IOSUMA
Linguistica e letteratura
Collana diretta da
Silvana Cirillo
L’obiettivo di IOSUMA, il cui nome è un
omaggio a Zavattini, è di offrire agli studenti universitari, non meno che ai lettori interessati ad aggiornarsi, opere di autori già noti
e contributi originali di giovani ricercatori,
negli ambiti di Arte, Antropologia, Cinema,
Economia, Letteratura italiana, Linguistica,
Storia. Promossa da un gruppo di docenti
della “Sapienza” di Roma, IOSUMA si propone di aprirsi ai contributi di studiosi di
altre sedi, diventando una vivace intersezione
di rapporti interdisciplinari e di metodologie
diverse. In tale prospettiva ogni singola collana prevede saggi, monografie, manuali, traduzioni di testi di rilevanza internazionale,
opere collettive, atti di convegni.
IOSUMA, noi sono, io siamo...
Roberto Gigliucci
Realismo metafisico e Montale
Editori Riuniti
Iosuma - Arti e scienze sociali
Comitato scientifico:
Silvana Cirillo (coordinatrice), docente di Letteratura italiana contemporanea
Paolo Bertetto, docente di Analisi del film
Francesco Gui, docente di Storia dell’Europa
Simonetta Lux, docente di Storia dell’arte contemporanea
Maurizio Franzini, docente di Politica economica
Alberto Sobrero, docente di Antropologia
© Copyright 2007 Editori Riuniti
di The Media Factory s.r.l.
via Pietro Della Valle, 13 - 00193 Roma
responsabile linea universitaria:
Ugo Cundari
universita@editoririuniti.it
ISBN 978-88-359-5919-5
Copertina: foto di Piergiorgio Pirrone
grafica di Elisa D’ortenzio
Indice
Introduzione
9
Petrarchismo metafisico
19
Postilla al lume dei capelli
50
Dentro e contro Guillén
78
Sopra il vulcano
137
Io, Esterina
144
Appendice
163
5
Citiamo sempre con le sigle SM I, II, III rispettivamente: Eugenio
Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio
Zampa, tomo primo, tomo secondo, Milano, Mondadori, 1996; Il
secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Mondadori, 1996; la sigla PR sta per E.M., Prose e racconti, a cura di
Marco Forti e Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995; OV vale per
L'opera in versi, ediz. critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco
Contini, Torino, Einaudi, 1980.
Sono gl'istrumenti del realismo che costruiscono nuove metafisiche.
Costruzioni del puro pensiero non hanno piú credito e séguito.
La metafisica non corre piú, se non ha per suo passaporto almeno in
apparenza il realismo.
[Francesco De Sanctis, Il principio del realismo, 1876]
Introduzione
Il progetto di questo nostro piccolo libro sulla poesia di
Montale si articola intorno a tre filoni metodico-interpretativi:
1. un contributo in progress al commento montaliano,
inteso soprattutto come escussione di intertestualità che
possibilmente facciano sistema;
2. una ermeneutica della lirica montaliana intorno a
un'idea forte: sostanzialità, anche epifanica, di morte,
nulla, negativo vs fallimentarietà di ogni miracolo
positivo: l'unica rivelazione possibile è quella dell'annullamento;
3. una collocazione della poetica montaliana in una
linea di lunga durata di poesia metafisica, ovvero di realismo metafisico (eresia interna al sistema del petrarchismo), che dagli albori della modernità (fra Cinque e
Seicento) giunge all'Otto-Novecento, distinguendosi da
un petrarchismo “puro” derealizzante;
3a. portato di quest'ultima prospettiva è l'incremento
di una casella della critica montaliana che potrebbe titolarsi “Montale e la poesia barocca”.
I tre assi di procedura (esposti nell'ordine inverso di rilevanza) naturalmente sono interconnessi quasi sempre. In
particolare il primo e il secondo definiscono un'orizzonte di indagine aperto per tutto il volume, senza aggregazioni specifiche. Sul punto 3, il piú complesso e cruciale,
rimando direttamente al prossimo capitolo e ai seguenti.
Tuttavia, per fare un primissimo assaggio del problema,
9
si confrontino la «rósa balaustrata» di Montale 1920
(Riviere) e la celeberrima «balaustrata di brezza» di
Ungaretti 1916. La seconda rappresenta una dato di compiuta assolutezza che brucia ogni possibile empiria, non
che ogni “occasione”. La prima, invece, è un pezzo della
villa estiva dei Montale: «si arriva alla balaustrata dove due
scale salgono su, una a destra e una a sinistra e si arriva
davanti alla casa», come descrive minutamente la sorella
del poeta, Marianna 1.
Illuminante la pagina di commento di Ossola a Ungaretti:
«dopo tante “ricche balaustrate” che da Fogazzaro e
D'Annunzio discendono sino a Campana e Palazzeschi,
basta una metafora come “Balaustrata di brezza” per evadere dal referente, per astrarre i nomi dallo spazio e dal
tempo, per renderli “assoluti”, pura scrittura».2
Per Montale, d'altra parte, solo nell'emergenza hic et nunc
del fisico può cogliersi lo scatto metafisico.
Autorevolmente Gilberto Lonardi3 insisteva sulla dicotomia fra una linea montaliana metafisica e una orficoermetica, ungarettiana in primis; la distinzione veniva
accettata sostanzialmente da Pier Vincenzo Mengaldo
nella storica recensione dell'81, con qualche perplessità
però sull'avvicinamento Montale-Saba che Lonardi suggeriva;4 il dibattito veniva ripreso, con autonomia interpre-
1
E. M., Quaderno genovese, a cura di Laura Barile, Milano, Mondadori,
1983, p. 183; vd. anche Bianca Montale, Montale: cronache e luoghi familiari, in La Liguria di Montale, a cura di Franco Contorbia e Luigi Surdich,
Savona, Marco Sabatelli Editore, 1996, pp. 25-41: 19.
2
Cfr. Giuseppe Ungaretti, Il Porto sepolto, a cura di Carlo Ossola,
Venezia, Marsilio, 1990, p. 141.
3
Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980.
4
Vd. La tradizione del Novecento, Seconda serie, Torino, Einaudi,
2003, p. 177.
10
tativa globale, da Romano Luperini5 e da altri6. Certo,
come in piccola parte assaggeremo, il petrarchismo puro
di Ungaretti si complica assai nel corso del tempo; la sua
«è sí la linea Petrarca-Leopardi, ma intanto sottoposta
[…] al corto-circuito con un barocco potentemente rivissuto (ed è il grande barocco di Góngora e Shakespeare),
cioè con un gusto e una cultura fondamentalmente estranei all'asse portante della tradizione letteraria nazionale».7
Mi preme ancora, in sede liminare, distinguere il correlativo oggettivo di Eliot dall'occasione di Montale, non
perché i due poeti non siano entrambi protagonisti della
tradizione di lunga durata del realismo metafisico,8 come
vedremo, ma semplicemente per puntualizzare due contesti “teorici” non del tutto omologhi.
Come è noto, la prima formulazione dell'objective
correlative si ha in un saggio di Eliot del 1919, dal titolo
Hamlet and his problems. La chiarezza espositiva, come
sempre, non fa difetto all'autore: «Il solo modo di esprimere emozioni in forma d'arte è di scoprire un “correlativo oggettivo”; in altri termini, una serie di oggetti, una
situazione, una successione di eventi che saranno la formula di quella particolare emozione; tali che quando i
fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensibile,
siano dati, venga immediatamente evocata l'emozione».
Da questa legge generale Eliot fa scaturire la considerazione del difetto principale della tragedia shakespeariana
5
Montale e l'identità negata, Napoli, Liguori, 1984 (vd. pp. 10 sg.).
Cfr., recentemente, Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni,
Genova, il nuovo melangolo, 1998, pp. 94 sg. Piú magmatica era la proposta
complessiva offerta dal grande libro di Silvio Ramat, L'Ermetismo, Firenze, La
Nuova Italia, 1969 (19732).
7
Mengaldo, La tradizione del Novecento, Seconda serie, cit., p.50.
8
«Gran merito di Montale (meno di Eliot, piú intellettualistico) è di
avere sempre opposto, di fatto, l'irriducibile presenzialità degli oggetti alla loro
potenziale riduzione a segnali psichici», come scriveva nel 1983 Pier Vincenzo
6
11
Hamlet: «L'”inevitabilità artistica” sta in questo completo
adeguamento dell'esterno all'emozione: e ciò è precisamente quel che difetta nello Hamlet. Amleto (uomo) è
dominato da un'emozione che è inesprimibile perché è “in
eccesso” rispetto ai fatti quali appaiono».9 Mi pare evidente
che qui Eliot stia definendo un principio generale della
forma artistica, in base al quale l'oggettività debba costruire il soggettivo, in ogni espressione artistica, nella letteratura drammatica come nella poesia ecc. A questa fase enunciativa, intendo dire, Eliot non ha in mente necessariamente e specificamente la “poesia degli oggetti” novecentesca di
cui sarà uno dei massimi protagonisti, e che già ad es. con
Rilke aveva dato esiti di grande spessore. Semplicemente
Eliot rifiuta un'arte che non sappia far scaturire l'emozionale e lo spirituale da forme e vicende extra-soggettive.
Inoltre il suggerimento eliotiano sembra vertere soprattutto su una necessaria tecnica artistica, una ars per cui il poeta
individua l'emozione (o il pensiero, o addirittura l'élan spirituale) e poi costruisce una situazione o una descrizione in
cui calare quell'emozione e da cui farla balenare per il fruitore. Si tratta di una prospettiva da parte della techne compositiva, non tanto di una visione della realtà come luogo
in sé di epifanie. Cosa che invece caratterizza l'occasione, in
senso montaliano, al punto che vorrei riabilitare un po' le
affermazioni orgogliose e depistanti della celebre intervista
immaginaria del 1946, in cui Montale scriveva le frasi
Mengaldo (ora: La tradizione del Novecento, Seconda serie, cit., p. 9). Vd., nell'ampia bibliografia, il recente intervento di Maria Antonietta Grignani,
Slittamenti del correlativo oggettivo nella poesia del secondo Novecento,
«Italianistica», XXXI, 2002, 2-3, pp. 283-293. Alcune voci critiche sul rapporto Eliot-Montale sono discusse in Paola Sica, Modernist forms of rejuvenation.
Eugenio Montale and T.S. Eliot, Firenze, Olschki, 2003, pp. 8-11.
9
T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Milano,
Bompiani, 1992, p. 366.
12
ormai notissime: «Ammesso che in arte esista una bilancia
tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta.
Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore
in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei
risultati oggettivi. Anche qui, fui mosso dall'istinto non da
una teoria (quella eliotiana del “correlativo obiettivo” non
credo esistesse ancora, nel '28, quando il mio Arsenio fu
pubblicato nel “Criterion”)».10 Montale parla infatti di qualcosa di sottilmente diverso dalla regola generale esposta nel
'19-'20 da Eliot. Intende sottolineare l'operazione di concentrazione poetica, costituita dal non esplicitare precisamente l'evento occasionale da cui sgorga lo slancio (frustrato) verso un piú in là. Il poeta scrive cioè come se anche il
lettore conoscesse il dato evenemenziale da cui parte tacendolo e traendone soltanto le conseguenze in una lirica di
massima densità. Si può immaginare una poesia barocca
particolarmente inventiva ed elaborata senza la sua rubrica
illustrativa: le difficoltà nel riconoscere la motivazione originaria sarebbero spesso notevoli. Ebbene, la poesia moderna di Montale, soprattutto nel secondo libro, ma non solo,
si presenta come elaborazione metafisica di un dato fisico
che non è spiegato, cui si allude soltanto. Senza rubrica,
insomma.11 Tutto ciò non è precisamente sovrapponibile,
ripeto, all'enunciazione generale che Eliot, un altro grande
poeta metafisico, stabilisce nel suo saggio su Hamlet.
10
SM III, pp. 1481-82. Invece già nella raccolta The Sacred Wood del 1920
il saggio su Amleto si poteva leggere agevolmente.
11
Sul ruolo «testualizzante» fondamentale del titolo in certa lirica barocca e in generale vd. Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo
letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 284 sgg. (a p. 290 il riferimento
a un son. di Marino). Tutta la seconda parte del libro di Bernardelli, di rara
intelligenza, con l'enucleazione del paradosso lirico di un discorso «in presenza», «eteroreferenziale», rivolto «a qualcuno che è assente e fuori contesto»
13
Naturalmente il concetto di oggettività correlata al soggetto sarà approfondito in seguito, negli interventi sulla
poesia inglese del Seicento, su Dante, e allora il discorso
si amplierà oltremodo, con sintonie montaliane fortissime
e con scambi probabilmente anche reciproci. Ma presentata nella sua nudità assertiva nel 1919, la formula del
correlativo oggettivo ha una portata piú grandiosamente
sommaria, e forse meno calzante per la poesia dell'occasione epifanica.
Naturalmente queste puntualizzazioni, forse inutili
per molti lettori, non modificano, come si diceva, il fatto
che Montale in Italia ed Eliot in Inghilterra siano probabilmente i due piú significativi rappresentanti della linea
poetica di “realismo metafisico” di cui vogliamo parlare in
questo libro. Un modo poetico che non rinuncia al fenomeno per carpire il simbolo e lo spirito. Un atteggiamento che rileva nel mondo fisico, degli oggetti e degli eventi,
anche i piú prosaici, lo scatto verso il metafisico12 - ed
anche, contestualmente, lo scacco, come in Montale.
(p.157), e quindi con l'analisi della «enigmicità del testo lirico» (pp. 237
sgg.), risulta di irrinunciabile preziosità teorica. Recentemente vd. anche
Guido Mazzoni Sulla poesia moderna (Bologna, il Mulino, 2005), con cui
non concordo a pieno in merito alla divaricazione storica fra lirica marinista
e montaliana, la prima non descrittiva e allegorica, la seconda realistica (pp.
145-46), ma il discorso andrebbe approfondito in altra sede (vd. anche, con
interesse, pp. 107, 111 e, con piú perplessità, pp. 166-67). Notevoli rilievi
sul percorso fisico-metafisico della poesia moderna trovo in Ermanno
Krumm, Lirica moderna e contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1997. Lo
segnalo con piacere, anche in memoria del poeta e saggista prematuramente
scomparso.
12
Presuppongo, per primazia nomenclatoria, il saggio di Pietro
Pancrazi Eugenio Montale poeta fisico e metafisico [1934], in Id., Scrittori
d'oggi. Serie terza, Bari, Laterza, 1946, pp. 247-256, senza ovviamente sposarne le valutazioni finali!
14
Luciano Anceschi,13 parlando proprio dei saggi eliotiani, nel
1945 indicava ormai con sicurezza il nodo Montale-Eliot
sulla scia di correlativo oggettivo, allegoria, metafisica.14
D'altra parte Anceschi, nel corso di tutta la sua riflessione
nel tempo, ritorna spesso su questi motivi; soprattutto ci è
cara la sua introduzione alla antologia Linea lombarda,15
dove Montale è indicato come il corifeo di una poesia in
cui «gli oggetti, non appena fattisi immagini, si fan súbito
simboli» (p. 15). Il saggio introduttivo è tutta una dichiarazione di fede in una «poesia in re» e non «ante rem» (p.
22 e passim). Una poesia di cose, anche in un vero e proprio
«delirio di determinatezza» (p. 15), con «certi riferimenti a
realtà e situazioni familiari», con «precisione cronologica o
geografica», ma sempre «fino a fare dell'immagine simbolo»
(p. 22). Il rifiuto di una poesia ante rem, «intellettualistica»
e «pura» fino al disumano, è proprio di Montale, che lo
esprime anche in una importante lettera proprio ad
Anceschi del maggio 1949: «tutti gli spiriti magni con cui
ho avuto contatto - da Svevo a Eliot, da Joyce (che conobbi solo per lettera e per reportages d'altri) a Gide ecc. - mi
hanno convinto che non si dà arte senza un substrato assai
profondo di naturalità, di fisicità, nell'uomo artista e nell'opera da questi prodotta. Dovunque s'intrude il puro
intellettualismo io sento odor di cadavere. […] Sono un
razionalista sui generis, un razionalista faute de mieux.
Senza negare l'arte metafisica, la sola che veramente mi
interessa, la sola che per me esiste».16
13
Primo tempo estetico di Eliot [1945], in Id., Poetica americana e altri
studi contemporanei di poetica, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, pp. 51-87.
14
Ivi, pp. 72 sg., 79 sgg.
15
Varese, ed. Magenta, 1952. Una introduzione al pensiero di Anceschi
offriva Valentina De Angelis, L'estetica di Luciano Anceschi. Prospettive e sviluppi della nuova fenomenologia critica, Bologna, CLUEB, 1983.
16
Lettere di Eugenio Montale a Luciano Anceschi, a cura di Fausto Curi,
«Poetiche Letteratura e altro», 1, 1996, pp. 5-22: 21sg.
15
Useremo quindi, nelle pagine seguenti, l'attributo
metafisico nell'accezione specifica cui abbiamo accennato,
cioè a dirla breve fisico-metafisica, e non nel senso di una
metafisica aprioristica, ante rem, appunto. E la vicenda teorico-pratica della pittura metafisica di primo Novecento
può restare estranea al discorso? Non del tutto, se si pensa
a celebri dichiarazioni del '19 di Carlo Carrà in merito alle
«cose ordinarie»:
Cosí quando per qualunque cagione l'uomo è mal disposto agli
effetti della pittura, né alle fatiche che essa comporta, non si commuove né si diletta alla contemplazione delle cose naturali. Allora, rimasto
per cosí dire bambino, disprezzerà le “cose ordinarie” per rifugiarsi nei
sogni vani del meraviglioso, e nel regno fantastico cercare le ragioni
della sua impossibilità comprensiva. […] In verità è soltanto il pessimo
aviatore - o meglio quello falso e immaginario - che disprezza la terra.
[…] Sono le “cose ordinarie”, che operano sul nostro animo in quella
guisa cosí benefica che raggiunge le estreme vette della grazia, e chi le
abbandona crolla inevitabilmente nell'assurdo, cioè nel nulla, sia plasticamente che spiritualmente. […] Sono le “cose ordinarie” che rivelano
quelle forme di semplicità che ci dicono uno stato superiore e posteriore dell'essere, il quale costituisce tutto il segreto fasto dell'arte. Ma i
baleni delle “cose ordinarie” se raramente si ripetono, quando illuminano l'arte creano quegli “essenziali” che sono i piú preziosi per noi artisti moderni.17
I baleni delle cose ordinarie sono qualcosa di molto
montaliano, ça va sans dire. Come valutava il giovane
Eugenio la pittura metafisica? Non troppo benevolmente, a
giudicare da alcune lettere scritte a Meriano proprio nel
17
Da Pittura metafisica, Firenze, Vallecchi, 1919; noi citiamo da Carlo
Carrà, Tutti gli scritti, a cura di Massimo Carrà, con un saggio di Vittorio
Fagone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 147 sg.; cfr. anche Paolo Fossati, La «pittura metafisica», Torino, Einaudi, 1988, p. XVII.
16
1919. Ma fra qualche frecciata anti-rondista e qualche altra
anti-orfica, è dato cogliere forse l'ambigua eccezione per un
Carrà certo letto e meditato: «Non è forse vero che molti di
noi - io compreso - han preferito a tutto “darsi ai diletti delle
cose false” (Carrà) stante il fallimento ben controllato di tante
altre filosofie?».18 Piú avanti, nel 1942, in un cruciale saggio
sulla poesia di Campana, Montale ritorna sul nodo orfismo pittura metafisica: «Fermiamoci un istante su quell'orfismo
che il suo libro non tenta certo di definire. Coincide col sorgere in Italia di una pittura metafisica (Carrà, De Chirico) di
cui Campana non poté ignorare la presenza e le intenzioni»
(SM I, p. 578). E neppure Montale stesso poté ignorare il
messaggio lirico ed equilibrato di Carrà, consegnato non soltanto alle pagine della Pittura metafisica, ma forse ancor di
piú, nei primi anni '20, ai dipinti del cosiddetto realismo
mitico, dal Pino sul mare in poi, figurazioni legate paesaggisticamente alle estati liguri trascorse dal pittore a Moneglia
(1921) e a Camogli (1923). Anche Carrà, come Rilke o
Montale in poesia, non concepiva evidentemente un percorso mitico-metafisico che non partisse dalla prosaica realtà,
apparentemente cosí antigraziosa.
Nota. I materiali costituenti questo libro sono per lo piú inediti; alcuni capitoli, in una forma estremamente piú scorciata e sintetica, sono apparsi in sedi
anteriori; il primo, ad es., segmentato in Petrarchismo metafisico e Montale,
«Rassegna europea di letteratura italiana», 25, 2005, pp. 47-63 e Petrarchismo
degli emblemi e dantismo delle parole: appunti su Montale, in Un'altra storia.
Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni,
2005, pp. 143-149. Altri spunti sono stati anticipati in occasioni di seminari e
convegni.
Non ha potuto far parte di questo volume, per ragioni di spazio, il saggio su
Montale e l'Apocalissi, che si può leggere in Apocalissi e letteratura, a cura di Ida
De Michelis, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 187-204.
Elenco in ordine puramente alfabetico i nomi di coloro nei confronti dei quali
sono debitore di suggerimenti, aiuti, incoraggiamenti diretti o indiretti, ringra-
17
ziandoli di cuore: Domenico Astengo, Alberto Casadei, Domenico Chiodo,
Silvana Cirillo, Andrea Cortellessa, Maria De Las Nieves Muñiz Muñiz, Ida De
Michelis, Giulio Ferroni, Andrea Gareffi, Fabio Grossi, Stefano Jossa, Matteo
Lefèvre, Paolo Marocco, Alessandro Martini, Vinicio Pacca, Amedeo
Quondam, Cristiano Spila, Giona Tuccini, Stefano Verdino. Un grazie anche al
Comune di Poppi, nel bel Casentino.
18
In: Francesco Meriano, Arte e vita, cit., p. 148; il riferimento alla
«Ronda» nella missiva sg., p. 149.
18
Petrarchismo metafisico
«Il maggior merito di Dryden consiste nella sua abilità
di ingrandire il piccolo, di rendere poetico il prosaico e
magnifico il triviale». Queste parole di Eliot (John Dryden,
1921)19 sono un perfetto introibo al nostro discorso. Che
verte sul paradosso di un petrarchismo deviante, fra manierismo20 e barocco, e di una deviazione che poi recupera il
modello, confermandone il valore normativo e totalizzante.
Anzi, le deviazioni sono piú di una, e d’altronde il petrarchismo è già un fenomeno plurale, come ormai si sta dimostrando, talché si parla correttamente di petrarchismi. E
allora, per chiudere il cerchio, ogni storia di deviazione è
una vicenda di ritorno all'Uno.
Ancora un introibo, questa volta storico-critico. Ha
scritto recentemente Amedeo Quondam: «Assumendo
19
Citiamo da T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi,
Milano, Bompiani, 1992.
20
Sulla categoria storico-critica di manierismo (per chi scrive, ovviamente,
proficua per l’ambito lirico di secondo Cinquecento), ancora di riferimento è il
volume antologico Problemi del manierismo di Amedeo Quondam, Napoli,
Guida, 1975; fra i (pochi) contributi piú recenti, si segnalano per densità concettuale e documentaria due offerte di Andrea Gareffi, Le voci dipinte. Figura e parola nel Manierismo italiano, Roma, Bulzoni, 1981, e La filosofia del Manierismo.
La scena mitologica della scrittura in Della Porta, Bruno e Campanella, Napoli,
Liguori, 1984. Saggi di notevole pregio, ma senza una ripresa del dibattito teorico, in Studi sul Manierismo letterario, per Riccardo Scrivano, a cura di Nicola
Longo, introduzione di Giulio Ferroni, Roma, Bulzoni, 2000. Si è discusso di
manierismo nella sezione parallela ad esso intitolata del convegno Il petrarchismo:
un modello di poesia per l’Europa, Bologna, 6-9 ottobre 2004, con gli interventi di
Giulio Ferroni, Andrea Gareffi, Stefano Jossa Amedeo Quondam, Ezio
Raimondi; sono in corso di elaborazione gli Atti relativi.
19
Petrarca e il Petrarchismo come forma storica primaria e
costitutiva della poesia classicistica da Bembo a Leopardi
(ma non solo della poesia lirica e non solo della poesia),
il senso della sua plurisecolare storia diventa subito piú
chiaro, persino piú semplice e coerente: nella sua lingua,
nella sua metrica, nella sua topica, nelle sue funzioni
comunicative generali».21 Se allora, nel classicismo, nella
lirica alta, tutto è petrarchismo, quindi petrarchismi,
cioè la grammatica è definita per sempre, inglobando in
qualche modo anche le disconnessioni, almeno fino a
Leopardi, possiamo parlare qui di un petrarchismo particolare, opera di poeti fra Cinque e Seicento che scelgono come materia poetabile minutaglia empirica, fragmenta del non-io, microeventi talora prosaici talora
quasi grotteschi, per elevare tutto ciò alle vette di un
sublime moderno,22 o per trarne illuminazioni concettuali. Un processo di estetizzazione del quotidiano, un
processo di simbolizzazione dell’insignificante. Alcuni
nomi italiani: Giambattista Pigna, Guarini, Torquato
Tasso, Ascanio Pignatelli, Curzio Gonzaga, Livio
Celiano (alias Angelo Grillo), ed altri, per fermarci al
secolo XVI, alla sua fondativa seconda metà.23 Pensiamo
al Ben divino del Pigna,24 dove troviamo poesia sulla
21
Introduzione a Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici. Due seminari
romani, a cura di Id., Roma, Bulzoni, 2004, p. XX.
22
Escludiamo ogni esito propriamente comico da questo orizzonte; se mai
si può discutere sull’ironia metafisica, sommamente ambigua, di certa lirica
barocca. Includiamo invece le propaggini novecentesche di grande stile poetico
esercitato su elementi di quotidianità: a questo proposito illuminanti le pagine
che Gian Luigi Beccaria ha dedicato al tema: vd. Le forme della lontananza,
Milano, Garzanti, 1989, pp. 24, 32
23
Per riferimenti bibliografici rimando a La lirica rinascimentale, a cura di
chi scrive, introduz. di Jacqueline Risset, Roma, Istituto Poligrafico, 2000.
24
G. B. Pigna, Il ben divino, a cura di Neuro Bonifazi, Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1965.
20
benda di madonna Bendidio, sul neo, sulle pozzette del
mento e delle guance, sul letto, sul dono di un fagiano, sul
guanto, su una scena di coiffure, sulla punta di una piuma
che fuoriesce dal cuscino e graffia la guancia di madonna,
sul moccichino, su un cagnolino morto, su cadute accidentali nel fiume, su un abbiocco della donna, su un calamaio
in forma di libro, su uno schizzo di fango, sul raffreddore e
sullo sbadiglio, su un filo di seta tratto dall’orlo della veste,
su un usignolo donato e cosí via. Tutte queste piccole ragioni di canto, potentemente anti-astrattive e quindi, diremmo con precauzione, realistiche, sembrano portare in una
direzione che non è quella de-realizzante del Petrarca
(anche se nel modello è contenuto come sempre lo spunto
per la deviazione, si veda ad es. il ciclo del guanto, o la
caduta nelle acque del fiume di Rvf 67)25. Tuttavia ognuna
di tali minuscole occasioni empiriche si assoggettano, nella
poesia del Pigna, a elaborazioni sublimanti, simbolizzanti,
mitologizzanti, metafisiche. Si pensi soltanto al neo, motivo comune anche al Tasso e al Guarini, neo che spuma dal
fuoco stillato dalle faci degli Amori. Oppure al fatto della
piuma del cuscino, per cui si scomodano Leda e il suo
cigno divino. O all’episodio di madonna presa da un’im25
«In realtà gli elementi che il marinismo costituí a sua poetica si trovano
già, spesso in contesti di una rara concretezza lirica, nel Petrarca là dove il tessuto del suo discorso si rarefà per lasciare una vita propria e nettamente definita a particolari di grande risalto»: Mario Luzi, Il barocco e la poesia italiana
[1948], in Id. L’inferno e il limbo, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 90-97: 92.
Dal punto di vista stilistico, ma quanto complesso!, anche Dámaso Alonso insisteva in piú occasioni sulla derivazione coerente della lirica barocca dal Petrarca:
«Góngora e Marino sono, per gran parte, le forme estreme che doveva assumere il petrarchismo in Spagna e in Italia verso la fine del secolo sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo» ecc. (La poesia del Petrarca e il petrarchismo. Mondo estetico della pluralità, in Petrarca e il Petrarchismo, Bologna, Libreria Editrice
“Minerva”, 1961, pp. 73-120: 99; poi in Id., Saggio di metodi e limiti stilistici,
Bologna, il Mulino, 1965).
21
provvisa sonnolenza: non sembra semplice intorpidimento,
bensí transito dell’anima a Dio. E si pensi soprattutto a
quello che forse è il capolavoro del Pigna, la canzone sul
salasso della donna.26 Qui è l’immagine indimenticabile del
piede d’avorio dove si scorge la vena «quasi d’ebano un fil
vivo e lucente» (XXXVI, 22),27 che il flebotomo dovrà incidere. Avorio ed ebano, figuranti astrattissimi petrarcheschi,
che il poeta manierista riprende per figurati insoliti e per un
motivo non petrarchesco in quanto umilmente ordinario
(se bene nulla di ciò che concerne la donna possa essere
ordinario, neppure un salasso) e che poi nuovamente assolutizza in emblemi semidivini. Ecco perché questa topica
dozzinale del manierismo può avere in comune con quella
“cortigiana” fra Quattro e Cinquecento soltanto alcune
immagini, ma non l’operazione di elazione stilistica e sublimazione complessiva. Mi è capitato già di parlare di questo
in altre occasioni:28 ripeterei cursoriamente l’esemplificazione sul motivo della casa in fiamme, realistica disgrazia che
simboleggia variamente l’incendio amoroso del poeta. Il
topos è nel Tebaldeo e in Serafino Aquilano (qualche spun26
Il motivo, come si sa, ebbe ampia diffusione nella rimeria secentesca. Nel
1595 lo troviamo anche in un sonetto di Góngora, Herido el blanco pie del hierro breve, dove l’evento del salasso di madonna e il timore dell’amante si innalzano ai fastigi mitici della vicenda di Euridice e Orfeo. Vd. Luis De Góngora, I
sonetti, a cura di Giulia Poggi, Roma, Salerno ed., 1997, p. 206. Il son. è fra i tradotti da Ungaretti, di cui si veda Da Góngora a Mallarmé, Milano, Mondadori,
1948, pp. 38-39. Fra i micro-motivi sublimati nei sonetti amorosi gongorini, si
rammenti quello relativo a «una dama que, quitándose una sortija, se picó con un
alfiler», ovvero una signora che cavandosi dal dito un anello, si punse con una
sporgenza acuminata (I sonetti, cit., p. 236: per la chiusa, col motivo dei garofani sfogliati dall’Aurora, vd. anche Polifemo y Galatea 46, 2).
27
Può esservi una memoria dell’Epitafio di Adone di Bione, vv. 9-10: «Il sangue nero gli gocciola / lungo la carne nivea»? Vd. Carmi di Teocrito e dei poeti
bucolici greci minori, a cura di Onofrio Vox, Torino, UTET, 1997, pp. 456-57.
28
Vd. Giú verso l’alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, 2004.
22
to poteva venire dalle “cacce d’incendio” trecentesche e da
qualche suggestione frammentaria dell’epigrammatica
greca), poi lo ritroviamo in Tasso e Guarini (e, in Europa,
ad es. in Camões, che traduce Serafino), con il mutamento
elocutivo e tonale di cui si diceva. E cosí trasformato nel
suo porsi ideologico di occasione simbolica, epifanica e
mitologizzante, lo ritroviamo ad esempio in secentisti come
Scipione Errico, Muscettola ecc. E a esplorare il corpo di
rime di uno squisito “marinista” come l’Errico, si reperisce
un’inventio non molto piú oltranzista, in fatto di modernità sublimata, rispetto a quella del Pigna. Ecco alcuni dati
tematici: il velo nero che copre madonna, la pozzetta sul
mento, una veste stellata, la balbuzie, un uovo pieno d’acqua lanciato dalla donna contro l’amante (motivo già presente in Livio Celiano),29 una zanzara che punge l’idolo del
poeta, il carro che conduce l’amata, un «legno cadente» che
ha ferito il suo capo, il gioco della palla, un sasso che giunge a colpire la donna sui denti, fino alle minuscole leggiadre occasioni di canto dei madrigali, fra cui segnaliamo soltanto l’episodio dell’amante che scaccia via le mosche dalla
sua donna inferma.30 E alcuni modelli di questa prassi erano
già nel pur moderato Marino, di cui vorrei citare soltanto
la prima quartina di un sonetto su «Bella donna che si lava
i piedi», senza commento:
Sovra basi d’argento in conca d’oro
io vidi due colonne alabastrine
29
Vd. Don Angelo Grillo O.S.B. alias Livio Celiano, Rime, a cura di
Elio Durante e Anna Martellotti, Bari, Palomar, 1994, pp. 109-110: «Scusa
d’un amante, per un uovo d’acqua odorosa, che da lui lanciato, colse l’occhio della sua amata», rubr.
30
Leggiamo da Scipione Errico, Sonetti e madrigali e altre rime dalle
raccolte giovanili, introduzione di Francesco Spera, a cura di Luisa Mirone,
Torino, Res, 1993.
23
dentro linfe odorate, e christalline
franger di perle un candido tesoro.31
Allora. Siamo difronte a un processo di deviazione
cosiffatto: scelta inventiva extra-petrarchesca, antiastrattiva
e “realistica”, prosaica e quasi anti-poetica, quindi elaborazione del dato empirico in direzione estetizzante, sublimante, mitizzante,32 e/o simbolizzante, concettualizzante, raziocinante, metafisico. Si rifiuta di primo acchito l’emblema
costituzionalmente astratto, araldico, nobile – fior frondi
erbe ombre antri onde aure soavi33 – in favore di un ogget-
31
Cito dalla parte terza della Lira nell’edizione veneziana per Francesco
Baba del 1653, p. 21 (la princeps è del 1614, come si sa); cfr. anche G.
Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1913, p. 77.
32
Vd. anche il classico W. Theodor Elwert, La poesia lirica italiana del
Seicento. Studio sullo stile barocco, Firenze, Olschki, 1967, pp. 27, 31, 133. Su
un «realismo del Seicento», poi, si diffondeva l’allievo di De Lollis,
Domenico Petrini, nei suoi appunti a margine della Storia dell’età barocca di
Croce: vd. Note sul Barocco, 1929, in Id. Dal Barocco al Decadentismo. Studi
di letteratura italiana, a cura di Vittorio Santoli, I, Firenze, Le Monnier,
1957, pp. 1-56.
33
«Tutta la poesia italiana è stata dopo Petrarca privata dell’orgoglio
della scoperta, dei contatti piú freschi e magari piú bruschi dell’anima con le
circostanze episodiche della vita e, volendo ancora estendere il termine, con
l’inferno. Questa avventura è stata abolita, elisa per sempre dalla grande trasposizione lirica petrarchesca e rimane aperta, possibile per il poeta, solo
un’avventura minore che concerna i sensi», scriveva Luzi nel celebre intervento del 1945 L’inferno e il limbo (poi nel volume omonimo cit., pp. 16-25: 23).
Vd. Stefano Verdino, L’insoddisfazione di Mario Luzi, in Un’altra storia.
Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni,
2004, pp. 201-218. Sulla ricezione moderna di Petrarca si vedano anche
Roland Greene, Post-Petrarchism, Princeton, Univ. Press, 1991; Petrarch and
the European Lyric Tradition, a cura di Dino S. Cervigni, «Annali d’italianistica», 22, 2004.
24
to o un evento individuato,34 quotidiano, se non ignobile o
bizzarro – persino una cipolla, se intendiamo il son. di
Galeazzo di Tarsia Te, lagrimosa pianta, assembro a Amore, e
arriviamo cosí fino all’Oda a la cebolla di Pablo Neruda.35
Poi, anzi, simultaneamente, si fa di questa scheggia di realtà a sua volta un emblema, saturo di significato e di bellezza, nativamente materico e sensuoso ma all’arrivo purificato nel fuoco del pensiero e del mito. (Quindi del simbolo,
o piuttosto dell’allegoria, e non saremmo distanti dalla
grandiosa intuizione benjaminiana del barocco come salvazione dei fenomeni storico-naturali degradati in una apoteosi di morte e significato, se non per un deficit di quella
luttuosità radicale che invece connota, rispetto ai testi che
stiamo evocando, il Trauerspiel tedesco).36 Questa disposizione manierista e poi barocca a un sublime moderno può
avvicinare processi poetici non perfettamente sovrapponibili, come appunto l’estetizzazione in opera nel manieri34
In questo senso il processo poetico che stiamo descrivendo potrebbe
essere, molto cautamente, descritto come contrario al classicismo, se è vero che
«l’opera classica si distingue per un’economia interna che assegna alla verità
generale la supremazia sull’accidente e sul fatto», come scrive Victor L. Tapié in
Barocco e classicismo [1957], Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 20-21; anche se
poi è lo stesso Tapié a insistere piú volte nel suo celebre libro sulla necessità di
«comprendere che barocco e classicismo non costituiscono due stili impenetrabili» (ivi p. 89). Sull’onda lunga del classicismo che ingloba le alterità vd. recentemente Stefano Jossa, L’Italia letteraria, Bologna, il Mulino, 2006, passim.
35
E potremmo citare Caproni: «Una poesia dove non si nota nemmeno
un bicchiere o una stringa m’ha sempre messo in sospetto». Semplice realismo?
Sentiamo Mengaldo: «questa non mi sembra tanto un’insegna di “realismo”
quanto di “metafisica” (Auden l’avrebbe sottoscritta in pieno)». (Pier Vincenzo
Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, introduz. a Giorgio Caproni,
L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, cronologia e bibliografia a cura di Adele
Dei, Milano, Mondadori, 1998, pp. XI-XLIV: XL).
