Sì canta l’empia…
Renaissance et Opér a / Rinascimento e Oper a
sous la direction de / a cur a di Camillo Faverzani
Libreria Musicale Italiana
Ce volume a été publié grâce au soutien de
Commission de la Recherche de l’Université Paris 8
Laboratoire d’Études Romanes–EA4385 de l’Université Paris 8
Realizzato con il contributo del
Dipartimento di Lingue, letterature e culture straniere
dell’Università degli Studi di Bergamo
In copertina: Annibale Carracci, Rinaldo e Armida (c. 1601), dettaglio.
Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte.
Redazione, graica e layout: Ugo Giani
© 2016 Libreria Musicale Italiana srl, via di Arsina 296/f, 55100 Lucca
lim@lim.it www.lim.it
Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione potrà essere riprodotta, archiviata in sistemi di ricerca e trasmessa in qualunque forma elettronica, meccanica, fotocopiata, registrata o altro senza il permesso dell’editore, dell’autore e del curatore.
ISBN 978-88-7096-849-1
Sì canta l’empia…
Renaissance et Opéra / Rinascimento e Opera
sous la direction de / a cura di
Camillo Faverzani
Séminaires / Seminari «L’Opéra narrateur» 2013–2014
(Saint-Denis, Université Paris,
Paris, Institut National d’Histoire de l’Art)
Libreria Musicale Italiana
Emanuele d’Angelo
Il Pier Luigi Farnese di Arrigo Boito,
dramma machiavelliano
Arrigo Boito scrive il Pier Luigi Farnese per il musicista campano Costantino Palumbo in un periodo di attività particolarmente intensa e produttiva. Lo compone all’incirca tra la ine del 1874 e il marzo del 1877, ma a
singhiozzo, in quegli anni dovendo dividere l’inchiostro del suo calamaio
tra il Farnese, la seconda versione del suo Meistofele, la Semira per San
Germano e La Gioconda per Ponchielli.1 Nonostante la consegna dell’ultimo atto nel 1877, l’opera è pronta per la rappresentazione solo nel 1891,
senz’altro a causa della lentezza di Palumbo, evidentemente non proprio
a suo agio col dramma di Boito.2
Quando e come il poeta scapigliato si è imbattuto nella controversa
igura di Pier Luigi Farnese, iglio di papa Paolo III e signore di Parma e
Piacenza, interessandosi tanto da dedicargli un libretto? Nell’Ottocento,
ino agli anni di composizione del dramma boitiano, il meistofelico personaggio, descritto generalmente come una sorta di Nerone rinascimentale (e dunque particolarmente attraente per l’autore dell’ininita tragedia
imperiale), è oggetto di saltuaria attenzione sia negli studi sia nel teatro.
Nel 1838 Felice Turotti pubblica il dramma Il Conte Giovanni Anguissola,3
seguito dalle Notizie intorno alla vita di Pierluigi Farnese, nel 1848 si stampa il dramma Pier Luigi Farnese4 di Aristide Caimi e nel 1855 il dramma
1.
2.
3.
4.
Cfr. la lettera di Boito a Palumbo (s.d., ma maggio 1876), in Lettere di Arrigo Boito, raccolte e
annotate da Raffaello de Rensis, Novissima, Roma 1932, p. 72: «Gioconda, Meisto, il libretto
di San Germano vi hanno fatto la guerra nel mio calamaio».
L’opera, che doveva andare in scena in autunno al Costanzi di Roma, non fu rappresentata:
alla prova generale il compositore litigò coll’editore Sonzogno e ritirò la partitura.
Cfr. Felice Turotti, Il Conte Giovanni Anguissola, Pirotta, Milano 1838.
Cfr. Aristide Caimi, Pier Luigi Farnese, Dalla Società tipograica de’ classici italiani, Milano
1848.
