1871, che ha, a sua volta, effetti dif­ fusivi su tutte le altre repubbliche del Centroamerica, ad eccezione del Nicaragua. L’arco cronologico in cui si muove va dal 1939, ossia la fine della Federazione e della prima fase dell’egemonia liberale seguita all’indipendenza dalla Spagna e, appunto, il 1871. Il periodo dunque, convenzionalmen­ te indicato come i «treinta anos» di ininter­ rotto dominio dei conservatori e che, secon­ do l’autore, lungi dall’essere messo «tra parentesi», dev’essere rivisitato. Nel rintracciare le cause della crisi dello stato di Ancien Régime, Pompejano concen­ tra la sua analisi essenzialmente sulle que­ stioni inerenti alla sfera fiscale, monetaria e finanziaria. A suo avviso, soltanto rico­ struendo in modo minuzioso e preciso le dinamiche fiscali e finanziarie e stabilendo dei nessi tra queste ultime e le tensioni poli­ tiche e sociali che si manifestano chiaramen­ te negli anni Sessanta del secolo scorso, è possibile venire a capo e sciogliere il nodo non risolto della genesi della rivoluzione liberale del 1871. Infatti, proprio nel corso del regime conservatore dei «treinta anos» è possibile individuare dinamiche economi­ che e sociali modernizzatrici, trattenute e costrette dal quadro istituzionale e politico vigente. Tali dinamiche, e soprattutto l’avvio della produzione del caffè quale pro­ dotto per l’esportazione che sostituisce gra­ dualmente quella della cocciniglia, spingono l ’élite al potere, per poter continuare a garantirsi l’egemonia su tutta la regione che storicamente aveva gestito, a cambiare le regole del gioco politico. All’origine della crisi del modello eco­ nomico e politico vigente che riposa sulle esportazioni, c’è l’incepparsi del suo mec­ canism o m otore: la dom anda estera. Difatti, l ’aspetto più dinamico di tale modello è costituito dalla produzione e commercializzazione della cocciniglia esportata sui mercati europei, Londra in 123 particolare, e utilizzata come colorante. È per questa via che lo stato, in misura sem­ pre insufficiente e progressivamente defi­ citaria entra in possesso di divise che poi destina al funzionamento della macchina burocratica e militare. Ed è ancora il commercio internazionale l’unico terreno che permette alle élites di commercianti e produttori guatemaltechi di arricchirsi ma anche di dover fare i conti con le forze produttive salvadoregne. Antico è infatti il conflitto che oppone i produttori di indaco salvadoregni ai grandi commer­ cianti guatemaltechi che monopolizzano la com m ercializzazione dei p ro d o tti dell’istmo. E anche necessario tener presente che, nel corso dei trenta anni presi in esame, E1 Salvador conosce un’evoluzione economica e politica rilevante. Con una superficie di un 1/5 rispetto a quella del Guatemala e una popolazione pari a poco più della metà, rie­ sce ad attivare un volume commerciale con l’estero di poco inferiore al paese confinan­ te. Un calcolo del 1860 fa ammontare il commercio estero di El Salvador a 2.832.205 pesos contro i 3.148.279 del Guatemala. Il conflitto tra i due paesi centroamerica­ ni registra diversi episodi di guerra aperta ma la più deleteria per il Guatemala è quella del 1863. Il costo della supremazia regionale è così esoso che la vittoria militare, ancora una volta dei conservatori del Guatemala, e la crisi del prezzo della cocciniglia, verificatasi proprio a ridosso della guerra del 1863, segnano l’inizio della fine della loro egemo­ nia su tutto l ’istmo, sino all’eversione dell’ordine conservatore nel 1871. A tutto questo, Pompeiano collega diverse dinamiche: il ridotto gettito delle alcabalas marittime - cioè dei dazi doganali - a favore dell’erario, le maggiori spese militari necessarie a garantire l’egemonia guatemalteca sull’istmo, la necessità di disporre di risorse finanziarie e di mezzi istituzionali e legislativi per la modernizza­ zione del paese e lo sviluppo della produ­ zione del caffè, necessità che non può essere soddisfatta da un fragilissimo siste­ ma impositivo di tipo indiretto. Inoltre la 124 funzione ancora essenzialmente privatisti­ ca dell’emissione e la mancata ripresa delle attività di conio, sin dal periodo successivo all’Indipendenza, rendono estremamente deficitaria la circolazione di moneta pri­ maria alla quale si cerca di ovviare con la circolazione fiduciaria che finisce per innescare una dissennata speculazione, al punto da provocare una situazione di vera e propria bancarotta dello stato. Il collasso del sistema di approvvigionamento ali­ mentare e il conseguente malessere delle zone urbane che si salda con la