♦ Minimo (minimum) - La nozione di minimo costituisce uno
degli ultimi e più complessi esiti della speculazione bruniana, in
cui convergono la predominante idea di unità dell’essere e quella di
molteplicità infinita degli enti: l’‘uno’, che costituisce per Bruno lo
sfondo ontologico e il nucleo teoretico della fondazione di tutto
quanto esiste, si estrinseca nella realtà sia nella prospettiva di un
universo unico e massimo, sia nella pluralità eterogenea di infiniti
atti, tutti altrettanto unitari. A partire da questo livello, in cui l’attenzione si focalizza sulle nozioni di minimo e di unità, il concetto
di minimo viene poi declinato rispetto ai tre gradi fondamentali di
espressione dell’essere: quello metafisico, che, intrinsecamente all’universo naturale, fonda gli enti come unità d’essere individua; quello
fisico, che definisce una rete materiale vitale – contenente in potenza tutte le possibili determinazioni – formata dagli atomi e dallo
spazio vuoto; infine, quello logico, che si esplica nella puntualità
degli oggetti matematici, divenendo l’asse portante di una rinnovata
geometria fondata sul discreto.
Le fonti di Bruno
La particolare nozione di unità che domina tutta la filosofia bruniana affonda le radici nella cultura filosofica che precede Platone
ed Aristotele: è, ad esempio, al monismo parmenideo che Bruno
guarda quando tenta di recuperare argomenti forti per superare i
‘dualismi’ (potenza/ atto, forma/ materia, ecc.) propri del platonismo e dell’aristotelismo; ugualmente, egli si ispira alla tradizione
pitagorica quando cerca di proiettare quella stessa concezione di
unità / essere assoluta e onnipervasiva nella realtà naturale, definendo l’uno il fondamento delle cose che sono sia singolarmente che
totalmente (cfr. Causa, DFI, p. 286: «la unità [secondo Pitagora] è
causa e raggione della individuità e puntalità» ed «è un principio
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più absoluto et accomodabile a l’universo ente»). Idee come quelle
di mondi innumerevoli, vitalità della natura e struttura atomistica
della materia, che costituiscono i capisaldi della «nolana filosofia»,
trovano poi elementi di prossimità con i temi centrali dei filosofi
‘fisici’ della Grecia antica: l’elemento privilegiato di connessione tra
Bruno e questi autori è da individuare nel De rerum natura di Lucrezio,
dove questi temi, motivi e riflessioni dell’antichità vengono ripresi e
sistematizzati in una suggestiva visione dell’universo naturale da cui
il Nolano trae ispirazione, soprattutto nel ciclo di poemi filosofici
che elabora e pubblica in Germania poco prima del suo rientro in
Italia e del conseguente arresto da parte delle autorità veneziane.
Vi sono poi molteplici significative prese di posizione contro
la Fisica di Aristotele che possono essere considerate, in negativo, i
motivi propulsori per lo sviluppo di molte delle concezioni filosofiche di Bruno. Tra queste, occupano una posizione non secondaria
la negazione, da parte dello Stagirita, dell’infinito attuale e l’ammissione, invece, dell’infinito in potenza: ciò si traduce, sul piano
della descrizione dell’universo naturale, nell’affermazione sia della
finitezza del cosmo, sia dell’infinita divisibilità dello spazio fisico.