∙ Emanuele d’Angelo ∙
tragico Pierluigi Farnese5 di Braccio Bracci. Di fondamentale importanza,
nell’ambito degli studi, è la pubblicazione, nel 1821, della Vita di Pierluigi
Farnese di Ireneo Afò a cura di Pompeo Litta; signiicativa è anche la ristampa per biblioili, nel 1864, della Congiura di Piacenza contro Pier Luigi
Farnese di Giuliano Goselini a cura di Anicio Bonucci. Punto di contatto
tra Boito e il personaggio, però, sono con ogni probabilità i notevoli cenni
storici di Federico Odorici, Pier Luigi Farnese e la congiura piacentina
del 1547, stampati nella Strenna italiana per l’anno 1864 dell’editore Ripamonti Carpano, trentesimo volume della serie: logico pensare che Boito,
collaboratore del trentunesimo, quello del 1865 in cui appare per la prima
volta il Re Orso, abbia avuta tra le mani la Strenna col saggio di Odorici.
Sfrondata degli episodi ‘di cornice’, combinati in una studiata successione di spettacolari efetti teatrali, la trama del dramma di Boito, articolato in quattro atti intitolati, appare alquanto lineare: a Piacenza, nel 1549,6
il malvagio Pier Luigi, signore della città, esercita il potere tirannicamente; l’esiliato Gianni Anguissola, che rivendica il trono piacentino, torna e
congiura con altri cospiratori contro il despota, ma il suo amore per Donata, che dopo aver presi i voti è stata rapita dal Farnese, mette a rischio
i suoi progetti patriottici, sostenuti, a sua insaputa, dagli spagnoli; così la
situazione gli sfugge di mano: Donata si avvelena per evitare che il tiranno le usi violenza, gli spagnoli prendono la città e i congiurati feriscono
Pier Luigi e lo precipitano dal verone del castello; Gianni, tradito, ha perso tutto. Alla base del libretto c’è ovviamente il fatto storico, la congiura
piacentina del 1547, studiata con attenzione ma manipolata liberamente.
Stimolato dalla lettura del saggio di Odorici, Boito, cui preme determinare la cornice spazio-temporale dell’azione, ha certo letto altri testi su Pier
Luigi, in particolare la biograia di Afò.
È indubbio che alla luce degli studi successivi sul Farnese, il ritratto che
Boito fa del duca, prepotente, edonista, libidinoso e beone, «vituperio /
del secol [suo]» e «spettacol di vergogna / alle future età» condannato all’«eterna gogna» (IV, 2), appare sempliicato e ingiusto. Tuttavia esso non
è certo frutto di noncuranza «degli aspetti positivi dell’azione di governo
5.
6.
Cfr. Braccio Bracci, Pierluigi Farnese, Benelli, Firenze 1855.
Ma Pier Luigi fu ucciso nel 1547. L’errore di Boito, intenzionale, rimanda al signiicato esoterico del dramma, su cui cfr. Emanuele d’Angelo, Arrigo Boito drammaturgo per musica. Idee,
visioni, forma e battaglie, Marsilio, Venezia 2010, p. 93.
∙ 328 ∙
∙ Il Pier Luigi Farnese di Arrigo Boito, dramma machiavelliano ∙
di Pier Luigi»,7 ma appare estremamente coerente col personaggio lussurioso, gaudente e disinvolto descritto dalle fonti ottocentesche, ben lontane dall’immaginare una sia pur parziale riabilitazione e critiche solo circa
l’uccisione dell’«infelice», «cattivo come uomo, pessimo come principe».8
Odorici, infatti, descrive il Farnese «dedicato ad ogni sensualità, pieno
di mal francese, bevitore, crapulone, scapestrato»,9 quasi una sintesi delle parole di Afò che, oltre a ricordarne «la sfrenata libidine» e la «propensione a’ brutali piaceri», lo dice «deditissimo alla sensualità», nonché
«bevitore, e crapulone ingordo, ed anche delle danze, delle commedie, e
d’ogni altro divertimento amatore», incline a «ogni sorta d’intemperanza», aggiungendo, nell’alludere all’oltraggio di Fano (il presunto stupro
del giovane vescovo Cosimo Gheri), che «Pierluigi gloriavasi pubblicamente di tanta iniquità».10
Lungi dall’inventare a ruota libera, Boito mette a frutto ogni elemento
dei testi di Odorici e di Afò utile alle proprie esigenze drammaturgiche,
ferma restando la libertà del poeta di adattare e alterare il dato storico,
ricorrendo anche a testi non strettamente legati alle vicende farnesiane.
