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REALISMO E MONTALE_def.pdf

IOSUMA Linguistica e letteratura Collana diretta da Silvana Cirillo L’obiettivo di IOSUMA, il cui nome è un omaggio a Zavattini, è di offrire agli studenti universitari, non meno che ai lettori interessati ad aggiornarsi, opere di autori già noti e contributi originali di giovani ricercatori, negli ambiti di Arte, Antropologia, Cinema, Economia, Letteratura italiana, Linguistica, Storia. Promossa da un gruppo di docenti della “Sapienza” di Roma, IOSUMA si propone di aprirsi ai contributi di studiosi di altre sedi, diventando una vivace intersezione di rapporti interdisciplinari e di metodologie diverse. In tale prospettiva ogni singola collana prevede saggi, monografie, manuali, traduzioni di testi di rilevanza internazionale, opere collettive, atti di convegni. IOSUMA, noi sono, io siamo... Roberto Gigliucci Realismo metafisico e Montale Editori Riuniti Iosuma - Arti e scienze sociali Comitato scientifico: Silvana Cirillo (coordinatrice), docente di Letteratura italiana contemporanea Paolo Bertetto, docente di Analisi del film Francesco Gui, docente di Storia dell’Europa Simonetta Lux, docente di Storia dell’arte contemporanea Maurizio Franzini, docente di Politica economica Alberto Sobrero, docente di Antropologia © Copyright 2007 Editori Riuniti di The Media Factory s.r.l. via Pietro Della Valle, 13 - 00193 Roma responsabile linea universitaria: Ugo Cundari universita@editoririuniti.it ISBN 978-88-359-5919-5 Copertina: foto di Piergiorgio Pirrone grafica di Elisa D’ortenzio Indice Introduzione 9 Petrarchismo metafisico 19 Postilla al lume dei capelli 50 Dentro e contro Guillén 78 Sopra il vulcano 137 Io, Esterina 144 Appendice 163 5 Citiamo sempre con le sigle SM I, II, III rispettivamente: Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, tomo primo, tomo secondo, Milano, Mondadori, 1996; Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1996; la sigla PR sta per E.M., Prose e racconti, a cura di Marco Forti e Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995; OV vale per L'opera in versi, ediz. critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980. Sono gl'istrumenti del realismo che costruiscono nuove metafisiche. Costruzioni del puro pensiero non hanno piú credito e séguito. La metafisica non corre piú, se non ha per suo passaporto almeno in apparenza il realismo. [Francesco De Sanctis, Il principio del realismo, 1876] Introduzione Il progetto di questo nostro piccolo libro sulla poesia di Montale si articola intorno a tre filoni metodico-interpretativi: 1. un contributo in progress al commento montaliano, inteso soprattutto come escussione di intertestualità che possibilmente facciano sistema; 2. una ermeneutica della lirica montaliana intorno a un'idea forte: sostanzialità, anche epifanica, di morte, nulla, negativo vs fallimentarietà di ogni miracolo positivo: l'unica rivelazione possibile è quella dell'annullamento; 3. una collocazione della poetica montaliana in una linea di lunga durata di poesia metafisica, ovvero di realismo metafisico (eresia interna al sistema del petrarchismo), che dagli albori della modernità (fra Cinque e Seicento) giunge all'Otto-Novecento, distinguendosi da un petrarchismo “puro” derealizzante; 3a. portato di quest'ultima prospettiva è l'incremento di una casella della critica montaliana che potrebbe titolarsi “Montale e la poesia barocca”. I tre assi di procedura (esposti nell'ordine inverso di rilevanza) naturalmente sono interconnessi quasi sempre. In particolare il primo e il secondo definiscono un'orizzonte di indagine aperto per tutto il volume, senza aggregazioni specifiche. Sul punto 3, il piú complesso e cruciale, rimando direttamente al prossimo capitolo e ai seguenti. Tuttavia, per fare un primissimo assaggio del problema, 9 si confrontino la «rósa balaustrata» di Montale 1920 (Riviere) e la celeberrima «balaustrata di brezza» di Ungaretti 1916. La seconda rappresenta una dato di compiuta assolutezza che brucia ogni possibile empiria, non che ogni “occasione”. La prima, invece, è un pezzo della villa estiva dei Montale: «si arriva alla balaustrata dove due scale salgono su, una a destra e una a sinistra e si arriva davanti alla casa», come descrive minutamente la sorella del poeta, Marianna 1. Illuminante la pagina di commento di Ossola a Ungaretti: «dopo tante “ricche balaustrate” che da Fogazzaro e D'Annunzio discendono sino a Campana e Palazzeschi, basta una metafora come “Balaustrata di brezza” per evadere dal referente, per astrarre i nomi dallo spazio e dal tempo, per renderli “assoluti”, pura scrittura».2 Per Montale, d'altra parte, solo nell'emergenza hic et nunc del fisico può cogliersi lo scatto metafisico. Autorevolmente Gilberto Lonardi3 insisteva sulla dicotomia fra una linea montaliana metafisica e una orficoermetica, ungarettiana in primis; la distinzione veniva accettata sostanzialmente da Pier Vincenzo Mengaldo nella storica recensione dell'81, con qualche perplessità però sull'avvicinamento Montale-Saba che Lonardi suggeriva;4 il dibattito veniva ripreso, con autonomia interpre- 1 E. M., Quaderno genovese, a cura di Laura Barile, Milano, Mondadori, 1983, p. 183; vd. anche Bianca Montale, Montale: cronache e luoghi familiari, in La Liguria di Montale, a cura di Franco Contorbia e Luigi Surdich, Savona, Marco Sabatelli Editore, 1996, pp. 25-41: 19. 2 Cfr. Giuseppe Ungaretti, Il Porto sepolto, a cura di Carlo Ossola, Venezia, Marsilio, 1990, p. 141. 3 Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980. 4 Vd. La tradizione del Novecento, Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 177. 10 tativa globale, da Romano Luperini5 e da altri6. Certo, come in piccola parte assaggeremo, il petrarchismo puro di Ungaretti si complica assai nel corso del tempo; la sua «è sí la linea Petrarca-Leopardi, ma intanto sottoposta […] al corto-circuito con un barocco potentemente rivissuto (ed è il grande barocco di Góngora e Shakespeare), cioè con un gusto e una cultura fondamentalmente estranei all'asse portante della tradizione letteraria nazionale».7 Mi preme ancora, in sede liminare, distinguere il correlativo oggettivo di Eliot dall'occasione di Montale, non perché i due poeti non siano entrambi protagonisti della tradizione di lunga durata del realismo metafisico,8 come vedremo, ma semplicemente per puntualizzare due contesti “teorici” non del tutto omologhi. Come è noto, la prima formulazione dell'objective correlative si ha in un saggio di Eliot del 1919, dal titolo Hamlet and his problems. La chiarezza espositiva, come sempre, non fa difetto all'autore: «Il solo modo di esprimere emozioni in forma d'arte è di scoprire un “correlativo oggettivo”; in altri termini, una serie di oggetti, una situazione, una successione di eventi che saranno la formula di quella particolare emozione; tali che quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensibile, siano dati, venga immediatamente evocata l'emozione». Da questa legge generale Eliot fa scaturire la considerazione del difetto principale della tragedia shakespeariana 5 Montale e l'identità negata, Napoli, Liguori, 1984 (vd. pp. 10 sg.). Cfr., recentemente, Luigi Surdich, Le idee e la poesia. Montale e Caproni, Genova, il nuovo melangolo, 1998, pp. 94 sg. Piú magmatica era la proposta complessiva offerta dal grande libro di Silvio Ramat, L'Ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969 (19732). 7 Mengaldo, La tradizione del Novecento, Seconda serie, cit., p.50. 8 «Gran merito di Montale (meno di Eliot, piú intellettualistico) è di avere sempre opposto, di fatto, l'irriducibile presenzialità degli oggetti alla loro potenziale riduzione a segnali psichici», come scriveva nel 1983 Pier Vincenzo 6 11 Hamlet: «L'”inevitabilità artistica” sta in questo completo adeguamento dell'esterno all'emozione: e ciò è precisamente quel che difetta nello Hamlet. Amleto (uomo) è dominato da un'emozione che è inesprimibile perché è “in eccesso” rispetto ai fatti quali appaiono».9 Mi pare evidente che qui Eliot stia definendo un principio generale della forma artistica, in base al quale l'oggettività debba costruire il soggettivo, in ogni espressione artistica, nella letteratura drammatica come nella poesia ecc. A questa fase enunciativa, intendo dire, Eliot non ha in mente necessariamente e specificamente la “poesia degli oggetti” novecentesca di cui sarà uno dei massimi protagonisti, e che già ad es. con Rilke aveva dato esiti di grande spessore. Semplicemente Eliot rifiuta un'arte che non sappia far scaturire l'emozionale e lo spirituale da forme e vicende extra-soggettive. Inoltre il suggerimento eliotiano sembra vertere soprattutto su una necessaria tecnica artistica, una ars per cui il poeta individua l'emozione (o il pensiero, o addirittura l'élan spirituale) e poi costruisce una situazione o una descrizione in cui calare quell'emozione e da cui farla balenare per il fruitore. Si tratta di una prospettiva da parte della techne compositiva, non tanto di una visione della realtà come luogo in sé di epifanie. Cosa che invece caratterizza l'occasione, in senso montaliano, al punto che vorrei riabilitare un po' le affermazioni orgogliose e depistanti della celebre intervista immaginaria del 1946, in cui Montale scriveva le frasi Mengaldo (ora: La tradizione del Novecento, Seconda serie, cit., p. 9). Vd., nell'ampia bibliografia, il recente intervento di Maria Antonietta Grignani, Slittamenti del correlativo oggettivo nella poesia del secondo Novecento, «Italianistica», XXXI, 2002, 2-3, pp. 283-293. Alcune voci critiche sul rapporto Eliot-Montale sono discusse in Paola Sica, Modernist forms of rejuvenation. Eugenio Montale and T.S. Eliot, Firenze, Olschki, 2003, pp. 8-11. 9 T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 1992, p. 366. 12 ormai notissime: «Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui, fui mosso dall'istinto non da una teoria (quella eliotiana del “correlativo obiettivo” non credo esistesse ancora, nel '28, quando il mio Arsenio fu pubblicato nel “Criterion”)».10 Montale parla infatti di qualcosa di sottilmente diverso dalla regola generale esposta nel '19-'20 da Eliot. Intende sottolineare l'operazione di concentrazione poetica, costituita dal non esplicitare precisamente l'evento occasionale da cui sgorga lo slancio (frustrato) verso un piú in là. Il poeta scrive cioè come se anche il lettore conoscesse il dato evenemenziale da cui parte tacendolo e traendone soltanto le conseguenze in una lirica di massima densità. Si può immaginare una poesia barocca particolarmente inventiva ed elaborata senza la sua rubrica illustrativa: le difficoltà nel riconoscere la motivazione originaria sarebbero spesso notevoli. Ebbene, la poesia moderna di Montale, soprattutto nel secondo libro, ma non solo, si presenta come elaborazione metafisica di un dato fisico che non è spiegato, cui si allude soltanto. Senza rubrica, insomma.11 Tutto ciò non è precisamente sovrapponibile, ripeto, all'enunciazione generale che Eliot, un altro grande poeta metafisico, stabilisce nel suo saggio su Hamlet. 10 SM III, pp. 1481-82. Invece già nella raccolta The Sacred Wood del 1920 il saggio su Amleto si poteva leggere agevolmente. 11 Sul ruolo «testualizzante» fondamentale del titolo in certa lirica barocca e in generale vd. Giuseppe Bernardelli, Il testo lirico. Logica e forma di un tipo letterario, Milano, Vita e Pensiero, 2002, pp. 284 sgg. (a p. 290 il riferimento a un son. di Marino). Tutta la seconda parte del libro di Bernardelli, di rara intelligenza, con l'enucleazione del paradosso lirico di un discorso «in presenza», «eteroreferenziale», rivolto «a qualcuno che è assente e fuori contesto» 13 Naturalmente il concetto di oggettività correlata al soggetto sarà approfondito in seguito, negli interventi sulla poesia inglese del Seicento, su Dante, e allora il discorso si amplierà oltremodo, con sintonie montaliane fortissime e con scambi probabilmente anche reciproci. Ma presentata nella sua nudità assertiva nel 1919, la formula del correlativo oggettivo ha una portata piú grandiosamente sommaria, e forse meno calzante per la poesia dell'occasione epifanica. Naturalmente queste puntualizzazioni, forse inutili per molti lettori, non modificano, come si diceva, il fatto che Montale in Italia ed Eliot in Inghilterra siano probabilmente i due piú significativi rappresentanti della linea poetica di “realismo metafisico” di cui vogliamo parlare in questo libro. Un modo poetico che non rinuncia al fenomeno per carpire il simbolo e lo spirito. Un atteggiamento che rileva nel mondo fisico, degli oggetti e degli eventi, anche i piú prosaici, lo scatto verso il metafisico12 - ed anche, contestualmente, lo scacco, come in Montale. (p.157), e quindi con l'analisi della «enigmicità del testo lirico» (pp. 237 sgg.), risulta di irrinunciabile preziosità teorica. Recentemente vd. anche Guido Mazzoni Sulla poesia moderna (Bologna, il Mulino, 2005), con cui non concordo a pieno in merito alla divaricazione storica fra lirica marinista e montaliana, la prima non descrittiva e allegorica, la seconda realistica (pp. 145-46), ma il discorso andrebbe approfondito in altra sede (vd. anche, con interesse, pp. 107, 111 e, con piú perplessità, pp. 166-67). Notevoli rilievi sul percorso fisico-metafisico della poesia moderna trovo in Ermanno Krumm, Lirica moderna e contemporanea, Firenze, La Nuova Italia, 1997. Lo segnalo con piacere, anche in memoria del poeta e saggista prematuramente scomparso. 12 Presuppongo, per primazia nomenclatoria, il saggio di Pietro Pancrazi Eugenio Montale poeta fisico e metafisico [1934], in Id., Scrittori d'oggi. Serie terza, Bari, Laterza, 1946, pp. 247-256, senza ovviamente sposarne le valutazioni finali! 14 Luciano Anceschi,13 parlando proprio dei saggi eliotiani, nel 1945 indicava ormai con sicurezza il nodo Montale-Eliot sulla scia di correlativo oggettivo, allegoria, metafisica.14 D'altra parte Anceschi, nel corso di tutta la sua riflessione nel tempo, ritorna spesso su questi motivi; soprattutto ci è cara la sua introduzione alla antologia Linea lombarda,15 dove Montale è indicato come il corifeo di una poesia in cui «gli oggetti, non appena fattisi immagini, si fan súbito simboli» (p. 15). Il saggio introduttivo è tutta una dichiarazione di fede in una «poesia in re» e non «ante rem» (p. 22 e passim). Una poesia di cose, anche in un vero e proprio «delirio di determinatezza» (p. 15), con «certi riferimenti a realtà e situazioni familiari», con «precisione cronologica o geografica», ma sempre «fino a fare dell'immagine simbolo» (p. 22). Il rifiuto di una poesia ante rem, «intellettualistica» e «pura» fino al disumano, è proprio di Montale, che lo esprime anche in una importante lettera proprio ad Anceschi del maggio 1949: «tutti gli spiriti magni con cui ho avuto contatto - da Svevo a Eliot, da Joyce (che conobbi solo per lettera e per reportages d'altri) a Gide ecc. - mi hanno convinto che non si dà arte senza un substrato assai profondo di naturalità, di fisicità, nell'uomo artista e nell'opera da questi prodotta. Dovunque s'intrude il puro intellettualismo io sento odor di cadavere. […] Sono un razionalista sui generis, un razionalista faute de mieux. Senza negare l'arte metafisica, la sola che veramente mi interessa, la sola che per me esiste».16 13 Primo tempo estetico di Eliot [1945], in Id., Poetica americana e altri studi contemporanei di poetica, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, pp. 51-87. 14 Ivi, pp. 72 sg., 79 sgg. 15 Varese, ed. Magenta, 1952. Una introduzione al pensiero di Anceschi offriva Valentina De Angelis, L'estetica di Luciano Anceschi. Prospettive e sviluppi della nuova fenomenologia critica, Bologna, CLUEB, 1983. 16 Lettere di Eugenio Montale a Luciano Anceschi, a cura di Fausto Curi, «Poetiche Letteratura e altro», 1, 1996, pp. 5-22: 21sg. 15 Useremo quindi, nelle pagine seguenti, l'attributo metafisico nell'accezione specifica cui abbiamo accennato, cioè a dirla breve fisico-metafisica, e non nel senso di una metafisica aprioristica, ante rem, appunto. E la vicenda teorico-pratica della pittura metafisica di primo Novecento può restare estranea al discorso? Non del tutto, se si pensa a celebri dichiarazioni del '19 di Carlo Carrà in merito alle «cose ordinarie»: Cosí quando per qualunque cagione l'uomo è mal disposto agli effetti della pittura, né alle fatiche che essa comporta, non si commuove né si diletta alla contemplazione delle cose naturali. Allora, rimasto per cosí dire bambino, disprezzerà le “cose ordinarie” per rifugiarsi nei sogni vani del meraviglioso, e nel regno fantastico cercare le ragioni della sua impossibilità comprensiva. […] In verità è soltanto il pessimo aviatore - o meglio quello falso e immaginario - che disprezza la terra. […] Sono le “cose ordinarie”, che operano sul nostro animo in quella guisa cosí benefica che raggiunge le estreme vette della grazia, e chi le abbandona crolla inevitabilmente nell'assurdo, cioè nel nulla, sia plasticamente che spiritualmente. […] Sono le “cose ordinarie” che rivelano quelle forme di semplicità che ci dicono uno stato superiore e posteriore dell'essere, il quale costituisce tutto il segreto fasto dell'arte. Ma i baleni delle “cose ordinarie” se raramente si ripetono, quando illuminano l'arte creano quegli “essenziali” che sono i piú preziosi per noi artisti moderni.17 I baleni delle cose ordinarie sono qualcosa di molto montaliano, ça va sans dire. Come valutava il giovane Eugenio la pittura metafisica? Non troppo benevolmente, a giudicare da alcune lettere scritte a Meriano proprio nel 17 Da Pittura metafisica, Firenze, Vallecchi, 1919; noi citiamo da Carlo Carrà, Tutti gli scritti, a cura di Massimo Carrà, con un saggio di Vittorio Fagone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 147 sg.; cfr. anche Paolo Fossati, La «pittura metafisica», Torino, Einaudi, 1988, p. XVII. 16 1919. Ma fra qualche frecciata anti-rondista e qualche altra anti-orfica, è dato cogliere forse l'ambigua eccezione per un Carrà certo letto e meditato: «Non è forse vero che molti di noi - io compreso - han preferito a tutto “darsi ai diletti delle cose false” (Carrà) stante il fallimento ben controllato di tante altre filosofie?».18 Piú avanti, nel 1942, in un cruciale saggio sulla poesia di Campana, Montale ritorna sul nodo orfismo pittura metafisica: «Fermiamoci un istante su quell'orfismo che il suo libro non tenta certo di definire. Coincide col sorgere in Italia di una pittura metafisica (Carrà, De Chirico) di cui Campana non poté ignorare la presenza e le intenzioni» (SM I, p. 578). E neppure Montale stesso poté ignorare il messaggio lirico ed equilibrato di Carrà, consegnato non soltanto alle pagine della Pittura metafisica, ma forse ancor di piú, nei primi anni '20, ai dipinti del cosiddetto realismo mitico, dal Pino sul mare in poi, figurazioni legate paesaggisticamente alle estati liguri trascorse dal pittore a Moneglia (1921) e a Camogli (1923). Anche Carrà, come Rilke o Montale in poesia, non concepiva evidentemente un percorso mitico-metafisico che non partisse dalla prosaica realtà, apparentemente cosí antigraziosa. Nota. I materiali costituenti questo libro sono per lo piú inediti; alcuni capitoli, in una forma estremamente piú scorciata e sintetica, sono apparsi in sedi anteriori; il primo, ad es., segmentato in Petrarchismo metafisico e Montale, «Rassegna europea di letteratura italiana», 25, 2005, pp. 47-63 e Petrarchismo degli emblemi e dantismo delle parole: appunti su Montale, in Un'altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 143-149. Altri spunti sono stati anticipati in occasioni di seminari e convegni. Non ha potuto far parte di questo volume, per ragioni di spazio, il saggio su Montale e l'Apocalissi, che si può leggere in Apocalissi e letteratura, a cura di Ida De Michelis, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 187-204. Elenco in ordine puramente alfabetico i nomi di coloro nei confronti dei quali sono debitore di suggerimenti, aiuti, incoraggiamenti diretti o indiretti, ringra- 17 ziandoli di cuore: Domenico Astengo, Alberto Casadei, Domenico Chiodo, Silvana Cirillo, Andrea Cortellessa, Maria De Las Nieves Muñiz Muñiz, Ida De Michelis, Giulio Ferroni, Andrea Gareffi, Fabio Grossi, Stefano Jossa, Matteo Lefèvre, Paolo Marocco, Alessandro Martini, Vinicio Pacca, Amedeo Quondam, Cristiano Spila, Giona Tuccini, Stefano Verdino. Un grazie anche al Comune di Poppi, nel bel Casentino. 18 In: Francesco Meriano, Arte e vita, cit., p. 148; il riferimento alla «Ronda» nella missiva sg., p. 149. 18 Petrarchismo metafisico «Il maggior merito di Dryden consiste nella sua abilità di ingrandire il piccolo, di rendere poetico il prosaico e magnifico il triviale». Queste parole di Eliot (John Dryden, 1921)19 sono un perfetto introibo al nostro discorso. Che verte sul paradosso di un petrarchismo deviante, fra manierismo20 e barocco, e di una deviazione che poi recupera il modello, confermandone il valore normativo e totalizzante. Anzi, le deviazioni sono piú di una, e d’altronde il petrarchismo è già un fenomeno plurale, come ormai si sta dimostrando, talché si parla correttamente di petrarchismi. E allora, per chiudere il cerchio, ogni storia di deviazione è una vicenda di ritorno all'Uno. Ancora un introibo, questa volta storico-critico. Ha scritto recentemente Amedeo Quondam: «Assumendo 19 Citiamo da T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 1992. 20 Sulla categoria storico-critica di manierismo (per chi scrive, ovviamente, proficua per l’ambito lirico di secondo Cinquecento), ancora di riferimento è il volume antologico Problemi del manierismo di Amedeo Quondam, Napoli, Guida, 1975; fra i (pochi) contributi piú recenti, si segnalano per densità concettuale e documentaria due offerte di Andrea Gareffi, Le voci dipinte. Figura e parola nel Manierismo italiano, Roma, Bulzoni, 1981, e La filosofia del Manierismo. La scena mitologica della scrittura in Della Porta, Bruno e Campanella, Napoli, Liguori, 1984. Saggi di notevole pregio, ma senza una ripresa del dibattito teorico, in Studi sul Manierismo letterario, per Riccardo Scrivano, a cura di Nicola Longo, introduzione di Giulio Ferroni, Roma, Bulzoni, 2000. Si è discusso di manierismo nella sezione parallela ad esso intitolata del convegno Il petrarchismo: un modello di poesia per l’Europa, Bologna, 6-9 ottobre 2004, con gli interventi di Giulio Ferroni, Andrea Gareffi, Stefano Jossa Amedeo Quondam, Ezio Raimondi; sono in corso di elaborazione gli Atti relativi. 19 Petrarca e il Petrarchismo come forma storica primaria e costitutiva della poesia classicistica da Bembo a Leopardi (ma non solo della poesia lirica e non solo della poesia), il senso della sua plurisecolare storia diventa subito piú chiaro, persino piú semplice e coerente: nella sua lingua, nella sua metrica, nella sua topica, nelle sue funzioni comunicative generali».21 Se allora, nel classicismo, nella lirica alta, tutto è petrarchismo, quindi petrarchismi, cioè la grammatica è definita per sempre, inglobando in qualche modo anche le disconnessioni, almeno fino a Leopardi, possiamo parlare qui di un petrarchismo particolare, opera di poeti fra Cinque e Seicento che scelgono come materia poetabile minutaglia empirica, fragmenta del non-io, microeventi talora prosaici talora quasi grotteschi, per elevare tutto ciò alle vette di un sublime moderno,22 o per trarne illuminazioni concettuali. Un processo di estetizzazione del quotidiano, un processo di simbolizzazione dell’insignificante. Alcuni nomi italiani: Giambattista Pigna, Guarini, Torquato Tasso, Ascanio Pignatelli, Curzio Gonzaga, Livio Celiano (alias Angelo Grillo), ed altri, per fermarci al secolo XVI, alla sua fondativa seconda metà.23 Pensiamo al Ben divino del Pigna,24 dove troviamo poesia sulla 21 Introduzione a Petrarca in Barocco. Cantieri petrarchistici. Due seminari romani, a cura di Id., Roma, Bulzoni, 2004, p. XX. 22 Escludiamo ogni esito propriamente comico da questo orizzonte; se mai si può discutere sull’ironia metafisica, sommamente ambigua, di certa lirica barocca. Includiamo invece le propaggini novecentesche di grande stile poetico esercitato su elementi di quotidianità: a questo proposito illuminanti le pagine che Gian Luigi Beccaria ha dedicato al tema: vd. Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989, pp. 24, 32 23 Per riferimenti bibliografici rimando a La lirica rinascimentale, a cura di chi scrive, introduz. di Jacqueline Risset, Roma, Istituto Poligrafico, 2000. 24 G. B. Pigna, Il ben divino, a cura di Neuro Bonifazi, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1965. 20 benda di madonna Bendidio, sul neo, sulle pozzette del mento e delle guance, sul letto, sul dono di un fagiano, sul guanto, su una scena di coiffure, sulla punta di una piuma che fuoriesce dal cuscino e graffia la guancia di madonna, sul moccichino, su un cagnolino morto, su cadute accidentali nel fiume, su un abbiocco della donna, su un calamaio in forma di libro, su uno schizzo di fango, sul raffreddore e sullo sbadiglio, su un filo di seta tratto dall’orlo della veste, su un usignolo donato e cosí via. Tutte queste piccole ragioni di canto, potentemente anti-astrattive e quindi, diremmo con precauzione, realistiche, sembrano portare in una direzione che non è quella de-realizzante del Petrarca (anche se nel modello è contenuto come sempre lo spunto per la deviazione, si veda ad es. il ciclo del guanto, o la caduta nelle acque del fiume di Rvf 67)25. Tuttavia ognuna di tali minuscole occasioni empiriche si assoggettano, nella poesia del Pigna, a elaborazioni sublimanti, simbolizzanti, mitologizzanti, metafisiche. Si pensi soltanto al neo, motivo comune anche al Tasso e al Guarini, neo che spuma dal fuoco stillato dalle faci degli Amori. Oppure al fatto della piuma del cuscino, per cui si scomodano Leda e il suo cigno divino. O all’episodio di madonna presa da un’im25 «In realtà gli elementi che il marinismo costituí a sua poetica si trovano già, spesso in contesti di una rara concretezza lirica, nel Petrarca là dove il tessuto del suo discorso si rarefà per lasciare una vita propria e nettamente definita a particolari di grande risalto»: Mario Luzi, Il barocco e la poesia italiana [1948], in Id. L’inferno e il limbo, Milano, Il Saggiatore, 1964, pp. 90-97: 92. Dal punto di vista stilistico, ma quanto complesso!, anche Dámaso Alonso insisteva in piú occasioni sulla derivazione coerente della lirica barocca dal Petrarca: «Góngora e Marino sono, per gran parte, le forme estreme che doveva assumere il petrarchismo in Spagna e in Italia verso la fine del secolo sedicesimo e l’inizio del diciassettesimo» ecc. (La poesia del Petrarca e il petrarchismo. Mondo estetico della pluralità, in Petrarca e il Petrarchismo, Bologna, Libreria Editrice “Minerva”, 1961, pp. 73-120: 99; poi in Id., Saggio di metodi e limiti stilistici, Bologna, il Mulino, 1965). 21 provvisa sonnolenza: non sembra semplice intorpidimento, bensí transito dell’anima a Dio. E si pensi soprattutto a quello che forse è il capolavoro del Pigna, la canzone sul salasso della donna.26 Qui è l’immagine indimenticabile del piede d’avorio dove si scorge la vena «quasi d’ebano un fil vivo e lucente» (XXXVI, 22),27 che il flebotomo dovrà incidere. Avorio ed ebano, figuranti astrattissimi petrarcheschi, che il poeta manierista riprende per figurati insoliti e per un motivo non petrarchesco in quanto umilmente ordinario (se bene nulla di ciò che concerne la donna possa essere ordinario, neppure un salasso) e che poi nuovamente assolutizza in emblemi semidivini. Ecco perché questa topica dozzinale del manierismo può avere in comune con quella “cortigiana” fra Quattro e Cinquecento soltanto alcune immagini, ma non l’operazione di elazione stilistica e sublimazione complessiva. Mi è capitato già di parlare di questo in altre occasioni:28 ripeterei cursoriamente l’esemplificazione sul motivo della casa in fiamme, realistica disgrazia che simboleggia variamente l’incendio amoroso del poeta. Il topos è nel Tebaldeo e in Serafino Aquilano (qualche spun26 Il motivo, come si sa, ebbe ampia diffusione nella rimeria secentesca. Nel 1595 lo troviamo anche in un sonetto di Góngora, Herido el blanco pie del hierro breve, dove l’evento del salasso di madonna e il timore dell’amante si innalzano ai fastigi mitici della vicenda di Euridice e Orfeo. Vd. Luis De Góngora, I sonetti, a cura di Giulia Poggi, Roma, Salerno ed., 1997, p. 206. Il son. è fra i tradotti da Ungaretti, di cui si veda Da Góngora a Mallarmé, Milano, Mondadori, 1948, pp. 38-39. Fra i micro-motivi sublimati nei sonetti amorosi gongorini, si rammenti quello relativo a «una dama que, quitándose una sortija, se picó con un alfiler», ovvero una signora che cavandosi dal dito un anello, si punse con una sporgenza acuminata (I sonetti, cit., p. 236: per la chiusa, col motivo dei garofani sfogliati dall’Aurora, vd. anche Polifemo y Galatea 46, 2). 27 Può esservi una memoria dell’Epitafio di Adone di Bione, vv. 9-10: «Il sangue nero gli gocciola / lungo la carne nivea»? Vd. Carmi di Teocrito e dei poeti bucolici greci minori, a cura di Onofrio Vox, Torino, UTET, 1997, pp. 456-57. 28 Vd. Giú verso l’alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, 2004. 22 to poteva venire dalle “cacce d’incendio” trecentesche e da qualche suggestione frammentaria dell’epigrammatica greca), poi lo ritroviamo in Tasso e Guarini (e, in Europa, ad es. in Camões, che traduce Serafino), con il mutamento elocutivo e tonale di cui si diceva. E cosí trasformato nel suo porsi ideologico di occasione simbolica, epifanica e mitologizzante, lo ritroviamo ad esempio in secentisti come Scipione Errico, Muscettola ecc. E a esplorare il corpo di rime di uno squisito “marinista” come l’Errico, si reperisce un’inventio non molto piú oltranzista, in fatto di modernità sublimata, rispetto a quella del Pigna. Ecco alcuni dati tematici: il velo nero che copre madonna, la pozzetta sul mento, una veste stellata, la balbuzie, un uovo pieno d’acqua lanciato dalla donna contro l’amante (motivo già presente in Livio Celiano),29 una zanzara che punge l’idolo del poeta, il carro che conduce l’amata, un «legno cadente» che ha ferito il suo capo, il gioco della palla, un sasso che giunge a colpire la donna sui denti, fino alle minuscole leggiadre occasioni di canto dei madrigali, fra cui segnaliamo soltanto l’episodio dell’amante che scaccia via le mosche dalla sua donna inferma.30 E alcuni modelli di questa prassi erano già nel pur moderato Marino, di cui vorrei citare soltanto la prima quartina di un sonetto su «Bella donna che si lava i piedi», senza commento: Sovra basi d’argento in conca d’oro io vidi due colonne alabastrine 29 Vd. Don Angelo Grillo O.S.B. alias Livio Celiano, Rime, a cura di Elio Durante e Anna Martellotti, Bari, Palomar, 1994, pp. 109-110: «Scusa d’un amante, per un uovo d’acqua odorosa, che da lui lanciato, colse l’occhio della sua amata», rubr. 30 Leggiamo da Scipione Errico, Sonetti e madrigali e altre rime dalle raccolte giovanili, introduzione di Francesco Spera, a cura di Luisa Mirone, Torino, Res, 1993. 23 dentro linfe odorate, e christalline franger di perle un candido tesoro.31 Allora. Siamo difronte a un processo di deviazione cosiffatto: scelta inventiva extra-petrarchesca, antiastrattiva e “realistica”, prosaica e quasi anti-poetica, quindi elaborazione del dato empirico in direzione estetizzante, sublimante, mitizzante,32 e/o simbolizzante, concettualizzante, raziocinante, metafisico. Si rifiuta di primo acchito l’emblema costituzionalmente astratto, araldico, nobile – fior frondi erbe ombre antri onde aure soavi33 – in favore di un ogget- 31 Cito dalla parte terza della Lira nell’edizione veneziana per Francesco Baba del 1653, p. 21 (la princeps è del 1614, come si sa); cfr. anche G. Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1913, p. 77. 32 Vd. anche il classico W. Theodor Elwert, La poesia lirica italiana del Seicento. Studio sullo stile barocco, Firenze, Olschki, 1967, pp. 27, 31, 133. Su un «realismo del Seicento», poi, si diffondeva l’allievo di De Lollis, Domenico Petrini, nei suoi appunti a margine della Storia dell’età barocca di Croce: vd. Note sul Barocco, 1929, in Id. Dal Barocco al Decadentismo. Studi di letteratura italiana, a cura di Vittorio Santoli, I, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 1-56. 33 «Tutta la poesia italiana è stata dopo Petrarca privata dell’orgoglio della scoperta, dei contatti piú freschi e magari piú bruschi dell’anima con le circostanze episodiche della vita e, volendo ancora estendere il termine, con l’inferno. Questa avventura è stata abolita, elisa per sempre dalla grande trasposizione lirica petrarchesca e rimane aperta, possibile per il poeta, solo un’avventura minore che concerna i sensi», scriveva Luzi nel celebre intervento del 1945 L’inferno e il limbo (poi nel volume omonimo cit., pp. 16-25: 23). Vd. Stefano Verdino, L’insoddisfazione di Mario Luzi, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 201-218. Sulla ricezione moderna di Petrarca si vedano anche Roland Greene, Post-Petrarchism, Princeton, Univ. Press, 1991; Petrarch and the European Lyric Tradition, a cura di Dino S. Cervigni, «Annali d’italianistica», 22, 2004. 24 to o un evento individuato,34 quotidiano, se non ignobile o bizzarro – persino una cipolla, se intendiamo il son. di Galeazzo di Tarsia Te, lagrimosa pianta, assembro a Amore, e arriviamo cosí fino all’Oda a la cebolla di Pablo Neruda.35 Poi, anzi, simultaneamente, si fa di questa scheggia di realtà a sua volta un emblema, saturo di significato e di bellezza, nativamente materico e sensuoso ma all’arrivo purificato nel fuoco del pensiero e del mito. (Quindi del simbolo, o piuttosto dell’allegoria, e non saremmo distanti dalla grandiosa intuizione benjaminiana del barocco come salvazione dei fenomeni storico-naturali degradati in una apoteosi di morte e significato, se non per un deficit di quella luttuosità radicale che invece connota, rispetto ai testi che stiamo evocando, il Trauerspiel tedesco).36 Questa disposizione manierista e poi barocca a un sublime moderno può avvicinare processi poetici non perfettamente sovrapponibili, come appunto l’estetizzazione in opera nel manieri34 In questo senso il processo poetico che stiamo descrivendo potrebbe essere, molto cautamente, descritto come contrario al classicismo, se è vero che «l’opera classica si distingue per un’economia interna che assegna alla verità generale la supremazia sull’accidente e sul fatto», come scrive Victor L. Tapié in Barocco e classicismo [1957], Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 20-21; anche se poi è lo stesso Tapié a insistere piú volte nel suo celebre libro sulla necessità di «comprendere che barocco e classicismo non costituiscono due stili impenetrabili» (ivi p. 89). Sull’onda lunga del classicismo che ingloba le alterità vd. recentemente Stefano Jossa, L’Italia letteraria, Bologna, il Mulino, 2006, passim. 35 E potremmo citare Caproni: «Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa m’ha sempre messo in sospetto». Semplice realismo? Sentiamo Mengaldo: «questa non mi sembra tanto un’insegna di “realismo” quanto di “metafisica” (Auden l’avrebbe sottoscritta in pieno)». (Pier Vincenzo Mengaldo, Per la poesia di Giorgio Caproni, introduz. a Giorgio Caproni, L’opera in versi, a cura di Luca Zuliani, cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, 1998, pp. XI-XLIV: XL). 