Nella prospettiva teorica bruniana tali concezioni vengono declinate in maniera completamente opposta: l’universo è un atto infinito
che realizza estensivamente e incessantemente tutto ciò che può essere; la materia è costituita di parti minime e individue che sono le
componenti ultime e fondamentali del sostrato naturale. Aristotele
respinge l’idea di costituenti minimi per la materia, che considera
pura e nuda potenzialità, alla quale non viene riconosciuto neppure
il rango di sostanza (cfr. ARIST., Metaph., VII, 3, 1029a, 20-30). Nel
primo libro della Fisica egli riprende la teoria dei quattro elementi di
origine presocratica, traducendola tuttavia su un piano meramente
formale: i quattro elementi diventano così non le parti più semplici della realtà fisica, ma le qualità fondamentali ed elementari
dei corpi, né universali né immutabili, ma piuttosto assimilabili e
trasformabili a seconda delle condizioni dei corpi e delle loro relazioni contestuali; essi vengono inoltre ricondotti a quattro ‘luoghi
naturali’, le sfere fisiche verso cui tendono naturalmente i corpi che
hanno caratteristiche preminenti riconducibili alle corrispondenti qualità. Lo Stagirita teorizza, altresì, l’idea dei minima naturalia,
che sono le condizioni dimensionali minime affinché un ente sia
tale: ogni sostanza, pertanto, richiede una composizione basilare di
caratteristiche quantitative e qualitative affinché possa mantenere
la propria configurazione e identità; tali minimi non sono quindi
entità indivisibili, né sono identificabili con una particolare struttura materiale universale o un costituente elementare di tipo fisico.
Tra Quattrocento e Cinquecento, la teoria dei minima naturalia viene
ripresa e rielaborata in senso più ‘materialistico’ dagli aristotelici
dell’Università di Padova: in particolare, Agostino Nifo e Giulio
Cesare Scaligero la volgono in chiave corpuscolare identificando tali
minimi formali con le parti materiali più semplici che intervengono
nella composizione dei corpi, negli scambi di aspetti qualitativi oppure nelle trasformazioni di natura ‘chimica’.
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Un altro autore che influenza significativamente le riflessioni
bruniane sul minimo, soprattutto per quanto riguarda le considerazioni di natura ontologica che abbiamo premesso, è Cusano, che
definisce nei termini di una coincidentia oppositorum le caratteristiche
primarie dell’essere divino sia sul piano metafisico che rispetto alla
realtà: in questo senso la nozione di minimo accompagna sempre
quella correlata e corrispettiva di massimo, con la quale coincide
ogni qualvolta si adotta una prospettiva universale. «Il massimo,
in quanto è assolutamente tutto ciò che può essere» – afferma Cusano nel primo libro del De docta ignorantia – «non può essere più
grande, né, per la stessa ragione, più piccolo, perché è tutto ciò
che può essere»; ma poiché «il massimo è allo stesso modo [del
minimo], è chiaro che il minimo coincide col massimo» (CUSANO 1991, p. 65). Tale prospettiva, che vale in senso assoluto e in
riferimento a Dio, viene parzialmente meno nel momento in cui
la si riferisce all’universo naturale, dove l’unità del principio divino risulta ‘contratta’ nella pluralità degli enti; in quel caso, totalità
e particolarità divergono perché il grado di contrazione dell’unità
muta in proporzione ai livelli di complessità formale del mondo,
esattamente come l’unità si mostra diversamente contratta – pur
restando medesima – nel dieci, nel cento o nel mille (cfr. pp. 1289). Tale ragionamento, introdotto nel secondo libro, prosegue poi
nei capitoli iniziali del terzo, in cui il filosofo riflette sulle specie,
sull’uomo e sull’unico essere in grado di mediare tra l’assolutezza
di Dio e la particolarità degli enti: questo è identificato in Cristo,
inteso sia come seconda persona della Trinità, sia come figura storica ed escatologica che, tornando nella dimensione terrena, porta
a un esito finale l’espressione mondana delle possibilità. In queste
pagine, partendo dal presupposto che «nessun essere contratto può
partecipare in modo preciso di un altro grado di contrazione», si
evidenzia che «tutti i contratti stanno tra il massimo e il minimo»:
di conseguenza, «il processo ascensivo, o quello discensivo, nei contratti, non può arrivare al massimo o al minimo assoluto», e né
l’universo può raggiungere «il termine della massimità assoluta»,