Tra questi hanno un’importanza fondamentale le opere politiche di Niccolò Machiavelli. Afò dice che Pier Luigi fu «seguace della dottrina di
Macchiavello», e che «ben presto, giusta gl’insegnamenti di Macchiavello,
fece conoscere, che ambiva d’essere piuttosto temuto, che amato»,11 facendo chiaro riferimento al XVII capitolo del Principe. Queste rilessioni
hanno probabilmente spinto Boito a leggere (o rileggere) gli scritti machiavelliani, ma col risultato di capovolgerne il senso. Nel libretto, infatti,
il campione del pensiero di Machiavelli non è il Farnese ma i suoi nemici.
L’elemento chiariicante è «Volpe e leone», motto di guerra dei congiurati
(II, 3), una geniale trovata del drammaturgo del tutto estranea alle fonti storiche. Il motto è anche titolo dell’atto III nonché cuore dell’assalto
Francesco Bussi, “Pier Luigi Farnese” di Tobia Gorrio (Arrigo Boito) musica di Costantino
Palumbo: contributo alla riscoperta storico-critica di un dramma lirico ambientato a Piacenza,
«Bollettino Storico Piacentino», cv/2, 2010, pp. 287–288.
8. Così Litta nella prefazione a [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, primo Duca di Parma,
Piacenza e Guastalla, Marchese di Novara ecc., Giusti, Milano 1821, p. II.
9. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese e la congiura piacentina del 1547. Cenni storici con
documenti inediti, in Strenna italiana per l’anno 1864, p. 8.
10. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, pp. 20, 22 e 24. Sull’oltraggio di Fano cfr. Millo
Borghini, Sei gigli macchiati di sangue. Pierluigi Farnese e la sua famiglia: una storia italiana,
La Caravella, Viterbo 2014, pp. 80–81.
11. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, pp. 53 e 95. Cfr. Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 23.
7.
∙ 329 ∙
∙ Emanuele d’Angelo ∙
verbale di Gianni al duca (III, 6), mediante cui il conte — deinito da Pier
Luigi «buja volpe d’averno» — assume dichiaratamente le caratteristiche
simboliche dei due animali, astuzia e forza: «Volpe e leone! Sulle tue colpe / veglio e ti guido — a perdizione. / Io ti derido: — sono una volpe. /
Io ti disido: — sono un leon». I congiurati, e il loro capo Anguissola soprattutto, alludono al capitolo XVIII del Principe (7): «Essendo, adunque,
un Principe necessitato saper bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare
la volpe e il leone; perché il leone non si difende dai lacci, la volpe non si
defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere volpe a conoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi».12 L’identiicazione del Farnese col lupo, per giunta,
è dichiarata nell’atto II — «Nel covil entrar del lupo / tu dovrai…» (II, 5),
dice Gianni a Donata — e soprattutto nel IV, in cui il duca porta «sulle
spalle una pelliccia di lupo, come appare in parecchi ritratti del tempo»
(eloquente testimonianza dell’usuale approfondimento iconograico di
Boito),13 benché dagli stessi ritratti non si deduca la natura della pelliccia
indossata da Pier Luigi, che è dunque un’intenzionale precisazione boitiana. Le fonti sono Goselini, secondo il quale Anguissola deinì il duca
«famelico lupo rapace»,14 e ancora e soprattutto Odorici che, riferendo
degli averi procurati da Paolo III al iglio, dice: «I lupattini allattava la lupa
fojosa».15 Infatti è proprio del «vello della romana lupa» che si ammanta
il Farnese, per di più minacciando dantescamente l’indifesa Donata, «incauto agnello» oggetto della sua «brama cupa» (IV, 2),16 non prima però
che la donna gli abbia detto sdegnosa: «dentro di te consùmati, / dimon,
con la tua rabbia», adattando le parole della prima cantica: «Taci, maladetto lupo! / consuma dentro te con la tua rabbia» (Inf., VII, 8–9). Accecato dagli appetiti smodati, cupido, insaziabile, il tiranno-lupo, pertanto,
12. Tra i libri dello studio di Boito, ricostruito nel Museo storico del Conservatorio di Parma, non
sono presenti edizioni delle opere di Machiavelli. Cito dunque Il Principe (nonché i Discorsi)
da un’edizione milanese coeva a Boito, Il Principe e Discorsi di Nicolò Machiavelli, con una
prefazione di Guido Cinelli, Guigoni, Milano–Torino 1860 (il passo trascritto si legge a
p. 115); per completezza di riferimento riporto, inoltre, la numerazione dell’edizione Inglese
(Niccolò Machiavelli, Il Principe, a c. di Giorgio Inglese, Einaudi, Torino 2013).