36
Il riferimento è ovviamente a Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco [1928], Torino, Einaudi, 1999, introduz. di Giulio Schiavoni, nuova ediz.
(precedentemente: Torino, Einaudi, 1971, postilla di Cesare Cases).
25
smo-barocco italiano e la fondazione della poesia metafisica inglese. Il sensuous thought di cui parla Eliot a proposito
di Donne e degli altri è appunto definizione detonante che
indica un processo di individuazione e di mentalizzazione,
di radicamento del logos nella carne. The flea,37 la celebre
pulce del Donne, risulta un esempio tra i piú citati e citabili, e la mente va a un dipinto altrettanto celebre di De la
Tour, una donna che si spulcia (Femme à la puce, 1638 o
giú di lí), ove però, nonostante la suggestione luministica,
l’immagine non sembra permettere lo sfondamento metafisico che la letteratura consente e quasi esige. Tra i “metafi37
Vd. John Donne, Liriche sacre e profane. Anatomia del mondo. Duello
della morte, a cura di Giorgio Melchiori, 1983, p. 56. L’immagine della pulce
in un sonetto amoroso già era reperibile in Watson: vd. Cesare G. Cecioni,
Thomas Watson e la tradizione petrarchista, Milano-Messina, Principato, 1969,
pp. 327-28. Anche Ronsard, nel sonetto Ha, seigneur dieu, que de graces écloses
(negli Amours del 1553), sognava di poter essere pulce per mordere il seno della
donna amata (vv. 11-14). Si arriverà al Rimbaud delle Chercheuses de poux, dove
«la sublimazione ha luogo in una direzione mitica» (Arthur Rimbaud, Opere, a
cura di Ivos Margoni, Milano, Feltrinelli, 1964, n. a p. 397; cfr. anche A. R.,
Opere complete, a cura di Antoine Adam e Mario Richter, Einaudi-Gallimard,
1992, pp. 184-185, 1059-1060). Pulci e pidocchi secenteschi italiani segnalati
in Elwert, La poesia lirica italiana del Seicento, cit., p. 35 e n. Sul petrarchismo
di Ronsard vd. Stefano Agosti, Petrarca e la modernità letteraria: una genealogia,
in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, cit., pp. 9-35: 29, 31; poi in
S. Agosti, Forme del testo. Linguistica semiologia psicoanalisi, Milano, Cisalpino,
2004, pp. 15-45. Questo intervento ad ampio respiro cronologico presuppone,
ovviamente, il volume fondativo dell’analisi petrarchesca di Agosti, Gli occhi le
chiome. Per una lettura psicoanalitica del Canzoniere di Petrarca, Milano,
Feltrinelli, 1993. Si vedano sempre i classici saggi di Agosti su Montale in
Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 69-102; vd.
anche la voce cortesemente critica di Aurelio Roncaglia, Testimonianza su due
sciacalli a Modena e un cavallo a Pavia, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di Simone Albonico, Andrea Comboni, Giorgio
Panizza, Claudio Vela, Milano, Fondaz. Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996,
pp. 661-670; Agosti ha risposto a Roncaglia con fermezza ed equilibrio: vd.
Forme del testo, cit., pp. 99-102.
26
sici” italiani pensiamo allora a Ciro di Pers e alle sue liriche
sulla calcolosi renale, dove un fasto funerario, marmorizzato, tombale, sprigiona pompe dagli ossalati di calcio delle
viscere. E fare altri esempi sarebbe troppo facile e inutile.
Dove arriva questa tradizione di un moderno sublime?
Non si ferma certo al Seicento. Dobbiamo pensare alla
fenomenologia di mitizzazione seria o ironica (ma il risultato è il medesimo) in ambito settecentesco, dal Pope al
Parini, e quindi a certo neoclassicismo, a Foscolo, fino a
Baudelaire, vero e proprio punto di nuova svolta,38 nonché
a Eliot e Montale. Quest’ultimo, consapevolmente, è il
maestro dell’occasione individua e assoluta a un tempo, ed
è forse l’ultimo poeta italiano che serba gelosamente ed orazianamente il registro alto, sublime, della poesia, proprio in
virtú dell’operazione fisico-metafisica di cui si è finora parlato. Tale procedimento, infatti, permette di assumere il
dato di realtà (linguisticamente resistente, irto e abrasivo
come la materia stessa) nei regni possibili, ma spesso falli38
Il poeta di Une charogne, dei Tableaux parisiens ecc. è davvero il ri-codificatore del moderno sublime di ascendenza manierista-barocca, il ri-funzionalizzatore supremo della linea che coglie nel prosaico anche grottesco l’ascensionalità mitico-simbolica. D’altronde già Erich Auerbach aveva chiarito perfettamente questa dinamica, solo che ne aveva enfatizzato l’assoluta novità retorica:
«Egli fu il primo ad esprimere in modo sublime dei soggetti che per il loro carattere non sembravano adatti a tale forma». Mi limiterei a correggere (nella mia
parvità rispetto all’autore di Mimesis!) l’indicazione della primazia incondizionata di Baudelaire, sottolineando invece il suo inserimento in una linea di lunga
durata, ove il moderno nasce fra Cinquecento e Seicento. Naturalmente ogni
perentoria riproposizione è una riformulazione, nella storia delle forme poetiche, per cui Baudelaire resta un rivoluzionario e un neo-capostipite. Il saggio di
Auerbach, «Les Fleurs du Mal» e il sublime, del 1951, è stato tradotto in italiano
per la prima volta come introduzione a Charles Baudelaire, I fiori del male, a
cura di Luigi Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. XV-XXXVI; la nostra citazione è a p. XX. Illuminante e documentata Tiziana De Rogatis, La «sensualità
ragionata» di Baudelaire, in Ead., Montale e il classicismo moderno, Pisa-Roma,
Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2002, pp. 157 sgg.
27
mentari, del metempirico. La cui eleatica compattezza si
presta a incrinature non indifferenti, quando il poeta esibisce la totale mancanza di certezze, ma ciò non toglie nulla
alla resa del sistema procedurale. D’altronde anche i poeti
dell’età di Donne vivevano una perdita di centro e sicurezze. Il loro grande interprete novecentesco, Eliot, ci ha dato,
a fianco dei saggi celebri sulla poesia metafisica (1921),
delle confessioni lucidissime in forma di commento a se
stesso che ci soccorrono forse piú di ogni altra testimonianza nel nostro percorso. Pensiamo alle parole della celebre
conferenza tenuta all’Istituto Italiano di Cultura a Londra
nel 1950, What Dante Means to Me:
Credo di aver imparato innanzitutto da Baudelaire un precedente, mai sviluppato da alcun poeta che scrivesse nella mia lingua, per le
possibilità poetiche degli aspetti piú sordidi delle metropoli moderne,
per la possibilità di fusione tra il sordidamente realistico e il fantasmagorico, la possibilità di unire il reale e il fantastico. Da lui, come da
Laforgue, ho imparato che il tipo di materiale che possedevo, il tipo di
esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana, potevano essere materia di poesia, e che si poteva trovare la fonte
di una poesia nuova in ciò che fino a quel momento era stato considerato impossibile, sterile, inadatto a esser trattato in forma poetica. Ho
imparato, infatti, che compito del poeta era far affiorare la poesia dalle
risorse inesplorate del non poetico; che al poeta, infatti, era affidato
dalla sua professione il compito di trasformare materiale non poetico in
poesia.39
La posizione aggettante di un Baudelaire come rifondatore moderno di una linea poetica della oggettualità
impura estetizzata ed epifanica non va disgiunta naturalmente dalla originaria paradigmaticità di Dante, la cui
39
T.S. Eliot, Opere, 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Milano,
Bompiani, 1993, pp. 948-49.
28
«immaginazione visiva», come sottolineava Eliot stesso nel
saggio dantesco del 1929, rappresenta il modello primo di
come il significato, il pensiero, la bellezza insomma scaturiscano limpidamente da natura ed esperienza. Ma su questo,
e sulle ripercussioni montaliane via Singleton e Irma
Brandeis, si è prodotta tale e tanta bibliografia da imporre
la reticenza. Tra Dante e Baudelaire, comunque, c’è la capitale esperienza della poesia metafisica inglese del Seicento
per la quale, mutato ciò che c’è da mutare, Eliot nel ’20
ebbe parole non troppo distanti da quelle sopra citate:
Un’idea era per Donne un’esperienza: ne modificava la sensibilità.
Quando la mente di un poeta è perfettamente attrezzata per il suo lavoro, amalgama continuamente le esperienze piú disparate; l’esperienza
dell’uomo comune è caotica, irregolare, frammentaria. Che s’innamori
o legga Spinoza, queste due esperienze non hanno nulla in comune col
rumore di una macchina da scrivere o con l’odore del cibo; nella mente
del poeta, queste esperienze non fanno che formare nuove unità.40
Pagine celebri, queste sulla «diretta e sensuosa appercezione del pensiero», sulla «rifondazione del pensiero nei
sensi».41 Ma c’è una lirica eliotiana che con sconcertante
impeto immaginale ci dà una perfetta esegesi del sensuous
thought in atto. È in Poems del 1920: ci permettiamo di
offrirla in una nostra traduzione:
Sussurri d’immortalità
Webster era invaso dalla morte
Sotto la cute scorgeva il cranio
40
T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, cit., p. 577
Ivi, p. 575. Vd., recentemente, Antonella Amato, Lawrence tra «Le occasioni» e «La bufera», «Allegoria», XVI, 2004, 47, pp. 22-46, dove si inserisce
appunto Lawrence nella linea teorica “metafisica” che lega Eliot a Montale.
41
29
E sotto la terra corpi scarniti
Arrovesciati con un ghigno senza labbra.
Bulbi di narciso al posto degli occhi
Fissavano sbarrati dalle orbite!
Sapeva che il pensiero s’attorciglia a morte membra
Stritolando la sua fastosa lussuria.
Donne, presumo, fu un altro di quelli
Che non trovarono alternativa al senso
Per cogliere, artigliare e penetrare;
Esperto oltre l’esperienza,
Seppe lo spasimo del midollo,
La febbre dello scheletro;
Nessun contatto possibile con la carne
Alleviava la febbre delle ossa.
Grishkin è bella: i suoi occhi russi
Hanno enfasi cosmetica;
senza busto, il caro petto
garantisce beatitudine pneumatica.
Il giaguaro brasiliano acquattato
Irretisce la scimmietta in fuga
Con sottili fusa di gatto;
Grishkin ha un quartierino;
Il lucido giaguaro brasiliano
Nel suo buio arboreo non distilla
Un afrore felino cosí acuto
Come Grishkin in un salotto.
E anche le Astratte Entità
Circonfondono il suo fascino;
30
Ma è nostra sorte strisciare tra aride costole
Per tenere al caldo la nostra metafisica.42
Mentre lo Webster della lirica sembra vedere ovunque,
a raggi x, immagine di morte (e si pensa al celebre sonetto
di Celio Magno), il Donne di Eliot è proprio uno della
genía di poeti che «found no substitute for sense». Per lui il
mondo sensibile, nella sua imprescindibilità, va però a tal
punto penetrato che ogni autentica esperienza è destinata
ad andare oltre l’esperienza («expert beyond experience»).
Donne conobbe la pulsione angosciosa a stringere il midollo di senso («he knew the anguish of the marrow»), la
autentica febbre ricorrente, malarica, dell’ansia di attingere
lo scheletro intimo («the ague of the skeleton»). Ci vuole
un flessuoso corpo felino da penetrare «to keep our metaphysics warm». Ci vuole carne per poterla scarnificare.
L’astrazione pura è fredda: necessita una incarnazione che
consenta una escarnazione. Rammentiamo il processo:
rifiuto dell’astrazione programmatica petrarchesca, ritorno
42
«Webster was much possessed by death / And saw the skull beneath the
skin; / And breastless creatures under ground / Leaned backward with a lipless
grin. // Daffodil bulbs instead of balls / Stared from the sockets of the eyes! /
He knew that thought clings round dead limbs / Tightening its lusts and luxuries. // Donne, I suppose, was such another / Who found no substitute for
sense, / To seize and clutch and penetrate; / Expert beyond experience, // He
knew the anguish of the marrow / The ague of the skeleton; / No contact possible to flesh / Allayed the fever of the bone. // Grishkin is nice: her Russian eye
/ Is underlined for emphasis; / Uncorseted, her friendly bust / Gives promise of
pneumatic bliss. // The couched Brazilian jaguar / Compels the scampering
marmoset / With subtle effluence of cat; / Grishkin has a maisonette; // The
sleek Brazilian jaguar / Does not in its arboreal gloom / Distil so rank a feline
smell / As Grishkin in a drawing-room. // And even the Abstract Entities /
Circumambulate her charm; / But our lot crawls between dry ribs / To keep
our metaphysics warm». Vd. T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, cit., pp. 530-32.
Sotto il nome di Grishkin dovrebbe celarsi la ballerina Serafima Astafieva, della
compagnia di Diaghilev, presentata a Eliot da Ezra Pound.
31
alla carne, alla materia, all’oggetto, al reale, per fare di tutta
questa empiria un falò gnoseologico alla ricerca dell’oltrefisico, del metafisico, dell’essenza spirituale, concettuale, del
logos, insomma. Verbumcaro e poi caroverbum.
Petrarchismo metafisico in quanto realismo metafisico.
Come sarà con Montale: l’astrazione delle rose e delle viole
(cioè “fiori”) si fa concreto girasole. L’individuo empirico
girasole è però subito emblema della tensione alla chiarità,
del vaporare in essenze, della morte. Il girasole è fisico, il
girasole è metafisico. Il girasole è umile, il girasole è sublime, mitico, simbolico. Prima di Montale si pensa ovviamente a Pascoli,43 vero protagonista della rivoluzione
(inconsapevole?) della lirica italiana novecentesca. E per
ricostruire una genealogia del moderno si dovrà allora risalire proprio allo snodo manierista-barocco, alla stagione fra
Cinquecento e Seicento. Quando la fondazione di un
moderno sublime in poesia si esplica nella estetizzazione,
mitizzazione, metafisicizzazione del prosaico empirico,
nella scelta del relativo e del reale identificati come veri
latori dell’assoluto e del simbolico. La bellezza si sprigiona
da dove non la si aspetta tradizionalmente. Da un reale che
è piú sorprendente dell’ideale. La verità è bellezza, è condizione di bellezza, insomma, a voler forzare un poco, per i
nostri fini, il verso celeberrimo di Keats.
A raccogliere una tradizione di estetizzazione e mitizzazione dell’oggetto moderno c’è un testimone della grande
narrativa novecentesca, esemplare in questa economia: pen43
Vd. fra l'altro lo storico saggio del 1958 di Luciano Anceschi, Pascoli
verso il Novecento, in Id., Barocco e Novecento con alcune prospettive fenomenologiche, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960, pp. 95-123, dove Pascoli è inserito
nella novecentesca couche di «poesia degli oggetti», in «una continuità di discorso poetico in cui è l'oggetto particolare a caricarsi della forza del simbolo, e non
il simbolo a farsi oggetto» (p. 114), asserto che possiamo sposare in toto (per
l'arrivo a Montale vd. poi p. 121).
32
siamo a Marcel Proust. Nella Recherche, un esempio in cui
culmina questa assunzione di immagini del nuovo, persino
tecnologico, in uno spazio di classicismo e splendore, è dato
dall’episodio dell’aeroplano in Sodome et Gomorrhe. Il
moderno è prosaico, impoetico? Giammai, è assumibile in
pieno nel cosmo del sublime. Cosí era accaduto per la locomotiva nella Stazione in un mattino d’autunno di Carducci,44
cosí accadeva con il nuovo sublime macchinistico dei
Futuristi. E cosí, se pure in modo diverso, accade per l’incontro di Marcel a cavallo con l’aeroplano. Proust, come scrive
Curtius, «traspone l’elemento materiale in quello spirituale.
[…] Riesce a rendere poetica la realtà, se si può dire; se si
intende in questo modo non un’aggiunta posteriore, ma una
restituzione, una ricostruzione della primitiva ricchezza dell’esperienza».45 Una reintegrazione del reale nel mito. Un
rifiuto dell’astrazione dall’empiria e dalla modernità, per
rifondare poi un sublime sull’esperienza. Per fondare nuove
epifanie, con perenne fede nella bellezza e nel significato
complesso del reale investito dei valori dell’io.
Tous à coup mon cheval se cabra; il avait entendu un bruit singulier, j’eus
peine à le maîtriser et à ne pas être jeté à terre, puis je levai le point d’oú
semblait venir ce bruit mes yeux pleins de larmes, et je vis à une cinquantaine de mètre au-dessus de moi, dans le soleil, entre deux grandes ailes
d’acier étincelant qui l’emportaient, un être dont la figure peu distincte
me parut ressembler à celle d’un homme. Je fus aussi ému que pouvait
l’être un Grec qui voyait pour la première fois un demi-dieu. Je pleurais
aussi, car j’étais prêt à pleurer du moment que j’avais reconnu que le bruit
44
Dove la partenza in treno era una complessa allusione al viaggio ad inferos: non molto differentemente opererà Caproni con le Stanze della funicolare,
esplicitando però il richiamo mitologico all'Erebo, a Proserpina, al «viaggio verso
la morte»; vd. Giorgio Caproni, L'opera in versi, cit., pp. 135-142 e l'autocommento a p. 1147.
45
Ernst Robert Curtius, Marcel Proust [1925], a cura di Lea Ritter Santini,
Bologna, il Mulino, 1985, p. 55.
33
venait d’au-dessus de ma tête – les aéroplanes étaient encore rares à cette
époque – à la pensée que ce que j’allais voir pour la première fois c’était
un aéroplane. Alors, comme quand on sent venir dans un journal une
parole émouvante, je n’attendais que d’avoir aperçu l’avion pour fondre
en larmes. Cependant l’aviateur sembla hésiter sur sa voie; je sentais
ouvertes devant lui – devant moi, si l’habitude ne m’avait pas fait prisonnier – toutes les routes de l’espace, de la vie; il poussa plus loin, plana
quelques instants au-dessus de la mer, puis prenant brusquement son
parti, semblant céder à quelque attraction inverse de celle de la pesanteur,
comme retournant dans sa patrie, d’un léger mouvement de ses ailes d’or
il piqua droit vers le ciel.46
L’incontro con l’aeroplano è l’irrompere di un semidio
nel paesaggio naturale predisposto a mitologie, come Proust
stesso indicava nelle righe precedenti al passo citato. Le lacrime accompagnano questa apparizione ad alto tasso di realtà
e prodigio: l’aeroplano punta diritto verso il cielo, nuovo
albatro già baudelairiano e melvilliano. L’oggetto fisico brutalmente moderno (al centro di una mistica primonovecentesca, fra D’annunzio e Saint-Exupéry) è cifra di una elevazione platonico-simbolista. «Il platonismo di Proust […] io
saprei confrontarlo soltanto con quello di Baudelaire. […]
Deve fondere prima tutta la materia, deve trasformarla e
sublimarla in un’alchimia spirituale prima di trasformarla
nella sua lingua». È ancora Curtius a parlare.47 E il secolo
ventesimo è brulicante di interstizi metafisici ed epifanici
46
Sodome et Gomorrhe, Paris, Gallimard, 1954, pp. 484-85. Vd. Marcel
Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. III, a cura di Luciano De Maria,
Alberto Beretta Anguissola, Daria Galateria, traduz. di Giovanni Raboni,
Milano, Mondadori, 1989, p. 274 e nn. (della Galateria) pp. 908 sg.
47
Marcel Proust, cit., pp. 106-107. Su essenzialismo e platonismo in Proust
pagine celebri in Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni [1964], Torino, Einaudi,
1967, pp. 42 sgg., 95 e passim. Anche Tilgher rilevava una «corrente platonica e
plotiniana» fra le componenti della poetica proustiana: cfr. Adriano Tilgher, Studi
di poetica, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1934, pp. 219 sgg.
34
nel reale. Vengono alla mente esemplificazioni quasi ovvie:
l’irrompere della claritas nel quotidiano con le «epiphanies»
di Joyce,48 i «moments of being» della Woolf,49 gli «unattended moments» di Eliot,50 le occasioni di Montale.51
Restiamo con Montale, dunque. E con un suo interprete fra i piú precoci e acuti, Sergio Solmi, che nel grande
saggio del 1957 riassumeva i termini del problema del “realismo” montaliano, un «realismo tanto piú illusorio quanto
piú intenso. […] Realismo paradossale, perché ogni qualificazione di luogo e di momento, quanto piú sensualmente
e incisivamente appresa e definita, […] è, lo sentiamo, indicazione di altro, materializzazione di un paesaggio interno
che si esteriorizza nel paesaggio sensibile, conservandogli,
proprio attraverso quell’estrema incisività, la sua funzione
emblematica. Passaggio dall’interno all’esterno, e viceversa».52 Realismo, insomma, come realista può essere definita
la lirica secentesca, marinista e metafisica, e già quella di
48
Vd. l'introduzione di Giorgio Melchiori a James Joyce, Epifanie (19001904), Milano, Mondadori, 1982, pp. 14 sgg.
49
«La Woolf è tanto consapevole del carattere astrattivo e poetico dei suoi
procedimenti, che resta ad ogni buon conto collegata alla realtà dei fatti e dei
luoghi, degli ambienti e del contesto, almeno come punto di partenza e di riferimento per le sue proiezioni narrative» (Sergio Perosa, prefazione a Virginia
Woolf, Romanzi e altro, Milano, Mondadori, 1978, p. XVI).
50
Vd. Four Quartets, III, 5, in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, cit., p. 378.
Laura Barile (Adorate mie larve. Montale e la poesia anglosassone, Bologna, il
Mulino, 1990) parla di convergenza, piú che di influenza, fra l'Eliot dei
Quartets e il terzo Montale (pp. 56 sgg.). Fra la bibliografia piú recente si veda
Simona Mancini, Montale ed Eliot attraverso la «Bufera» e i «Four Quartets»:
tempo, trascendenza e storia, «Quaderni del '900», II, 2002, pp. 71-88.
51
Su Montale e Proust si veda il libro, cosí titolato, di Angelo Fabrizi,
Firenze, Polistampa, 1999, in particolare il capitolo II, Dal “plaisir” al “miracolo” (ipotesi per «I limoni»), pp. 29-37, dove si evidenziano consonanze fra i due
scrittori in merito alla ricerca di varchi dal fisico al metafisico, mantenendo lucidamente la consapevolezza della distanza negli esiti (ritrovamento vs scacco).
52
Scrittori negli anni, Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 294-95.
35
secondo Cinquecento cui abbiamo alluso. Il ritorno alla
realtà e alla descrizione di essa, rispetto all’apriori derealistico del Petrarca e del mainstream petrarchista, è ancor piú
garantito in una poesia novecentesca, come quella montaliana, che viene dopo Baudelaire e Pascoli. Ma è descrizione che per la sua ossessione dell’empirico conduce di
nuovo alla rarefazione, se non alla nube dell’inconoscenza.
Lo metteva straordinariamente in luce Contini in una lettera a Montale:
Il descrittivo depone in genere per una grande felicità conoscitiva. Uno
è sicuro del mondo, ha fiducia nelle cose, può quietamente numerarle
una per una e riconoscerle al singolo piacere che prova. Il paradiso,
insomma, è descrittivo. Tuttavia – e questo è il punto – il descrittivo ha
da rimaner sempre in un certo “generico”; c’è un insuperabile limite di
vaghezza, di evocazione alla felicità; e a stringere troppo dappresso il
reale, c’è pericolo che il reale sparisca. Ora, tu negli Ossi manifestamente “esageri” in descrizioni; precisi all’estremo, nomini successivamente
con un certo delirio, incalzi a definire; con troppa insistenza perché
non si debba sospettare un’immane infelicità conoscitiva che, impotente a ricavare il piacere degli oggetti, lo surroga con un’imponente citazione quantitativa e con l’abbondanza dei particolari. Per questa discesa lungo l’albero di Porfirio, per quest’angosciosa esattezza tecnica io ho
parlato di poesia “dialettale”.53 E la tragedia è appunto qui: in una crisi
quanto mai “europea”, umana, prima, che ricorre al linguaggio piú
determinato, e quasi s’illude di risolvercisi.54
53
Vd. infatti il saggio del 1933 Introduzione a Eugenio Montale, poi in Id.,
Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un'appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, p. 67 («E il linguaggio preferito ricorre a
parole determinatissime, “dialettali” addirittura, diremmo»).
54
Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini,
a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1997, pp. 22-23, 24 giugno 1934;
«L'“albero di Porfirio” rappresenta, secondo il filosofo Porfirio di Tiro, seguace
di Plotino, la scala per cui dalla sfera passionale-pratica si sale alla pura contemplazione teoretica», spiega Isella alle pp. 17-18.
36
Contini, supremo esegeta del Petrarca, intuisce che la genericità descrittiva (araldico-emblematica, diremmo noi) è
garanzia di una certezza conoscitiva che quasi precede la
realtà stessa e cosí facendo la nientifica nello spazio soggettivo, assume nell’io il non-io, senza neppure osservarlo,
operando una astrazione a priori. L’operazione montaliana
(e di tutta la tradizione che stiamo indicando) è quella di
una discesa verso il basso dell’albero di Porfirio, per poi
risalire a posteriori verso le altezze, ma quasi simultaneamente.55 «A stringere troppo dappresso il reale, c’è pericolo
che il reale sparisca»: quale frase meglio di questa può illustrare il procedimento che ormai conosciamo, piú o meno?
Ovvero il distacco dalla grande matrice petrarchesca dell’astrazione a priori, per la resurrezione del reale piú materico e ruvido, dell’esperienza piú marginale, del fenomeno,
insomma, in una poesia che rifonde tutto questo in un piú
radicato e completo classicismo metafisico, noumenico,
teso ad ambigue essenze. Cerchiamo allora piú a fondo nel
dominio di questo «ambiguo e corroso petrarchismo
moderno» di Montale, come si esprime il Solmi.56
Sul piano delle intertestualità puntuali significative (e
soprattutto effettive), il vettore PetrarcapMontale non offre
grandi soddisfazioni. Molta generosa critica montaliana57 indi55
Sempre Contini, in una lettera del gennaio '34, scrivendo a Montale,
alludeva a chi «misura il linguaggio in base all'albero di Porfirio: piú è generico, piú è alto» (Eusebio e Trabucco, cit., p. 16).
56
Scrittori negli anni, cit., p. 296.
57
Ad esempio Giuseppe Savoca, Sul petrarchismo di Montale in Id., Parole
di Ungaretti e Montale, Roma, Bonacci, 1993, pp. 61-80; Tiziana Arvigo,
Guida alla lettura di Montale, Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2001; si veda
anche Giorgio Orelli, Accertamenti montaliani, Bologna, Il Mulino, 1984 ecc.
Naturalmente di “petrarchismo” montaliano si parla, piú o meno cursoriamente, in tanta letteratura critica, come ad esempio in saggi classici come D'arco
Silvio Avalle, «Gli orecchini» di Montale in Id., Tre saggi su Montale, Torino,
37
vidua liaisons se non citazioni già negli antipetrarchisti Ossi di
seppia, ma la messe si riduce a poco se ci limitiamo ai casi di
memoria certa o almeno probabile. Come, ad es., per Mia vita,
a te non chiedo lineamenti, dove ai vv. 3-4 la coniunctio oppositorum dolceamara non è generica ma è di fondazione petrarchesca: «lo stesso / sapore han miele e assenzio» < «e ’l mèl
amaro, et adolcir l’assentio» (Rvf 215, 14).58 Nel medesimo osso
il v. sg., «Il cuore che ogni moto tiene a vile», ha fatto pensare
a Rvf 128, 73 («tien caro altrui che tien sé cosí vile»), ma certo
la mediazione del Leopardi di A se stesso è determinante.
Risalendo all’osso precedente, Ripenso il tuo sorriso…, il verso
finale («schietto come la cima d’una giovinetta palma», detto
del ballerino Boris Kniaseff) ha provocato fra gli esegeti evocazioni plurime: Carducci, Dante59 ma soprattutto Petrarca e il
suo «lauro giovenetto et schietto» (Rvf 323, 26). Poi: il sintagma a fine verso «che ti scampi» (Arsenio 20; Casa sul mare 33
:campi) è chiara reminiscenza di Rvf 35, 5: «che mi scampi»,
celeberrimo. Infine: «Si struggono i pensieri» (Marezzo 24) <
«Se ’l pensier che mi strugge» (Rvf 125,1), incipit memorabile.
Einaudi, 1970, pp. 51 sg.; Pier Vincenzo Mengaldo, Da D'Annunzio a
Montale, in Id., La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati
Boringhieri, 1996, pp. 23 sg. ecc.; un accenno, ma prezioso, al petrarchismo
montaliano in Adelia Noferi, Le poetiche critiche novecentesche «sub specie
Petrarchae», nel volume di Ead. Le poetiche critiche novecentesche, Firenze, Le
Monnier, 1970, pp. 225-299. E ancora si veda Armando Balduino, Per un glossario montaliano [1974] in Id., Messaggi e problemi della letteratura contemporanea, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 13-29: 23 e n.; Mario Martelli, Le glosse dello
scoliasta. Pretesti montaliani, Firenze, Vallecchi, 1991, pp. 13, 17 ecc. Giulio
Ferroni ha parlato diffusamente di petrarchismo montaliano in un suo recente
intervento: A vaga de fundo do petrarquismo: Leopardi e Montale, in Petrarca
700 anos, a cura di Rita Marnoto, «Leonardo» 3, Coimbra, Instituto de
Estudios Italianos da Faculdade de Letras, 2005, pp. 79-100.
58
Cfr. anche Triumphus Cupidinis III, 187; per il nesso dolceamaro in
Petrarca mi permetto di rimandare al mio Contraposti. Petrarchismo e ossimoro
d'amore nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 97 sgg.
59
Arvigo, Guida…, cit., p. 94 n. 13.
38
Io mi fermerei sinceramente qui (dove altri appunto
non si fermano), e senza entusiasmi da raccolto pingue.
Qualcuno scorgerà qualcosa di piú eccitante, forse.
Naturalmente, a voler registrare echi assolutamente ipotetici e remoti, a notevole tasso di improbabilità, si potrebbe
procedere. Del tipo: «in mezzo al buio che precipita / e
muta il mezzogiorno in una notte» (Arsenio 34-35) < «po’
far chiara la notte, oscuro il giorno» (Rvf 215, 13); «Le notti
chiare erano tutte un’alba» (Valmorbia 9) < «Quando la sera
scaccia il chiaro giorno, / et le tenebre nostre altrui fanno
alba» (Rvf 22, 13-14) ecc., cosí futilmente continuando.
Nella zona piú dichiaratamente “petrarchesca” dell’opera in versi montaliana, cioè Le occasioni60 e soprattutto
Finisterre, il canzoniere61 (piú franto che compatto, ovviamente) per una assente-presente si modula sulla falsariga
della lirica d’amore occidentale, quella del paradosso e dello
scacco, ove Petrarca la fa da maestro assoluto, come tutti
sanno. Ma, ed è sposabile notazione del Savoca, «dopo gli
Ossi di seppia le reminiscenze petrarchesche vanno diradan60
La scelta stessa di occasioni, cioè micro-eventi trasfigurabili in chiave
metafisica e sublime, identifica, come s'è detto, una precisa linea di petrarchismo, se pure deviante in parte dal modello, per cui rimando a una pagina folgorante di Gilberto Lonardi in Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale,
Bologna, Zanichelli, 1980, p. 125, 96. Di una «metamorfosi del segno dall'aneddotico al metafisico» o, talora, «dall'apparentemente aneddotico al
cosmico» scrive anche Emerico Giachery, Metamorfosi dell'orto e altri scritti
montaliani, Roma, Bonacci, 1985, p. 58 e n. 37. In diversa prospettiva si veda
poi Angelo Marchese, Leopardi, Montale e la poesia metafisica, in Id., Amico dell'invisibile. La personalità e la poesia di Eugenio Montale, Torino, SEI, 1996, pp.
212-221 (cfr. anche pp. 141-142). Leggo il secondo libro di Montale nell'edizione commentata da Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996. Cosí per Finisterre
(ivi 2003). Per gli Ossi si ricorre ora all'edizione a cura di Piero Cataldi e
Floriana D'Amely, Milano, Mondadori, 2003. Altrimenti il fondamento è OV.
61
Vd. recentemente Niccolò Scaffai, Montale e il libro di poesia, Lucca,
maria pacini fazzi, 2002.
39
dosi».62 Cioè, quando il petrarchismo in senso lato si fa
tematico, le tessere petrarchesche paiono decadere.
Inversamente, negli Ossi modeste tessere petrarchesche
c’erano, ma non facevano sistema e non si intelaiavano in
una topica petrarchista. Cosí, a voler sempre rastremare la
raccolta intertestuale fino a un succo piú garantito (o
quasi), troviamo qualcosa in Finisterre come ad es.: «i desiderî / porto fin che al tuo lampo non si struggono» (Gli
orecchini 7-8) < «e ’l chiaro lampo / che l’abbaglia et lo
strugge» (Rvf 221, 6-7); la solita eco di Solo e pensoso in
Personae separatae 11, «a terra stampi»; la non certissima
derivazione di «ti stellano / gli amuleti» (Il tuo volo 2-3) da
espressioni come «li occhi sereni et le stellanti ciglia» (Rvf
200, 9), «per adornarne i suoi stellanti chiostri» (Rvf 309,
4); schegge instabili come il verbo inostrare (Il ventaglio 7)
o come l’aloè (Serenata indiana 3) che potrebbero essere
autorizzate da Rvf 192, 5 («’mperla e ’nostra», coppia topica, e Montale ha al v. 9 «la madreperla»), 360, 24 («molto
aloè con fele»). D’altra parte, anche sul versante tematico e
strutturale, non è solo, anzi, non è tanto Petrarca ad agire
sulla “trama” di Occasioni-Finisterre: c’è sempre Dante a
spodestare la seconda corona aurea, con la passione e morte
di Beatrice nella Vita nova e la sua ricomparsa al termine
del Purgatorio, accigliata e severa, in canti ben cari ad
Eugenio.63
Tuttavia, come ognun sa, è proprio Montale a parlare
di petrarchismo per Finisterre: «Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo cosí, petrarchesca. Ho proiettato la
62
Savoca, Sul petrarchismo…, cit., p. 75.
«Dicasi una volta per sempre che di petrarchesco (anche il poeta parla di suo
petrarchismo) nel canzoniere montaliano c'è solo, diciamo, la parte alta, che è poi
dantesca»: Oreste Macrí, Esegesi del terzo libro di Montale [1968] in Id., La vita
della parola. Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, pp.143-209: 165-166.
63
40
Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole)
dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre,
senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna
o nube, angelo o procellaria».64 A rileggere queste sempre
citate parole verrebbe da fare almeno una considerazione. E
cioè: l’incidentale «diciamo cosí» conferisce all’attributo
«petrarchesca» un valore generico, quasi categoriale piú che
puntuale. Tanto è vero che fra le madonne evocate da
Montale troviamo l’amata di Cino, un’altra di Cavalcanti e
la Délie di Scève. Ovvero prima e dopo Laura di Petrarca.
(Non c’è neppure Beatrice, ma sarà per colto snobismo).
Come a dire che stilnovismo (quindi implicitamente
Dante, che se l’è inventato) e petrarchismo son piú petrarcheschi di Petrarca.
Nel cosiddetto quarto Montale (in realtà, come sta
emergendo, e come ogni lettore può verificare, assai meno
compatto di quanto sembrasse),65 Petrarca risulta assai latitante; tuttavia, fra gli Altri versi, c’è quella magnifica pensosa elegia retrospettiva per Clizia, Poiché la vita fugge, che
esordisce proprio con una eco dal sapore inconfondibilmente petrarchesco, e ostende la miscela di motivo amoroso post-mortem e di meditazione de fuga temporis che identifica obbligatoriamente il modello lirico trecentesco. Ma
su questa vicenda è bene tacere, dopo lo splendido saggio
di Rosanna Bettarini, luce-in-tenebre per l’esegesi.66
Stabilito che la poesia di Montale si pone linguistica64
Dall'intervista immaginaria del 1946, ora in SM III, p. 1483. Vd., nella
sterminata bibliografia in proposito, la smaltata sintesi introduttiva di Dante
Isella al suo commento di Finisterre cit., p. XVII.
65
Vd. ad es., di recente, Francesco De Rosa, Scansioni dell'ultimo Montale,
in Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di Maria Antonietta Grignani
e Romano Luperini, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 47-72.
66
Rosanna Bettarini, Clizia e la vita che fugge, in Echi di memoria. Scritti
di varia filologia, critica e linguistica in ricordo di Giorgio Chiarini, a cura di
Gaetano Chiappini, Firenze, Alinea, 1998, pp. 255-263. A p. 259 si segnala
41
mente sulla grande linea dell’antipetrarchismo, e quindi
del dantismo plurilinguistico, che aveva visto fra Otto e
Novecento un protagonista in Pascoli e un modello opposto in Leopardi, resta da intendere il particolare “petrarchismo” montaliano (dichiarato esplicitamente a proposito del canzoniere per Clizia). In certi luoghi di riflessione
Montale faceva coincidere grosso modo poesia pura con
poesia metafisica (che altrove distinguerà, autoinserendosi nella seconda)67 e la collocava in Italia nel solco del
petrarchismo: «In parole povere si può dire che con essi [i
poeti inglesi contemporanei e “impuri” come Auden] tramonti o si oscuri il regno della poesia pura: una poesia che
da noi si acclimatò tardi e forse durerà piú a lungo in Italia
l'indicazione di una variante di prima stesura nella lirica Luni e altro: «Per me
petrarchizzante come tu dici / esiste solo il girasole, Clizia», dove il petrarchismo montaliano si connota per scelta metaforica ovidiana, analoga cioè a quella dafneo-laurana dei Fragmenta (quest'ultima del resto non estranea a
Montale, come sa chiunque abbia letto Incontro negli Ossi e poi Annetta nel
Diario del '72, per cui rimando all'ottimo Vinicio Pacca, «La foce del Bisagno»:
un'immagine montaliana, «Rivista di letteratura italiana», XII, 1994, 2-3, 42940: 436 sgg.). Nessuno dimentica poi che la miscela fuoco-ghiaccio di Clizia,
iscritta nel nome della Brandeis, rimanda necessariamente a uno dei preferiti
oxymora petrarcheschi (vd. ancora Contraposti…, cit., pp. 163 sgg.). Per la tensione degli opposti in Montale vd. Andrea Gareffi, Mondale. La casa dei doganieri, Roma, Edizioni Studium, 2000, particolarmente i capp. IV e V.