né, nella direzione opposta, una specie «procede discendendo fino
ad essere la specie minima di un genere»; in conclusione, «sia che
contiamo procedendo dall’alto, sia che contiamo procedendo dal
basso, incominciamo sempre dall’unità assoluta che è Dio». La
molteplicità e varietà delle specie deve quindi essere considerata
simile «ai numeri che ci vengono incontro procedendo dal minimo che è il massimo, e dal massimo cui non si oppone il minimo:
così che non ci sia nessuna cosa nell’universo che non goda di una
singolarità sua propria» (pp. 160-2). Le argomentazioni di Cusano
evidenziano così, a un primo grado, la differenza tra la nozione di
unità riferita alla pura dimensione metafisica (l’Uno-Dio) e quella
che riguarda il contesto mondano (l’essere uno nelle specie e nelle
cose); in subordine a questa prima distinzione è rimarcata poi la
distanza tra il minimo ontologico – che riguarda la radice unitaria dei singoli enti – e un minimo formale che, caratterizzando la
configurazione specifica degli individui, è, in una modalità assai più
relativizzata, l’estrema dispersione dell’unità divina nel molteplice,
e quindi la massima contrazione di essa nei molti. Tale discrasia
può risolversi riportando il punto di vista alla totalità – perdendo
però il riferimento ai singoli enti –, oppure, come Cusano propone,
facendo riferimento a Cristo che è il punto di massima convergenza
tra totalità e individualità, tra il massimo degli individui e la minima
contrazione dell’uno, senza che avvenga alcuna dispersione dell’essere: egli costituisce infatti l’esemplare massimamente perfetto e
perdurante di tutti gli uomini, che a loro volta ‘complicano’ tutte le
forme viventi; di conseguenza, «in Gesù Cristo l’umanità ha il suo
supporto nella divinità» (pp. 170-1).
Origine e fondazione della nozione bruniana di minimo
Le suggestioni teoriche appena presentate iniziano a delinearsi
nei dialoghi italiani di argomento cosmologico, in cui Bruno descrive l’universo naturale riprendendo molti degli argomenti utilizzati
da Cusano e declinandoli, tuttavia, entro una prospettiva teoretica radicalmente diversa. In modo ancora più marcato rispetto alle
sue fonti, egli tratteggia infatti l’immagine di un universo infinito e
massimo che tende ad assumere le caratteristiche di Dio stesso, pur
facendo ricorso a termini e schemi argomentativi che sono molto prossimi a quelli cusaniani: «È dumque l’universo uno, infinito,
inmobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto. […] Uno
il massimo et ottimo» (Causa, DFI, p. 277). La distanza ontologica
tra la totalità e gli individui particolari («Alla proporzione, similitudine, unione et identità de l’infinito non più ti accosti con essere
uomo che formica, una stella che un uomo», pp. 278-9) implica
che i singoli enti non siano che un dettaglio ‘accidentale’ sulla superficie di una sostanza che permane sullo sfondo eterna e immutabile.
Non vi è pertanto, nella prospettiva bruniana, alcun termine di mediazione tra il tutto ed il singolo, se non la natura stessa, in cui gli
enti individuali trovano il proprio fondamento, la ragione d’essere
e il quadro entro cui si svolge la loro peculiare vicenda. Secondo
questa prospettiva, il minimo – inteso come unità fondamentale e
fondativa dell’ente particolare – è un concetto limite, poiché nello
spazio infinito ciò che sussiste realmente è la sostanza e, nella forma
determinata, l’universo stesso, ente in sé e non semplice contenitore
degli infiniti esseri che lo popolano: «Se il punto non differisce dal
corpo, il centro da la circonferenza, il finito da l’infinito, il massimo
dal minimo», ne deriva che «l’ottimo, massimo, incomprehensibile,
è tutto, è per tutto, è in tutto» (pp. 279-80). I due estremi della
realtà naturale vengono così tratteggiati nei termini di una speculare
e sostanziale assolutezza: da una parte vi è la totalità infinita delle
cose che è ‘organismo’ ed ente unico, dall’altra il sostrato universale
sul quale tutte le cose prendono corpo; entrambi sono infiniti e
sono espressione di tutte le cose che possono essere. A questo livello, massimo e minimo sono due nozioni coincidenti e convergenti
nella dimensione dell’assoluto, con la differenza che in Bruno esse
caratterizzano, oltre a Dio, anche la sostanza del tutto e, soprattutto, la sua estrinsecazione unitaria, infinita e incessante.