36 Il riferimento è ovviamente a Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco [1928], Torino, Einaudi, 1999, introduz. di Giulio Schiavoni, nuova ediz. (precedentemente: Torino, Einaudi, 1971, postilla di Cesare Cases). 25 smo-barocco italiano e la fondazione della poesia metafisica inglese. Il sensuous thought di cui parla Eliot a proposito di Donne e degli altri è appunto definizione detonante che indica un processo di individuazione e di mentalizzazione, di radicamento del logos nella carne. The flea,37 la celebre pulce del Donne, risulta un esempio tra i piú citati e citabili, e la mente va a un dipinto altrettanto celebre di De la Tour, una donna che si spulcia (Femme à la puce, 1638 o giú di lí), ove però, nonostante la suggestione luministica, l’immagine non sembra permettere lo sfondamento metafisico che la letteratura consente e quasi esige. Tra i “metafi37 Vd. John Donne, Liriche sacre e profane. Anatomia del mondo. Duello della morte, a cura di Giorgio Melchiori, 1983, p. 56. L’immagine della pulce in un sonetto amoroso già era reperibile in Watson: vd. Cesare G. Cecioni, Thomas Watson e la tradizione petrarchista, Milano-Messina, Principato, 1969, pp. 327-28. Anche Ronsard, nel sonetto Ha, seigneur dieu, que de graces écloses (negli Amours del 1553), sognava di poter essere pulce per mordere il seno della donna amata (vv. 11-14). Si arriverà al Rimbaud delle Chercheuses de poux, dove «la sublimazione ha luogo in una direzione mitica» (Arthur Rimbaud, Opere, a cura di Ivos Margoni, Milano, Feltrinelli, 1964, n. a p. 397; cfr. anche A. R., Opere complete, a cura di Antoine Adam e Mario Richter, Einaudi-Gallimard, 1992, pp. 184-185, 1059-1060). Pulci e pidocchi secenteschi italiani segnalati in Elwert, La poesia lirica italiana del Seicento, cit., p. 35 e n. Sul petrarchismo di Ronsard vd. Stefano Agosti, Petrarca e la modernità letteraria: una genealogia, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, cit., pp. 9-35: 29, 31; poi in S. Agosti, Forme del testo. Linguistica semiologia psicoanalisi, Milano, Cisalpino, 2004, pp. 15-45. Questo intervento ad ampio respiro cronologico presuppone, ovviamente, il volume fondativo dell’analisi petrarchesca di Agosti, Gli occhi le chiome. Per una lettura psicoanalitica del Canzoniere di Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1993. Si vedano sempre i classici saggi di Agosti su Montale in Cinque analisi. Il testo della poesia, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 69-102; vd. anche la voce cortesemente critica di Aurelio Roncaglia, Testimonianza su due sciacalli a Modena e un cavallo a Pavia, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, a cura di Simone Albonico, Andrea Comboni, Giorgio Panizza, Claudio Vela, Milano, Fondaz. Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996, pp. 661-670; Agosti ha risposto a Roncaglia con fermezza ed equilibrio: vd. Forme del testo, cit., pp. 99-102. 26 sici” italiani pensiamo allora a Ciro di Pers e alle sue liriche sulla calcolosi renale, dove un fasto funerario, marmorizzato, tombale, sprigiona pompe dagli ossalati di calcio delle viscere. E fare altri esempi sarebbe troppo facile e inutile. Dove arriva questa tradizione di un moderno sublime? Non si ferma certo al Seicento. Dobbiamo pensare alla fenomenologia di mitizzazione seria o ironica (ma il risultato è il medesimo) in ambito settecentesco, dal Pope al Parini, e quindi a certo neoclassicismo, a Foscolo, fino a Baudelaire, vero e proprio punto di nuova svolta,38 nonché a Eliot e Montale. Quest’ultimo, consapevolmente, è il maestro dell’occasione individua e assoluta a un tempo, ed è forse l’ultimo poeta italiano che serba gelosamente ed orazianamente il registro alto, sublime, della poesia, proprio in virtú dell’operazione fisico-metafisica di cui si è finora parlato. Tale procedimento, infatti, permette di assumere il dato di realtà (linguisticamente resistente, irto e abrasivo come la materia stessa) nei regni possibili, ma spesso falli38 Il poeta di Une charogne, dei Tableaux parisiens ecc. è davvero il ri-codificatore del moderno sublime di ascendenza manierista-barocca, il ri-funzionalizzatore supremo della linea che coglie nel prosaico anche grottesco l’ascensionalità mitico-simbolica. D’altronde già Erich Auerbach aveva chiarito perfettamente questa dinamica, solo che ne aveva enfatizzato l’assoluta novità retorica: «Egli fu il primo ad esprimere in modo sublime dei soggetti che per il loro carattere non sembravano adatti a tale forma». Mi limiterei a correggere (nella mia parvità rispetto all’autore di Mimesis!) l’indicazione della primazia incondizionata di Baudelaire, sottolineando invece il suo inserimento in una linea di lunga durata, ove il moderno nasce fra Cinquecento e Seicento. Naturalmente ogni perentoria riproposizione è una riformulazione, nella storia delle forme poetiche, per cui Baudelaire resta un rivoluzionario e un neo-capostipite. Il saggio di Auerbach, «Les Fleurs du Mal» e il sublime, del 1951, è stato tradotto in italiano per la prima volta come introduzione a Charles Baudelaire, I fiori del male, a cura di Luigi Nardis, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. XV-XXXVI; la nostra citazione è a p. XX. Illuminante e documentata Tiziana De Rogatis, La «sensualità ragionata» di Baudelaire, in Ead., Montale e il classicismo moderno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2002, pp. 157 sgg. 27 mentari, del metempirico. La cui eleatica compattezza si presta a incrinature non indifferenti, quando il poeta esibisce la totale mancanza di certezze, ma ciò non toglie nulla alla resa del sistema procedurale. D’altronde anche i poeti dell’età di Donne vivevano una perdita di centro e sicurezze. Il loro grande interprete novecentesco, Eliot, ci ha dato, a fianco dei saggi celebri sulla poesia metafisica (1921), delle confessioni lucidissime in forma di commento a se stesso che ci soccorrono forse piú di ogni altra testimonianza nel nostro percorso. Pensiamo alle parole della celebre conferenza tenuta all’Istituto Italiano di Cultura a Londra nel 1950, What Dante Means to Me: Credo di aver imparato innanzitutto da Baudelaire un precedente, mai sviluppato da alcun poeta che scrivesse nella mia lingua, per le possibilità poetiche degli aspetti piú sordidi delle metropoli moderne, per la possibilità di fusione tra il sordidamente realistico e il fantasmagorico, la possibilità di unire il reale e il fantastico. Da lui, come da Laforgue, ho imparato che il tipo di materiale che possedevo, il tipo di esperienza che aveva avuto un adolescente in una città industriale americana, potevano essere materia di poesia, e che si poteva trovare la fonte di una poesia nuova in ciò che fino a quel momento era stato considerato impossibile, sterile, inadatto a esser trattato in forma poetica. Ho imparato, infatti, che compito del poeta era far affiorare la poesia dalle risorse inesplorate del non poetico; che al poeta, infatti, era affidato dalla sua professione il compito di trasformare materiale non poetico in poesia.39 La posizione aggettante di un Baudelaire come rifondatore moderno di una linea poetica della oggettualità impura estetizzata ed epifanica non va disgiunta naturalmente dalla originaria paradigmaticità di Dante, la cui 39 T.S. Eliot, Opere, 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Milano, Bompiani, 1993, pp. 948-49. 28 «immaginazione visiva», come sottolineava Eliot stesso nel saggio dantesco del 1929, rappresenta il modello primo di come il significato, il pensiero, la bellezza insomma scaturiscano limpidamente da natura ed esperienza. Ma su questo, e sulle ripercussioni montaliane via Singleton e Irma Brandeis, si è prodotta tale e tanta bibliografia da imporre la reticenza. Tra Dante e Baudelaire, comunque, c’è la capitale esperienza della poesia metafisica inglese del Seicento per la quale, mutato ciò che c’è da mutare, Eliot nel ’20 ebbe parole non troppo distanti da quelle sopra citate: Un’idea era per Donne un’esperienza: ne modificava la sensibilità. Quando la mente di un poeta è perfettamente attrezzata per il suo lavoro, amalgama continuamente le esperienze piú disparate; l’esperienza dell’uomo comune è caotica, irregolare, frammentaria. Che s’innamori o legga Spinoza, queste due esperienze non hanno nulla in comune col rumore di una macchina da scrivere o con l’odore del cibo; nella mente del poeta, queste esperienze non fanno che formare nuove unità.40 Pagine celebri, queste sulla «diretta e sensuosa appercezione del pensiero», sulla «rifondazione del pensiero nei sensi».41 Ma c’è una lirica eliotiana che con sconcertante impeto immaginale ci dà una perfetta esegesi del sensuous thought in atto. È in Poems del 1920: ci permettiamo di offrirla in una nostra traduzione: Sussurri d’immortalità Webster era invaso dalla morte Sotto la cute scorgeva il cranio 40 T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, cit., p. 577 Ivi, p. 575. Vd., recentemente, Antonella Amato, Lawrence tra «Le occasioni» e «La bufera», «Allegoria», XVI, 2004, 47, pp. 22-46, dove si inserisce appunto Lawrence nella linea teorica “metafisica” che lega Eliot a Montale. 41 29 E sotto la terra corpi scarniti Arrovesciati con un ghigno senza labbra. Bulbi di narciso al posto degli occhi Fissavano sbarrati dalle orbite! Sapeva che il pensiero s’attorciglia a morte membra Stritolando la sua fastosa lussuria. Donne, presumo, fu un altro di quelli Che non trovarono alternativa al senso Per cogliere, artigliare e penetrare; Esperto oltre l’esperienza, Seppe lo spasimo del midollo, La febbre dello scheletro; Nessun contatto possibile con la carne Alleviava la febbre delle ossa. Grishkin è bella: i suoi occhi russi Hanno enfasi cosmetica; senza busto, il caro petto garantisce beatitudine pneumatica. Il giaguaro brasiliano acquattato Irretisce la scimmietta in fuga Con sottili fusa di gatto; Grishkin ha un quartierino; Il lucido giaguaro brasiliano Nel suo buio arboreo non distilla Un afrore felino cosí acuto Come Grishkin in un salotto. E anche le Astratte Entità Circonfondono il suo fascino; 30 Ma è nostra sorte strisciare tra aride costole Per tenere al caldo la nostra metafisica.42 Mentre lo Webster della lirica sembra vedere ovunque, a raggi x, immagine di morte (e si pensa al celebre sonetto di Celio Magno), il Donne di Eliot è proprio uno della genía di poeti che «found no substitute for sense». Per lui il mondo sensibile, nella sua imprescindibilità, va però a tal punto penetrato che ogni autentica esperienza è destinata ad andare oltre l’esperienza («expert beyond experience»). Donne conobbe la pulsione angosciosa a stringere il midollo di senso («he knew the anguish of the marrow»), la autentica febbre ricorrente, malarica, dell’ansia di attingere lo scheletro intimo («the ague of the skeleton»). Ci vuole un flessuoso corpo felino da penetrare «to keep our metaphysics warm». Ci vuole carne per poterla scarnificare. L’astrazione pura è fredda: necessita una incarnazione che consenta una escarnazione. Rammentiamo il processo: rifiuto dell’astrazione programmatica petrarchesca, ritorno 42 «Webster was much possessed by death / And saw the skull beneath the skin; / And breastless creatures under ground / Leaned backward with a lipless grin. // Daffodil bulbs instead of balls / Stared from the sockets of the eyes! / He knew that thought clings round dead limbs / Tightening its lusts and luxuries. // Donne, I suppose, was such another / Who found no substitute for sense, / To seize and clutch and penetrate; / Expert beyond experience, // He knew the anguish of the marrow / The ague of the skeleton; / No contact possible to flesh / Allayed the fever of the bone. // Grishkin is nice: her Russian eye / Is underlined for emphasis; / Uncorseted, her friendly bust / Gives promise of pneumatic bliss. // The couched Brazilian jaguar / Compels the scampering marmoset / With subtle effluence of cat; / Grishkin has a maisonette; // The sleek Brazilian jaguar / Does not in its arboreal gloom / Distil so rank a feline smell / As Grishkin in a drawing-room. // And even the Abstract Entities / Circumambulate her charm; / But our lot crawls between dry ribs / To keep our metaphysics warm». Vd. T.S. Eliot, Opere, 1904-1939, cit., pp. 530-32. Sotto il nome di Grishkin dovrebbe celarsi la ballerina Serafima Astafieva, della compagnia di Diaghilev, presentata a Eliot da Ezra Pound. 31 alla carne, alla materia, all’oggetto, al reale, per fare di tutta questa empiria un falò gnoseologico alla ricerca dell’oltrefisico, del metafisico, dell’essenza spirituale, concettuale, del logos, insomma. Verbumcaro e poi caroverbum. Petrarchismo metafisico in quanto realismo metafisico. Come sarà con Montale: l’astrazione delle rose e delle viole (cioè “fiori”) si fa concreto girasole. L’individuo empirico girasole è però subito emblema della tensione alla chiarità, del vaporare in essenze, della morte. Il girasole è fisico, il girasole è metafisico. Il girasole è umile, il girasole è sublime, mitico, simbolico. Prima di Montale si pensa ovviamente a Pascoli,43 vero protagonista della rivoluzione (inconsapevole?) della lirica italiana novecentesca. E per ricostruire una genealogia del moderno si dovrà allora risalire proprio allo snodo manierista-barocco, alla stagione fra Cinquecento e Seicento. Quando la fondazione di un moderno sublime in poesia si esplica nella estetizzazione, mitizzazione, metafisicizzazione del prosaico empirico, nella scelta del relativo e del reale identificati come veri latori dell’assoluto e del simbolico. La bellezza si sprigiona da dove non la si aspetta tradizionalmente. Da un reale che è piú sorprendente dell’ideale. La verità è bellezza, è condizione di bellezza, insomma, a voler forzare un poco, per i nostri fini, il verso celeberrimo di Keats. A raccogliere una tradizione di estetizzazione e mitizzazione dell’oggetto moderno c’è un testimone della grande narrativa novecentesca, esemplare in questa economia: pen43 Vd. fra l'altro lo storico saggio del 1958 di Luciano Anceschi, Pascoli verso il Novecento, in Id., Barocco e Novecento con alcune prospettive fenomenologiche, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1960, pp. 95-123, dove Pascoli è inserito nella novecentesca couche di «poesia degli oggetti», in «una continuità di discorso poetico in cui è l'oggetto particolare a caricarsi della forza del simbolo, e non il simbolo a farsi oggetto» (p. 114), asserto che possiamo sposare in toto (per l'arrivo a Montale vd. poi p. 121). 32 siamo a Marcel Proust. Nella Recherche, un esempio in cui culmina questa assunzione di immagini del nuovo, persino tecnologico, in uno spazio di classicismo e splendore, è dato dall’episodio dell’aeroplano in Sodome et Gomorrhe. Il moderno è prosaico, impoetico? Giammai, è assumibile in pieno nel cosmo del sublime. Cosí era accaduto per la locomotiva nella Stazione in un mattino d’autunno di Carducci,44 cosí accadeva con il nuovo sublime macchinistico dei Futuristi. E cosí, se pure in modo diverso, accade per l’incontro di Marcel a cavallo con l’aeroplano. Proust, come scrive Curtius, «traspone l’elemento materiale in quello spirituale. […] Riesce a rendere poetica la realtà, se si può dire; se si intende in questo modo non un’aggiunta posteriore, ma una restituzione, una ricostruzione della primitiva ricchezza dell’esperienza».45 Una reintegrazione del reale nel mito. Un rifiuto dell’astrazione dall’empiria e dalla modernità, per rifondare poi un sublime sull’esperienza. Per fondare nuove epifanie, con perenne fede nella bellezza e nel significato complesso del reale investito dei valori dell’io. Tous à coup mon cheval se cabra; il avait entendu un bruit singulier, j’eus peine à le maîtriser et à ne pas être jeté à terre, puis je levai le point d’oú semblait venir ce bruit mes yeux pleins de larmes, et je vis à une cinquantaine de mètre au-dessus de moi, dans le soleil, entre deux grandes ailes d’acier étincelant qui l’emportaient, un être dont la figure peu distincte me parut ressembler à celle d’un homme. Je fus aussi ému que pouvait l’être un Grec qui voyait pour la première fois un demi-dieu. Je pleurais aussi, car j’étais prêt à pleurer du moment que j’avais reconnu que le bruit 44 Dove la partenza in treno era una complessa allusione al viaggio ad inferos: non molto differentemente opererà Caproni con le Stanze della funicolare, esplicitando però il richiamo mitologico all'Erebo, a Proserpina, al «viaggio verso la morte»; vd. Giorgio Caproni, L'opera in versi, cit., pp. 135-142 e l'autocommento a p. 1147. 45 Ernst Robert Curtius, Marcel Proust [1925], a cura di Lea Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1985, p. 55. 33 venait d’au-dessus de ma tête – les aéroplanes étaient encore rares à cette époque – à la pensée que ce que j’allais voir pour la première fois c’était un aéroplane. Alors, comme quand on sent venir dans un journal une parole émouvante, je n’attendais que d’avoir aperçu l’avion pour fondre en larmes. Cependant l’aviateur sembla hésiter sur sa voie; je sentais ouvertes devant lui – devant moi, si l’habitude ne m’avait pas fait prisonnier – toutes les routes de l’espace, de la vie; il poussa plus loin, plana quelques instants au-dessus de la mer, puis prenant brusquement son parti, semblant céder à quelque attraction inverse de celle de la pesanteur, comme retournant dans sa patrie, d’un léger mouvement de ses ailes d’or il piqua droit vers le ciel.46 L’incontro con l’aeroplano è l’irrompere di un semidio nel paesaggio naturale predisposto a mitologie, come Proust stesso indicava nelle righe precedenti al passo citato. Le lacrime accompagnano questa apparizione ad alto tasso di realtà e prodigio: l’aeroplano punta diritto verso il cielo, nuovo albatro già baudelairiano e melvilliano. L’oggetto fisico brutalmente moderno (al centro di una mistica primonovecentesca, fra D’annunzio e Saint-Exupéry) è cifra di una elevazione platonico-simbolista. «Il platonismo di Proust […] io saprei confrontarlo soltanto con quello di Baudelaire. […] Deve fondere prima tutta la materia, deve trasformarla e sublimarla in un’alchimia spirituale prima di trasformarla nella sua lingua». È ancora Curtius a parlare.47 E il secolo ventesimo è brulicante di interstizi metafisici ed epifanici 46 Sodome et Gomorrhe, Paris, Gallimard, 1954, pp. 484-85. Vd. Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, vol. III, a cura di Luciano De Maria, Alberto Beretta Anguissola, Daria Galateria, traduz. di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1989, p. 274 e nn. (della Galateria) pp. 908 sg. 47 Marcel Proust, cit., pp. 106-107. Su essenzialismo e platonismo in Proust pagine celebri in Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni [1964], Torino, Einaudi, 1967, pp. 42 sgg., 95 e passim. Anche Tilgher rilevava una «corrente platonica e plotiniana» fra le componenti della poetica proustiana: cfr. Adriano Tilgher, Studi di poetica, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1934, pp. 219 sgg. 34 nel reale. Vengono alla mente esemplificazioni quasi ovvie: l’irrompere della claritas nel quotidiano con le «epiphanies» di Joyce,48 i «moments of being» della Woolf,49 gli «unattended moments» di Eliot,50 le occasioni di Montale.51 Restiamo con Montale, dunque. E con un suo interprete fra i piú precoci e acuti, Sergio Solmi, che nel grande saggio del 1957 riassumeva i termini del problema del “realismo” montaliano, un «realismo tanto piú illusorio quanto piú intenso. […] Realismo paradossale, perché ogni qualificazione di luogo e di momento, quanto piú sensualmente e incisivamente appresa e definita, […] è, lo sentiamo, indicazione di altro, materializzazione di un paesaggio interno che si esteriorizza nel paesaggio sensibile, conservandogli, proprio attraverso quell’estrema incisività, la sua funzione emblematica. Passaggio dall’interno all’esterno, e viceversa».52 Realismo, insomma, come realista può essere definita la lirica secentesca, marinista e metafisica, e già quella di 48 Vd. l'introduzione di Giorgio Melchiori a James Joyce, Epifanie (19001904), Milano, Mondadori, 1982, pp. 14 sgg. 49 «La Woolf è tanto consapevole del carattere astrattivo e poetico dei suoi procedimenti, che resta ad ogni buon conto collegata alla realtà dei fatti e dei luoghi, degli ambienti e del contesto, almeno come punto di partenza e di riferimento per le sue proiezioni narrative» (Sergio Perosa, prefazione a Virginia Woolf, Romanzi e altro, Milano, Mondadori, 1978, p. XVI). 50 Vd. Four Quartets, III, 5, in T.S. Eliot, Opere 1939-1962, cit., p. 378. Laura Barile (Adorate mie larve. Montale e la poesia anglosassone, Bologna, il Mulino, 1990) parla di convergenza, piú che di influenza, fra l'Eliot dei Quartets e il terzo Montale (pp. 56 sgg.). Fra la bibliografia piú recente si veda Simona Mancini, Montale ed Eliot attraverso la «Bufera» e i «Four Quartets»: tempo, trascendenza e storia, «Quaderni del '900», II, 2002, pp. 71-88. 51 Su Montale e Proust si veda il libro, cosí titolato, di Angelo Fabrizi, Firenze, Polistampa, 1999, in particolare il capitolo II, Dal “plaisir” al “miracolo” (ipotesi per «I limoni»), pp. 29-37, dove si evidenziano consonanze fra i due scrittori in merito alla ricerca di varchi dal fisico al metafisico, mantenendo lucidamente la consapevolezza della distanza negli esiti (ritrovamento vs scacco). 52 Scrittori negli anni, Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 294-95. 35 secondo Cinquecento cui abbiamo alluso. Il ritorno alla realtà e alla descrizione di essa, rispetto all’apriori derealistico del Petrarca e del mainstream petrarchista, è ancor piú garantito in una poesia novecentesca, come quella montaliana, che viene dopo Baudelaire e Pascoli. Ma è descrizione che per la sua ossessione dell’empirico conduce di nuovo alla rarefazione, se non alla nube dell’inconoscenza. Lo metteva straordinariamente in luce Contini in una lettera a Montale: Il descrittivo depone in genere per una grande felicità conoscitiva. Uno è sicuro del mondo, ha fiducia nelle cose, può quietamente numerarle una per una e riconoscerle al singolo piacere che prova. Il paradiso, insomma, è descrittivo. Tuttavia – e questo è il punto – il descrittivo ha da rimaner sempre in un certo “generico”; c’è un insuperabile limite di vaghezza, di evocazione alla felicità; e a stringere troppo dappresso il reale, c’è pericolo che il reale sparisca. Ora, tu negli Ossi manifestamente “esageri” in descrizioni; precisi all’estremo, nomini successivamente con un certo delirio, incalzi a definire; con troppa insistenza perché non si debba sospettare un’immane infelicità conoscitiva che, impotente a ricavare il piacere degli oggetti, lo surroga con un’imponente citazione quantitativa e con l’abbondanza dei particolari. Per questa discesa lungo l’albero di Porfirio, per quest’angosciosa esattezza tecnica io ho parlato di poesia “dialettale”.53 E la tragedia è appunto qui: in una crisi quanto mai “europea”, umana, prima, che ricorre al linguaggio piú determinato, e quasi s’illude di risolvercisi.54 53 Vd. infatti il saggio del 1933 Introduzione a Eugenio Montale, poi in Id., Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un'appendice su testi non contemporanei, Torino, Einaudi, 1974, p. 67 («E il linguaggio preferito ricorre a parole determinatissime, “dialettali” addirittura, diremmo»). 54 Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1997, pp. 22-23, 24 giugno 1934; «L'“albero di Porfirio” rappresenta, secondo il filosofo Porfirio di Tiro, seguace di Plotino, la scala per cui dalla sfera passionale-pratica si sale alla pura contemplazione teoretica», spiega Isella alle pp. 17-18. 36 Contini, supremo esegeta del Petrarca, intuisce che la genericità descrittiva (araldico-emblematica, diremmo noi) è garanzia di una certezza conoscitiva che quasi precede la realtà stessa e cosí facendo la nientifica nello spazio soggettivo, assume nell’io il non-io, senza neppure osservarlo, operando una astrazione a priori. L’operazione montaliana (e di tutta la tradizione che stiamo indicando) è quella di una discesa verso il basso dell’albero di Porfirio, per poi risalire a posteriori verso le altezze, ma quasi simultaneamente.55 «A stringere troppo dappresso il reale, c’è pericolo che il reale sparisca»: quale frase meglio di questa può illustrare il procedimento che ormai conosciamo, piú o meno? Ovvero il distacco dalla grande matrice petrarchesca dell’astrazione a priori, per la resurrezione del reale piú materico e ruvido, dell’esperienza piú marginale, del fenomeno, insomma, in una poesia che rifonde tutto questo in un piú radicato e completo classicismo metafisico, noumenico, teso ad ambigue essenze. Cerchiamo allora piú a fondo nel dominio di questo «ambiguo e corroso petrarchismo moderno» di Montale, come si esprime il Solmi.56 Sul piano delle intertestualità puntuali significative (e soprattutto effettive), il vettore PetrarcapMontale non offre grandi soddisfazioni. Molta generosa critica montaliana57 indi55 Sempre Contini, in una lettera del gennaio '34, scrivendo a Montale, alludeva a chi «misura il linguaggio in base all'albero di Porfirio: piú è generico, piú è alto» (Eusebio e Trabucco, cit., p. 16). 56 Scrittori negli anni, cit., p. 296. 57 Ad esempio Giuseppe Savoca, Sul petrarchismo di Montale in Id., Parole di Ungaretti e Montale, Roma, Bonacci, 1993, pp. 61-80; Tiziana Arvigo, Guida alla lettura di Montale, Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2001; si veda anche Giorgio Orelli, Accertamenti montaliani, Bologna, Il Mulino, 1984 ecc. Naturalmente di “petrarchismo” montaliano si parla, piú o meno cursoriamente, in tanta letteratura critica, come ad esempio in saggi classici come D'arco Silvio Avalle, «Gli orecchini» di Montale in Id., Tre saggi su Montale, Torino, 37 vidua liaisons se non citazioni già negli antipetrarchisti Ossi di seppia, ma la messe si riduce a poco se ci limitiamo ai casi di memoria certa o almeno probabile. Come, ad es., per Mia vita, a te non chiedo lineamenti, dove ai vv. 3-4 la coniunctio oppositorum dolceamara non è generica ma è di fondazione petrarchesca: «lo stesso / sapore han miele e assenzio» < «e ’l mèl amaro, et adolcir l’assentio» (Rvf 215, 14).58 Nel medesimo osso il v. sg., «Il cuore che ogni moto tiene a vile», ha fatto pensare a Rvf 128, 73 («tien caro altrui che tien sé cosí vile»), ma certo la mediazione del Leopardi di A se stesso è determinante. Risalendo all’osso precedente, Ripenso il tuo sorriso…, il verso finale («schietto come la cima d’una giovinetta palma», detto del ballerino Boris Kniaseff) ha provocato fra gli esegeti evocazioni plurime: Carducci, Dante59 ma soprattutto Petrarca e il suo «lauro giovenetto et schietto» (Rvf 323, 26). Poi: il sintagma a fine verso «che ti scampi» (Arsenio 20; Casa sul mare 33 :campi) è chiara reminiscenza di Rvf 35, 5: «che mi scampi», celeberrimo. Infine: «Si struggono i pensieri» (Marezzo 24) < «Se ’l pensier che mi strugge» (Rvf 125,1), incipit memorabile. Einaudi, 1970, pp. 51 sg.; Pier Vincenzo Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, in Id., La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 23 sg. ecc.; un accenno, ma prezioso, al petrarchismo montaliano in Adelia Noferi, Le poetiche critiche novecentesche «sub specie Petrarchae», nel volume di Ead. Le poetiche critiche novecentesche, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 225-299. E ancora si veda Armando Balduino, Per un glossario montaliano [1974] in Id., Messaggi e problemi della letteratura contemporanea, Venezia, Marsilio, 1976, pp. 13-29: 23 e n.; Mario Martelli, Le glosse dello scoliasta. Pretesti montaliani, Firenze, Vallecchi, 1991, pp. 13, 17 ecc. Giulio Ferroni ha parlato diffusamente di petrarchismo montaliano in un suo recente intervento: A vaga de fundo do petrarquismo: Leopardi e Montale, in Petrarca 700 anos, a cura di Rita Marnoto, «Leonardo» 3, Coimbra, Instituto de Estudios Italianos da Faculdade de Letras, 2005, pp. 79-100. 58 Cfr. anche Triumphus Cupidinis III, 187; per il nesso dolceamaro in Petrarca mi permetto di rimandare al mio Contraposti. Petrarchismo e ossimoro d'amore nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 97 sgg. 59 Arvigo, Guida…, cit., p. 94 n. 13. 38 Io mi fermerei sinceramente qui (dove altri appunto non si fermano), e senza entusiasmi da raccolto pingue. Qualcuno scorgerà qualcosa di piú eccitante, forse. Naturalmente, a voler registrare echi assolutamente ipotetici e remoti, a notevole tasso di improbabilità, si potrebbe procedere. Del tipo: «in mezzo al buio che precipita / e muta il mezzogiorno in una notte» (Arsenio 34-35) < «po’ far chiara la notte, oscuro il giorno» (Rvf 215, 13); «Le notti chiare erano tutte un’alba» (Valmorbia 9) < «Quando la sera scaccia il chiaro giorno, / et le tenebre nostre altrui fanno alba» (Rvf 22, 13-14) ecc., cosí futilmente continuando. Nella zona piú dichiaratamente “petrarchesca” dell’opera in versi montaliana, cioè Le occasioni60 e soprattutto Finisterre, il canzoniere61 (piú franto che compatto, ovviamente) per una assente-presente si modula sulla falsariga della lirica d’amore occidentale, quella del paradosso e dello scacco, ove Petrarca la fa da maestro assoluto, come tutti sanno. Ma, ed è sposabile notazione del Savoca, «dopo gli Ossi di seppia le reminiscenze petrarchesche vanno diradan60 La scelta stessa di occasioni, cioè micro-eventi trasfigurabili in chiave metafisica e sublime, identifica, come s'è detto, una precisa linea di petrarchismo, se pure deviante in parte dal modello, per cui rimando a una pagina folgorante di Gilberto Lonardi in Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 125, 96. Di una «metamorfosi del segno dall'aneddotico al metafisico» o, talora, «dall'apparentemente aneddotico al cosmico» scrive anche Emerico Giachery, Metamorfosi dell'orto e altri scritti montaliani, Roma, Bonacci, 1985, p. 58 e n. 37. In diversa prospettiva si veda poi Angelo Marchese, Leopardi, Montale e la poesia metafisica, in Id., Amico dell'invisibile. La personalità e la poesia di Eugenio Montale, Torino, SEI, 1996, pp. 212-221 (cfr. anche pp. 141-142). Leggo il secondo libro di Montale nell'edizione commentata da Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996. Cosí per Finisterre (ivi 2003). Per gli Ossi si ricorre ora all'edizione a cura di Piero Cataldi e Floriana D'Amely, Milano, Mondadori, 2003. Altrimenti il fondamento è OV. 61 Vd. recentemente Niccolò Scaffai, Montale e il libro di poesia, Lucca, maria pacini fazzi, 2002. 39 dosi».62 Cioè, quando il petrarchismo in senso lato si fa tematico, le tessere petrarchesche paiono decadere. Inversamente, negli Ossi modeste tessere petrarchesche c’erano, ma non facevano sistema e non si intelaiavano in una topica petrarchista. Cosí, a voler sempre rastremare la raccolta intertestuale fino a un succo piú garantito (o quasi), troviamo qualcosa in Finisterre come ad es.: «i desiderî / porto fin che al tuo lampo non si struggono» (Gli orecchini 7-8) < «e ’l chiaro lampo / che l’abbaglia et lo strugge» (Rvf 221, 6-7); la solita eco di Solo e pensoso in Personae separatae 11, «a terra stampi»; la non certissima derivazione di «ti stellano / gli amuleti» (Il tuo volo 2-3) da espressioni come «li occhi sereni et le stellanti ciglia» (Rvf 200, 9), «per adornarne i suoi stellanti chiostri» (Rvf 309, 4); schegge instabili come il verbo inostrare (Il ventaglio 7) o come l’aloè (Serenata indiana 3) che potrebbero essere autorizzate da Rvf 192, 5 («’mperla e ’nostra», coppia topica, e Montale ha al v. 9 «la madreperla»), 360, 24 («molto aloè con fele»). D’altra parte, anche sul versante tematico e strutturale, non è solo, anzi, non è tanto Petrarca ad agire sulla “trama” di Occasioni-Finisterre: c’è sempre Dante a spodestare la seconda corona aurea, con la passione e morte di Beatrice nella Vita nova e la sua ricomparsa al termine del Purgatorio, accigliata e severa, in canti ben cari ad Eugenio.63 Tuttavia, come ognun sa, è proprio Montale a parlare di petrarchismo per Finisterre: «Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo cosí, petrarchesca. Ho proiettato la 62 Savoca, Sul petrarchismo…, cit., p. 75. «Dicasi una volta per sempre che di petrarchesco (anche il poeta parla di suo petrarchismo) nel canzoniere montaliano c'è solo, diciamo, la parte alta, che è poi dantesca»: Oreste Macrí, Esegesi del terzo libro di Montale [1968] in Id., La vita della parola. Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, pp.143-209: 165-166. 63 40 Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione, e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria».64 A rileggere queste sempre citate parole verrebbe da fare almeno una considerazione. E cioè: l’incidentale «diciamo cosí» conferisce all’attributo «petrarchesca» un valore generico, quasi categoriale piú che puntuale. Tanto è vero che fra le madonne evocate da Montale troviamo l’amata di Cino, un’altra di Cavalcanti e la Délie di Scève. Ovvero prima e dopo Laura di Petrarca. (Non c’è neppure Beatrice, ma sarà per colto snobismo). Come a dire che stilnovismo (quindi implicitamente Dante, che se l’è inventato) e petrarchismo son piú petrarcheschi di Petrarca. Nel cosiddetto quarto Montale (in realtà, come sta emergendo, e come ogni lettore può verificare, assai meno compatto di quanto sembrasse),65 Petrarca risulta assai latitante; tuttavia, fra gli Altri versi, c’è quella magnifica pensosa elegia retrospettiva per Clizia, Poiché la vita fugge, che esordisce proprio con una eco dal sapore inconfondibilmente petrarchesco, e ostende la miscela di motivo amoroso post-mortem e di meditazione de fuga temporis che identifica obbligatoriamente il modello lirico trecentesco. Ma su questa vicenda è bene tacere, dopo lo splendido saggio di Rosanna Bettarini, luce-in-tenebre per l’esegesi.66 Stabilito che la poesia di Montale si pone linguistica64 Dall'intervista immaginaria del 1946, ora in SM III, p. 1483. Vd., nella sterminata bibliografia in proposito, la smaltata sintesi introduttiva di Dante Isella al suo commento di Finisterre cit., p. XVII. 65 Vd. ad es., di recente, Francesco De Rosa, Scansioni dell'ultimo Montale, in Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di Maria Antonietta Grignani e Romano Luperini, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 47-72. 