67
Pensiamo in proposito a pagine peraltro citatissime e celeberrime: «Se
per poesia pura si intende quella di estrazione mallarmeana io non appartengo
a quella corrente. Non è che io la respinga a priori, solo me ne dichiaro estraneo. C'è stata però, a partire da Baudelaire e da un certo Browning, e talora
dalla loro confluenza, una corrente di poesia non realistica, non romantica e
nemmeno strettamente decadente, che molto all'ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco. […] Resti inteso che io non tengo molto nemmeno al cartello di metafisico, perché l'area di questa poesia è estremamente
incerta. Tutta l'arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della
ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica. La poesia
religiosa occupa un territorio molto vicino» (1960, SM III p. 1604-1605, c.vo
mio. Vd. anche ivi pp. 1606, 1618).
42
che altrove perché trova un naturale innesto nel tronco
della tradizione petrarchesca. Sarebbe dunque morta quella poesia pura che, largamente intesa, dovrebbe includere i
nomi di Baudelaire e di Hopkins, di Yeats e di Valéry».68
Ogni poesia pura è dunque affiliabile, alla lontana, al
petrarchismo: cosí potremmo semplificare. E la linea
“metafisica”, per quanto talora distinguibile da quella
“pura”, risulta comunque storicamente, se abbiamo visto
bene, una rigorosa estremizzazione del petrarchismo, un
petrarchismo deviante che pesca nel reale anche prosaico,
ma che poi assolutizza in modo ancor piú trascendente gli
enti-oggetti-emblemi, magari avvicinandosi al trascendente religioso, e spesso rinunciando al monolinguismo. A
voler fare nomi, si può scialare: da Donne a Hopkins, da
Michelangelo69 a Eliot, da Gryphius a Benn, da Hölderlin70
a Rilke, da Shakespeare e Góngora71 alla «confluenza»
68
SM I, p. 1412: si tratta di una recensione del 1952 all'edizione delle
Poesie di Wystan Hugh Auden a cura di Carlo Izzo, per i tipi di Guanda. Si noti
che i quattro poeti citati da Montale per esemplificare la linea “pura” ricompaiono anche nelle liste rappresentative della linea “metafisica”. Su Montale
“impuro” vd. recentemente Gilberto Lonardi, Il fiore dell'addio. Leonora,
Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale, Bologna, Il
Mulino, 2003, pp. 61 sgg.
69
Nella cui poesia Montale rileva, correttamente, la presenza di Petrarca
(SM II, p. 3042, scritto del 1976). Montale non manca di individuare implicitamente consonanze con l'amato Shakespeare dei sonetti; quando poi cita la
celebre quartina Caro m'è il sonno, e piú l'esser di sasso, pensiamo a Palio v. 40:
«grava ora un sonno di sasso». Mario Praz paragonava invece Michelangelo a
Donne: cfr. John Donne e la poesia del suo tempo, saggio del 1931, poi in Id.,
Machiavelli e l'Inghilterra ed altri saggi, Roma, Tumminelli, 1942, pp. 235-237.
70
Genericamente affiancato a Petrarca per esemplificare grandi poeti non
spontanei (SM I, p. 1199: testo del 1951).
71
Il cui aspetto “metafisico” è colto ovviamente anche da un “petrarchista
puro” come Ungaretti: vd. Góngora al lume d'oggi, 1951, in Giuseppe
Ungaretti, Vita d'un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e
43
Baudelaire-Browning,72 o a un Machado,73 da Crashaw74 alla
Dickinson, e persino da Foscolo75 a un Valéry recuperato
alla linea “metafisica” ecc.76 E in questa dorsale secolare,
Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974, pp. 528-550: 529, 532, 540. Vd.
poi Ungaretti e il Barocco. Testi e problemi, a cura di Alexandra Zingone, Firenze,
Passigli, 2003, particolarmente l'intervento della curatrice, pp. 77 sgg.; Niva
Lorenzini, Ungaretti - Petrarca - Gòngora: per una rilettura, in Un'altra storia.
Petrarca nel Novecento italiano, cit., pp. 131-141; Maria Antonietta Sirte,
Ungaretti traduttore di Gòngora. Tradurre poesia: un miracolo difficile, Firenze,
Firenze Atheneum, 2004 (bibliografia pp. 264-265); Monica Savoca, Gòngora
al lume di Ungaretti: dalla traduzione alla poesia, in Giuseppe Ungaretti. Identità
e metamorfosi, a cura di Lia Fava Guzzetta, Rosario Gennaro, Maria Luisi,
Franco Musarra, Lucca, Maria Pazini Fazzi, 2005, pp. 385-400. Sul petrarchismo secondo Ungaretti e sui rapporti con Góngora, Shakespeare, il Barocco,
importante il rimando a Daniela Baroncini, Ungaretti e il sentimento del classico, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 107-156. Da rileggere le straordinarie pagine di Carlo Ossola, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, il
Mulino, 1988, pp. 215, 231 sgg.
72
Per dichiarazioni, probabilmente depistanti, di Montale che nega di
conoscere bene Browning e ne dà valutazioni poco lusinghiere, vd. PR p. 1097;
cfr. Martelli, Le glosse dello scoliasta, cit., p. 99. Sugli influssi browninghiani in
Montale fondamentali pagine hanno scritto, come è noto, Gilberto Lonardi nel
Vecchio e il giovane, cit., e Laura Barile in Adorate mie larve, cit.
73
Su cui Montale dà un giudizio di eccellenza nel panorama europeo e
soprattutto ispanico moderno: vd. una sintesi delle sue valutazioni in merito
in Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura hispánica Roma, Bulzoni,
1986, pp. 44-46.
74
Vd. l'edizione Isella delle Occasioni, cit., p. 31, nota a Cave d'autunno
7-8 (vd. anche pp. 149, 185).
75
Assai ammirato da Montale, come è noto. Vd. Ettore Bonora,
Conversando con Montale, Milano, Rizzoli, 1983, p. 102. Tutta la poesia Tempi
di Bellosguardo nelle Occasioni è percorsa da un sottotesto foscoliano, fra i
Sepolcri e le Grazie: vd. le note di Isella nell'ediz. cit. ai vv. II, 28 sgg. e III, 1921. Sulla presenza di Foscolo in Montale restano basilari le pagine di Lonardi
in Il Vecchio e il Giovane, cit.: 52-54, 94-100, 124-129 ecc. Si registrano in
merito le perplessità di Mengaldo, di cui vd. La tradizione del Novecento,
Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, pp. 174 sg.
76
Si veda ora, davvero fondamentale, Tiziana De Rogatis, Montale e il
44
vaga e incerta quanto si vuole e si deve, come no, ci sta pure
Dante, per taluni l’archimandrita, poeta nella Commedia
della carne che si fa spirito, della materia che si fa simbolo,
della storicità che si fa figura e cosí via (precisamente via
Singleton e via Auerbach) nonché il Dante delle petrose77 e
di altre liriche, insomma un Dante via Eliot. E però un
dantismo che sa recuperare il suo opposto, Petrarca. Un
caos? Forse non proprio, o meglio, un caosmo da cui si
genera una bellezza, cioè la prassi poetica montaliana, cioè
qualcosa di ineludibile. Ecco che allora non si può parlare
del petrarchismo (a questo punto non piú antipetrarchismo) di Montale senza parlare del suo dantismo. E concludere provvisoriamente che nella lirica di Montale abbiamo
sostanzialmente un dantismo delle parole e un petrarchismo
degli emblemi.78 Gli oggetti, cioè, sono linguisticamente
classicismo moderno, cit. Si sa anche di un Montale irritato dall'accostamento,
operato da alcuni recensori, della sua prima poesia a quella di Valéry, come si
desume da lettere a Linati e a Solmi: cfr. E. Montale, Caro Maestro e Amico.
Carteggio con Valery Larbaud (1926-1937), a cura di Marco Sonzogni, Milano,
Archinto, 2003, p. 37 n. 7; vd. anche Stefano Verdino, Storia delle riviste genovesi da Morasso a Pound (1892-1945), Genova, La Quercia Edizioni, 1993, p.
74 n. 42. In una lettera a Irma Brandeis del 10 gennaio 1934 Montale dichiara: «I'm not very fond of P. Valéry» (E. M., Lettere a Clizia, a cura di Rosanna
Bettarini, Gloria Manghetti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p.
49). Per l'influenza di Valéry sulla lirica Stanze, vd. Martelli, Le glosse dello scoliasta, cit., pp. 27-42. Sempre dell'ottima De Rogatis si veda poi «Personae separatae» di Eugenio Montale: l'ambivalenza dell'incarnazione, «Per leggere», IV,
2004, 7, pp. 53-89.
77
Vd. il saggio di Claudio Scarpati Tra lo Stilnovo e le «petrose» in Id., Sulla
cultura di Montale, Milano, Vita e Pensiero, 1997, soprattutto pp. 50-53.
78
È stato il Bonfiglioli a suggerire la compresenza in Montale di un plurilinguismo con un monostilismo, da cui deriva un «petrarchismo contraddittorio»: cit. in Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, cit., pp. 113-114 n. 164.
Vd. Pietro Bonfiglioli, Pascoli e Montale, in Studi per il centenario della nascita
di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, I, Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1962, pp. 219-243: 235-36.
45
definiti, concreti e pascolianamente e antileopardianamente individuati (agave erbaspada girasole piuttosto che rose
viole ecc.),79 ma si trasformano nuovamente in emblemi
assoluti e metafisici, dopo il bagno nella screziatura linguistica, nel correlativo lessicale della «bellezza cangiante» hopkinsiana. Individuazione e poi subito nuova astrazione simbolica. Un pluralismo che scivola (vapora?) nel monismo
metempirico (pure popolato di fallimenti). Uno scandaglio
plurilinguistico nel non-io differenziato per procedere
simultaneamente su un asse verticale di essenze. La perlustrazione di un reale irto con la certezza che nulla è reale (e
che comunque ogni prodigio del piú in là abortisce costituzionalmente). Montale insomma sta con la lingua di Dante
e con l’astrazione di Petrarca. Con la lingua del poeta che
discorre dalla merda alla rosa e con l’astrazione del poeta
che simultaneizza il ghiaccio e la rosa.80 Due tecniche apparentemente opposte, in realtà maneggiabili su piani diversi
79
O meglio, quercia, ginepro, barbagianni piuttosto che albero, siepe,
augello, come scrive Montale stesso nel 1949: vd. SM I, p. 870. Altro cumulo che
disconnette il petrarchismo “puro”: «rospo fiore erba scoglio - / quercia» (in Hai
dato il mio nome a un albero? Non è poco, secondo pezzo dei Madrigali privati
della Bufera). È la Volpe, antipetrarchista, che nominando crea, e l'erba petrarchesca convive con lo scoglio manierista e il rospo barocco.
80
«I' vidi 'l ghiaccio e lí stesso la rosa», Triumphus Temporis 49 (cito dall'edizione, a cura di Carlo Calcaterra, che uscí nel 1923 per la UTET). Il
Petrarca piú “metafisico” è certo quello degli ultimi Trionfi, del tempo e dell'eternità, dove la figuratività emblematica si prosciuga fino a una poesia di
concetti che può far quasi pensare a Eliot («Il Paradiso di Petrarca assomiglia a
una landa desolata che neppure il finale trionfo delle anime beate riesce a restituire alla vita», scrive suggestivamente Marco Santagata nell'introduzione a F.
P., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca e
Laura Paolino, Milano, Mondadori, 1996, pp. L-LI). Anche il Calcaterra rivalutava gli ultimi canti trionfali del Petrarca, se pure in chiave di «alto lirismo»
(introduz. all'ediz. cit., p. LVIII). Si può dire cosí che pure il Petrarca percepisse «il pensiero con la stessa immediatezza del profumo di una rosa»? (espressione di Eliot, nel celebre saggio del '21 sui metafisici inglesi del Seicento: vd. T.S.
46
entrambe. In questo davvero c’è poesia metafisica, quella
storica del pensiero sensuoso, della sensualità ragionata. Di un
petrarchismo che tradisce il modello rivolgendosi all’empiria, anche a quella piú umile e grottesca (la famosa pulce di
Donne),81 per riassumerla poi subito in un universo di trasfigurazione e simbolizzazione. È qui la nascita del moderno? Fra manierismo e barocco? Parte da qui la grande
vicenda di un nuovo sublime e di un realismo metafisico
che arriva a Foscolo, a Baudelaire, a Eliot, a Montale?82 Vien
voglia di rispondere di sí. Un moderno che si fonda su una
eresia del petrarchismo e che però torna a Petrarca, cioè
all’astrazione e all’estetizzazione inestricabili, dopo aver
spalancato le porte alla realtà e all’esperienza.83
Infine. Se volessimo ripescare la comoda ma perigliosa
dicotomia petrarchismo/dantismo applicata al duo
Saba/Montale nel Novecento (Montale stesso parla di una
Eliot, Opere, 1904-1939, cit., p. 577). Certo è che passi eliotiani, ad es. dai
supremi Four Quartets, possono essere genealogicamente collocati nel solco del
Triumphus Eternitatis del Petrarca. Una tradizione di poesia di pensiero sul
tempo che conosce ovviamente occasioni barocche; citiamo ad es. Quevedo,
son. ¡Fue sueño ayer; mañana sera tierra!, vv. 9-10.
81
Piú volte evocata, anche ironicamente, da Montale: vd. ad es. OV pp.
634, 695, 701.
82
Imprescindibili le notazioni di Luigi Blasucci in Gli oggetti di Montale,
Bologna, il Mulino, 2002, p. 59.
83
D'altronde la storia del classicismo europeo è una vicenda di petrarchismo (o petrarchismi), fino all'Ottocento, di un petrarchismo che rimane basico anche quando sembra negarsi, come abbiamo indicato all'inizio di questo
capitolo. Nel codice petrarchesco volgare, in sostanza, ci sono già le falsarighe
per tutte le deviazioni possibili, non ultima quella della «sottile evoluzione
raziocinativa (the argumentative, subtle evolution) della lirica», come indicava il
Grierson per la poesia metafisica, riportato da Mario Praz, John Donne e la poesia del suo tempo, cit., p. 224 (vd. H. J. Grierson, Metaphysical Lyrics and Poems
of the Seventeenth Century, Oxford, Clarendon Press, 1921, p. XV: tutti testi
ben presenti a Montale, insieme col fondamentale Secentismo e marinismo in
Inghilterra, Firenze, Edizioni della Voce, 1925, sempre del Praz).
47
poesia moderna “facile” vs “metafisica”, distinzione peraltro
da non irrigidire),84 sarà interessante andare a scompigliarla
magari rilevando in Arsenio una memoria complessa, puntuale e figurativa, della poesia di Trieste e una donna dal
titolo L’ora nostra, dove si descrive «l’ora che precede il crepuscolo» con un «altissimo tono», una tensione ed elevazione graditissime a Eugenio in veste di recensore.85 Proprio
nel cruciale saggio montaliano del giugno 1926, vengono
espressamente citati alcuni versi di L’ora nostra che conviene parzialmente riportare: «tutto appare / fermo nell’atto,
tutto questo andare / ha una parvenza d’immobilità».86 È
evidente quanto questi accenti siano vicini al Montale di
Arsenio (22-23: «immoto andare, oh troppo noto / delirio,
Arsenio, d’immobilità…»). Sul piano figurativo anche altre
coincidenze, se pur piú vaghe, si possono rinvenire: si pensi
a immagini sabiane come «e si vede / la gente mareggiare
nelle strade»; «l’ora che la mia vita in piena va / come un
fiume al suo mare»; «il lesto camminare della folla». Certo,
questi esiti descrittivi del «classicismo ingenuo» sabiano (è
espressione ancora di Montale) sono lontani dalla convulsa
grondante grandiosità apocalittica di Arsenio. Ma Montale
cerca nel solo apparentemente facile triestino proprio
quell’«altissimo tono» che sembri smentire ogni ipotesi di
musa pedestre o meramente nativa. Cerca un po’ di
Montale in Saba,87e talora lo trova persino nelle Canzonette,
in versi (che riporta) come: «…l’azzurro del cielo / caldo
84
Vd. SM I, p. 118.
SM I, p. 120.
86
Si veda la lirica in Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara,
introduz. di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 1994, p. 103.
87
E Saba se ne era accorto, lamentandosene con Giacomo Debenedetti
(«non fare come il buon Montale il quale ha parlato di tutto… fuori che dell'autore del quale stava parlando») e con Montale stesso, il quale scrive a Svevo:
«Ho pubblicato […] sette colonne di lodi a Saba e ho ricevuto dal poeta una
lettera molto molto piquée, in cui afferma che non ho parlato affatto di lui ma
85
48
pomeridiano; // un falco, ormai lontano…».88 Sarà allora da
perlustrare89 il quadro dei possibili prestiti sabiani in
Montale, particolarmente negli Ossi, magari anche soltanto
fonici, sull’onda di una medesima elazione classicista. Ad
es. «Come d’un balzo arrovesciata preda» (Il fanciullo) >
«Arremba su la strinata proda»?
di me stesso (!!!)» (Lettere di Umberto Saba a Eugenio Montale con una nota di
Maria Antonietta Grignani, «Autografo», I, 1984, 3, pp. 57-73: 70). La lettera
in questione di Saba a Montale è pubblicata in La crisi di una generazione nel
carteggio di Saba (1925-1926). Lettere inedite a Montale, Debenedetti,
Prezzolini, Ojetti, a cura di Aglaia Paoletti, «Nuova Antologia», 126, 1991, 4,
pp. 394-451: 429-430. Vd. anche Caro Maestro e Amico, cit., pp. 68-69 n. 23;
Roberto Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso. Note senza testo. Lettere editoriali. Lettere a Montale, Milano, Adelphi, 1984, p. 371; Chiara Maraschio, Lo
scrittore e il suo critico. Italo Svevo ed Eugenio Montale, «Filologia antica e
moderna», XIV, 2004, pp. 137-57: 143 sgg.
88
SM I, p. 124: Saba, Tutte le poesie, cit., p. 238. Per il rapporto MontaleSaba mi limito a citare Lanfranco Caretti, Il Saba di Montale, in Id., Montale,
e altri, Napoli, Morano, 1987 (saggio del '78); Alessandra Galletto, La “nuova
cosa” di Saba e il “miracolo” di Montale, «Il Cristallo», I, 1995, pp. 61-68.
89
Sul paradigma delle storiche suggestioni offerte da Lonardi, Il Vecchio e
il Giovane, cit.
49
Postilla al lume dei capelli
Prendiamo avvio da un verso, di quelli memorabili, di Du
Bellay, Olive, son. 71, ouverture:
Le crespe honneur de cet or blondissant…
La chevelure petrarchesca si è rappresa in un oro puro.
Gli è che «la topique du portrait atteint ses limites puisque
l'usage métaphorique s'impose comme un absolu. Du Bellay
renchérit sur le modèle, ce qui est le propre du manierisme.
Le sonnet en acquiert de la grandeur, je ne sais quel pouvoir
oraculaire, un dire mallarméen qui place le corps féminin
dans une allure préservé».90
Qualcosa di analogo rilevava Luigi Baldacci a proposito
delle liriche di Berardino Rota: «Di questa base petrarchistica
il Rota svilupperà infatti i dati espressivi piú chiusi nei termini della metafora e le metafore acquisteranno in lui valore di
cifra. Linguaggio imaginifico dunque e al tempo stesso congelato in simboli che hanno perduto ogni apparenza propria
per assumere un significato quasi astratto. Per questa disposizione le chiome d'oro diventeranno, in una rapida traduzione,
oro semplicemente; il ruscello non sarà piú liquido cristallo
con ancora una preoccupazione di didascalia, ma senz'altro
cristallo, e l'acqua sarà onda: cosí vedremo nel madr. Celeste
donna l'oro immerso nel cristallo e spiegato al sole».91 Tuttavia
90
André Gendre, La Pléiade entre Bembo et l'Arioste, «Italique», VI, 2003,
pp. 10-36: 24.
91
Lirici del Cinquecento, a cura di Luigi Baldacci, Milano, Longanesi,
1984 (prima ediz. 1975), p. 515.
50
la rarefazione, anzi congelamento, del sistema metaforico
in cifratura astrattissima è elemento “eterodosso” già
incluso preziosamente nel modello, che genera in sé la
deviazione da sé medesimo, come sempre. Il modello è
Petrarca, ovviamente: si pensa a versi come «Candido leggiadretto et caro guanto / che copria netto avorio et fresche rose» (Rvf 199, 9-10), o all'allegorizzazione celeberrima di Rvf 325: «Muri eran d'alabastro, e 'l tetto d'oro, /
d'avorio uscio, et fenestre di zaffiro» (16-17), o ancora:
«tessendo un cerchio a l'oro terso e crespo» (160, 14).
Pochi esempi, ma chiari a illuminare e ribadire che l'effort
manieristico si dà volontariamente voluttuosamente (di
una voluttà disperata, piú o meno) su cellule del paradigma, quei Fragmenta che contengono l'ordine e il principio
del disordine, o meglio la sobrietà e il sintomo dell'ebbrezza, la limpidezza e la seduzione complessa, la marmoreità e l'incrostazione. Ma forse l'esempio che adduceva
Baldacci non è dei piú perfetti, in questo sentiero di assolutizzazione del linguaggio metaforico che aspirerebbe a
una non referenzialità diciamo per comodità mallarmeana.92 Ecco il madrigale rotiano:
Celeste donna in bel sembiante humano,
A riva d'un ruscel puro e lucente,
Bagnava l'oro e lo spiegava al sole:
Invitommi al cristallo, e con la mano
Spargendo l'onda m'arse dolcemente
E m'ancise di morte che non dole,
92
Un esempio piú calzante potrebbe essere invece il madrigale di Cesare
Rinaldi Con le tue bianche perle, e coi vermigli che apre la stampa ferrarese del
1588 di Madrigali del bolognese: vd. Salvatore Ritrovato, «Per te non di te
canto». I madrigali di Cesare Rinaldi, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2005, p.
37: «Prive di identità referenziale, le immagini diventano cifre emblematiche
dell'universo erotico».
51
E disse: «Se nol sai, queste son l'acque
In cui Venere bella al mondo nacque».93
«Si tratta della trasfigurazione mitologica di un atto quotidiano», annota l'ottimo editore moderno. E infatti siamo
qui difronte a uno dei numerosi esempi di quell'elaborazione mitizzante ed estetizzante di un dato empirico, di
quella sublimazione nuova per stile e per complicazione
figurativa, metaforica, emblematica, mitica, talora metafisica, di eventi non sublimi in sé, anzi, talora quasi prosaici. La conosciamo, questa fenomenologia squisitamente
“manierista”, secondo-cinquecentesca, che si salda poi alla
fioritura barocca, fondando in parte il moderno in poesia.
Un moderno che rinuncia all'apriori del linguaggio tradizionale petrarchesco e petrarchista (erbe ombre antri onde
acque pietra inindividuate) per ritrovare gli assoluti e l'assoluta bellezza solo dopo una apertura alle cose, all'empiria, anche alle vicende piú compromesse con la quotidianità e il reale. Quindi un moderno che trova bellezza metafisica solo in un aposteriori, facendo vibrare nel reale una
dinamica ascensionale sublimante non rinunciando però a
guardarlo, quel reale, anche trito, e a farlo fruttare poeticamente. Ecco che il madrigale del Rota racconta, cioè osserva e riporta qualcosa di umilmente empirico e individuo,
per fare di questo racconto simultaneamente un canto (per
quanto con tutte le componenti epigrammatiche del caso).
La donna bagna i suoi capelli nel fiume, poi li asciuga al
sole; quindi invita il poeta ad avvicinarsi alle acque, anzi,
giocosamente lo spruzza con la mano, bruciandolo come
da topos ben assestato tradizionalmente (e carissimo al
Rota). Infine gli dice: quest'acqua che scorre e con cui ti
ho bagnato, quest'acqua di un fiume in cui ho lavato i miei
93
Berardino Rota, Rime, a cura di Luca Milite, Parma, Guanda
(Fondazione Pietro Bembo), 2000, pp. 151-152.
52
capelli, questo grumo di realtà semplice, insomma, è invero un paesaggio divino, è acqua feconda di mito, l'acqua in
cui è nata Venere. Venere nasce in un momento dove il
mito sembra antipodico, dove la bellezza sublime sembra
non trovare un habitat. E invece no, in quel fattarello persino leggero e umoroso si insedia un messaggio d'amore
ossimorico-petrarchesco, si produce una mitogenesi, si
dischiude una imperiosa culta bellezza. Allora ecco che
l'asintoto mallarmeano è come risucchiato dal realismo
sublimato, che segna la genealogia di una grande linea
poetica, quella, se vogliamo denominarla, della poesia fisico-metafisica, di un nuovo sublime, di un realismo metafisico, di una mitopoiesi moderna, di un petrarchismo
metafisico, anzi. Ove per metafisico si intenda non già un
apriori del linguaggio che prescinde dalle cose perché ne è
sempre precedente e alieno, bensí un linguaggio che è frutto dell'incontro con la realtà da cui trarre semi di ideale
bellezza e significato. Non archetipi, ma cose, che generano in sé la trasfigurazione che non le nega ma le esalta in
una capacità epifanica.
D'altra parte la congestione metaforica, di cui parlava suggestivamente Baldacci, stemperata come dicevamo
noi dall'”occasione” che la precede e la determina, può
inverarsi in luoghi esemplari del manierismo lirico ancor
piú conglomeranti. Non riesco a non pensare a una mia
ossessione (già evocata fuggevolmente al cap. precedente), quella canzone sul salasso di madonna scritta dal
grande Giambattista Pigna, nel Ben divino, dove leggiamo versi quali:
Da leggiadretto avorio e terso e vago,
Ch'alabastro sostien, ne la cui cima
Dolce concento spira,
E dolce lume gira,
Che i cori arde e sublima
53
Con rai, perle e rubin (celeste imago!),
Scende (chi ne sospira?)
Quasi d'ebano un fil vivo lucente.
Davvero in questi versi il lettore, se non fosse minuziosamente avvertito dalla rubrica, stenterebbe a riconoscere autonomamente la descrizione del piede d'avorio di madonna, che
sostiene tutto il corpo alabastrino fino al volto ed è attraversato da una vena sottile colore dell'ebano, che presto il flebotomo andrà ad incidere per il salasso! Stesso rilievo quello che
compie l'interprete del son. di Du Bellay evocato in apertura: «un lecteur non averti, tombant par hasard sur ces vers,
n'en comprendrait pas le sens».94 C'è però una differenza non
da poco. Il sonetto del francese, elenco supremo di bellezze
tutte espresse da metaforizzanti senza i metaforizzati, è estraneo all'operazione fisico-metafisica che cerchiamo di mettere
in luce. È invece interno alla purificazione emblematica,
all'apriori del linguaggio poetico che si genera dal Petrarca
“ortodosso”, quindi è esempio di petrarchismo puro, che per
comodità nomenclatoria distinguiamo dal petrarchismo
metafisico (o neosublime, o realismo mitizzante ecc. ecc.). Il
petrarchismo puro e quello realistico-metafisico (entrambi
petrarchismi perché entrambi solidamente o per barlumi
presenti nel modello) non definiscono necessariamente un
poeta o l'altro, anche se ne possono indicare la preferenza
ideologica e quindi lo stile piú individuale. Definiscono invece due funzioni poetiche, quindi trasversali, di lunghissima
durata, insomma. Quel che ci preme sottolineare è che il realismo metafisico in poesia ci sembra segnare una grande
discontinuità e quindi essere una delle novità caratterizzanti
il moderno. Ed è il manierismo, col suo sviluppo pieno nel
barocco, la culla genealogica di questo modo poetico, pronto a scendere fino a nuovi corifei a noi piú prossimi come
94
54
Gendre, La Pléiade…, cit., p. 24
Baudelaire, Rilke, Eliot, Montale. Una novità che nasce dentro la tradizione, come vuole d'altronde la migliore e piú funzionale descrizione del manierismo lirico: inquietudine interna al labirinto, modificazione del sistema dall'interno,
appunto.95 E il labirinto-sistema è Petrarca.
Due funzioni, insomma, ove finora l'esempio francese
può rappresentare uno smagliante campione della poesia
pura in direzione mallarmeana, i due esempi italiani possono
invece valere da luoghi tipici della poesia sublimante, mitizzante, infine metafisica. Una giusta volontà di documentazione mi trarrebbe a moltiplicare le esemplificazioni in area
italiana ed europea. In altre occasioni è stato fatto; ora preferirei limitare l'utile, non idiota erudizione e isolare soltanto
pochi excerpta da caricare ermeneuticamente (non sovrinterpretare, mi auguro). Scendiamo cronologicamente alle foci
barocche, di cui il Rota iuxta Baldacci poteva essere uno dei
tanti prodromi. Un celebre sonetto di Quevedo si apre ancora sull'oro crespo dei capelli della donna amata:
En crespa tempestad del oro undoso
Nada golfos96 de luz ardiente y pura
95
Implicito il rimando ad Amedeo Quondam, La parola nel labirinto,
Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Laterza, 1975.
96
L'uso metaforico del termine golfo nella tradizione lirica, che io sappia,
non è troppo frequente; mi soccorre un rimando a Orlando furioso VII, 27, 5-6:
«Or sino agli occhi ben nuota nel golfo / de le delizie e de le cose belle», relativamente ad Astolfo che affoga nel desiderio per Alcina. Naturalmente il Marino del
sonetto Onde dorate, sulla donna che si pettina, imitando-plagiando Lope de
Vega (Por las ondas del mar de unos cabellos) non si lascia perdere l'occasione di
evocare un «ricco naufragio» in cui è «di diamante lo scoglio, e 'l golfo d'oro»
(Giambattista Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza,
1913, p. 78): vd. Maurice Molho, Semantica e poetica. Góngora, Quevedo [1977],
Bologna, il Mulino, 1991, p. 190 e tutto il capitolo nono, La chioma di Lisi: «En
crespa tempestad del oro undoso», pp. 187-232. Importante, sul motivo della chioma in area iberica, anche il saggio di Maria Grazia Profeti in Ead., Quevedo: la
scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 65-102.
55
Mi corazón, sediento de hermosura,
Si el cabello deslazas generoso.
Leandro, en mar de fuego proceloso,
Su amor ostenta, su vivir apura;
Ícaro, en senda de oro mal segura,
Arde sus alas por morir glorioso.
Con pretensión de fénix, encendidas
Sus esperanzas, que difuntas lloro,
Intenta que su muerte engendre vidas.
Avaro y rico y pobre, en el tesoro
El castigo y la hambre imita a Midas,
Tántalo en fugitiva fuente de oro.97
La rubrica spiega: «Affetti vari del suo cuore, fluttuando nelle
onde dei capelli di Lisi». Mi sia permesso offrire una traduzione:
In crespa tempestà dell'oro ondoso
Nuota golfi di luce ardente e pura
Il cuore mio, assetando di bellezza,
Se il capello dislacci generoso.
Leandro, in mar di foco procelloso,
Suo amore ostenta, suo vivere sgombra;
Icaro, in aureo sentiero malsicuro,
arde sue ali per morir glorioso.
Con pretesa di Fenice combuste
Sue speranze, che defunte piango,
S'ingegna che sua morte acquisti vite.
97
Francisco De Quevedo, Obra poética, a cura di José Manuel Blecua, I,
Madrid, Castalia, 1969, pp. 644-645 (n. 449).
56
Avaro e ricco e spoglio nel tesoro
Il castigo e la fame imita a Mida,
Tantalo in fuggitiva fonte d'oro.
La celebrazione del crine crespo e dorato, procedente dalla fissazione del campione petrarchesco attraverso
tutte le piú autorizzate replicazioni petrarchiste, da
Bembo (Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura) a Du
Bellay (cfr. supra) a Tasso (Su l'ampia fronte il crespo oro
lucente) fino appunto a questo Quevedo, è una storia
infinita nella lirica occidentale. Nella prima quartina del
sonetto appena proposto, però, accade qualcosa di
nuovo. Agglomerando le metafore in catena, si assiste
all'astrazione splendida di un nuoto in golfi tempestosi
d'oro liquido, luce acquatica, in un regime di assolutizzazione dei tropi che conduce nella stessa direzione del
verso di Du Bellay, cioè nella direzione che porta a
Mallarmé, quella di un azzeramento referenziale e di una
esaltazione della preziosità delle idee e dei segni che prescindono dal reale. Le parole non sono ancelle delle res,
sono emblemi perennemente metaforici ma non piú
metaforici di alcunché, se non significanti la propria stessa bellezza araldica, o meglio espressivi di una condizione metempirica abbacinata della poesia. Le parole, accecate, preziose, sono strumento dell'hyperbole mallarmeana (Prose pour Des Esseintes v. 1). Ma, ed è un ma enorme, il quarto verso del sonetto di Quevedo modifica
sostanzialmente quanto detto finora. Si el cabello deslazas
generoso. Il golfo d'oro è ancorato a un evento radicalmente terrestre e concreto. La donna, Lisi, sta sciogliendo la propria chioma. È poco (intendiamo poco rispetto
a maggiori definizioni di racconto, come in Rota o in
Pigna o in molti altri che per ora non citiamo), è un verso
soltanto, ma è sufficiente per collocare i precedenti e
seguenti versi del sonetto in una casella che non è quella
57
di Du Bellay, di Mallarmé e del petrarchismo puro. Siamo
infatti difronte a una poesia di realismo metafisico, di
petrarchismo fisico-metafisico, siamo insomma al cospetto
della elaborazione ipertrofica, sublimante e poi mitizzante,
di un semplice gesto individuo: lo slacciare i capelli. Non
si pensi che si voglia qui cavillare: un dettaglio può essere
un sisma, e soprattutto può ingannare. Quevedo in questo
caso indica chiaramente, col verso 4 e con la rubrica, che
sta facendo poesia di paradisiaca bellezza e di concrescenza mitologica su un semplice evento occasionale: el cabello
deslazas generoso. Un altro poeta come Góngora, ad esempio, in un sonetto del 1607, opera in modo piú tradizionale, esplicitando da subito l'occasione concreta (la donna
si pettina) e allargandone l'implicazione da umile evento
quotidiano a fatto che riguarda la Spagna, l'Oriente e
l'Occidente, l'Oceano da attraversare:
A Doña Brianda De La Cerda
Al Sol peinaba Clori sus cabellos
Con peine de marfil, con mano bella;
Mas no se parecía el peine en ella
Como se obscurecía el Sol en ellos.
Cogió sus lazos de oro, y al cogellos,
Segunda mayor luz descubrió, aquella
Delante quien el Sol es una estrella,
Y esfera España de sus rayos bellos.
Divinos ojos, que en su dulce Oriente
Dan luz al mundo, quitan luz al cielo,
Y espera idolatrallos Occidente.
Esto Amor solicita con su vuelo,
58
Que en tanto mar será un arpón luciente
De la Cerda inmortal mortal anzuelo.
Clori al Sol pettinava i suoi capelli
Con pettine d'avorio e mano bella:
Non vi splendeva piú il pettine in ella
Di quanto si oscurava il Sole in loro.
Raccolse i lacci d'oro, ed al raccôrli
Seconda maggior luce scoprí, quella
Dinnanzi a cui il Sole è una stella,
E sfera Spagna dei suoi raggi belli.
Divini occhi: nel loro dolce Oriente
Dan luce al mondo, levan luce al cielo,
E spera idolatrarli l'Occidente.
Questo Amore reclama col suo volo:
che in tanto mar sarà arpione lucente
della Cerda98 immortale amo mortale.
98
In lingua spagnola cerda vale per 'crine', da cui il gioco non traducibile.
Citiamo da Luis De Góngora, I sonetti, a cura di Giulia Poggi, Roma, Salerno
ed., 1997, pp. 222-224. L'altro sonetto gongorino quasi gemello, Peinaba al sol
Belisa sus cabellos (ivi p. 234), presenta la prima quartina pressoché identica e la
seconda ricca di invenzioni metaforiche e ossimoriche che sublimano il dato di
attesa che la donna riannodi i capelli sciolti: « En cuanto, pues, estuvo sin
cogellos, / el cristal sólo, cuyo margen huella, / bebía de una y otra dulce estrella / en tinieblas de oro rayos bellos». Anche qui, prima l'informazione microepisodica ('Finché poi rimase senza raccogliere i capelli'), poi l'escussione dei
tropi assoluti, oscuri ma decifrabili, fra cui supreme le 'tenebre d'oro' causate
dai capelli che oscurano parzialmente gli occhi-stelle. Quanto al 'cristallo',
Giulia Poggi annota: «lo specchio o, vista l'ambientazione pastorale del sonetto, un ruscello sui cui bordi si situa la donna cantata» (p. 235).
59
La dedicataria era in procinto di partire per il Messico,
all'estremo Occidente, da cui questo incredibile slargamento marino, amoroso-geografico, un vero e proprio volo cui
probabilmente si ispirerà il Mallarmé della Chevelure, su cui
vedi infra.