mobilita­ zione delle zone rurali, rendono ancora più drammatico il quadro complessivo. Gli effetti di questo intreccio di contraddi­ zioni, al livello delle stesse condizioni di sopravvivenza, risultano distruttivi. Non vale, a questo punto, il ricorso al prestito che la finanza inglese concede, nel 1869, allo stato del Guatemala per far fronte al suo avvitamento nel debito e per risolvere il marasma finanziario e l’insolvibilità verso i creditori interni. Anzi il fattore esterno si rivela ancora una volta come ele­ mento irreversibile di dipendenza, matura­ to all’interno della formazione economicosociale periferica. La configurazione politica e istituzionale di ancien régime, per quanto funzionale alla difesa degli interessi di una ridotta oligar­ chia, non è in grado di reggere. Ciò impone un ripensamento, cambiamenti radicali, se non dei giocatori, almeno delle regole del gioco. E il pretesto è fornito dall’ennesimo «pronunciamento» militare che rispecchia gli interessi di una nascente borghesia meticcia della zona occidentale del paese che, sulla strada della lotta per la moderniz­ zazione legata alla produzione del caffè, rie­ sce a guadagnarsi l’adesione e addirittura la guida politico-militare di alcuni membri della vecchia oligarchia. Il quadro che Pompeiano offre, anche se in uno stile un po’ tortuoso e di difficile let­ tura, ci permette non soltanto di cogliere gli elementi di continuità dinamica fra l’epoca dei conservatori e la repubblica liberale oli­ garchica instauratasi nel 1871, ma di capire processi di più lungo periodo che riguarda­ no, non soltanto il paese preso in esame, ma l’intera area centroamericana e che proprio attorno alla metà del secolo scorso prendono l’avvio. Maria Rosaria Stabili L’America e la differenza, materiali dal II Seminario Interdisciplinare della facoltà di lettere e Filosofia, a cura di Luciano Giannelli e Maria Beatrice Lenzi, Siena, 1994, pp. 243. Frutto di una attività seminariale svoltasi dal dicembre 1991 al maggio 1992 per l’impegno personale del prof. Antonio Melis, il volume continua ed approfondisce gli studi fioriti intorno all’occasione del Cinquecentesimo anniversario della Conquista dell’America. Il Laboratorio EtnoAntropologico di Siena aveva già pub­ blicato un bel volume a cura di Massimo Squillacciotti, America. Cinque secoli dalla conquista, già recensito su questa rivista, sta­ volta pero gli studiosi, fra cui studenti e lau­ reandi, hanno posto l’accento sulla differen­ za, sulla percezione dell’altro americano da parte degli osservatori ed esperti europei. Apre il volume un conciso e limpido saggio di Martin Lienhard sulla scrittura come marca di differenza e di superiorità bianca e sulla «via crucis che deve affrontare la voce emarginata per insinuarsi nel testo scritto». L’autore ha già espresso queste sue tesi in maniera articolata e persuasiva nel volume La voz y su huella che meritò il Premio Casa de las Américas nel 1990 ma nel breve sag­ gio introduttivo marca un indirizzo al quale si atterranno gli altri scritti del volume, a cominciare dall’avventura di viaggio e nau­ fragio del funzionario spagnolo Cabeza de Vaca nel 1527 e del chirurgo pirata inglese Lionel Wafer nel 1690. Da queste due avventure, lontane nel tempo ma simili per circostanze (il naufragio, la permanenza fra popolazioni indigene, la sopravvivenza e il ritorno), Lidia Bai e Daniela Rossi traggono interessanti conclusioni sulle finalità degli scritti autobiografici nell’un caso e nell’altro e sui concetti di differenza / inferiorità e di uguaglianza / assimilazione che sono dei concetti chiave per interpretare i diversi atteggiamenti del conquistatore. Vi si sottolinea anche l’importanza del possesso dei mezzi di comunicazione, tornando cosi al fondamentale problema della scrittura come arma della conquista già molto ben svolto, anni fa, da Anita Seppilli nel suo bellissimo volume La Memoria e l ’assenza. Maria Beatrice Lenzi indaga ancora sul problema della scrittura a proposito della cultura popolare andina e della letteratura indigena che è, e non potrebbe non essere, un ibrido nel momento in cui passa dall’oralità al codice di scrittura portato dai conquistatori. Mezzo secolo di resistenza ha permesso la conservazione del patrimonio orale, ma la sua trascrizione in segni alfabetici occidenta­ li implica complessi processi di adattamento con le inevitabili perdite e adeguamenti, in una parola produce un sincretismo sul quale indaga Riccardo Badini, sempre per quel che riguarda le culture andine e lo spettro semantico delle loro parole chiave che