66 Rosanna Bettarini, Clizia e la vita che fugge, in Echi di memoria. Scritti di varia filologia, critica e linguistica in ricordo di Giorgio Chiarini, a cura di Gaetano Chiappini, Firenze, Alinea, 1998, pp. 255-263. A p. 259 si segnala 41 mente sulla grande linea dell’antipetrarchismo, e quindi del dantismo plurilinguistico, che aveva visto fra Otto e Novecento un protagonista in Pascoli e un modello opposto in Leopardi, resta da intendere il particolare “petrarchismo” montaliano (dichiarato esplicitamente a proposito del canzoniere per Clizia). In certi luoghi di riflessione Montale faceva coincidere grosso modo poesia pura con poesia metafisica (che altrove distinguerà, autoinserendosi nella seconda)67 e la collocava in Italia nel solco del petrarchismo: «In parole povere si può dire che con essi [i poeti inglesi contemporanei e “impuri” come Auden] tramonti o si oscuri il regno della poesia pura: una poesia che da noi si acclimatò tardi e forse durerà piú a lungo in Italia l'indicazione di una variante di prima stesura nella lirica Luni e altro: «Per me petrarchizzante come tu dici / esiste solo il girasole, Clizia», dove il petrarchismo montaliano si connota per scelta metaforica ovidiana, analoga cioè a quella dafneo-laurana dei Fragmenta (quest'ultima del resto non estranea a Montale, come sa chiunque abbia letto Incontro negli Ossi e poi Annetta nel Diario del '72, per cui rimando all'ottimo Vinicio Pacca, «La foce del Bisagno»: un'immagine montaliana, «Rivista di letteratura italiana», XII, 1994, 2-3, 42940: 436 sgg.). Nessuno dimentica poi che la miscela fuoco-ghiaccio di Clizia, iscritta nel nome della Brandeis, rimanda necessariamente a uno dei preferiti oxymora petrarcheschi (vd. ancora Contraposti…, cit., pp. 163 sgg.). Per la tensione degli opposti in Montale vd. Andrea Gareffi, Mondale. La casa dei doganieri, Roma, Edizioni Studium, 2000, particolarmente i capp. IV e V. 67 Pensiamo in proposito a pagine peraltro citatissime e celeberrime: «Se per poesia pura si intende quella di estrazione mallarmeana io non appartengo a quella corrente. Non è che io la respinga a priori, solo me ne dichiaro estraneo. C'è stata però, a partire da Baudelaire e da un certo Browning, e talora dalla loro confluenza, una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all'ingrosso si può dire metafisica. Io sono nato in quel solco. […] Resti inteso che io non tengo molto nemmeno al cartello di metafisico, perché l'area di questa poesia è estremamente incerta. Tutta l'arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica. La poesia religiosa occupa un territorio molto vicino» (1960, SM III p. 1604-1605, c.vo mio. Vd. anche ivi pp. 1606, 1618). 42 che altrove perché trova un naturale innesto nel tronco della tradizione petrarchesca. Sarebbe dunque morta quella poesia pura che, largamente intesa, dovrebbe includere i nomi di Baudelaire e di Hopkins, di Yeats e di Valéry».68 Ogni poesia pura è dunque affiliabile, alla lontana, al petrarchismo: cosí potremmo semplificare. E la linea “metafisica”, per quanto talora distinguibile da quella “pura”, risulta comunque storicamente, se abbiamo visto bene, una rigorosa estremizzazione del petrarchismo, un petrarchismo deviante che pesca nel reale anche prosaico, ma che poi assolutizza in modo ancor piú trascendente gli enti-oggetti-emblemi, magari avvicinandosi al trascendente religioso, e spesso rinunciando al monolinguismo. A voler fare nomi, si può scialare: da Donne a Hopkins, da Michelangelo69 a Eliot, da Gryphius a Benn, da Hölderlin70 a Rilke, da Shakespeare e Góngora71 alla «confluenza» 68 SM I, p. 1412: si tratta di una recensione del 1952 all'edizione delle Poesie di Wystan Hugh Auden a cura di Carlo Izzo, per i tipi di Guanda. Si noti che i quattro poeti citati da Montale per esemplificare la linea “pura” ricompaiono anche nelle liste rappresentative della linea “metafisica”. Su Montale “impuro” vd. recentemente Gilberto Lonardi, Il fiore dell'addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 61 sgg. 69 Nella cui poesia Montale rileva, correttamente, la presenza di Petrarca (SM II, p. 3042, scritto del 1976). Montale non manca di individuare implicitamente consonanze con l'amato Shakespeare dei sonetti; quando poi cita la celebre quartina Caro m'è il sonno, e piú l'esser di sasso, pensiamo a Palio v. 40: «grava ora un sonno di sasso». Mario Praz paragonava invece Michelangelo a Donne: cfr. John Donne e la poesia del suo tempo, saggio del 1931, poi in Id., Machiavelli e l'Inghilterra ed altri saggi, Roma, Tumminelli, 1942, pp. 235-237. 70 Genericamente affiancato a Petrarca per esemplificare grandi poeti non spontanei (SM I, p. 1199: testo del 1951). 71 Il cui aspetto “metafisico” è colto ovviamente anche da un “petrarchista puro” come Ungaretti: vd. Góngora al lume d'oggi, 1951, in Giuseppe Ungaretti, Vita d'un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e 43 Baudelaire-Browning,72 o a un Machado,73 da Crashaw74 alla Dickinson, e persino da Foscolo75 a un Valéry recuperato alla linea “metafisica” ecc.76 E in questa dorsale secolare, Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974, pp. 528-550: 529, 532, 540. Vd. poi Ungaretti e il Barocco. Testi e problemi, a cura di Alexandra Zingone, Firenze, Passigli, 2003, particolarmente l'intervento della curatrice, pp. 77 sgg.; Niva Lorenzini, Ungaretti - Petrarca - Gòngora: per una rilettura, in Un'altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, cit., pp. 131-141; Maria Antonietta Sirte, Ungaretti traduttore di Gòngora. Tradurre poesia: un miracolo difficile, Firenze, Firenze Atheneum, 2004 (bibliografia pp. 264-265); Monica Savoca, Gòngora al lume di Ungaretti: dalla traduzione alla poesia, in Giuseppe Ungaretti. Identità e metamorfosi, a cura di Lia Fava Guzzetta, Rosario Gennaro, Maria Luisi, Franco Musarra, Lucca, Maria Pazini Fazzi, 2005, pp. 385-400. Sul petrarchismo secondo Ungaretti e sui rapporti con Góngora, Shakespeare, il Barocco, importante il rimando a Daniela Baroncini, Ungaretti e il sentimento del classico, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 107-156. Da rileggere le straordinarie pagine di Carlo Ossola, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 215, 231 sgg. 72 Per dichiarazioni, probabilmente depistanti, di Montale che nega di conoscere bene Browning e ne dà valutazioni poco lusinghiere, vd. PR p. 1097; cfr. Martelli, Le glosse dello scoliasta, cit., p. 99. Sugli influssi browninghiani in Montale fondamentali pagine hanno scritto, come è noto, Gilberto Lonardi nel Vecchio e il giovane, cit., e Laura Barile in Adorate mie larve, cit. 73 Su cui Montale dà un giudizio di eccellenza nel panorama europeo e soprattutto ispanico moderno: vd. una sintesi delle sue valutazioni in merito in Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura hispánica Roma, Bulzoni, 1986, pp. 44-46. 74 Vd. l'edizione Isella delle Occasioni, cit., p. 31, nota a Cave d'autunno 7-8 (vd. anche pp. 149, 185). 75 Assai ammirato da Montale, come è noto. Vd. Ettore Bonora, Conversando con Montale, Milano, Rizzoli, 1983, p. 102. Tutta la poesia Tempi di Bellosguardo nelle Occasioni è percorsa da un sottotesto foscoliano, fra i Sepolcri e le Grazie: vd. le note di Isella nell'ediz. cit. ai vv. II, 28 sgg. e III, 1921. Sulla presenza di Foscolo in Montale restano basilari le pagine di Lonardi in Il Vecchio e il Giovane, cit.: 52-54, 94-100, 124-129 ecc. Si registrano in merito le perplessità di Mengaldo, di cui vd. La tradizione del Novecento, Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, pp. 174 sg. 76 Si veda ora, davvero fondamentale, Tiziana De Rogatis, Montale e il 44 vaga e incerta quanto si vuole e si deve, come no, ci sta pure Dante, per taluni l’archimandrita, poeta nella Commedia della carne che si fa spirito, della materia che si fa simbolo, della storicità che si fa figura e cosí via (precisamente via Singleton e via Auerbach) nonché il Dante delle petrose77 e di altre liriche, insomma un Dante via Eliot. E però un dantismo che sa recuperare il suo opposto, Petrarca. Un caos? Forse non proprio, o meglio, un caosmo da cui si genera una bellezza, cioè la prassi poetica montaliana, cioè qualcosa di ineludibile. Ecco che allora non si può parlare del petrarchismo (a questo punto non piú antipetrarchismo) di Montale senza parlare del suo dantismo. E concludere provvisoriamente che nella lirica di Montale abbiamo sostanzialmente un dantismo delle parole e un petrarchismo degli emblemi.78 Gli oggetti, cioè, sono linguisticamente classicismo moderno, cit. Si sa anche di un Montale irritato dall'accostamento, operato da alcuni recensori, della sua prima poesia a quella di Valéry, come si desume da lettere a Linati e a Solmi: cfr. E. Montale, Caro Maestro e Amico. Carteggio con Valery Larbaud (1926-1937), a cura di Marco Sonzogni, Milano, Archinto, 2003, p. 37 n. 7; vd. anche Stefano Verdino, Storia delle riviste genovesi da Morasso a Pound (1892-1945), Genova, La Quercia Edizioni, 1993, p. 74 n. 42. In una lettera a Irma Brandeis del 10 gennaio 1934 Montale dichiara: «I'm not very fond of P. Valéry» (E. M., Lettere a Clizia, a cura di Rosanna Bettarini, Gloria Manghetti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2006, p. 49). Per l'influenza di Valéry sulla lirica Stanze, vd. Martelli, Le glosse dello scoliasta, cit., pp. 27-42. Sempre dell'ottima De Rogatis si veda poi «Personae separatae» di Eugenio Montale: l'ambivalenza dell'incarnazione, «Per leggere», IV, 2004, 7, pp. 53-89. 77 Vd. il saggio di Claudio Scarpati Tra lo Stilnovo e le «petrose» in Id., Sulla cultura di Montale, Milano, Vita e Pensiero, 1997, soprattutto pp. 50-53. 78 È stato il Bonfiglioli a suggerire la compresenza in Montale di un plurilinguismo con un monostilismo, da cui deriva un «petrarchismo contraddittorio»: cit. in Mengaldo, Da D'Annunzio a Montale, cit., pp. 113-114 n. 164. Vd. Pietro Bonfiglioli, Pascoli e Montale, in Studi per il centenario della nascita di Giovanni Pascoli pubblicati nel cinquantenario della morte, I, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962, pp. 219-243: 235-36. 45 definiti, concreti e pascolianamente e antileopardianamente individuati (agave erbaspada girasole piuttosto che rose viole ecc.),79 ma si trasformano nuovamente in emblemi assoluti e metafisici, dopo il bagno nella screziatura linguistica, nel correlativo lessicale della «bellezza cangiante» hopkinsiana. Individuazione e poi subito nuova astrazione simbolica. Un pluralismo che scivola (vapora?) nel monismo metempirico (pure popolato di fallimenti). Uno scandaglio plurilinguistico nel non-io differenziato per procedere simultaneamente su un asse verticale di essenze. La perlustrazione di un reale irto con la certezza che nulla è reale (e che comunque ogni prodigio del piú in là abortisce costituzionalmente). Montale insomma sta con la lingua di Dante e con l’astrazione di Petrarca. Con la lingua del poeta che discorre dalla merda alla rosa e con l’astrazione del poeta che simultaneizza il ghiaccio e la rosa.80 Due tecniche apparentemente opposte, in realtà maneggiabili su piani diversi 79 O meglio, quercia, ginepro, barbagianni piuttosto che albero, siepe, augello, come scrive Montale stesso nel 1949: vd. SM I, p. 870. Altro cumulo che disconnette il petrarchismo “puro”: «rospo fiore erba scoglio - / quercia» (in Hai dato il mio nome a un albero? Non è poco, secondo pezzo dei Madrigali privati della Bufera). È la Volpe, antipetrarchista, che nominando crea, e l'erba petrarchesca convive con lo scoglio manierista e il rospo barocco. 80 «I' vidi 'l ghiaccio e lí stesso la rosa», Triumphus Temporis 49 (cito dall'edizione, a cura di Carlo Calcaterra, che uscí nel 1923 per la UTET). Il Petrarca piú “metafisico” è certo quello degli ultimi Trionfi, del tempo e dell'eternità, dove la figuratività emblematica si prosciuga fino a una poesia di concetti che può far quasi pensare a Eliot («Il Paradiso di Petrarca assomiglia a una landa desolata che neppure il finale trionfo delle anime beate riesce a restituire alla vita», scrive suggestivamente Marco Santagata nell'introduzione a F. P., Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di Vinicio Pacca e Laura Paolino, Milano, Mondadori, 1996, pp. L-LI). Anche il Calcaterra rivalutava gli ultimi canti trionfali del Petrarca, se pure in chiave di «alto lirismo» (introduz. all'ediz. cit., p. LVIII). Si può dire cosí che pure il Petrarca percepisse «il pensiero con la stessa immediatezza del profumo di una rosa»? (espressione di Eliot, nel celebre saggio del '21 sui metafisici inglesi del Seicento: vd. T.S. 46 entrambe. In questo davvero c’è poesia metafisica, quella storica del pensiero sensuoso, della sensualità ragionata. Di un petrarchismo che tradisce il modello rivolgendosi all’empiria, anche a quella piú umile e grottesca (la famosa pulce di Donne),81 per riassumerla poi subito in un universo di trasfigurazione e simbolizzazione. È qui la nascita del moderno? Fra manierismo e barocco? Parte da qui la grande vicenda di un nuovo sublime e di un realismo metafisico che arriva a Foscolo, a Baudelaire, a Eliot, a Montale?82 Vien voglia di rispondere di sí. Un moderno che si fonda su una eresia del petrarchismo e che però torna a Petrarca, cioè all’astrazione e all’estetizzazione inestricabili, dopo aver spalancato le porte alla realtà e all’esperienza.83 Infine. Se volessimo ripescare la comoda ma perigliosa dicotomia petrarchismo/dantismo applicata al duo Saba/Montale nel Novecento (Montale stesso parla di una Eliot, Opere, 1904-1939, cit., p. 577). Certo è che passi eliotiani, ad es. dai supremi Four Quartets, possono essere genealogicamente collocati nel solco del Triumphus Eternitatis del Petrarca. Una tradizione di poesia di pensiero sul tempo che conosce ovviamente occasioni barocche; citiamo ad es. Quevedo, son. ¡Fue sueño ayer; mañana sera tierra!, vv. 9-10. 81 Piú volte evocata, anche ironicamente, da Montale: vd. ad es. OV pp. 634, 695, 701. 82 Imprescindibili le notazioni di Luigi Blasucci in Gli oggetti di Montale, Bologna, il Mulino, 2002, p. 59. 83 D'altronde la storia del classicismo europeo è una vicenda di petrarchismo (o petrarchismi), fino all'Ottocento, di un petrarchismo che rimane basico anche quando sembra negarsi, come abbiamo indicato all'inizio di questo capitolo. Nel codice petrarchesco volgare, in sostanza, ci sono già le falsarighe per tutte le deviazioni possibili, non ultima quella della «sottile evoluzione raziocinativa (the argumentative, subtle evolution) della lirica», come indicava il Grierson per la poesia metafisica, riportato da Mario Praz, John Donne e la poesia del suo tempo, cit., p. 224 (vd. H. J. Grierson, Metaphysical Lyrics and Poems of the Seventeenth Century, Oxford, Clarendon Press, 1921, p. XV: tutti testi ben presenti a Montale, insieme col fondamentale Secentismo e marinismo in Inghilterra, Firenze, Edizioni della Voce, 1925, sempre del Praz). 47 poesia moderna “facile” vs “metafisica”, distinzione peraltro da non irrigidire),84 sarà interessante andare a scompigliarla magari rilevando in Arsenio una memoria complessa, puntuale e figurativa, della poesia di Trieste e una donna dal titolo L’ora nostra, dove si descrive «l’ora che precede il crepuscolo» con un «altissimo tono», una tensione ed elevazione graditissime a Eugenio in veste di recensore.85 Proprio nel cruciale saggio montaliano del giugno 1926, vengono espressamente citati alcuni versi di L’ora nostra che conviene parzialmente riportare: «tutto appare / fermo nell’atto, tutto questo andare / ha una parvenza d’immobilità».86 È evidente quanto questi accenti siano vicini al Montale di Arsenio (22-23: «immoto andare, oh troppo noto / delirio, Arsenio, d’immobilità…»). Sul piano figurativo anche altre coincidenze, se pur piú vaghe, si possono rinvenire: si pensi a immagini sabiane come «e si vede / la gente mareggiare nelle strade»; «l’ora che la mia vita in piena va / come un fiume al suo mare»; «il lesto camminare della folla». Certo, questi esiti descrittivi del «classicismo ingenuo» sabiano (è espressione ancora di Montale) sono lontani dalla convulsa grondante grandiosità apocalittica di Arsenio. Ma Montale cerca nel solo apparentemente facile triestino proprio quell’«altissimo tono» che sembri smentire ogni ipotesi di musa pedestre o meramente nativa. Cerca un po’ di Montale in Saba,87e talora lo trova persino nelle Canzonette, in versi (che riporta) come: «…l’azzurro del cielo / caldo 84 Vd. SM I, p. 118. SM I, p. 120. 86 Si veda la lirica in Umberto Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, introduz. di Mario Lavagetto, Milano, Mondadori, 1994, p. 103. 87 E Saba se ne era accorto, lamentandosene con Giacomo Debenedetti («non fare come il buon Montale il quale ha parlato di tutto… fuori che dell'autore del quale stava parlando») e con Montale stesso, il quale scrive a Svevo: «Ho pubblicato […] sette colonne di lodi a Saba e ho ricevuto dal poeta una lettera molto molto piquée, in cui afferma che non ho parlato affatto di lui ma 85 48 pomeridiano; // un falco, ormai lontano…».88 Sarà allora da perlustrare89 il quadro dei possibili prestiti sabiani in Montale, particolarmente negli Ossi, magari anche soltanto fonici, sull’onda di una medesima elazione classicista. Ad es. «Come d’un balzo arrovesciata preda» (Il fanciullo) > «Arremba su la strinata proda»? di me stesso (!!!)» (Lettere di Umberto Saba a Eugenio Montale con una nota di Maria Antonietta Grignani, «Autografo», I, 1984, 3, pp. 57-73: 70). La lettera in questione di Saba a Montale è pubblicata in La crisi di una generazione nel carteggio di Saba (1925-1926). Lettere inedite a Montale, Debenedetti, Prezzolini, Ojetti, a cura di Aglaia Paoletti, «Nuova Antologia», 126, 1991, 4, pp. 394-451: 429-430. Vd. anche Caro Maestro e Amico, cit., pp. 68-69 n. 23; Roberto Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso. Note senza testo. Lettere editoriali. Lettere a Montale, Milano, Adelphi, 1984, p. 371; Chiara Maraschio, Lo scrittore e il suo critico. Italo Svevo ed Eugenio Montale, «Filologia antica e moderna», XIV, 2004, pp. 137-57: 143 sgg. 88 SM I, p. 124: Saba, Tutte le poesie, cit., p. 238. Per il rapporto MontaleSaba mi limito a citare Lanfranco Caretti, Il Saba di Montale, in Id., Montale, e altri, Napoli, Morano, 1987 (saggio del '78); Alessandra Galletto, La “nuova cosa” di Saba e il “miracolo” di Montale, «Il Cristallo», I, 1995, pp. 61-68. 89 Sul paradigma delle storiche suggestioni offerte da Lonardi, Il Vecchio e il Giovane, cit. 49 Postilla al lume dei capelli Prendiamo avvio da un verso, di quelli memorabili, di Du Bellay, Olive, son. 71, ouverture: Le crespe honneur de cet or blondissant… La chevelure petrarchesca si è rappresa in un oro puro. Gli è che «la topique du portrait atteint ses limites puisque l'usage métaphorique s'impose comme un absolu. Du Bellay renchérit sur le modèle, ce qui est le propre du manierisme. Le sonnet en acquiert de la grandeur, je ne sais quel pouvoir oraculaire, un dire mallarméen qui place le corps féminin dans une allure préservé».90 Qualcosa di analogo rilevava Luigi Baldacci a proposito delle liriche di Berardino Rota: «Di questa base petrarchistica il Rota svilupperà infatti i dati espressivi piú chiusi nei termini della metafora e le metafore acquisteranno in lui valore di cifra. Linguaggio imaginifico dunque e al tempo stesso congelato in simboli che hanno perduto ogni apparenza propria per assumere un significato quasi astratto. Per questa disposizione le chiome d'oro diventeranno, in una rapida traduzione, oro semplicemente; il ruscello non sarà piú liquido cristallo con ancora una preoccupazione di didascalia, ma senz'altro cristallo, e l'acqua sarà onda: cosí vedremo nel madr. Celeste donna l'oro immerso nel cristallo e spiegato al sole».91 Tuttavia 90 André Gendre, La Pléiade entre Bembo et l'Arioste, «Italique», VI, 2003, pp. 10-36: 24. 91 Lirici del Cinquecento, a cura di Luigi Baldacci, Milano, Longanesi, 1984 (prima ediz. 1975), p. 515. 50 la rarefazione, anzi congelamento, del sistema metaforico in cifratura astrattissima è elemento “eterodosso” già incluso preziosamente nel modello, che genera in sé la deviazione da sé medesimo, come sempre. Il modello è Petrarca, ovviamente: si pensa a versi come «Candido leggiadretto et caro guanto / che copria netto avorio et fresche rose» (Rvf 199, 9-10), o all'allegorizzazione celeberrima di Rvf 325: «Muri eran d'alabastro, e 'l tetto d'oro, / d'avorio uscio, et fenestre di zaffiro» (16-17), o ancora: «tessendo un cerchio a l'oro terso e crespo» (160, 14). Pochi esempi, ma chiari a illuminare e ribadire che l'effort manieristico si dà volontariamente voluttuosamente (di una voluttà disperata, piú o meno) su cellule del paradigma, quei Fragmenta che contengono l'ordine e il principio del disordine, o meglio la sobrietà e il sintomo dell'ebbrezza, la limpidezza e la seduzione complessa, la marmoreità e l'incrostazione. Ma forse l'esempio che adduceva Baldacci non è dei piú perfetti, in questo sentiero di assolutizzazione del linguaggio metaforico che aspirerebbe a una non referenzialità diciamo per comodità mallarmeana.92 Ecco il madrigale rotiano: Celeste donna in bel sembiante humano, A riva d'un ruscel puro e lucente, Bagnava l'oro e lo spiegava al sole: Invitommi al cristallo, e con la mano Spargendo l'onda m'arse dolcemente E m'ancise di morte che non dole, 92 Un esempio piú calzante potrebbe essere invece il madrigale di Cesare Rinaldi Con le tue bianche perle, e coi vermigli che apre la stampa ferrarese del 1588 di Madrigali del bolognese: vd. Salvatore Ritrovato, «Per te non di te canto». I madrigali di Cesare Rinaldi, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2005, p. 37: «Prive di identità referenziale, le immagini diventano cifre emblematiche dell'universo erotico». 51 E disse: «Se nol sai, queste son l'acque In cui Venere bella al mondo nacque».93 «Si tratta della trasfigurazione mitologica di un atto quotidiano», annota l'ottimo editore moderno. E infatti siamo qui difronte a uno dei numerosi esempi di quell'elaborazione mitizzante ed estetizzante di un dato empirico, di quella sublimazione nuova per stile e per complicazione figurativa, metaforica, emblematica, mitica, talora metafisica, di eventi non sublimi in sé, anzi, talora quasi prosaici. La conosciamo, questa fenomenologia squisitamente “manierista”, secondo-cinquecentesca, che si salda poi alla fioritura barocca, fondando in parte il moderno in poesia. Un moderno che rinuncia all'apriori del linguaggio tradizionale petrarchesco e petrarchista (erbe ombre antri onde acque pietra inindividuate) per ritrovare gli assoluti e l'assoluta bellezza solo dopo una apertura alle cose, all'empiria, anche alle vicende piú compromesse con la quotidianità e il reale. Quindi un moderno che trova bellezza metafisica solo in un aposteriori, facendo vibrare nel reale una dinamica ascensionale sublimante non rinunciando però a guardarlo, quel reale, anche trito, e a farlo fruttare poeticamente. Ecco che il madrigale del Rota racconta, cioè osserva e riporta qualcosa di umilmente empirico e individuo, per fare di questo racconto simultaneamente un canto (per quanto con tutte le componenti epigrammatiche del caso). La donna bagna i suoi capelli nel fiume, poi li asciuga al sole; quindi invita il poeta ad avvicinarsi alle acque, anzi, giocosamente lo spruzza con la mano, bruciandolo come da topos ben assestato tradizionalmente (e carissimo al Rota). Infine gli dice: quest'acqua che scorre e con cui ti ho bagnato, quest'acqua di un fiume in cui ho lavato i miei 93 Berardino Rota, Rime, a cura di Luca Milite, Parma, Guanda (Fondazione Pietro Bembo), 2000, pp. 151-152. 52 capelli, questo grumo di realtà semplice, insomma, è invero un paesaggio divino, è acqua feconda di mito, l'acqua in cui è nata Venere. Venere nasce in un momento dove il mito sembra antipodico, dove la bellezza sublime sembra non trovare un habitat. E invece no, in quel fattarello persino leggero e umoroso si insedia un messaggio d'amore ossimorico-petrarchesco, si produce una mitogenesi, si dischiude una imperiosa culta bellezza. Allora ecco che l'asintoto mallarmeano è come risucchiato dal realismo sublimato, che segna la genealogia di una grande linea poetica, quella, se vogliamo denominarla, della poesia fisico-metafisica, di un nuovo sublime, di un realismo metafisico, di una mitopoiesi moderna, di un petrarchismo metafisico, anzi. Ove per metafisico si intenda non già un apriori del linguaggio che prescinde dalle cose perché ne è sempre precedente e alieno, bensí un linguaggio che è frutto dell'incontro con la realtà da cui trarre semi di ideale bellezza e significato. Non archetipi, ma cose, che generano in sé la trasfigurazione che non le nega ma le esalta in una capacità epifanica. D'altra parte la congestione metaforica, di cui parlava suggestivamente Baldacci, stemperata come dicevamo noi dall'”occasione” che la precede e la determina, può inverarsi in luoghi esemplari del manierismo lirico ancor piú conglomeranti. Non riesco a non pensare a una mia ossessione (già evocata fuggevolmente al cap. precedente), quella canzone sul salasso di madonna scritta dal grande Giambattista Pigna, nel Ben divino, dove leggiamo versi quali: Da leggiadretto avorio e terso e vago, Ch'alabastro sostien, ne la cui cima Dolce concento spira, E dolce lume gira, Che i cori arde e sublima 53 Con rai, perle e rubin (celeste imago!), Scende (chi ne sospira?) Quasi d'ebano un fil vivo lucente. Davvero in questi versi il lettore, se non fosse minuziosamente avvertito dalla rubrica, stenterebbe a riconoscere autonomamente la descrizione del piede d'avorio di madonna, che sostiene tutto il corpo alabastrino fino al volto ed è attraversato da una vena sottile colore dell'ebano, che presto il flebotomo andrà ad incidere per il salasso! Stesso rilievo quello che compie l'interprete del son. di Du Bellay evocato in apertura: «un lecteur non averti, tombant par hasard sur ces vers, n'en comprendrait pas le sens».94 C'è però una differenza non da poco. Il sonetto del francese, elenco supremo di bellezze tutte espresse da metaforizzanti senza i metaforizzati, è estraneo all'operazione fisico-metafisica che cerchiamo di mettere in luce. È invece interno alla purificazione emblematica, all'apriori del linguaggio poetico che si genera dal Petrarca “ortodosso”, quindi è esempio di petrarchismo puro, che per comodità nomenclatoria distinguiamo dal petrarchismo metafisico (o neosublime, o realismo mitizzante ecc. ecc.). Il petrarchismo puro e quello realistico-metafisico (entrambi petrarchismi perché entrambi solidamente o per barlumi presenti nel modello) non definiscono necessariamente un poeta o l'altro, anche se ne possono indicare la preferenza ideologica e quindi lo stile piú individuale. Definiscono invece due funzioni poetiche, quindi trasversali, di lunghissima durata, insomma. Quel che ci preme sottolineare è che il realismo metafisico in poesia ci sembra segnare una grande discontinuità e quindi essere una delle novità caratterizzanti il moderno. Ed è il manierismo, col suo sviluppo pieno nel barocco, la culla genealogica di questo modo poetico, pronto a scendere fino a nuovi corifei a noi piú prossimi come 94 54 Gendre, La Pléiade…, cit., p. 24 Baudelaire, Rilke, Eliot, Montale. Una novità che nasce dentro la tradizione, come vuole d'altronde la migliore e piú funzionale descrizione del manierismo lirico: inquietudine interna al labirinto, modificazione del sistema dall'interno, appunto.95 E il labirinto-sistema è Petrarca. Due funzioni, insomma, ove finora l'esempio francese può rappresentare uno smagliante campione della poesia pura in direzione mallarmeana, i due esempi italiani possono invece valere da luoghi tipici della poesia sublimante, mitizzante, infine metafisica. Una giusta volontà di documentazione mi trarrebbe a moltiplicare le esemplificazioni in area italiana ed europea. In altre occasioni è stato fatto; ora preferirei limitare l'utile, non idiota erudizione e isolare soltanto pochi excerpta da caricare ermeneuticamente (non sovrinterpretare, mi auguro). Scendiamo cronologicamente alle foci barocche, di cui il Rota iuxta Baldacci poteva essere uno dei tanti prodromi. Un celebre sonetto di Quevedo si apre ancora sull'oro crespo dei capelli della donna amata: En crespa tempestad del oro undoso Nada golfos96 de luz ardiente y pura 95 Implicito il rimando ad Amedeo Quondam, La parola nel labirinto, Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Laterza, 1975. 96 L'uso metaforico del termine golfo nella tradizione lirica, che io sappia, non è troppo frequente; mi soccorre un rimando a Orlando furioso VII, 27, 5-6: «Or sino agli occhi ben nuota nel golfo / de le delizie e de le cose belle», relativamente ad Astolfo che affoga nel desiderio per Alcina. Naturalmente il Marino del sonetto Onde dorate, sulla donna che si pettina, imitando-plagiando Lope de Vega (Por las ondas del mar de unos cabellos) non si lascia perdere l'occasione di evocare un «ricco naufragio» in cui è «di diamante lo scoglio, e 'l golfo d'oro» (Giambattista Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1913, p. 78): vd. Maurice Molho, Semantica e poetica. Góngora, Quevedo [1977], Bologna, il Mulino, 1991, p. 190 e tutto il capitolo nono, La chioma di Lisi: «En crespa tempestad del oro undoso», pp. 187-232. Importante, sul motivo della chioma in area iberica, anche il saggio di Maria Grazia Profeti in Ead., Quevedo: la scrittura e il corpo, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 65-102. 55 Mi corazón, sediento de hermosura, Si el cabello deslazas generoso. Leandro, en mar de fuego proceloso, Su amor ostenta, su vivir apura; Ícaro, en senda de oro mal segura, Arde sus alas por morir glorioso. Con pretensión de fénix, encendidas Sus esperanzas, que difuntas lloro, Intenta que su muerte engendre vidas. Avaro y rico y pobre, en el tesoro El castigo y la hambre imita a Midas, Tántalo en fugitiva fuente de oro.97 La rubrica spiega: «Affetti vari del suo cuore, fluttuando nelle onde dei capelli di Lisi». Mi sia permesso offrire una traduzione: In crespa tempestà dell'oro ondoso Nuota golfi di luce ardente e pura Il cuore mio, assetando di bellezza, Se il capello dislacci generoso. Leandro, in mar di foco procelloso, Suo amore ostenta, suo vivere sgombra; Icaro, in aureo sentiero malsicuro, arde sue ali per morir glorioso. Con pretesa di Fenice combuste Sue speranze, che defunte piango, S'ingegna che sua morte acquisti vite. 97 Francisco De Quevedo, Obra poética, a cura di José Manuel Blecua, I, Madrid, Castalia, 1969, pp. 644-645 (n. 449). 56 Avaro e ricco e spoglio nel tesoro Il castigo e la fame imita a Mida, Tantalo in fuggitiva fonte d'oro. La celebrazione del crine crespo e dorato, procedente dalla fissazione del campione petrarchesco attraverso tutte le piú autorizzate replicazioni petrarchiste, da Bembo (Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura) a Du Bellay (cfr. supra) a Tasso (Su l'ampia fronte il crespo oro lucente) fino appunto a questo Quevedo, è una storia infinita nella lirica occidentale. Nella prima quartina del sonetto appena proposto, però, accade qualcosa di nuovo. Agglomerando le metafore in catena, si assiste all'astrazione splendida di un nuoto in golfi tempestosi d'oro liquido, luce acquatica, in un regime di assolutizzazione dei tropi che conduce nella stessa direzione del verso di Du Bellay, cioè nella direzione che porta a Mallarmé, quella di un azzeramento referenziale e di una esaltazione della preziosità delle idee e dei segni che prescindono dal reale. Le parole non sono ancelle delle res, sono emblemi perennemente metaforici ma non piú metaforici di alcunché, se non significanti la propria stessa bellezza araldica, o meglio espressivi di una condizione metempirica abbacinata della poesia. Le parole, accecate, preziose, sono strumento dell'hyperbole mallarmeana (Prose pour Des Esseintes v. 1). Ma, ed è un ma enorme, il quarto verso del sonetto di Quevedo modifica sostanzialmente quanto detto finora. Si el cabello deslazas generoso. Il golfo d'oro è ancorato a un evento radicalmente terrestre e concreto. La donna, Lisi, sta sciogliendo la propria chioma. È poco (intendiamo poco rispetto a maggiori definizioni di racconto, come in Rota o in Pigna o in molti altri che per ora non citiamo), è un verso soltanto, ma è sufficiente per collocare i precedenti e seguenti versi del sonetto in una casella che non è quella 57 di Du Bellay, di Mallarmé e del petrarchismo puro. Siamo infatti difronte a una poesia di realismo metafisico, di petrarchismo fisico-metafisico, siamo insomma al cospetto della elaborazione ipertrofica, sublimante e poi mitizzante, di un semplice gesto individuo: lo slacciare i capelli. Non si pensi che si voglia qui cavillare: un dettaglio può essere un sisma, e soprattutto può ingannare. Quevedo in questo caso indica chiaramente, col verso 4 e con la rubrica, che sta facendo poesia di paradisiaca bellezza e di concrescenza mitologica su un semplice evento occasionale: el cabello deslazas generoso. Un altro poeta come Góngora, ad esempio, in un sonetto del 1607, opera in modo piú tradizionale, esplicitando da subito l'occasione concreta (la donna si pettina) e allargandone l'implicazione da umile evento quotidiano a fatto che riguarda la Spagna, l'Oriente e l'Occidente, l'Oceano da attraversare: A Doña Brianda De La Cerda Al Sol peinaba Clori sus cabellos Con peine de marfil, con mano bella; Mas no se parecía el peine en ella Como se obscurecía el Sol en ellos. Cogió sus lazos de oro, y al cogellos, Segunda mayor luz descubrió, aquella Delante quien el Sol es una estrella, Y esfera España de sus rayos bellos. Divinos ojos, que en su dulce Oriente Dan luz al mundo, quitan luz al cielo, Y espera idolatrallos Occidente. Esto Amor solicita con su vuelo, 58 Que en tanto mar será un arpón luciente De la Cerda inmortal mortal anzuelo. Clori al Sol pettinava i suoi capelli Con pettine d'avorio e mano bella: Non vi splendeva piú il pettine in ella Di quanto si oscurava il Sole in loro. Raccolse i lacci d'oro, ed al raccôrli Seconda maggior luce scoprí, quella Dinnanzi a cui il Sole è una stella, E sfera Spagna dei suoi raggi belli. Divini occhi: nel loro dolce Oriente Dan luce al mondo, levan luce al cielo, E spera idolatrarli l'Occidente. Questo Amore reclama col suo volo: che in tanto mar sarà arpione lucente della Cerda98 immortale amo mortale. 98 In lingua spagnola cerda vale per 'crine', da cui il gioco non traducibile. Citiamo da Luis De Góngora, I sonetti, a cura di Giulia Poggi, Roma, Salerno ed., 1997, pp. 222-224. L'altro sonetto gongorino quasi gemello, Peinaba al sol Belisa sus cabellos (ivi p. 234), presenta la prima quartina pressoché identica e la seconda ricca di invenzioni metaforiche e ossimoriche che sublimano il dato di attesa che la donna riannodi i capelli sciolti: « En cuanto, pues, estuvo sin cogellos, / el cristal sólo, cuyo margen huella, / bebía de una y otra dulce estrella / en tinieblas de oro rayos bellos». Anche qui, prima l'informazione microepisodica ('Finché poi rimase senza raccogliere i capelli'), poi l'escussione dei tropi assoluti, oscuri ma decifrabili, fra cui supreme le 'tenebre d'oro' causate dai capelli che oscurano parzialmente gli occhi-stelle. Quanto al 'cristallo', Giulia Poggi annota: «lo specchio o, vista l'ambientazione pastorale del sonetto, un ruscello sui cui bordi si situa la donna cantata» (p. 235). 59 La dedicataria era in procinto di partire per il Messico, all'estremo Occidente, da cui questo incredibile slargamento marino, amoroso-geografico, un vero e proprio volo cui probabilmente si ispirerà il Mallarmé della Chevelure, su cui vedi infra. Con l'esempio quevediano verifichiamo come una sottile accentuazione evenemenziale (si el cabello…) conferisca un senso preciso, di realtà metafisica, al prodotto poetico, anche se la notazione determinante è piccola, come piccolo è quel si dal valore temporale. L'elaborazione di elementi di realtà piú umili e quasi grotteschi, assolutamente e prosaicamente moderni, è fenomeno frequente nella poesia tra Cinque e Seicento, come si sa, e costituisce per noi una delle connotazioni piú qualificanti del manierismo lirico. Scendiamo allora a una chioma assai piú imbarazzante con un sonetto di Shakespeare, il n. 68: Thus is his cheek the map of days outworn, When beauty lived and died as flowers do now, Before these bastard signs of fair were born, Or durst inhabit on a living brow; Before the golden tresses of the dead, The right of sepulchres, were shorn away, To live a second life on second head, Ere beauty's dead fleece made another gay. In him those holy antique hours are seen Without all ornament, itself and true, Making no summer of another's green, Robbing no old to dress his beauty new; And him as for a map doth Nature store, To show false Art what beauty was of yore.99 99 William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Milano, Rizzoli, 1991, p. 68. Per l'analogo spunto tematico, l'ottimo commentatore rimanda anche a Mercante di Venezia III, ii, 92-96. 