13. Cfr. almeno Mercedes Viale Ferrero, «Gioconda colla Cieca entrano in scena dalla Destra». Una disposizione scenica per il I atto de “La Gioconda”, in La Gioconda, Teatro alla
Scala, Milano 1997, pp. 121–123; Emanuele d’Angelo, «Note», in Arrigo Boito, Il primo
Meistofele, a c. di Emanuele d’Angelo, Marsilio, Venezia 2013, p. 139.
14. Congiura di Piacenza contro Pier Luigi Farnese descritta per Giuliano Gosellino scrittore contemporaneo, Molini, Firenze 1864, p. 54.
15. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 10.
16. «agnello [: vello], / nimico ai lupi che li danno guerra» (Par., xxv, 5–6).
∙ 330 ∙
∙ Il Pier Luigi Farnese di Arrigo Boito, dramma machiavelliano ∙
è una sorta di quintessenza di ciò che il principe machiavelliano (volpe e
leone, avversario dei lupi) non deve essere, e questo motiva, in certa misura, anche il silenzio boitiano circa gli uomini di cultura (Annibal Caro,
Apollonio Filarete e Claudio Tolomei) frequentati dal duca: «Deve ancora
un Principe mostrarsi amatore delle virtù, ed onorare gli eccellenti in ciascuna arte» (Il Principe, XXI, 25).17
Alla luce del trattato di Machiavelli, Boito idealizza negativamente
l’immagine nera del duca nota ai suoi tempi, facendone con pochi ma
signiicativi ritocchi un perfetto antiprincipe, «del più nefando imperio /
esempio» (IV, 2), che non ha per nulla a cuore la salvezza dello stato e
non calcola minimamente le conseguenze del proprio agire: è crudele costantemente e senza motivo, indiferente alla ragion di stato e alle leggi,18
imprudente, empio, sleale (infoiato, non rispetta la parola data a Gianni
— «Pur se mi rendi questa vergin pura, / salva la vita avrai», (III, 7) — e per
questo perde la vita — «Tu giuochi la tua vita», «A Gianni sei spergiuro!»
(IV, 2) —, si fa temere ma soprattutto odiare («Odioso lo fa soprattutto
[…] l’esser rapace ed usurpatore della robba e delle donne de’ sudditi»)19
e non si cura afatto di apparire almeno esteriormente onesto, religioso e
magnanimo, anzi si gloria della propria invincibile scelleratezza. Giustiicabile in ottica machiavelliana è inanche il vigore isico esibito dal duca
boitiano, contrario all’immagine storica, che ricorda Pier Luigi «stropio,
e guasto dai suoi soliti malori»;20 le intuibili ragioni di opportunità teatrale (alla base, peraltro, della buona salute del personaggio anche negli
altri drammi dedicati al Farnese) consentono, in questo caso, di schivare
un facile ma improprio collegamento coll’«imitabile» Cesare Borgia, che
«avendo l’animo grande, e la sua intenzione alta, non si poteva governare
altrimenti; e solo si oppose alli suoi disegni la brevità della vita d’Alessandro [suo padre], e la sua inirmità».21
Boito corregge, di conseguenza, anche il rapporto di Pier Luigi col popolo, che Machiavelli ritiene di fondamentale importanza per conservare
il potere («ad un Principe è necessario avere il popolo amico; altrimente
17. Il Principe e Discorsi, p. 133.
18. Cfr. Il Principe e Discorsi, p. 284 (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 58: «un principe
che può fare ciò che vuole, è pazzo»).