Con l'esempio quevediano verifichiamo come una sottile accentuazione evenemenziale (si el cabello…) conferisca
un senso preciso, di realtà metafisica, al prodotto poetico,
anche se la notazione determinante è piccola, come piccolo è quel si dal valore temporale. L'elaborazione di elementi di realtà piú umili e quasi grotteschi, assolutamente e
prosaicamente moderni, è fenomeno frequente nella poesia
tra Cinque e Seicento, come si sa, e costituisce per noi una
delle connotazioni piú qualificanti del manierismo lirico.
Scendiamo allora a una chioma assai piú imbarazzante con
un sonetto di Shakespeare, il n. 68:
Thus is his cheek the map of days outworn,
When beauty lived and died as flowers do now,
Before these bastard signs of fair were born,
Or durst inhabit on a living brow;
Before the golden tresses of the dead,
The right of sepulchres, were shorn away,
To live a second life on second head,
Ere beauty's dead fleece made another gay.
In him those holy antique hours are seen
Without all ornament, itself and true,
Making no summer of another's green,
Robbing no old to dress his beauty new;
And him as for a map doth Nature store,
To show false Art what beauty was of yore.99
99
William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano,
Rizzoli, 1991, p. 68. Per l'analogo spunto tematico, l'ottimo commentatore
rimanda anche a Mercante di Venezia III, ii, 92-96.
60
Ne offriamo la celebre traduzione di Ungaretti:100
La sua guancia mappa delinea dei giorni d'una volta
Quando bellezza aveva l'alba e morte, uso dei fiori,
Quando non nati ancora, segni bastardi d'attrazione
Non ardivano farsi seggio su una fronte vivente,
Quando le trecce d'oro della morte,
Diritto dei sepolcri, non erano recise né asportate
Perché un'altra vita godessero su una seconda testa,
Quando il vello della bellezza, morto non rallegrava:
In lui vedrete ancora quelle ore antiche e sante
Prive d'ogni ornamento, quando bellezza era se stessa e vera
E non conseguiva l'estate togliendo il verde altrui
E non rubava per rifarsi nuova, il decaduto;
Va conservando lui Natura come opportuna mappa
Per segnalare alla falsa Arte, la bellezza d'un tempo.
In relazione al topos della parrucca fatta con capelli di
cadavere, Ungaretti coglieva acutamente la natura
moderno-metafisica della poesia manierista: «A quali
effetti d'arte, poi, potesse concorrere un accorto sfruttamento d'un fatto d'attualità, ora il fatto dell'uso invalso
di portare parrucche di capelli rossi, recidendoli ai cadaveri, perché erano del colore di quelli della Regina - con
invidia, chi si diletti di espressioni atroci vedrebbe in uno
dei Sonetti, il Sonetto LXVIII, dove l'autore raggiunge, collegando di malumore il tema dell'invecchiamento a quello della naturalezza, un'originalità avvicinata
nelle opere plastiche da un Rembrandt e da un Goya
e anche, nei giorni recenti, dal nostro Scipione.
Sono elementi gotici che vengono a contaminare e a rende100
Giuseppe Ungaretti, 40 sonetti di Shakespeare, Milano, Mondadori,
1946 (rist. 1998), p. 79; il pezzo era già presente nell'edizione di 22 sonetti:
Roma, Documento, 1944
61
re acre l'ispirazione di Petrarchismo rinascimentale, sono
particolari, tratti, per investirli di valore morale, dall'osservazione minuta della realtà oggettiva».101 L'allusione agli
«elementi gotici» può far pensare alla proposta storiografico-letteraria che sarà di Weise,102 ovvero di una continuità
di tardogotico “cortigiano” quattrocentesco e di manierismo cinquecentesco. Mi è capitato altrove103 di sostenere
che la novità secondocinquecentesca, nella ripresa di topiche già anche cortigiane pre-bembiane, è soprattutto nell'operazione di sublimazione, nell'elazione stilistica, nel
fare di un piccolo evento materiale un'occasione di mitopoiesi e canto supremo (oltre che nell'effettivo allargamento, poi barocco, del materiale inventivo). Fatto stilistico,
certo, ma perciò ideologico-poetico, fatto di forma che è
contenuto di pensiero e orgoglio di discontinuità storica,
giacché lo stile sono gli uomini, sia detto una volta per
tutte. E questi uomini, contemporanei di Shakespeare, piú
o meno, immergono le braccia nel materiale talora sconcertante della «realtà oggettiva», per intriderlo di «valore
morale», come si esprime nitidamente Ungaretti (poeta
“puro” ma con sensibilità vibratile). Poeti che cavano
moralità da quanto di piú modesto e parvificante offra il
reale, cavano bellezza da una caduta o uno svenimento
della donna amata, cavano metafisica, diremmo noi, da
una farfalla o una pulce. O da una chioma di morti che i
vivi si pongono in capo, ornamento immorale di macabra
innaturalezza, «chimico splendore» e «falso oro», come
ribadirà un riecheggiatore del locus, Giovan Leone
101
Significato dei sonetti di Shakespeare [1946-1962], in Vita d'un uomo.
Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano,
Mondadori, 1974, pp. 551-570: 551, 558.
102
Georg Weise, Manierismo e letteratura, Firenze, Olschki, 1976.
103
Giú verso l'alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, pp.
141-43, 185 sgg., p. 200.
62
Sempronio.104 Un posticciato moderno e sepolcrale cui contrapporre la vera chioma, fremente, vivente, pronta a slacciarsi generosa. Una chioma comunque reale, per quanto di
reale può offrire la letteratura, e non solamente una chioma
emblema, astratto-aprioristica, puramente araldica in seno
a un linguaggio che preceda e disdegni ogni chioma empirica, morta o viva che sia. Insomma, nonostante tutto che
di ideale in senso platonico ci sia nella bellezza del fair
youth, tuttavia il sonetto di Shakespeare si costruisce su un
pretesto di attualità e si àncora a una verità “moderna”.
È per questo che potremmo commentare l'opposta
dinamica di petrarchismo puro e realismo metafisico
attingendo per entrambe alla teorizzazione di un Federico
Zuccari, relativa all'arte, con l'ausilio classico di Panofsky
(Idea, capitolo sul Manierismo). Leggiamo un brano
dall'Idea de' pittori, scultori ed architetti e sostituiamo
mentalmente la «mattematica» con il modo della purezza
aprioristica:
Ma dico bene, e so che dico il vero, che l'arte della pittura non
piglia i suoi principî, né ha necessità alcuna di ricorrere alle mattematiche scienze, ad imparare regole e modi alcuni per l'arte sua, né anco
per poterne ragionare in speculazione; però non è di lei figliuola, ma
104
Nel son. Amanti, alcun non fia che mai s'accenda, presente ad es. in
Lirici marinisti, a cura di Giovanni Getto, Torino, UTET, 1962, p. 207 (vd. La
Selva poetica Sonetti di Gio. Leone Sempronio urbinate, Bologna 1648, p. 105).
Si rammenti anche il son. «Per le capelliere posticce» di Giacomo Lubrano (vd.
Scintille poetiche, a cura di Marzio Pieri, Ravenna, Longo, 1982, p. 60).
Naturalmente dietro a queste occorrenze “modernistiche” fra Cinque e
Seicento c'è sempre la memoria di modelli classici, come ad es. l'Ovidio di
Amores I, 14, 45, dove il poeta lamenta che la sua donna debba ricorrere a parrucche di capelli di prigioniere germane: «Nunc tibi captivos mittet Germania
crines». Su aspetti di “modernità” dell'elegia classica, seducente la lettura di
Paul Veyne, La poesia, l'amore, l'occidente. L'elegia erotica romana [1983],
Bologna, il Mulino, 1985.
63
bensí della Natura e del Disegno. L'una gli mostra la forma, l'altra gli
insegna ad operare. Sicché il pittore, oltre i primi principî ed
ammaestramenti avuti da' suoi predecessori, oppure dalla Natura
stessa, dal giudizio stesso naturale con buona diligenza ed osservazione del bello e buono diventa valent'uomo senz'altro ajuto o bisogno
della mattematica.105
Da una parte l'astrazione della matematica (o della
purezza poetica del linguaggio assoluto) che precede e
guida il fare artistico, dall'altra la priorità dell'attingere alla
Natura, all'esperienza, alla realtà, per costruire la bellezza.
Due maniere che sono anche due maniere poetiche, come
abbiamo finora esperito. Ma la tradizione estetica in cui si
inserisce lo Zuccari, al di là della polemica anti-matematica, è piuttosto quella dell'idea interiore, scintilla divina, che
pre-determina e addirittura crea la realtà. «Non la percezione sensibile produce il formarsi delle Idee, bensí il formarsi delle Idee mette in attività (mediante l'immaginazione) la
percezione sensibile: i sensi non sono chiamati in aiuto che
per chiarire ed animare le rappresentazioni interiori. […]
Senza che sia negata la necessità della percezione sensibile
vien tuttavia restituito all'Idea il suo carattere aprioristico e
metafisico».106 Ed ecco allora che in questa parafrasi panofskyana del pensiero dello Zuccari troviamo una possibile
consapevolezza teorica utile per definire l'idealismo petrarchista, il petrarchismo puro (in questo caso metafisico nel
senso appunto aprioristico, mentre noi usiamo il termine
metafisico nella sua accezione dantesco-eliotiana di precedenza del sensibile sul sovrasensibile, di edificazione poetica del sovrasensibile sul sensibile). E in ambito artistico, per
pensare a un modello opposto all'idealismo di tipo neopla105
Erwin Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell'estetica [1924],
Scandicci, La Nuova Italia, 19962, p.116
106
Ivi, pp. 54-55: corsivi nel testo.
64
tonico, basti riflettere all'opera primosecentesca di un
Caravaggio o di un De La Tour. Ma il rischio qui è notevole, per complessità dei problemi (vanno tenuti distinti
terminologicamente e concettualmente, a mio parere,
manierismo pittorico e manierismo poetico) e per incompetenza di chi scrive, talché sarà meglio sorvolare.107
Al lume dei capelli femminili, la divaricazione di una
poesia di sublimazione del reale da un'altra di astrazione
aprioristica e purezza è ben rappresentata, nell'Ottocento
europeo, dalle due piú celebri chevelures: quella di
Baudelaire e quella di Mallarmé.108 La prima descrive una
immersione, fantastica ed evocativa, nell'oceano d'ebano
della capigliatura della donna amata: la chioma contiene
una pluralità di mondi, è essa stessa una totalità esotica,
c'è une hémisphère dans une chevelure, come suona il titolo della XVII prosa dello Spleen de Paris, perfetto doublet
della lirica delle Fleurs.109 Ma l'écart del viaggio immaginoso è ancora una volta ancorato alla situazione reale di
partenza:
Ô toison, moutonnant jusque sur l'encolure!
Ô boucles! Ô parfum chargé de nonchaloir!
Extase! Pour peupler ce soir l'alcôve obscure
Des souvenirs dormant dans cette chevelure,
Je la veux agiter dans l'air comme un mouchoir.
107
Sul manierismo pittorico rimando all'intelligenza di Antonio Pinelli,
La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino,
Einaudi, 1993.
108
La dicotomia esemplare fra le poetiche di Baudelaire/Mallarmé, cui
far corrispondere la contrapposizione Montale/Ungaretti, è riproposta convincentemente da Stefano Giovanardi, La tentazione metafisica, in Giorgio
Bàrberi Squarotti, Niva Lorenzini, S. G., (Im)pure tracce. Caratteri della poesia italiana del Novecento, Milano, Unicopli, 2006, pp. 61-80.
109
Vd. Charles Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di Claude Pichois,
I, Paris, Gallimard, 1975, pp. 300, 1321-22.
65
La prima strofa designa un hic et nunc da cui far sgorgare un mondo subiettivo estatico di immaginazioni: ce soir,
nella alcôve obscure avverrà l'elevazione, o meglio l'espansione orizzontale oceanica verso un esotismo metafisico, mercé
il profumo dei capelli che invitano al viaggio. È dunque nell'oscurità greve aromatica della stanza da letto, in una sera
d'amore, che avviene l'evasione verso un paradiso.
Baudelaire non smentisce il proprio ruolo di massimo rappresentante della modernità poetica, quella modernità del
realismo metafisico che nasceva col manierismo europeo.
Tutt'altra maniera di poesia quella che anima la Chevelure
mallarmeana, circa trent'anni dopo. Il sonetto apparve incastonato in una prosa poetica, La Déclaration foraine, nel 1887.
Con il linguaggio chiuso e smaltato che è proprio dell'autore,
vi si intuisce una situazione quasi surreale: il poeta, a passeggio con l'amata Méry Laurent, finisce nel bel mezzo di una
chiassosa fiera, dove la donna sale capricciosamente su un
tavolo ed esibisce la sua straordinaria bellezza al pubblico in
attesa di qualche evento. Ecco che allora il poeta recita una
poesia, La chevelure, ottenendo l'applauso degli astanti.110
La chevelure vol d'une flamme à l'extrême
Occident de désirs pour la tout déployer
Se pose (je dirais mourir un diadème)
Vers le front couronné son ancien foyer
Mais sans or soupirer que cette vive nue
110
Vd. il testo della lirica e il ricco commento in Stéphane Mallarmé,
Poesie, a cura di Luciana Frezza, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 100, 220 sgg. Per
la prosa, vd. S. Mallarmé, Opere, a cura di Francesco Piselli, Milano, Lerici,
1963, poi S. Mallarmé, Poesie e prose, a cura di Valeria Ramacciotti, Milano,
Garzanti, 1992 (rist. 2005), pp. 220-29, ed ora S.M., Oeuvres complètes, II, a
cura di Bertrand Marchal, Paris, Gallimard, 2003, pp. 93-98. La Déclaration
apparve nel volume di Divagations del 1897.
66
L'ignition du feu toujours intérieur
Originellement la seule continue
Dans le joyau de l'œil véridique ou rieur
Une nudité de héros tendre diffame
Celle qui ne mouvant astre ni feux au doigt
Rien qu'à simplifier avec gloire la femme
Accomplit par son chef fulgurante l'exploit
De semer de rubis111 le doute qu'elle écorche
Ainsi qu'une joyeuse et tutélaire torche
La chioma
La chioma volo d'una fiamma all'ultimo
Occidente di desiri per dispiegarla tutta
Si posa (io direi morire un diadema)
alla fronte coronata suo antico nido
Ma senza altr'oro esalare che questa viva nube
L'ignizione del fuoco sempre interno
Dalle origini la sola ininterrotta
Nel gioiello dell'occhio veridico o burlone
Una nudità d'eroe tenero diffama
Colei che non movendo astro né fuoco al dito
Solo a semplificare in gloria la donna
Compie col capo suo folgorante l'impresa
Di seminar rubini nel dubbio ch'ella escoria
Come gioiosa e tutelare torcia
111
Omaggio evidente alla Chevelure di Baudelaire, dove si legge ai vv. 4041: «ma main dans ta crinière lourde / sémera le rubis, le perle et le saphir».
67
L'interpretazione del sonetto (metricamente all'inglese,
elisabettiano) è ardua, come ogni volta che si tenti l'esegesi
di un poema mallarmeano; certo è che si glorifica qui l'imperiosa e assoluta bellezza femminile attraverso la celebrazione di una chioma che, al modo di quelle classiche
(Berenice), compie un volo quasi stellare e ritorna poi a
morire e compiersi, diadema feniceo, sulla fronte della
donna. «Un evento puramente ideale», come suona un
autorevole commento.112 Una superba astrazione di fiammeggiante preziosità, interamente irrelata da qualsiasi dato
empirico. Anche inserendo la poesia nel suo contesto originario della Déclaration foraine, non otteniamo nulla di
simile al movimento fisico-metafisico della linea poetica
alternativa a quella pura. Infatti la prosa pseudo-narrativa è
anch'essa una negazione della realtà, una criptica allusione
continuata a qualcosa di simbolico prima di essere reale,
con un depauperamento anzi di ogni evenemenzialità a
favore di una autonomia del linguaggio dai suoi referenti.
E comunque la lirica non ha bisogno della macro-rubrica
prosastica (che avrebbe bisogno a sua volta di una “rubrica”
esegetica per essere intesa), vive in una sua ulteriore autonomia di spettacolare non-evento ideale, congerie di
emblemi puri articolati in una sintassi intellettuale che privilegia l'assolutezza estetica rispetto alla definizione umana.
Anche il povero héros tendre, neoclassico e impotente alterego del poeta, cerca di cantare quell'universo araldico e folgorante, ma non può che diffamer la perfezione sbalzata in
una dimensione inarrivabile. A quale estremo occidente di
stupenda disumanità è giunto il petrarchismo puro che nel
Canzoniere aveva trovato fondazione!
Tuttavia, a conferma del fatto che anche in un poeta
tendenzialmente puro come Mallarmé, anzi paradigmaticamente puro, sia dato trovare testimonianze del diverso
112
68
Di Luciana Frezza, nell'ediz. cit. a p. 222.
modo di porsi metafisico, osserviamo un altro sonetto, del
1885, Victorieusement fui le suicide beau, dove ricompare il
motivo della chioma femminile con il suo carico di greve
splendore:
Victorieusement fui le suicide beau
Tison de gloire, sang par écume, or, tempête !
Ô rire si là-bas une pourpre s'apprête
A ne tendre113 royal que mon absent tombeau.
Quoi ! de tout cet éclat pas même le lambeau
S'attarde, il est minuit, à l'ombre qui nous fête
Excepté qu'un trésor présomptueux de tête
Verse son caressé nonchaloir sans flambeau,
La tienne si toujours le délice ! la tienne
Oui seule qui du ciel évanoui retienne
Un peu de puéril triomphe en t'en coiffant
Avec clarté quand sur les coussins tu la poses
Comme un casque guerrier d'impératrice enfant
Dont pour te figurer il tomberait des roses.
Vittoriosamente fuggito il bel suicidio
Brace di gloria, sangue schiuma, oro, tempesta!
O rider, se laggiú una porpora s'appresta
A pavesar sontuosa sol la mia tomba assente.
E che! di tale sfarzo non un lembo
Si attarda, è mezzanotte, all'ombra festeggiante
Tranne che il presuntuoso tesoro di una testa
Versa la sua blandita indolenza senza face,
113
L'ediz. a cura di Luciana Frezza, cit., ha rendre.
69
La tua, cosí per sempre, delizia! sí, la tua
Che sola di questo cielo spento trattenga
Un po' di puerile trionfo alla capigliatura
Con splendore quando sui cuscini tu la posi
Come un elmo guerriero d'imperatrice infanta
Da cui, per figurarti, crollerebbero rose.
Tralasciamo di commentare la prima quartina, con il
poeta-sole che fallisce il suicidio e ride sarcastico al pensiero di un addobbo funebre per il suo sepolcro vuoto. Il
seguito è topico: di tutto lo splendore del tramonto non è
rimasto nulla - siamo alla mezzanotte - se non che la chioma della donna trattiene in sé qualcosa dell'incendio dorato e sanguinoso, qualcosa di quel trionfo ormai spento.
Niente di piú abusato dai poeti petrarchisti: il sole muore
ma la luminosità dei capelli dell'amata mantiene viva la
propria fiamma, fatte salve tutte le variazioni sul tema.
Tuttavia quel che ci interessa da vicino è il verso 12, con
l'indicazione figurativo-temporale «quand sur les coussins
tu la poses», 'quando tu deponi la tua superba testa sui
cuscini'. Anche qui l'evocazione di un dato empirico è
parca, ma è in linea con quanto dicevamo a proposito di
Quevedo («si el cabello deslazas generoso») o di Baudelaire
(«Pour peupler ce soir l'alcôve obscure» ecc.). Siamo cioè
difronte a un gesto che incastona ogni sublimazione metafisica in un hic et nunc, per quanto tutta la congerie analogica ed emblematica del pezzo mallarmeano spinga il lettore a una predisposizione interpretativa sul versante astrattivo, aprioristico. Cosí Victorieusement fui ci appare davvero
“barocco” in un duplice aspetto: per il suo tutto pieno di
funebre e sardonica pompa, vero addobbo sepolcrale pur
fallito, ed anche per il suo scatto, magari solo accennato,
che dalla cronaca di un incontro amoroso notturno si
innalza alla generazione di un trionfo imperiale della
70
donna. Il cui roseo incarnato, peraltro, è dato dal figurante
assoluto delle roses, e qui Mallarmé si insedia piú che mai
nel percorso del petrarchismo puro da cui ci siamo mossi.
Nulla è sempre semplice e univoco, insomma.
Il viaggio della chioma di donna, partito dall'ondeggiamento dei capei d'oro di Laura, arriva anche ai versi del
nostro maggiore metafisico, Eugenio Montale. Nel 1926
egli compone la lirica Vento e bandiere, che allogherà nella
seconda edizione di Ossi di seppia. Qui è la chioma della
funeraria Arletta ad agitarsi nel vento improvviso e salso:
La folata che alzò l'amaro aroma
del mare alle spirali delle valli,
e t'investí, ti scompigliò la chioma,
groviglio breve contro il cielo pallido;
la raffica che t'incollò la veste
e ti modulò rapida a sua imagine,
com'è tornata, te lontana, a queste
pietre che sporge il monte alla voragine […].
Il terzo verso della prima quartina evoca inconfondibilmente e insieme scompiglia l'arcimodello petrarchesco: «ti
scompigliò la chioma». La folata di vento marino, acre,
devasta la compostezza dei capelli e addirittura li rende
«groviglio», campito sul «cielo pallido» (come lo «sfondo di
perla» in cui si incideva il profilo di Esterina). Oltre a questo c'è, alla quartina seguente, l'effetto dinamico, plastico,
neoclassico ma in senso nervoso, del “panneggio bagnato”,
o meglio ventilato, comunque aderente al corpo femminile: «t'incollò la veste». Un sussulto di corporeità, súbito
però smateriato dal verso seguente, dove il vento modella
Arletta «a sua imagine», quindi la rivela in quanto animica,
pneumatica, aerosa, emblema dello psichico, dell'altro in
71
quanto ulteriore, acheronteo, pallido, morto. Sapientissimo
è l'autentico groviglio di fisicità e spiriticità nell'Arletta di
questi versi; siamo a una sorta di replicazione dell'esperienza di Chiare fresche e dolci acque, ci troviamo in entrambe le
poesie nello stesso luogo dove avvenne l'incontro e che ora
testimonia soltanto l'assenza e la distanza. La differenza è
però profonda. In Petrarca tutto precede la realtà, tutto è
emblema, acque, membra, donna, erba, fiori ecc. Ciò non
significa che non ci sia verità soggettiva del sentimento,
non parliamo qui di autenticità psicologica. Significa che il
linguaggio della poesia è assolutamente ideale e predetermina, come uno stampo, la referenzialità: è l'idea che precede
la natura e infine la ignora, non vi cerca neppure verifiche.
Durante la poesia, per sospensione istituzionale, il mondo
non esiste. Per Montale, al contrario, necessariamente e
dolorosamente
Il mondo esiste…
Non c'è possibilità di sospensione, neppure nella forma
dell'iterazione dell'identico:
Ahimè, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani! E scampo
n'è: ché, se accada, insieme alla natura
la nostra fiaba brucerà in un lampo.
Ecco il petrarchismo invertito, il petrarchismo metafisico di Montale. Il poeta non ha piú scampo, non può non
partire dal reale, anche quando il reale è solamente una
offesa, uno scialo, una datità scabra e irta, disumana. O un
ricordo, una alterità, una distanza. Ma è la necessità della
poesia: solo nel reale si possono cercare le epifanie. Montale
non le trova mai, canta raucamente e perennemente la
ricerca di esse e il loro possibile attimale baluginare, cui
72
segue immancabilmente il richiudersi delle porte. L'unica
rivelazione piena è sinistra, è l'epifania del nulla e della
morte. E Arletta (ma anche le altre donne del poeta, tutte)
è sacerdotessa della morte.
Nel “petrarchismo” di Finisterre, in Clizia risultano
determinanti gli occhi e le chiome, da sempre punti nevralgici della donna morcelée. In particolare è ricorrente il gesto
di liberare la fronte dalla capigliatura, movimento angelico
ma fortemente attivo:
La bufera
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
20
mi salutasti - per entrar nel buio.
La frangia dei capelli...
La frangia dei capelli che ti vela
la fronte puerile, tu distrarla
con la mano non devi.
In questa sezione dell'opera montaliana, come è noto e
come Montale stesso ha suggerito, la prossimità con la poesia del Canzoniere dovrebbe essere massima. E certamente
anche l'armamentario pseudo-salvifico di giade, coralli,
amuleti stellanti (sul «ciuffo»), sete e gemme, sciarpe, gigli
ci riportano in qualche modo a incrostate purezze mallarmeane, come nel ciclo degli Éventails. Naturalmente tutto
questo non ci sconforta: abbiamo detto che assolutezza
poetica e realismo metafisico sono due modi poetici, quindi
73
possono convivere nella produzione di un medesimo
autore. D'altronde, e abbiamo detto anche questo, nonostante la prevalenza della verginità emblematizzante,
anche nel modello petrarchesco esistono i semi dell'altra
maniera di fare poesia, tanto è vero che per identificare
l'eresia cinque-secentesca che guarda alle imperfezioni del
reale non abbiamo mai fatto uso del termine improprio di
anti-petrarchismo, se mai abbiamo parlato di petrarchismo metafisico.
Ma anche nel petrarchesco e stilnovistico Montale di
Finisterre il sistema è sostanzialmente quello di una elaborazione metafisica del reale.114 Il sistema allegorico impone,
dantescamente, una salvezza della lettera e della fisicità
rispetto al valore della significazione seconda. La bufera
«che sgronda sulle foglie» è una bufera che coglie effettivamente il poeta nella sua solitudine e simultaneamente la
donna amata in un interno americano, dall'altra parte dell'oceano, ed è la tempesta che nel 1939 si schianta sull'occidente, l'uragano della guerra e dello sconvolgimento
morale. La donna che si libera la fronte dai capelli ed entra
nell'oscurità è una donna che pronuncia il suo addio per
ritornare alle sue terre in seguito alle leggi razziali. Ma entra
nel buio dell'assenza, per il poeta, cioè della morte, reame
da cui ritorna con una funzione salvifica corrotta e fallimentare, piú angelicamente volitiva rispetto a una Arletta,
piú di lei lampeggiante, ma come lei bagliore di alterità
quale imperiosa impotenza. E la sua idealità di Beatrice
ferita, o piuttosto di Laura morta ambiguamente trionfale,
si incardina in pur remote e talora indeducibili occasioni, e
si veste di oggetti che rimandano non da ultimo ai ventagli,
ai coralli, ai polipi persino della poesia secentesca.115
114
S'intenda: il reale che la poesia indica come tale, anche allusivamente,
a prescindere dai dettagli di un vissuto comunque documentabile.
115
Penso al Marino; si veda qui avanti, il capitolo Io, Esterina.
74
In conclusione provvisoria, può sembrare singolare riconoscere in uno dei tratti significativi della svolta manieristicobarocca proprio una conversione al reale, nella forma del
realismo metafisico. L'apparente paradossalità, cioè, si crea
pensando alla formulazione vulgata di un'età in cui l'arte
accentuerebbe invece l'artificio, l'inverosimile, la fantasia
metamorfica, la chimera, insomma. Il «tempo dei sensi fallaci», tuttavia, è sí il tempo delle chimere, «ma si sa che
sono chimere», puntualizza magnificamente Foucault in
una celebre pagina.116 L'eccesso di forma fluens può giustificarsi in un momento in cui si guarda alla realtà con una
curiosità infinitamente piú inclusiva e tollerante, e allora ci
si può permettere di cogliere nel reale anche i suoi messaggi di trasmutazione e persino incoerenza. Si spezza cioè la
necessità di chiudersi in un linguaggio imitativo perfettamente ideale, come garanzia del sublime, per rinvenire il
sublime e il morale e il metafisico nell'ibrida e compromessa molteplicità dell'empirico. Don Chisciotte non ce la fa
piú a predeterminare la realtà con le astrazioni letterarie: la
sua follia è tutta qui, in una ricerca vana dell'ideale che preceda e conformi il reale. Ormai il processo inverso è quello
che trionfa. O almeno quello che si affaccia prepotentemente sulla scena artistica. Una nuova maniera. Nella quale
inserire esiti novecenteschi (di un secolo cioè oltremodo
palinsestico) come quelli montaliani. In una scia secolare di
rinnovato rapporto con la realtà, con le cicatrici, le difformità e le bizzarrie della natura: processo di fondazione
manieristico-barocca, processo qualificante la modernità,
come sarà un Benjamin a rivelare nel furore esegetico della
sua dissertazione sul dramma barocco che nel 1925 si scontrava con l'ignoranza dell'accademia tedesca. Citando da da
116
Michel Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane
[1966], Milano, Rizzoli, 2004 (prima ediz. ital. 1967), p. 66, e cfr. Francesco
Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982, pp. 69-70.
75
Wilhelm Hausenstein, Vom Geist des Barock, München
1921, p. 42, Benjamin scriveva: «Proprio per poter riguadagnare di slancio le sublimità della forma e i vestiboli del
metafisico, esso [il naturalismo barocco] cerca di far leva sul
terreno degli oggetti e dell'attualità piú vivente».117 Il barocco, come l'avanguardia espressionista del Novecento, come
già Baudelaire e come Montale, non conosce la totalità
risplendente e trasfigurata del modello apriori che precede
e sintetizza la realtà negandola nella sua prepotenza irregolare. «Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della
caducità, si manifesta fugacemente il volto trasfigurato
della natura nella luce della redenzione, l'allegoria mostra
agli occhi dell'osservatore la facies hippocratica della storia
come irrigidito paesaggio originario. La storia in tutto ciò
che essa ha fin dall'inizio di immaturo, di sofferente, di
mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un
morto».118 Se la storia è letta come natura da Benjamin, in
forma quindi rigorosamente antistoricistica, la frammentazione sfigurata ne è l'aspetto precipuo, con tutto il dolore
fisico, la lacerazione, lo smembramento relativi: «Nel
campo dell'intuizione allegorica l'immagine è frammento,
runa. […] La falsa apparenza della totalità di spegne. […]
Cogliere la non-libertà, l'incompiutezza e la fragilità della
natura sensibile, del bello naturale, al classicismo non era
dato. Ma sono proprio questi i caratteri che l'allegoria
barocca propone, nascosti sotto la sua pompa sfarzosa, con
una insistenza fino a quel punto ignota. […] Le allegorie
sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel
regno delle cose».119 In questo regno di lutto scompare
anche l'estetizzazione barocca di cui abbiamo parlato
finora? Indubbiamente la peculiarità del Trauerspiel è
117
Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999, p. 41.
Ivi, p. 141.
119
Ivi, pp. 150 sg.
118
76
quella melanconico-mortuaria, ma si tratta poi di una
diversa dislocazione della bellezza: «Se altre forme risplendono magnifiche come il primo giorno, questa [l'allegoria]
fissa nell'ultimo l'immagine del bello».120 Bellezza apocalittica, insomma, ma bellezza. Che sia euforica o luttuosa,
medesima è sempre però la disposizione a subire la supremazia del reale, per leggerlo come emblema, redentivo o
fallimentare, disperante o lampeggiante, opaco e/o resurrettivo: sgretolato e significativo.
Come dire: realismo metafisico.
120
Ivi, p. 210, conclusione.
77
Dentro e contro Guillén
Non d'infrequente Montale «traducendo mostra di
affrontare anche quello che all'ingrosso potremmo dire il
diverso. Non ci sono, insomma, nel Quaderno [di traduzioni], solo gli omaggi ai congeniali, in tal caso a una
ideale linea piú o meno appropriatamente qualificabile
per metafisica, da Shakespeare a Eliot».121 Cosí Lonardi
nel suo straordinario percorso fuori e dentro il tradurre
montaliano, e il primo esempio di traduzione del «diverso» nel Quaderno che lo studioso evoca è non a caso
il Cant espiritual del catalano Joan Maragall,122 sorta
di grande preghiera di esaltazione della vita, ben poco
montaliana.
Nostro proposito sarebbe quello di includere in
questa categoria dell'alieno tradotto, del diverso scelto da
Montale traduttore, le sei liriche di Guillén. Tuttavia già
uno dei primi recensori del Quaderno di traduzioni, e che
lussuoso e coinvolto recensore!, Piero Bigongiari, rilevava
che Guillén e la sua poesia per eccellenza “pura” dovevano
aver rivestito una notevole importanza e aver esercitato una
indubbia influenza sul Montale che dagli Ossi procedeva
verso le Occasioni:
Tra i «termini 1920-1927», i termini stretti degli Ossi, e la
121
Gilberto Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna,
Zanichelli, 1980, p. 151.
122
Vd. almeno Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura Hispánica,
Roma, Bulzoni, 1986, pp. 141-148; precedentemente: Giuseppe Grilli, Montale,
Maragall i la via catalana a la poesia, «Els Marges», 1976, 8, pp. 109-113.
78
«delimitazione 1928-1939», la ripresa difficile e pluricorde, ma
anche un po' divaricata, in attesa del futuro, delle Occasioni,
s'innestano bene gli esercizi su queste voci che la cultura europea faceva giungere fino a lui. E proprio le traduzioni da
Guillén, trascurate dai piú (e anche dal poeta stesso) per mettere in luce le affinità evidenti, congeniali, con Eliot, noi
vediamo accamparsi nel mezzo di questi anni divisorî: se in
Guillén, per comodo di discorso, vediamo un po' il paradigma
della poesia pura. […] Per lo meno è una strana coincidenza il
veder Montale cercare un ragionar fantastico cosí asseverativo,
un disegno senza respiro, quale salta fuori dalla «poesia pura»
di Guillén, mentre andava nascendogli dentro la voce tutta eco
spezzata della prima e della seconda parte (i Mottetti) delle
Occasioni: quando cioè la presenza di uno stato sentimentale
esigeva una purificazione, che non è solo o non è tanto verticale quanto dentro il sentimento, quasi in una riduzione del sentimento a stato geologico. 123
Ma la poesia “pura” si contrappone, con sfumature
infinite, ovviamente, alla poesia “metafisica”, come abbiamo visto. Se la linea (ovvero modo poetico) che da Petrarca
va fino a Leopardi e a Mallarmé esige una astrazione aprioristica, una scelta di oggetti-emblemi purificati dall'accidentalità ed essenzializzati da subito (la rosa e la viola, le
erbe le fronde le ombre ecc.), la tendenza metafisica, che si
forma tra manierismo e barocco e giunge a Montale attraverso screziate mediazioni (da Hopkins a Pascoli ecc.),
vuole invece calarsi nel reale multiforme e persino umile,
prosaico, occasionale, contingente, per poi (e talora simultaneamente) reimmergere il tutto nel bagno astrattivo e
mentale e ideale, in un processo che si cala nel multiforme
per cogliervi, piú o meno disperatamente, l'uniforme e il
123
Piero Bigongiari, Poesia italiana del Novecento, Milano, F.lli Fabbri,
1960, pp. 187-189.
79
simbolico. In questo senso Montale individuava la celebre
jonction Baudelaire-Browning per definire la metafisica
ottocentesca fondativa della poesia moderna; in questo stesso senso possiamo enucleare la jonction Valéry-Guillén per
isolare un momento cruciale della linea alternativa. E non
a caso, poiché Montale stesso dichiara di aver conosciuto,
prima delle poesie di Cántico, la traduzione guilléniana del
Cimetière marin, retrodatandola all'uscita del volume di
versi di Guillén e compiendo cosí uno di quegli errori cronologici non si sa quanto dovuti a distrazione o a manomissione volontaria delle date (il Cántico fu edito nel 1928, la
versione del poemetto di Valéry apparve in rivista nella primavera del 1929).124
Guillén pare proprio uno dei corifei europei della poesia “pura” nel senso araldico-emblematico che da Petrarca
giunge allo snodo otto-novecentesco; anzi, nel poeta di
Valladolid c'è una mentalizzazione e assolutizzazione di
ogni dato di realtà, o meglio, c'è una adesione totale e freneticamente entusiasta alla realtà, alla natura, ma questa
adesione si traduce in una lingua spesso esclamativa che
astrattizza gioiosamente tutti i frammenti e momenti del
cosmo quotidiano riducendoli a una unica, unitaria, compatta volontà di essere. Se tutto si riduce sostanzialmente
alla radicale «vocación de ser», tutto si fa comunque idea,
sostanza e non accidente, nella poesia. O meglio ancora,
l'accidente è sostanza, non c'è piú distinzione tra l'incorporeo e il materico.125 Anche dove si dà eccesso di luz, la tra124
Vd. da ultimo: María De Las Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén:
le traduzioni scambiate (cronologia e retroscena), in Miscellanea di studi in onore
di Claudio Varese, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi, Manziana, Vecchiarelli,
2001, pp. 509-523: 509-510.
125
Importante il saggio di Andrew P. Debicki, La poesía de Jorge Guillén,
Madrid, Gredos, 1973. Vi si insiste sulla combinazione del concreto e dell'universale come aspetto dominante di tutta l'opera poetica guilleniana (vd. pp. 2021); l'equilibrio del poeta di Valladolid evita sia il «superficial anecdótico», sia
80
scendenza resta un predicato dell'immanenza: il linguaggio
poetico si concede il giusto lusso di operare astrazioni in
seno all'amore del concreto, concreto pensato e amato. La
perfezione, l'unità, la limpidezza, la pienezza, la tranquillità, la bianchezza, la luminosità ecc., queste e altre categorie astratte costituiscono l'affilato antifigurativo di Guillén,
l'accecamento lucido di un poeta cosí innamorato di quel
che vede nei mattini splendenti e nelle notti di luna. È la
perfección la chiave di volta, che spiega tutto: la meraviglia
del creato, del reale si esprime attraverso il pensiero della
perfezione, e quindi attraverso una astrazione che descrive
perfettamente il concreto. Grande poeta della piú astratta
delle nominazioni, la rosa, che domina nel Cántico forse
non tanto come emblema rarefatto del fiore mallarmeano
che nessun bouquet accoglie, sí piuttosto come forma di
concentrazione suprema: tutte le rose sono la rosa, canta
Guillén, «plenaria esencia universal».126 La rosa è poi
soprattutto fiore-nome che rappresenta la potenzialità,
l'eternità come possibilità, la perfezione come ipotesi e
clausura armonica rispetto a una escoriata imperfetta aperta realtà pseudoreale.127 La rosa è assente dal linguaggio poetico di Montale,128 la rosa è un nome pericoloso, il piú
derealizzante nome della tradizione. La rosa non ha piú un
le «abstracciones irreales» (p. 21). Debicki ribatte sulla simultaneità della percezione sensoriale della realtà e della percezione assoluta delle essenze (p. 23
ecc.), in «un mundo en el cual lo conceptual y lo material se mezclan constantemente, en el cual lo absoluto se nos presenta por medio de experiencias concretas» (p. 26). Insomma, Guillén lega l'immediato all'universale, trova dentro
il transitorio le radici dell'essenziale (p. 45). Vd. anche Joaquín González
Muela, La realidad y Jorge Guillén, Madrid, Ínsula, 1962.