60 Ne offriamo la celebre traduzione di Ungaretti:100 La sua guancia mappa delinea dei giorni d'una volta Quando bellezza aveva l'alba e morte, uso dei fiori, Quando non nati ancora, segni bastardi d'attrazione Non ardivano farsi seggio su una fronte vivente, Quando le trecce d'oro della morte, Diritto dei sepolcri, non erano recise né asportate Perché un'altra vita godessero su una seconda testa, Quando il vello della bellezza, morto non rallegrava: In lui vedrete ancora quelle ore antiche e sante Prive d'ogni ornamento, quando bellezza era se stessa e vera E non conseguiva l'estate togliendo il verde altrui E non rubava per rifarsi nuova, il decaduto; Va conservando lui Natura come opportuna mappa Per segnalare alla falsa Arte, la bellezza d'un tempo. In relazione al topos della parrucca fatta con capelli di cadavere, Ungaretti coglieva acutamente la natura moderno-metafisica della poesia manierista: «A quali effetti d'arte, poi, potesse concorrere un accorto sfruttamento d'un fatto d'attualità, ora il fatto dell'uso invalso di portare parrucche di capelli rossi, recidendoli ai cadaveri, perché erano del colore di quelli della Regina - con invidia, chi si diletti di espressioni atroci vedrebbe in uno dei Sonetti, il Sonetto LXVIII, dove l'autore raggiunge, collegando di malumore il tema dell'invecchiamento a quello della naturalezza, un'originalità avvicinata nelle opere plastiche da un Rembrandt e da un Goya e anche, nei giorni recenti, dal nostro Scipione. Sono elementi gotici che vengono a contaminare e a rende100 Giuseppe Ungaretti, 40 sonetti di Shakespeare, Milano, Mondadori, 1946 (rist. 1998), p. 79; il pezzo era già presente nell'edizione di 22 sonetti: Roma, Documento, 1944 61 re acre l'ispirazione di Petrarchismo rinascimentale, sono particolari, tratti, per investirli di valore morale, dall'osservazione minuta della realtà oggettiva».101 L'allusione agli «elementi gotici» può far pensare alla proposta storiografico-letteraria che sarà di Weise,102 ovvero di una continuità di tardogotico “cortigiano” quattrocentesco e di manierismo cinquecentesco. Mi è capitato altrove103 di sostenere che la novità secondocinquecentesca, nella ripresa di topiche già anche cortigiane pre-bembiane, è soprattutto nell'operazione di sublimazione, nell'elazione stilistica, nel fare di un piccolo evento materiale un'occasione di mitopoiesi e canto supremo (oltre che nell'effettivo allargamento, poi barocco, del materiale inventivo). Fatto stilistico, certo, ma perciò ideologico-poetico, fatto di forma che è contenuto di pensiero e orgoglio di discontinuità storica, giacché lo stile sono gli uomini, sia detto una volta per tutte. E questi uomini, contemporanei di Shakespeare, piú o meno, immergono le braccia nel materiale talora sconcertante della «realtà oggettiva», per intriderlo di «valore morale», come si esprime nitidamente Ungaretti (poeta “puro” ma con sensibilità vibratile). Poeti che cavano moralità da quanto di piú modesto e parvificante offra il reale, cavano bellezza da una caduta o uno svenimento della donna amata, cavano metafisica, diremmo noi, da una farfalla o una pulce. O da una chioma di morti che i vivi si pongono in capo, ornamento immorale di macabra innaturalezza, «chimico splendore» e «falso oro», come ribadirà un riecheggiatore del locus, Giovan Leone 101 Significato dei sonetti di Shakespeare [1946-1962], in Vita d'un uomo. Saggi e interventi, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, 1974, pp. 551-570: 551, 558. 102 Georg Weise, Manierismo e letteratura, Firenze, Olschki, 1976. 103 Giú verso l'alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, pp. 141-43, 185 sgg., p. 200. 62 Sempronio.104 Un posticciato moderno e sepolcrale cui contrapporre la vera chioma, fremente, vivente, pronta a slacciarsi generosa. Una chioma comunque reale, per quanto di reale può offrire la letteratura, e non solamente una chioma emblema, astratto-aprioristica, puramente araldica in seno a un linguaggio che preceda e disdegni ogni chioma empirica, morta o viva che sia. Insomma, nonostante tutto che di ideale in senso platonico ci sia nella bellezza del fair youth, tuttavia il sonetto di Shakespeare si costruisce su un pretesto di attualità e si àncora a una verità “moderna”. È per questo che potremmo commentare l'opposta dinamica di petrarchismo puro e realismo metafisico attingendo per entrambe alla teorizzazione di un Federico Zuccari, relativa all'arte, con l'ausilio classico di Panofsky (Idea, capitolo sul Manierismo). Leggiamo un brano dall'Idea de' pittori, scultori ed architetti e sostituiamo mentalmente la «mattematica» con il modo della purezza aprioristica: Ma dico bene, e so che dico il vero, che l'arte della pittura non piglia i suoi principî, né ha necessità alcuna di ricorrere alle mattematiche scienze, ad imparare regole e modi alcuni per l'arte sua, né anco per poterne ragionare in speculazione; però non è di lei figliuola, ma 104 Nel son. Amanti, alcun non fia che mai s'accenda, presente ad es. in Lirici marinisti, a cura di Giovanni Getto, Torino, UTET, 1962, p. 207 (vd. La Selva poetica Sonetti di Gio. Leone Sempronio urbinate, Bologna 1648, p. 105). Si rammenti anche il son. «Per le capelliere posticce» di Giacomo Lubrano (vd. Scintille poetiche, a cura di Marzio Pieri, Ravenna, Longo, 1982, p. 60). Naturalmente dietro a queste occorrenze “modernistiche” fra Cinque e Seicento c'è sempre la memoria di modelli classici, come ad es. l'Ovidio di Amores I, 14, 45, dove il poeta lamenta che la sua donna debba ricorrere a parrucche di capelli di prigioniere germane: «Nunc tibi captivos mittet Germania crines». Su aspetti di “modernità” dell'elegia classica, seducente la lettura di Paul Veyne, La poesia, l'amore, l'occidente. L'elegia erotica romana [1983], Bologna, il Mulino, 1985. 63 bensí della Natura e del Disegno. L'una gli mostra la forma, l'altra gli insegna ad operare. Sicché il pittore, oltre i primi principî ed ammaestramenti avuti da' suoi predecessori, oppure dalla Natura stessa, dal giudizio stesso naturale con buona diligenza ed osservazione del bello e buono diventa valent'uomo senz'altro ajuto o bisogno della mattematica.105 Da una parte l'astrazione della matematica (o della purezza poetica del linguaggio assoluto) che precede e guida il fare artistico, dall'altra la priorità dell'attingere alla Natura, all'esperienza, alla realtà, per costruire la bellezza. Due maniere che sono anche due maniere poetiche, come abbiamo finora esperito. Ma la tradizione estetica in cui si inserisce lo Zuccari, al di là della polemica anti-matematica, è piuttosto quella dell'idea interiore, scintilla divina, che pre-determina e addirittura crea la realtà. «Non la percezione sensibile produce il formarsi delle Idee, bensí il formarsi delle Idee mette in attività (mediante l'immaginazione) la percezione sensibile: i sensi non sono chiamati in aiuto che per chiarire ed animare le rappresentazioni interiori. […] Senza che sia negata la necessità della percezione sensibile vien tuttavia restituito all'Idea il suo carattere aprioristico e metafisico».106 Ed ecco allora che in questa parafrasi panofskyana del pensiero dello Zuccari troviamo una possibile consapevolezza teorica utile per definire l'idealismo petrarchista, il petrarchismo puro (in questo caso metafisico nel senso appunto aprioristico, mentre noi usiamo il termine metafisico nella sua accezione dantesco-eliotiana di precedenza del sensibile sul sovrasensibile, di edificazione poetica del sovrasensibile sul sensibile). E in ambito artistico, per pensare a un modello opposto all'idealismo di tipo neopla105 Erwin Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell'estetica [1924], Scandicci, La Nuova Italia, 19962, p.116 106 Ivi, pp. 54-55: corsivi nel testo. 64 tonico, basti riflettere all'opera primosecentesca di un Caravaggio o di un De La Tour. Ma il rischio qui è notevole, per complessità dei problemi (vanno tenuti distinti terminologicamente e concettualmente, a mio parere, manierismo pittorico e manierismo poetico) e per incompetenza di chi scrive, talché sarà meglio sorvolare.107 Al lume dei capelli femminili, la divaricazione di una poesia di sublimazione del reale da un'altra di astrazione aprioristica e purezza è ben rappresentata, nell'Ottocento europeo, dalle due piú celebri chevelures: quella di Baudelaire e quella di Mallarmé.108 La prima descrive una immersione, fantastica ed evocativa, nell'oceano d'ebano della capigliatura della donna amata: la chioma contiene una pluralità di mondi, è essa stessa una totalità esotica, c'è une hémisphère dans une chevelure, come suona il titolo della XVII prosa dello Spleen de Paris, perfetto doublet della lirica delle Fleurs.109 Ma l'écart del viaggio immaginoso è ancora una volta ancorato alla situazione reale di partenza: Ô toison, moutonnant jusque sur l'encolure! Ô boucles! Ô parfum chargé de nonchaloir! Extase! Pour peupler ce soir l'alcôve obscure Des souvenirs dormant dans cette chevelure, Je la veux agiter dans l'air comme un mouchoir. 107 Sul manierismo pittorico rimando all'intelligenza di Antonio Pinelli, La bella maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, Einaudi, 1993. 108 La dicotomia esemplare fra le poetiche di Baudelaire/Mallarmé, cui far corrispondere la contrapposizione Montale/Ungaretti, è riproposta convincentemente da Stefano Giovanardi, La tentazione metafisica, in Giorgio Bàrberi Squarotti, Niva Lorenzini, S. G., (Im)pure tracce. Caratteri della poesia italiana del Novecento, Milano, Unicopli, 2006, pp. 61-80. 109 Vd. Charles Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di Claude Pichois, I, Paris, Gallimard, 1975, pp. 300, 1321-22. 65 La prima strofa designa un hic et nunc da cui far sgorgare un mondo subiettivo estatico di immaginazioni: ce soir, nella alcôve obscure avverrà l'elevazione, o meglio l'espansione orizzontale oceanica verso un esotismo metafisico, mercé il profumo dei capelli che invitano al viaggio. È dunque nell'oscurità greve aromatica della stanza da letto, in una sera d'amore, che avviene l'evasione verso un paradiso. Baudelaire non smentisce il proprio ruolo di massimo rappresentante della modernità poetica, quella modernità del realismo metafisico che nasceva col manierismo europeo. Tutt'altra maniera di poesia quella che anima la Chevelure mallarmeana, circa trent'anni dopo. Il sonetto apparve incastonato in una prosa poetica, La Déclaration foraine, nel 1887. Con il linguaggio chiuso e smaltato che è proprio dell'autore, vi si intuisce una situazione quasi surreale: il poeta, a passeggio con l'amata Méry Laurent, finisce nel bel mezzo di una chiassosa fiera, dove la donna sale capricciosamente su un tavolo ed esibisce la sua straordinaria bellezza al pubblico in attesa di qualche evento. Ecco che allora il poeta recita una poesia, La chevelure, ottenendo l'applauso degli astanti.110 La chevelure vol d'une flamme à l'extrême Occident de désirs pour la tout déployer Se pose (je dirais mourir un diadème) Vers le front couronné son ancien foyer Mais sans or soupirer que cette vive nue 110 Vd. il testo della lirica e il ricco commento in Stéphane Mallarmé, Poesie, a cura di Luciana Frezza, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 100, 220 sgg. Per la prosa, vd. S. Mallarmé, Opere, a cura di Francesco Piselli, Milano, Lerici, 1963, poi S. Mallarmé, Poesie e prose, a cura di Valeria Ramacciotti, Milano, Garzanti, 1992 (rist. 2005), pp. 220-29, ed ora S.M., Oeuvres complètes, II, a cura di Bertrand Marchal, Paris, Gallimard, 2003, pp. 93-98. La Déclaration apparve nel volume di Divagations del 1897. 66 L'ignition du feu toujours intérieur Originellement la seule continue Dans le joyau de l'œil véridique ou rieur Une nudité de héros tendre diffame Celle qui ne mouvant astre ni feux au doigt Rien qu'à simplifier avec gloire la femme Accomplit par son chef fulgurante l'exploit De semer de rubis111 le doute qu'elle écorche Ainsi qu'une joyeuse et tutélaire torche La chioma La chioma volo d'una fiamma all'ultimo Occidente di desiri per dispiegarla tutta Si posa (io direi morire un diadema) alla fronte coronata suo antico nido Ma senza altr'oro esalare che questa viva nube L'ignizione del fuoco sempre interno Dalle origini la sola ininterrotta Nel gioiello dell'occhio veridico o burlone Una nudità d'eroe tenero diffama Colei che non movendo astro né fuoco al dito Solo a semplificare in gloria la donna Compie col capo suo folgorante l'impresa Di seminar rubini nel dubbio ch'ella escoria Come gioiosa e tutelare torcia 111 Omaggio evidente alla Chevelure di Baudelaire, dove si legge ai vv. 4041: «ma main dans ta crinière lourde / sémera le rubis, le perle et le saphir». 67 L'interpretazione del sonetto (metricamente all'inglese, elisabettiano) è ardua, come ogni volta che si tenti l'esegesi di un poema mallarmeano; certo è che si glorifica qui l'imperiosa e assoluta bellezza femminile attraverso la celebrazione di una chioma che, al modo di quelle classiche (Berenice), compie un volo quasi stellare e ritorna poi a morire e compiersi, diadema feniceo, sulla fronte della donna. «Un evento puramente ideale», come suona un autorevole commento.112 Una superba astrazione di fiammeggiante preziosità, interamente irrelata da qualsiasi dato empirico. Anche inserendo la poesia nel suo contesto originario della Déclaration foraine, non otteniamo nulla di simile al movimento fisico-metafisico della linea poetica alternativa a quella pura. Infatti la prosa pseudo-narrativa è anch'essa una negazione della realtà, una criptica allusione continuata a qualcosa di simbolico prima di essere reale, con un depauperamento anzi di ogni evenemenzialità a favore di una autonomia del linguaggio dai suoi referenti. E comunque la lirica non ha bisogno della macro-rubrica prosastica (che avrebbe bisogno a sua volta di una “rubrica” esegetica per essere intesa), vive in una sua ulteriore autonomia di spettacolare non-evento ideale, congerie di emblemi puri articolati in una sintassi intellettuale che privilegia l'assolutezza estetica rispetto alla definizione umana. Anche il povero héros tendre, neoclassico e impotente alterego del poeta, cerca di cantare quell'universo araldico e folgorante, ma non può che diffamer la perfezione sbalzata in una dimensione inarrivabile. A quale estremo occidente di stupenda disumanità è giunto il petrarchismo puro che nel Canzoniere aveva trovato fondazione! Tuttavia, a conferma del fatto che anche in un poeta tendenzialmente puro come Mallarmé, anzi paradigmaticamente puro, sia dato trovare testimonianze del diverso 112 68 Di Luciana Frezza, nell'ediz. cit. a p. 222. modo di porsi metafisico, osserviamo un altro sonetto, del 1885, Victorieusement fui le suicide beau, dove ricompare il motivo della chioma femminile con il suo carico di greve splendore: Victorieusement fui le suicide beau Tison de gloire, sang par écume, or, tempête ! Ô rire si là-bas une pourpre s'apprête A ne tendre113 royal que mon absent tombeau. Quoi ! de tout cet éclat pas même le lambeau S'attarde, il est minuit, à l'ombre qui nous fête Excepté qu'un trésor présomptueux de tête Verse son caressé nonchaloir sans flambeau, La tienne si toujours le délice ! la tienne Oui seule qui du ciel évanoui retienne Un peu de puéril triomphe en t'en coiffant Avec clarté quand sur les coussins tu la poses Comme un casque guerrier d'impératrice enfant Dont pour te figurer il tomberait des roses. Vittoriosamente fuggito il bel suicidio Brace di gloria, sangue schiuma, oro, tempesta! O rider, se laggiú una porpora s'appresta A pavesar sontuosa sol la mia tomba assente. E che! di tale sfarzo non un lembo Si attarda, è mezzanotte, all'ombra festeggiante Tranne che il presuntuoso tesoro di una testa Versa la sua blandita indolenza senza face, 113 L'ediz. a cura di Luciana Frezza, cit., ha rendre. 69 La tua, cosí per sempre, delizia! sí, la tua Che sola di questo cielo spento trattenga Un po' di puerile trionfo alla capigliatura Con splendore quando sui cuscini tu la posi Come un elmo guerriero d'imperatrice infanta Da cui, per figurarti, crollerebbero rose. Tralasciamo di commentare la prima quartina, con il poeta-sole che fallisce il suicidio e ride sarcastico al pensiero di un addobbo funebre per il suo sepolcro vuoto. Il seguito è topico: di tutto lo splendore del tramonto non è rimasto nulla - siamo alla mezzanotte - se non che la chioma della donna trattiene in sé qualcosa dell'incendio dorato e sanguinoso, qualcosa di quel trionfo ormai spento. Niente di piú abusato dai poeti petrarchisti: il sole muore ma la luminosità dei capelli dell'amata mantiene viva la propria fiamma, fatte salve tutte le variazioni sul tema. Tuttavia quel che ci interessa da vicino è il verso 12, con l'indicazione figurativo-temporale «quand sur les coussins tu la poses», 'quando tu deponi la tua superba testa sui cuscini'. Anche qui l'evocazione di un dato empirico è parca, ma è in linea con quanto dicevamo a proposito di Quevedo («si el cabello deslazas generoso») o di Baudelaire («Pour peupler ce soir l'alcôve obscure» ecc.). Siamo cioè difronte a un gesto che incastona ogni sublimazione metafisica in un hic et nunc, per quanto tutta la congerie analogica ed emblematica del pezzo mallarmeano spinga il lettore a una predisposizione interpretativa sul versante astrattivo, aprioristico. Cosí Victorieusement fui ci appare davvero “barocco” in un duplice aspetto: per il suo tutto pieno di funebre e sardonica pompa, vero addobbo sepolcrale pur fallito, ed anche per il suo scatto, magari solo accennato, che dalla cronaca di un incontro amoroso notturno si innalza alla generazione di un trionfo imperiale della 70 donna. Il cui roseo incarnato, peraltro, è dato dal figurante assoluto delle roses, e qui Mallarmé si insedia piú che mai nel percorso del petrarchismo puro da cui ci siamo mossi. Nulla è sempre semplice e univoco, insomma. Il viaggio della chioma di donna, partito dall'ondeggiamento dei capei d'oro di Laura, arriva anche ai versi del nostro maggiore metafisico, Eugenio Montale. Nel 1926 egli compone la lirica Vento e bandiere, che allogherà nella seconda edizione di Ossi di seppia. Qui è la chioma della funeraria Arletta ad agitarsi nel vento improvviso e salso: La folata che alzò l'amaro aroma del mare alle spirali delle valli, e t'investí, ti scompigliò la chioma, groviglio breve contro il cielo pallido; la raffica che t'incollò la veste e ti modulò rapida a sua imagine, com'è tornata, te lontana, a queste pietre che sporge il monte alla voragine […]. Il terzo verso della prima quartina evoca inconfondibilmente e insieme scompiglia l'arcimodello petrarchesco: «ti scompigliò la chioma». La folata di vento marino, acre, devasta la compostezza dei capelli e addirittura li rende «groviglio», campito sul «cielo pallido» (come lo «sfondo di perla» in cui si incideva il profilo di Esterina). Oltre a questo c'è, alla quartina seguente, l'effetto dinamico, plastico, neoclassico ma in senso nervoso, del “panneggio bagnato”, o meglio ventilato, comunque aderente al corpo femminile: «t'incollò la veste». Un sussulto di corporeità, súbito però smateriato dal verso seguente, dove il vento modella Arletta «a sua imagine», quindi la rivela in quanto animica, pneumatica, aerosa, emblema dello psichico, dell'altro in 71 quanto ulteriore, acheronteo, pallido, morto. Sapientissimo è l'autentico groviglio di fisicità e spiriticità nell'Arletta di questi versi; siamo a una sorta di replicazione dell'esperienza di Chiare fresche e dolci acque, ci troviamo in entrambe le poesie nello stesso luogo dove avvenne l'incontro e che ora testimonia soltanto l'assenza e la distanza. La differenza è però profonda. In Petrarca tutto precede la realtà, tutto è emblema, acque, membra, donna, erba, fiori ecc. Ciò non significa che non ci sia verità soggettiva del sentimento, non parliamo qui di autenticità psicologica. Significa che il linguaggio della poesia è assolutamente ideale e predetermina, come uno stampo, la referenzialità: è l'idea che precede la natura e infine la ignora, non vi cerca neppure verifiche. Durante la poesia, per sospensione istituzionale, il mondo non esiste. Per Montale, al contrario, necessariamente e dolorosamente Il mondo esiste… Non c'è possibilità di sospensione, neppure nella forma dell'iterazione dell'identico: Ahimè, non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani! E scampo n'è: ché, se accada, insieme alla natura la nostra fiaba brucerà in un lampo. Ecco il petrarchismo invertito, il petrarchismo metafisico di Montale. Il poeta non ha piú scampo, non può non partire dal reale, anche quando il reale è solamente una offesa, uno scialo, una datità scabra e irta, disumana. O un ricordo, una alterità, una distanza. Ma è la necessità della poesia: solo nel reale si possono cercare le epifanie. Montale non le trova mai, canta raucamente e perennemente la ricerca di esse e il loro possibile attimale baluginare, cui 72 segue immancabilmente il richiudersi delle porte. L'unica rivelazione piena è sinistra, è l'epifania del nulla e della morte. E Arletta (ma anche le altre donne del poeta, tutte) è sacerdotessa della morte. Nel “petrarchismo” di Finisterre, in Clizia risultano determinanti gli occhi e le chiome, da sempre punti nevralgici della donna morcelée. In particolare è ricorrente il gesto di liberare la fronte dalla capigliatura, movimento angelico ma fortemente attivo: La bufera Come quando ti rivolgesti e con la mano, sgombra la fronte dalla nube dei capelli, 20 mi salutasti - per entrar nel buio. La frangia dei capelli... La frangia dei capelli che ti vela la fronte puerile, tu distrarla con la mano non devi. In questa sezione dell'opera montaliana, come è noto e come Montale stesso ha suggerito, la prossimità con la poesia del Canzoniere dovrebbe essere massima. E certamente anche l'armamentario pseudo-salvifico di giade, coralli, amuleti stellanti (sul «ciuffo»), sete e gemme, sciarpe, gigli ci riportano in qualche modo a incrostate purezze mallarmeane, come nel ciclo degli Éventails. Naturalmente tutto questo non ci sconforta: abbiamo detto che assolutezza poetica e realismo metafisico sono due modi poetici, quindi 73 possono convivere nella produzione di un medesimo autore. D'altronde, e abbiamo detto anche questo, nonostante la prevalenza della verginità emblematizzante, anche nel modello petrarchesco esistono i semi dell'altra maniera di fare poesia, tanto è vero che per identificare l'eresia cinque-secentesca che guarda alle imperfezioni del reale non abbiamo mai fatto uso del termine improprio di anti-petrarchismo, se mai abbiamo parlato di petrarchismo metafisico. Ma anche nel petrarchesco e stilnovistico Montale di Finisterre il sistema è sostanzialmente quello di una elaborazione metafisica del reale.114 Il sistema allegorico impone, dantescamente, una salvezza della lettera e della fisicità rispetto al valore della significazione seconda. La bufera «che sgronda sulle foglie» è una bufera che coglie effettivamente il poeta nella sua solitudine e simultaneamente la donna amata in un interno americano, dall'altra parte dell'oceano, ed è la tempesta che nel 1939 si schianta sull'occidente, l'uragano della guerra e dello sconvolgimento morale. La donna che si libera la fronte dai capelli ed entra nell'oscurità è una donna che pronuncia il suo addio per ritornare alle sue terre in seguito alle leggi razziali. Ma entra nel buio dell'assenza, per il poeta, cioè della morte, reame da cui ritorna con una funzione salvifica corrotta e fallimentare, piú angelicamente volitiva rispetto a una Arletta, piú di lei lampeggiante, ma come lei bagliore di alterità quale imperiosa impotenza. E la sua idealità di Beatrice ferita, o piuttosto di Laura morta ambiguamente trionfale, si incardina in pur remote e talora indeducibili occasioni, e si veste di oggetti che rimandano non da ultimo ai ventagli, ai coralli, ai polipi persino della poesia secentesca.115 114 S'intenda: il reale che la poesia indica come tale, anche allusivamente, a prescindere dai dettagli di un vissuto comunque documentabile. 115 Penso al Marino; si veda qui avanti, il capitolo Io, Esterina. 74 In conclusione provvisoria, può sembrare singolare riconoscere in uno dei tratti significativi della svolta manieristicobarocca proprio una conversione al reale, nella forma del realismo metafisico. L'apparente paradossalità, cioè, si crea pensando alla formulazione vulgata di un'età in cui l'arte accentuerebbe invece l'artificio, l'inverosimile, la fantasia metamorfica, la chimera, insomma. Il «tempo dei sensi fallaci», tuttavia, è sí il tempo delle chimere, «ma si sa che sono chimere», puntualizza magnificamente Foucault in una celebre pagina.116 L'eccesso di forma fluens può giustificarsi in un momento in cui si guarda alla realtà con una curiosità infinitamente piú inclusiva e tollerante, e allora ci si può permettere di cogliere nel reale anche i suoi messaggi di trasmutazione e persino incoerenza. Si spezza cioè la necessità di chiudersi in un linguaggio imitativo perfettamente ideale, come garanzia del sublime, per rinvenire il sublime e il morale e il metafisico nell'ibrida e compromessa molteplicità dell'empirico. Don Chisciotte non ce la fa piú a predeterminare la realtà con le astrazioni letterarie: la sua follia è tutta qui, in una ricerca vana dell'ideale che preceda e conformi il reale. Ormai il processo inverso è quello che trionfa. O almeno quello che si affaccia prepotentemente sulla scena artistica. Una nuova maniera. Nella quale inserire esiti novecenteschi (di un secolo cioè oltremodo palinsestico) come quelli montaliani. In una scia secolare di rinnovato rapporto con la realtà, con le cicatrici, le difformità e le bizzarrie della natura: processo di fondazione manieristico-barocca, processo qualificante la modernità, come sarà un Benjamin a rivelare nel furore esegetico della sua dissertazione sul dramma barocco che nel 1925 si scontrava con l'ignoranza dell'accademia tedesca. Citando da da 116 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane [1966], Milano, Rizzoli, 2004 (prima ediz. ital. 1967), p. 66, e cfr. Francesco Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1982, pp. 69-70. 75 Wilhelm Hausenstein, Vom Geist des Barock, München 1921, p. 42, Benjamin scriveva: «Proprio per poter riguadagnare di slancio le sublimità della forma e i vestiboli del metafisico, esso [il naturalismo barocco] cerca di far leva sul terreno degli oggetti e dell'attualità piú vivente».117 Il barocco, come l'avanguardia espressionista del Novecento, come già Baudelaire e come Montale, non conosce la totalità risplendente e trasfigurata del modello apriori che precede e sintetizza la realtà negandola nella sua prepotenza irregolare. «Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità, si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l'allegoria mostra agli occhi dell'osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha fin dall'inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto».118 Se la storia è letta come natura da Benjamin, in forma quindi rigorosamente antistoricistica, la frammentazione sfigurata ne è l'aspetto precipuo, con tutto il dolore fisico, la lacerazione, lo smembramento relativi: «Nel campo dell'intuizione allegorica l'immagine è frammento, runa. […] La falsa apparenza della totalità di spegne. […] Cogliere la non-libertà, l'incompiutezza e la fragilità della natura sensibile, del bello naturale, al classicismo non era dato. Ma sono proprio questi i caratteri che l'allegoria barocca propone, nascosti sotto la sua pompa sfarzosa, con una insistenza fino a quel punto ignota. […] Le allegorie sono nel regno del pensiero quel che sono le rovine nel regno delle cose».119 In questo regno di lutto scompare anche l'estetizzazione barocca di cui abbiamo parlato finora? Indubbiamente la peculiarità del Trauerspiel è 117 Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999, p. 41. Ivi, p. 141. 119 Ivi, pp. 150 sg. 118 76 quella melanconico-mortuaria, ma si tratta poi di una diversa dislocazione della bellezza: «Se altre forme risplendono magnifiche come il primo giorno, questa [l'allegoria] fissa nell'ultimo l'immagine del bello».120 Bellezza apocalittica, insomma, ma bellezza. Che sia euforica o luttuosa, medesima è sempre però la disposizione a subire la supremazia del reale, per leggerlo come emblema, redentivo o fallimentare, disperante o lampeggiante, opaco e/o resurrettivo: sgretolato e significativo. Come dire: realismo metafisico. 120 Ivi, p. 210, conclusione. 77 Dentro e contro Guillén Non d'infrequente Montale «traducendo mostra di affrontare anche quello che all'ingrosso potremmo dire il diverso. Non ci sono, insomma, nel Quaderno [di traduzioni], solo gli omaggi ai congeniali, in tal caso a una ideale linea piú o meno appropriatamente qualificabile per metafisica, da Shakespeare a Eliot».121 Cosí Lonardi nel suo straordinario percorso fuori e dentro il tradurre montaliano, e il primo esempio di traduzione del «diverso» nel Quaderno che lo studioso evoca è non a caso il Cant espiritual del catalano Joan Maragall,122 sorta di grande preghiera di esaltazione della vita, ben poco montaliana. Nostro proposito sarebbe quello di includere in questa categoria dell'alieno tradotto, del diverso scelto da Montale traduttore, le sei liriche di Guillén. Tuttavia già uno dei primi recensori del Quaderno di traduzioni, e che lussuoso e coinvolto recensore!, Piero Bigongiari, rilevava che Guillén e la sua poesia per eccellenza “pura” dovevano aver rivestito una notevole importanza e aver esercitato una indubbia influenza sul Montale che dagli Ossi procedeva verso le Occasioni: Tra i «termini 1920-1927», i termini stretti degli Ossi, e la 121 Gilberto Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 151. 122 Vd. almeno Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura Hispánica, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 141-148; precedentemente: Giuseppe Grilli, Montale, Maragall i la via catalana a la poesia, «Els Marges», 1976, 8, pp. 109-113. 78 «delimitazione 1928-1939», la ripresa difficile e pluricorde, ma anche un po' divaricata, in attesa del futuro, delle Occasioni, s'innestano bene gli esercizi su queste voci che la cultura europea faceva giungere fino a lui. E proprio le traduzioni da Guillén, trascurate dai piú (e anche dal poeta stesso) per mettere in luce le affinità evidenti, congeniali, con Eliot, noi vediamo accamparsi nel mezzo di questi anni divisorî: se in Guillén, per comodo di discorso, vediamo un po' il paradigma della poesia pura. […] Per lo meno è una strana coincidenza il veder Montale cercare un ragionar fantastico cosí asseverativo, un disegno senza respiro, quale salta fuori dalla «poesia pura» di Guillén, mentre andava nascendogli dentro la voce tutta eco spezzata della prima e della seconda parte (i Mottetti) delle Occasioni: quando cioè la presenza di uno stato sentimentale esigeva una purificazione, che non è solo o non è tanto verticale quanto dentro il sentimento, quasi in una riduzione del sentimento a stato geologico. 123 Ma la poesia “pura” si contrappone, con sfumature infinite, ovviamente, alla poesia “metafisica”, come abbiamo visto. Se la linea (ovvero modo poetico) che da Petrarca va fino a Leopardi e a Mallarmé esige una astrazione aprioristica, una scelta di oggetti-emblemi purificati dall'accidentalità ed essenzializzati da subito (la rosa e la viola, le erbe le fronde le ombre ecc.), la tendenza metafisica, che si forma tra manierismo e barocco e giunge a Montale attraverso screziate mediazioni (da Hopkins a Pascoli ecc.), vuole invece calarsi nel reale multiforme e persino umile, prosaico, occasionale, contingente, per poi (e talora simultaneamente) reimmergere il tutto nel bagno astrattivo e mentale e ideale, in un processo che si cala nel multiforme per cogliervi, piú o meno disperatamente, l'uniforme e il 123 Piero Bigongiari, Poesia italiana del Novecento, Milano, F.lli Fabbri, 1960, pp. 187-189. 79 simbolico. In questo senso Montale individuava la celebre jonction Baudelaire-Browning per definire la metafisica ottocentesca fondativa della poesia moderna; in questo stesso senso possiamo enucleare la jonction Valéry-Guillén per isolare un momento cruciale della linea alternativa. E non a caso, poiché Montale stesso dichiara di aver conosciuto, prima delle poesie di Cántico, la traduzione guilléniana del Cimetière marin, retrodatandola all'uscita del volume di versi di Guillén e compiendo cosí uno di quegli errori cronologici non si sa quanto dovuti a distrazione o a manomissione volontaria delle date (il Cántico fu edito nel 1928, la versione del poemetto di Valéry apparve in rivista nella primavera del 1929).124 Guillén pare proprio uno dei corifei europei della poesia “pura” nel senso araldico-emblematico che da Petrarca giunge allo snodo otto-novecentesco; anzi, nel poeta di Valladolid c'è una mentalizzazione e assolutizzazione di ogni dato di realtà, o meglio, c'è una adesione totale e freneticamente entusiasta alla realtà, alla natura, ma questa adesione si traduce in una lingua spesso esclamativa che astrattizza gioiosamente tutti i frammenti e momenti del cosmo quotidiano riducendoli a una unica, unitaria, compatta volontà di essere. Se tutto si riduce sostanzialmente alla radicale «vocación de ser», tutto si fa comunque idea, sostanza e non accidente, nella poesia. O meglio ancora, l'accidente è sostanza, non c'è piú distinzione tra l'incorporeo e il materico.125 Anche dove si dà eccesso di luz, la tra124 Vd. da ultimo: María De Las Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén: le traduzioni scambiate (cronologia e retroscena), in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi, Manziana, Vecchiarelli, 2001, pp. 509-523: 509-510. 125 Importante il saggio di Andrew P. Debicki, La poesía de Jorge Guillén, Madrid, Gredos, 1973. Vi si insiste sulla combinazione del concreto e dell'universale come aspetto dominante di tutta l'opera poetica guilleniana (vd. pp. 2021); l'equilibrio del poeta di Valladolid evita sia il «superficial anecdótico», sia 80 scendenza resta un predicato dell'immanenza: il linguaggio poetico si concede il giusto lusso di operare astrazioni in seno all'amore del concreto, concreto pensato e amato. La perfezione, l'unità, la limpidezza, la pienezza, la tranquillità, la bianchezza, la luminosità ecc., queste e altre categorie astratte costituiscono l'affilato antifigurativo di Guillén, l'accecamento lucido di un poeta cosí innamorato di quel che vede nei mattini splendenti e nelle notti di luna. È la perfección la chiave di volta, che spiega tutto: la meraviglia del creato, del reale si esprime attraverso il pensiero della perfezione, e quindi attraverso una astrazione che descrive perfettamente il concreto. Grande poeta della piú astratta delle nominazioni, la rosa, che domina nel Cántico forse non tanto come emblema rarefatto del fiore mallarmeano che nessun bouquet accoglie, sí piuttosto come forma di concentrazione suprema: tutte le rose sono la rosa, canta Guillén, «plenaria esencia universal».126 La rosa è poi soprattutto fiore-nome che rappresenta la potenzialità, l'eternità come possibilità, la perfezione come ipotesi e clausura armonica rispetto a una escoriata imperfetta aperta realtà pseudoreale.127 La rosa è assente dal linguaggio poetico di Montale,128 la rosa è un nome pericoloso, il piú derealizzante nome della tradizione. La rosa non ha piú un le «abstracciones irreales» (p. 21). Debicki ribatte sulla simultaneità della percezione sensoriale della realtà e della percezione assoluta delle essenze (p. 23 ecc.), in «un mundo en el cual lo conceptual y lo material se mezclan constantemente, en el cual lo absoluto se nos presenta por medio de experiencias concretas» (p. 26). Insomma, Guillén lega l'immediato all'universale, trova dentro il transitorio le radici dell'essenziale (p. 45). Vd. anche Joaquín González Muela, La realidad y Jorge Guillén, Madrid, Ínsula, 1962. 