19. Il Principe e Discorsi, p. 117 (Il Principe, XIX, 2).
20. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, p. 157; cfr. Francesco Bussi, “Pier Luigi Farnese”,
pp. 289–290.
21. Il Principe e Discorsi, p. 86 (Il Principe, VII, 42).
∙ 331 ∙
∙ Emanuele d’Angelo ∙
non ha nelle avversità rimedio»),22 anche in caso di congiura («Ma circa i
sudditi […] s’ha da temere che congiurino segretamente: del che il Principe si assicura assai, fuggendo l’essere odiato e disprezzato; e tenendosi
il populo satisfatto di lui», perché «un Principe deve tenere delle congiure
poco conto quando il popolo gli sia benivolo; ma quando gli sia inimico, ed abbilo in odio, deve temere d’ogni cosa e di ognuno»).23 Odorici
aferma che, perlomeno inizialmente, il Farnese non fu inviso al popolo
piacentino, avendo agito contro la nobiltà per ridurne i privilegi e aumentando, di conseguenza, il benessere popolare.24 Boito, invece, lo mostra
detestato da tutti — «Giù il Farnese! Abbasso! abbasso! / Giù il tiranno!
giù il gradasso! / Morte! morte!» (I, 3) — e fa in modo, in dal principio, che, osservando il bombardamento della statua di neve del duca, l’eroe ‘machiavelliano’, Gianni, dichiari ai patrizi la propria convinzione,
sollecitando il coinvolgimento del popolo che, seppur «istrione» come
tutti (II, 3), schernisce il tiranno (I, 2): « Voi pensate alla plebe; al resto
io penso. / Popol che irride è popolo che morde. / Landi, Confalonier,
Pallavicino, / patrizii! a voi quell’ironia conido». Signiicativamente, il
duca sottovaluta la forza del popolo piacentino, anche quando — giunta
l’armata spagnola (licenza con cui Boito rende icasticamente l’occupazione straniera) — esso si ribella apertamente al signore: lo sconsiderato
atteggiamento, machiavellianamente inaccettabile, è lo stesso nalla scena
5 dall’atto I («e il popolo urla. / La burla è gaja»), nalla 2 («I giuramenti
della plebe / svaniscono col sol») e nella 7 del III («Terni: Il popolo urla.
Farnese: Le sue furie vane / s’infrangeranno contro questi marmi»).
La diferenziazione tra Anguissola, apparentemente un patriota esiliato
di stampo risorgimentale ante litteram, e gli altri congiurati, ritratti come
pedine di Ferrante Gonzaga, è un’ulteriore trovata di Boito, che mediante
Gianni sembra celebrare gli ideali patriottici che avevano portato alla recente sospirata unità della penisola (i, 1): «Ricuso! A che giova / mutar ladroni? Il mio grido di guerra / Spagna o Francia non è, ma Italia!» Si tratta
di una chiara e signiicativa rettiica di quanto sostenuto da don Ferrante,
che «avvertiva l’imperatore che i gentiluomini della terra non attendevano che un grido: Spagna, Spagna, o Francia, Francia»,25 grido che l’eroe
boitiano riiuta energicamente. Ma non sfugga, a proposito, la patriottica
22.
23.
24.
25.
Il Principe e Discorsi, pp. 92–93 (Il Principe, IX 18).
Il Principe e Discorsi, pp. 118–119 (Il Principe, XIX, 9, 18).
Cfr. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 30, e passim.
Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 38.
∙ 332 ∙
∙ Il Pier Luigi Farnese di Arrigo Boito, dramma machiavelliano ∙
conclusione del Principe, e lo status (inventato) dello stesso Gianni, che
Boito fa rampollo degli antichi signori di Piacenza, erede manifestamente
nauseato dal fatto che la gloriosa dimora dei suoi avi sia abitata da un
indegno tiranno, dunque un principe detronizzato che fa propria l’Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam di
Machiavelli:
Sisto Anguissola,
signore di Piacenza e mio bisavo,
che in quell’aule fu prence, ove il Farnese
ora è istrïone, al padre mio morendo
quel dèdalo insegnò, retaggio d’ombra.