126
Vd. Elsa Dehennin, Cántico de Jorge Guillén. Une poésie de la clarté,
Bruxelles, Presses Universitaires, 1968, p. 50; sulla rosa vd. pp. 40 sgg. e 180.
127
Vd. La rosa, Cierro los ojos ecc.
128
Se non nella straniata citazione dei versi pariniani «Torna a fiorir la rosa /
che pur dianzi languia…» all'inizio della Danzatrice stanca, in Diario del '72.
81
referente, potremmo dire: le rose sono soltanto ipotetiche,129 le rose reali sono fiori che qualcun altro dovrà rinominare o specificare (rose canine, rose tee ecc.). Il poeta
degli ossi di seppia e dei girasoli, che sarà il poeta della
magnolia e delle coturnici ecc., il poeta metafisico, insomma, non sa che farsene di un qualcosa che geneticamente e
irrecuperabilmente si pone come astrazione. La rosa è una
inutilizzabile casella vuota, una deprivazione di qualunque
occasione, una superba assenza.
Certo un poeta della rosa come Guillén è anche aperto, soprattutto per la sua partecipazione intensa al neobarocchismo e neo-gongorismo ispanico della sua generazione, alla sublimazione astrattiva che lascia però tralucere,
magari per via di titolo-rubrica, una micro-occasione
“moderna”, implicandosi cosí con la corrente etero-petrarchista della poesia “metafisica” come l'abbiamo configurata
storicamente:
Dama en su coche
Triunfan madera y metal,
deliciosamente acordes
al arrullo de un desliz,
irradiando, regalando
placer de victoria en viento
siempre sumiso a la guía
de unos guantes, de un volante
bajo la fascinación
129
Vd. J.Guillén, Opera poetica («Aire nuestro»), Studio, scelta, testo e versione a cura di Oreste Macrí, Firenze, Sansoni, 1972, p. 44 n. e qui, infra.
Sull'immaginario della rosa vd. la vertiginosa Conclusione: «Purpwort» e l'Invio
in Carlo Ossola, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, il Mulino,
1988, pp. 283-313.
82
que en relámpago de emporio
logra la quizá beldad.
Dama nella sua automobile
Trionfano materia e metallo,
deliziosamente concordi,
al murmure di uno scivolare,
irradiando, donando
piacer di vittoria nel vento,
sempre sommesso alla guida
di due guanti, di un volante
sotto la fascinazione
che in lampeggio d'emporio
produce la ipotetica beltà.
Questa è poesia che coglie una realtà occasionale e
“moderna” per sublimarla in una concentrazione astrattiva
di bellezza pressoché mitica. Ci sono cioè tutti gli ingredienti per essere ospitati nell'olimpo alternativo dei poeti
che si sporcano nel materico e nell'accidentale per trasformarlo in un nuovo diamante, in una anomalia di perla nata
da un umile granello, in una farfalla che era verme.131 C'è fra
130
130
Anche in una lirica di Clamor, intitolata Cita, A.P.Debicki (La
poesía de Jorge Guillén, cit., pp. 38-39) rileva una sublimazione ed assolutizzazione del relativo prosaico, effettuando una analisi di estremo
interesse.
131
«Lo “spirito nuovo” è lo spirito della libertà assoluta; la libertà nella
poesia porta ad accogliere senza limiti qualunque soggetto, senza tener conto
del suo livello; la poesia si infiamma per nebulose e oceani, ma anche per un
fazzoletto che cade, per un fiammifero che si accende; […] l'oggetto piú insignificante le serve per slanciarsi in una “ignota infinità, dove rilucono i fuochi
delle molteplici significazioni”». Cosí Hugo Friedrich in La struttura della lirica moderna [1956], Milano, Garzanti, 1971, p. 155, citando Apollinaire,
83
l'altro l'ingrediente della densità congesta, quella concentrazione appunto che Montale dà per codice di garanzia
della poesia “occasionale” moderna, quella crasi figurativa
per cui «il poema breve» acquista «in intensità ciò che perde
in estensione», talché alla fine è «corto il passo dal poema
intenso al poema oscuro». Quindi: «Il supposto poeta oscuro è, nell'ipotesi a lui piú favorevole, colui che lavora il proprio poema come un oggetto, accumulandovi d'istinto
sensi e soprasensi, conciliandovi dentro gl'inconciliabili,
fino a farne il piú fermo, il piú irripetibile, il piú definito
correlativo della propria esperienza interiore».132
Nella Dama ci sono anche figuratività istantanee e rattratte come il «relámpago de emporio» che sicuramente
possono consuonare con le immagini montaliane, se pure
l'atteggiamento guilleniano difronte alla realtà sia sempre
adesivo e appropriativo, di pienezza esultante, mentre quello di Montale attiva generalmente un'inchiesta che prefigura o registra lo smacco, la disgregazione, il rimando ad altro
momento (a mai) dell'acquisizione della verità. D'altra
parte, nonostante poesie come la Dama, Guillén rimane
costituzionalmente un poeta “puro” e petrarchesco. Basti
pensare, per cercare controprove molecolari, all'ossessione
del guante: si ripropone ad es. in Nene o in Rama del otoño,
che è lirica fra le tradotte da Montale; qui fra l'altro, come
vedremo, il guante è «en mano al aire», quasi come capei
d'oro a l'aura sparsi. Il guanto non è evocato a caso, giacché nel ciclo petrarchesco del guanto c'è in nuce, piú o
L'esprit nouveau et les poètes, del 1918. Risulta da tutto ciò sempre piú
evidente quanto importante sia, sulla scena europea, il contributo italiano con
Pascoli alla definizione originale della poesia moderna. E quanto sia dolorosamente ignorato, proprio fuori Italia, questo ruolo assolutamente unico e straordinario (rispetto almeno a quello piú orecchiante e superfetatorio di un
D'Annunzio).
132
Parliamo dell'ermetismo, su «Primato» del 1 giugno 1940; in SM III,
pp. 1532-33.
84
meno, anche l'antipetrarchismo delle occasioni minimali
sublimate e riemblematizzate, c'è il suggerimento “puro” a
una poesia “impura” (in Petrarca, arcimodello, c'è il modello
e i semi dell'antimodello, è stato già detto). Guillén insomma,
nel suo gesto ideologico-poetico, appartiene complessivamente alla schiera di lirici alternativa a quella in cui situiamo
Montale. (Chi è contrario assolutamente all'utilità storiografica degli incasellamenti, per quanto duttili, non legga queste
pagine). Anche se sulla sua “purezza” ci sono obiezioni e precisazioni da compiere, soprattutto rispetto all'antirealismo dei
simbolisti e in particolare di Mallarmé:133 la migliore esegesi ha
sempre sottolineato l'autonomia originale di un Guillén che
ama la realtà e concettualizza per via di entusiasmo del reale,
non per via di depressione gnostica o platonica della fisicità.
E poi, ripetiamo, purezza e metafisica sono due modi poetici
che possono anche convivere, piú o meno occasionalmente,
in uno stesso autore.
In ogni caso, che sia per esaltazione difronte alla compattezza dell'essere e del reale, o sia per disdegno dell'empi133
È quasi luogo comune di molta critica marcare la effettiva distanza di
Guillén dalla linea Mallarmé-Valery, spesso in esplicita polemica con quanto
scriveva Hugo Friedrich in La struttura della lirica moderna , cit., pp. 198 sgg.;
oltre alla citata Dehennin, si veda ad es. Claude Vigée, Jorge Guillén et les poètes symbolistes français, in Revolte et Louanges, Paris, Corti, 1962, pp. 139-197,
di cui un estratto in traduzione spagnola è ospitato nel reader a cura di Birute
Ciplijauskaité Jorge Guillén, Madrid, Taurus, 1975, pp. 79-92. Una interpretazione di Mallarmé come poeta che non rinuncia alla concretezza delle cose ma
le carica di arcano, di oscurità, di ermetismo, insomma, è offerta da Giacomo
Debenedetti in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, pp. 2632. Debenedetti, in queste lezioni (che peraltro non sono il meglio della sua
magnifica produzione), pone Mallarmé su una linea che ingloba addirittura,
accanto a Scève, Góngora e John Donne: poesia “pura” e poesia “metafisica”
sarebbero cosí tutt'uno, diversamente dalla prospettiva in cui ci poniamo noi
(nell'edizione garzantiana, per scorretta lettura dai quaderni debenedettiani, si
legge «Jolan Doune» al posto di John Donne, p. 32, e l'errore è ripetuto nell'indice dei nomi!).
85
ria e della materia, la poesia sintetico-emblematica si contrappone a quella analitico-nomenclatoria. Ovvero: dalla
poesia petrarchesco-pura vuole distinguersi quella impurometafisica, per dir cosí, quella poesia che per attingere (con
acquisto o fallimento che sia) al simbolo e al concetto esige
di ripassare per la realtà nella sua incoercibile incoerenza,
occasionalità, caoticità, materialità screziata, irredenta
imperfezione. Insomma, da una parte c'è la tradizione dei
poeti che arriva, con tutte le precisazioni che si vogliano, a
Guillén e a certo ermetismo italiano, dall'altra c'è la lignée
in cui, bene o male, si colloca Montale, che per brevità designiamo - egli stesso designa - metafisica. Si potrebbe parlare di petrarchismo puro per la prima linea e di petrarchismo
metafisico per la seconda. E si potrebbe al limite anche parlare di antipetrarchismo per quest'ultima, ma sarebbe improprio, dal momento che intenderemmo l'antipetrarchismo
lirico (non quello comico!) presente in nuce nel modello
stesso. Tuttavia possiamo anche ridurre al minimo le categorie, dal momento che ci si intende sulla sostanza. Quindi:
Guillén è dall'altra parte della barricata rispetto a Montale
(nonostante occasionali sconfinamenti). Ovviamente questa semplificazione, appena indicata, subito provoca orrore,
diciamo un orrore filologico, se non filosofico. Quanto
Guillén è dentro Montale! Cosí come quanto Valéry, quanto Mallarmé ecc. E d'altronde quanto Leopardi, principe
della poesia che abbiamo detto sintetico-emblematica.134
Il diverso, insomma, non passa certo come l'acqua sulle
penne di un'anatra, anzi, forse ancor piú dell'analogo si
incide nella carne. Ma sul piano delle poetiche storiche e
individuali si deve mantenere forte, con l'ugne e i denti, io
134
Quel Leopardi dei notturni lunari cosí cari al Guillén che ne traduce
alcuni in castigliano: cfr. Roberto Paoli, Jorge Guillén ante Italia, «Revista de
Occidente», XLIV, 1974, 130, pp. 98-116 (tutto il numero della rivista è
dedicato a Guillén).
86
credo, questa dicotomia Guillén-Montale, per capire come
funziona l'interazione fra la poesia dei due.
Riassumendo: Guillén supremo lirico novecentesco
della linea “pura” e astrattivo-emblematica, pur se al servizio di una lode esclamativa del reale; Montale rappresentante d'eccezione, in Italia, della tradizione fisico-metafisica, modernamente impuro e contestualmente teso verso
una trascendenza impossibile e depauperata. Il primo esalta il reale maneggiando le parole-emblemi, le figure araldiche del petrarchismo secolarmente integrato, il secondo
esplora il reale con il suo linguaggio screziato, occasionale e
nomenclatorio, memore di Pascoli e compagno di strada,
magari parallelo, di un Eliot, per risalire dall'imperfezione
empirica a un dissestato, epicureamente alieno eldorado di
metafisiche verità. Guillén nomina per eccellenza la rosa,
Montale non la evoca mai. Guillén esalta il corpo femminile come carne assoluta, Montale non vede che donne psicagoghe accigliate o infelici, indissolubimente legate alla
morte come messaggio unico possibile. Il rapporto di un
poeta “astratto” come Guillén con la fisicità femminile è
ben illustrato dalla lirica Desnudo:135
Desnudo
Blancos, rosas. Azules casi en veta,
retraídos, mentales.
Puntos de luz latente dan señales
de una sombra secreta.
Pero el color, infiel a la penumbra,
se consolida en masa.
135
Per le varianti del '26 di questa poesia, vd. Opera poetica, cit., introduz.
di Macrí p. 24 n.; in Jorge Guillén, Cántico, Madrid, Revista de Occidente,
1928, la lirica si trova alle pp. 134-135.
87
Yacente en el verano de la casa,
una forma se alumbra.
Claridad aguzada entre perfiles,
de tan puros tranquilos,
que cortan y aniquilan con sus filos
las confusiones viles.
Desnuda está la carne. Su evidencia
se resuelve en reposo.
Monotonía justa, prodigioso
colmo de la presencia.
¡Plenitud inmediata, sin ambiente,
del cuerpo femenino!
Ningún primor: ni voz ni flor. ¿Destino?
¡Oh absoluto Presente!
Nudo
Bianchi, rosa. Azzurri quasi a striscia,
timidi, mentali.
Punti di luce latente danno segnali
di un'ombra segreta.
Però il colore, infedele alla penombra,
si consolida in massa.
Giacendo nell'estate della casa
una forma s'illumina.
Chiarità acuita fra profili,
cosí puri tranquilli,
che tagliano e annientano con lame
le confusioni vili.
88
Snudata sta la carne. L'evidenza
sua si scioglie in riposo.
Monotonía giusta, prodigioso
colmo della presenza.
Pienezza immediata, senza ambiente,
del corpo femminile!
Nessun gioiello: voce o fior. Destino?
Oh assoluto Presente!
C'è in questi versi tutto riassunto il gesto poetico guilleniano, il suo adorare il reale glorificandolo in un accecamento luminoso-astrattivo, in una concettualizzazione carnale (per usare un ossimoro anche in sede critica). Parolechiave di alta recursività campeggiano, astratte quali claridad, evidencia, presencia, Presente, plenitud, destino, nonché
luministiche come luz, sombra, penumbra, se alumbra, geometrizzanti o volumetriche, come i cari perfiles, o la masa,
attributi quali mentales, aguzada, justa, prodigioso, absoluto,
sintagmi propri di un usus scribendi energicamente ossessivo come ad es. se consolida en masa, se resuelve en reposo,
colmo de la presencia (si pensi almeno a Cima de la delicia,
fra i capolavori del Cántico). Alcuni di questi tasselli si
ritrovano anche nelle liriche selezionate da Montale: si evochi Rama del otoño: «¡Cómo aguzan / su pormenor tranquilo las nuevas nervaduras!», o El cisne: «se ha resuelto / la soledad en turba!» ecc. E poi la sintassi, franta, asindetica, esclamativa, sconcertante sistema di spezzature intellettualistiche e studiate ingenuità interiettive. Insomma, questo è
Guillén, poeta di linguaggio assoluto al servizio della naturale pienezza.
Montale è altrove, questo risulta ben evidente senza
doverlo dimostrare. La sua Arletta, ad esempio, in Delta
(del 1926, fra le aggiunte agli Ossi del '28) è la piú fanto89
matica e implicata con la morte, ma non l'unica:
Tutto ignoro di te fuor del messaggio
muto che mi sostenta sulla via:
se forma esisti o ubbia nella fumea
d'un sogno t'alimenta
la riviera che infebbra, torba, e scroscia
incontro alla marea.
La forma guilleniana si illumina di carne nell'estate della
casa, offerta lucida di gloria femminile, culmine di tranquilla perfezione, presenza che si possiede. La donna demonica di Montale è per eccellenza colei che non si coagula in
un corpo, forse è solo «ubbía nella fumea», non tanto dissimile dall'Esterina di Falsetto che, pur energetica natatrice, si
tuffa tra le braccia di un amante d'acqua e fumo, Zeus e
Thànatos insieme. Ma confronti di questo genere scadono
nei sottoscala dell'ovvio e certo del non squisito. Montale è
altro da Guillén nella scelta del linguaggio dantesco sí, ma
soprattutto metafisico, cioè sporcato nell'individuazione e
nell'oggettività dell'occasione per poi trovare nuovi emblemi «piú in là». Más allá, avrebbe detto Guillén, in una poesia che ancora non appariva nel Cántico del 1928. Solo che
il piú in là del poeta di Valladolid è tensione verso una plenitudine dell'essere attinta con stupore sacro e volontaristica gioia. E col linguaggio assoluto. Mentre il poeta di
Buffalo (“occasione” scritta probabilmente in un momento
contiguo al lavoro su Guillén) si àncora disperatamente a
una frantumazione evenemenziale di «schiene striate»,
«megafoni», «autocarri», schegge brutalmente reali del velodromo parigino, brulichio sregolato come sregolata e invadente è l'empiria e il suo «dolce inferno» di lampi e schianti, da cui è un bel busillis ricavare argomenti per una precaria, anzi impossibile ma ineludibile sistemazione metempirica, metafisica, ideale.
90
A proposito dei rapporti fra Guillén e l'Italia e fra
Guillén e Montale, sul piano positivo, fattuale, oltre che critico, si è scritto anche recentemente.136 Il giudizio di Montale
sul lirico vallisoletano è riassunto nella pagina “militante”
che sul «Corriere della Sera» recensiva nel giugno 1969 l'edizione di Aire nuestro per Scheiwiller, pezzo poi inserito in
Sulla poesia.137 È una pagina in verità necessariamente striminzita, che non informa profondamente sull'intimo pensiero montaliano a proposito di Guillén. D'altra parte tutta
la produzione del “secondo mestiere” è intesa da Montale
come un cordiale dialogo col lettore medio, ove la diplomazia e la compostezza fanno aggio sulle idiosincrasie private,
se non sulla sincerità tout court. Comunque, nel discorso su
Guillén, Montale è per lo piú informativo e talora cortesemente ironico, ad es. quando evoca la «ben nota torrenzialità della musa iberica». Il nucleo critico dell'articolo è tutto
qui: «Guillén è un esaltatore quasi iperbolico della vita, è
una fontana di tripudio e di gioia. Al limite, il suo inestinguibile amor vitae non dovrebbe consentire alcun clamore:
dovrebbe dissolversi in un mistico silenzio. Ma non è stato
cosí anche se i temi inevitabilmente si ripetono. In lui la fertilità delle variazioni fa apparir cosa nuova anche la riapparizione delle sue tipiche parole-chiave». Montale indica per
la prima poesia guilleniana un possibile esito diciamo mallarmeano, l'ammutolimento; la realtà invece smentisce questa prefigurazione, Guillén continua a sfornare centinaia
di poesie e a variare quelle già scritte. Se ne deduce, tra le
righe, che l'ipertrofia produttiva del castigliano lascia
quantomeno perplesso il genovese. Inoltre: l'amor vitae e
l'iperbolicità del tripudiare guilleniano risultano e silentio
l'opposto speculare della poesia montaliana, dagli Ossi agli
136
Vd. ad es. R. Paoli, Jorge Guillén ante Italia, cit.; soprattutto M. De Las
Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén…, cit.
137
Vd. SM II, pp. 2924-25, n. a p. 3353.
91
ultimi versi. Eugenio cioè prende le distanze implicitamente dal grande vecchio spagnolo. E lo fa ancor di piú riconoscendone la posizione, autoproclamata oltretutto, di vate:
«egli non mostra alcun ritegno ad apparire qual è in effetti:
un maestro, un vate». La decenza quotidiana non sembra
dote del Guillén recensito da Montale. Il quale nel 1975,
intervistato dalla «Revista de Occidente», prende ancor piú
nettamente le distanze dall'ultimo Guillén, ma afferma
anche di non essergli stato molto vicino neppure ai tempi
delle traduzioni dal Cántico: «Io non credo, non credo [che
qualcosa lo unisca a Guillén]. Io mi esercitai su queste cinque poesie, perché mi sembravano facilmente traducibili;
poi non so se era proprio cosí».138 Il linguaggio nelle risposte è tutto all'insegna del dubbio e dello smussamento
(«Può darsi che esistano somiglianze, non lo so» ecc.),
come proprio del Montale mai apodittico. E poi va tenuta
presente la tendenza montaliana innata a mescolare le
carte, confondere le acque, negare i debiti poetici, anche
ove l'esegesi li rilevi piú o meno innegabilmente.
Comunque sia, anche da queste reticenti dichiarazioni mi
pare confermata la sostanziale distanza fra la poesia montaliana e quella guilleniana.
Come si pone allora Montale traduttore nel corpo a
corpo col “diverso”? I dati puntuali, lirica per lirica, preferiamo lasciarli al commento nelle pagine seguenti. Molte
movenze delle traduzioni guilleniane sono poi proprie dell'habitus traduttorio poetico montaliano nel suo complesso,
le cui dinamiche e tendenze sono state brillantemente ricostruite e analizzate da interpreti ben piú sofisticati di noi.139
138
Una conversación con Montale, «Revista de Occidente», dic. 1975, 2,
pp. 91-96; vd. M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén…, cit., p.
522. La traduzione è mia.
139
Penso, solo per fare qualche nome senz'ordine, a Lonardi, Musatti,
Mengaldo, Isella, Luperini, Gareffi, Barile e tanti altri (vd. infra, Bibliografia).
92
Prima di proporre le liriche di Guillén con versione montaliana e annotazione, vorremmo però esemplificare lo scarto
traduttorio, ovvero lo scontro col diverso dal suo interno,
anticipando qualche considerazione in merito al CisneCigno. Qui l'operazione di Montale mi pare vada nella
duplice direzione di: concretizzazione e psicologizzazione. Le
astrazioni dello spagnolo vengono spesso corrette con equivalenti concreti (ad es. blancura con neve), in una tensione
verso la riduzione di purezza, potremmo dire. È una battaglia non vistosa, certo, un corpo a corpo che gioca su variazioni minime e raffinate che non modificano la sostanza
della lirica, ma ne incrinano la geometrica cristallinità, l'algebrico splendore, puntando a un esito piú cordiale, fluido
e meno luminosamente arduo e affilatamente intellettuale.
Un esito piú impuro, in cui anche la scelta di accentuare la
soggettività del protagonista cigno contribuisce alla mossa
anti-astrattiva, individuante o quantomeno anti-derealizzante. Il cigno resta puro, ovviamente, ma la personalità di
Montale si insinua nel suo piumaggio araldico. Quasi,
diremmo noi, nel tentativo di allontanarlo dal cigno di
Mallarmé e avvicinarlo a quello di Baudelaire. Pensiamo
infatti al noto sonetto mallarmeano Le vierge, le vivace et le
bel aujourd'hui (1885) e al celeberrimo Cygne (1859) dei
Fiori del male. Prendiamo quest'ultimo uccello dei
Tableaux parisiens, protagonista di una lirica in due tempi,
dove la Parigi moderna che si trasforma urbanisticamente
viene proiettata in una elevazione complessa, mitizzante
(l'evocazione di Andromaca vedova di Ettore che piange sul
Simoenta), sublimante, simbolizzante. Vediamo i versi che
descrivono l'apparizione del cigno:
Là s'étalait jadis une ménagerie;
là je vis, un matin, à l'heure oú sous les cieux
froids et clairs le Travail s'éveille, oú la voirie
pousse un sombre ouragan dans l'air silencieux,
93
un cygne qui s'était évadé de sa cage,
et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec,
sur le sol raboteux traînait son blanc plumage.
Près d'un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec
baignait nerveusement ses ailes dans la poudre,
et disait, le coeur plein de son beau lac natal:
- Eau, quand donc pleuvras-tu? quand tonneras-tu, foudre? Je vois ce malhereux, mythe étrange et fatal,
vers le ciel quelquefois, comme l'homme d'Ovide,
vers le ciel ironique et cruellement blue,
sur son cou convulsif tendant sa tête avide,
comme s'il adressait des reproches à Dieu!
Là si estendeva allora un serraglio;
là io vidi, un mattino, all'ora che sotto i cieli
freddi e chiari il Lavoro si sveglia, dove i netturbini
sollevano un uragano d'ombra nell'aria silente,
un cigno che era evaso dalla sua gabbia,
e, coi suoi piedi palmati sfregando il lastricato secco,
sul suolo accidentato trascinava il bianco piumaggio.
Su un canale di scolo arido la bestia apriva il becco,
bagnava nervosamente le ali nella polvere,
e diceva, il cuor pieno del suo bel lago natale:
- Pioggia, e quando cadrai? Quando tuonerai tu, lampo? Io vedo questo infelice, mito strano e fatale,
verso il cielo talvolta, come l'uomo di Ovidio,
verso il cielo sarcastico e crudelmente blu,
sul suo collo convulso tendere il capo avido,
come scagliasse i suoi biasimi a Dio!
94
La visione mitica del cigno, enfatizzata da quel «Je vis», 'io
vidi' (e si pensa alla visione grandiosa dell'albatro nel Melville
di Moby Dick, parente d'oltreoceano dell'albatro baudelairiano),140 è sublime proprio perché tragicamente concreta, un
cigno «evadé de sa cage» che si scontra con un ambiente urbano polveroso e lurido, incespicando e maledicendo Dio e rendendosi cosí eroe sofferente. Un fatto di cronaca può aver
ispirato Baudelaire, che leggeva il 16 marzo 1846 sul
«Corsaire-Satan»: «Avant-hier, quatre cygnes sauvages sont
venus s'abattre sur le grand bassin des Tuileries et ils sont
restés à prendre leurs ébats jusqu'au moment oú on a ouvert
le robinet du grand jet d'eau».141 Un fait divers che potrebbe
essere all'origine anche di una delle fantasie invernali degli
Émaux et camées di Gautier: «Dans le bassin des Tuileries / le
cygne s'est pris en nageant».142 Un dato di concretezza cronachistica, che d'altronde non è necessario implicare: la descrizione di Baudelaire è già in sé un episodio di strana umile
quotidianità, un accidente 143 assunto in un cielo di sublimità
mitico-simbolica («mythe étrange et fatal») per quel processo
140
Antonio Prete approfondisce il confronto in L'albatros di Baudelaire,
Parma, Pratiche, 1994, pp. 63 sgg.; vd. anche pp. 18, 37 sgg.; per il «nuovo
sublime» baudelairiano vd. pp. 85-86; per allegoria e iconicità pp. 55-56 di
questo libretto-lezione sconfinatamente ricco.
141
Cfr. C. Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di Claude Pichois, I, Paris,
Gallimard, 1975, p. 1005 (da questa edizione citiamo sempre i testi di
Baudelaire). Vd. anche l'edizione italiana delle Opere a cura di Giovanni
Raboni e Giuseppe Montesano, introduz. di Giovanni Macchia, Milano,
Mondadori, 1996, pp. 175 sgg. e 1548 sg.
142
La lirica apparve in rivista nel 1854, poi nell'edizione del 1858 degli
Émaux: vd. Théophile Gautier, Émaux et camées, introduz. di Jean Pommier, a
cura di George Matoré, Génève, Droz, 1947, p. 68; i versi sono citt. anche in
Stéphane Mallarmé, Poesie, a cura di Luciana Frezza, Milano, Feltrinelli, 1966,
p. 268 (da cui traiamo il testo di Mallarmé).
143
«Ce qui était important pour moi, c'était de dire vite tout ce qu'un
accident, une image, peut contenir de suggestions», scrive Baudelaire stesso
95
fisico-metafisico, empirico-metempirico che ormai conosciamo bene nella linea della poesia impura, la linea che perviene
a Montale. Altro universo ci pare quello di Mallarmé:
Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui
va-t-il nous déchirer avec un coup d'aile ivre
ce lac dur oublié que hante sous le givre
le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui!
Un cygne d'autrefois se souvient que c'est lui
magnifique mais qui sans espoir se délivre
pour n'avoir pas chanté la région oú vivre
quand du stérile hiver a resplendi l'ennui.
Tout son col secouera cette blanche agonie
par l'espace infligée à l'oiseau qui le nie,
mais non l'horreur du sol oú le plumage est pris.
Fantôme qu'à ce lieu son pur éclat assigne,
il s'immobilise au songe froid de mépris
que vêt parmi l'exil inutile le Cygne.
nella lettera di invio della poesia a Hugo: cfr. Oeuvres complètes, cit., p. 1007.
D'altra parte, ancor piú chiaramente, si legge nelle Fusées: «Dans certains états
de l'âme presque surnaturels, la profondeur de la vie se révèle tout entière dans
le spectacle, si ordinaire qu'il soit, qu'on a sous les yeux. Il en devient le symbole» (Oeuvres complètes, cit., p. 659, c.vo mio: il curatore Pichois annota: «Le
Cygne et Les Sept Vieillards sont d'excellentes illustrations de cette observation»,
p. 1481). Il passo baudelairiano è citato anche da Jean Starobinski in La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, prefaz. di Yves Bonnefoy, a cura di
Daniela De Agostini, Milano, SE, 2006, p. 89. Singolare il fatto che nel suo
saggio, se non leggo male, Starobinski non citi mai Benjamin e i suoi supremi
fragmenta su Baudelaire e l'allegoria moderna; vd. allora Angelus Novus. Saggi e
frammenti, a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino,
Einaudi, 1995 (prima ediz. 1962), pp. 131-144 e passim; introduz. di Solmi,
pp. XIX sgg.
96
L'oggi, il vergine, il vivace e bello,
schianterà per noi con un colpo d'ala ubriaco
questo lago duro d'oblio che affolta sotto crosta
il trasparente ghiaccio dei voli non fuggiti!
Un cigno d'altri tempi rammenta che è lui
stupendo ma che si libra disperato
per non aver cantato la regione ove vivere
quando dello sterile inverno splendeva la noia.
Tutto il suo collo scuoterà questa bianca agonia
dallo spazio inflitta a l'uccello che lo nega,
ma non l'orrore del suolo ove il piumaggio è preso.
Fantasma che a questo luogo il suo puro lampo assegna,
s'immobilizza al sogno freddo del disprezzo
che veste nell'esilio inutile il Cigno.
Fra i molti lettori di questo congelato smalto poetico, Leo
Spitzer, in un saggio cruciale per l'interpretazione moderna,
commenta: «In tutto ciò non è dato immaginare alcuna
realtà esterna: si tratta soltanto di astrazioni […]. È tolta la
corporeità a tutto ciò che è materiale. Anche il cigno, si
sente, non è un vero cigno», ecc.144 Il processo discensivoascensivo della poesia metafisica di genealogia manieristicobarocca è assente: se immaginiamo una piramide, al cui
vertice siano le essenze, le idee, le astrazioni rarefatte, e
quindi le parole-emblemi, la rosa che è categoria (=fiore),
ecc., mentre alla base siano gli oggetti individui, gli accidenti, i faits diverses, le occasioni, quindi le parole referenziali, il girasole (un girasole, un cigno hic et nunc), dobbia144
Leo Spitzer, L'interpretazione linguistica delle opere letterarie [1931] in
Id., Critica stilistica e semantica storica, a cura di Alfredo Schiaffini, Laterza,
Bari, 1966, pp. 46-72: 65.
97
mo immaginare i petrarchisti puri al livello della cuspide
della piramide, già da subito posizionati lí, aprioristicamente, mentre gli impuri o metafisici guardano in basso,
verso gli accidenti, per maneggiarli e conferire loro significati e aspirazioni ascensive, sublimandoli e caricandoli
simbolicamente, intridendoli di bagliori mitici e noumenici e quindi proiettandoli verso l'alto. Per i primi non c'è
necessità di una realtà autonoma e bizzarra da interpretare e da cui avere suggerimenti metafisici, anzi per estremo
la realtà può anche non esistere, al limite per loro c'è l'immaterialismo come purezza assoluta, mentre per i secondi
il realismo (con varie virgolettature) è condizione per ogni
rivelazione. Esercitandosi sul cigno tragico, Baudelaire
compie quest'ultima operazione, fisico-metafisica (diciamo metafisica tout court), di sublimazione e simbolizzazione di un dato evenemenziale singolare e “moderno”, un
cigno che incespica nella polvere di un canale inaridito, in
mezzo a una Parigi che si trasforma, palazzi nuovi impalcature costruzioni ammassi, un cigno strambo che si fa
eroe di tragedia e grida in alessandrini a Dio la sua
bestemmia, nucleo barcollante di penne sporche e nucleo
di bellezza moderna sublime, greve di valore allegorico,
come già l'albatros clown-principe. Diversamente,
Mallarmé tratta il cigno tragico senza bisogno alcuno di
dover investire di valori ideali un cigno fenomenico,
magari finito nella vasca delle Tuileries. Il poeta e il cigno
(che lo simboleggia)145 sono da subito in cima alla piramide, sono già superbi diamanti dello spirito, l'investimento di bellezza e significato non deve essere operato a posteriori su un dato di realtà, è già implicito nell'atto stesso di
nominare, di usare la lingua poetica, che è lingua eminen145
Fra le numerose interpretazioni del sonetto di Mallarmé, una delle piú
raffinate e analitiche è senz'altro quella di Stefano Agosti, Il cigno di Mallarmé,
Parma, Pratiche, 1994, la cui edizione originale risaliva al 1970.
98
temente categoriale, emblematica, di tradizione petrarchesca e modello per generazioni “pure” ed “ermetiche” a
venire. (Se rischiamo la semplificazione, ancora una volta,
scusateci, dovrebbe valerne la pena).
Anche il giovane Valéry propone il proprio cigno, ed è
forse ingeneroso nei suoi confronti accostarlo ai precedenti, giacché Le cygne valeriano è un sonetto dell'ottobre 1889
(il poeta compie diciotto anni), rifiutato e dimenticato dall'autore, poi recuperato dai filologi.146 Tuttavia può essere
edificante riprendere questo omaggio giovanile a un certo
estetismo astratto non ancora ben irrobustito e cristallizzato sul modello mallarmeano:
Au rire du soleil posé sur une branche
et sous sa plume un flot limpide se plissant
le cygne file en plein saphir carène blanche
et l'eau miroir le fait deux fois éblouissant
neige sur l'onde! un souffle insensible le pousse
comme un vaisseau fantôme enfui parmi l'azur
puis il va s'échouer sur la rive de mousse
et dort dans la lumière idéalement pur!
Vase de chasteté symbolique et splendide
ayant d'un monde vil oublié le Destin
ô Cygne immaculé tu fuis dans le matin
baiser de la lueur sur ton aile candide
vers la Rive céleste oú dans l'Éternité
se confondent l'Amour et la Virginité.
146
Vd. Paul Valéry, Opere poetiche, a cura di Giancarlo Pontiggia, introduz. di Maria Teresa Giaveri, Parma, Guanda, 1989 (rist. 2003), p. 470: da
quest'edizione prendiamo i testi del poeta.
99
Al riso del sole posato su un ramo
e sotto le penne un fiotto limpido increspandosi
il cigno fila in pieno zàffiro carena bianca
e l'acqua specchio lo fa due volte abbagliante
neve sull'onda! un soffio insensibile lo spinge
come un vascello fantasma fuggito tra l'azzurro
poi va a incagliarsi su la riva di muschio
e dorme nella luce idealmente puro!
Vaso di castità e simbolico e splendido
avendo d'un mondo vile obliato il Destino
o Cigno immacolato tu fuggi nel mattino
bacio del chiarore sulla tua ala candida
verso la Riva celeste ove nell'Eternità
si confondon l'Amore e la Verginità.
Questo cigno candido fa coppia col «cygne noir», «cygne
funèbre» di un'altra poesia giovanile, Intermède, pubblicata
nel 1892 su «L'Ermitage».147 Inutile insistere sul fatto che sia
questo cigno tenebroso in una notte di «mince lune», sia il
cigno «éblouissant» del sonetto precedente sono, se pur
meno rigorosi, parenti del cigno araldico mallarmeano e
remoti dal cigno parigino di Baudelaire. Inoltre la raffigurazione del cigno 1889 è gloriosa, senza sconfitta, anti-tragica, implicando altresí una banale esplicitazione del simbolo della castità-verginità. La declinazione di Guillén del
cigno riprenderà in modo piú composto l'istanza fallimentare dei cigni dei padri “simbolisti”, accentuando l'astrazione, o meglio trasformando il rovello del volatile in una
investigazione geometrico-musicale, secondo quel particolare modo di fare poesia mentale e tuttavia atteggiata otti147
100
Ivi, p. 420 e n. a p. 470.
misticamente nei confronti del reale. Il giovane Valéry sceglie invece un cigno «ayant d'un monde vil oublié le
Destin», coerentemente col suo rifiuto del destino in favore della possibilità.148
In ogni caso è con un cigno puro che l'impuro metafisico Montale avrà a che fare, traducendo El cisne, confrontandosi cosí direttamente con una alterità carica di tradizione secolare e provandosi, con minimi e puntuali scarti di
traduzione, a forzarla “decentemente” in una direzione
anti-astrattiva, in qualche modo familiarizzante. D'altra
parte, quando Montale in prima persona, senza mediazioni, dovrà dedicare una poesia - mezza poesia - alla figura di
un cigno, nel 1937, produrrà sí un testo «toccato da un'algida bellezza non immemore della poesia di Mallarmé»,
come annota Isella, ma lo farà incardinando ben bene «la
ricerca spasmodica […] della vera essenza della vita» e la
«geometrizzazione metafisica del paesaggio»149 in una occasione definita cronotopicamente (un'alba al giardino della
villa di Caserta), senza rinunciare cioè al “realismo” del
movimento iniziale. Stiamo parlando, ovviamente, della
lirica Nel parco di Caserta, dalle Occasioni. Qui il cigno è
«crudele», quasi un emblema - ma reale al suo nascere della “crudeltà” degli assoluti mallarmeani, di quell'abisso
di perfezione ideale impassibile che rischia di risucchiare e
uccidere il poeta della Prose pour Des Esseintes. Esistono
estasi malvage - e Montale lo sa bene! - e la purezza ha
implicito un certo sadismo superbo. Il «cigno crudele» di
Caserta «si liscia e si contorce», come il vero cigno che è; nel
rendere compíta la propria bellezza effettua un avvitamento, una torsione manieristico-barocca che tradisce una sdegnosità nevrotica propria della perfezione, un'irritabilità
148
Cfr. P. Valéry, Oeuvres, I, a cura di Jean Hytier, Paris, Gallimard, 1957,
p. 1203 e Opere poetiche, cit., p. 494.