126 Vd. Elsa Dehennin, Cántico de Jorge Guillén. Une poésie de la clarté, Bruxelles, Presses Universitaires, 1968, p. 50; sulla rosa vd. pp. 40 sgg. e 180. 127 Vd. La rosa, Cierro los ojos ecc. 128 Se non nella straniata citazione dei versi pariniani «Torna a fiorir la rosa / che pur dianzi languia…» all'inizio della Danzatrice stanca, in Diario del '72. 81 referente, potremmo dire: le rose sono soltanto ipotetiche,129 le rose reali sono fiori che qualcun altro dovrà rinominare o specificare (rose canine, rose tee ecc.). Il poeta degli ossi di seppia e dei girasoli, che sarà il poeta della magnolia e delle coturnici ecc., il poeta metafisico, insomma, non sa che farsene di un qualcosa che geneticamente e irrecuperabilmente si pone come astrazione. La rosa è una inutilizzabile casella vuota, una deprivazione di qualunque occasione, una superba assenza. Certo un poeta della rosa come Guillén è anche aperto, soprattutto per la sua partecipazione intensa al neobarocchismo e neo-gongorismo ispanico della sua generazione, alla sublimazione astrattiva che lascia però tralucere, magari per via di titolo-rubrica, una micro-occasione “moderna”, implicandosi cosí con la corrente etero-petrarchista della poesia “metafisica” come l'abbiamo configurata storicamente: Dama en su coche Triunfan madera y metal, deliciosamente acordes al arrullo de un desliz, irradiando, regalando placer de victoria en viento siempre sumiso a la guía de unos guantes, de un volante bajo la fascinación 129 Vd. J.Guillén, Opera poetica («Aire nuestro»), Studio, scelta, testo e versione a cura di Oreste Macrí, Firenze, Sansoni, 1972, p. 44 n. e qui, infra. Sull'immaginario della rosa vd. la vertiginosa Conclusione: «Purpwort» e l'Invio in Carlo Ossola, Figurato e rimosso. Icone e interni del testo, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 283-313. 82 que en relámpago de emporio logra la quizá beldad. Dama nella sua automobile Trionfano materia e metallo, deliziosamente concordi, al murmure di uno scivolare, irradiando, donando piacer di vittoria nel vento, sempre sommesso alla guida di due guanti, di un volante sotto la fascinazione che in lampeggio d'emporio produce la ipotetica beltà. Questa è poesia che coglie una realtà occasionale e “moderna” per sublimarla in una concentrazione astrattiva di bellezza pressoché mitica. Ci sono cioè tutti gli ingredienti per essere ospitati nell'olimpo alternativo dei poeti che si sporcano nel materico e nell'accidentale per trasformarlo in un nuovo diamante, in una anomalia di perla nata da un umile granello, in una farfalla che era verme.131 C'è fra 130 130 Anche in una lirica di Clamor, intitolata Cita, A.P.Debicki (La poesía de Jorge Guillén, cit., pp. 38-39) rileva una sublimazione ed assolutizzazione del relativo prosaico, effettuando una analisi di estremo interesse. 131 «Lo “spirito nuovo” è lo spirito della libertà assoluta; la libertà nella poesia porta ad accogliere senza limiti qualunque soggetto, senza tener conto del suo livello; la poesia si infiamma per nebulose e oceani, ma anche per un fazzoletto che cade, per un fiammifero che si accende; […] l'oggetto piú insignificante le serve per slanciarsi in una “ignota infinità, dove rilucono i fuochi delle molteplici significazioni”». Cosí Hugo Friedrich in La struttura della lirica moderna [1956], Milano, Garzanti, 1971, p. 155, citando Apollinaire, 83 l'altro l'ingrediente della densità congesta, quella concentrazione appunto che Montale dà per codice di garanzia della poesia “occasionale” moderna, quella crasi figurativa per cui «il poema breve» acquista «in intensità ciò che perde in estensione», talché alla fine è «corto il passo dal poema intenso al poema oscuro». Quindi: «Il supposto poeta oscuro è, nell'ipotesi a lui piú favorevole, colui che lavora il proprio poema come un oggetto, accumulandovi d'istinto sensi e soprasensi, conciliandovi dentro gl'inconciliabili, fino a farne il piú fermo, il piú irripetibile, il piú definito correlativo della propria esperienza interiore».132 Nella Dama ci sono anche figuratività istantanee e rattratte come il «relámpago de emporio» che sicuramente possono consuonare con le immagini montaliane, se pure l'atteggiamento guilleniano difronte alla realtà sia sempre adesivo e appropriativo, di pienezza esultante, mentre quello di Montale attiva generalmente un'inchiesta che prefigura o registra lo smacco, la disgregazione, il rimando ad altro momento (a mai) dell'acquisizione della verità. D'altra parte, nonostante poesie come la Dama, Guillén rimane costituzionalmente un poeta “puro” e petrarchesco. Basti pensare, per cercare controprove molecolari, all'ossessione del guante: si ripropone ad es. in Nene o in Rama del otoño, che è lirica fra le tradotte da Montale; qui fra l'altro, come vedremo, il guante è «en mano al aire», quasi come capei d'oro a l'aura sparsi. Il guanto non è evocato a caso, giacché nel ciclo petrarchesco del guanto c'è in nuce, piú o L'esprit nouveau et les poètes, del 1918. Risulta da tutto ciò sempre piú evidente quanto importante sia, sulla scena europea, il contributo italiano con Pascoli alla definizione originale della poesia moderna. E quanto sia dolorosamente ignorato, proprio fuori Italia, questo ruolo assolutamente unico e straordinario (rispetto almeno a quello piú orecchiante e superfetatorio di un D'Annunzio). 132 Parliamo dell'ermetismo, su «Primato» del 1 giugno 1940; in SM III, pp. 1532-33. 84 meno, anche l'antipetrarchismo delle occasioni minimali sublimate e riemblematizzate, c'è il suggerimento “puro” a una poesia “impura” (in Petrarca, arcimodello, c'è il modello e i semi dell'antimodello, è stato già detto). Guillén insomma, nel suo gesto ideologico-poetico, appartiene complessivamente alla schiera di lirici alternativa a quella in cui situiamo Montale. (Chi è contrario assolutamente all'utilità storiografica degli incasellamenti, per quanto duttili, non legga queste pagine). Anche se sulla sua “purezza” ci sono obiezioni e precisazioni da compiere, soprattutto rispetto all'antirealismo dei simbolisti e in particolare di Mallarmé:133 la migliore esegesi ha sempre sottolineato l'autonomia originale di un Guillén che ama la realtà e concettualizza per via di entusiasmo del reale, non per via di depressione gnostica o platonica della fisicità. E poi, ripetiamo, purezza e metafisica sono due modi poetici che possono anche convivere, piú o meno occasionalmente, in uno stesso autore. In ogni caso, che sia per esaltazione difronte alla compattezza dell'essere e del reale, o sia per disdegno dell'empi133 È quasi luogo comune di molta critica marcare la effettiva distanza di Guillén dalla linea Mallarmé-Valery, spesso in esplicita polemica con quanto scriveva Hugo Friedrich in La struttura della lirica moderna , cit., pp. 198 sgg.; oltre alla citata Dehennin, si veda ad es. Claude Vigée, Jorge Guillén et les poètes symbolistes français, in Revolte et Louanges, Paris, Corti, 1962, pp. 139-197, di cui un estratto in traduzione spagnola è ospitato nel reader a cura di Birute Ciplijauskaité Jorge Guillén, Madrid, Taurus, 1975, pp. 79-92. Una interpretazione di Mallarmé come poeta che non rinuncia alla concretezza delle cose ma le carica di arcano, di oscurità, di ermetismo, insomma, è offerta da Giacomo Debenedetti in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, pp. 2632. Debenedetti, in queste lezioni (che peraltro non sono il meglio della sua magnifica produzione), pone Mallarmé su una linea che ingloba addirittura, accanto a Scève, Góngora e John Donne: poesia “pura” e poesia “metafisica” sarebbero cosí tutt'uno, diversamente dalla prospettiva in cui ci poniamo noi (nell'edizione garzantiana, per scorretta lettura dai quaderni debenedettiani, si legge «Jolan Doune» al posto di John Donne, p. 32, e l'errore è ripetuto nell'indice dei nomi!). 85 ria e della materia, la poesia sintetico-emblematica si contrappone a quella analitico-nomenclatoria. Ovvero: dalla poesia petrarchesco-pura vuole distinguersi quella impurometafisica, per dir cosí, quella poesia che per attingere (con acquisto o fallimento che sia) al simbolo e al concetto esige di ripassare per la realtà nella sua incoercibile incoerenza, occasionalità, caoticità, materialità screziata, irredenta imperfezione. Insomma, da una parte c'è la tradizione dei poeti che arriva, con tutte le precisazioni che si vogliano, a Guillén e a certo ermetismo italiano, dall'altra c'è la lignée in cui, bene o male, si colloca Montale, che per brevità designiamo - egli stesso designa - metafisica. Si potrebbe parlare di petrarchismo puro per la prima linea e di petrarchismo metafisico per la seconda. E si potrebbe al limite anche parlare di antipetrarchismo per quest'ultima, ma sarebbe improprio, dal momento che intenderemmo l'antipetrarchismo lirico (non quello comico!) presente in nuce nel modello stesso. Tuttavia possiamo anche ridurre al minimo le categorie, dal momento che ci si intende sulla sostanza. Quindi: Guillén è dall'altra parte della barricata rispetto a Montale (nonostante occasionali sconfinamenti). Ovviamente questa semplificazione, appena indicata, subito provoca orrore, diciamo un orrore filologico, se non filosofico. Quanto Guillén è dentro Montale! Cosí come quanto Valéry, quanto Mallarmé ecc. E d'altronde quanto Leopardi, principe della poesia che abbiamo detto sintetico-emblematica.134 Il diverso, insomma, non passa certo come l'acqua sulle penne di un'anatra, anzi, forse ancor piú dell'analogo si incide nella carne. Ma sul piano delle poetiche storiche e individuali si deve mantenere forte, con l'ugne e i denti, io 134 Quel Leopardi dei notturni lunari cosí cari al Guillén che ne traduce alcuni in castigliano: cfr. Roberto Paoli, Jorge Guillén ante Italia, «Revista de Occidente», XLIV, 1974, 130, pp. 98-116 (tutto il numero della rivista è dedicato a Guillén). 86 credo, questa dicotomia Guillén-Montale, per capire come funziona l'interazione fra la poesia dei due. Riassumendo: Guillén supremo lirico novecentesco della linea “pura” e astrattivo-emblematica, pur se al servizio di una lode esclamativa del reale; Montale rappresentante d'eccezione, in Italia, della tradizione fisico-metafisica, modernamente impuro e contestualmente teso verso una trascendenza impossibile e depauperata. Il primo esalta il reale maneggiando le parole-emblemi, le figure araldiche del petrarchismo secolarmente integrato, il secondo esplora il reale con il suo linguaggio screziato, occasionale e nomenclatorio, memore di Pascoli e compagno di strada, magari parallelo, di un Eliot, per risalire dall'imperfezione empirica a un dissestato, epicureamente alieno eldorado di metafisiche verità. Guillén nomina per eccellenza la rosa, Montale non la evoca mai. Guillén esalta il corpo femminile come carne assoluta, Montale non vede che donne psicagoghe accigliate o infelici, indissolubimente legate alla morte come messaggio unico possibile. Il rapporto di un poeta “astratto” come Guillén con la fisicità femminile è ben illustrato dalla lirica Desnudo:135 Desnudo Blancos, rosas. Azules casi en veta, retraídos, mentales. Puntos de luz latente dan señales de una sombra secreta. Pero el color, infiel a la penumbra, se consolida en masa. 135 Per le varianti del '26 di questa poesia, vd. Opera poetica, cit., introduz. di Macrí p. 24 n.; in Jorge Guillén, Cántico, Madrid, Revista de Occidente, 1928, la lirica si trova alle pp. 134-135. 87 Yacente en el verano de la casa, una forma se alumbra. Claridad aguzada entre perfiles, de tan puros tranquilos, que cortan y aniquilan con sus filos las confusiones viles. Desnuda está la carne. Su evidencia se resuelve en reposo. Monotonía justa, prodigioso colmo de la presencia. ¡Plenitud inmediata, sin ambiente, del cuerpo femenino! Ningún primor: ni voz ni flor. ¿Destino? ¡Oh absoluto Presente! Nudo Bianchi, rosa. Azzurri quasi a striscia, timidi, mentali. Punti di luce latente danno segnali di un'ombra segreta. Però il colore, infedele alla penombra, si consolida in massa. Giacendo nell'estate della casa una forma s'illumina. Chiarità acuita fra profili, cosí puri tranquilli, che tagliano e annientano con lame le confusioni vili. 88 Snudata sta la carne. L'evidenza sua si scioglie in riposo. Monotonía giusta, prodigioso colmo della presenza. Pienezza immediata, senza ambiente, del corpo femminile! Nessun gioiello: voce o fior. Destino? Oh assoluto Presente! C'è in questi versi tutto riassunto il gesto poetico guilleniano, il suo adorare il reale glorificandolo in un accecamento luminoso-astrattivo, in una concettualizzazione carnale (per usare un ossimoro anche in sede critica). Parolechiave di alta recursività campeggiano, astratte quali claridad, evidencia, presencia, Presente, plenitud, destino, nonché luministiche come luz, sombra, penumbra, se alumbra, geometrizzanti o volumetriche, come i cari perfiles, o la masa, attributi quali mentales, aguzada, justa, prodigioso, absoluto, sintagmi propri di un usus scribendi energicamente ossessivo come ad es. se consolida en masa, se resuelve en reposo, colmo de la presencia (si pensi almeno a Cima de la delicia, fra i capolavori del Cántico). Alcuni di questi tasselli si ritrovano anche nelle liriche selezionate da Montale: si evochi Rama del otoño: «¡Cómo aguzan / su pormenor tranquilo las nuevas nervaduras!», o El cisne: «se ha resuelto / la soledad en turba!» ecc. E poi la sintassi, franta, asindetica, esclamativa, sconcertante sistema di spezzature intellettualistiche e studiate ingenuità interiettive. Insomma, questo è Guillén, poeta di linguaggio assoluto al servizio della naturale pienezza. Montale è altrove, questo risulta ben evidente senza doverlo dimostrare. La sua Arletta, ad esempio, in Delta (del 1926, fra le aggiunte agli Ossi del '28) è la piú fanto89 matica e implicata con la morte, ma non l'unica: Tutto ignoro di te fuor del messaggio muto che mi sostenta sulla via: se forma esisti o ubbia nella fumea d'un sogno t'alimenta la riviera che infebbra, torba, e scroscia incontro alla marea. La forma guilleniana si illumina di carne nell'estate della casa, offerta lucida di gloria femminile, culmine di tranquilla perfezione, presenza che si possiede. La donna demonica di Montale è per eccellenza colei che non si coagula in un corpo, forse è solo «ubbía nella fumea», non tanto dissimile dall'Esterina di Falsetto che, pur energetica natatrice, si tuffa tra le braccia di un amante d'acqua e fumo, Zeus e Thànatos insieme. Ma confronti di questo genere scadono nei sottoscala dell'ovvio e certo del non squisito. Montale è altro da Guillén nella scelta del linguaggio dantesco sí, ma soprattutto metafisico, cioè sporcato nell'individuazione e nell'oggettività dell'occasione per poi trovare nuovi emblemi «piú in là». Más allá, avrebbe detto Guillén, in una poesia che ancora non appariva nel Cántico del 1928. Solo che il piú in là del poeta di Valladolid è tensione verso una plenitudine dell'essere attinta con stupore sacro e volontaristica gioia. E col linguaggio assoluto. Mentre il poeta di Buffalo (“occasione” scritta probabilmente in un momento contiguo al lavoro su Guillén) si àncora disperatamente a una frantumazione evenemenziale di «schiene striate», «megafoni», «autocarri», schegge brutalmente reali del velodromo parigino, brulichio sregolato come sregolata e invadente è l'empiria e il suo «dolce inferno» di lampi e schianti, da cui è un bel busillis ricavare argomenti per una precaria, anzi impossibile ma ineludibile sistemazione metempirica, metafisica, ideale. 90 A proposito dei rapporti fra Guillén e l'Italia e fra Guillén e Montale, sul piano positivo, fattuale, oltre che critico, si è scritto anche recentemente.136 Il giudizio di Montale sul lirico vallisoletano è riassunto nella pagina “militante” che sul «Corriere della Sera» recensiva nel giugno 1969 l'edizione di Aire nuestro per Scheiwiller, pezzo poi inserito in Sulla poesia.137 È una pagina in verità necessariamente striminzita, che non informa profondamente sull'intimo pensiero montaliano a proposito di Guillén. D'altra parte tutta la produzione del “secondo mestiere” è intesa da Montale come un cordiale dialogo col lettore medio, ove la diplomazia e la compostezza fanno aggio sulle idiosincrasie private, se non sulla sincerità tout court. Comunque, nel discorso su Guillén, Montale è per lo piú informativo e talora cortesemente ironico, ad es. quando evoca la «ben nota torrenzialità della musa iberica». Il nucleo critico dell'articolo è tutto qui: «Guillén è un esaltatore quasi iperbolico della vita, è una fontana di tripudio e di gioia. Al limite, il suo inestinguibile amor vitae non dovrebbe consentire alcun clamore: dovrebbe dissolversi in un mistico silenzio. Ma non è stato cosí anche se i temi inevitabilmente si ripetono. In lui la fertilità delle variazioni fa apparir cosa nuova anche la riapparizione delle sue tipiche parole-chiave». Montale indica per la prima poesia guilleniana un possibile esito diciamo mallarmeano, l'ammutolimento; la realtà invece smentisce questa prefigurazione, Guillén continua a sfornare centinaia di poesie e a variare quelle già scritte. Se ne deduce, tra le righe, che l'ipertrofia produttiva del castigliano lascia quantomeno perplesso il genovese. Inoltre: l'amor vitae e l'iperbolicità del tripudiare guilleniano risultano e silentio l'opposto speculare della poesia montaliana, dagli Ossi agli 136 Vd. ad es. R. Paoli, Jorge Guillén ante Italia, cit.; soprattutto M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén…, cit. 137 Vd. SM II, pp. 2924-25, n. a p. 3353. 91 ultimi versi. Eugenio cioè prende le distanze implicitamente dal grande vecchio spagnolo. E lo fa ancor di piú riconoscendone la posizione, autoproclamata oltretutto, di vate: «egli non mostra alcun ritegno ad apparire qual è in effetti: un maestro, un vate». La decenza quotidiana non sembra dote del Guillén recensito da Montale. Il quale nel 1975, intervistato dalla «Revista de Occidente», prende ancor piú nettamente le distanze dall'ultimo Guillén, ma afferma anche di non essergli stato molto vicino neppure ai tempi delle traduzioni dal Cántico: «Io non credo, non credo [che qualcosa lo unisca a Guillén]. Io mi esercitai su queste cinque poesie, perché mi sembravano facilmente traducibili; poi non so se era proprio cosí».138 Il linguaggio nelle risposte è tutto all'insegna del dubbio e dello smussamento («Può darsi che esistano somiglianze, non lo so» ecc.), come proprio del Montale mai apodittico. E poi va tenuta presente la tendenza montaliana innata a mescolare le carte, confondere le acque, negare i debiti poetici, anche ove l'esegesi li rilevi piú o meno innegabilmente. Comunque sia, anche da queste reticenti dichiarazioni mi pare confermata la sostanziale distanza fra la poesia montaliana e quella guilleniana. Come si pone allora Montale traduttore nel corpo a corpo col “diverso”? I dati puntuali, lirica per lirica, preferiamo lasciarli al commento nelle pagine seguenti. Molte movenze delle traduzioni guilleniane sono poi proprie dell'habitus traduttorio poetico montaliano nel suo complesso, le cui dinamiche e tendenze sono state brillantemente ricostruite e analizzate da interpreti ben piú sofisticati di noi.139 138 Una conversación con Montale, «Revista de Occidente», dic. 1975, 2, pp. 91-96; vd. M. De Las Nieves Muñiz Muñiz, Montale e Guillén…, cit., p. 522. La traduzione è mia. 139 Penso, solo per fare qualche nome senz'ordine, a Lonardi, Musatti, Mengaldo, Isella, Luperini, Gareffi, Barile e tanti altri (vd. infra, Bibliografia). 92 Prima di proporre le liriche di Guillén con versione montaliana e annotazione, vorremmo però esemplificare lo scarto traduttorio, ovvero lo scontro col diverso dal suo interno, anticipando qualche considerazione in merito al CisneCigno. Qui l'operazione di Montale mi pare vada nella duplice direzione di: concretizzazione e psicologizzazione. Le astrazioni dello spagnolo vengono spesso corrette con equivalenti concreti (ad es. blancura con neve), in una tensione verso la riduzione di purezza, potremmo dire. È una battaglia non vistosa, certo, un corpo a corpo che gioca su variazioni minime e raffinate che non modificano la sostanza della lirica, ma ne incrinano la geometrica cristallinità, l'algebrico splendore, puntando a un esito piú cordiale, fluido e meno luminosamente arduo e affilatamente intellettuale. Un esito piú impuro, in cui anche la scelta di accentuare la soggettività del protagonista cigno contribuisce alla mossa anti-astrattiva, individuante o quantomeno anti-derealizzante. Il cigno resta puro, ovviamente, ma la personalità di Montale si insinua nel suo piumaggio araldico. Quasi, diremmo noi, nel tentativo di allontanarlo dal cigno di Mallarmé e avvicinarlo a quello di Baudelaire. Pensiamo infatti al noto sonetto mallarmeano Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui (1885) e al celeberrimo Cygne (1859) dei Fiori del male. Prendiamo quest'ultimo uccello dei Tableaux parisiens, protagonista di una lirica in due tempi, dove la Parigi moderna che si trasforma urbanisticamente viene proiettata in una elevazione complessa, mitizzante (l'evocazione di Andromaca vedova di Ettore che piange sul Simoenta), sublimante, simbolizzante. Vediamo i versi che descrivono l'apparizione del cigno: Là s'étalait jadis une ménagerie; là je vis, un matin, à l'heure oú sous les cieux froids et clairs le Travail s'éveille, oú la voirie pousse un sombre ouragan dans l'air silencieux, 93 un cygne qui s'était évadé de sa cage, et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec, sur le sol raboteux traînait son blanc plumage. Près d'un ruisseau sans eau la bête ouvrant le bec baignait nerveusement ses ailes dans la poudre, et disait, le coeur plein de son beau lac natal: - Eau, quand donc pleuvras-tu? quand tonneras-tu, foudre? Je vois ce malhereux, mythe étrange et fatal, vers le ciel quelquefois, comme l'homme d'Ovide, vers le ciel ironique et cruellement blue, sur son cou convulsif tendant sa tête avide, comme s'il adressait des reproches à Dieu! Là si estendeva allora un serraglio; là io vidi, un mattino, all'ora che sotto i cieli freddi e chiari il Lavoro si sveglia, dove i netturbini sollevano un uragano d'ombra nell'aria silente, un cigno che era evaso dalla sua gabbia, e, coi suoi piedi palmati sfregando il lastricato secco, sul suolo accidentato trascinava il bianco piumaggio. Su un canale di scolo arido la bestia apriva il becco, bagnava nervosamente le ali nella polvere, e diceva, il cuor pieno del suo bel lago natale: - Pioggia, e quando cadrai? Quando tuonerai tu, lampo? Io vedo questo infelice, mito strano e fatale, verso il cielo talvolta, come l'uomo di Ovidio, verso il cielo sarcastico e crudelmente blu, sul suo collo convulso tendere il capo avido, come scagliasse i suoi biasimi a Dio! 94 La visione mitica del cigno, enfatizzata da quel «Je vis», 'io vidi' (e si pensa alla visione grandiosa dell'albatro nel Melville di Moby Dick, parente d'oltreoceano dell'albatro baudelairiano),140 è sublime proprio perché tragicamente concreta, un cigno «evadé de sa cage» che si scontra con un ambiente urbano polveroso e lurido, incespicando e maledicendo Dio e rendendosi cosí eroe sofferente. Un fatto di cronaca può aver ispirato Baudelaire, che leggeva il 16 marzo 1846 sul «Corsaire-Satan»: «Avant-hier, quatre cygnes sauvages sont venus s'abattre sur le grand bassin des Tuileries et ils sont restés à prendre leurs ébats jusqu'au moment oú on a ouvert le robinet du grand jet d'eau».141 Un fait divers che potrebbe essere all'origine anche di una delle fantasie invernali degli Émaux et camées di Gautier: «Dans le bassin des Tuileries / le cygne s'est pris en nageant».142 Un dato di concretezza cronachistica, che d'altronde non è necessario implicare: la descrizione di Baudelaire è già in sé un episodio di strana umile quotidianità, un accidente 143 assunto in un cielo di sublimità mitico-simbolica («mythe étrange et fatal») per quel processo 140 Antonio Prete approfondisce il confronto in L'albatros di Baudelaire, Parma, Pratiche, 1994, pp. 63 sgg.; vd. anche pp. 18, 37 sgg.; per il «nuovo sublime» baudelairiano vd. pp. 85-86; per allegoria e iconicità pp. 55-56 di questo libretto-lezione sconfinatamente ricco. 141 Cfr. C. Baudelaire, Oeuvres complètes, a cura di Claude Pichois, I, Paris, Gallimard, 1975, p. 1005 (da questa edizione citiamo sempre i testi di Baudelaire). Vd. anche l'edizione italiana delle Opere a cura di Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano, introduz. di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1996, pp. 175 sgg. e 1548 sg. 142 La lirica apparve in rivista nel 1854, poi nell'edizione del 1858 degli Émaux: vd. Théophile Gautier, Émaux et camées, introduz. di Jean Pommier, a cura di George Matoré, Génève, Droz, 1947, p. 68; i versi sono citt. anche in Stéphane Mallarmé, Poesie, a cura di Luciana Frezza, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 268 (da cui traiamo il testo di Mallarmé). 143 «Ce qui était important pour moi, c'était de dire vite tout ce qu'un accident, une image, peut contenir de suggestions», scrive Baudelaire stesso 95 fisico-metafisico, empirico-metempirico che ormai conosciamo bene nella linea della poesia impura, la linea che perviene a Montale. Altro universo ci pare quello di Mallarmé: Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui va-t-il nous déchirer avec un coup d'aile ivre ce lac dur oublié que hante sous le givre le transparent glacier des vols qui n'ont pas fui! Un cygne d'autrefois se souvient que c'est lui magnifique mais qui sans espoir se délivre pour n'avoir pas chanté la région oú vivre quand du stérile hiver a resplendi l'ennui. Tout son col secouera cette blanche agonie par l'espace infligée à l'oiseau qui le nie, mais non l'horreur du sol oú le plumage est pris. Fantôme qu'à ce lieu son pur éclat assigne, il s'immobilise au songe froid de mépris que vêt parmi l'exil inutile le Cygne. nella lettera di invio della poesia a Hugo: cfr. Oeuvres complètes, cit., p. 1007. D'altra parte, ancor piú chiaramente, si legge nelle Fusées: «Dans certains états de l'âme presque surnaturels, la profondeur de la vie se révèle tout entière dans le spectacle, si ordinaire qu'il soit, qu'on a sous les yeux. Il en devient le symbole» (Oeuvres complètes, cit., p. 659, c.vo mio: il curatore Pichois annota: «Le Cygne et Les Sept Vieillards sont d'excellentes illustrations de cette observation», p. 1481). Il passo baudelairiano è citato anche da Jean Starobinski in La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, prefaz. di Yves Bonnefoy, a cura di Daniela De Agostini, Milano, SE, 2006, p. 89. Singolare il fatto che nel suo saggio, se non leggo male, Starobinski non citi mai Benjamin e i suoi supremi fragmenta su Baudelaire e l'allegoria moderna; vd. allora Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri, Torino, Einaudi, 1995 (prima ediz. 1962), pp. 131-144 e passim; introduz. di Solmi, pp. XIX sgg. 96 L'oggi, il vergine, il vivace e bello, schianterà per noi con un colpo d'ala ubriaco questo lago duro d'oblio che affolta sotto crosta il trasparente ghiaccio dei voli non fuggiti! Un cigno d'altri tempi rammenta che è lui stupendo ma che si libra disperato per non aver cantato la regione ove vivere quando dello sterile inverno splendeva la noia. Tutto il suo collo scuoterà questa bianca agonia dallo spazio inflitta a l'uccello che lo nega, ma non l'orrore del suolo ove il piumaggio è preso. Fantasma che a questo luogo il suo puro lampo assegna, s'immobilizza al sogno freddo del disprezzo che veste nell'esilio inutile il Cigno. Fra i molti lettori di questo congelato smalto poetico, Leo Spitzer, in un saggio cruciale per l'interpretazione moderna, commenta: «In tutto ciò non è dato immaginare alcuna realtà esterna: si tratta soltanto di astrazioni […]. È tolta la corporeità a tutto ciò che è materiale. Anche il cigno, si sente, non è un vero cigno», ecc.144 Il processo discensivoascensivo della poesia metafisica di genealogia manieristicobarocca è assente: se immaginiamo una piramide, al cui vertice siano le essenze, le idee, le astrazioni rarefatte, e quindi le parole-emblemi, la rosa che è categoria (=fiore), ecc., mentre alla base siano gli oggetti individui, gli accidenti, i faits diverses, le occasioni, quindi le parole referenziali, il girasole (un girasole, un cigno hic et nunc), dobbia144 Leo Spitzer, L'interpretazione linguistica delle opere letterarie [1931] in Id., Critica stilistica e semantica storica, a cura di Alfredo Schiaffini, Laterza, Bari, 1966, pp. 46-72: 65. 97 mo immaginare i petrarchisti puri al livello della cuspide della piramide, già da subito posizionati lí, aprioristicamente, mentre gli impuri o metafisici guardano in basso, verso gli accidenti, per maneggiarli e conferire loro significati e aspirazioni ascensive, sublimandoli e caricandoli simbolicamente, intridendoli di bagliori mitici e noumenici e quindi proiettandoli verso l'alto. Per i primi non c'è necessità di una realtà autonoma e bizzarra da interpretare e da cui avere suggerimenti metafisici, anzi per estremo la realtà può anche non esistere, al limite per loro c'è l'immaterialismo come purezza assoluta, mentre per i secondi il realismo (con varie virgolettature) è condizione per ogni rivelazione. Esercitandosi sul cigno tragico, Baudelaire compie quest'ultima operazione, fisico-metafisica (diciamo metafisica tout court), di sublimazione e simbolizzazione di un dato evenemenziale singolare e “moderno”, un cigno che incespica nella polvere di un canale inaridito, in mezzo a una Parigi che si trasforma, palazzi nuovi impalcature costruzioni ammassi, un cigno strambo che si fa eroe di tragedia e grida in alessandrini a Dio la sua bestemmia, nucleo barcollante di penne sporche e nucleo di bellezza moderna sublime, greve di valore allegorico, come già l'albatros clown-principe. Diversamente, Mallarmé tratta il cigno tragico senza bisogno alcuno di dover investire di valori ideali un cigno fenomenico, magari finito nella vasca delle Tuileries. Il poeta e il cigno (che lo simboleggia)145 sono da subito in cima alla piramide, sono già superbi diamanti dello spirito, l'investimento di bellezza e significato non deve essere operato a posteriori su un dato di realtà, è già implicito nell'atto stesso di nominare, di usare la lingua poetica, che è lingua eminen145 Fra le numerose interpretazioni del sonetto di Mallarmé, una delle piú raffinate e analitiche è senz'altro quella di Stefano Agosti, Il cigno di Mallarmé, Parma, Pratiche, 1994, la cui edizione originale risaliva al 1970. 98 temente categoriale, emblematica, di tradizione petrarchesca e modello per generazioni “pure” ed “ermetiche” a venire. (Se rischiamo la semplificazione, ancora una volta, scusateci, dovrebbe valerne la pena). Anche il giovane Valéry propone il proprio cigno, ed è forse ingeneroso nei suoi confronti accostarlo ai precedenti, giacché Le cygne valeriano è un sonetto dell'ottobre 1889 (il poeta compie diciotto anni), rifiutato e dimenticato dall'autore, poi recuperato dai filologi.146 Tuttavia può essere edificante riprendere questo omaggio giovanile a un certo estetismo astratto non ancora ben irrobustito e cristallizzato sul modello mallarmeano: Au rire du soleil posé sur une branche et sous sa plume un flot limpide se plissant le cygne file en plein saphir carène blanche et l'eau miroir le fait deux fois éblouissant neige sur l'onde! un souffle insensible le pousse comme un vaisseau fantôme enfui parmi l'azur puis il va s'échouer sur la rive de mousse et dort dans la lumière idéalement pur! Vase de chasteté symbolique et splendide ayant d'un monde vil oublié le Destin ô Cygne immaculé tu fuis dans le matin baiser de la lueur sur ton aile candide vers la Rive céleste oú dans l'Éternité se confondent l'Amour et la Virginité. 146 Vd. Paul Valéry, Opere poetiche, a cura di Giancarlo Pontiggia, introduz. di Maria Teresa Giaveri, Parma, Guanda, 1989 (rist. 2003), p. 470: da quest'edizione prendiamo i testi del poeta. 99 Al riso del sole posato su un ramo e sotto le penne un fiotto limpido increspandosi il cigno fila in pieno zàffiro carena bianca e l'acqua specchio lo fa due volte abbagliante neve sull'onda! un soffio insensibile lo spinge come un vascello fantasma fuggito tra l'azzurro poi va a incagliarsi su la riva di muschio e dorme nella luce idealmente puro! Vaso di castità e simbolico e splendido avendo d'un mondo vile obliato il Destino o Cigno immacolato tu fuggi nel mattino bacio del chiarore sulla tua ala candida verso la Riva celeste ove nell'Eternità si confondon l'Amore e la Verginità. Questo cigno candido fa coppia col «cygne noir», «cygne funèbre» di un'altra poesia giovanile, Intermède, pubblicata nel 1892 su «L'Ermitage».147 Inutile insistere sul fatto che sia questo cigno tenebroso in una notte di «mince lune», sia il cigno «éblouissant» del sonetto precedente sono, se pur meno rigorosi, parenti del cigno araldico mallarmeano e remoti dal cigno parigino di Baudelaire. Inoltre la raffigurazione del cigno 1889 è gloriosa, senza sconfitta, anti-tragica, implicando altresí una banale esplicitazione del simbolo della castità-verginità. La declinazione di Guillén del cigno riprenderà in modo piú composto l'istanza fallimentare dei cigni dei padri “simbolisti”, accentuando l'astrazione, o meglio trasformando il rovello del volatile in una investigazione geometrico-musicale, secondo quel particolare modo di fare poesia mentale e tuttavia atteggiata otti147 100 Ivi, p. 420 e n. a p. 470. misticamente nei confronti del reale. Il giovane Valéry sceglie invece un cigno «ayant d'un monde vil oublié le Destin», coerentemente col suo rifiuto del destino in favore della possibilità.148 In ogni caso è con un cigno puro che l'impuro metafisico Montale avrà a che fare, traducendo El cisne, confrontandosi cosí direttamente con una alterità carica di tradizione secolare e provandosi, con minimi e puntuali scarti di traduzione, a forzarla “decentemente” in una direzione anti-astrattiva, in qualche modo familiarizzante. D'altra parte, quando Montale in prima persona, senza mediazioni, dovrà dedicare una poesia - mezza poesia - alla figura di un cigno, nel 1937, produrrà sí un testo «toccato da un'algida bellezza non immemore della poesia di Mallarmé», come annota Isella, ma lo farà incardinando ben bene «la ricerca spasmodica […] della vera essenza della vita» e la «geometrizzazione metafisica del paesaggio»149 in una occasione definita cronotopicamente (un'alba al giardino della villa di Caserta), senza rinunciare cioè al “realismo” del movimento iniziale. Stiamo parlando, ovviamente, della lirica Nel parco di Caserta, dalle Occasioni. Qui il cigno è «crudele», quasi un emblema - ma reale al suo nascere della “crudeltà” degli assoluti mallarmeani, di quell'abisso di perfezione ideale impassibile che rischia di risucchiare e uccidere il poeta della Prose pour Des Esseintes. Esistono estasi malvage - e Montale lo sa bene! - e la purezza ha implicito un certo sadismo superbo. Il «cigno crudele» di Caserta «si liscia e si contorce», come il vero cigno che è; nel rendere compíta la propria bellezza effettua un avvitamento, una torsione manieristico-barocca che tradisce una sdegnosità nevrotica propria della perfezione, un'irritabilità 148 Cfr. P. Valéry, Oeuvres, I, a cura di Jean Hytier, Paris, Gallimard, 1957, p. 1203 e Opere poetiche, cit., p. 494. 