Anguissola riferisce «d’un segreto sotterraneo, ignoto / al secol nostro»
che «s’apre accanto all’alcova ducale / per escire oltre Po». Il «fantomatico segreto» del cunicolo del palazzo ducale e il «fantomatico bisavo Sisto Anguissola»,26 oltre che elementi funzionali all’intreccio e coloristici,
sono ingredienti fondamentali della riformulazione politica del conte, che
non è afatto il controverso e ilospagnolo corrispettivo storico «ridotto
— se non proprio svilito — a tenore Gianni […] patriota puro e nobile
che anela all’unità d’Italia»,27 ma un potenziale «nuovo principe» ispirato dal trattato di Machiavelli, legittimo erede della signoria piacentina,
tuttavia tormentato, agitato tra la ragion di stato — la libertà della patria,
«sogno della gloria» (III, 4) — e il melodrammatico amore — la salvezza
di Donata, di fronte alla quale «s’accieca ed erra / la patria [s]ua virtù» (I,
2) —. «Patria! Amor! parole sante!» — come l’Arturo dei Puritani: «Oh,
patria… oh, amore, onnipossenti nomi!» (III, 1) — sono due orizzonti che
entrano subito in conlitto (e difatti Landi, trascinando Gianni lontano da
Donata, gli dice: «Andiam! pensa alla patria!») ma convergono quando
il tragico addio degli amanti sulla soglia del chiostro è vaniicato dal sacrilego rapimento della donna, che concentra nel Farnese il nemico della
patria e il nemico dell’amore — «Io vo’ salvar / te e la patria» (II, 5) —,
ino alla svolta pragmatica del conte di fronte all’infame tradimento dei
suoi alleati, alla congiura «venduta alla Spagna», che si traduce dapprima
nel desiderio di fuga coll’amata — «La mia congiura / lascio in balìa de’ rei
che l’han tradita / per un po’ d’oro imperïale e gramo! / Tu la mia patria or
26. Francesco Bussi, “Pier Luigi Farnese”, p. 289.
27. Francesco Bussi, “Pier Luigi Farnese”, p. 288.
∙ 333 ∙
∙ Emanuele d’Angelo ∙
sei! tu la mia vita!» (III, 5) —,28 poi per proteggere Donata, dopo aver dati
obtorto collo ai congiurati «i segnali / convenuti per correre all’assalto»,
inanche nell’oferta di salvezza al tiranno, colla patria del tutto eclissata
— «l’opra a cui mi sono accinto / nell’amor dovea inir» (IV, 4) —: «Nei
primi atti l’idea di patria e l’idea d’amore s’uniscono con un’armonia fatale nel personaggio di Gianni, negli ultimi rimane unica l’idea d’amore nel
suo tragico trionfo».29
Nel modellare il suo eroe, «vero protagonista» dell’opera,30 Boito impasta tratti storici eterogenei ino alla loro negazione. Odorici, citando
Goselini, descrive Anguissola, «uomo di trentadue anni», «di volto pallido», «nell’aspetto pensoso, della opinione sua così tenace, che traboccava
alla ostinazione, et pieno di atra bile»,31 elementi che si riscontrano anche
nel personaggio dell’opera. Afò, poi, dice che il conte «ardentissimo erasi
dimostrato all’impresa di togliere al Duca lo Stato», tuttavia per «darlo in
mano all’Imperatore», citando una lettera in cui don Ferrante, ricordando
il Machiavelli dei Discorsi — «Un’altra cagione ci è, e grandissima, che fa
gli uomini congiurare contra al principe; la quale è il desiderio di liberare
la patria stata da quello occupata» (III, 6) —, fa presente a Carlo V «il
desiderio ch’egli ha di liberare la patria de la soggettione et tirannide di
Pierluisi».32 A proposito di questo ostentato amor di patria, Odorici sottolinea che i patrizi piacentini
sdegnati che un principe, non per grandezza d’animo, ma per sete di potenza,
gli avesse innanzi al popolo depressi, covavano tra loro, ne’ secreti convegni di
abbattere il Farnese, pretessendo, come all’usato, la libertà della patria. All’idea
dell’ossequio che lor faceva perdere quell’uomo che tutto rivolto a cattivarsi le
moltitudini, costringevali duramente a rispettarle, s’iniammavano contro di lui;
lo predicavano tiranno, lo dipingevano un ambizioso riducente la patria in servitù.