La visione delineata nel De la causa viene ulteriormente approfondita nel De l’infinito: in questa opera si pongono le condizioni
teoriche per una prima e non ancora compiutamente definita visione corpuscolare della realtà che, per molti versi, si richiama alla
teoria dei minima naturalia di Aristotele, con accezioni materialistiche
che ricordano molto da vicino anche le posizioni degli aristotelici
della scuola padovana. In più luoghi del testo si fa così riferimento
alla struttura fisica delle cose in quanto composizione di parti più
elementari, qualitativamente orientate o, comunque, costituenti le
componenti basilari della superficie vitale della natura (cfr. DFI, pp.
310-1, 362, 396-7). In un passo molto significativo, in particolare,
Bruno osserva che si dà crescita nei corpi «quando l’influsso de gli
atomi è maggior che l’efflusso», stabilità «quando l’efflusso è equale
a l’influsso» e «declinazione» quando l’efflusso è «maggior che l’influsso» (p. 360). Questo processo, che si verifica tra gli aspetti più
semplici e corpuscolari della dimensione naturale, riguarda tutto
lo spazio del cosmo e incide sulla trasformazione e vicissitudine
dei singoli corpi (compresi i mondi), ma non intacca la natura del
sostrato: «il soggetto primo e formabile se muove infinitamente, e
secondo il spacio e secondo il numero delle figurazioni; mentre le
parti della materia s’intrudeno et extrudeno da questo in quello et
in quell’altro loco, parte e tutto» (ibid.). Non vi è, in questo caso,
una definizione in senso propriamente ontologico del minimo: il
piano dell’identità unitaria (che già nel De la causa si esprime nelle
singole cose) non ha niente ha che fare con queste parti elementari
del composto, anche perché il principio di individuazione di ogni
ente riposa su una condizione della materia, intesa come causa e
principio dell’attualità (Causa, DFI, pp. 266-75), che è astratta da
ogni determinazione dimensionale, specifica e qualitativa, pur essendone il fondamento ultimo.
Tale riflessione sugli aspetti più elementari della materia prosegue e si affina, tuttavia, nelle opere che seguono il ciclo dei dialoghi italiani, soprattutto in quelle in cui vengono discusse e criticate
apertamente le teorie ‘fisiche’ di Aristotele (i Centum et viginti articuli
de natura et mundo e la Figuratio Aristotelici Physici auditus): in questi scritti, uno degli aspetti della Fisica che viene sistematicamente criticato
da Bruno riguarda, in margine alle definizioni che lo Stagirita dà
dell’infinito, proprio la teoria dell’infinita divisibilità della materia; a
questa il Nolano contrappone sia l’idea che l’infinito possa essere in
atto, sia che non si possa suddividere all’infinito la natura, dovendo
necessariamente giungere alle sue parti minime (formali e materiali). Tali argomentazioni diventano poi uno dei nuclei teorici centrali
degli scritti, pubblicati in quegli stessi anni, che fanno riferimento
all’invenzione del compasso di Fabrizio Mordente, per cui, attraverso la descrizione di una geometria del discreto basata su ‘punti’ e
‘termini’, viene delineata una nuova concezione del sostrato materiale, oltre che del piano geometrico. La geometria e la matematica, in
particolare, divengono strumenti teorici estremamente preziosi per
trasporre le riflessioni elaborate fino a quel momento su un piano
speculativo ancora più raffinato, che investe direttamente la conce-
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zione della sostanza e della sua estrinsecazione nel contesto naturale.
Gli Articuli adversus mathematicos costituiscono in questo senso l’inizio
della fase più matura di tale percorso speculativo, poiché in essi l’idea
dell’Uno come principio di fondazione dell’essere di tutte le cose
tende a sovrapporsi completamente con la visione di una sostanza
caratterizzata anche in senso ontologico dalla presenza del minimo:
in particolare, l’omogeneità e l’assolutezza dell’unità sostanziale
emerge alla superficie della natura attraverso la trama puntiforme del
sostrato primo, dalla cui composizione e configurazione deriva poi
la determinazione di tutti gli enti che sussistono in esso. In questo
testo si trova quindi la prima definizione in senso ‘triplice’ del concetto di minimo, applicato al piano formale (la monade), a quello
materiale (l’atomo) e a quello geometrico (il punto), e attorno ad
essa è costituita una simmetrica corrispondenza tra i tre piani fondamentali dell’ontologia bruniana, il mondo metafisico, l’universo
naturale e la sfera logica (cfr. Art. adv. math., OL I, 3, pp. 21-7).