149 E.M., Le occasioni, a c. di D. Isella, cit., pp. 66 e 67. 101 dell'ideale. Poi le «sfere», modelli di compiutezza agghiacciante, poi le «torce», in una agglutinazione congelata di elementi come fuoco, acqua (l'«aria» di lí a pochi versi, al v. 7). Quindi una crescenza minacciosa di vegetali, risalenti a primitive forme quasi fantastiche e preistoriche e sacralizzate («domi verdicupi», «araucaria», «liane», «braccia di pietra»), che conducono a una allusione mitica alle Parche (vv. 13-14; qualche raffinato enfatizzerebbe il gioco ParcoParche). In chiusa, si sprofonda alle Madri, che cercano inasprite il vuoto bussando con le nocche, riduzione ah quanto novecentesca! del sublime goethiano. Siamo insomma ben lontani dalla ricerca concettuale affannosa del cigno di Guillén, ma siamo anche distanti dalla conformazione poetico-ideologica di Mallarmé (e di Valéry). In parte per una ragione intima di barocco montaliano, che dal neoclassicismo settecentesco della reale figurazione di partenza (pure con un tocco, come dire, borrominiano) si inoltra in una jungla verdecupa e ominosa che conduce a confuse e incerte origini, in parte soprattutto perché Montale compie, come quasi sempre, un movimento di tipo fisico-metafisico, processo poetico che ormai credo riconosciamo agevolmente. Non c'è metafisica senza realtà, non c'è rivelazione (anche se fallimentare) senza empiria. Addendum rilkiano Non è materia di queste nostre pagine una trattazione del tema letterario del cigno fra Otto e Novecento. Dovremmo quanto meno evocare, che so, Les torts du cygne del parnassiano Théodore de Banville (Les exilés, 1867), fiabesco e malinconico, oppure fermarci su Le cygne di Sully Prudhomme (nelle Solitudes, del 1869), di sinuosa preziosità, che incede con «tardive et languissante allure», uccello narcisista e snervato nella sua bellezza, simile poi, quando il 102 lago si oscura notturno, a «un vase d'argent parmi les diamants».150 Si potrebbe cosí arrivare al Cygne mort di Radiguet, tradotto da Parronchi con nervosa finezza,151 dove la vendetta di Leda si consuma indirettamente su un cigno sgozzato le cui piume vanno a riempire un cuscino, e non mancano poi angeli in accappatoio e tuffatori, in un incrocio di sublimazioni e desublimazioni davvero emblematico del moderno primonovecentesco. Ma vorremmo soltanto spendere due parole a proposito di Der Schwan (19051906) di Rilke, in Neue Gedichte (1907),152 lirica asciutta e funebre, dove l'immagine del cigno costituisce il secondo termine di una meditabonda comparazione con il vivere e lo spegnersi dell'uomo: Der Schwan Diese Mühsal, durch noch Ungetanes schwer und wie gebunden hinzugehn, gleicht dem ungeschaffnen Gang des Schwanes. Und das Sterben, dieses Nichtmehrfassen jenes Grunds, auf dem wir täglich stehn, seinem ängstlichen Sich-Niederlassen -: in die Wasser, die ihn sanft empfangen und die sich, wie glücklich und vergangen, unter ihm zurückziehn, Flut um Flut; 150 Vd. Antologia dei poeti parnassiani, a cura di Marica Larocchi, Milano, Mondadori, 1996, pp. 158-160. 151 Alessandro Parronchi, Quaderno francese. Poesie tradotte con alcuni commenti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 208-209. 152 Rainer Maria Rilke, Poesie 1907-1926, a cura di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi, 2000, pp. 52-55. 103 während er unendlich still und sicher immer mündiger und königlicher und gelassener zu ziehn geruht. Il cigno Questa pena di attraversare grevi, quasi in catene, l'ancora Inattuato, somiglia al passo inceppato del cigno. Ed il morire, questo venir meno del terreno su cui posa ogni giorno il piede, somiglia al suo ansioso discendere -: nell'acque che con dolcezza l'accolgono e che, come felici e ormai trascorse, sotto di lui onda a onda si ritraggono, mentre sicuro e infinitamente tacito, di sé signore e sempre piú regale e sereno, si compiace di incedere.153 153 La traduzione, dall'ediz. cit., è di Giacomo Cacciapaglia. La vecchia versione di Vincenzo Errante, col suo pur disidratato dannunzianesimo, è stata probabilmente quella letta da generazioni di poeti italiani (Milano, Alpes, 1929, p. 187), per cui la riportiamo: «L'aspra fatica d'avanzare a stento, / come stretti da ceppi, entro la vita / in divenire - somiglia all'informe / muover del cigno a nuoto in su l'avvío: / e l'agonia - questo mancar del fondo / ove poggiamo quotidianamente - / al suo trepido scendere nell'acque / che l'accolgon benigne e si ritraggono / sotto di lui, quasi mancando in giòlito, / mentre il cigno silente s'abbandona / securo sempre piú, sempre piú placido, - / e in sua regalità sui flutti incede». Nella stessa silloge dell'Errante (antologia del Rilke “minore”, essendo assenti le Duinesi e i Sonetti a Orfeo) si potevano leggere altre liriche con immagini di cigni, come la giovanile Sono questi i giardini in cui m'affido («Un cigno nuota / allo specchio del lago, in luminosi / giri, di sponda in sponda: e, primo, adduce / l'albor lunare sovra l'ali argentee / alla riva cui già l'ombra confonde», p. 29: forse serba memoria di Sully Proudhomme) o, nella serie seconda delle Nuove poesie, la Leda (p. 206). 104 Il procedere del cigno difficoltoso sul terreno è in parallelo con l'esistenza terrena dell'uomo, mentre il suo scivolare regale sulle acque rassomiglia al morire, o meglio, credo, alla condizione del dopo-morte, quando l'ansia è dolcemente svanita e l'uomo-cigno è sereno e silente. Impossibile non osservare che il passo incespicante del cigno rilkiano («ungeschaffnen Gang») serba probabile memoria del cigno tragicamente impedito di Baudelaire. Il movimento della poesia di Rilke, però, segue un ordine inverso rispetto a quello del Cygne dei quadri parigini. Potremmo infatti dire che un poeta come Rilke, che proprio con le Nuove poesie offre movenze di orientamento barocco-metafisico (nel senso che abbiamo illustrato finora), nella lirica sul cigno utilizza l'immagine dell'uccello, per quanto definita in certi dettagli, non come “occasione” fenomenica da investire di significati, bensí come strumento retorico per una similitudine spiegata, molto classica e aperta. Viene prima, cioè, la riflessione sulla vita e sulla morte, cui poi si applica per analogia esplicita lo stereotipo del cigno. Nonostante tale dettaglio, però, si deve aver bene a mente che Rilke è un poeta esemplare nella lignée dei fisico-metafisici, nella schiera dei poeti che dallo snodo manierista-barocco al Novecento si arrovellano sui fenomeni per dialogare con le essenze. L'approdo di Rilke al Dinggedicht, la poesia della cosa, è faticoso e doloroso, e si realizza, dopo le esperienze giovanili, proprio con le due parti dei Neue Gedichte. Il materiale tematico è squisitamente barocco-metafisico, nell'interrogazione di dati empirici come una pantera al Jardin des Plantes di Parigi, un'ortensia blu, un'ortensia rosa, una scala a Versailles, una giostra al Luxembourg, una torre, una piazza, un cieco per le vie di Parigi, una casa in fiamme, un balcone a Napoli o una barca piena di arance, un liuto, una donna alla finestra, una dama allo specchio, un arrivo in 105 carrozza, una meridiana, i fenicotteri, l'eliotropio persiano e cosí via. Risulterà ovviamente lampante la similarità delle scelte rilkiane con la topica barocca della celebrazione estetico-simbolica del piccolo e del minuto; si pensi soltanto alla splendida poesia Der Ball, dove la palla si innalza dalle mani calde di un giocatore per disegnare un'ambiguità di «Fall und Flug», caduta e volo, ritornando poi «nella coppa di due mani levate», pura e dinamicamente elementare nella sua cosalità che il poeta carica strenuamente di tensioni metafisiche. Ma non c'è metafisica che abbia accessibilità, per quanto problematica, senza una fisicità da “ascoltare”, in cui penetrare con umiltà concentrata.154 Rilke stesso, in una lettera del 17 febbraio 1914 a Magda von Hattingberg, parla del «guardare dentro un cane» (animale anti-sublime!), nel senso di «calarsi nel cane, nel suo centro esatto, calarsi nel punto partendo dal quale egli è un cane», fino a raggiungere l'unica «felicità terrena» che si dà proprio «in quel guardare dentro, negli istanti incredibilmente rapidi, profondi e senza tempo di questo divino guardare dentro».155 L'educazione alla poesia fisico-metafisica si compie in Rilke attraverso l'esperienza della scultura di Rodin, della pittura di Cézanne, come è noto, e particolarmente con l'appropriazione di Baudelaire, il nuovo paradigma di questa modernità poetica. Non è un caso che Une charogne sia la lirica piú citata da Rilke, nelle lettere o nel Malte Laurids Brigge, proprio come manifesto non solo di una estetica dell'orrore ma piú in generale di una interrogazione dell'oggettività anche piú atroce e ripugnante, incontrata «au détour d'un sentier», da cui 154 «La presenza delle cose nello spazio, il loro muto offrirsi ai nostri sensi, sono il nostro accesso alla sola metafisica possibile», come scrive Andreina Lavagetto nel commento, ediz. cit. p. 666, cui dobbiamo moltissimo. 155 Ivi, p. 639. 106 non distogliere lo sguardo bensí su cui concentrarsi fino ad abbrancare idee, essenze, moralità, per quanto poi beffarde in Baudelaire e lucidamente devastanti in Rilke. Ricordi quell'incredibile poesia di Baudelaire, Une Charogne? Forse adesso sono in grado di capirla. Se si esclude l'ultima strofa, aveva ragione. Come doveva reagire di fronte a una visione simile? Era suo compito scorgere in quell'orrore, all'apparenza solo ripugnante, l'esistenza che vige in tutto quel che esiste. Scelta e ripudio non hanno senso.156 L'ultima strofa della Charogne, che Rilke destituisce di verità, è quella che determinava la sopravvivenza della bellezza femminile nella conservazione perenne tramite la poesia e nel cuore del poeta: Alors, ô ma beauté! dites à la vermine qui vous mangera de baisers, que j'ai gardé la forme et l'essence divine de mes amours décomposés!157 Allora, mia beltà! dite al verminaio che vi mangerà di baci, 156 Cito da R.M.Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduz. di Claudio Groff, a cura di Elisabetta Potthoff, Milano, Mondadori, 1988, p. 83. Analoghi accenti nella lettera alla moglie Clara del 1907, per cui vd. Poesie 1907-1926, cit., p. 625. 157 Oeuvres complètes, cit., p. 32; annota Claude Pichois: «Par son thème, Une charogne peut être rapprochée de poèmes de l'époque baroque dont Baudelaire fut durant sa jeunesse un grand lecteur et qui illustrent le memento mori, soulignent le caractère transitoire de toute oeuvre humaine et, dans la lyrique amoureuse, font voir à la dame qui se laisse par trop prier les ravages du temps en la pressant de se donner. Pourtant, la compagne du poète […] ne paraît pas être de celles qui se refusent. Le sadisme moral n'espère pas ici une récompense» (p. 889). 107 ch'io serbo la forma e l'essenza divina dei miei amori imputriditi! Questo gesto finale cosí ostentato e per certi versi iattante suona falso all'orecchio di Rilke. Ma tutto il resto della lirica baudelairiana, versione moderna del tradizionale memento rivolto alla donna amata e variazione su un tema intimamente barocco, rappresenta un esempio assoluto di realismo estetizzante e metafisico, un monito a inchinarsi difronte alla realtà piú bassa e sconcertante per calarsi dentro la cosa, il fenomeno e trovare fuori del proprio io i significati e la bellezza dell'esistenza e dell'essenza, reperire nell'oggettività del non-io il sentiero possibile per le pulsioni soggettive allo spirituale. 108 NOTA AL TESTO Facciamo seguire il testo delle liriche di Guillén con le traduzioni di Montale secondo la lezione offerta da Mond: Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Mondadori, 1975 (dicembre). È ristampa, nello stesso anno, del Quaderno già uscito in settembre, con la correzione di alcuni refusi (vd. ad es. Mengaldo p. 194 n. 12); nel caso delle poesie e traduzioni di Guillén non ci risultano però variazioni. In calce alle poesie poniamo un apparato variantistico genetico-evolutivo (evolutivo s’intenda solo per l’Opera in versi), quindi una annotazione. I testimoni utilizzati sono: Circ: «Circoli», I, gen.-feb. 1931, 1, pp. 53-59. Nel primo numero della rivista genovese «Circoli» si pubblicano per la prima volta le traduzioni guilleniane di Montale. Un esergo programmatico, a p. 53, sotto il titolo generale Cantico, legge: «Pubblichiamo, nella traduzione di Eugenio Montale che ne costituisce un calco fedelissimo, alcune liriche di Jorge Guillén, scelte da Cantico, un libro che, pubblicato nel 1928 per i tipi della Revista de Occidente di Madrid, ha assicurato a questo giovane poeta, postosi sotto le stelle di Góngora e di Valéry, un posto di prim’ordine nella nuova poesia castigliana». Seguono le traduzioni montaliane, senza il testo originale, nel seguente ordine: Avvenimento p. 55, Presagio p. 56, I giardini, Albero autunnale p. 57, Rama d’autunno p. 58, Il cigno p. 59. Le lettere iniziali dei versi sono tutte maiuscole. C28: Jorge Guillén, Cántico, Madrid, Revista de Occidente, 1928. Advenimiento, pp. 12-13; Presagio, pp. 60-61; Los jardines, p. 65; Árbol del otoño, pp. 84-85; Rama del otoño, pp. 86-87; El cisne, pp. 136-137. 109 Come si vede, l’ordine delle liriche tradotte da Montale in Circ rispettava quello dell’edizione originale guilleniana, princeps del Cántico. Le lettere iniziali dei versi anche qui sono tutte maiuscole. Poeti: Poeti antichi e moderni tradotti da lirici nuovi, a cura di Luciano Anceschi e Domenico Porzio, Milano, Casa editrice “Il Balcone”, 1945 (finito di stampare il 20 ottobre), pp. 75-80. Le versioni montaliane da Guillén, senza gli originali, sono disposte nel sg. ordine: I giardini p. 75, Albero autunnale p. 76, Rama d’autunno p. 77, Avvenimento p. 78, Presagio p. 79, Il cigno p. 80. Le iniziali dei versi sono tutte maiuscole. Merid: Eugenio Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948 (settembre), pp. 148-179. Nel celebre esergo di autodichiarazione, Montale scrive fra l’altro: «Alcune di queste prove – le liriche di Guillén e due delle poesie di Eliot – risalgono al 1928-29». Le traduzioni che ci riguardano, precedute dai testi originali, compaiono ora in questo ordine: I giardini pp. 152-153, Ramo d’autunno 156-157, Albero autunnale pp. 160-161, Avvenimento pp. 164-167, Presagio pp. 170-173, Il cigno pp. 176-179. Le iniziali dei versi sono in alto/basso a secondo della punteggiatura. Scheiw: Jorge Guillén tradotto da Eugenio Montale, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1958. A p. 30 la nota dell’editore, Vanni Scheiwiller: «Per festeggiare l’amico Jorge Guillén oggi in Italia ristampo le sei versioni di Eugenio Montale (da Quaderno di traduzioni. Edizioni della Meridiana, Milano 1948) che risalgono al 1928-29». L’ordine delle poesie, con i testi originali, è il medesimo di Merid, di cui la presente stampa è descripta (con rarissime autonomie, tutte sui testi spagnoli: Guillén in persona aveva corretto le bozze, vd. infra n. a Presagio v. 6). Anche qui le iniziali dei versi sono in alto/basso secondo la punteggiatura. Pos: Poesia straniera del Novecento, a cura di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 1958, pp. 557-559. 110 L’antologia, ristampata nel 1960, contiene: Ramo d’autunno p. 556557, Avvenimento pp. 558-559, precedute dai testi spagnoli. Le lettere iniziali sono tutte maiuscole. OV: Eugenio Montale, L’opera in versi, edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980, pp. 745-750. L’edizione ne varietur dell’opera poetica montaliana, e quindi anche del Quaderno di traduzioni, offre il testo delle versioni guilleniane senza gli originali e ovviamente nell’ordine ormai invalso da Merid in poi. Le varianti di questo testimone sono quindi espressione dell’ultima volontà del poeta. Le iniziali dei versi sono in alto/basso secondo la punteggiatura. L’apparato critico dei curatori è alle pp. 1163 sg. L’edizione di Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1984, è derivata da OV; i testi da Guillén sono alle pp. 765-770, le note alle pp. 1142-1147. BIBLIOGRAFIA: ALBERTOCCHI GIOVANNI, «Meriggiare pallido e assorto»: un testo bitradotto (castigliano/catalano), in Strategie di Montale poeta tradotto e traduttore con una appendice su Montale in Spagna, a cura di María De Las Nieves Muñiz Muñiz e Francisco Amella Vela, Firenze, Cesati, 1998, pp. 235-257. ARQUEND ROSSÈND, «Ossos de sípia» e «Huesos de sepia» fanno «Ossi di seppia»?, in Strategie di Montale…, cit., pp. 221-234. ARCE ÁNGELES, Joaquín Arce come intermediario entre Montale y Guillén, in Strategie di Montale…, cit., pp. 191-205. ARCE JOAQUÍN, Literaturas Italiana y Española frente a frente, Madrid, Espasa-Calpe, 1982, pp. 345-353. 111 BARILE LAURA, Adorate mie larve. Montale e la poesia anglosassone, Bologna, il Mulino, 1990. BIGONGIARI PIERO, Poesia italiana del Novecento, Milano, F.lli Fabbri, 1960, pp. 180-198. BULGHERONI MARISA, Dickinson/Montale: il passo sull’erba, in Eugenio Montale, a cura di Annalisa Cima e Cesare Segre, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 91-114. BUSQUETS LORETO, Eugenio Montale y la cultura Hispánica, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 110-120. CEALLACHÁIN ÉANNA Ó, “Non qui scuola di canto”: Montale’s Late Versions of Yeats, «Italian Studies», L, 1995, pp. 72-85. DEBICKI ANDREW P., La poesía de Jorge Guillén, Madrid, Gredos, 1973. DEHENNIN ELSA, Cántico de Jorge Guillén. Une poésie de la clarté, Bruxelles, Presses Universitaires, 1968. DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ MARÍA, Sul dittico MontaleGuillén, in Strategie di Montale, cit., pp. 175-190. EAD., Montale e Guillén: le traduzioni scambiate (cronologia e retroscena), in Miscellanea di studi in onore di Claudio Varese, a cura di Giorgio Cerboni Baiardi, Manziana, Vecchiarelli, 2001, pp. 509-523. Diccionario Salamanca de la lengua española, Univ. de Salamanca, Santillana, 1996. EDO MIQUEL, Montale-Guillén: strategie di traduzioni, in Strategie di Montale, cit., pp. 207-220. FORTINI FRANCO, Montale traduttore di Guillén, in ID., Nuovi 112 saggi italiani, 2,158 Milano, Garzanti, 1987, pp. 142-149. GAREFFI ANDREA, Montale. La casa dei doganieri, Roma, Edizioni Studium, 2000. ID., I ritmi della mente di Montale, «Sincronie», VII, 2003, 13, pp. 85-97. GONZÁLEZ MUELA JOAQUÍN, La realidad y Jorge Guillén, Madrid, Ínsula, 1962. GRILLI GIUSEPPE, Montale, Maragall i la via catalana a la poesia, «Els Marges», 1976, 8, pp. 109-113. GUILLÉN JORGE, Opera poetica («Aire nuestro»), Studio, scelta, testo e versione a cura di ORESTE MACRÍ, Firenze, Sansoni, 1972. ISELLA DANTE, L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi, 1994, pp. 229-243. Jorge Guillén, el hombre y la obra, a cura di Antonio Piedra e Javier Blasco Pascual, Univ. de Valladolid, 1995. LONARDI GILBERTO, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 144-163. LUPERINI ROMANO, Montale o l’identità negata, Napoli, Liguori, 1984, pp. 162-179. MENGALDO PIER VINCENZO, La panchina e i morti (su una versione di Montale) [1983] in Id., La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003 (prima ediz. 1987), pp. 191-207. 158 L’indicazione di secondo volume è motivata dal fatto che il libro uscí in coppia con la ristampa dei Saggi italiani (prima ediz. Bari, De Donato, 1974). 113 MORELLI GABRIELE, Guillén y Montale: entre fideldad y recreación, «Insula», 1993, 554-555, pp. 42-44 (l’intero numero della rivista è dedicato a Guillén). MUSATTI MARIA PIA, Montale traduttore: la mediazione della poesia, «Strumenti critici», XIV, 1980, 1, pp. 122-148. PAOLI ROBERTO, Jorge Guillén ante Italia, «Revista de Occidente», XLIV, 1974, 130, pp. 98-116 (l’intero numero della rivista è dedicato a Guillén). Quaderno montaliano, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Padova, Liviana, 1989, pp. 119-189. SONZOGNI MARCO, Debiti e doni della traduzione poetica: Montale tra T.S.Eliot e Samuel Beckett. Appunti su Montale traduttore e tradotto, «The Italianist», XXV, 2005, 2, pp. 173-207.159 159 Sonzogni cita e discute fra l’altro un volume che non ho avuto modo di consultare e di cui riporto il dato bibliografico: George Talbot, Montale’s Mestiere Vile. The Elective Translations from English of the 1930s and 1940s, Dublino, Irish Academic Press, 1995. 114 Los jardines Tiempo en profundidad: está en jardines. Mira cómo se posa. Ya se ahonda. Ya es tuyo su interior. ¡Qué trasparencia de muchas tardes, para siempre juntas! Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes. 5 I giardini [Traduz. Montale] Tempo in profondo; scende sui giardini. Guarda come si posa. Ora s'affonda, è tua l'anima sua. Che trasparenza di sere unite insieme per l'eterno! La tua infanzia, sì, favola di fonti... 5 2. s’affonda] si affonda Poeti 5. sì] sí Merid Scheiw 1. profondo: al posto di *profondità che in italiano ricalcherebbe perfettamente profundidad: motivazione esclusivamente metrica? Si ha una prima concretizzazione dell’astratto, ma molto debole. scende: clamorosa mutazione semantica, da stasi a movimento, per di piú movimento a scendere, molto montaliano (franare, affondare, del resto sema presente nel v. sg. dell’originale, «se ahonda»: si tratta allora di una amplificatio semantica da parte del traduttore). Coerente con quanto rilevato da Mengaldo (pp. 202 sgg.) per la traduzione di Garden seat di Hardy 2. Ora: al posto di ‘già’, lieve mutazione di sfumatura semantica (anche Macrí traduce «Ed ora»). 3: è tua: minuscola compressione di «Ya», assente nella traduz. (anche al v. 5), ma si tratta spesso di forma-riempitivo in spagnolo, 115 anche se Fortini (pp. 142-43) parla di «avverbio capitale per Guillén». l'anima: al posto dell’«interior», sorta di specificazione semantica (interiore come intimo, quindi anima: Montale leggermente meno astratto di Guillén). 4. unite insieme per l'eterno!: inversione rispetto all’originale hysteron proteron, nella linea di una razionalizzazione e normalizzazione sintattica, e sempre per costruire l’endecasillabo. Inversione anche all’ultimo verso, con quel sì spostato in una posizione che produce un incespicante accento di quinta contiguo all’accento, altrettanto forte, della proparossitona favola. Sempre in questo verso 4, abbiamo la perdita di «muchas», considerato implicito, o inutile (certo, ragioni metriche soccorrono comunque per spiegare questi piccoli scarti: Montale sceglie di rispettare l’endecasillabo per tutta la lirica, in ossequio per altro all’originale, almeno in questo caso). per l'eterno!: amplificazione concettuale, da «siempre» a eterno, con aggetto di fine verso. Eco interna di Montale: cfr. Ossi di seppia, Casa sul mare, ultimo verso: «salpa già per l’eterno». 5. fonti…: l’introduzione dei puntini di sospensione sfuma maggiormente dove in Guillén c’era una assertività finale. Inoltre «Guillén disegnava un cerchio perfetto nell’esaltante unità di passato-presente avveratasi ‘finalmente, ora’ (ya)» (De Las Nieves 1998, p. 188). Rama del otoño Cruje Otoño. Las laderas de sombras se derrumban en torno. Árbol ágil, mundo terso, mente monda, guante en mano al aire. ¡Cómo aguzan su pormenor tranquilo las nuevas nervaduras! 116 5 Chimenea: exáltame en resumen lejanías de sierras. ...Sí, se enarca, extremo estío, la orografía de la brasa 10 3. Árbol ágil,] Árbol ágil… C28 Ramo d’autunno [Traduz. Montale] Scricchia Autunno. I declivi dell'ombre attorno cadono. Agile albero… Mondo e mente limpidi, guanto in mano all’aria. Come affilano calme il disegno nuove nervature! 5 Focolare dammi in breve distanze di montagne. ... E s'inarca, tarda estate, un’orografia di brace. 10 Tit. Ramo] Rama Circ Poeti 1. Autunno.] Autunno Pos 9. … E] …e Circ Poeti 1. Scricchia: piú insolito, letterario e onomatopeico rispetto a *scricchiola; cfr. Meriggiare pallido e assorto, v. 11. 2. attorno cadono: come al v. 6, calme il disegno: inversioni sintattiche che 117 inducono preziosità ma soprattutto, come le operazioni di mutazione infra, sono motivate da ragioni metriche: la costruzione di endecasillabi. Montale annulla il geometrismo ermetico razionale versolunghista (14 sillabe, alessandrini) di Guillén insediandovi il classicismo di tradizione italiana che si atteggia nobilmente in ritmi endecasillabici. Montale nega Guillén anche in questo modo. Per la resa del v. 2 cfr. De Las Nieves 1998, p. 179: «Ne risulta, in Montale, una ricreazione del virgiliano “maioresque cadunt altis de montibus umbrae” (Buc. I, 83) che difficilmente potremmo riscontrare in Guillén». 3. Agile albero…: i puntini di sospensione sono autorizzati dall’edizione ’28 della lirica di Guillén, dove comparivano, come indichiamo in apparato (vd. anche De Las Nieves 1998, p. 178 n. 11). 4. Mondo e mente limpidi: si ha una compressione rispetto all’originale, dove c’è il parallelismo sost.-agg. ≈ sost.-agg.; un fenomeno simile è esperibile anche altrove nel Quaderno di traduzioni, ad es. nella traduzione di Garden seat di Thomas Hardy. Vd. infatti il v. 10 «nor winter freeze them, nor floods drown», tradotto con «né questi sentiranno gelo o acquate», e cfr. Mengaldo p. 204. all'aria: al v. 4 al aire è tradotto da Macrí «nell’aria», come è giusto: Montale rispetta l’equivoco con una traduzione letterale che esalta la metaforicità (altrimenti, come nell’originale, si deve immaginare un vero guanto che oscilla nel vento tenuto da una mano, una specie di capei d’oro a l’aura sparsi sostituiti da un altrettanto petrarchesco ed emblematico guanto). 5. affilano: piú “elegante” ma meno stridente di «aguzan». Ulteriore elemento di ammorbidimento fonico-stilistico. 6. calme il disegno: nell’originale la connotazione di tranquillità è riferita al pormenor (disegno); Montale fa un’operazione di slittamento attributivo. 9. E: in luogo di «Sí,» risulta piú fluidificante copula che lega dolcemente, dopo i puntini di sospensione, mentre nello spagnolo l’accento forte iniziale e la virgola contribuiscono alla spezzatura, obiettivo generale. «È [in Guillén] la poetica del sí e del ya, questi “sí” e “ya” che il poeta spagnolo aggiunge spesso, nel tradurle, alle composizioni altrui e che Montale tende invece a sottrargli (si veda l’ultimo verso di Ramo d’autunno), questi “sí” e “ya” che non stanno a designare un flash sporadico come quello del caso-miracolo montaliano, bensí le rivelazioni continue e suc118 cessive che rendono qualsiasi momento eterno, atemporale. Non l’anello che non tiene, ma gli anelli che tengono sempre, la gioia di scoprire come si realizza piú volte (ya, ya, ya…) lo spettacolo delle corrispondenze in totalità simultanea» (Edo p. 215). Árbol del otoño Ya madura la hoja para su tranquila caída justa, cae. Cae dentro del cielo, verdor perenne, del estanque. En reposo, molicie de lo último, se ensimisma el otoño. 5 Dulcemente a la pureza de lo frío la hoja cede. Agua abajo,160 con follaje incesante busca a su dios el árbol. 10 7. Dulcemente] Dulcemente, C28 Albero autunnale [Traduz. Montale] Già matura la foglia pel sereno suo distacco 160 Traduz. Macrí: «A valle». 119 discende nel cielo sempre verde dello stagno. In calmo languore della fine, l'autunno s'immedesima. 5 Dolcissima la foglia s'abbandona al puro gelo. Sott’acqua con incessanti foglie va l'albero al suo dio. 10 4. sempre verde] sempreverde Circ 5. calmo] calma Circ OV 2. pel sereno suo distacco: abbiamo l’inversione sintattica di «su tranquila» (>sereno suo); poi il difficilmente traducibile «caída justa» (se non letteralmente come fa Macrí: «la sua quieta e giusta caduta») perde la connotazione di serena precisione cosmica e diventa semplice distacco (si ha quindi un fenomeno di compressione). Si noti poi l’aulicismo della preposiz. articol. pel, uno dei tanti casi in cui Montale utilizza forme della tradizione poetica per ottenere un perfetto endecasillabo (che d’altronde si potrebbe ottenere modernamente anche per altre vie…). 3. discende: un’ulteriore occorrenza della soppressione di ripetizioni («cae. Cae»); oltretutto in questo caso c’era un effetto di ribattuto, nell’originale, accentuato dalla brutale pausa del punto fermo che fessura in dittico un versicolo tetrasillabico che non ricerca di certo l’eleganza fonica. C’è da dire poi, sul piano semantico, che discende rispetto al letterale *cade esprime, anzi raffigura qualcosa di diverso, di piú nobilmente lento e sprofondante. Inoltre nell’originale il verbo «cae» non solo è ripetuto, ma si lega per figura etimologica alla «caída» del v. 2, quindi con duplice eco, mentre in Montale discende e distacco hanno se mai solo una raffinata liaison allitterante. 4. nel: rispetto a «dentro del» è piú sfumato, con perdita espressiva, ma 120 l’uso di discende, come si diceva, compensa in parte la perdita, anzi, corregge il tutto: dall’immagine di una sicura e precisa caduta dentro le acque, quasi un placido tuffo regolato da geometrie naturali, si passa a un discendere che pare progressiva lenta immersione. Il perenne “franare” montaliano vs i processi nervosi e lucidi di Guillén. sempre verde: rispetto a «verdor perenne» si ha un mutamento tipico del tradurre montaliano, in cui notiamo: trasformazione dell’aggettivo sostantivato astratto in regolare aggettivo (concretizzazione), qui con complementare riduzione dell’aggettivo «perenne» in avverbio (sempre); eliminazione dell’incidentale e quindi della sintassi franta e sincopata propria di Guillén (fluidificazione sintattica). L’uso dell’espressione sempre verde però, generalmente riferita ad alberi che non perdono le foglie (e cfr. la lez. sempreverde di Circ), accentua la distanza mitica delle acque dello stagno dalla realtà caduca dell’albero e della sua foglia, che appunto nelle acque va a cercare una sorta di sopravvivenza divino-metamorfica, cui è sotteso il mito di Glauco. 5-6. calmo / languore della fine: nuova concretizzazione, ove a «reposo» corrisponde l’aggettivo calmo e d’altra parte l’agg. sostant. spagnolo «último» (si poteva tradurre, che so, *l’estremo) diventa una regolare fine (cosí anche Macrí). Da tenere presente che l’astratto «calma» era però lezione di Circ, reintrodotta in OV, a dispetto dell’aequivocatio con la funzione aggettivale rispetto a «languore»: se la lezione calmo è errore, «è certo dovuto alla mancanza di una virgola dopo calma» (OV, apparato p. 1163). Ma non siamo certi si trattasse di errore; crediamo piú a possibile adiaforia. Vd. piú avanti Presagio 8 e 11-12. l'autunno s'immedesima: inversione sintattica. La traduzione-calco s’immedesima ovviamente può essere suggestiva, ma non rende nell’immediato il senso del verbo spagnolo, che significherebbe letteralm. ‘si astrae’ (Macrí: «è incantato l’autunno»). 7. Dolcissima: aggettivo per avverbio («Dulcemente»), ma con l’intensificazione e la soggettivizzazione in rapporto alla foglia (analogamente si nota per il Cisne e altrove). 8. la foglia s'abbandona: inversione sintattica, interna al piú generale hysteron-proteron dell’intero verso nella traduzione. Inoltre s’abbando121 na rispetto a «cede» accentua la passività femminile dolce-languida della foglia montaliana. puro gelo: nuovo rifiuto della formula sost. astr. + genitivo («pureza de lo frío»), con opzione per una tranquilla sequenza agg.-sost. e quindi concretizzazione. 9. Sott’acqua: qui, rispetto ad «Agua abajo» (letteralm.: ‘acqua sotto’), si ha una libera interpretazione che risulta coerente con l’immagine di inabissamento montaliana, piuttosto arbitraria rispetto all’originale. Macrí traduce: «A valle», liberamente anche lui, ma senza suggerire la sommersione. incessanti foglie: inversione dell’ordine sintattico e sostituzione del sostantivo collettivo *fogliame con il plurale foglie, quindi leggera concretizzazione. 10. Va: per «busca», un moto certo e cieco rispetto a una ricerca, a una investigazione che forse è «inútil pesquisa» come quella del Cisne. Anche nell’ultimo verso si ha un’inversione dell’ordine delle parole. Advenimiento ¡Oh luna! ¡Cuánto abril! ¡Qué vasto y dulce el aire! Todo lo que perdí volverá con las aves. Sí, con las avecillas que en coro de alborada pían y pían, pían sin designio de gracia. La luna está muy cerca, quieta en el aire nuestro. El que yo fuí me espera bajo mis pensamientos. 122 5 10 Cantará el ruiseñor en la cima del ansia ¡Arrebol, arrebol entre el cielo y las auras! ¿Y se perdió a quel tiempo que yo perdí? La mano dispone, dios ligero, de esta luna sin año. 15 20 10-11. nuestro./El] nuestro,/el Merid Scheiw 14. ansia] ansia. C28 17. a quel] aquel C28 Scheiw Pos Avvenimento [Traduz. Montale] O luna! Quanto aprile! O aria vasta e dolce! Tutto che già perdei tornerà con gli uccelli. Tornerà con i piccoli uccelli che mattinano e pìano in coro senza desiderio di grazia. È prossima la luna, ferma nell'aria nostra. Quello che fui m'attende di sotto ai miei pensieri. 5 10 Canterà il rosignolo sul vertice dell'ansia. 123 Porpora, ancora porpora tra l'azzurro e le brezze! S'è perduto quel tempo che smarrii? La mia mano dispone, dio leggero, di una luna senz’anni. 15 20 2. O aria] Oh aria Circ Poeti Merid Scheiw Pos 7. pìano] píano Circ Poeti Merid Scheiw 15. ancora] ancòra Circ Poeti 20. di una] D’una Circ Poeti 2. O aria vasta e dolce: inversione sintattica. 3. Tutto che: forma scorciata (*tutto ciò che) ricorrente in Montale: vd. La bellezza cangiante, da Hopkins, «tutto che muta», v. 10; Verso Bisanzio, da Yeats, «tutto che vola», v. 5; già costituisce una aggiunta, piccola dilatazione. 5. Tornerà: al posto di «Sí», può essere inteso come dilatazione, ma è soprattutto una ripetizione assente nell’originale, in decisa controtendenza rispetto all’uso anti-ripetitivo di Montale e con esito di capfinidad, piú o meno, tra le strofe, non si sa se piú elegante o piú “demotico”. 5-6. Piccoli uccelli: piuttosto che «avecillas», ulteriore piccola dilatazione e spezzatura in enjambement. 6. mattinano: in luogo di «en coro de alborada», funge da compressione, con perdita (poi recuperata dopo al v. 4, «in coro») del coro e dell’alborada in favore di un verbo denominale prezioso: nel senso del cinguettare mattutino il GDLI offre ess. di Panzini e Viani; il verbo è comunque paradisiaco dantesco: Pd. X, 141 (‘dir mattutino’, ‘far mattinata cantando’ ecc.); è inoltre omologo del celeberrimo Meriggiare. 7. e pìano: compressione di pían y pían, pían nell’ambito del regime di soppressione di ripetizioni precedentemente sospeso (v. 5); da 124 notare d’altra parte il calco pìano di pían; in coro: dislocazione del sintagma dal v. 6 al v. 7; tra i vv. 7-8 si noti l’inarcatura che spezza la coincidenza metrico-sintattica dell’originale, coerente quantomeno nelle prime strofe, mentre ai vv. 17-18 e 1819 è mantenuta l’inarcatura dell’originale. 8. desiderio: rispetto a «designio», offre concretizzazione e soggettivizzazione. 9. È prossima la luna: inversione sintattica. 10. ferma: per «quieta» è leggera diminuzione espressiva. 13. rosignolo: è invece scelta di aulicizzazione (la forma nobile petrarchesca ecc. dell’*usignolo); vd. ad es. Quel rosignuol che sí soave piagne (Rvf 311). 