149
E.M., Le occasioni, a c. di D. Isella, cit., pp. 66 e 67.
101
dell'ideale. Poi le «sfere», modelli di compiutezza agghiacciante, poi le «torce», in una agglutinazione congelata di
elementi come fuoco, acqua (l'«aria» di lí a pochi versi, al v.
7). Quindi una crescenza minacciosa di vegetali, risalenti a
primitive forme quasi fantastiche e preistoriche e sacralizzate («domi verdicupi», «araucaria», «liane», «braccia di pietra»), che conducono a una allusione mitica alle Parche (vv.
13-14; qualche raffinato enfatizzerebbe il gioco ParcoParche). In chiusa, si sprofonda alle Madri, che cercano inasprite il vuoto bussando con le nocche, riduzione ah quanto novecentesca! del sublime goethiano. Siamo insomma
ben lontani dalla ricerca concettuale affannosa del cigno di
Guillén, ma siamo anche distanti dalla conformazione poetico-ideologica di Mallarmé (e di Valéry). In parte per una
ragione intima di barocco montaliano, che dal neoclassicismo settecentesco della reale figurazione di partenza (pure
con un tocco, come dire, borrominiano) si inoltra in una
jungla verdecupa e ominosa che conduce a confuse e incerte origini, in parte soprattutto perché Montale compie,
come quasi sempre, un movimento di tipo fisico-metafisico, processo poetico che ormai credo riconosciamo agevolmente. Non c'è metafisica senza realtà, non c'è rivelazione
(anche se fallimentare) senza empiria.
Addendum rilkiano
Non è materia di queste nostre pagine una trattazione
del tema letterario del cigno fra Otto e Novecento.
Dovremmo quanto meno evocare, che so, Les torts du cygne
del parnassiano Théodore de Banville (Les exilés, 1867), fiabesco e malinconico, oppure fermarci su Le cygne di Sully
Prudhomme (nelle Solitudes, del 1869), di sinuosa preziosità, che incede con «tardive et languissante allure», uccello
narcisista e snervato nella sua bellezza, simile poi, quando il
102
lago si oscura notturno, a «un vase d'argent parmi les diamants».150 Si potrebbe cosí arrivare al Cygne mort di
Radiguet, tradotto da Parronchi con nervosa finezza,151 dove
la vendetta di Leda si consuma indirettamente su un cigno
sgozzato le cui piume vanno a riempire un cuscino, e non
mancano poi angeli in accappatoio e tuffatori, in un incrocio di sublimazioni e desublimazioni davvero emblematico
del moderno primonovecentesco. Ma vorremmo soltanto
spendere due parole a proposito di Der Schwan (19051906) di Rilke, in Neue Gedichte (1907),152 lirica asciutta e
funebre, dove l'immagine del cigno costituisce il secondo
termine di una meditabonda comparazione con il vivere e
lo spegnersi dell'uomo:
Der Schwan
Diese Mühsal, durch noch Ungetanes
schwer und wie gebunden hinzugehn,
gleicht dem ungeschaffnen Gang des Schwanes.
Und das Sterben, dieses Nichtmehrfassen
jenes Grunds, auf dem wir täglich stehn,
seinem ängstlichen Sich-Niederlassen -:
in die Wasser, die ihn sanft empfangen
und die sich, wie glücklich und vergangen,
unter ihm zurückziehn, Flut um Flut;
150
Vd. Antologia dei poeti parnassiani, a cura di Marica Larocchi, Milano,
Mondadori, 1996, pp. 158-160.
151
Alessandro Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 208-209.
152
Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di Andreina Lavagetto,
Torino, Einaudi, 2000, pp. 52-55.
103
während er unendlich still und sicher
immer mündiger und königlicher
und gelassener zu ziehn geruht.
Il cigno
Questa pena di attraversare grevi,
quasi in catene, l'ancora Inattuato,
somiglia al passo inceppato del cigno.
Ed il morire, questo venir meno
del terreno su cui posa ogni giorno il piede,
somiglia al suo ansioso discendere -:
nell'acque che con dolcezza l'accolgono
e che, come felici e ormai trascorse,
sotto di lui onda a onda si ritraggono,
mentre sicuro e infinitamente tacito,
di sé signore e sempre piú regale
e sereno, si compiace di incedere.153
153
La traduzione, dall'ediz. cit., è di Giacomo Cacciapaglia. La vecchia
versione di Vincenzo Errante, col suo pur disidratato dannunzianesimo, è stata
probabilmente quella letta da generazioni di poeti italiani (Milano, Alpes,
1929, p. 187), per cui la riportiamo: «L'aspra fatica d'avanzare a stento, / come
stretti da ceppi, entro la vita / in divenire - somiglia all'informe / muover del
cigno a nuoto in su l'avvío: / e l'agonia - questo mancar del fondo / ove poggiamo quotidianamente - / al suo trepido scendere nell'acque / che l'accolgon
benigne e si ritraggono / sotto di lui, quasi mancando in giòlito, / mentre il
cigno silente s'abbandona / securo sempre piú, sempre piú placido, - / e in sua
regalità sui flutti incede». Nella stessa silloge dell'Errante (antologia del Rilke
“minore”, essendo assenti le Duinesi e i Sonetti a Orfeo) si potevano leggere altre
liriche con immagini di cigni, come la giovanile Sono questi i giardini in cui
m'affido («Un cigno nuota / allo specchio del lago, in luminosi / giri, di sponda in sponda: e, primo, adduce / l'albor lunare sovra l'ali argentee / alla riva cui
già l'ombra confonde», p. 29: forse serba memoria di Sully Proudhomme) o,
nella serie seconda delle Nuove poesie, la Leda (p. 206).
104
Il procedere del cigno difficoltoso sul terreno è in
parallelo con l'esistenza terrena dell'uomo, mentre il suo
scivolare regale sulle acque rassomiglia al morire, o
meglio, credo, alla condizione del dopo-morte, quando
l'ansia è dolcemente svanita e l'uomo-cigno è sereno e
silente. Impossibile non osservare che il passo incespicante del cigno rilkiano («ungeschaffnen Gang») serba probabile memoria del cigno tragicamente impedito di
Baudelaire. Il movimento della poesia di Rilke, però,
segue un ordine inverso rispetto a quello del Cygne dei
quadri parigini. Potremmo infatti dire che un poeta
come Rilke, che proprio con le Nuove poesie offre movenze di orientamento barocco-metafisico (nel senso che
abbiamo illustrato finora), nella lirica sul cigno utilizza
l'immagine dell'uccello, per quanto definita in certi dettagli, non come “occasione” fenomenica da investire di
significati, bensí come strumento retorico per una similitudine spiegata, molto classica e aperta. Viene prima,
cioè, la riflessione sulla vita e sulla morte, cui poi si applica per analogia esplicita lo stereotipo del cigno.
Nonostante tale dettaglio, però, si deve aver bene a
mente che Rilke è un poeta esemplare nella lignée dei fisico-metafisici, nella schiera dei poeti che dallo snodo
manierista-barocco al Novecento si arrovellano sui fenomeni per dialogare con le essenze. L'approdo di Rilke al
Dinggedicht, la poesia della cosa, è faticoso e doloroso, e
si realizza, dopo le esperienze giovanili, proprio con le
due parti dei Neue Gedichte. Il materiale tematico è squisitamente barocco-metafisico, nell'interrogazione di dati
empirici come una pantera al Jardin des Plantes di Parigi,
un'ortensia blu, un'ortensia rosa, una scala a Versailles,
una giostra al Luxembourg, una torre, una piazza, un
cieco per le vie di Parigi, una casa in fiamme, un balcone
a Napoli o una barca piena di arance, un liuto, una
donna alla finestra, una dama allo specchio, un arrivo in
105
carrozza, una meridiana, i fenicotteri, l'eliotropio persiano e cosí via. Risulterà ovviamente lampante la similarità delle scelte rilkiane con la topica barocca della celebrazione estetico-simbolica del piccolo e del minuto; si pensi
soltanto alla splendida poesia Der Ball, dove la palla si
innalza dalle mani calde di un giocatore per disegnare
un'ambiguità di «Fall und Flug», caduta e volo, ritornando poi «nella coppa di due mani levate», pura e dinamicamente elementare nella sua cosalità che il poeta carica
strenuamente di tensioni metafisiche. Ma non c'è metafisica che abbia accessibilità, per quanto problematica,
senza una fisicità da “ascoltare”, in cui penetrare con
umiltà concentrata.154 Rilke stesso, in una lettera del 17
febbraio 1914 a Magda von Hattingberg, parla del «guardare dentro un cane» (animale anti-sublime!), nel senso
di «calarsi nel cane, nel suo centro esatto, calarsi nel
punto partendo dal quale egli è un cane», fino a raggiungere l'unica «felicità terrena» che si dà proprio «in quel
guardare dentro, negli istanti incredibilmente rapidi,
profondi e senza tempo di questo divino guardare dentro».155 L'educazione alla poesia fisico-metafisica si compie in Rilke attraverso l'esperienza della scultura di
Rodin, della pittura di Cézanne, come è noto, e particolarmente con l'appropriazione di Baudelaire, il nuovo
paradigma di questa modernità poetica. Non è un caso
che Une charogne sia la lirica piú citata da Rilke, nelle lettere o nel Malte Laurids Brigge, proprio come manifesto
non solo di una estetica dell'orrore ma piú in generale di
una interrogazione dell'oggettività anche piú atroce e
ripugnante, incontrata «au détour d'un sentier», da cui
154
«La presenza delle cose nello spazio, il loro muto offrirsi ai nostri sensi,
sono il nostro accesso alla sola metafisica possibile», come scrive Andreina
Lavagetto nel commento, ediz. cit. p. 666, cui dobbiamo moltissimo.
155
Ivi, p. 639.
106
non distogliere lo sguardo bensí su cui concentrarsi fino
ad abbrancare idee, essenze, moralità, per quanto poi beffarde in Baudelaire e lucidamente devastanti in Rilke.
Ricordi quell'incredibile poesia di Baudelaire, Une Charogne? Forse
adesso sono in grado di capirla. Se si esclude l'ultima strofa, aveva
ragione. Come doveva reagire di fronte a una visione simile? Era
suo compito scorgere in quell'orrore, all'apparenza solo ripugnante, l'esistenza che vige in tutto quel che esiste. Scelta e ripudio non
hanno senso.156
L'ultima strofa della Charogne, che Rilke destituisce di verità, è quella che determinava la sopravvivenza della bellezza
femminile nella conservazione perenne tramite la poesia e nel
cuore del poeta:
Alors, ô ma beauté! dites à la vermine
qui vous mangera de baisers,
que j'ai gardé la forme et l'essence divine
de mes amours décomposés!157
Allora, mia beltà! dite al verminaio
che vi mangerà di baci,
156
Cito da R.M.Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduz. di
Claudio Groff, a cura di Elisabetta Potthoff, Milano, Mondadori, 1988, p. 83.
Analoghi accenti nella lettera alla moglie Clara del 1907, per cui vd. Poesie
1907-1926, cit., p. 625.
157
Oeuvres complètes, cit., p. 32; annota Claude Pichois: «Par son thème,
Une charogne peut être rapprochée de poèmes de l'époque baroque dont
Baudelaire fut durant sa jeunesse un grand lecteur et qui illustrent le memento
mori, soulignent le caractère transitoire de toute oeuvre humaine et, dans la
lyrique amoureuse, font voir à la dame qui se laisse par trop prier les ravages du
temps en la pressant de se donner. Pourtant, la compagne du poète […] ne
paraît pas être de celles qui se refusent. Le sadisme moral n'espère pas ici une
récompense» (p. 889).
107
ch'io serbo la forma e l'essenza divina
dei miei amori imputriditi!
Questo gesto finale cosí ostentato e per certi versi iattante
suona falso all'orecchio di Rilke. Ma tutto il resto della lirica baudelairiana, versione moderna del tradizionale
memento rivolto alla donna amata e variazione su un tema
intimamente barocco, rappresenta un esempio assoluto di
realismo estetizzante e metafisico, un monito a inchinarsi
difronte alla realtà piú bassa e sconcertante per calarsi dentro la cosa, il fenomeno e trovare fuori del proprio io i significati e la bellezza dell'esistenza e dell'essenza, reperire nell'oggettività del non-io il sentiero possibile per le pulsioni
soggettive allo spirituale.
108
NOTA AL TESTO
Facciamo seguire il testo delle liriche di Guillén con le traduzioni di
Montale secondo la lezione offerta da
Mond: Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Mondadori,
1975 (dicembre).
È ristampa, nello stesso anno, del Quaderno già uscito in settembre,
con la correzione di alcuni refusi (vd. ad es. Mengaldo p. 194 n. 12);
nel caso delle poesie e traduzioni di Guillén non ci risultano però
variazioni.
In calce alle poesie poniamo un apparato variantistico genetico-evolutivo
(evolutivo s’intenda solo per l’Opera in versi), quindi una annotazione.
I testimoni utilizzati sono:
Circ: «Circoli», I, gen.-feb. 1931, 1, pp. 53-59.
Nel primo numero della rivista genovese «Circoli» si pubblicano per la prima volta
le traduzioni guilleniane di Montale. Un esergo programmatico, a p. 53, sotto il
titolo generale Cantico, legge: «Pubblichiamo, nella traduzione di Eugenio
Montale che ne costituisce un calco fedelissimo, alcune liriche di Jorge Guillén,
scelte da Cantico, un libro che, pubblicato nel 1928 per i tipi della Revista de
Occidente di Madrid, ha assicurato a questo giovane poeta, postosi sotto le stelle
di Góngora e di Valéry, un posto di prim’ordine nella nuova poesia castigliana».
Seguono le traduzioni montaliane, senza il testo originale, nel seguente ordine:
Avvenimento p. 55, Presagio p. 56, I giardini, Albero autunnale p. 57, Rama d’autunno p. 58, Il cigno p. 59. Le lettere iniziali dei versi sono tutte maiuscole.
C28: Jorge Guillén, Cántico, Madrid, Revista de Occidente, 1928.
Advenimiento, pp. 12-13; Presagio, pp. 60-61; Los jardines, p. 65; Árbol
del otoño, pp. 84-85; Rama del otoño, pp. 86-87; El cisne, pp. 136-137.
109
Come si vede, l’ordine delle liriche tradotte da Montale in Circ rispettava quello dell’edizione originale guilleniana, princeps del Cántico. Le
lettere iniziali dei versi anche qui sono tutte maiuscole.
Poeti: Poeti antichi e moderni tradotti da lirici nuovi, a cura di Luciano
Anceschi e Domenico Porzio, Milano, Casa editrice “Il Balcone”, 1945
(finito di stampare il 20 ottobre), pp. 75-80.
Le versioni montaliane da Guillén, senza gli originali, sono disposte nel
sg. ordine: I giardini p. 75, Albero autunnale p. 76, Rama d’autunno p.
77, Avvenimento p. 78, Presagio p. 79, Il cigno p. 80. Le iniziali dei versi
sono tutte maiuscole.
Merid: Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni
della Meridiana, 1948 (settembre), pp. 148-179.
Nel celebre esergo di autodichiarazione, Montale scrive fra l’altro:
«Alcune di queste prove – le liriche di Guillén e due delle poesie di Eliot
– risalgono al 1928-29». Le traduzioni che ci riguardano, precedute dai
testi originali, compaiono ora in questo ordine: I giardini pp. 152-153,
Ramo d’autunno 156-157, Albero autunnale pp. 160-161, Avvenimento
pp. 164-167, Presagio pp. 170-173, Il cigno pp. 176-179. Le iniziali dei
versi sono in alto/basso a secondo della punteggiatura.
Scheiw: Jorge Guillén tradotto da Eugenio Montale, Milano, All’insegna
del pesce d’oro, 1958.
A p. 30 la nota dell’editore, Vanni Scheiwiller: «Per festeggiare l’amico
Jorge Guillén oggi in Italia ristampo le sei versioni di Eugenio Montale
(da Quaderno di traduzioni. Edizioni della Meridiana, Milano 1948)
che risalgono al 1928-29». L’ordine delle poesie, con i testi originali, è
il medesimo di Merid, di cui la presente stampa è descripta (con rarissime autonomie, tutte sui testi spagnoli: Guillén in persona aveva corretto le bozze, vd. infra n. a Presagio v. 6). Anche qui le iniziali dei versi
sono in alto/basso secondo la punteggiatura.
Pos: Poesia straniera del Novecento, a cura di Attilio Bertolucci, Milano,
Garzanti, 1958, pp. 557-559.
110
L’antologia, ristampata nel 1960, contiene: Ramo d’autunno p. 556557, Avvenimento pp. 558-559, precedute dai testi spagnoli. Le lettere
iniziali sono tutte maiuscole.
OV: Eugenio Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di
Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, pp.
745-750.
L’edizione ne varietur dell’opera poetica montaliana, e quindi anche del
Quaderno di traduzioni, offre il testo delle versioni guilleniane senza gli
originali e ovviamente nell’ordine ormai invalso da Merid in poi. Le
varianti di questo testimone sono quindi espressione dell’ultima volontà del poeta. Le iniziali dei versi sono in alto/basso secondo la punteggiatura. L’apparato critico dei curatori è alle pp. 1163 sg.
L’edizione di Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano,
Mondadori, 1984, è derivata da OV; i testi da Guillén sono alle pp.
765-770, le note alle pp. 1142-1147.
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111
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MENGALDO PIER VINCENZO, La panchina e i morti (su una versione di Montale) [1983] in Id., La tradizione del Novecento. Seconda
serie, Torino, Einaudi, 2003 (prima ediz. 1987), pp. 191-207.
158
L’indicazione di secondo volume è motivata dal fatto che il libro uscí in
coppia con la ristampa dei Saggi italiani (prima ediz. Bari, De Donato, 1974).
113
MORELLI GABRIELE, Guillén y Montale: entre fideldad y recreación,
«Insula», 1993, 554-555, pp. 42-44 (l’intero numero della rivista è
dedicato a Guillén).
MUSATTI MARIA PIA, Montale traduttore: la mediazione della poesia,
«Strumenti critici», XIV, 1980, 1, pp. 122-148.
PAOLI ROBERTO, Jorge Guillén ante Italia, «Revista de Occidente»,
XLIV, 1974, 130, pp. 98-116 (l’intero numero della rivista è dedicato
a Guillén).
Quaderno montaliano, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Padova,
Liviana, 1989, pp. 119-189.
SONZOGNI MARCO, Debiti e doni della traduzione poetica: Montale
tra T.S.Eliot e Samuel Beckett. Appunti su Montale traduttore e tradotto,
«The Italianist», XXV, 2005, 2, pp. 173-207.159
159
Sonzogni cita e discute fra l’altro un volume che non ho avuto modo
di consultare e di cui riporto il dato bibliografico: George Talbot, Montale’s
Mestiere Vile. The Elective Translations from English of the 1930s and 1940s,
Dublino, Irish Academic Press, 1995.
114
Los jardines
Tiempo en profundidad: está en jardines.
Mira cómo se posa. Ya se ahonda.
Ya es tuyo su interior. ¡Qué trasparencia
de muchas tardes, para siempre juntas!
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes.
5
I giardini
[Traduz. Montale]
Tempo in profondo; scende sui giardini.
Guarda come si posa. Ora s'affonda,
è tua l'anima sua. Che trasparenza
di sere unite insieme per l'eterno!
La tua infanzia, sì, favola di fonti...
5
2. s’affonda] si affonda Poeti
5. sì] sí Merid Scheiw
1. profondo: al posto di *profondità che in italiano ricalcherebbe perfettamente profundidad: motivazione esclusivamente metrica? Si ha
una prima concretizzazione dell’astratto, ma molto debole.
scende: clamorosa mutazione semantica, da stasi a movimento, per di
piú movimento a scendere, molto montaliano (franare, affondare,
del resto sema presente nel v. sg. dell’originale, «se ahonda»: si tratta
allora di una amplificatio semantica da parte del traduttore).
Coerente con quanto rilevato da Mengaldo (pp. 202 sgg.) per la traduzione di Garden seat di Hardy
2. Ora: al posto di ‘già’, lieve mutazione di sfumatura semantica
(anche Macrí traduce «Ed ora»).
3: è tua: minuscola compressione di «Ya», assente nella traduz.
(anche al v. 5), ma si tratta spesso di forma-riempitivo in spagnolo,
115
anche se Fortini (pp. 142-43) parla di «avverbio capitale per
Guillén».
l'anima: al posto dell’«interior», sorta di specificazione semantica
(interiore come intimo, quindi anima: Montale leggermente meno
astratto di Guillén).
4. unite insieme per l'eterno!: inversione rispetto all’originale hysteron
proteron, nella linea di una razionalizzazione e normalizzazione sintattica, e sempre per costruire l’endecasillabo. Inversione anche
all’ultimo verso, con quel sì spostato in una posizione che produce
un incespicante accento di quinta contiguo all’accento, altrettanto
forte, della proparossitona favola. Sempre in questo verso 4, abbiamo la perdita di «muchas», considerato implicito, o inutile (certo,
ragioni metriche soccorrono comunque per spiegare questi piccoli
scarti: Montale sceglie di rispettare l’endecasillabo per tutta la lirica,
in ossequio per altro all’originale, almeno in questo caso).
per l'eterno!: amplificazione concettuale, da «siempre» a eterno, con
aggetto di fine verso. Eco interna di Montale: cfr. Ossi di seppia, Casa
sul mare, ultimo verso: «salpa già per l’eterno».
5. fonti…: l’introduzione dei puntini di sospensione sfuma maggiormente dove in Guillén c’era una assertività finale. Inoltre «Guillén
disegnava un cerchio perfetto nell’esaltante unità di passato-presente avveratasi ‘finalmente, ora’ (ya)» (De Las Nieves 1998, p. 188).
Rama del otoño
Cruje Otoño.
Las laderas de sombras se derrumban en torno.
Árbol ágil,
mundo terso, mente monda, guante en mano al aire.
¡Cómo aguzan
su pormenor tranquilo las nuevas nervaduras!
116
5
Chimenea:
exáltame en resumen lejanías de sierras.
...Sí, se enarca,
extremo estío, la orografía de la brasa
10
3. Árbol ágil,] Árbol ágil… C28
Ramo d’autunno
[Traduz. Montale]
Scricchia Autunno.
I declivi dell'ombre attorno cadono.
Agile albero…
Mondo e mente limpidi, guanto in mano all’aria.
Come affilano
calme il disegno nuove nervature!
5
Focolare
dammi in breve distanze di montagne.
... E s'inarca,
tarda estate, un’orografia di brace.
10
Tit. Ramo] Rama Circ Poeti
1. Autunno.] Autunno Pos
9. … E] …e Circ Poeti
1. Scricchia: piú insolito, letterario e onomatopeico rispetto a *scricchiola; cfr. Meriggiare pallido e assorto, v. 11.
2. attorno cadono: come al v. 6, calme il disegno: inversioni sintattiche che
117
inducono preziosità ma soprattutto, come le operazioni di mutazione
infra, sono motivate da ragioni metriche: la costruzione di endecasillabi.
Montale annulla il geometrismo ermetico razionale versolunghista (14
sillabe, alessandrini) di Guillén insediandovi il classicismo di tradizione
italiana che si atteggia nobilmente in ritmi endecasillabici. Montale nega
Guillén anche in questo modo. Per la resa del v. 2 cfr. De Las Nieves
1998, p. 179: «Ne risulta, in Montale, una ricreazione del virgiliano
“maioresque cadunt altis de montibus umbrae” (Buc. I, 83) che difficilmente potremmo riscontrare in Guillén».
3. Agile albero…: i puntini di sospensione sono autorizzati dall’edizione
’28 della lirica di Guillén, dove comparivano, come indichiamo in apparato (vd. anche De Las Nieves 1998, p. 178 n. 11).
4. Mondo e mente limpidi: si ha una compressione rispetto all’originale,
dove c’è il parallelismo sost.-agg. ≈ sost.-agg.; un fenomeno simile è esperibile anche altrove nel Quaderno di traduzioni, ad es. nella traduzione di
Garden seat di Thomas Hardy. Vd. infatti il v. 10 «nor winter freeze them,
nor floods drown», tradotto con «né questi sentiranno gelo o acquate», e
cfr. Mengaldo p. 204.
all'aria: al v. 4 al aire è tradotto da Macrí «nell’aria», come è giusto:
Montale rispetta l’equivoco con una traduzione letterale che esalta la metaforicità (altrimenti, come nell’originale, si deve immaginare un vero guanto che oscilla nel vento tenuto da una mano, una specie di capei d’oro a l’aura sparsi sostituiti da un altrettanto petrarchesco ed emblematico guanto).
5. affilano: piú “elegante” ma meno stridente di «aguzan». Ulteriore elemento di ammorbidimento fonico-stilistico.
6. calme il disegno: nell’originale la connotazione di tranquillità è riferita al
pormenor (disegno); Montale fa un’operazione di slittamento attributivo.
9. E: in luogo di «Sí,» risulta piú fluidificante copula che lega dolcemente, dopo i puntini di sospensione, mentre nello spagnolo l’accento forte
iniziale e la virgola contribuiscono alla spezzatura, obiettivo generale. «È
[in Guillén] la poetica del sí e del ya, questi “sí” e “ya” che il poeta spagnolo aggiunge spesso, nel tradurle, alle composizioni altrui e che
Montale tende invece a sottrargli (si veda l’ultimo verso di Ramo d’autunno), questi “sí” e “ya” che non stanno a designare un flash sporadico come
quello del caso-miracolo montaliano, bensí le rivelazioni continue e suc118
cessive che rendono qualsiasi momento eterno, atemporale. Non l’anello
che non tiene, ma gli anelli che tengono sempre, la gioia di scoprire come
si realizza piú volte (ya, ya, ya…) lo spettacolo delle corrispondenze in
totalità simultanea» (Edo p. 215).
Árbol del otoño
Ya madura
la hoja para su tranquila caída justa,
cae. Cae
dentro del cielo, verdor perenne, del estanque.
En reposo,
molicie de lo último, se ensimisma el otoño.
5
Dulcemente
a la pureza de lo frío la hoja cede.
Agua abajo,160
con follaje incesante busca a su dios el árbol.
10
7. Dulcemente] Dulcemente, C28
Albero autunnale
[Traduz. Montale]
Già matura
la foglia pel sereno suo distacco
160
Traduz. Macrí: «A valle».
119
discende
nel cielo sempre verde dello stagno.
In calmo
languore della fine, l'autunno s'immedesima.
5
Dolcissima
la foglia s'abbandona al puro gelo.
Sott’acqua
con incessanti foglie va l'albero al suo dio.
10
4. sempre verde] sempreverde Circ
5. calmo] calma Circ OV
2. pel sereno suo distacco: abbiamo l’inversione sintattica di «su tranquila» (>sereno suo); poi il difficilmente traducibile «caída justa» (se non letteralmente come fa Macrí: «la sua quieta e giusta caduta») perde la connotazione di serena precisione cosmica e diventa semplice distacco (si ha
quindi un fenomeno di compressione). Si noti poi l’aulicismo della preposiz. articol. pel, uno dei tanti casi in cui Montale utilizza forme della
tradizione poetica per ottenere un perfetto endecasillabo (che d’altronde si potrebbe ottenere modernamente anche per altre vie…).
3. discende: un’ulteriore occorrenza della soppressione di ripetizioni
(«cae. Cae»); oltretutto in questo caso c’era un effetto di ribattuto, nell’originale, accentuato dalla brutale pausa del punto fermo che fessura
in dittico un versicolo tetrasillabico che non ricerca di certo l’eleganza
fonica. C’è da dire poi, sul piano semantico, che discende rispetto al letterale *cade esprime, anzi raffigura qualcosa di diverso, di piú nobilmente lento e sprofondante. Inoltre nell’originale il verbo «cae» non
solo è ripetuto, ma si lega per figura etimologica alla «caída» del v. 2,
quindi con duplice eco, mentre in Montale discende e distacco hanno se
mai solo una raffinata liaison allitterante.
4. nel: rispetto a «dentro del» è piú sfumato, con perdita espressiva, ma
120
l’uso di discende, come si diceva, compensa in parte la perdita, anzi,
corregge il tutto: dall’immagine di una sicura e precisa caduta dentro
le acque, quasi un placido tuffo regolato da geometrie naturali, si
passa a un discendere che pare progressiva lenta immersione. Il perenne “franare” montaliano vs i processi nervosi e lucidi di Guillén.
sempre verde: rispetto a «verdor perenne» si ha un mutamento tipico
del tradurre montaliano, in cui notiamo: trasformazione dell’aggettivo sostantivato astratto in regolare aggettivo (concretizzazione), qui
con complementare riduzione dell’aggettivo «perenne» in avverbio
(sempre); eliminazione dell’incidentale e quindi della sintassi franta e
sincopata propria di Guillén (fluidificazione sintattica). L’uso dell’espressione sempre verde però, generalmente riferita ad alberi che
non perdono le foglie (e cfr. la lez. sempreverde di Circ), accentua la
distanza mitica delle acque dello stagno dalla realtà caduca dell’albero e della sua foglia, che appunto nelle acque va a cercare una sorta di
sopravvivenza divino-metamorfica, cui è sotteso il mito di Glauco.
5-6. calmo / languore della fine: nuova concretizzazione, ove a «reposo» corrisponde l’aggettivo calmo e d’altra parte l’agg. sostant. spagnolo «último» (si poteva tradurre, che so, *l’estremo) diventa una regolare fine (cosí anche Macrí). Da tenere presente che l’astratto «calma»
era però lezione di Circ, reintrodotta in OV, a dispetto dell’aequivocatio con la funzione aggettivale rispetto a «languore»: se la lezione
calmo è errore, «è certo dovuto alla mancanza di una virgola dopo
calma» (OV, apparato p. 1163). Ma non siamo certi si trattasse
di errore; crediamo piú a possibile adiaforia. Vd. piú avanti Presagio
8 e 11-12.
l'autunno s'immedesima: inversione sintattica. La traduzione-calco
s’immedesima ovviamente può essere suggestiva, ma non rende nell’immediato il senso del verbo spagnolo, che significherebbe letteralm. ‘si astrae’ (Macrí: «è incantato l’autunno»).
7. Dolcissima: aggettivo per avverbio («Dulcemente»), ma con l’intensificazione e la soggettivizzazione in rapporto alla foglia (analogamente si nota per il Cisne e altrove).
8. la foglia s'abbandona: inversione sintattica, interna al piú generale
hysteron-proteron dell’intero verso nella traduzione. Inoltre s’abbando121
na rispetto a «cede» accentua la passività femminile dolce-languida
della foglia montaliana.
puro gelo: nuovo rifiuto della formula sost. astr. + genitivo («pureza de
lo frío»), con opzione per una tranquilla sequenza agg.-sost. e quindi
concretizzazione.
9. Sott’acqua: qui, rispetto ad «Agua abajo» (letteralm.: ‘acqua sotto’), si
ha una libera interpretazione che risulta coerente con l’immagine di
inabissamento montaliana, piuttosto arbitraria rispetto all’originale.
Macrí traduce: «A valle», liberamente anche lui, ma senza suggerire la
sommersione.
incessanti foglie: inversione dell’ordine sintattico e sostituzione del
sostantivo collettivo *fogliame con il plurale foglie, quindi leggera concretizzazione.
10. Va: per «busca», un moto certo e cieco rispetto a una ricerca, a una
investigazione che forse è «inútil pesquisa» come quella del Cisne.
Anche nell’ultimo verso si ha un’inversione dell’ordine delle parole.
Advenimiento
¡Oh luna! ¡Cuánto abril!
¡Qué vasto y dulce el aire!
Todo lo que perdí
volverá con las aves.
Sí, con las avecillas
que en coro de alborada
pían y pían, pían
sin designio de gracia.
La luna está muy cerca,
quieta en el aire nuestro.
El que yo fuí me espera
bajo mis pensamientos.
122
5
10
Cantará el ruiseñor
en la cima del ansia
¡Arrebol, arrebol
entre el cielo y las auras!
¿Y se perdió a quel tiempo
que yo perdí? La mano
dispone, dios ligero,
de esta luna sin año.
15
20
10-11. nuestro./El] nuestro,/el Merid Scheiw
14. ansia] ansia. C28
17. a quel] aquel C28 Scheiw Pos
Avvenimento
[Traduz. Montale]
O luna! Quanto aprile!
O aria vasta e dolce!
Tutto che già perdei
tornerà con gli uccelli.
Tornerà con i piccoli
uccelli che mattinano
e pìano in coro senza
desiderio di grazia.
È prossima la luna,
ferma nell'aria nostra.
Quello che fui m'attende
di sotto ai miei pensieri.
5
10
Canterà il rosignolo
sul vertice dell'ansia.
123
Porpora, ancora porpora
tra l'azzurro e le brezze!
S'è perduto quel tempo
che smarrii? La mia mano
dispone, dio leggero,
di una luna senz’anni.
15
20
2. O aria] Oh aria Circ Poeti Merid Scheiw Pos
7. pìano] píano Circ Poeti Merid Scheiw
15. ancora] ancòra Circ Poeti
20. di una] D’una Circ Poeti
2. O aria vasta e dolce: inversione sintattica.
3. Tutto che: forma scorciata (*tutto ciò che) ricorrente in Montale:
vd. La bellezza cangiante, da Hopkins, «tutto che muta», v. 10; Verso
Bisanzio, da Yeats, «tutto che vola», v. 5;
già costituisce una aggiunta, piccola dilatazione.
5. Tornerà: al posto di «Sí», può essere inteso come dilatazione,
ma è soprattutto una ripetizione assente nell’originale, in decisa
controtendenza rispetto all’uso anti-ripetitivo di Montale e con esito
di capfinidad, piú o meno, tra le strofe, non si sa se piú elegante o piú
“demotico”.
5-6. Piccoli uccelli: piuttosto che «avecillas», ulteriore piccola dilatazione e spezzatura in enjambement.
6. mattinano: in luogo di «en coro de alborada», funge da compressione, con perdita (poi recuperata dopo al v. 4, «in coro») del coro e
dell’alborada in favore di un verbo denominale prezioso: nel senso del
cinguettare mattutino il GDLI offre ess. di Panzini e Viani; il verbo è
comunque paradisiaco dantesco: Pd. X, 141 (‘dir mattutino’, ‘far
mattinata cantando’ ecc.); è inoltre omologo del celeberrimo
Meriggiare.
7. e pìano: compressione di pían y pían, pían nell’ambito del regime
di soppressione di ripetizioni precedentemente sospeso (v. 5); da
124
notare d’altra parte il calco pìano di pían;
in coro: dislocazione del sintagma dal v. 6 al v. 7; tra i vv. 7-8 si noti
l’inarcatura che spezza la coincidenza metrico-sintattica dell’originale, coerente quantomeno nelle prime strofe, mentre ai vv. 17-18 e 1819 è mantenuta l’inarcatura dell’originale.
8. desiderio: rispetto a «designio», offre concretizzazione e soggettivizzazione.
9. È prossima la luna: inversione sintattica.
10. ferma: per «quieta» è leggera diminuzione espressiva.
13. rosignolo: è invece scelta di aulicizzazione (la forma nobile petrarchesca ecc. dell’*usignolo); vd. ad es. Quel rosignuol che sí soave
piagne (Rvf 311).
15. Porpora, ancora porpora: è debole dilatazione, per evitare la ripetizione secca, con inserto di «ancora». Per «arrebol»: «Color rojo que se
ve a veces en las nubes por efecto de los rayos del sol» (Diccionario
Salamanca); «rosso delle nubi – belletto, rossetto» sono i due significati principali che dà l’Ambruzzi nel suo classico Nuovo dizionario
spagnolo-italiano ed. Paravia.
16. azzurro: per cielo è catacresi, comunque una giunta metaforica, se
pure debolissima.
17. S'è perduto: debolissima compressione con perdita di «Y».
18. smarrii: sinonimo elegante per evitare la solita ripetizione
sul verbo perdere (Edo, p. 212, nota anche l’omofonia sMArrii-MIaMAno).;
mia, assente nell’originale, dilatazione debole.
20. una: per esta comporta astrazione, con perdita del deittico;
anni: è pluralizzazione per certi aspetti normalizzante.
Presagio
Eres ya la fragancia de tu sino.
Tu vida no vivida, pura, late
dentro de mí, tictac de ningún tiempo.
125
¡Que importa que el ajeno sol no alumbre
jamás estas figuras, sí, creadas,
moñadas161 no, por nuestros dos orgullos!
5
No importa. Son así más verdaderas
que el semblante de luces verosímiles
en escorzos de azar y compromiso.
Toda tú convertida en tu presagio,
¡Oh, pero sin misterio! Te sostiene
la unidad invasora y absoluta.