[…] Erano i congiurati tutti ardenti di un fatto che gittava nell’ugne di Spagna un
popolo italiano; d’un fatto, ch’essi chiamavano glorioso ed egregio, ma che sotto il
velo di patria libertà, celava cupe ambizioni da Pier Luigi non soddisfatte.33
28. Non sfugga che Gianni quasi ripete quanto dice Rigoletto: «Culto, famiglia, patria, / il mio
universo è in te!» (I, 9).
29. Lettera di Boito a Palumbo (28 marzo 1875), in Dall’epistolario inedito, in Arrigo Boito. Nel
trentennio dalla morte. mcmxviii-mcmxlviii, Conte, Napoli 1950, p. 93.
30. Lettera di Boito a Palumbo (16 marzo 1875), Napoli, Biblioteca del Conservatorio, Rari 1.9.11
(34): «Probabilmente il titolo non resterà: Farnese; il vero protagonista è Gianni».
31. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 49. Cfr. Congiura di Piacenza, pp. 46–47.
32. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, pp. 158–159.
33. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, pp. 31, 44.
∙ 334 ∙
∙ Il Pier Luigi Farnese di Arrigo Boito, dramma machiavelliano ∙
Boito, che certo conosce il capitolo dei Discorsi machiavelliani sulle
congiure («la roba e l’onore sono quelle due cose che ofendono più gli
uomini che alcun’altra ofesa, e dalle quali il principe si debbe guardare:
perché e’ non può mai spogliare uno tanto, che non gli resti un coltello da
vendicarsi»),34 conserva queste caratteristiche del patriziato ma escludendone Gianni, cui è trasferito lo status d’esule di Girolamo Pallavicino da
Cortemaggiore, «esule, lontano dalla patria» perché «scacciato […] fuor
della sua signoria da Pierluigi», il quale, scrive Afò, «non avrebbe potuto
far passo, che osservato non fosse, e senza far nascere dei sospetti».35 Tornato segretamente dall’esilio, «l’orme celando e il nome» (I, 2), il conte è
mosso solo dall’amor di patria, e difatti mira a far cadere il principe «con
inganno ed arte», spalleggiato dal popolo, non «con forze forestiere»:36
per Gianni la rapacità degli spagnoli e dei francesi non è diversa da quella del lupo Pier Luigi, che inanche agli occhi del padre appare «troppo
famelico»37 («A che giova / mutar ladroni?»).
Come si vede, Boito ha usati i dati storici con estrema complessità e inezza, realizzando una costruzione drammatica profondamente coerente,
tutt’altro che supericiale e gratuitamente efettistica. Lo si nota inanche
nella conclusione dell’opera. Il colpo di pistola sparato dal Farnese è esattamente «il segno convenuto»38 tra i congiurati, ma la tremenda ironia che lo
fa diventare gesto autolesionista, azione scriteriata del duca che, libidinoso
ino al delirio, usa l’arma per illuminare Donata nascosta nell’oscurità, è
tutta di Boito, che anche nel compimento della catastrofe nega a Pier Luigi qualsivoglia tratto machiavellico. Al maldestro e grottesco tiranno, lupo
brancolante e vittima di se stesso,39 è tolta anche la pietà suscitata dalla defenestrazione del suo martoriato cadavere: il Farnese è gettato dal verone
moribondo, «tramortito e insanguinato», non morto. Le voci del «popolo commosso» che, nel clamore del delitto, grida «duca duca, smarrito ed
34. Il Principe e Discorsi, pp. 399–400 (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 6).
35. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, p. 170. Anche Anguissola, in verità, era stato bandito
da Piacenza, avendo ucciso nel 1538 l’abate Marazzano, ma era poi passato al servizio dei Farnese, e pochi anni dopo Paolo III lo aveva assolto permettendogli di tornare in patria.