denunciano una cultura «di alternanza e di cambiamento che coinvolge le categorie di tempo e spazio»; Badini riporta il grande dibattito dei primi decenni del nostro secolo fra gruppi letterari e riviste indigeniste incentrato su un purismo improbabile e una espressione «contaminata» ma attuale e reale. Il glottologo Luciano Giannelli si occupa della percezione delle lingue native da parte dei grandi linguisti dell’occidente e dà conto di un dibattito che continua ai giorni nostri e che apre spazi interessantissi­ mi per la comprensione dell’altro e per l’accettazione delle differenze. L’autore mette in rilievo il fatto che nell’affrontare le lingue indigene si è partiti tradizionalmente dalle categorie greco-latine e che «la man­ canza di regole, l ’instabilità della lingua, supposte imprecisioni» venivano definite semiumane. Solo recentemente si è comin­ ciato ad accettare che fra gli uomini vi sia uniformità nella natura del pensiero e «varietà nel modo di esprimerlo». Su questa stessa falsariga scrive Barbara Cucini che analizza il percorso del linguista Whitney, 125 operante nel secolo scorso, che appare come un precursore della linguistica strutturale ma che si muove fra paternalismo e imperia­ lismo. A conclusione del volume, la tradu­ zione in italiano de lui tragedia della fine di Atahualpa, un’anonima opera teatrale del 18 71, in cui viene messa in scena la m orte dell’imperatore inca per mano di Pizarro e Almagro. Questo breve testo, rappresentato dagli studenti pisani nel corso del seminario, ha una p resen tazio n e di M aria B eatrice Lenzi che chiarisce il senso del testo e lo col­ loca nel suo contesto. Forse quanto o più dei saggi che lo precedono, questo dramma anonimo sottolinea la diversità delle culture, il potere della scrittura in mano al bianco e l’intolleranza di quest’ultimo. Alessandra Riccio Ode alla giovane luce. Panorama della poesia cubana contemporanea, a cura di Virgilio Lopez Lemus e G aetano Longo, Udine, Campanotto Editore, 1993, pp. 225. In una breve e intelligente presentazio­ ne, lo scrittore cubano Miguel Barnet para­ gona gli antologi ad un plotone d ’esecuzio­ ne: ad essi infatti tocca eliminare, «fucila­ re», autori degni del massimo rispetto in nome della necessità di scelta implicita in ogni antologia. E un fatto risaputo, tuttavia le antologie continuano a vivere, a rip ro ­ dursi e a dimostrare la loro utilità. Nel caso in questione si tratta di u n ’opera meritoria la cui responsabilità ricade sulla studioso cubano Virgilio Lopez Lemus e il ricercato­ re italiano Gaetano Longo, entram bi poeti. Essi h a n n o scelto u na m o stra (a d ir la verità, solo un piccolo assaggio) della gran­ de poesia cubana degli ultim i tre n t’anni. Nulla da eccepire sulla scelta dei nomi, che sono veramente fra i più grandi, direi ormai dei veri e propri classici, ma un p o ’ di con­ fusione la ingenera quella precisazione tem ­ porale poiché abbraccia praticam ente gli anni della rivoluzione m en tre gli au to ri antologati sono per la maggior parte poeti già maturi e formati prima dell’avvento di 126 quel «sovvertimento dei valori» (sono paro­ le di Miguel Barnet) che è stata la rivoluzio­ ne. Un peccato veniale che si accompagna ad un altro fastidioso peccatuccio costituito dai numerosi e reiterati errori del tipografo nella trascrizione dello spagnolo. Ma supe­ rati questi due scogli, il lettore potrà tuffarsi nella g ra n d e p o esia cu b an a di N icolas Guillén e di Lezama Lima, di Eliseo Diego e di Cintio Vitier, delle tre illustri poetesse Dulce Maria Loynaz, Carilda Oliver e Fina G arcia M arruz che stan n o al pari con i grandi e spesso li superano. Comprimere 1’ an to lo gia in circa d u e c e n to pag in e con testo a fronte ha significato dover «fucilare» non solo altri autori, ma soprattutto testi, poesie entrate ormai nel patrimonio cultu­ rale della nazione, poesie-sim bolo com e p o tr e b b e e sse re p e r n o i L ’infinito di L eo p ardi o i sonetti del Foscolo; ma su questa decisione coraggiosa degli autori non mi sento di esp rim ere critiche: p er alcuni testi sommersi, ne em ergono altri, forse non tanto conosciuti ma validi e sug­ gestivi. Seguendo il cam m ino indicato da Lopez Lemus, attraversiamo il neorom anti­ cismo e la poesia negra, il colloquialismo e l’origenismo ma ritroviamo sempre un’ eco, u n ’allusione, un grido che ci riporta ad un c o n te sto p e r cui n e ssu n o , n em m en o il poeta più squisito, nemmeno Lezama Lima, poteva vivere in una intangibile torre d ’avo­ rio. C ’è li a dimostrarlo una sorprendente e bellissim