¿Qué fué de aquella enorme, tan informe,
pululación en negro de lo hondo,
bajo las soledades estrelladas?
10
15
Las estrellas insignes, las estrellas
no miran nuestra noche sin arcanos.
Muy tranquilo se está lo tan oscuro.
La oscura eternidad ¡oh! no es un monstruo
celeste. Nuestras almas invisibles
conquistan su presencia entre las cosas.
20
6. moñadas] Soñadas C28 soñadas Scheiw
11. misterio! Te] misterio!: te C28
16. las estrellas] las estrellas, C28
19. ¡oh!] ¡oh, C28
20. celeste. Nuestras] Celeste!: nuestras C28
161
Sic in Merid Mond, refuso per «soñadas», ovviamente; Scheiw in questo
caso corregge autonomamente. Infatti le bozze del volumetto erano state inviate
dall’editore per correzione a Guillén stesso, per cui vd. De Las Nieves 2001, p.
511 n. 14. Permane tuttavia un refuso, a Cisne 17, come si può vedere infra.
126
Presagio
[Traduz. Montale]
In te si fa profumo anche il destino.
Batte la vita tua non mai vissuta
dentro di me, tic tac di nessun tempo.
Che fa se il sole estraneo non illumina
queste figure da noi non sognate,
create sì, dal nostro doppio orgoglio?
5
Non conta. Così sono più veraci
che parvenze di luci inverosimili
negli scorci dell’obbligo e del caso.
Tutta tu convertita nel presagio
tuo, ma senza mistero!: un’irrompente
verità di assoluto ti sostiene.
Che fu di quell'enorme e così informe
pullulare di oscuro dal profondo,
sotto le solitudini stellate?
10
15
Le stelle insigni di lassù non guardano
la nostra notte che non ha segreti.
Resta tranquillo quel profondo buio.
L’oscura eternità non è già un drago
celeste! Le nostre anime conquistano
non viste una presenza tra le cose.
20
1. In te si fa profumo anche il destino.] Tu sei come il profumo del tuo
seno, Circ Poeti
6. sì] sí Merid Scheiw
7. Così sono più] Cosí sono piú Merid Scheiw
127
8. inverosimili] verosimili Circ Poeti OV
11-12. un’irrompente / verità di assoluto ti sostiene] ti sostiene /
L’irrompente unità dell’assoluto Circ ti sostiene / L’irrompente verità
dell’assoluto Poeti
13. così] cosí Merid Scheiw
14. profondo,] profondo Circ Poeti
16. Le stelle insigni di lassù non guardano] Non guardano le stelle, le
alte stelle, Circ Poeti lassú Merid Scheiw
18. Resta tranquillo quel profondo buio.] Resta tranquillo lassù il
fondo buio. Circ
1. si fa: consueta accentuazione del fieri sul factum («eres», tradotto
fedelmente in Circ e Poeti: Tu sei); anche: in assenza di un puntello nell’originale, scatta uno stilema montaliano: cfr., per fare solo esempi
memorandi, Crisalide 38-39 («e anche la vostra / rinascita è uno sterile
segreto»); Dora Markus I, 19 («è una tempesta anche la tua dolcezza»)
ecc.
2. Batte la vita tua non mai vissuta: inversione sintattica, con anteposizione elegante del verbo, a ottenere un endecasillabo come sempre
nobilmente atteggiato; compressione e perdita di «pura».
3: dentro…tempo: è esempio tipico di quei casi in cui la lingua spagnola permette, anche a traduttori emunctae naris come Eugenio, di lasciar
passare un perfetto calco versale con esiti di inalterata disinvoltura
rispetto all’originale.
5-6: queste figure da noi non sognate, / create sì: mutazione sintattica che
recupera una maggiore linearità, rispetto al gusto per l’iperbato, per i
costrutti incidentali, tipico di Guillén: rientra in una generale tendenza alla fluidificazione sintattica da parte del traduttore Montale (cfr.
Busquets p. 115).
6. doppio orgoglio: di fronte a «dos orgullos» una minima variazione elegante, rispetto a una traduzione letterale che sarebbe apparsa certo brutale (*due orgogli), ma non avrebbe scompigliato il computo endecasillabico. Ennesimo esempio di opzione montaliana per un assetto formalmente sempre decoroso. Attenzione cioè a un aptum tradizionale,
128
classicista, assolutamente estraneo a quella lirica moderna che invece
punta spesso allo straniamento o alla scarnificazione della retorica.
7. Così sono: inversione sintattica rispetto a «Son así».
8. parvenze: plurale per il singolare, ma soprattutto adozione di un termine iperconnotato nella poetica montaliana (cfr. Gloria del disteso
mezzogiorno, ovviam.), che sposta da un «semblante» piuttosto neutro
verso un lessema dall’aura fantasmatica. E difatti sconcertante, ma coerente con le «parvenze», la completa inversione semantica di «inverosimili» rispetto all’originale (ottenendo fra l’altro una antitesi perfetta fra
«veraci» e «inverosimili», diversamente dalla contrapposizione piú sottile guilleniana tra «verdaderas» e «verosímiles»)! Comunque in OV si
torna a «verosimili», lezione già di Circ e di Poeti. Anche il corretto
pullulare («pululación») è del resto consuonante con il lessico montaliano, particolarmente Casa dei doganieri v. 19, poesia del 1930, quindi
contemporanea o immediatamente posteriore alle versioni da Guillén
che si possono ascrivere al biennio 1929-1930.
9. dell’obbligo e del caso: inversione della sequenza dittologica originale,
«de azar y compromiso», con anche sfumature semantiche differenti. Il
«compromiso» è sentito come un piú ferreo obbligo, in una concezione
tutta montaliana del determinismo, o meglio meccanicismo del divenire, dalle strette soffocanti maglie; l’«azar» invece diventa caso, lo slancio
soggettivo, umano cede al capriccio della catena degli eventi che
potrebbe allentarsi per un istante. Non siamo molto lontani dai
«disguidi del possibile» di Carnevale di Gerti (v. 58) che è del ’28
(Fortini p. 146).
11. tuo: rigettato al v. sg. rispetto all’originale, con inarcatura (segno
sempre di elegante gravitas) e con il mantenimento della fisionomia del
v. 10, quasi un calco;
ma senza mistero!: la puntuazione esclamativa è conservata, ma l’enfasi
di Guillén, che ama nella sua purezza improvvise esclamazioni, è ridotta, attenuata. Vd. anche sotto al v. 19 l’eliminazione di «¡oh!».
10. Tutta tu: fedele traduzione di «Toda tú», ma si pensa al Girasole:
«Portami tu la pianta che conduce».
11-12: un’irrompente / verità di assoluto: traduzione liberissima di «la
unidad invasora y absoluta» (con dislocazione del verbo in fine di verso
129
e di tutto il periodo, con acquisto di enjambement e perdita però della
memorabilità scolpita del verso 12 spagnolo). Busquets (p. 115) parla
di un allegro vivace montaliano che sostituisce qui occasionalmente il
«ritmo lento y solemne del original». Notazioni raffinate, ma l’aspetto
semantico e variantistico è ancora piú notevole in questa “traduzione”.
Intanto la verità rispetto all’«unidad», correttamente tradotta nella versione in rivista del 1931, deriverebbe da una variante, forse erronea,
presente in Poeti, da cui Montale avrebbe ripreso, ritoccandolo, il testo
delle edizioni Merid, Mond, OV (vd. apparato di OV pp. 1163-64).
Nella rivista Montale traduceva: «ti sostiene / l’irrompente unità dell’assoluto». Poi in Poeti avevamo il refuso (ma era un refuso?): «l’irrompente verità dell’assoluto». Da cui il rifacimento nelle edd. sgg.
Montale in questo caso avrebbe dunque da ultimo conservato il testo
senza tornare all’originale, o alla sua prima traduzione in rivista (cfr.
invece sopra, v. 5 di Albero autunnale e apparato in OV p. 1163, e
infra, vv. 17-19 del Cigno). Oppure ha continuato a ritenere verità
come buona “interpretazione” di unidad? Ancora sospetto di adiaforia,
piuttosto che di errore. Originaria era invece già la trasformazione dell’aggettivo invasora in «irrompente» e soprattutto la mutazione del
secondo aggettivo absoluta in un sostantivo astratto al genitivo: «di
assoluto». Avremmo qui insomma una traduzione in controtendenza
rispetto alla linea anti-astrattiva e concretizzante che caratterizza il
comportamento abituale di Montale verso il testo di Guillén, come
noteremo soprattutto per il Cisne e come sottolinea anche il Busquets
(117-18). Qui verifichiamo cioè una insolita transizione dall’aggettivale al concettuale puro.
13. e: consueta preferenza montaliana per il legame sindetico con la
copula, rispetto alla sintassi sempre franta e sincopata di Guillén (cfr.
ancora Busquets 115).
14. di oscuro: mi pare scelta razionale e precisa rispetto al suggestivo
«en negro».
16. Le stelle insigni di lassù: si noti la solita compressione ed eliminazione della ripetizione (che rimaneva presente in Circ e Poeti); giunta
montaliana è quel «di lassù» che sembra fungere proprio da zeppa a
costruire un perfetto endecasillabo.
130
17. che non ha segreti: esplicazione tramite relativa del sintetico «sin arcanos», secondo la volontà di chiarificazione propria del tradurre montaliano (cfr. ancora Busquets 115); la suggestione possibile che era offerta dal
lessema appena piú inusuale *arcani viene fatta cadere, accontentandosi
subito Montale di una soluzione metricamente tranquilla.
18. Resta: rispetto a «se está», il consueto atto di preferenza per un durativo in luogo di una staticità assoluta del testo originale. Viene poi a
cadere «Muy».
quel profondo buio: Busquets (p. 118) rileva una ulteriore concretizzazione rispetto all’astratto «lo tan oscuro»; c’è da dire però che l’aggettivo profondo è normale accrescitivo dell’oscurità nella lingua italiana.
19. drago: specifica il «monstruo» di Guillén.
20. celeste!: l’esclamativa è autorizzata dalla lezione guilleniana della
princeps di Cántico: vd. De Las Nieves 1998, p. 178 n. 11.
21. non viste: indubbiamente ragioni metriche motivano la scelta di tradurre cosí «invisibles», ma c’è forse una analogia con la versione di El
cisne v. 4: «l'armonia che non vede» per «la armonía insegura», dove il
processo di “soggettivizzazione” messo in atto da Montale traduttore è
ancora piú evidente.
Qualche osservazione generale. Complesso definire la sostanza dell’operazione montaliana in questo caso. La lirica di Guillén instaura
una dicotomia tra il verosimile e il vero, ricacciando nello spazio del
primo la realtà o pseudorealtà, valorizzando lo spazio del secondo come
regno intimo, atemporale, dell’autenticità e dell’eternità, tutto interno
ai due amanti, oscuro profondo ma non mai mostruoso né inquieto
(«le due persone comunicanti sono vedute in un processo di trasformazione ininterrotta mirata ad una loro verità piú profonda, verso una
essenza», Fortini p. 145). La filosofia dello spagnolo qui pare quella di
una metafisica aprioristica, piena compatta tranquilla, una stasi felice di
essenza dove anche il buio è luminoso e le rose ipotetiche (vd. Macrí,
introduz. a Guillén, p. 44 n., versione precedente della poesia) sono piú
fragranti di quelle reali. E Montale? Semplicemente accoglie un refuso
(?) che sostituisce verità a unità. La verità è disperatamente ambita da
Montale (sappiamo con quale programmatico fallimento), la unità è
lucentemente fruita e posseduta dal poeta spagnolo. «Guillén vede una
131
totalità dove Montale vede una lacerazione» (Fortini p. 148).
Qualcosa sul termine presagio. Si pensa subito a Falsetto v. 16, al «presagio nell’elisie sfere», ma si veda anche Incontro vv. 29 sgg.: «Se mi lasci
anche tu, tristezza, solo / presagio vivo in questo nembo, sembra / che
attorno mi si effonda / un ronzio qual di sfere quando un’ora / sta per
scoccare». Il quadro delle occorrenze ci rimanda anche in avanti al
madrigale privato del ’49, Se t’hanno assomigliato, dove al v. 21 «il presagio» sulla fronte della Volpe è il marchio a sangue che il poeta vi ha
impresso come segno di «perdizione e salvezza» insieme.
El cisne
El cisne, puro entre el aire y la onda,
tenor de la blancura,
zambulle el pico difícil y sonda
la armonía insegura.
¡Gárrulas aguas! ¡Inútil pesquisa
de músico relieve!
Picos sin presas recoge la brisa
que va tras lo más leve.
Quiere después con la voz el Esbelto
desarrollar su curva.
¡Ay, discordante aprendiz, se ha resuelto
la soledad en turba!
Pero... ¡Callados los blancos! se extrema
su acorde: su fanal.162
Todo el plumaje dibuja un sistema
de silencio fatal.
162
132
5
10
15
Nel Diccionario Salamanca abbiamo un terzo significato, oltre a faro e
Y el cisne, fiel a través de una calma
de curso trasparente,
contempla muda y remota su alma:
deidad de la corriente.
20
3. difícil] difícil, C28
11. aprendiz,] aprendiz!: C28
12. turba!] turba. C28
13. se] Se C28
17. cisne] cisae Scheiw; fiel] fiel, C28
18. trasparente,] trasparente C28
19. contempla muda y remota] Contempla, muda y remota, C28
Il cigno
[Traduz. Montale]
Puro il cigno sospeso tra cielo e onda,
virtuoso della neve,
immerge il becco capriccioso e sonda
l'armonia che non vede.
Garrule acque! Inutile rovello
per un mùsico accento!
I becchi senza presa accoglie il vento
che scherza col fuscello.
Vuole poi con la voce il disinvolto
sviluppar la sua curva.
Ah l'incauto apprendista che ha risolto
solitudine in turba!
5
10
lampada per pescherecci: «canpana transparente para protejer un objeto o una
luz». Ma è quasi sicuramente un faro quello del cigno, che promana luce verso
l’estrema lontananza: luce-suono (acorde-fanal) con effetto sinestetico.
133
Forse... Cedono i bianchi! Già il fanale
dell'accordo si strema.
Tutto il piumaggio disegna un sistema
di silenzio fatale.
Ed il cigno fedele, di tra il lume
della corrente immota,
guarda l'anima sua muta e remota,
divinità del fiume.
15
20
2. immerge] Immerse Circ Poeti
17. fedele,] fedele Circ Poeti OV
18. immota,] immota Circ Poeti OV
19. remota,] remota: Circ OV remota. Poeti
1. Puro il cigno: inversione sintattica; cosí per «l'anima sua muta e
remota», v. 19;
sospeso: assente nell’originale (sottinteso), dilatazione.
Cielo: per «aire», concretizzazione.
2. virtuoso della neve: traduzione libera con para-sinonimo iperonimo
(virtuoso per «tenor») e ancor piú libera con neve per «blancura», concretizzazione per l’astratto e introduzione di metafora, con inferenza
molto creativa (diciamo un livello semiforte di scarto semantico).
3. capriccioso: per «difícil», sfumatura che sposta dalla schifiltosità snob
del cigno guilleniano alla capricciosità nervosa: è una accentuazione
espressiva in direzione di una descrizione soggettiva del cigno piú concreta; la lezione «Immerse» di Circ e Poeti sarà probabile refuso.
4. che non vede: per «insegura»: soggettivizzazione, approfondimento.
5. rovello: per «pesquisa»: aulicizzazione del lessico, accentuazione dell’ansiosità della ‘ricerca’.
6. accento: per «relieve», concretizzazione dell’astratto (vd. ess.
ai vv. 2, 8, 20).
8. scherza col fuscello: per «va tras lo más leve»: concretizzazione dell’immagine astratta (scarto traduttorio di livello forte).
134
9. disinvolto: per «Esbelto»; forse anche qui è dato rinvenire una
accentuazione semantica, oltretutto con una sfumatura ironica e una
marca piú soggettivizzante dell’animale.
11. incauto: per «discordante»: c.s., l’aggettivazione di Montale è piú
coerente con la psicologizzazione del cigno, mentre in Guillén l’astrazione è maggiore: la ‘discordanza’ dell’originale anticipava l’antitesiossimoro di soledad-turba.
13. Forse…: «il cambiamento di prospettiva viene introdotto nel testo
montaliano da un Forse che riduce la certezza a mera possibilità, laddove Guillén sottolinea il salto metafisico ricorrendo alla congiunzione avversativa ‘ma’ (Pero)» (De Las Nieves 1998, p. 189);
Cedono: per «Callados», verbo finito al posto di un part. agg., con
perdita dell’indicazione sinestetica di suono (ovvero di assenza di
suono, ammutolimento), quindi normalizzazione di una delle squisitezze metaforiche di Guillén.
13-14. Fanale…si strema: la giustapposizione di «acorde» e «fanal»,
con spezzatura sintattica molto guilleniana, si trasforma in un
costrutto piú fluido e razionale; si ottiene inoltre una esplicazione
maggiore della sinestesia.
17-18. di tra il lume / della corrente immota: traduzione libera (scarto
di livello semiforte) e complessa. L’astratta «calma» si fa aggettivo
immota predicato della corrente; il lume inversamente è sostantivizzazione dell’aggettivo «trasparente», con approfondimento luministico
ma perdita della trasparenza. La punteggiatura nei versi 17-19 subisce in OV un restauro in sintonia con la lezione di Circ.
19. guarda: per «contempla» produce una diminuzione di intensità,
nella linea dell’asciugamento espressivo praticato complessivamente
dal gesto traduttorio montaliano.
20. Fiume: rispetto a «corriente» sceglie il tutto per la parte, producendo una concretizzazione con perdita di dinamicità.
In conclusione, la notazione principale mi sembra la deprivazione di
elementi astratti dell’originale per un esito piú concreto-psicologico,
piú cordiale e familiare.163 La poesia di Guillén ne esce alterata sottilmente, intimamente, come per una rivolta montaliana verso la poesia
pura (d’altronde, come sappiamo, ben autodocumentata). In senso
135
inverso, un poeta come Ungaretti traduce ad es. «la hermosa mano»
di Góngora con «incanto di mano», procedendo dal concreto all’astrazione balenante.164
163
Vd. anche Edo, pp. 219 sg.: «le soluzioni capriccioso per difícil, rovello
per pesquisa, disinvolto per esbelto e incauto per discordante muovono tutte in
una direzione morale e comportamentale nella quale non s’iscrivono gli equivalenti spagnoli e che potenzia le qualità animiche del cigno. Stesso fenomeno
nella seconda strofa di Avvenimento con la sostituzione di desiderio a designio.
Varranno le modifiche montaliane a giustificare la celebre categoria orteguiana
delle “deshumanización”, contestata da Guillén a nome di tutta la generazione
del ’27?». Buona domanda.
164
Giuseppe Ungaretti, Da Góngora a Mallarmé, Milano, Mondadori,
1948, pp. 30-31; cfr. Niva Lorenzini, Ungaretti – Petrarca – Gòngora: per una
rilettura, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea
Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 139-140.
136
Sopra il vulcano
A esergo dei Mottetti nelle montaliane Occasioni si
legge un verso di Gustavo Adolfo Bécquer, «Sobre el bolcán la flor», poi corretto in OV: «Sobre el volcán la flor».
I Mottetti sono una sezione di poesia amorosa, “petrarchista”, a dire anche dell’autore165, ma certo di un petrarchismo ibrido, guarnito di croste pre-petrarchesche e postpetrarchesche, come a dire dantesche e manieristicobarocche. Evocando Bécquer arriviamo addirittura al
pieno romanticismo spagnolo, già venato di presentimenti languido-sfumati tardo-romantici e simbolisti.
Tuttavia un petrarchismo romantico in Europa è ben
documentabile; se lo è, soprattutto linguisticamente, per
il nostro Leopardi,166 può esserlo anche per Bécquer, nelle
cui rime la donna ha ad es. una mano di neve e un volto
dove si mescolano brina e rose, carminio e perle, una
capigliatura bionda sciolta ed omeri d’alabastro (Rimas
VII, XII, Poesías sueltas X).167 Ovviamente un petrarchismo
165
Che si riferisce a Finisterre, ma retrospettivamente anche ai Mottetti,
nella celebre Intervista immaginaria del 1964, già citata sopra, cap. 1: «Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo cosí, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o
la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre» (SM III, p. 1483).
166
La cui Ginestra, o il fiore del deserto è stata peraltro da qualcuno relazionata con la Rosa del desierto del madrileno Cienfuegos, pubblicata nel 1816 e
tradotta in Italia nel 1821: vd. Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Franco
Gavazzeni e Maria Maddalena Lombardi, Milano, Rizzoli, 1998, p. 589 n.
167
Abbiamo presente l'edizione delle Rime a cura di Oreste Macrí, Napoli,
Liguori, 1995 (prima ediz. 1947).
137
iberico non può non essere altrettanto contaminato dai
paradigmi barocchi, talché la memoria di Garcilaso non
è fisiologicamente scissa da quella di Góngora, quella di
Boscán da quella di Quevedo ecc. La storia europea del
petrarchismo la intendiamo come vicenda di un petrarchismo plurale e inclusivo, dotato di una sua tenuta
secolare.168
Ma torniamo al fiore sul vulcano. Il versicolo estrapolato da Montale appartiene a un epigramma bécqueriano di
estrema grazia, che riportiamo nella lezione dell’autografo,
con traduzione (Rimas XXII):
¿Como vive esa rosa que has prendido
Junto a tu corazón?
Nunca hasta ahora contemplé en el mundo
Junto al volcán la flor.
Pur vive questa rosa che hai fermato
Presso il tuo cuor?
Mai contemplai finora sulla terra
Presso il vulcano il fior.
Una prima redazione dei versi 3-4, testimoniata sempre dal
168
Rimando ancora alle precisazioni date supra, al cap. 1; vd. anche
Petrarquismo plural e petrarquismo de koinè, in Petrarca 700 anos, a cura di Rita
Marnoto, Coimbra, Instituto de Estudios Italianos da Faculdade de Letras da
Universidade de Coimbra, 2005, pp. 121-129; poi in italiano, Appunti sul petrarchismo plurale, «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp. 71-75. Per i rapporti MontaleBécquer si vedano almeno: Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura
Hispánica, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 133-38, 30; Angelo Marchese, Le ispiratrici
dei Mottetti, in Strategie di Montale poeta tradotto e traduttore con una appendice su
Montale in Spagna, a cura di María De Las Nieves Muñiz Muñiz e Francisco
Amella Vela, Firenze, Cesati, 1998, pp. 119-141 (cap. 4, Montale e Bécquer, pp.
138-141); E. M., Le occasioni cit., introduz. di Isella ai Mottetti p. 77.
138
ms. autografo del Libro de los gorriones e ivi cassata,
recitava:
Sobre un volcán hasta encontrarla ahora
nunca he visto una flor.169
La versione definitiva è piú efficace, per l’intensificazione
del contemplé rispetto ad he visto, per l’illimpidimento sintattico, per la rinuncia alla prosaica espressione hasta
encontrarla ahora ecc., ma soprattutto per la resultanza di
aggetto finale prezioso: junto al volcán la flor, che nella
vulgata postuma diventa appunto sobre el volcán la flor.170
Proprio questa chiusa araldica rimase nella memoria di
Montale che la ripropone ad epigrafe dei suoi Mottetti,171
tutti pieni del resto di assunzioni metaforiche dei dati
naturali, oggettuali, secondo una poetica metafisica che è
stata piú volte cribrata.
La storia dei rapporti di Montale con il poeta sivigliano non si limita a questo omaggio. Va ricordata senz’altro
la traduzione della Leyenda in prosa El rayo de luna apparsa
nei Narratori spagnoli a cura di Carlo Bo del 1943 (Milano,
Bompiani). Ancor piú indicativa e ben meno “professionale” la presenza bécqueriana in un altro luogo dell’opera
montaliana: nella prosa Dov’era il tennis…, apparsa in rivi169
Vd. ora G.A.Bécquer, Rimas, edizione critica di Luis Caparrós
Esperante, Alicante, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2003, disponibile online sul sito http://cvc.cervantes.es/obref/rimas/
170
Da notare che anche la lezione en el mundo diventa en la tierra, dall'edizione Madrid 1871 in poi. Macrí ritiene «redazionali dei curatori» le correzioni a stampa rispetto al ms. autografo Libro de los gorriones, Biblioteca Nacional
di Madrid 13.216.
171
Altrettanto rilevante è l'esergo della Bufera, con i versi di Agrippa
d'Aubigné, su cui ora vd. Carla Riccardi, Il punto su Clizia e su vecchie e nuove
fonti dalla «Bufera» a «Gli orecchini», «Nuova rivista di letteratura italiana», VII,
2004, 1-2, pp. 327-382: 373-82.
139
sta nel 1943, poi inserita nella parte III «Intermezzo» della
Bufera (OV pp. 215-16), Bécquer ha l’onore della citazione
diretta di tre suoi versi, dalla nota poesia su un’arpa abbandonata; sono il primo, il secondo e il quarto verso della
strofa iniziale, che citiamo interamente (Rimas VII):
Del salón en el ángulo oscuro,
de su dueña tal vez olvidada,
silenciosa y cubierta de polvo,
veíase el arpa.
Ancora una volta gli oggetti di Montale, corrosi da «cancrena» e «iniquità», ma pure fosforescenti di lampi metafisici,
ospitano nel loro catalogo-catena un reperto bécqueriano:
le parole del sivigliano diventano qui esemplari dell’abbandono, della derelizione ambientale e simbolica.
Nelle occasioni pubblicistiche in cui Montale fa il
nome di Bécquer, i connotati evidenziati sono pertinenti
a una sfera di purezza e ingenuità, come a volerlo isolare
in un decimonónico limbo di romanticismo esente da
complicazioni ulteriori, soprattutto pensando agli sviluppi otto-novecenteschi della poesia iberica, da Machado a
Guillén ecc., ma anche considerando una vena baroccosurrealista che percorre tutta la lirica spagnola e che
Montale non sempre dichiara di amare. Ecco allora i riferimenti a «…l’ingenuo sentimento di un Bécquer» (1956,
intervento a proposito del Nobel a Jiménez: in SM II, p.
1993), al «piú puro dei romantici: Bécquer» (1961, SM
II, p. 2359: relativamente non alle poesie, quanto ai racconti delle Leyendas).
Tornando all’epigramma della rosa sul vulcano, ci
preme illustrarne la particolare dinamica, che si inserisce
nella modalità poetica di traccia barocco-metafisica su cui
abbiamo scritto, eresia del petrarchismo di lunghissima
durata, dallo snodo cinque-secentesco fino a Baudelaire e di
140
qui al novecento di Montale, appunto, nonché di Rilke,
Eliot ecc., come sappiamo. Bécquer parte da un rilevamento empirico, da un minuscolo evento: la donna ha preso un
fiore e lo ha appuntato sul proprio seno. Piccolo gesto,
pieno di malia, ma comunque connotato da un suo umile
“realismo”. Dall’osservazione dell’empiria il poeta estrae
una domanda concettosa: come può un fiore vivere sul vulcano?, fondata sulla metafora seno-vulcano. L’estrazione del
paradosso da una situazione o vicenda è classica, iterata ad
esempio nell’Ovidio delle Metamorphoses, nonché nella tradizione epigrammatica. Nei versi di Bécquer notiamo quel passaggio dal dato reale, concreto, all’astrazione emblematica:
vulcano e fiore sono pertinenti al regno araldico, ideale, al
dominio delle essenze, quel dominio frequentato dalla poesia
pura del petrarchismo ortodosso, che parte dalle astrazioni
metaforiche per restare in esse, aprioristicamente rispetto alla
realtà. Il processo fisico-metafisico è invece un processo eretico, di riscoperta del reale per poterlo trascendere, ed è la
grande novità-discontinuità dell’età manieristico-barocca,
l’età di Donne, di Shakespeare, di Marino, di Galileo, di
Quevedo, di Cervantes. Fondazione del moderno in poesia
che troverà una rifondazione nella metà del diciannovesimo
secolo con Baudelaire. Bene, in questa linea che abbiamo
chiamato di “realismo metafisico” la presenza di Bécquer è
occasionalmente significativa, ad es. con l’epigramma che
stiamo interrogando. A conferma della partenza episodicoquotidiana del gesto poetico si dispone di un’altra lirica bécqueriana strettamente legata a Rimas XXII, ed è il n. XVIII
della raccolta (sempre secondo la numerazione vulgata
postuma, che non corrisponde all’ordine dell’autografo):
Fatigada del baile,
encendido el color, breve el aliento,
apoyada en mi brazo
del salón se detuvo en un extremo.
141
Entre la leve gasa
que levantaba el palpitante seno,
una flor se mecía
en compasado y dulce movimiento.
5
Como en cuna de nácar
que empuja el mar y que acaricia el céfiro,
tal vez allí dormía
al soplo de sus labios entreabiertos.
10
Oh! quién así, pensaba,
dejar pudiera deslizarse el tiempo!
Oh! si las flores duermen,
¡qué dulcísimo sueño!
15
Stanca per il ballo,
incendiato il color, breve il respiro,
appoggiata al mio braccio
del salone si arrestò ad un angolo.
Entro la lieve garza
che sollevava il palpitante seno,
un fiore si cullava
in compassato e dolce movimento.
Come in cuna di madreperla
che il mar sospinge e che accarezza il zèffiro
forse vi dormía
al soffio dei suoi labbri semiaperti.
Oh! chi cosí, pensavo,
lasciar potesse scivolare il tempo!
Oh! ma se i fiori dormono,
che dolcissimo sogno!
142
In questa lirica di mondano affanno e trasfigurazione il
dato di partenza è ancora piú definito e concreto: si tratta
di una scena di ballo in un salón (location consuetamente
romantica), quindi di un realistico momento di stanchezza
della donna che si ferma in un angolo della sala a riprendere fiato. La contemplazione del fiore ondeggiante sul seno
velato di lei provoca la verticalizzazione mitico-onirica,
cosicché dal dettaglio di un istante si sprigiona una réverie
di eternità equorea cullante. Insomma, il processo di elaborazione metafisica dell’empiria si compie anche questa
volta, come già nella poesia cortigiana manierista e barocca, dove la mondanità sublimata era di casa (si pensi, per
fare un esempio italiano, alla Ferrara di Pigna e di Tasso).172
Non si vuole dire che Bécquer avesse necessariamente
modelli specifici cinque-secenteschi per la sua invenzione
della flor e del volcán. Potrebbe averne avuti: io non ho
ancora rinvenuto un luogo da poter definire positivisticamente “fonte”. Certo, la metafora del petto-mongibello è
res nullius (piú spesso il petto dell’amante, però), mentre il
fiore sul seno è locus di ancor piú antica data: «Ah, s’io fossi
una rosa di porpora, e tu mi prendessi, / e il tuo seno di
neve mi donassi!» (Ant. Pal. V, 84, trad. Filippo Maria
Pontani). Quel che conta è la movenza epigrammatica bécqueriana, il suo vettore fisico-metafisico, come abbiamo
detto. Ed è tale il gesto che inserisce la poesia del sivigliano
nel percorso della modernità realistico-metafisica. A una
tappa piú avanzata del medesimo percorso si pone
Montale, di cui risulta cosí meno enigmatica la citazione
del fiore sopra il vulcano di Bécquer all’ingresso dei suoi
barocco-metafisici Mottetti.
172
Vd. ancora il cap. 1 di questo volume.
143
Io, Esterina
La lirica di Montale Falsetto, scritta non oltre il febbraio del 1924, è una intelaiatura di figurazioni mitiche, di
doppi mitici di Esterina, fanciulla reale al punto di mantenere nella poesia il nome proprio originario.173 Credo che si
possa ipotizzare anche un riferimento criptico al mito di Io,
amata da Giove, per i vv. 1-7, mercé una celebre mediazione pittorica, ovvero Giove e Io di Correggio,174 1531 circa,
173
Su Esterina Rossi, ritratta in una medaglia dallo scultore Francesco
Messina, ed anche in una celebre foto nell'atto di tuffarsi, vd. Giuseppe
Marcenaro, Eugenio Montale, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 18, 177178; Francesco Messina, Primi giorni, Milano, Rusconi, 1974; Eugenio
Montale. Immagini di una vita, a cura di Franco Contorbia, introduz. di
Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1996, p. 81; Una dolcezza inquieta.
L'universo poetico di Eugenio Montale, di Giuseppe Marcenaro e Piero
Boragina, Milano, Electa, 1996, p. 87; E. Montale, Lettere e poesie a Bianca e
Francesco Messina 1923-1925, a cura di Laura Barile, Milano, Scheiwiller,
1995, pp. 106-108. Su Falsetto c'è ampia bibliografia; segnaliamo tra l'altro,
di recente, Francesco Bausi, Una donna di Montale: Esterina, «Studi italiani»
VI, 1994, 2, pp. 119-127; Antonio Zollino, Poliziano nel «Falsetto» di Montale,
«Critica letteraria», XXV, 1997, pp. 77-90; Bruno Porcelli, Arsenio, Arletta,
Crisalide, Esterina e le metamorfosi dell'«Alcyone», «Rassegna europea della letteratura italiana», 15, 2000, pp. 67-81: 80-81; Angiola Ferraris, Se il vento.
Lettura degli «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Roma, Donzelli, 1995, pp. 11
sgg.; Tiziana Arvigo, Guida alla lettura di Montale, Ossi di seppia, Roma,
Carocci, 2001, pp. 41-45. Si distingue per ricchezza esegetica l'edizione di
Ossi di seppia a cura di Pietro Cataldi e Floriana D'Amely, Milano,
Mondadori, 2003: pp. 18-22. Su alcuni paradigmi mitici per Esterina vd.
Gilberto Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna,
Zanichelli, 1980, pp. 191-192.
174
Consultando gli indici dei volumi mondadoriani delle prose di
144
presente al Museo storico artistico di Vienna, ma riprodotto in infiniti libri d'arte. La ninfa è infatti posseduta dal
dio in forma di nube che nel dipinto si addensa appena in
corrispondenza del volto e della grande “zampa” o braccio
che avvolge Io. Il fumo-nube sta inghiottendo la fanciulla
che è presa da un languore e un abbandono decisamente
erotici, prebarocchi. Presto cioè sarà sommersa e posseduta
da Giove («cum deus inductas lata caligine terras / occuluit tenuitque fugam rapuitque pudorem», suona Ovidio
brachilogico, Metam. I, 599-600), perdendo la propria
verginità e dando cosí addio alla propria fanciullezza.
Come Esterina, è colta nel momento in cui abbraccia il
suo divino amico. Certo, nel mito si ha una deflorazione,
mentre l'eroina di Montale si slancia volontariamente nella
nebbia e nel mare dei vent'anni. Tanto è vero che subentra
immediatamente il richiamo al mito della Fenice, con
Esterina che emerge bronzea e viva dal «fiotto di cenere»,
proiettata verso orizzonti lontani e luminosi. E la quasi
ventenne subisce una ulteriore metamorfosi mitografica,
Montale, reperisco tre occorrenze di Correggio. La piú interessante è (per la
datazione alta) in un articolo del 1926, dove Eugenio recensiva il volume di
Cecchi Pittura italiana dell'Ottocento: vi si legge del «chiaroscuro sfumato che
il Correggio derivò da Leonardo» (SM III, p. 1358). Nel celebre intervento sul
libro di D'Ors, del 1945, Montale indicherà: «All'insegna del barocco noi
incontreremo perciò senza sorpresa, non solo Correggio e Claudio Lorenese,
Rubens e Tintoretto, Rembrandt e Goya, non solo (inevitabilmente)
Palestrina e Bach, ma anche le Confessioni di Gian Giacomo e Robinson, Paolo
e Virginia e Atala e persino lo Zio Tom della Beecher Stowe; e in genere tutta
l'arte o la letteratura in cui la Sehnsucht dell'esotico e dell'irraggiungibile abbia
fatto la sua apparizione» (ivi, p. 1373). Infine in un saggio del 1952, introduttivo a un'edizione della VII giornata del Decameron curata da Mario Fubini,
troviamo un riferimento cursorio al pittore: vd. SM I, p. 1324. I riferimenti
manualistici allo “sfumato” sono ben poco significativi; in ogni caso la conoscenza dei dipinti piú celebri del Correggio (fra cui Giove e Io) non è presumibile soltanto in un ottimo conoscitore dell'arte come Montale ma in qualunque persona di buona cultura.
145
assembrandosi a Diana arciera, peraltro divinità casta, nonostante l'amplesso col dio ignoto, anzi con l'ignoto tout court,
che Esterina compie nella poesia. Ancora, la giovinetta sarà
Glauco, ai vv. 33-35, «un'equorea creatura / che la salsedine
non intacca / ma torna al lito piú pura». La mediazione dannunziana175 non deve farci dimenticare che la tradizione allegorica di Glauco è duplice e speculare: da una parte si leggeva nell'assimilazione di Glauco al regno marino un trasumanare spiritualizzante (ed è il caso dell'uso che l'Alighieri fa del
mitologema), un indiarsi panico (come in D'Annunzio), dall'altra si riteneva che la trasformazione in creatura acquatica
comportasse un processo di corruzione e incrostazione
moralmente negativo (ed è la tradizione ermeneutica platonica, seguita ad esempio da Della Casa).176 Montale vuole
smentire la lettura di tipo corruttivo («la salsedine non intacca ma…»), ribadendo che Esterina-Glauco torna dall'immersione piú pura di prima, ritemprata e senza scorie.
Nonostante l'empito vitalistico della lirica, non bisogna
tuttavia obliare che il tuffo di Esterina, coraggioso affidarsi
all'ignoto, per quanto “amico”, è pur sempre un tuffo,
emblema cioè della morte (con o senza rinascita), dai tempi
antichi177 fino a Montale, nella cui opera poetica l'immagi175
Alcyone, Ditirambo II; cfr. Porcelli, Arsenio, Arletta, Crisalide, cit.