36. Il Principe e Discorsi, p. 416 (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, III, 6).
37. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, p. 97.
38. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 53; [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, p. 180:
«Landi […] poiché venne, e ritiratosi in un salone terreno diè segno con un tiro di pistolla,
esser venuto il punto di far faccende, sorse per tutta la cittadella un feroce tumulto».
39. Cfr. [Ireneo Affò], Vita di Pierluigi Farnese, p. 99: «proseguì a fabbricarsi i proprj danni
colla sua capricciosa condotta».
∙ 335 ∙
∙ Emanuele d’Angelo ∙
incerto», spingendo i congiurati a mostrare «il cadavere insanguinato del
misero Pier Luigi pendente da una inestra» e a lasciarlo cadere nel fossato
ainché la gente lo riconosca,40 nel libretto diventano le grida graianti del
popolo complice, insorto per vendicare «il ratto della suora» (III, 2), che
chiede che il tiranno, aferrato da Landi e Confalonieri «pel crin» e «per le
calcagna», sia precipitato vivo dal verone nella via perché muoia sfracellato: «Morte al Farnese!», «Vogliamo il Duca», «Morte! A terra! / Morte!».
L’ultima disperata battuta del duca boitiano, totalmente antieroica e quasi
comica per il suo netto realismo, è «Ajuto!», quasi un pendant della recisa
parola inale dell’opera assegnata a Gianni, anch’egli disperato, annichilito
dal totale fallimento dei propri piani, progetti d’amore e di vendetta che gli
si sono crudelmente ritorti contro: «Maledizione!», sterile e tragico grido di
rabbia impotente, dichiarazione di riiuto, ruvida imprecazione contro una
realtà spiazzante, sintomo di totale disillusione, un modo schietto di prendersela, oltre che col destino, con se stesso e colle proprie controproducenti
azioni. Di catarsi, more solito, nemmeno l’ombra.41
Boito, insomma, manipola la leggenda romantica e risorgimentale del
Rinascimento nero — estranea, per fonti, agli altri suoi libretti ‘rinascimentali’, il Meistofele e l’Otello — costruendo un dramma tanto ricco di
colore storico (propiziato, tra l’altro, dal tipico gusto neorinascimentale
del tempo) quanto tenebroso, sontuoso e violento, impregnato di tetre
passioni, sfaccettato e inquietante, agitato e machiavellico, una tragedia
tutta notturna in cui anche l’omicidio del duca, che fu compiuto dopo
mezzogiorno, avviene nottetempo. Questa persistente oscurità è attraversata da luci diverse: il brillio delle torce sulla neve, il fulgore di ricchi
candelabri, il debole chiarore di una lanterna, il gelido raggio della luna,
lo scoppio di un razzo, un mistico cero che si spegne, il lampo di un colpo
di pistola. Ma non c’è sole, mai. Lo scapigliato e decadente drammaturgo
ha inoculata nella tragedia tutta la sua nera pessimistica ironia: «S’appressa l’aurora / del nostro amor» (III, 7), dice Gianni a Donata in un fragile
sogno di speranza, ma quell’aurora non spunta, non può spuntare, perché
la notte del Farnese è ininita.
40. Cfr. Federico Odorici, Pier Luigi Farnese, p. 54.
41. Cfr. Rodolfo Quadrelli, Poesia e verità nel primo Boito, in Arrigo Boito, Poesie e racconti, a c. di Rodolfo Quadrelli, Mondadori, Milano 1981, p. 21: «L’autore riesce a condurre
il lettore, gradatamente, a un apice dell’attenzione che, anche nel momento della soluzione
drammatica, non è mai catarsi. Noi siamo portati semplicemente a guardare meglio le cose, le
quali restano immobili nella loro enigmaticità e emblematicità».
∙ 336 ∙