a poesia d e ll’o rig en ista C in tio Vitier che consiglio di leggere attentamente: «La voz arrasadora». Alessandra Riccio AA. VV ., America Latina. Temi e pro­ blemi di antropologia, a cura di V. Lattanzi, S o p rin te n d e n z a S p e c ia le al M u seo N a z io n ale P re is to ric o E tn o g ra fic o «L. Pigorini», Roma, 1st. Poligrafico e Zecca dello Stato, 1992, pp. 511. Q uesto ponderoso volume, che esce in una costosa quanto elegante edizione, è il p rim o di una collana di su p p lem en ti al BuUettino di Paletnologia Italiana, dedicata agli studi etno-antropologici. «La scelta del tema latinoamericano», scrive Lattanzi nel saggio introduttivo, «punta consapevol­ mente l’obiettivo sul già detto, ma come ‘ripetizione’ necessaria per pensare o ripen­ sare (...) i termini di una questione che non è solo ecologica né solo politica, ma più complessivamente storica» (p.4). Si tratta insomma di fare il punto su alcuni nodi della ricerca contemporanea in questa disciplina, facendo riferimento al contesto latinoamericano, da sempre luogo simbolico dell’interrogarsi dell’Occidente su se stesso e sulle culture altre, per «rispondere alla domanda diffusa di analisi antropologica del mondo contemporaneo, nel quale la conoscenza interculturale non è curiosità oziosa ma necessità vitale alla coo­ perazione» (Tentori, p. XIII). In primo piano si pone il problema della valorizzazione del patrimonio musica­ le, poiché il museo (e la riflessione prende le mosse proprio dal Pigorini) non è più soltanto collezione di oggetti appartenenti a culture estranee, ma anche e soprattutto centro di ricerca e approfondim ento dell’identità dell’Altro e, attraverso tale processo, della propria. Ecco quindi il sag­ gio di Silvia Carvalho e Miguel Menéndez sui musei etnografici, che ne propone un ripensamento in una duplice direzione: da una parte la presentazione del materiale deve rendere conto del contesto in cui è stato prodotto e della «ideologia soggiacen­ te»; dall’altra lo sforzo di attualizzazione del museo, ivi compresa l’apertura al contribu­ to degli stessi indigeni, deve sconfiggere il vecchio pregiudizio secondo cui le culture tradizionali sarebbero uno stadio dell’evo­ luzione umana che raggiunge con l’Occidente la sua perfezione (p. 126). Fondamentale in questo senso appare l’esperienza di Darcy Ribeiro che ha indica­ to la via da seguire già nel 1953 con l’istitu­ zione del Museu do Indio a Rio de Janeiro, di cui parla D. Saviola nel suo saggio sul grande antropologo brasiliano. Il libro rac­ coglie una serie di saggi, nati come inter­ venti per un ciclo di incontri intitolato «Sotto il sole giaguaro: idee per un dibattito sulla civilizzazione», svoltosi al Museo Pigorini nel 1989, cui si aggiungono, oltre a quello citato di Lattanzi, altri saggi dai «Seminari americanistici» organizzati da M. Curatola nel 1991. Il senso di tale operazione culturale è ben illustrato da Lattanzi, che individua quattro nuclei problematici del volume: la riflessione sull’identità, la ricerca sul campo, il concetto di sviluppo e quello di civilizzazione; tutto, come risulta dalla let­ tura dei vari contributi, ruota attorno alla «ineludibile necessità - in Sudamerica come in ogni ‘altrove’ possibile - di coniugare insieme antropologia e storia» (p.5). Occupa uno spazio centrale in tale riflessio­ ne il saggio di Gasbarro, che svolge una cri­ tica della scienza antropologica dai suoi albori al dibattito odierno, passando per Lévi-Strauss: «l’unica possibilità di salvare almeno la comprensione dei fenomeni», è la conclusione, «è la storia dei rapporti tra le culture» (p. 308). I contributi sono distri­ buiti in tre sezioni. La prima, dedicata al tema «Memoria storica e identità cultura­ le», comprende i saggi di Curatola su realtà e mito dell’impero incaico, di A. Flores Gaiindo su Arguedas e di J. Rappaport sul valore dell’araldica tra gli indios colombiani (quest’ultimo sembra avvalorare l’esigenza di storicizzare la complessità delle dinami­ che culturali, dimostrando l’inconsistenza del mito delle società «pure»); ad essi si aggiunge il citato saggio di Carvalho e Menéndez e una selezione di illustrazioni e fotografie dai libri di viaggio della bibliote­ ca del Museo Pigorini, presentata da L. Paderni. La seconda sezione («Processo civilizza­ tore, modernizzazione e antropologia») rac­ coglie un saggio di S. Gatta sui Chichimecas; uno di A. Argueta sulle popolazioni indigene messicane, in cui si indica la necessità di con­ vertire le aree protette in spazi per il dialogo interculturale, al fine di salvaguardare