15. Porpora, ancora porpora: è debole dilatazione, per evitare la ripetizione secca, con inserto di «ancora». Per «arrebol»: «Color rojo que se ve a veces en las nubes por efecto de los rayos del sol» (Diccionario Salamanca); «rosso delle nubi – belletto, rossetto» sono i due significati principali che dà l’Ambruzzi nel suo classico Nuovo dizionario spagnolo-italiano ed. Paravia. 16. azzurro: per cielo è catacresi, comunque una giunta metaforica, se pure debolissima. 17. S'è perduto: debolissima compressione con perdita di «Y». 18. smarrii: sinonimo elegante per evitare la solita ripetizione sul verbo perdere (Edo, p. 212, nota anche l’omofonia sMArrii-MIaMAno).; mia, assente nell’originale, dilatazione debole. 20. una: per esta comporta astrazione, con perdita del deittico; anni: è pluralizzazione per certi aspetti normalizzante. Presagio Eres ya la fragancia de tu sino. Tu vida no vivida, pura, late dentro de mí, tictac de ningún tiempo. 125 ¡Que importa que el ajeno sol no alumbre jamás estas figuras, sí, creadas, moñadas161 no, por nuestros dos orgullos! 5 No importa. Son así más verdaderas que el semblante de luces verosímiles en escorzos de azar y compromiso. Toda tú convertida en tu presagio, ¡Oh, pero sin misterio! Te sostiene la unidad invasora y absoluta. ¿Qué fué de aquella enorme, tan informe, pululación en negro de lo hondo, bajo las soledades estrelladas? 10 15 Las estrellas insignes, las estrellas no miran nuestra noche sin arcanos. Muy tranquilo se está lo tan oscuro. La oscura eternidad ¡oh! no es un monstruo celeste. Nuestras almas invisibles conquistan su presencia entre las cosas. 20 6. moñadas] Soñadas C28 soñadas Scheiw 11. misterio! Te] misterio!: te C28 16. las estrellas] las estrellas, C28 19. ¡oh!] ¡oh, C28 20. celeste. Nuestras] Celeste!: nuestras C28 161 Sic in Merid Mond, refuso per «soñadas», ovviamente; Scheiw in questo caso corregge autonomamente. Infatti le bozze del volumetto erano state inviate dall’editore per correzione a Guillén stesso, per cui vd. De Las Nieves 2001, p. 511 n. 14. Permane tuttavia un refuso, a Cisne 17, come si può vedere infra. 126 Presagio [Traduz. Montale] In te si fa profumo anche il destino. Batte la vita tua non mai vissuta dentro di me, tic tac di nessun tempo. Che fa se il sole estraneo non illumina queste figure da noi non sognate, create sì, dal nostro doppio orgoglio? 5 Non conta. Così sono più veraci che parvenze di luci inverosimili negli scorci dell’obbligo e del caso. Tutta tu convertita nel presagio tuo, ma senza mistero!: un’irrompente verità di assoluto ti sostiene. Che fu di quell'enorme e così informe pullulare di oscuro dal profondo, sotto le solitudini stellate? 10 15 Le stelle insigni di lassù non guardano la nostra notte che non ha segreti. Resta tranquillo quel profondo buio. L’oscura eternità non è già un drago celeste! Le nostre anime conquistano non viste una presenza tra le cose. 20 1. In te si fa profumo anche il destino.] Tu sei come il profumo del tuo seno, Circ Poeti 6. sì] sí Merid Scheiw 7. Così sono più] Cosí sono piú Merid Scheiw 127 8. inverosimili] verosimili Circ Poeti OV 11-12. un’irrompente / verità di assoluto ti sostiene] ti sostiene / L’irrompente unità dell’assoluto Circ ti sostiene / L’irrompente verità dell’assoluto Poeti 13. così] cosí Merid Scheiw 14. profondo,] profondo Circ Poeti 16. Le stelle insigni di lassù non guardano] Non guardano le stelle, le alte stelle, Circ Poeti lassú Merid Scheiw 18. Resta tranquillo quel profondo buio.] Resta tranquillo lassù il fondo buio. Circ 1. si fa: consueta accentuazione del fieri sul factum («eres», tradotto fedelmente in Circ e Poeti: Tu sei); anche: in assenza di un puntello nell’originale, scatta uno stilema montaliano: cfr., per fare solo esempi memorandi, Crisalide 38-39 («e anche la vostra / rinascita è uno sterile segreto»); Dora Markus I, 19 («è una tempesta anche la tua dolcezza») ecc. 2. Batte la vita tua non mai vissuta: inversione sintattica, con anteposizione elegante del verbo, a ottenere un endecasillabo come sempre nobilmente atteggiato; compressione e perdita di «pura». 3: dentro…tempo: è esempio tipico di quei casi in cui la lingua spagnola permette, anche a traduttori emunctae naris come Eugenio, di lasciar passare un perfetto calco versale con esiti di inalterata disinvoltura rispetto all’originale. 5-6: queste figure da noi non sognate, / create sì: mutazione sintattica che recupera una maggiore linearità, rispetto al gusto per l’iperbato, per i costrutti incidentali, tipico di Guillén: rientra in una generale tendenza alla fluidificazione sintattica da parte del traduttore Montale (cfr. Busquets p. 115). 6. doppio orgoglio: di fronte a «dos orgullos» una minima variazione elegante, rispetto a una traduzione letterale che sarebbe apparsa certo brutale (*due orgogli), ma non avrebbe scompigliato il computo endecasillabico. Ennesimo esempio di opzione montaliana per un assetto formalmente sempre decoroso. Attenzione cioè a un aptum tradizionale, 128 classicista, assolutamente estraneo a quella lirica moderna che invece punta spesso allo straniamento o alla scarnificazione della retorica. 7. Così sono: inversione sintattica rispetto a «Son así». 8. parvenze: plurale per il singolare, ma soprattutto adozione di un termine iperconnotato nella poetica montaliana (cfr. Gloria del disteso mezzogiorno, ovviam.), che sposta da un «semblante» piuttosto neutro verso un lessema dall’aura fantasmatica. E difatti sconcertante, ma coerente con le «parvenze», la completa inversione semantica di «inverosimili» rispetto all’originale (ottenendo fra l’altro una antitesi perfetta fra «veraci» e «inverosimili», diversamente dalla contrapposizione piú sottile guilleniana tra «verdaderas» e «verosímiles»)! Comunque in OV si torna a «verosimili», lezione già di Circ e di Poeti. Anche il corretto pullulare («pululación») è del resto consuonante con il lessico montaliano, particolarmente Casa dei doganieri v. 19, poesia del 1930, quindi contemporanea o immediatamente posteriore alle versioni da Guillén che si possono ascrivere al biennio 1929-1930. 9. dell’obbligo e del caso: inversione della sequenza dittologica originale, «de azar y compromiso», con anche sfumature semantiche differenti. Il «compromiso» è sentito come un piú ferreo obbligo, in una concezione tutta montaliana del determinismo, o meglio meccanicismo del divenire, dalle strette soffocanti maglie; l’«azar» invece diventa caso, lo slancio soggettivo, umano cede al capriccio della catena degli eventi che potrebbe allentarsi per un istante. Non siamo molto lontani dai «disguidi del possibile» di Carnevale di Gerti (v. 58) che è del ’28 (Fortini p. 146). 11. tuo: rigettato al v. sg. rispetto all’originale, con inarcatura (segno sempre di elegante gravitas) e con il mantenimento della fisionomia del v. 10, quasi un calco; ma senza mistero!: la puntuazione esclamativa è conservata, ma l’enfasi di Guillén, che ama nella sua purezza improvvise esclamazioni, è ridotta, attenuata. Vd. anche sotto al v. 19 l’eliminazione di «¡oh!». 10. Tutta tu: fedele traduzione di «Toda tú», ma si pensa al Girasole: «Portami tu la pianta che conduce». 11-12: un’irrompente / verità di assoluto: traduzione liberissima di «la unidad invasora y absoluta» (con dislocazione del verbo in fine di verso 129 e di tutto il periodo, con acquisto di enjambement e perdita però della memorabilità scolpita del verso 12 spagnolo). Busquets (p. 115) parla di un allegro vivace montaliano che sostituisce qui occasionalmente il «ritmo lento y solemne del original». Notazioni raffinate, ma l’aspetto semantico e variantistico è ancora piú notevole in questa “traduzione”. Intanto la verità rispetto all’«unidad», correttamente tradotta nella versione in rivista del 1931, deriverebbe da una variante, forse erronea, presente in Poeti, da cui Montale avrebbe ripreso, ritoccandolo, il testo delle edizioni Merid, Mond, OV (vd. apparato di OV pp. 1163-64). Nella rivista Montale traduceva: «ti sostiene / l’irrompente unità dell’assoluto». Poi in Poeti avevamo il refuso (ma era un refuso?): «l’irrompente verità dell’assoluto». Da cui il rifacimento nelle edd. sgg. Montale in questo caso avrebbe dunque da ultimo conservato il testo senza tornare all’originale, o alla sua prima traduzione in rivista (cfr. invece sopra, v. 5 di Albero autunnale e apparato in OV p. 1163, e infra, vv. 17-19 del Cigno). Oppure ha continuato a ritenere verità come buona “interpretazione” di unidad? Ancora sospetto di adiaforia, piuttosto che di errore. Originaria era invece già la trasformazione dell’aggettivo invasora in «irrompente» e soprattutto la mutazione del secondo aggettivo absoluta in un sostantivo astratto al genitivo: «di assoluto». Avremmo qui insomma una traduzione in controtendenza rispetto alla linea anti-astrattiva e concretizzante che caratterizza il comportamento abituale di Montale verso il testo di Guillén, come noteremo soprattutto per il Cisne e come sottolinea anche il Busquets (117-18). Qui verifichiamo cioè una insolita transizione dall’aggettivale al concettuale puro. 13. e: consueta preferenza montaliana per il legame sindetico con la copula, rispetto alla sintassi sempre franta e sincopata di Guillén (cfr. ancora Busquets 115). 14. di oscuro: mi pare scelta razionale e precisa rispetto al suggestivo «en negro». 16. Le stelle insigni di lassù: si noti la solita compressione ed eliminazione della ripetizione (che rimaneva presente in Circ e Poeti); giunta montaliana è quel «di lassù» che sembra fungere proprio da zeppa a costruire un perfetto endecasillabo. 130 17. che non ha segreti: esplicazione tramite relativa del sintetico «sin arcanos», secondo la volontà di chiarificazione propria del tradurre montaliano (cfr. ancora Busquets 115); la suggestione possibile che era offerta dal lessema appena piú inusuale *arcani viene fatta cadere, accontentandosi subito Montale di una soluzione metricamente tranquilla. 18. Resta: rispetto a «se está», il consueto atto di preferenza per un durativo in luogo di una staticità assoluta del testo originale. Viene poi a cadere «Muy». quel profondo buio: Busquets (p. 118) rileva una ulteriore concretizzazione rispetto all’astratto «lo tan oscuro»; c’è da dire però che l’aggettivo profondo è normale accrescitivo dell’oscurità nella lingua italiana. 19. drago: specifica il «monstruo» di Guillén. 20. celeste!: l’esclamativa è autorizzata dalla lezione guilleniana della princeps di Cántico: vd. De Las Nieves 1998, p. 178 n. 11. 21. non viste: indubbiamente ragioni metriche motivano la scelta di tradurre cosí «invisibles», ma c’è forse una analogia con la versione di El cisne v. 4: «l'armonia che non vede» per «la armonía insegura», dove il processo di “soggettivizzazione” messo in atto da Montale traduttore è ancora piú evidente. Qualche osservazione generale. Complesso definire la sostanza dell’operazione montaliana in questo caso. La lirica di Guillén instaura una dicotomia tra il verosimile e il vero, ricacciando nello spazio del primo la realtà o pseudorealtà, valorizzando lo spazio del secondo come regno intimo, atemporale, dell’autenticità e dell’eternità, tutto interno ai due amanti, oscuro profondo ma non mai mostruoso né inquieto («le due persone comunicanti sono vedute in un processo di trasformazione ininterrotta mirata ad una loro verità piú profonda, verso una essenza», Fortini p. 145). La filosofia dello spagnolo qui pare quella di una metafisica aprioristica, piena compatta tranquilla, una stasi felice di essenza dove anche il buio è luminoso e le rose ipotetiche (vd. Macrí, introduz. a Guillén, p. 44 n., versione precedente della poesia) sono piú fragranti di quelle reali. E Montale? Semplicemente accoglie un refuso (?) che sostituisce verità a unità. La verità è disperatamente ambita da Montale (sappiamo con quale programmatico fallimento), la unità è lucentemente fruita e posseduta dal poeta spagnolo. «Guillén vede una 131 totalità dove Montale vede una lacerazione» (Fortini p. 148). Qualcosa sul termine presagio. Si pensa subito a Falsetto v. 16, al «presagio nell’elisie sfere», ma si veda anche Incontro vv. 29 sgg.: «Se mi lasci anche tu, tristezza, solo / presagio vivo in questo nembo, sembra / che attorno mi si effonda / un ronzio qual di sfere quando un’ora / sta per scoccare». Il quadro delle occorrenze ci rimanda anche in avanti al madrigale privato del ’49, Se t’hanno assomigliato, dove al v. 21 «il presagio» sulla fronte della Volpe è il marchio a sangue che il poeta vi ha impresso come segno di «perdizione e salvezza» insieme. El cisne El cisne, puro entre el aire y la onda, tenor de la blancura, zambulle el pico difícil y sonda la armonía insegura. ¡Gárrulas aguas! ¡Inútil pesquisa de músico relieve! Picos sin presas recoge la brisa que va tras lo más leve. Quiere después con la voz el Esbelto desarrollar su curva. ¡Ay, discordante aprendiz, se ha resuelto la soledad en turba! Pero... ¡Callados los blancos! se extrema su acorde: su fanal.162 Todo el plumaje dibuja un sistema de silencio fatal. 162 132 5 10 15 Nel Diccionario Salamanca abbiamo un terzo significato, oltre a faro e Y el cisne, fiel a través de una calma de curso trasparente, contempla muda y remota su alma: deidad de la corriente. 20 3. difícil] difícil, C28 11. aprendiz,] aprendiz!: C28 12. turba!] turba. C28 13. se] Se C28 17. cisne] cisae Scheiw; fiel] fiel, C28 18. trasparente,] trasparente C28 19. contempla muda y remota] Contempla, muda y remota, C28 Il cigno [Traduz. Montale] Puro il cigno sospeso tra cielo e onda, virtuoso della neve, immerge il becco capriccioso e sonda l'armonia che non vede. Garrule acque! Inutile rovello per un mùsico accento! I becchi senza presa accoglie il vento che scherza col fuscello. Vuole poi con la voce il disinvolto sviluppar la sua curva. Ah l'incauto apprendista che ha risolto solitudine in turba! 5 10 lampada per pescherecci: «canpana transparente para protejer un objeto o una luz». Ma è quasi sicuramente un faro quello del cigno, che promana luce verso l’estrema lontananza: luce-suono (acorde-fanal) con effetto sinestetico. 133 Forse... Cedono i bianchi! Già il fanale dell'accordo si strema. Tutto il piumaggio disegna un sistema di silenzio fatale. Ed il cigno fedele, di tra il lume della corrente immota, guarda l'anima sua muta e remota, divinità del fiume. 15 20 2. immerge] Immerse Circ Poeti 17. fedele,] fedele Circ Poeti OV 18. immota,] immota Circ Poeti OV 19. remota,] remota: Circ OV remota. Poeti 1. Puro il cigno: inversione sintattica; cosí per «l'anima sua muta e remota», v. 19; sospeso: assente nell’originale (sottinteso), dilatazione. Cielo: per «aire», concretizzazione. 2. virtuoso della neve: traduzione libera con para-sinonimo iperonimo (virtuoso per «tenor») e ancor piú libera con neve per «blancura», concretizzazione per l’astratto e introduzione di metafora, con inferenza molto creativa (diciamo un livello semiforte di scarto semantico). 3. capriccioso: per «difícil», sfumatura che sposta dalla schifiltosità snob del cigno guilleniano alla capricciosità nervosa: è una accentuazione espressiva in direzione di una descrizione soggettiva del cigno piú concreta; la lezione «Immerse» di Circ e Poeti sarà probabile refuso. 4. che non vede: per «insegura»: soggettivizzazione, approfondimento. 5. rovello: per «pesquisa»: aulicizzazione del lessico, accentuazione dell’ansiosità della ‘ricerca’. 6. accento: per «relieve», concretizzazione dell’astratto (vd. ess. ai vv. 2, 8, 20). 8. scherza col fuscello: per «va tras lo más leve»: concretizzazione dell’immagine astratta (scarto traduttorio di livello forte). 134 9. disinvolto: per «Esbelto»; forse anche qui è dato rinvenire una accentuazione semantica, oltretutto con una sfumatura ironica e una marca piú soggettivizzante dell’animale. 11. incauto: per «discordante»: c.s., l’aggettivazione di Montale è piú coerente con la psicologizzazione del cigno, mentre in Guillén l’astrazione è maggiore: la ‘discordanza’ dell’originale anticipava l’antitesiossimoro di soledad-turba. 13. Forse…: «il cambiamento di prospettiva viene introdotto nel testo montaliano da un Forse che riduce la certezza a mera possibilità, laddove Guillén sottolinea il salto metafisico ricorrendo alla congiunzione avversativa ‘ma’ (Pero)» (De Las Nieves 1998, p. 189); Cedono: per «Callados», verbo finito al posto di un part. agg., con perdita dell’indicazione sinestetica di suono (ovvero di assenza di suono, ammutolimento), quindi normalizzazione di una delle squisitezze metaforiche di Guillén. 13-14. Fanale…si strema: la giustapposizione di «acorde» e «fanal», con spezzatura sintattica molto guilleniana, si trasforma in un costrutto piú fluido e razionale; si ottiene inoltre una esplicazione maggiore della sinestesia. 17-18. di tra il lume / della corrente immota: traduzione libera (scarto di livello semiforte) e complessa. L’astratta «calma» si fa aggettivo immota predicato della corrente; il lume inversamente è sostantivizzazione dell’aggettivo «trasparente», con approfondimento luministico ma perdita della trasparenza. La punteggiatura nei versi 17-19 subisce in OV un restauro in sintonia con la lezione di Circ. 19. guarda: per «contempla» produce una diminuzione di intensità, nella linea dell’asciugamento espressivo praticato complessivamente dal gesto traduttorio montaliano. 20. Fiume: rispetto a «corriente» sceglie il tutto per la parte, producendo una concretizzazione con perdita di dinamicità. In conclusione, la notazione principale mi sembra la deprivazione di elementi astratti dell’originale per un esito piú concreto-psicologico, piú cordiale e familiare.163 La poesia di Guillén ne esce alterata sottilmente, intimamente, come per una rivolta montaliana verso la poesia pura (d’altronde, come sappiamo, ben autodocumentata). In senso 135 inverso, un poeta come Ungaretti traduce ad es. «la hermosa mano» di Góngora con «incanto di mano», procedendo dal concreto all’astrazione balenante.164 163 Vd. anche Edo, pp. 219 sg.: «le soluzioni capriccioso per difícil, rovello per pesquisa, disinvolto per esbelto e incauto per discordante muovono tutte in una direzione morale e comportamentale nella quale non s’iscrivono gli equivalenti spagnoli e che potenzia le qualità animiche del cigno. Stesso fenomeno nella seconda strofa di Avvenimento con la sostituzione di desiderio a designio. Varranno le modifiche montaliane a giustificare la celebre categoria orteguiana delle “deshumanización”, contestata da Guillén a nome di tutta la generazione del ’27?». Buona domanda. 164 Giuseppe Ungaretti, Da Góngora a Mallarmé, Milano, Mondadori, 1948, pp. 30-31; cfr. Niva Lorenzini, Ungaretti – Petrarca – Gòngora: per una rilettura, in Un’altra storia. Petrarca nel Novecento italiano, a cura di Andrea Cortellessa, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 139-140. 136 Sopra il vulcano A esergo dei Mottetti nelle montaliane Occasioni si legge un verso di Gustavo Adolfo Bécquer, «Sobre el bolcán la flor», poi corretto in OV: «Sobre el volcán la flor». I Mottetti sono una sezione di poesia amorosa, “petrarchista”, a dire anche dell’autore165, ma certo di un petrarchismo ibrido, guarnito di croste pre-petrarchesche e postpetrarchesche, come a dire dantesche e manieristicobarocche. Evocando Bécquer arriviamo addirittura al pieno romanticismo spagnolo, già venato di presentimenti languido-sfumati tardo-romantici e simbolisti. Tuttavia un petrarchismo romantico in Europa è ben documentabile; se lo è, soprattutto linguisticamente, per il nostro Leopardi,166 può esserlo anche per Bécquer, nelle cui rime la donna ha ad es. una mano di neve e un volto dove si mescolano brina e rose, carminio e perle, una capigliatura bionda sciolta ed omeri d’alabastro (Rimas VII, XII, Poesías sueltas X).167 Ovviamente un petrarchismo 165 Che si riferisce a Finisterre, ma retrospettivamente anche ai Mottetti, nella celebre Intervista immaginaria del 1964, già citata sopra, cap. 1: «Ho completato il mio lavoro con le poesie di Finisterre, che rappresentano la mia esperienza, diciamo cosí, petrarchesca. Ho proiettato la Selvaggia o la Mandetta o la Delia (la chiami come vuole) dei Mottetti sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre» (SM III, p. 1483). 166 La cui Ginestra, o il fiore del deserto è stata peraltro da qualcuno relazionata con la Rosa del desierto del madrileno Cienfuegos, pubblicata nel 1816 e tradotta in Italia nel 1821: vd. Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Franco Gavazzeni e Maria Maddalena Lombardi, Milano, Rizzoli, 1998, p. 589 n. 167 Abbiamo presente l'edizione delle Rime a cura di Oreste Macrí, Napoli, Liguori, 1995 (prima ediz. 1947). 137 iberico non può non essere altrettanto contaminato dai paradigmi barocchi, talché la memoria di Garcilaso non è fisiologicamente scissa da quella di Góngora, quella di Boscán da quella di Quevedo ecc. La storia europea del petrarchismo la intendiamo come vicenda di un petrarchismo plurale e inclusivo, dotato di una sua tenuta secolare.168 Ma torniamo al fiore sul vulcano. Il versicolo estrapolato da Montale appartiene a un epigramma bécqueriano di estrema grazia, che riportiamo nella lezione dell’autografo, con traduzione (Rimas XXII): ¿Como vive esa rosa que has prendido Junto a tu corazón? Nunca hasta ahora contemplé en el mundo Junto al volcán la flor. Pur vive questa rosa che hai fermato Presso il tuo cuor? Mai contemplai finora sulla terra Presso il vulcano il fior. Una prima redazione dei versi 3-4, testimoniata sempre dal 168 Rimando ancora alle precisazioni date supra, al cap. 1; vd. anche Petrarquismo plural e petrarquismo de koinè, in Petrarca 700 anos, a cura di Rita Marnoto, Coimbra, Instituto de Estudios Italianos da Faculdade de Letras da Universidade de Coimbra, 2005, pp. 121-129; poi in italiano, Appunti sul petrarchismo plurale, «Italianistica», XXXIV, 2, 2005, pp. 71-75. Per i rapporti MontaleBécquer si vedano almeno: Loreto Busquets, Eugenio Montale y la cultura Hispánica, Roma, Bulzoni, 1986, pp. 133-38, 30; Angelo Marchese, Le ispiratrici dei Mottetti, in Strategie di Montale poeta tradotto e traduttore con una appendice su Montale in Spagna, a cura di María De Las Nieves Muñiz Muñiz e Francisco Amella Vela, Firenze, Cesati, 1998, pp. 119-141 (cap. 4, Montale e Bécquer, pp. 138-141); E. M., Le occasioni cit., introduz. di Isella ai Mottetti p. 77. 138 ms. autografo del Libro de los gorriones e ivi cassata, recitava: Sobre un volcán hasta encontrarla ahora nunca he visto una flor.169 La versione definitiva è piú efficace, per l’intensificazione del contemplé rispetto ad he visto, per l’illimpidimento sintattico, per la rinuncia alla prosaica espressione hasta encontrarla ahora ecc., ma soprattutto per la resultanza di aggetto finale prezioso: junto al volcán la flor, che nella vulgata postuma diventa appunto sobre el volcán la flor.170 Proprio questa chiusa araldica rimase nella memoria di Montale che la ripropone ad epigrafe dei suoi Mottetti,171 tutti pieni del resto di assunzioni metaforiche dei dati naturali, oggettuali, secondo una poetica metafisica che è stata piú volte cribrata. La storia dei rapporti di Montale con il poeta sivigliano non si limita a questo omaggio. Va ricordata senz’altro la traduzione della Leyenda in prosa El rayo de luna apparsa nei Narratori spagnoli a cura di Carlo Bo del 1943 (Milano, Bompiani). Ancor piú indicativa e ben meno “professionale” la presenza bécqueriana in un altro luogo dell’opera montaliana: nella prosa Dov’era il tennis…, apparsa in rivi169 Vd. ora G.A.Bécquer, Rimas, edizione critica di Luis Caparrós Esperante, Alicante, Biblioteca Virtual Miguel de Cervantes, 2003, disponibile online sul sito http://cvc.cervantes.es/obref/rimas/ 170 Da notare che anche la lezione en el mundo diventa en la tierra, dall'edizione Madrid 1871 in poi. Macrí ritiene «redazionali dei curatori» le correzioni a stampa rispetto al ms. autografo Libro de los gorriones, Biblioteca Nacional di Madrid 13.216. 171 Altrettanto rilevante è l'esergo della Bufera, con i versi di Agrippa d'Aubigné, su cui ora vd. Carla Riccardi, Il punto su Clizia e su vecchie e nuove fonti dalla «Bufera» a «Gli orecchini», «Nuova rivista di letteratura italiana», VII, 2004, 1-2, pp. 327-382: 373-82. 139 sta nel 1943, poi inserita nella parte III «Intermezzo» della Bufera (OV pp. 215-16), Bécquer ha l’onore della citazione diretta di tre suoi versi, dalla nota poesia su un’arpa abbandonata; sono il primo, il secondo e il quarto verso della strofa iniziale, che citiamo interamente (Rimas VII): Del salón en el ángulo oscuro, de su dueña tal vez olvidada, silenciosa y cubierta de polvo, veíase el arpa. Ancora una volta gli oggetti di Montale, corrosi da «cancrena» e «iniquità», ma pure fosforescenti di lampi metafisici, ospitano nel loro catalogo-catena un reperto bécqueriano: le parole del sivigliano diventano qui esemplari dell’abbandono, della derelizione ambientale e simbolica. Nelle occasioni pubblicistiche in cui Montale fa il nome di Bécquer, i connotati evidenziati sono pertinenti a una sfera di purezza e ingenuità, come a volerlo isolare in un decimonónico limbo di romanticismo esente da complicazioni ulteriori, soprattutto pensando agli sviluppi otto-novecenteschi della poesia iberica, da Machado a Guillén ecc., ma anche considerando una vena baroccosurrealista che percorre tutta la lirica spagnola e che Montale non sempre dichiara di amare. Ecco allora i riferimenti a «…l’ingenuo sentimento di un Bécquer» (1956, intervento a proposito del Nobel a Jiménez: in SM II, p. 1993), al «piú puro dei romantici: Bécquer» (1961, SM II, p. 2359: relativamente non alle poesie, quanto ai racconti delle Leyendas). Tornando all’epigramma della rosa sul vulcano, ci preme illustrarne la particolare dinamica, che si inserisce nella modalità poetica di traccia barocco-metafisica su cui abbiamo scritto, eresia del petrarchismo di lunghissima durata, dallo snodo cinque-secentesco fino a Baudelaire e di 140 qui al novecento di Montale, appunto, nonché di Rilke, Eliot ecc., come sappiamo. Bécquer parte da un rilevamento empirico, da un minuscolo evento: la donna ha preso un fiore e lo ha appuntato sul proprio seno. Piccolo gesto, pieno di malia, ma comunque connotato da un suo umile “realismo”. Dall’osservazione dell’empiria il poeta estrae una domanda concettosa: come può un fiore vivere sul vulcano?, fondata sulla metafora seno-vulcano. L’estrazione del paradosso da una situazione o vicenda è classica, iterata ad esempio nell’Ovidio delle Metamorphoses, nonché nella tradizione epigrammatica. Nei versi di Bécquer notiamo quel passaggio dal dato reale, concreto, all’astrazione emblematica: vulcano e fiore sono pertinenti al regno araldico, ideale, al dominio delle essenze, quel dominio frequentato dalla poesia pura del petrarchismo ortodosso, che parte dalle astrazioni metaforiche per restare in esse, aprioristicamente rispetto alla realtà. Il processo fisico-metafisico è invece un processo eretico, di riscoperta del reale per poterlo trascendere, ed è la grande novità-discontinuità dell’età manieristico-barocca, l’età di Donne, di Shakespeare, di Marino, di Galileo, di Quevedo, di Cervantes. Fondazione del moderno in poesia che troverà una rifondazione nella metà del diciannovesimo secolo con Baudelaire. Bene, in questa linea che abbiamo chiamato di “realismo metafisico” la presenza di Bécquer è occasionalmente significativa, ad es. con l’epigramma che stiamo interrogando. A conferma della partenza episodicoquotidiana del gesto poetico si dispone di un’altra lirica bécqueriana strettamente legata a Rimas XXII, ed è il n. XVIII della raccolta (sempre secondo la numerazione vulgata postuma, che non corrisponde all’ordine dell’autografo): Fatigada del baile, encendido el color, breve el aliento, apoyada en mi brazo del salón se detuvo en un extremo. 141 Entre la leve gasa que levantaba el palpitante seno, una flor se mecía en compasado y dulce movimiento. 5 Como en cuna de nácar que empuja el mar y que acaricia el céfiro, tal vez allí dormía al soplo de sus labios entreabiertos. 10 Oh! quién así, pensaba, dejar pudiera deslizarse el tiempo! Oh! si las flores duermen, ¡qué dulcísimo sueño! 15 Stanca per il ballo, incendiato il color, breve il respiro, appoggiata al mio braccio del salone si arrestò ad un angolo. Entro la lieve garza che sollevava il palpitante seno, un fiore si cullava in compassato e dolce movimento. Come in cuna di madreperla che il mar sospinge e che accarezza il zèffiro forse vi dormía al soffio dei suoi labbri semiaperti. Oh! chi cosí, pensavo, lasciar potesse scivolare il tempo! Oh! ma se i fiori dormono, che dolcissimo sogno! 142 In questa lirica di mondano affanno e trasfigurazione il dato di partenza è ancora piú definito e concreto: si tratta di una scena di ballo in un salón (location consuetamente romantica), quindi di un realistico momento di stanchezza della donna che si ferma in un angolo della sala a riprendere fiato. La contemplazione del fiore ondeggiante sul seno velato di lei provoca la verticalizzazione mitico-onirica, cosicché dal dettaglio di un istante si sprigiona una réverie di eternità equorea cullante. Insomma, il processo di elaborazione metafisica dell’empiria si compie anche questa volta, come già nella poesia cortigiana manierista e barocca, dove la mondanità sublimata era di casa (si pensi, per fare un esempio italiano, alla Ferrara di Pigna e di Tasso).172 Non si vuole dire che Bécquer avesse necessariamente modelli specifici cinque-secenteschi per la sua invenzione della flor e del volcán. Potrebbe averne avuti: io non ho ancora rinvenuto un luogo da poter definire positivisticamente “fonte”. Certo, la metafora del petto-mongibello è res nullius (piú spesso il petto dell’amante, però), mentre il fiore sul seno è locus di ancor piú antica data: «Ah, s’io fossi una rosa di porpora, e tu mi prendessi, / e il tuo seno di neve mi donassi!» (Ant. Pal. V, 84, trad. Filippo Maria Pontani). Quel che conta è la movenza epigrammatica bécqueriana, il suo vettore fisico-metafisico, come abbiamo detto. Ed è tale il gesto che inserisce la poesia del sivigliano nel percorso della modernità realistico-metafisica. A una tappa piú avanzata del medesimo percorso si pone Montale, di cui risulta cosí meno enigmatica la citazione del fiore sopra il vulcano di Bécquer all’ingresso dei suoi barocco-metafisici Mottetti. 172 Vd. ancora il cap. 1 di questo volume. 143 Io, Esterina La lirica di Montale Falsetto, scritta non oltre il febbraio del 1924, è una intelaiatura di figurazioni mitiche, di doppi mitici di Esterina, fanciulla reale al punto di mantenere nella poesia il nome proprio originario.173 Credo che si possa ipotizzare anche un riferimento criptico al mito di Io, amata da Giove, per i vv. 1-7, mercé una celebre mediazione pittorica, ovvero Giove e Io di Correggio,174 1531 circa, 173 Su Esterina Rossi, ritratta in una medaglia dallo scultore Francesco Messina, ed anche in una celebre foto nell'atto di tuffarsi, vd. Giuseppe Marcenaro, Eugenio Montale, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 18, 177178; Francesco Messina, Primi giorni, Milano, Rusconi, 1974; Eugenio Montale. Immagini di una vita, a cura di Franco Contorbia, introduz. di Gianfranco Contini, Milano, Mondadori, 1996, p. 81; Una dolcezza inquieta. L'universo poetico di Eugenio Montale, di Giuseppe Marcenaro e Piero Boragina, Milano, Electa, 1996, p. 87; E. Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina 1923-1925, a cura di Laura Barile, Milano, Scheiwiller, 1995, pp. 106-108. Su Falsetto c'è ampia bibliografia; segnaliamo tra l'altro, di recente, Francesco Bausi, Una donna di Montale: Esterina, «Studi italiani» VI, 1994, 2, pp. 119-127; Antonio Zollino, Poliziano nel «Falsetto» di Montale, «Critica letteraria», XXV, 1997, pp. 77-90; Bruno Porcelli, Arsenio, Arletta, Crisalide, Esterina e le metamorfosi dell'«Alcyone», «Rassegna europea della letteratura italiana», 15, 2000, pp. 67-81: 80-81; Angiola Ferraris, Se il vento. Lettura degli «Ossi di seppia» di Eugenio Montale, Roma, Donzelli, 1995, pp. 11 sgg.; Tiziana Arvigo, Guida alla lettura di Montale, Ossi di seppia, Roma, Carocci, 2001, pp. 41-45. Si distingue per ricchezza esegetica l'edizione di Ossi di seppia a cura di Pietro Cataldi e Floriana D'Amely, Milano, Mondadori, 2003: pp. 18-22. Su alcuni paradigmi mitici per Esterina vd. Gilberto Lonardi, Il Vecchio e il Giovane e altri studi su Montale, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 191-192. 174 Consultando gli indici dei volumi mondadoriani delle prose di 144 presente al Museo storico artistico di Vienna, ma riprodotto in infiniti libri d'arte. La ninfa è infatti posseduta dal dio in forma di nube che nel dipinto si addensa appena in corrispondenza del volto e della grande “zampa” o braccio che avvolge Io. Il fumo-nube sta inghiottendo la fanciulla che è presa da un languore e un abbandono decisamente erotici, prebarocchi. Presto cioè sarà sommersa e posseduta da Giove («cum deus inductas lata caligine terras / occuluit tenuitque fugam rapuitque pudorem», suona Ovidio brachilogico, Metam. I, 599-600), perdendo la propria verginità e dando cosí addio alla propria fanciullezza. Come Esterina, è colta nel momento in cui abbraccia il suo divino amico. Certo, nel mito si ha una deflorazione, mentre l'eroina di Montale si slancia volontariamente nella nebbia e nel mare dei vent'anni. Tanto è vero che subentra immediatamente il richiamo al mito della Fenice, con Esterina che emerge bronzea e viva dal «fiotto di cenere», proiettata verso orizzonti lontani e luminosi. E la quasi ventenne subisce una ulteriore metamorfosi mitografica, Montale, reperisco tre occorrenze di Correggio. La piú interessante è (per la datazione alta) in un articolo del 1926, dove Eugenio recensiva il volume di Cecchi Pittura italiana dell'Ottocento: vi si legge del «chiaroscuro sfumato che il Correggio derivò da Leonardo» (SM III, p. 1358). Nel celebre intervento sul libro di D'Ors, del 1945, Montale indicherà: «All'insegna del barocco noi incontreremo perciò senza sorpresa, non solo Correggio e Claudio Lorenese, Rubens e Tintoretto, Rembrandt e Goya, non solo (inevitabilmente) Palestrina e Bach, ma anche le Confessioni di Gian Giacomo e Robinson, Paolo e Virginia e Atala e persino lo Zio Tom della Beecher Stowe; e in genere tutta l'arte o la letteratura in cui la Sehnsucht dell'esotico e dell'irraggiungibile abbia fatto la sua apparizione» (ivi, p. 1373). Infine in un saggio del 1952, introduttivo a un'edizione della VII giornata del Decameron curata da Mario Fubini, troviamo un riferimento cursorio al pittore: vd. SM I, p. 1324. I riferimenti manualistici allo “sfumato” sono ben poco significativi; in ogni caso la conoscenza dei dipinti piú celebri del Correggio (fra cui Giove e Io) non è presumibile soltanto in un ottimo conoscitore dell'arte come Montale ma in qualunque persona di buona cultura. 