Il minimo sostanza delle cose
Il De minimo, in cui Bruno estende, approfondisce e completa le
riflessioni svolte negli Articuli adversus mathematicos, si apre con la dichiarazione che «il minimo è la sostanza delle cose» (De minimo tr.,
p. 95): da esso «derivano la monade, l’atomo, lo spirito che tutto
pervade, che non ha dimensioni e che tutto costituisce con la sua
impronta, essenza universale e, se bene osservi, tutto è costituito
da esso, perfino la materia stessa» (pp. 95-6). Il minimo è quindi l’espressione e la manifestazione puntuale dell’unità dell’essere:
esso si esplica sul piano della realtà determinando l’azione stessa
della natura (lo spirito vitale), costituendo le parti più elementari,
predimensionali e non qualitativamente orientate del sostrato materiale (gli atomi) e fondando l’individuazione formale dei singoli
enti e della loro distinzione in senso numerico (la monade). Così,
assumendo un punto di vista che parte dall’«individuità», dall’unominimo originario scaturisce la molteplicità e ogni forma di complessità per aggregazione di più minimi, fino all’infinita totalità che
comprende tutte le cose esistenti: «il massimo deriva dal minimo,
tende e si risolve nel minimo; esiste in funzione di esso» (p. 96).
La prospettiva dei dialoghi italiani è dunque cambiata: si afferma
adesso un percorso che dal minimo, inteso in senso assoluto e sostanziale, fa derivare tutta la realtà, in virtù della composizione di
ulteriori e infinite ‘forme’ di esso, le quali vanno a fondare e determinare, per ogni stato dell’essere, la configurazione formale e
materiale delle cose. Attraverso tale teoria Bruno riesce dunque a
dimostrare che, anzitutto, «la scomposizione sia della natura che
della vera arte, che non supera i confini della natura, […] perviene
all’atomo» (p. 110); in secondo luogo e in direzione opposta, che
«nella fase ascensiva, invece, non sussiste alcun limite né per natura
né per procedimenti razionali»: di conseguenza «il minimo è […]
presente ovunque e sempre, il massimo in nessun luogo e mai» (pp.
110-1), divenendo quest’ultimo un concetto limite che proietta la
totalità verso l’universalità e, quindi, l’assolutezza.
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Benché il minimo venga detto ‘triplice’, Bruno distingue essenzialmente due modalità secondo cui il minimo è «la sostanza delle
cose», separando il piano materiale da quello formale-logico: «sebbene sia espresso da un genere diverso della quantità, [il minimo]
costituisce il principio della quantità e della grandezza»; esso è
pertanto ‘atomo’, sia nel senso più proprio, cioè «in quelle entità corporee che costituiscono gli elementi originari» (p. 97), sia,
meno propriamente, «in quelle che sono tutte in tutto e nelle singole parti», cioè fondano in senso continuo e omogeneo le relazioni
che sussistono tra le cose da un punto di vista vitale e qualitativo.
È invece «monade da un punto di vista razionale nei numeri; da
un punto di vista essenziale in tutte le cose», il che significa che
il minimo è l’elemento unitario ed essenziale che sta alla base sia
dell’individuazione degli enti reali, sia della nozione di unità numerica nella dimensione logica; in senso lato, esso caratterizza la
distinzione che è propria del pensiero argomentativo e della sintesi unificante di quello intellettivo; pertanto, in quanto principio
unitario dei pensieri e dell’ente stesso, il minimo/monade è anche
il fondamento dell’identità individuale dell’uomo («con il termine monade viene esaltato l’ottimo, il massimo, la sostanza prima
e l’entità fondamentale presupposto di ogni ente particolare», pp.