sia gli abitanti, «custodi dell’eredità genetica mon­ diale» (p.215), che l’ambiente; dopo il ricor­ dato saggio su Ribeiro, troviamo il testo di un incontro con Ribeiro e con M. Pereira Gomes, sempre a cura di D. Saviola, avvenu­ to al Pigorini nel 1989, il citato saggio di 127 Gasbarro e un itinerario iconografico (cura­ to da L. Paderni) con splendide foto che «dialogano» con l’osservatore mostrando, attraverso il loro valore estetico, suscitatore di emozioni, la realtà dei villaggi sudamerica­ ni. È un po’ l’esplicitazione visiva del discor­ so di M. Canevacci, che indica nell’estetica una «parte costitutiva la prassi antropologica contemporanea» (p.416). In sostanza la «polifonia» dei meccanismi cognitivi, trala­ sciando ogni tentativo filosofico di sintetizza­ re arte e scienza, apre nuove possibilità ad un’antropologia che resta bifronte: l’atten­ zione è posta sul «come» si scrive, quale parte integrante del metodo di ricerca, in cui il diario, l’intervista, il dialogo, ma anche il cinema o il teatro diventano generi con pari valore cognitivo: è il metodo «spezzato» della «massima intemità» rispetto all’oggetto studiato, visto in un secondo tempo dalla «massima distanza» (pp. 402 e 420). Questo saggio fa parte della terza sezione dell’opera, dedicata appunto allo «sguardo dell’antro­ pologo». Il ruolo di mediatore o traduttore di culture è assegnato all’antropologo da M. Biscione nelle sue considerazioni metodolo­ giche su antropologia pura e antropologia applicata, e da G. Bamonte, che mette a fuoco la situazione dei movimenti indigeni in rapporto all’Occidente. Completano il qua­ dro G. Mazzoleni, che parte dalla sua espe­ rienza nel Chaco argentino per evidenziare l’esplosione di contraddizioni dovute all’incontro tra culture, e una bibliografia ragionata di M. R. Innico sui movimenti indigeni contemporanei. Si tratta in sintesi di un’opera che analizzando lo stato presente delle tendenze della ricerca antropologica, contribuisce a definirne l’evoluzione (e le inquietudini) rispetto alle esigenze del mondo contemporaneo; un mondo in cui l’antropologo assume su di sé l’onore e l’onere di fungere come un decodificatore nei rapporti con l’Altro, affidandosi non più alle antiche certezze eurocentriche o ai miti del buon selvaggio, ma restando sul terreno di un dialogo «storico», che costituisce ormai l’essenza della sua metodologia. Valerio Corvisieri 128 Les cultures du café, “Caravelle”, n. 1 1993, pp. 292. Dopo un lungo periodo iniziale, in cui aveva alternato numeri misti e numeri monografici dedicati a specifici paesi, “Caravelle”, rivista àzW Institut Pluridisdplinaire pour les Etudes sur l’Amerique Latine a Toulouse, in un secondo periodo aveva optato per la presentazione di numeri monografici dedicati a specifici temi, come nel n. 28 dedicato al tema «La terra e i con­ tadini nell’America latina». Questo cambiamento ha permesso a “Caravelle”, che si presenta con il sottotito­ lo «Cahiers du Monde Hispanique et LusoBresilien» un allargamento dei propri inte­ ressi e l’adozione di un taglio d’analisi di maggior respiro e, soprattutto, effettiva­ m ente interdisciplinare. Q uest’ultimo numero si colloca pienamente in quest’otti­ ca e risponde felicemente a questa aspira­ zione: ispirato inizialmente dal lavoro del gruppo Moca (Università di Toulouse Le Mirail e GRAL-CNRS), si situa all’incrocio di più orientamenti d’analisi collocandosi allo stesso tempo tra «terra e contadini» e «testimonianza culturale» in senso lato. Il numero riguarda i paesi di lingua spagnola, i pro d u tto ri di caffè dell’Istm o, delle Grandi Antille e del Nord delle Ande, con esclusione del Brasile per via del tipo di proprietà della terra sulla quale produce il suo caffè. Ci si è limitati a studiare essen­ zialmente l’universo della piccola proprietà caffeicola, largamente dominante nell’area sopra definita, senza per altro impedire uno sguardo sulle unità più grandi che pure esi­ stono anche in questa area (cfr. l’articolo di Charles-Eduard de Suremain). L’universo della piccola proprietà è estremamente ricco di temi di osservazione e più ricco ancora se si considerano tutte le rappresen­ tazioni che si sono avute dalle mitologie nazionali dei paesi produttori qui conside­ rati. La varietà e la frammentazione spaziale dei produttori di caffè è certamente una regola, ma in questo numero della rivista non si cerca di considerare la questione come una somma di frammenti dissimili, ma richiama una forte impressione di unità. In tutti i casi, dal minore di questi - domi­ nante - della piccola proprietà