145 assembrandosi a Diana arciera, peraltro divinità casta, nonostante l'amplesso col dio ignoto, anzi con l'ignoto tout court, che Esterina compie nella poesia. Ancora, la giovinetta sarà Glauco, ai vv. 33-35, «un'equorea creatura / che la salsedine non intacca / ma torna al lito piú pura». La mediazione dannunziana175 non deve farci dimenticare che la tradizione allegorica di Glauco è duplice e speculare: da una parte si leggeva nell'assimilazione di Glauco al regno marino un trasumanare spiritualizzante (ed è il caso dell'uso che l'Alighieri fa del mitologema), un indiarsi panico (come in D'Annunzio), dall'altra si riteneva che la trasformazione in creatura acquatica comportasse un processo di corruzione e incrostazione moralmente negativo (ed è la tradizione ermeneutica platonica, seguita ad esempio da Della Casa).176 Montale vuole smentire la lettura di tipo corruttivo («la salsedine non intacca ma…»), ribadendo che Esterina-Glauco torna dall'immersione piú pura di prima, ritemprata e senza scorie. Nonostante l'empito vitalistico della lirica, non bisogna tuttavia obliare che il tuffo di Esterina, coraggioso affidarsi all'ignoto, per quanto “amico”, è pur sempre un tuffo, emblema cioè della morte (con o senza rinascita), dai tempi antichi177 fino a Montale, nella cui opera poetica l'immagi175 Alcyone, Ditirambo II; cfr. Porcelli, Arsenio, Arletta, Crisalide, cit. «Già lessi ed or conosco in me sí come / Glauco nel mar si pose uom puro e chiaro, / e come sue sembianze si mischiaro / di spume e conche e fêrsi alga sue chiome» (Giovanni Della Casa, Rime, a cura di Stefano Carrai, Torino, Einaudi, 2003, p. 207; da notare che il celebre sonetto casiano continua con l'evocare un mito di tuffo mortale, quello di Esaco trasformato in smergo, per cui vd. Ovidio, Metamorfosi XI, 751 sgg.; vd. anche Petrarca, Triumphus Cupidinis II, 160-62.). Glauco fu, come si sa, pescatore della Beozia, tramutato in divinità marina dopo aver mangiato un'erba magica. Cfr. Ov., Met. XIII, 917-68; Platone Repubblica 611c: nel primo si ha una purificazione, nel secondo una contaminazione; per Dante, cfr. Par. I, 68-69. Purificazione con Glauco anche in T. Tasso, Rime 39, 12-14; vd. poi Petr., Tr. Cup. II, 172-74. 177 Vedi ad es. la cosiddetta tomba del tuffatore a Paestum (Museo 176 146 ne in questione ricorre spesso. Ad esempio in Verso Vienna nelle Occasioni, dove un «nuotatore» addita il ponte dove si passa «con un soldo di pedaggio», poi saluta e sprofonda nella corrente identificandosi con essa (vv. 10-13), evidente testura metaforica a suggerire un viaggio ultraterreno, come Isella indica nel suo cappello alla poesia.178 Piú avanti nel tempo del secondo Montale ecco una lirica emblematica come Il tuffatore nel Diario del '71, dove ben montalianamente chi è sul trampolino, chi ritorna a nuoto dopo il tuffo, chi fotografa, il poeta stesso, insomma tutti i viventi sono morti in una collettiva inesistenza; l'immagine del tuffo diventa allora fulcro allegorico di una morte che è talmente onnipresente da non darsi piú come tragedia puntuale, sí come colore neutro omogeneo del tutto. Ancora, per altri avatars del tuffo-morte nell'Opera in versi, vd. A C., sempre nel Diario del '71, con quel «rituffarci dallo scoglio» (v. 5) ormai tardivo e impossibile suicidio ambiguo, oppure si pensi all'altra splendida poesia per Clizia della vecchiaia, Poiché la vita fugge (OV p. 701, in Altri versi), dove la morte è detta «il gran tuffo» (v. 25). Se «il ragazzo col ciuffo non sapeva / se buttarsi nel mare a grandi bracciate» (L'educazione intellettuale, vv. 23-24, in Quaderno di quattro anni), diversamente dalla sicurezza di Esterina che non esitava, il motivo è anche perché l'abbraccio col mare può essere mortale; si veda infatti, sempre negli Ossi di seppia, L'agave su lo scoglio: «ora son io / l'agave che s'abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d'alghe / che spalanca ampie gole e abbranca rocce» (vv. Archeologico Nazionale), risalente al quinto secolo a.C. 178 «Ma alcuni particolari (il convito, a cui nessuno siede ancora né si sa chi vi siederà; il ponte, il soldo di pedaggio necessario per passarlo, quasi obolo acheronteo, e l'oltre confine che l'”emerso” addita come sua meta) suggeriscono tutt'altro viaggio, verso una meno turistica destinazione comune» (E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996, p. 34). 147 15-19). E non si dimentichi la «conclusiva funzione tombale assegnata al mare» della lirica I morti, come si esprime Pietro Cataldi.179 Lo «scoglio / che ti portò primo sull'onde» della lirica Bassa marea delle Occasioni (poesia arlettiana del 1932) sarà parte di un ennesimo franare funebre verso il nulla, irrefrenabile: «la discesa / di tutto non s'arresta». Proseguiamo a percorrere la serie di richiami intratestuali all'interno dell'OV, soprattutto in proiezione, come ad es. per l'immagine del fumo denso poi scosso dal vento (Falsetto 5-7). Si evochino i versi «al soffitto lenta sale / la spirale del fumo / […] …s'apre la finestra / non vista e il fumo s'agita» in Nuove stanze (vv. 3-4, 11-12), lirica delle Occasioni fra le piú cupamente foriere di bufera nel ciclo di Clizia: cosí il fumo-incenso della sigaretta della donna si traduce, nel consueto processo di poesia metafisica, in emblema di religiosa e però turbata potenza soteriologica. Ancor piú emozionanti e mèmori di Falsetto risultano i versi del mottetto Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo: «A un soffio il pigro fumo trasalisce, / si difende180 nel punto che ti chiude. / Nulla finisce, o tutto, se tu fólgore / lasci la nube» (58). In questo modo si potrebbe vedere in Esterina una precorritrice inconscia di Clizia, sebbene la posteriore donnaangelo emerga dalla nube come folgore manzoniana, mentre la pagana Esterina riassume in sé come abbiamo visto un corpus mitografico molto meno severo e piú sensuale (non si scordi però che la fenice era considerata figura di Cristo!). Da notare d'altronde che Esterina-Diana anticipa anche la Clizia-Artemide che attraversa «illesa» le 179 Si dovrà poi richiamare L'Homme et la Mer dalle Fleurs du mal, importante anche per la sequenza di Mediterraneo. Su cui fondamentale resta l'esegesi di Romano Luperini, Montale o l'identità negata, Napoli, Liguori, 1984, pp. 30-68. 180 Precedente lezione cassata: làcera, piú prossima a Falsetto 7; per le varianti del mottetto vd. E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., pp. 98-99 148 guerre umane in La frangia dei capelli, pezzo fra i piú gloriosi per l'eroina di Finisterre. Mentre Esterina «sommersa» (v. 5) è un doppio piú fortunato (ma provvisoriamente) di Arletta: «Oh sommersa!» (Incontro 46, su precedente «Oh Arletta!» in rivista). Curioso ritorno del fumo metaforico è poi quello di Opinioni in Diario del '72, dove si dice che ritenere la vita «sostanza» o «materia» è sciocco quanto considerarla «una fumata / che condensa, o rimuove, ogni altro fumo» (vv. 7-8). Nel processo correttorio prima della fumata abbiamo un fiato e poi un fumacchio (vd. OV p. 1099), mentre rimuove è correzione su distingue; dalla prima redazione si evince poi che gli altri fumi rappresentano gli esseri umani: «e tali noi saremo senza il vantaggio di essere tangibili». L'ironia distruttiva dell'ultimo Montale (semplice faccia alternativa stilisticamente della stessa medaglia) sembra demistificare ogni valore simbolico del fumo stesso... Infine si può citare il “montalismo” del Diario postumo: «Ma all'improvviso lo spettacolo muta. / Lontano, grigio e livido, il fumo / di una petroliera appare e si dissolve / lieve in un arcobaleno» (p. 29). Le epifanie del fumo181 sembrano doversi sempre caratterizzare per questa nervosa motilità di condensamento e dissoluzione repentina: una metafora ossessiva? In proposito rileggiamo pagine intelligenti in un libro del '79 di Giusi Baldissone, Il male di scrivere, che offriva un'analisi in particolare di Falsetto molto suggestiva.182 Altre connessioni intratestuali: i «venti autunni», oltre che vènti autunnali, sono ovviamente i venti anni di Esterina, e allora cfr. «i vostri pochi Autunni» della Lettera levantina del feb.-giu. 1923, vicina a Falsetto. Il v. 21, «La 181 Può avere un senso evocare anche il ruolo teofanico del fumo nella Bibbia (Ap 15, 8; Is 6, 4; Ez 10, 4; Es 40, 29 sgg.)? 182 Giusi Baldissone, Il male di scrivere. L'inconscio e Montale, Torino, Einaudi, 1979. 149 dubbia dimane non t'impaura», viene echeggiato in Barche sulla Marna, nelle Occasioni: «il domani velato che non fa orrore». La conclusione di Falsetto è rammemorata nel Quaderno di quattro anni, Sotto la pergola, ove gli ultimi versi suonano: «Fu tuttavia perfetta con ore di tripudio / la reticenza,183 quella che sta ai margini / e non s'attuffa perché il mare è ancora / un vuoto, un supervuoto e già ne abbiamo / fin troppo, un vuoto duro come un sasso». Il Diario postumo conserva poi, come è noto, lacerti di memoria autocitatoria (se è Montale l'autore al cento per cento): «grigiorosea nube» (Falsetto 2): «chiarore grigiorosa» (Non lo sapremo mai, se furono 7); «un presagio nell'elisie sfere» (Falsetto 16): «le porte / dell'eliso» (Resta lontano dalle secche 6-7); «La dubbia dimane non t'impaura» (Falsetto 22): «La tua età m'impaura» (30 gennaio o 30 anni 1); «il tuo profilo s'incide / contro uno sfondo di perla» (Falsetto 44-45): «Sulla porta si profila / un'aerea figura» (Mattinata 1-2) ecc. Legami piuttosto rilevanti ha Falsetto con la serie Mediterraneo: ad esempio il motivo della spinta all'abbraccio panico. «Or, m'avvisavo, la pietra / voleva strapparsi, protesa / a un invisibile abbraccio; / la dura materia sentiva / il prossimo gorgo, e pulsava; / e i ciuffi delle avide canne / dicevano all'acque nascoste, / scrollando, un assentimento» (Scendendo qualche volta 13-20). Siamo sull'ovvio, sul non squisito, come direbbe Contini, e forse piú intrigante sarà cogliere una eco implicita della tuffatrice Esterina in chiusa alla medesima poesia di Mediterraneo appena citata, cioè nei versi che suonano «Con questa gioia precipita / dal chiuso vallotto alla spiaggia / la spersa pavoncella» (29-31). Gli è che la fanciulla di Quarto dei Mille era chiamata da Montale, nelle lettere a Bianca Messina, oltre che «cara scu183 Variante cassata: «l'inesistenza»; per questa e altre interessanti lezioni precedenti vd. OV p. 1118. 150 gnizza», «casta donzella Ester della tribú de' Rossi» ecc., appunto «la nostra pavoncella» (ed. Barile cit., pp. 43, 46, 54, 63). Come non pensare che l'uccello sperso ma felice di questi versi, precipite verso la spiaggia e verso il mare amico, in sintonia perfetta e incosciente con la natura di cui è parte, non sia una reincarnazione della altrettanto selvatica-divina Esterina? Anche il tema della purificazione operata dal mare è presente in Mediterraneo: si vedano i versi finali di Antico, sono ubriacato dalla voce. «e svuotarmi cosí d'ogni lordura / come tu fai che sbatti sulle sponde / tra sugheri alghe asterie / le inutili macerie del tuo abisso». In questa lirica d'altronde il mondamento investe anche la stessa identità, che il mare con la sua legge severa e rischiosa assorbe e annulla nell'immenso indistinto. Ci piace anche prospettare una sorta di lettura barocca della poesia, ponendola in relazione col topos secentesco della “bella nuotatrice”. Sul tema hanno sonetteggiato Scipione Errico, Girolamo Fontanella, Bernardo Morando e molti altri marinisti. Prendiamo un esempio dalla silloge crociana che nel 1910 inaugurava la collana degli «Scrittori d'Italia»: si tratta del sonetto del Fontanella, che vogliamo riportare per intero: Lilla vid'io, qual matutina stella,184 spiccando un salto abbandonar la sponda, e le braccia inarcando, agile e snella, con la mano e col piè percuoter l'onda. La spuma inargentò canuta e bella, ch'una perla sembrò che vetro asconda, e disciolta nel crin parea fra quella 184 La stella Diana di Guinizzelli: verrà sempre dallo stilnovista il verbo assembra (Io voglio del ver la mia donna laudare v. 2)? Bausi propone, forse piú convincente, Poliziano, a pp. 122 sg. del saggio cit. 151 nuova aurora a veder, candida e bionda. L'onda dolce posò, zefiro tacque, e dove il nuoto agevolando scorse, tornâr d'argento e di zaffiro l'acque. A mirarla ogni dea veloce corse, e fu stupor ch'ove Ciprigna nacque, un'altra Citerea dapoi ne sorse. Non vogliamo perder tempo su possibili intertestualità puntuali, anche se lo «spiccare un salto» di Lilla ci fa pensare all'Esterina «come spiccata da un vento», mentre lo «sfondo di perla» (Falsetto 45) ci sembra di una preziosità a questo punto tutta barocca, eccètera, ma vogliamo puntualizzare altre cose. L'impostazione del sonetto del Fontanella è quella di una assunzione di un dato non sublime (una ragazza che si tuffa e fa il bagno) ai fastigi di una bellezza mitica e metafisica. Siamo cioè al cospetto di una modalità poetica che ormai riconosciamo abbastanza bene. In modo analogo si comporterà Tommaso Crudeli nella celebre anacreontica sulla Bella notatrice, esempio tra i piú lucenti di Barocco in Arcadia, per dirla col Calcaterra, ovvero di persistenza e rielaborazione di figurazioni e sostanze secentesche nella poesia del secolo XVIII. La vergine del Crudeli, sensualmente denudatasi («poi sull'algoso masso / lasciò cadere abbasso / la veste piú sottile», vv. 30-32: cfr. il «masso brullo» e l'«alga» di Falsetto, vv. 27, 32), si getta nelle acque trasfigurata in Venere: Qual nella selva idea all'antica tenzone apparve Citerea con Pallade e Giunone, tale a questi occhi miei si fe' veder costei che si gettò repente 152 entro del sen marino, dove velocemente colle candide braccia ella spumoso si facea cammino. [vv. 33-43]185 Anche la fanciulla conosciuta da Montale a Quarto nell'estate del 1923, atletica e amante del mare, verrà colta nel suo tuffo e sublimata con molteplici proiezioni mitiche, nonché eternata in una complessità di simboli e pensiero. Certo, la poesia montaliana deve piú alla declinazione inglese e metafisica del barocco, piuttosto che alla sensualità marinista italiana (anche se non mancano “metafisici” peninsulari, fra Ciro di Pers e Lubrano, tanto per citare i piú citati).186 Tuttavia non è insolito in Montale cogliere uno sguardo elegante (e snob) alla poesia straniera magari cripticamente ibridato con una persistente (e inevitabile) osservazione e penetrazione della tradizione italiana, anche la piú impensabile, come ormai innumeri rilievi critici hanno evidenziato. 185 Cito da Poeti erotici del secolo XVIII, a cura di Giosue Carducci, Firenze, Barbèra, 1868, pp. 286-87. Piú recentemente si veda: Tommaso Crudeli, Poesie con appendice di Prose e Lettere, a cura di Gabriella Milan, Comune di Poppi, 1989, p. 46 (la curatrice, che si basa sul testo dell'edizione postuma del 1746, osserva di passaggio che della figurazione della fanciulla nuotatrice una «ultima dissolta eco si può cogliere nell'immagine di Esterina disegnata da Eugenio Montale in Falsetto», p. 44); sempre nel 1989 è uscita anche l'edizione delle Opere del Crudeli a cura di Tommaso Catucci, Roma, Bulzoni, di cui si veda p. 125 e a p. 127 il congruo richiamo all'episodio tassiano delle «natatrici ignude e belle» di Liberata XV, 59 sgg. 186 Per tutto questo, rimando supra, Petrarchismo metafisico. Per un neoclassicismo sottilmente “ironico” di Falsetto vd. invece Ettore Bonora, Lettura di Montale. 1. Ossi di seppia, Torino, Tirrenia, 1980, pp. 60-64. Segnaliamo poi che per la figura del fanciullo col lacciuolo che prende la lucertola, Bonora richiamava suggestivamente l'Apollo sauroctono di Prassitele, di cui ai Musei Vaticani c'è una riproduzione; ancora, per l'espressione «equorea creatura», piuttosto che a D'Annunzio rimandava a Leopardi, Alla Primavera v. 94 e Inno ai Patriarchi v. 58 («equoreo seno», «equoreo flutto»: p. 62). 153 Naturalmente occorrerebbe allora fare qui una lunga digressione su Montale e il barocco, soprattutto italiano.187 Sul pensiero montaliano relativamente al barocco storico e categoriale, abbiamo testimonianze da auscultare, come la recensione al libro di Eugenio D'Ors, pubblicata nel 1945, che però non ci rivela molto, anzi, scopre la consueta aurea mediocritas di Montale “critico”: «Noi non crediamo che il qualificativo di “barocco” potrà andar disgiunto neppure in avvenire, allorché un'opera d'arte ci s'imponga specificamente come barocca, da una sfumatura almeno limitativa» ecc.188 Partiamo allora da quel verso di Dora Markus: «è una tempesta anche la tua dolcezza» (e prima, in Arsenio, «la tempesta è dolce», v. 27). Evochiamo la «tempesta di dolcezza» di G.B.Marino in un madrigale della serie sui baci della seconda parte della Lira.189 Tempesta di dolcezza Su l'anima mi versa Amor, mentr'io ti bacio, o mio tesoro. Lasso lasso, ch'io moro: un diluvio di baci l'ha sommersa; già di quel labro al tuon dolce sonoro dietro al lampo d'un riso m'ha del tuo dente la saetta ucciso.190 187 Piú indagati, ovviamente, i legami di Montale col barocco europeo, particolarmente quello inglese. Si rammentino trouvailles spesso assai raffinate, come l'individuazione di Crashaw latino, via Praz, dietro a un'immagine ricorrente nelle Occasioni (vd. l'ediz. Isella pp. 31, 149, 185 nn.), o l'eventualità di un ipotesto quevediano sotto la «neobarocca» anguilla montaliana (Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 16 n.). 188 SM III, p. 1375. 189 In Marino non mancano altre testimonianze di dolci tempeste: vd. ad es. Boscherecce 40. 190 Citiamo dalla ristampa del 1653, Venezia per Francesco Baba, Rime del Signor Cavalier Marino Parte seconda, p. 259, madr. n. XXIV, «Baci dolci». 154 Sappiamo che il giovane Montale si vede rifiutare alla Biblioteca Universitaria di Genova il volume laterziano delle poesie di Marino191 per ragioni moralistiche: «Oggi Biblioteca Universitaria. Il distributore in nome della morale rifiutò di darmi le poesie del Marino nella nuova edizione Laterza!! Ahimè, morale, come minacciano di farmiti diventare antipatica!» (Quaderno genovese pp. 55-56).192 Sempre negli appunti del Quaderno genovese si leggono elogi anti-filistei e anti-borghesi del barocco avanguardistico, in linea con un Govoni o, ancor piú consapevolmente, un Soffici (ivi pp. 58-59, e nn. della Barile). Montale avrà insistito nella sua volontà di leggere le liriche del Marino? Quasi certamente sí, e come escludere allora che la tempesta di dolcezza sia in qualche modo arrivata ai suoi orecchi e poi sedimentatasi nella sua mente, che conservava e riusava? Si tenga presente che nel 1936 usciva la silloge di Lirici del barocco e dell'Arcadia per Rizzoli, curata da Calcaterra, che vi ospitava (isolato in questo) l'intera Seconda parte della Lira mariniana: il madrigale in questione, assente in Croce, è a pagina 59. Si può su questa base postdatare la prima Dora Markus al 1936? È arduo stabilirlo, se il manoscritto autografo pubblicato il 10 gennaio 1937 sul «Meridiano di Roma» della poesia porta la datazione «192'», con un apice al posto dell'ultima cifra che ha fatto pensare a un difetto di inchiostrazione, a una scrittura evanida.193 191 Giambattista Marino, Poesie varie, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1913. 192 E. M., Quaderno genovese, a cura di Laura Barile, con uno scritto di Sergio Solmi, Milano, Mondadori, 1983. 193 Vd. OV p. 900; Rosanna Bettarini, Per Dora, in Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico De Robertis, a cura di Franco Gavazzeni e Guglielmo Gorni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993, pp. 531-541: 533; E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., p. 53. La bibliografia critica su Dora è vastissima; cito soltanto il bel saggio di Silvio Ramat, Arsenio, Dora e l'«orbita» di Gerti [1982], in Id., L'acacia ferita e altri saggi su Montale, Venezia, Marsilio, 1986, pp. 37-74. 155 A guardare da vicino il facsimile sulla rivista, unico nostro possibile riferimento, l'apice autografo sembra però un apice e basta, non il residuo di una traccia consumata dal tempo. Montale, crediamo, non vuole datare precisamentela lirica, la colloca soltanto negli anni '20. D'altra parte la datazione che egli apporrà alla poesia nell'edizione einaudiana delle Occasioni sarà 1926; ribadirà in una lettera a Contini del maggio 1943 che Dora Markus era «pendant» di Due nel crepuscolo del «5.XI.1926», in un leggendario taccuino che non possediamo piú. Il problema è però, come tutti sanno, un altro: la celebre segnalazione da parte di Bobi Bazlen di Dora Markus e delle sue gambe (che Montale non conoscerà mai di persona) risale al 1928. Gli inviti a Eugenio-Eusebius perché scriva e invii una poesia su Dora, dopo il '28, si replicano nel gennaio del '29 («Dora Markus????????? Manda!!!!!!!») e poi in un mese imprecisato dello stesso anno (febbraio o addirittura settembre o giú di lí): «mandami la Dora Markus».194 Cosa se ne può evincere? Prima di tutto che nel 1926 ancora la Dora Markus non era neppure un nome per Montale. In secondo luogo, non è detto che Montale abbia poi realmente scritto la poesia sulla donna dalle belle gambe (una parcellizzazione di un fantasma), poesia che Bobi gli richiede supplichevole e nervoso almeno tre volte, invano, in un arco di tempo che presumibilmente misura un semestre, se non un anno intero. Poi Eusebius l'avrà scritta, oppure l'avrà inviata? Lecito credere di no, ma non si sa.195 194 Roberto Bazlen, Scritti. Il capitano di lungo corso. Note senza testo. Lettere editoriali. Lettere a Montale, Milano, Adelphi, 1984, pp. 381, 383, 386; E. M., Le occasioni, a c. di Dante Isella, cit., pp. 53-54. 195 Non risulta insolito che Bazlen richiedesse versi a Montale senza avere soddisfazione; si legga ad es. la nota di Calasso-Zampa a una lettera di Bobi in Bazlen, Scritti cit., p. 359: «Bazlen aveva suggerito a Montale di scrivere una poesia sul personaggio schumanniano di Eusebius. Montale non scrisse la poesia e Bazlen da allora cominciò a chiamarlo Eusebio». Nel 16.XII.1929, Bazlen 156 Interroghiamo il manoscritto, o meglio la sua copia fotomeccanica sul giornale romano: ci colpisce almeno una variante cassata, quella che riguarda i vv. 12-13. Citiamo la lezione cancellata dal v. 11: «E qua dove un'antica vita / si screzia e rompe in una meraviglia / del prossimo oriente». 196 La parola-chiave mariniana meraviglia sembra qui voler sottolineare un sinolo barocco-bizantino che connoterebbe la poesia. Dove, nella seconda strofa, compare appunto quella tempesta di dolcezza che Montale poteva trovare nella silloge del Calcaterra, non volendo ipotizzare da parte sua precedenti erudite interrogazioni delle secentine. Può bastare un intertesto possibile197 a suggerire la datazione? (D'altro canto la già cit. «tempesta dolce» di Arsenio rende tutto piú problematico, ne siamo consapevoli). La Dora del «Meridiano di Roma» sarebbe stata scritta cosí nel 1936? Magari soltanto trascritta e rielaborata dal vecchio taccuino, con in piú almeno una o due novità “mariniste”? E dobbiamo credere a una autodatazione posteriore, quella del 1926, quando sappiamo che prima del '28 Dora Markus scrive a Montale: «In Moravia, ho rivisto Dora Markus. Porta stivaloni altissimi, adatti per camminare nella neve» (Bazlen, Scritti cit., p. 387). Luciano Rebay (Un cestello di Montale: le gambe di Dora Markus, e una lettera di Roberto Bazlen, «Italica», 61, 1984, 2, pp. 160-69) ritiene che «il poscritto lascia supporre che a quella data il testo previamente sollecitato fosse già stato ricevuto» (p. 162). Dobbiamo tantissimo al Rebay, ma perché questa supposizione? Non ne vedrei il motivo. Non si manchi di consultare poi Dante Isella, La fontana delle ultime «Occasioni» [1988], in Id., L'idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi, 1994, pp. 201-228: 210-212. 196 La variante è scritta nello spazio fra la prima e la seconda strofa della lirica, con un rimando. Ulteriore variante, sempre cassata, è data da «nella» spscr. a «una» prima di «meraviglia». Rimando all'Appendice, piú avanti, dove tento una trascrizione diplomatica. 197 Da embricare comunque con la squisita indicazione della Bettarini (Per Dora, cit., p. 539) relativa a Rimbaud, «Mais sa douceur aussi est mortelle» (Vierge folle, Une saison en enfer): una memoria italiana barocca si può sposare molto montalianamente, credo, con una preziosità moderna francese. 157 non esisteva? Non possiamo piuttosto credere, nell'intrico dei depistaggi che Montale ama operare, a un 1926 che maliziosamente celi un effettivo 1936? Un'ultima considerazione. La donna che addita «all'altra sponda / invisibile la sua patria vera» fa irresistibilmente pensare al finale di Morte a Venezia di Mann: «Ma a lui parve che il pallido e gentile psicagogo laggiú gli sorridesse, gli accennasse, e staccando la mano dall'anca a indicare un punto lontano, lo precedesse a volo verso benefiche immensità» (traduz. di E. Castellani). L'ambientazione è, come tutti sanno, marina, umida nebbiosa. Venezia come Ravenna? Der Tod in Venedig, del 1912, fu tradotto in italiano nel 1930. Come Tadzio, anche Dora (o forse Gerti, o addirittura Clizia, o meglio tutte e nessuna) indica una patria vera, lontana, metafisica. Cosa c'entri con tutto questo il gioco sulle gambe fotografate della morava Markus non so chi potrà dirlo. Potrebbe invece avere a che fare con un addio possibile a Clizia, in una Ravenna non troppo lontana da quella Venezia che il De Caro ritiene palcoscenico probabile di un doloroso distacco fra il poeta e la Brandeis nel febbraio-marzo del 1936 appunto?198 La «primavera inerte» della lirica potrebbe essere quella del 1936? E Dora potrebbe celare in realtà Clizia? O trovare in essa una incarnazione, da fantasma quale era? Allora, se per Venezia si deve pensare al mottetto spettrale e hoffmanniano La gondola che scivola in un forte, pubblicato su rivista nel 1939, la Ravenna ambiguamente primaverile di Dora Markus può rammentare «l'oscura primavera /di Sottoripa» del mottetto Lo sai: debbo riperderti e non posso, del 1934, dove ancora la perdita e il distacco si inquadrano in una stavolta genovese acredine marina. Mentre il gesto di indicare 198 Paolo De Caro, Journey to Irma. Una approssimazione all'ispiratrice americana di Eugenio Montale. Parte prima: Irma, un “romanzo”, nuova ediz. accresciuta, Foggia, Matteo De Meo, 1999, pp. 90 sgg. 158 una patria lontana, invisibile e vera si apparenta a quello del nuotatore di Verso Vienna («Additò il ponte in faccia: non si passa, / informò, senza un soldo di pedaggio», secondo la redazione pubblicata sulla «Gazzetta del Popolo» l'11 gennaio 1939 e, in una prima versione, datata «1933»: OV p. 897). Entrambi i gesti, come del resto quello di Tadzio, vogliono alludere a una patria ultraterrena, metafisica: il nuotatore è senz'altro figura psicagogica, liminare, e cosí la donna di Dora Markus I non può che essere la costante idealtipica donna montaliana che ha commercio con la morte e l'aldilà sempre, sia essa Arletta, sia Clizia, sia Esterina, sia Mosca ecc. ecc. In ogni caso, l'ipotesi di ricercare presenze del barocco letterario italiano (scontato quello inglese o spagnolo, o francese, insomma europeo) nell'opera di Montale è ipotesi da portare avanti.199 Intanto consideriamo Falsetto come una 199 Sempre in Dora Markus abbiamo un'immagine di gusto spiccatamente manierista e barocco: «nell'acque un avvampo» (II, 7, e vd. l'attacco del mottetto secondo: «Molti anni, e uno piú duro sopra il lago / straniero su cui ardono i tramonti»); con l'ausilio di concordanze elettroniche e di un po' di memoria potremmo evocare luoghi del Marino lirico: «Sorgi, o ninfa, da l'acque e vienne a nuoto / (vedi come cocente il sole avvampi)», Boscherecce 80, in Croce, p. 81; «qualor piú chiara entro 'l tuo ghiaccio avvampa», canz. Figlio de l'Appennino, in Calcaterra p. 74; «Lilla, del cui bel foco il mare avvampa», ivi p. 203; «Acque a le fiamme e fiamme a l'acque chiede», ivi p. 160 ecc., ma le acque avvampano in numerosi lirici del Cinque-Seicento (vd. di chi scrive Giú verso l'alto. Luoghi e dintorni tassiani, Manziana, Vecchiarelli, 2004, pp. 61 sg.), e non è necessario individuare una improbabile fonte, quando pare indubbio il riecheggiamento generico di un'immagine connotata storicamente, di grande tradizione insomma. Vedi d'altronde Alfieri, son. Perch'io sfugga tua mano alabastrina, vv. 10-11: «In mezzo alle soavi acque sperate / avvampo», per misurare la lunga durata del motivo lirico (vd. G. A. Fabris, Studi alfieriani, Firenze, Paggi, 1895, p. 234; cfr. poi Vittorio Alfieri, Rime, ediz. critica a cura di Francesco Maggini, Asti, Casa d'Alfieri, 1954, pp. 303-304; il son. è del 21 gen. 1796). Un trionfo barocco del topos era offerto peraltro da Góngora, poeta 159 variante sulla “bella nuotatrice”, o Non rifugiarti nell'ombra come un “invito al sole” che rovescia il topos dell'invito all'ombra già cinquecentesco ma culminante nel celeberrimo sonetto marittimo del Marino Or che l'aria e la terra arde e fiammeggia. Ma si può forse allargare tale ipotesi di lavoro, vedendo nella serie orecchini-ventaglio di Finisterre una versione molto metafisica di topiche mariniane (e non solo), pensando ad esempio al madrigale Quegli aspidi lucenti o al sonetto Lieve è l'aurea catena a tante offese sul ventaglio di bianche piume.200 E per restare nell'ambito prezioso di Finisterre, vorremmo spingerci oltre, e proporre per il demonico polipo di Serenata indiana (vv. 11 sgg.) il sonetto all'ostrica del Marino, con l'ultima terzina: «Anzi, te pur rassembra, a cui, se mai, / qual famelico polpo il cor sen corre, / in pena de l'ardir, morte gli dài».201 E per quello stupendo «vago orror dei cedri smossi» di Nel sonno, si potrebbe pensare ai celeberrimi cedri impazziti e orridi di Lubrano, magari contaminati con la tenebrosa chioma nera piú caro a Ungaretti che a Montale, ma certamente esemplare nel Novecento non solo in Spagna: si veda il sonetto Cuantas al Duero le he negado ausente, in cui le acque del fiume e del mare sono senz'altro fuoco, talché «Arde el río, arde el mar, humea el mundo» (v. 12: vd. Luis De Góngora, I sonetti, a cura di Giulia Poggi, Roma, Salerno ed., 1997, p. 210). 200 Rispettivamente alle pp. 67 e 81 dell'edizione crociana cit., dove Or che l'aria è invece a p. 98; i due madrigali sugli orecchini sono poi ospitati da Calcaterra a p. 215 di Lirici del Seicento…, cit.; si pensi poi ai coralli offerti alla donna da Marino nel son. a p. 95 della silloge del Croce ecc. 201 Nell'antologia crociana a p. 97; cfr. pure Adone XX, 167. Al polipo si apparentano le molli meduse degli Orecchini, che però mi sembrano echeggiare un barocco novecentesco, precisamente quello offerto dal D'Annunzio alcionico del madrigale Le lampade marine, nei Madrigali d'estate: «Lucono le meduse come stanche / lampade», anche se Montale stesso ha parlato di un dato realistico relativo a «ombre nello specchio» (cit. in Finisterre a c. di Isella, cit., p. 21). D'altronde il polipo montaliano potrebbe avere qualcosa a che fare anche con l'«Amor, pulpo de sombra, / malo» di Rafael Alberti, in una poesia di Los ángeles dal titolo El ángel de carbón che è stata giustamente indicata tra le pos- 160 del sonetto di Pietro Casaburi, al cui v. 12 troviamo: «notte rassembri al vago orrore»?202 Cercando ancora testimonianze montaliane nella prosa, può suonare ironica, ma non tanto, una affermazione in un saggio del '46 poi in Auto da fé: «la meraviglia è il fine di tutti gli uomini, poeti o no» (SM III, p. 83), dove il celebre verso mariniano suona quasi apoftegma o truismo. Piú avanti, nel 1954, parlando di Gaudí, non so quanto celiando Montale scriverà: «Certo, se è vero che sia “del poeta il fin la meraviglia”, non si può guardare senza stupire la casa Milá (la Pedrera) che è insieme formicaio, tempio e fortezza, e quel parco di Güell che dissemina milioni di azulejos (piastrelle di ceramica colorata), alberi di pietra, grotte, cripte e orridi d'ogni genere in una collinetta posta nel cuore della città» (PR pp. 458-59). Consideriamo poi l'interesse preciso e fortissimo di Montale per il barocco metafisico, particolarmente quello inglese via Eliot, e anche via Praz, nel cui volume Secentismo e marinismo in Inghilterra la presenza del Marino, se pure giudicato spesso inferiore agli inglesi, è notevole e tale da stimolare la curiosità nel lettore. Vediamo in somma una Esterina come bella nuotatrice che, mitica e metafisica, abbraccia gloriosamente e incosibili “fonti” del piú tardo Angelo nero di Satura: vd. Oreste Macrí, Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 294 sg.; Rafael Alberti, Degli angeli, a cura di Vittorio Bodini, Milano, Il Saggiatore, 1964, poi Torino, Einaudi, 1966, pp. 74-75. Per le meduse, inoltre, non sarebbe forse da ignorare anche una lirica di Emilio Servadio, Eldorado, presente nel mannello di Poesie d'amore, «Circoli» I, 1, 1931, pp. 27-31: 28-29. Se ne rilegga la chiusa: «Mani fraterne. / Dal fondo emergono sogni e meduse». 202 Vd. Lirici marinisti, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1910, rispettiamente alle pp. 461 e 501. Mengaldo (La tradizione del Novecento, Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, p. 179) rimanda invece a un piú quieto Petrarca, Rvf 176, 12-13: «Raro un silentio, un solitario horrore / d'ombrosa selva mai tanto mi piacque». 161 scientemente l'alterità, l'ignoto, la morte. Il femminile è dunque capace di attraversare il regno della morte, mentre il maschile rimane a terra (tra il sornione e il disperato). Si veda poi PR p. 598: «apprezzo il nuoto, io che so appena sguazzare per pochi minuti» (1970). Ammirazione impotente (ma di chi resta in salvo) per colei che affronta le acque, atleticamente e impavidamente. Ma rintocco di morte per la donna, come sempre in Eugenio. È qui la sottile differenza rispetto alle topiche moderne sveviano-gozzaniane203 che vedono la donna fulgido sano animale e l'uomo impotente irresoluto innamorato. In Montale è accentuato l'istinto vendicativo omicida nei confronti della figura femminile, che viene sempre in qualche modo legata alla morte (da Arletta a Clizia alla Mosca di Xenia ecc.). Mentre il poeta, che non senza dolore ha scelto la strada sdegnata da Achille, campa (??) fino a 85 anni. 203 Vd. ad es. i contatti fra Esterina e la «mulier fortis» di Invernale di Gozzano nelle pagine di Edoardo Sanguineti, Tra liberty e crepuscolarismo, Milano, Mursia, 1977 [1961 prima ediz.], pp. 33-35. Naturalmente Montale leggerà i romanzi di Svevo solo nel settembre-ottobre del 1925: vd. Italo Svevo - Eugenio Montale, Carteggio con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1976, Introduz. p. X. 162 Appendice Dora Markus [secondo il ms. fotoriprodotto sul «Meridiano di Roma» del 10 gennaio 1937, III pagina] Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini nel mare alto e curvi uomini affondano le reti e ritraggono le reti ad ogni istante Con un segno della mano additavi all'altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove si affondava una primavera inerte, senza memoria. E qui dove un'antica vita si screzia e si corrompe in una squisita dolce rompe in una nella meraviglia del prossimo oriente ansietà d'oriente. Le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda. xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx. La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano un faro nelle sere tempestose è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare, e i tuoi riposi sono anche piú rari; non so come stremata sopravvivi tu resisti in questo lago 1 5 10 12a 12b 15 15a Cotesta 20 163 d'indifferenza ch'è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu porti tieni vicino alla matita delle labbra, al piumino, alla lima: un topo bianco d'avorio e cosí esisti 192' 25 Legenda: corsivo: testo cancellato apice : testo soprascritto nell'interlinea (ovviamente in corsivo se cassato) xxxx: testo cancellato illeggibile Note: I vv. 12a, 12b e 15a sono scritti nello spazio intervallare fra la prima e la seconda parte della lirica, con un rimando a freccia. Il verso finale e la data sono vergati per traverso a sinistra del foglio, a fianco degli altri versi. Leggo, salvo errore, «qui» al v. 11 e «tuoi» al v. 21 («qua» e «suoi» in apparato OV p. 900, la seconda lezione si ricava e silentio). 164