«Già lessi ed or conosco in me sí come / Glauco nel mar si pose uom
puro e chiaro, / e come sue sembianze si mischiaro / di spume e conche e fêrsi
alga sue chiome» (Giovanni Della Casa, Rime, a cura di Stefano Carrai, Torino,
Einaudi, 2003, p. 207; da notare che il celebre sonetto casiano continua con
l'evocare un mito di tuffo mortale, quello di Esaco trasformato in smergo, per
cui vd. Ovidio, Metamorfosi XI, 751 sgg.; vd. anche Petrarca, Triumphus
Cupidinis II, 160-62.). Glauco fu, come si sa, pescatore della Beozia, tramutato in divinità marina dopo aver mangiato un'erba magica. Cfr. Ov., Met. XIII,
917-68; Platone Repubblica 611c: nel primo si ha una purificazione, nel secondo una contaminazione; per Dante, cfr. Par. I, 68-69. Purificazione con Glauco
anche in T. Tasso, Rime 39, 12-14; vd. poi Petr., Tr. Cup. II, 172-74.
177
Vedi ad es. la cosiddetta tomba del tuffatore a Paestum (Museo
176
146
ne in questione ricorre spesso. Ad esempio in Verso Vienna
nelle Occasioni, dove un «nuotatore» addita il ponte dove si
passa «con un soldo di pedaggio», poi saluta e sprofonda
nella corrente identificandosi con essa (vv. 10-13), evidente testura metaforica a suggerire un viaggio ultraterreno,
come Isella indica nel suo cappello alla poesia.178 Piú avanti
nel tempo del secondo Montale ecco una lirica emblematica come Il tuffatore nel Diario del '71, dove ben montalianamente chi è sul trampolino, chi ritorna a nuoto dopo il
tuffo, chi fotografa, il poeta stesso, insomma tutti i viventi
sono morti in una collettiva inesistenza; l'immagine del
tuffo diventa allora fulcro allegorico di una morte che è talmente onnipresente da non darsi piú come tragedia puntuale, sí come colore neutro omogeneo del tutto. Ancora,
per altri avatars del tuffo-morte nell'Opera in versi, vd. A
C., sempre nel Diario del '71, con quel «rituffarci dallo scoglio» (v. 5) ormai tardivo e impossibile suicidio ambiguo,
oppure si pensi all'altra splendida poesia per Clizia della
vecchiaia, Poiché la vita fugge (OV p. 701, in Altri versi),
dove la morte è detta «il gran tuffo» (v. 25). Se «il ragazzo
col ciuffo non sapeva / se buttarsi nel mare a grandi bracciate» (L'educazione intellettuale, vv. 23-24, in Quaderno di
quattro anni), diversamente dalla sicurezza di Esterina che
non esitava, il motivo è anche perché l'abbraccio col mare
può essere mortale; si veda infatti, sempre negli Ossi di seppia, L'agave su lo scoglio: «ora son io / l'agave che s'abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d'alghe / che spalanca ampie gole e abbranca rocce» (vv.
Archeologico Nazionale), risalente al quinto secolo a.C.
178
«Ma alcuni particolari (il convito, a cui nessuno siede ancora né si sa
chi vi siederà; il ponte, il soldo di pedaggio necessario per passarlo, quasi obolo
acheronteo, e l'oltre confine che l'”emerso” addita come sua meta) suggeriscono
tutt'altro viaggio, verso una meno turistica destinazione comune» (E. M., Le
occasioni, a c. di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996, p. 34).
147
15-19). E non si dimentichi la «conclusiva funzione tombale assegnata al mare» della lirica I morti, come si esprime
Pietro Cataldi.179 Lo «scoglio / che ti portò primo sull'onde»
della lirica Bassa marea delle Occasioni (poesia arlettiana del
1932) sarà parte di un ennesimo franare funebre verso il
nulla, irrefrenabile: «la discesa / di tutto non s'arresta».
Proseguiamo a percorrere la serie di richiami intratestuali all'interno dell'OV, soprattutto in proiezione, come
ad es. per l'immagine del fumo denso poi scosso dal vento
(Falsetto 5-7). Si evochino i versi «al soffitto lenta sale / la
spirale del fumo / […] …s'apre la finestra / non vista e il
fumo s'agita» in Nuove stanze (vv. 3-4, 11-12), lirica delle
Occasioni fra le piú cupamente foriere di bufera nel ciclo di
Clizia: cosí il fumo-incenso della sigaretta della donna si
traduce, nel consueto processo di poesia metafisica, in
emblema di religiosa e però turbata potenza soteriologica.
Ancor piú emozionanti e mèmori di Falsetto risultano i versi
del mottetto Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo: «A un soffio
il pigro fumo trasalisce, / si difende180 nel punto che ti chiude. / Nulla finisce, o tutto, se tu fólgore / lasci la nube» (58). In questo modo si potrebbe vedere in Esterina una precorritrice inconscia di Clizia, sebbene la posteriore donnaangelo emerga dalla nube come folgore manzoniana, mentre la pagana Esterina riassume in sé come abbiamo visto
un corpus mitografico molto meno severo e piú sensuale
(non si scordi però che la fenice era considerata figura
di Cristo!). Da notare d'altronde che Esterina-Diana anticipa anche la Clizia-Artemide che attraversa «illesa» le
179
Si dovrà poi richiamare L'Homme et la Mer dalle Fleurs du mal, importante anche per la sequenza di Mediterraneo. Su cui fondamentale resta l'esegesi di Romano Luperini, Montale o l'identità negata, Napoli, Liguori, 1984,
pp. 30-68.
180
Precedente lezione cassata: làcera, piú prossima a Falsetto 7; per le varianti del mottetto vd. E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., pp. 98-99
148
guerre umane in La frangia dei capelli, pezzo fra i piú gloriosi per l'eroina di Finisterre. Mentre Esterina «sommersa»
(v. 5) è un doppio piú fortunato (ma provvisoriamente) di
Arletta: «Oh sommersa!» (Incontro 46, su precedente «Oh
Arletta!» in rivista). Curioso ritorno del fumo metaforico è
poi quello di Opinioni in Diario del '72, dove si dice che
ritenere la vita «sostanza» o «materia» è sciocco quanto
considerarla «una fumata / che condensa, o rimuove, ogni
altro fumo» (vv. 7-8). Nel processo correttorio prima della
fumata abbiamo un fiato e poi un fumacchio (vd. OV p.
1099), mentre rimuove è correzione su distingue; dalla
prima redazione si evince poi che gli altri fumi rappresentano gli esseri umani: «e tali noi saremo senza il vantaggio
di essere tangibili». L'ironia distruttiva dell'ultimo
Montale (semplice faccia alternativa stilisticamente della
stessa medaglia) sembra demistificare ogni valore simbolico del fumo stesso... Infine si può citare il “montalismo”
del Diario postumo: «Ma all'improvviso lo spettacolo muta.
/ Lontano, grigio e livido, il fumo / di una petroliera appare e si dissolve / lieve in un arcobaleno» (p. 29). Le epifanie del fumo181 sembrano doversi sempre caratterizzare per
questa nervosa motilità di condensamento e dissoluzione
repentina: una metafora ossessiva? In proposito rileggiamo
pagine intelligenti in un libro del '79 di Giusi Baldissone,
Il male di scrivere, che offriva un'analisi in particolare di
Falsetto molto suggestiva.182
Altre connessioni intratestuali: i «venti autunni», oltre
che vènti autunnali, sono ovviamente i venti anni di
Esterina, e allora cfr. «i vostri pochi Autunni» della Lettera
levantina del feb.-giu. 1923, vicina a Falsetto. Il v. 21, «La
181
Può avere un senso evocare anche il ruolo teofanico del fumo nella
Bibbia (Ap 15, 8; Is 6, 4; Ez 10, 4; Es 40, 29 sgg.)?
182
Giusi Baldissone, Il male di scrivere. L'inconscio e Montale, Torino,
Einaudi, 1979.
149
dubbia dimane non t'impaura», viene echeggiato in
Barche sulla Marna, nelle Occasioni: «il domani velato che
non fa orrore». La conclusione di Falsetto è rammemorata
nel Quaderno di quattro anni, Sotto la pergola, ove gli ultimi versi suonano: «Fu tuttavia perfetta con ore di tripudio / la reticenza,183 quella che sta ai margini / e non s'attuffa perché il mare è ancora / un vuoto, un supervuoto e
già ne abbiamo / fin troppo, un vuoto duro come un
sasso». Il Diario postumo conserva poi, come è noto, lacerti di memoria autocitatoria (se è Montale l'autore al cento
per cento): «grigiorosea nube» (Falsetto 2): «chiarore grigiorosa» (Non lo sapremo mai, se furono 7); «un presagio
nell'elisie sfere» (Falsetto 16): «le porte / dell'eliso» (Resta
lontano dalle secche 6-7); «La dubbia dimane non t'impaura» (Falsetto 22): «La tua età m'impaura» (30 gennaio o 30
anni 1); «il tuo profilo s'incide / contro uno sfondo di
perla» (Falsetto 44-45): «Sulla porta si profila / un'aerea
figura» (Mattinata 1-2) ecc.
Legami piuttosto rilevanti ha Falsetto con la serie
Mediterraneo: ad esempio il motivo della spinta all'abbraccio panico. «Or, m'avvisavo, la pietra / voleva strapparsi,
protesa / a un invisibile abbraccio; / la dura materia sentiva
/ il prossimo gorgo, e pulsava; / e i ciuffi delle avide canne
/ dicevano all'acque nascoste, / scrollando, un assentimento» (Scendendo qualche volta 13-20). Siamo sull'ovvio, sul
non squisito, come direbbe Contini, e forse piú intrigante
sarà cogliere una eco implicita della tuffatrice Esterina in
chiusa alla medesima poesia di Mediterraneo appena citata,
cioè nei versi che suonano «Con questa gioia precipita / dal
chiuso vallotto alla spiaggia / la spersa pavoncella» (29-31).
Gli è che la fanciulla di Quarto dei Mille era chiamata da
Montale, nelle lettere a Bianca Messina, oltre che «cara scu183
Variante cassata: «l'inesistenza»; per questa e altre interessanti lezioni
precedenti vd. OV p. 1118.
150
gnizza», «casta donzella Ester della tribú de' Rossi» ecc.,
appunto «la nostra pavoncella» (ed. Barile cit., pp. 43, 46,
54, 63). Come non pensare che l'uccello sperso ma felice di
questi versi, precipite verso la spiaggia e verso il mare
amico, in sintonia perfetta e incosciente con la natura di cui
è parte, non sia una reincarnazione della altrettanto selvatica-divina Esterina? Anche il tema della purificazione operata dal mare è presente in Mediterraneo: si vedano i versi
finali di Antico, sono ubriacato dalla voce. «e svuotarmi cosí
d'ogni lordura / come tu fai che sbatti sulle sponde / tra
sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso». In
questa lirica d'altronde il mondamento investe anche la
stessa identità, che il mare con la sua legge severa e rischiosa assorbe e annulla nell'immenso indistinto.
Ci piace anche prospettare una sorta di lettura barocca
della poesia, ponendola in relazione col topos secentesco
della “bella nuotatrice”. Sul tema hanno sonetteggiato
Scipione Errico, Girolamo Fontanella, Bernardo Morando
e molti altri marinisti. Prendiamo un esempio dalla silloge
crociana che nel 1910 inaugurava la collana degli «Scrittori
d'Italia»: si tratta del sonetto del Fontanella, che vogliamo
riportare per intero:
Lilla vid'io, qual matutina stella,184
spiccando un salto abbandonar la sponda,
e le braccia inarcando, agile e snella,
con la mano e col piè percuoter l'onda.
La spuma inargentò canuta e bella,
ch'una perla sembrò che vetro asconda,
e disciolta nel crin parea fra quella
184
La stella Diana di Guinizzelli: verrà sempre dallo stilnovista il verbo
assembra (Io voglio del ver la mia donna laudare v. 2)? Bausi propone, forse piú
convincente, Poliziano, a pp. 122 sg. del saggio cit.
151
nuova aurora a veder, candida e bionda.
L'onda dolce posò, zefiro tacque,
e dove il nuoto agevolando scorse,
tornâr d'argento e di zaffiro l'acque.
A mirarla ogni dea veloce corse,
e fu stupor ch'ove Ciprigna nacque,
un'altra Citerea dapoi ne sorse.
Non vogliamo perder tempo su possibili intertestualità
puntuali, anche se lo «spiccare un salto» di Lilla ci fa pensare all'Esterina «come spiccata da un vento», mentre lo
«sfondo di perla» (Falsetto 45) ci sembra di una preziosità a
questo punto tutta barocca, eccètera, ma vogliamo puntualizzare altre cose. L'impostazione del sonetto del Fontanella
è quella di una assunzione di un dato non sublime (una
ragazza che si tuffa e fa il bagno) ai fastigi di una bellezza
mitica e metafisica. Siamo cioè al cospetto di una modalità
poetica che ormai riconosciamo abbastanza bene. In modo
analogo si comporterà Tommaso Crudeli nella celebre anacreontica sulla Bella notatrice, esempio tra i piú lucenti di
Barocco in Arcadia, per dirla col Calcaterra, ovvero di persistenza e rielaborazione di figurazioni e sostanze secentesche nella poesia del secolo XVIII. La vergine del Crudeli,
sensualmente denudatasi («poi sull'algoso masso / lasciò
cadere abbasso / la veste piú sottile», vv. 30-32: cfr. il
«masso brullo» e l'«alga» di Falsetto, vv. 27, 32), si getta
nelle acque trasfigurata in Venere:
Qual nella selva idea
all'antica tenzone
apparve Citerea
con Pallade e Giunone,
tale a questi occhi miei
si fe' veder costei
che si gettò repente
152
entro del sen marino,
dove velocemente
colle candide braccia
ella spumoso si facea cammino. [vv. 33-43]185
Anche la fanciulla conosciuta da Montale a Quarto nell'estate del 1923, atletica e amante del mare, verrà colta nel
suo tuffo e sublimata con molteplici proiezioni mitiche, nonché eternata in una complessità di simboli e pensiero. Certo,
la poesia montaliana deve piú alla declinazione inglese e
metafisica del barocco, piuttosto che alla sensualità marinista
italiana (anche se non mancano “metafisici” peninsulari, fra
Ciro di Pers e Lubrano, tanto per citare i piú citati).186
Tuttavia non è insolito in Montale cogliere uno sguardo elegante (e snob) alla poesia straniera magari cripticamente ibridato con una persistente (e inevitabile) osservazione e penetrazione della tradizione italiana, anche la piú impensabile,
come ormai innumeri rilievi critici hanno evidenziato.
185
Cito da Poeti erotici del secolo XVIII, a cura di Giosue Carducci,
Firenze, Barbèra, 1868, pp. 286-87. Piú recentemente si veda: Tommaso
Crudeli, Poesie con appendice di Prose e Lettere, a cura di Gabriella Milan,
Comune di Poppi, 1989, p. 46 (la curatrice, che si basa sul testo dell'edizione
postuma del 1746, osserva di passaggio che della figurazione della fanciulla
nuotatrice una «ultima dissolta eco si può cogliere nell'immagine di Esterina
disegnata da Eugenio Montale in Falsetto», p. 44); sempre nel 1989 è uscita
anche l'edizione delle Opere del Crudeli a cura di Tommaso Catucci, Roma,
Bulzoni, di cui si veda p. 125 e a p. 127 il congruo richiamo all'episodio tassiano delle «natatrici ignude e belle» di Liberata XV, 59 sgg.
186
Per tutto questo, rimando supra, Petrarchismo metafisico. Per un neoclassicismo sottilmente “ironico” di Falsetto vd. invece Ettore Bonora, Lettura
di Montale. 1. Ossi di seppia, Torino, Tirrenia, 1980, pp. 60-64. Segnaliamo poi
che per la figura del fanciullo col lacciuolo che prende la lucertola, Bonora
richiamava suggestivamente l'Apollo sauroctono di Prassitele, di cui ai Musei
Vaticani c'è una riproduzione; ancora, per l'espressione «equorea creatura»,
piuttosto che a D'Annunzio rimandava a Leopardi, Alla Primavera v. 94 e Inno
ai Patriarchi v. 58 («equoreo seno», «equoreo flutto»: p. 62).
153
Naturalmente occorrerebbe allora fare qui una lunga
digressione su Montale e il barocco, soprattutto italiano.187
Sul pensiero montaliano relativamente al barocco storico e
categoriale, abbiamo testimonianze da auscultare, come la
recensione al libro di Eugenio D'Ors, pubblicata nel 1945,
che però non ci rivela molto, anzi, scopre la consueta aurea
mediocritas di Montale “critico”: «Noi non crediamo che il
qualificativo di “barocco” potrà andar disgiunto neppure in
avvenire, allorché un'opera d'arte ci s'imponga specificamente come barocca, da una sfumatura almeno limitativa»
ecc.188 Partiamo allora da quel verso di Dora Markus: «è una
tempesta anche la tua dolcezza» (e prima, in Arsenio, «la
tempesta è dolce», v. 27). Evochiamo la «tempesta di dolcezza» di G.B.Marino in un madrigale della serie sui baci
della seconda parte della Lira.189
Tempesta di dolcezza
Su l'anima mi versa
Amor, mentr'io ti bacio, o mio tesoro.
Lasso lasso, ch'io moro:
un diluvio di baci l'ha sommersa;
già di quel labro al tuon dolce sonoro
dietro al lampo d'un riso
m'ha del tuo dente la saetta ucciso.190
187
Piú indagati, ovviamente, i legami di Montale col barocco europeo, particolarmente quello inglese. Si rammentino trouvailles spesso assai raffinate, come l'individuazione di Crashaw latino, via Praz, dietro a un'immagine ricorrente nelle
Occasioni (vd. l'ediz. Isella pp. 31, 149, 185 nn.), o l'eventualità di un ipotesto quevediano sotto la «neobarocca» anguilla montaliana (Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 16 n.).
188
SM III, p. 1375.
189
In Marino non mancano altre testimonianze di dolci tempeste: vd. ad
es. Boscherecce 40.
190
Citiamo dalla ristampa del 1653, Venezia per Francesco Baba, Rime del
Signor Cavalier Marino Parte seconda, p. 259, madr. n. XXIV, «Baci dolci».
154
Sappiamo che il giovane Montale si vede rifiutare alla
Biblioteca Universitaria di Genova il volume laterziano delle
poesie di Marino191 per ragioni moralistiche: «Oggi Biblioteca
Universitaria. Il distributore in nome della morale rifiutò di
darmi le poesie del Marino nella nuova edizione Laterza!!
Ahimè, morale, come minacciano di farmiti diventare antipatica!» (Quaderno genovese pp. 55-56).192 Sempre negli appunti
del Quaderno genovese si leggono elogi anti-filistei e anti-borghesi del barocco avanguardistico, in linea con un Govoni o,
ancor piú consapevolmente, un Soffici (ivi pp. 58-59, e nn.
della Barile). Montale avrà insistito nella sua volontà di leggere le liriche del Marino? Quasi certamente sí, e come escludere allora che la tempesta di dolcezza sia in qualche modo
arrivata ai suoi orecchi e poi sedimentatasi nella sua mente,
che conservava e riusava? Si tenga presente che nel 1936 usciva la silloge di Lirici del barocco e dell'Arcadia per Rizzoli,
curata da Calcaterra, che vi ospitava (isolato in questo) l'intera Seconda parte della Lira mariniana: il madrigale in questione, assente in Croce, è a pagina 59. Si può su questa base
postdatare la prima Dora Markus al 1936? È arduo stabilirlo,
se il manoscritto autografo pubblicato il 10 gennaio 1937 sul
«Meridiano di Roma» della poesia porta la datazione «192'»,
con un apice al posto dell'ultima cifra che ha fatto pensare a
un difetto di inchiostrazione, a una scrittura evanida.193
191
Giambattista Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari,
Laterza, 1913.
192
E. M., Quaderno genovese, a cura di Laura Barile, con uno scritto di
Sergio Solmi, Milano, Mondadori, 1983.
193
Vd. OV p. 900; Rosanna Bettarini, Per Dora, in Le tradizioni del testo.
Studi di letteratura italiana offerti a Domenico De Robertis, a cura di Franco
Gavazzeni e Guglielmo Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993, pp. 531-541:
533; E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., p. 53. La bibliografia critica
su Dora è vastissima; cito soltanto il bel saggio di Silvio Ramat, Arsenio, Dora
e l'«orbita» di Gerti [1982], in Id., L'acacia ferita e altri saggi su Montale,
Venezia, Marsilio, 1986, pp. 37-74.
155
A guardare da vicino il facsimile sulla rivista, unico nostro
possibile riferimento, l'apice autografo sembra però un
apice e basta, non il residuo di una traccia consumata dal
tempo. Montale, crediamo, non vuole datare precisamentela lirica, la colloca soltanto negli anni '20. D'altra parte la
datazione che egli apporrà alla poesia nell'edizione einaudiana delle Occasioni sarà 1926; ribadirà in una lettera a
Contini del maggio 1943 che Dora Markus era «pendant»
di Due nel crepuscolo del «5.XI.1926», in un leggendario
taccuino che non possediamo piú. Il problema è però,
come tutti sanno, un altro: la celebre segnalazione da parte
di Bobi Bazlen di Dora Markus e delle sue gambe (che
Montale non conoscerà mai di persona) risale al 1928. Gli
inviti a Eugenio-Eusebius perché scriva e invii una poesia
su Dora, dopo il '28, si replicano nel gennaio del '29
(«Dora Markus????????? Manda!!!!!!!») e poi in un mese
imprecisato dello stesso anno (febbraio o addirittura settembre o giú di lí): «mandami la Dora Markus».194 Cosa se
ne può evincere? Prima di tutto che nel 1926 ancora la
Dora Markus non era neppure un nome per Montale. In
secondo luogo, non è detto che Montale abbia poi realmente scritto la poesia sulla donna dalle belle gambe (una parcellizzazione di un fantasma), poesia che Bobi gli richiede
supplichevole e nervoso almeno tre volte, invano, in un
arco di tempo che presumibilmente misura un semestre, se
non un anno intero. Poi Eusebius l'avrà scritta, oppure
l'avrà inviata? Lecito credere di no, ma non si sa.195
194
Roberto Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso. Note senza testo.
Lettere editoriali. Lettere a Montale, Milano, Adelphi, 1984, pp. 381, 383, 386;
E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., pp. 53-54.
195
Non risulta insolito che Bazlen richiedesse versi a Montale senza avere
soddisfazione; si legga ad es. la nota di Calasso-Zampa a una lettera di Bobi in
Bazlen, Scritti cit., p. 359: «Bazlen aveva suggerito a Montale di scrivere una
poesia sul personaggio schumanniano di Eusebius. Montale non scrisse la poesia e Bazlen da allora cominciò a chiamarlo Eusebio». Nel 16.XII.1929, Bazlen
156
Interroghiamo il manoscritto, o meglio la sua copia fotomeccanica sul giornale romano: ci colpisce almeno una
variante cassata, quella che riguarda i vv. 12-13. Citiamo la
lezione cancellata dal v. 11: «E qua dove un'antica vita / si
screzia e rompe in una meraviglia / del prossimo oriente». 196
La parola-chiave mariniana meraviglia sembra qui voler sottolineare un sinolo barocco-bizantino che connoterebbe la
poesia. Dove, nella seconda strofa, compare appunto quella tempesta di dolcezza che Montale poteva trovare nella silloge del Calcaterra, non volendo ipotizzare da parte sua
precedenti erudite interrogazioni delle secentine. Può
bastare un intertesto possibile197 a suggerire la datazione?
(D'altro canto la già cit. «tempesta dolce» di Arsenio rende
tutto piú problematico, ne siamo consapevoli). La Dora del
«Meridiano di Roma» sarebbe stata scritta cosí nel 1936?
Magari soltanto trascritta e rielaborata dal vecchio taccuino, con in piú almeno una o due novità “mariniste”? E dobbiamo credere a una autodatazione posteriore, quella del
1926, quando sappiamo che prima del '28 Dora Markus
scrive a Montale: «In Moravia, ho rivisto Dora Markus. Porta stivaloni altissimi, adatti per camminare nella neve» (Bazlen, Scritti cit., p. 387). Luciano
Rebay (Un cestello di Montale: le gambe di Dora Markus, e una lettera di Roberto
Bazlen, «Italica», 61, 1984, 2, pp. 160-69) ritiene che «il poscritto lascia supporre che a quella data il testo previamente sollecitato fosse già stato ricevuto»
(p. 162). Dobbiamo tantissimo al Rebay, ma perché questa supposizione? Non
ne vedrei il motivo. Non si manchi di consultare poi Dante Isella, La fontana
delle ultime «Occasioni» [1988], in Id., L'idillio di Meulan. Da Manzoni a
Sereni, Torino, Einaudi, 1994, pp. 201-228: 210-212.
196
La variante è scritta nello spazio fra la prima e la seconda strofa della
lirica, con un rimando. Ulteriore variante, sempre cassata, è data da «nella»
spscr. a «una» prima di «meraviglia». Rimando all'Appendice, piú avanti, dove
tento una trascrizione diplomatica.
197
Da embricare comunque con la squisita indicazione della Bettarini (Per
Dora, cit., p. 539) relativa a Rimbaud, «Mais sa douceur aussi est mortelle»
(Vierge folle, Une saison en enfer): una memoria italiana barocca si può sposare
molto montalianamente, credo, con una preziosità moderna francese.
157
non esisteva? Non possiamo piuttosto credere, nell'intrico
dei depistaggi che Montale ama operare, a un 1926 che
maliziosamente celi un effettivo 1936? Un'ultima considerazione. La donna che addita «all'altra sponda / invisibile
la sua patria vera» fa irresistibilmente pensare al finale di
Morte a Venezia di Mann: «Ma a lui parve che il pallido e
gentile psicagogo laggiú gli sorridesse, gli accennasse, e
staccando la mano dall'anca a indicare un punto lontano,
lo precedesse a volo verso benefiche immensità» (traduz. di
E. Castellani). L'ambientazione è, come tutti sanno, marina, umida nebbiosa. Venezia come Ravenna? Der Tod in
Venedig, del 1912, fu tradotto in italiano nel 1930. Come
Tadzio, anche Dora (o forse Gerti, o addirittura Clizia, o
meglio tutte e nessuna) indica una patria vera, lontana,
metafisica. Cosa c'entri con tutto questo il gioco sulle
gambe fotografate della morava Markus non so chi potrà
dirlo. Potrebbe invece avere a che fare con un addio possibile a Clizia, in una Ravenna non troppo lontana da quella Venezia che il De Caro ritiene palcoscenico probabile di
un doloroso distacco fra il poeta e la Brandeis nel febbraio-marzo del 1936 appunto?198 La «primavera inerte» della
lirica potrebbe essere quella del 1936? E Dora potrebbe
celare in realtà Clizia? O trovare in essa una incarnazione,
da fantasma quale era? Allora, se per Venezia si deve pensare al mottetto spettrale e hoffmanniano La gondola che
scivola in un forte, pubblicato su rivista nel 1939, la
Ravenna ambiguamente primaverile di Dora Markus può
rammentare «l'oscura primavera /di Sottoripa» del mottetto Lo sai: debbo riperderti e non posso, del 1934, dove
ancora la perdita e il distacco si inquadrano in una stavolta genovese acredine marina. Mentre il gesto di indicare
198
Paolo De Caro, Journey to Irma. Una approssimazione all'ispiratrice
americana di Eugenio Montale. Parte prima: Irma, un “romanzo”, nuova ediz.
accresciuta, Foggia, Matteo De Meo, 1999, pp. 90 sgg.
158
una patria lontana, invisibile e vera si apparenta a quello
del nuotatore di Verso Vienna («Additò il ponte in faccia:
non si passa, / informò, senza un soldo di pedaggio», secondo la redazione pubblicata sulla «Gazzetta del Popolo» l'11
gennaio 1939 e, in una prima versione, datata «1933»: OV
p. 897). Entrambi i gesti, come del resto quello di Tadzio,
vogliono alludere a una patria ultraterrena, metafisica: il
nuotatore è senz'altro figura psicagogica, liminare, e cosí la
donna di Dora Markus I non può che essere la costante idealtipica donna montaliana che ha commercio con la morte
e l'aldilà sempre, sia essa Arletta, sia Clizia, sia Esterina, sia
Mosca ecc. ecc.
In ogni caso, l'ipotesi di ricercare presenze del barocco
letterario italiano (scontato quello inglese o spagnolo, o
francese, insomma europeo) nell'opera di Montale è ipotesi
da portare avanti.199 Intanto consideriamo Falsetto come una
199
Sempre in Dora Markus abbiamo un'immagine di gusto spiccatamente manierista e barocco: «nell'acque un avvampo» (II, 7, e vd. l'attacco del mottetto secondo: «Molti anni, e uno piú duro sopra il lago / straniero su cui ardono i tramonti»); con l'ausilio di concordanze elettroniche e di un po' di memoria potremmo evocare luoghi del Marino lirico: «Sorgi, o ninfa, da l'acque e
vienne a nuoto / (vedi come cocente il sole avvampi)», Boscherecce 80, in Croce,
p. 81; «qualor piú chiara entro 'l tuo ghiaccio avvampa», canz. Figlio de
l'Appennino, in Calcaterra p. 74; «Lilla, del cui bel foco il mare avvampa», ivi
p. 203; «Acque a le fiamme e fiamme a l'acque chiede», ivi p. 160 ecc., ma le
acque avvampano in numerosi lirici del Cinque-Seicento (vd. di chi scrive Giú
verso l'alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 61 sg.),
e non è necessario individuare una improbabile fonte, quando pare indubbio il
riecheggiamento generico di un'immagine connotata storicamente, di grande
tradizione insomma. Vedi d'altronde Alfieri, son. Perch'io sfugga tua mano alabastrina, vv. 10-11: «In mezzo alle soavi acque sperate / avvampo», per misurare la lunga durata del motivo lirico (vd. G. A. Fabris, Studi alfieriani, Firenze,
Paggi, 1895, p. 234; cfr. poi Vittorio Alfieri, Rime, ediz. critica a cura di
Francesco Maggini, Asti, Casa d'Alfieri, 1954, pp. 303-304; il son. è del 21
gen. 1796). Un trionfo barocco del topos era offerto peraltro da Góngora, poeta
159
variante sulla “bella nuotatrice”, o Non rifugiarti nell'ombra
come un “invito al sole” che rovescia il topos dell'invito
all'ombra già cinquecentesco ma culminante nel celeberrimo sonetto marittimo del Marino Or che l'aria e la terra
arde e fiammeggia. Ma si può forse allargare tale ipotesi di
lavoro, vedendo nella serie orecchini-ventaglio di Finisterre
una versione molto metafisica di topiche mariniane (e non
solo), pensando ad esempio al madrigale Quegli aspidi
lucenti o al sonetto Lieve è l'aurea catena a tante offese sul
ventaglio di bianche piume.200 E per restare nell'ambito prezioso di Finisterre, vorremmo spingerci oltre, e proporre per
il demonico polipo di Serenata indiana (vv. 11 sgg.) il
sonetto all'ostrica del Marino, con l'ultima terzina: «Anzi,
te pur rassembra, a cui, se mai, / qual famelico polpo il cor
sen corre, / in pena de l'ardir, morte gli dài».201 E per quello
stupendo «vago orror dei cedri smossi» di Nel sonno, si
potrebbe pensare ai celeberrimi cedri impazziti e orridi di
Lubrano, magari contaminati con la tenebrosa chioma nera
piú caro a Ungaretti che a Montale, ma certamente esemplare nel Novecento
non solo in Spagna: si veda il sonetto Cuantas al Duero le he negado ausente, in
cui le acque del fiume e del mare sono senz'altro fuoco, talché «Arde el río, arde
el mar, humea el mundo» (v. 12: vd. Luis De Góngora, I sonetti, a cura di Giulia
Poggi, Roma, Salerno ed., 1997, p. 210).
200
Rispettivamente alle pp. 67 e 81 dell'edizione crociana cit., dove Or che
l'aria è invece a p. 98; i due madrigali sugli orecchini sono poi ospitati da
Calcaterra a p. 215 di Lirici del Seicento…, cit.; si pensi poi ai coralli offerti alla
donna da Marino nel son. a p. 95 della silloge del Croce ecc.
201
Nell'antologia crociana a p. 97; cfr. pure Adone XX, 167. Al polipo si
apparentano le molli meduse degli Orecchini, che però mi sembrano echeggiare un barocco novecentesco, precisamente quello offerto dal D'Annunzio alcionico del madrigale Le lampade marine, nei Madrigali d'estate: «Lucono le meduse come stanche / lampade», anche se Montale stesso ha parlato di un dato realistico relativo a «ombre nello specchio» (cit. in Finisterre a c. di Isella, cit., p.
21). D'altronde il polipo montaliano potrebbe avere qualcosa a che fare anche
con l'«Amor, pulpo de sombra, / malo» di Rafael Alberti, in una poesia di Los
ángeles dal titolo El ángel de carbón che è stata giustamente indicata tra le pos-
160
del sonetto di Pietro Casaburi, al cui v. 12 troviamo: «notte
rassembri al vago orrore»?202 Cercando ancora testimonianze montaliane nella prosa, può suonare ironica, ma non
tanto, una affermazione in un saggio del '46 poi in Auto da
fé: «la meraviglia è il fine di tutti gli uomini, poeti o no»
(SM III, p. 83), dove il celebre verso mariniano suona quasi
apoftegma o truismo. Piú avanti, nel 1954, parlando di
Gaudí, non so quanto celiando Montale scriverà: «Certo, se
è vero che sia “del poeta il fin la meraviglia”, non si può
guardare senza stupire la casa Milá (la Pedrera) che è insieme formicaio, tempio e fortezza, e quel parco di Güell che
dissemina milioni di azulejos (piastrelle di ceramica colorata), alberi di pietra, grotte, cripte e orridi d'ogni genere in
una collinetta posta nel cuore della città» (PR pp. 458-59).
Consideriamo poi l'interesse preciso e fortissimo di
Montale per il barocco metafisico, particolarmente quello
inglese via Eliot, e anche via Praz, nel cui volume
Secentismo e marinismo in Inghilterra la presenza del
Marino, se pure giudicato spesso inferiore agli inglesi, è
notevole e tale da stimolare la curiosità nel lettore.
Vediamo in somma una Esterina come bella nuotatrice che, mitica e metafisica, abbraccia gloriosamente e incosibili “fonti” del piú tardo Angelo nero di Satura: vd. Oreste Macrí, Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 294 sg.; Rafael Alberti, Degli angeli, a
cura di Vittorio Bodini, Milano, Il Saggiatore, 1964, poi Torino, Einaudi,
1966, pp. 74-75. Per le meduse, inoltre, non sarebbe forse da ignorare anche
una lirica di Emilio Servadio, Eldorado, presente nel mannello di Poesie d'amore, «Circoli» I, 1, 1931, pp. 27-31: 28-29. Se ne rilegga la chiusa: «Mani fraterne. / Dal fondo emergono sogni e meduse».
202
Vd. Lirici marinisti, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1910,
rispettiamente alle pp. 461 e 501. Mengaldo (La tradizione del Novecento,
Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 179) rimanda invece a un piú quieto
Petrarca, Rvf 176, 12-13: «Raro un silentio, un solitario horrore / d'ombrosa
selva mai tanto mi piacque».
161
scientemente l'alterità, l'ignoto, la morte. Il femminile è
dunque capace di attraversare il regno della morte, mentre
il maschile rimane a terra (tra il sornione e il disperato). Si
veda poi PR p. 598: «apprezzo il nuoto, io che so appena
sguazzare per pochi minuti» (1970). Ammirazione impotente (ma di chi resta in salvo) per colei che affronta le
acque, atleticamente e impavidamente. Ma rintocco di
morte per la donna, come sempre in Eugenio. È qui la sottile differenza rispetto alle topiche moderne sveviano-gozzaniane203 che vedono la donna fulgido sano animale e l'uomo impotente irresoluto innamorato. In Montale è accentuato l'istinto vendicativo omicida nei confronti della figura femminile, che viene sempre in qualche modo legata alla
morte (da Arletta a Clizia alla Mosca di Xenia ecc.). Mentre
il poeta, che non senza dolore ha scelto la strada sdegnata
da Achille, campa (??) fino a 85 anni.
203
Vd. ad es. i contatti fra Esterina e la «mulier fortis» di Invernale di
Gozzano nelle pagine di Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo,
Milano, Mursia, 1977 [1961 prima ediz.], pp. 33-35. Naturalmente Montale
leggerà i romanzi di Svevo solo nel settembre-ottobre del 1925: vd. Italo Svevo
- Eugenio Montale, Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di
Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, Introduz. p. X.
162
Appendice
Dora Markus
[secondo il ms. fotoriprodotto sul «Meridiano di Roma»
del 10 gennaio 1937, III pagina]
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini nel mare alto
e curvi uomini affondano le reti e ritraggono
le reti ad ogni istante Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove si affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un'antica vita
si screzia e si corrompe in una squisita dolce
rompe in una nella meraviglia
del prossimo oriente
ansietà d'oriente.
Le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano un faro
nelle sere tempestose
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i tuoi riposi sono anche piú rari;
non so come stremata sopravvivi tu resisti
in questo lago
1
5
10
12a
12b
15
15a
Cotesta
20
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d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu porti tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio e cosí esisti
192'
25
Legenda:
corsivo: testo cancellato
apice
: testo soprascritto nell'interlinea (ovviamente in corsivo se cassato)
xxxx: testo cancellato illeggibile
Note:
I vv. 12a, 12b e 15a sono scritti nello spazio intervallare fra la prima e
la seconda parte della lirica, con un rimando a freccia.
Il verso finale e la data sono vergati per traverso a sinistra del foglio, a
fianco degli altri versi.
Leggo, salvo errore, «qui» al v. 11 e «tuoi» al v. 21 («qua» e «suoi» in
apparato OV p. 900, la seconda lezione si ricava e silentio).
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