familiare, fino ad una classe contadina popolare, dinamica e specifica, i cui tratti si ritrovano nel tempo e nello spazio per ciascuno dei paesi considerati in questo numero (cfr. l’articolo di Jean Christian Tulet). In una parola, si cerca di verificare se esiste, nelle tante isole montagnose di variabile grandez­ za, una sola e stessa civiltà del caffè, con delle sfumature, certo, a seconda dei paesi, ma delle sfumature che appaiono più come le variabili regionali di una stessa cultura, così come le differenti nazionalità nell’ambito del più vasto insieme costituito dai Caraibi. Nei paesi dell’area considerata, il caffè è stato elevato in altri tempi alla categoria di prodotto nazionale e questo fatto costitui­ sce ancora oggi un elemento chiave nella rappresentazione della storia del paese e della sua identità. Ma questa situazione generale ricopre delle situazioni estremamente varie: il caffè può funzionare ancora come un simbolo molto forte là dove non se ne è prodotto tanto e può quasi essere passato sotto silenzio là dove la produzione è insieme importante e significativa (cfr. l’articolo di Claire Pailler). Questo rappor­ to, intersecato con il concetto di naziona­ lità, deve molto alle particolarità dei diversi processi nazionali (cfr. l’articolo di Mario Semper). Il caffè ha potuto occupare un posto capitale nel diciannovesimo secolo per lo sviluppo economico e giocare paral­ lelamente il ruolo di catalizzatore del discorso d’identità. Così Cuba, nel rigettare l’appartenenza alla Spagna, ha visto nella cultura del caffè un simbolo catalizzatore dell’energia e dell’emozione collettiva (cfr. gli articoli di Mario Zequeia e Michele Guicharnaud-Tollis). Ancora, Porto Rico passato da un giogo coloniale all’altro, ha fatto della sua precaria cultura del caffè l’attività nazionale per eccellenza, ma di una nazione ancora più precaria che la sua stessa produzione simbolica (cfr. l’articolo di Fernando Picó e Jaques Gilard). In un altro caso, il Costa Rica in particolare, se le linee sono più vere e durature, sono anche meno profonde (cfr. l’articolo di Claire Pailler): il caffè, cultura eroica, non ha sto­ ria e non può acquisire una certa importan­ za se non in contrasto con altre produzioni più problematiche, come la banana. La risorsa, anche questa «nazionale», che aveva il difetto di «m altrattare» la sua manodopera: la banana, marcata con le stigmate della presenza straniera, come si è verificato dal Costa Rica alla Colombia, ma si può pensare anche al Guatemala. Sembrava che il paesaggio del caffè non si vedesse, mentre la canna da zucchero ottiene maggiore attenzione. Per il tipo di organizzazione che esige - latifondiario massiccio e dolorosamente stagionale - la canna è un’esperienza collettiva mal vissuta; fonte di indignazione o di compassione, essa suscita la presa di coscienza, il discorso politico, l’invettiva. In più essa è un’invasio­ ne del paesaggio; quando è presente, si estende a perdita d’occhio, come un’osses­ sione, ed anche per questo è un’esperienza collettiva più forte di quella del caffè, che non può apparire che nel paesaggio di ver­ santi frammentati e limitati, sempre ristret­ to da un orizzonte stretto. Il caffè è un’ esperienza di ordine privato, quasi intimo, mentre la canna è una tirannia che si subi­ sce. Si possono formulare delle osservazioni simili sulle banane: anch’esse provocano tensione e drammi, marcati più nettamente che lo zucchero dalla presenza straniera. Le piantagioni della United Fruit Company sono sentite come delle enclave dove è stata beffeggiata la nazionalità. I massacri che hanno ispirato la società Nord-Americana e gli interventi di questa nel tale e tal’altro paese hanno finito per rendere la banana un frutto odioso. Si parla, in termini peg­ giorativi, della «Repubblica delle Banane» mentre si può usare poco, o addirittura per niente, per l’America latina l’espressione «Repubblica del Caffè». I metodi culturali bananieri, apparsi come contrassegnanti l’esperienza storica dei popoli, si sono com­ pletamente arenati del caso della cultura del caffè (cfr. l’articolo di Caterine Caipeau). Di fronte a questi due tipi di pianta­ gione, la cultura del caffè è stata conside­ rata come una produzione senza storia e 129 come un’attività nazionale, amabilmente legata al sole del paese. Nello stesso tempo motivo di fierezza ed oggetto di un consenso tacito, il caffè è a volte menzio­ nato, ma senza troppa insistenza, e si può ugualmente arrivare a dimenticarlo o pas­ sarlo sotto silenzio. La letteratura costarichegna s’è poco interessata all’universo