97-8). In particolare, la duplice partizione del minimo in ambito
materiale – in senso ‘proprio’ e ‘meno proprio’ –, rimanda ai due
aspetti principali che costituiscono il sostrato materiale. Da una
parte Bruno intende l’atomo come il punto minimo e indivisibile
della determinazione fisica e, in quanto tale, è il corpo minimo o,
meglio, il fondamento minimo della corporeità; in secondo luogo
definisce come altrettanto minimo, individuo e predimensionale anche il vacuum che, a differenza degli atomi che sono tutti distinti tra
loro, è invece omogeneo e continuo e si trova, nella struttura reticolare del sostrato, interposto tra gli atomi. A questo proposito Bruno
si sente in dovere di rimarcare la propria distanza dagli atomisti
greci rispetto ad un nodo teorico cruciale: se infatti è concorde con
loro nell’affermare che tutte le composizioni derivano la propria
configurazione «per la differenza esistente tra il vuoto ed il solido
nonché tra le caratteristiche e l’ordine dell’uno e dell’altra», egli
rifiuta tuttavia la definizione del vuoto come mera assenza d’essere,
e considera piuttosto il vacuo in qualità di «una materia che […]
unisca» gli atomi (ibid.). Lo spazio vuoto è pertanto, sul piano materiale, una sorta di collante ontologico per i minimi: è possibilità
ove essi sono determinazione, è negazione e terminazione, mentre
essi pongono puntualmente l’‘esserci’ della corporeità; se quindi, da
una parte, il «vacuo» può dirsi subordinato all’atomo – perché si
trova dove esso non è –, dall’altra è una realtà ad esso pienamente
complementare, dal momento che costituisce lo spazio nel quale gli
atomi si muovono e in virtù del quale essi danno vita alle molteplici
aggregazioni dalle quali derivano tutte le cose.
Un’ultima riflessione deve essere compiuta, infine, in merito alla
distinzione tra minimo assoluto e relativo. Con il primo Bruno intende il minimo «per il quale sono costituiti i corpi ed ogni specie
definita; esso è fondamento e principio»; il secondo, invece, viene
«ammesso per ipotesi, ossia in via di supposizione e di relazione»
e «si costituisce variamente e a seconda della varietà dei soggetti e
della loro determinazione» (p. 128): «non può esistere», infatti,
«un bue più piccolo del minimo bue, né una mosca più piccola della minima mosca, poiché le specie che si determinano in base a numeri diversi non sono rapportabili ad un’unica e simile misura» (p.
127). A motivo di questa definizione, il minimo relativo può essere
poi anche ‘sensibile’ e conoscibile logicamente – seguendo le proprietà numeriche che derivano dal numero uno – se l’aggregazione
e la configurazione corrispondente di minimi e di parti composite
è sufficientemente complessa da rendere tale corpo percepibile dai
sensi umani e oggetto di esperienza. Il piano del sostrato materiale
– nel quale i minimi non hanno né quantità determinata, né alcuna
qualificazione formale – sfugge invece completamente alla percezione e all’intelligenza dell’uomo, se non come oggetto teorico che è
possibile evincere in negativo rispetto al sussistere delle cose naturali: l’astrazione matematica che deriva dalla messa in opera della geometria descrittiva costituisce pertanto lo strumento privilegiato per
la circoscrizione teorica del minimo. Bruno trasforma infatti tale
disciplina in un’esperienza pratica che diviene esperimento logico di
contemplazione visiva e intellettuale, nel momento in cui, attraverso
le sue operazioni e le figure che essa compone, viene a rivelarsi la
trama essenziale e più profonda della realtà (cfr. pp. 137-40, cap.
XIV: «Il minimo è evidente sia nel grande che nel massimo»).
M. MATTEOLI
Vedi anche
Atomo; Individuo; Massimo; Monade; Soggetto; Termine; Uno,
unità; Vacuo
Opere
CUSANO 1991
Bibliografia
ATANASIJEVIĆ 1923, FANTECHI 2006, MICHEL 1960, MONTI 1980,
MONTI 1994
| Minister / Ministratio / Administrare ♦ |1237