della cultura del caffè del paese, mentre il caffè è piuttosto l’elemento agglutinante nella concezione della nazionalità (cfr. l’articolo di Claire Pailler e Ivàan Molina). Si può ricordare, di passaggio, che la let­ teratura colombiana conta più opere con­ sacrate alla «zona balneare» che ai suoi territori caffeicoli. Per questo il caffè è oggetto di consenso, perché senza dubbio significa molto per tutte le vie economi­ che del paese dove è prodotto in quantità significative. Il suo trasporto fa interveni­ re numerosi operatori e mobilita impor­ tanti interessi al di là delle zone di produ­ zione. A centinaia di chilometri dall’ulti­ ma caffetteria, gioca un ruolo determinan­ te nella domanda e nella creazione di infrastrutture e contribuisce all’organizza­ zione di uno spazio che, grazie a lui, diventa spazio nazionale (cfr. l’articolo di Eduardo Posada). Esso condiziona nello stesso modo le mentalità. Sembra avere più peso nelle zone che non lo produco­ no, dove è un simbolo di prosperità, nel sottolineare in un certo modo una situa­ zione di dipendenza. Senza contare che la regione del caffè può anche, molto sem­ plicemente, far sognare i suoi vicini per tutto quello che implica la densità demo­ grafica, la fertilità del terreno, la vita sociale e del benessere, segnatamente per ciò che è la qualità e la varietà e la prossi­ mità dei servizi. Se la letteratura e la canzone popolare fanno un po’ di spazio al caffè nel periodo recente ed attuale - per cui il caffè è anco­ ra un simbolo nazionale - il consenso deve avere altre risorse. E un aspetto che non appare nel complesso degli articoli, ma Jacques Gilard e Jean-Christian Tulet che introducono il numero e da cui sono essenzialmente tratte queste note - formu­ lano a riguardo un’ipotesi, che giustifica 130 certe allusioni di Eduardo Posada: la stam­ pa, fino allo sviluppo della radio e poi della televisione, ha potuto essere la crea­ trice del consenso e del mito. Come veico­ lo del dibattito parlamentare della politica del caffè, come informazione su tutto ciò che era trattato nei mercati internazionali, come canale d ’espressione dei diversi gruppi di pressione legati alla produzione ed all’esportazione del caffè. Tutto questo con una istanza che ha potuto suggellare l’identificazione di tutto un paese al suo prodotto. Si può ricordare che la stampa colombiana aveva il costume d’annunciare in caratteri enormi - come per una dichia­ razione di guerra- le gelate che colpivano le coltivazioni brasiliane o i giorni partico­ larm ente idonei per la produzione del caffè nazionale. La stampa assume sempre più un ruolo maggiore nell’immagine «morale» che si dà della cultura del caffè. L’editoriale della stampa non ricorre che a nobili e buoni sentimenti ed era inevitabile che le lobby del caffè, nelle loro rivendica­ zioni, mettessero l’accento proprio sui valori morali del lavoro! Si intravede che, messi da parte i casi dei grandi proprietari (o passati o minoritari nell’area qui consi­ derata), se il caffè ha potuto dare spazio a queste mistificazioni è perché la sua pro­ duzione è essenzialmente un fatto di pic­ coli proprietari. L’immagine proposta non era dissimile da quella di Jean-Jacques Rousseau per il primitivo d ’America: la piccola capanna, la famiglia unita, frugale ma onesta, il piccolo terreno onestamente lavorato e redistribuito lo sforzo con gene­ rosità, questo nella cornice di una società «armoniosa» dove spariscono le opposi­ zioni di classe (cfr. l ’articolo di Jean Christian Tulet). Stereotipo che aiuta l’incoscienza occidentale fin dal diciottesi­ mo secolo e che si è superbamente trasci­ nata in America con immagini folcloriche ma non meno irreali - del «criollismo lette­ rario»: il piccolo piantatore di caffè è l’unico caso in cui questo stereotipo di «criollismo» ha potuto in un certo modo divenire realtà, per l ’espediente della somma di una infinità di piccole proprietà individuali e per l’espediente del decollo econom ico nazionale. Ma si com p ren d e che non è una questione che riguarda sola­ m ente il piccolo p ro p rie ta rio , anche se sono esclusi dall’immagine idilliaca i lavo­ ratori stagionali, senza i quali non sarebbe possibile niente. Alcune piante non sem brano suscitare in America latina l’identificazione indivi­ duale o l’identificazione patriottica, come invece è accaduto per la pianta del caffè. Il cittadino invitato a partecipare alla raccolta risente molto di quest’emozione di parteci­ pazione più ad un m odo d ’essere che ad un’attività produttiva - e la sensazione sarà ancora più forte se il lavoro di raccolta del caffè è legato a dei ricordi fam iliari. La testimonianza del romanziere costarichegno Carmen Naranjo ha degli accenti che ricor­ dano inevitabilmente ad un francese quello che può ispirare la vigna. E possiamo spin­ gere oltre questa analogia se pensiamo che il bisogno di caffè, con i suoi rituali e le sue preparazioni multiple, rinvia in una certo modo al ruolo che il vino può giocare nei rapporti sociali e nei rituali tra i francesi (cfr. l’articolo di Pascal de Robert). La testi­ monianza del grande pittore venezuelano Jesùs Rafael Soto è estremamente significa­ tiva. Venuto da una cultura di consumo del caffè, il pittore ha effettuato un ritorno alle origini; è diventato piantatore, un piantato­ re e ste ta ch e si m era v ig lia alla v ista dell’arbusto, ma certamente non un pianta­ tore dilettante: l’amore per il caffè chiude il vuoto del fantasm a delle p ro p rie radici, concretamente e metaforicamente. L ’ultima analogia è fornita dalla testimonianza della p o e te ssa n ic a ra g u e g n a G lo ria n to n ia H enriquez: si pensi alla frontiera che in Europa separa la birra dal vino, con la frat­ tura regionale che questa evoca ed i pregiu­ dizi connessi al loro rispettivo consumo. Infine, chiude il num erò una n u trita sezione di recensioni su saggi, atti di conve­ gni, numeri di rivista. Anche qui è presente con efficacia il taglio complessivo della rivi­ sta: interdisciplinarietà ed offerta di stru ­ menti d ’analisi. Una rivista da seguire, dun­ que, e con cui confrontarsi. Massimo Squillacciotti Manuel Ulacia, Origami para un dia de lluvia. Valentia, Editorial Pretextos/poesia, 1992, pp. 128 Nel 1992 la casa editrice Pretextos/poe­ sia di Valencia ha pubblicato il poem a di M anuel Ulacia Origami para un dia de lluvia (già pubblicato nel 1990 a Città del Messico p re s s o la casa e d itric e E1 T u c à n de Virginia). Ulacia, quarantunenne poeta e critico messicano, ha al suo attivo altre for­ tunate raccolte di liriche La materia corno ofrenda (Città del Mexico, UNAM, 1980), El Rio y la piedra (V alencia, E d ito ria l Pretextos, 1989), Arabian Knigth (Caracas, La pequena Venecia, 1993). Origami para un dìa de lluvia consta di 728 versi sciolti, compresi in 24 stanze. D edicatario: «Horacio». P recedono il poema q u a ttro citazioni: «T he Child is father o f the Man...» (W. W ordsw orth); «Will you turn a deaf ear,./ To what they sdid on the shore...» (W.H. Auden); «Times out of mind, the bubble-gleam / To our char­ red level dreiv / A pril back. A sudden beam.../ - Keep talking while I change into / The pattern o f a stream / Bordered with rushes uhite on blue.» (J. Merril); «Al caer la tarde, absorto / Tras el cristal,. el nino mira / Llover” (L. Cernuda). G iusto quest’ultimi versi dello spagnolo C ern u d a sem brano suggerire a Ulacia l’incipit per la sua lirica: «Està lluvia que bate los cristales / es la misma de ayer. / [...] Absorto tras el cristal ves llover” [Origamipara..., vv. 1-2 e 14]. Il « te m p o si fe rm a » , « in c o n tri C ernuda» che «ti narrava storie» in «quei pomeriggi di pioggia... pomeriggi in fuga di u n ’estate breve», «il tempo senza memoria né v o g lia n a u fra g ò co m e i g io c a tto li rotti...»: tutte immagini con le quali Ulacia «dipinge» il suo passato, un passato che, però, non diviene strum ento evocativo di una infanzia lontana, ma, piuttosto, «rilet­ tura» del p ro p rio io (che nei versi è tu). Passato e presente sembrano rivivere grazie a una concezione quasi «mitica» che avvol­ ge il ricordo. Inoltre, ogni oggetto, ogni situazione rivive nella doppia realtà del pre­ sente e del passato, attraverso un procedi­ m ento da realismo psicologico (ove l’atto d d ricordare viene pervaso da torti sensa­ zioni). Sul piano stilistico, la lirica si p otreb­ be considerare tu tta un enjambement in grado di indicare la «spezzatura» del sog­ getto (un p o ’ come avviene nella poesia di Rimbaud). A ciò si deve aggiungere l’impie­ go di sinestesie, un ricco apparato simboli­ co, allusioni, una andatura talvolta affanno­ sa e un «composto» sensualismo. «Està Illi­ rici que bate los cristales / es la misma de siempre.» così si conclude la lirica, ribaden­ do quell’immagine dietro i vetri; u n ’imma­ gine al sicuro, ma, forse, totalm ente estra­ nea alla storia. Sembrerebbe che la memo­ ria si co struisca un diafram m a p er non cedere del tutto ai sensi... Elina Paterne Un m om ento del funerale di M ariàtegui. L avoratori e intellettuali lo po rtan o a spalla fino al C im itero generale di Lima, 17 aprile 1930. 132