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Etica & Politica / Ethics & Politics, XII, 2010, 2, pp. 306−337 Diritti minimi Edoardo Greblo Università di Trieste Dipartimento di Filosofia, Lingue e Letterature edgreblo@tin.it ABSTRACT The point of this essay is that the arguments advanced by thinkers like John Rawls e Michael Ignatieff in favour of a core rights to life and liberty are not consistent with their positions in favour of human rights minimalism. Just the fact that human rights minimalism implies the right to physical security and to basic freedom of movement should lead these philosophers not only to recognize both the importance and the value of other rights, but also to include certain aspects of the sphere of private life and of cultural practice in the field of international law. Human rights, that are going to become popular through international debates, compell us first to reconsider the dichotomy between public and private sphere; second, the dichotomy between social and political interests; third, the necessity of subordinating politics of human right, with no exception, either to prudential and historical convenience (see Ignatieff), or to the observance of pluralism (see Rawls). 1. L’evoluzione (e l’involuzione) dei diritti Se si osserva la contrastata evoluzione dei diritti umani in una prospettiva storico-sociologica, che non si limiti, cioè, a criteri solo formali di classificazione, non è difficile osservare la crescente tendenza – per quanto contrastata e discontinua – a estendere e generalizzare il sistema delle garanzie. I sociologi del diritto, a partire dal lavoro pionieristico di Marshall,1 hanno interpretato questa tendenza parlando di “ondate” e “generazioni”. Con la prima “ondata”, i cittadini si conquistano il diritto a non subire interferenze nell’esercizio delle loro libertà private soggettive: si tratta dei diritti di “prima generazione”, i diritti civili, che riguardano in particolare la proprietà privata, la libertà personale e l’autonomia negoziale. Con la seconda, si vedono riconosciuta la possibilità di tradurre i loro interessi privati in una volontà politica capace di orientare l’amministrazione pubblica: si tratta dei diritti di “seconda generazione”, i diritti politici, che favoriscono l’ampliamento dell’area della cittadinanza al di là delle istituzioni elitarie dello Stato liberale. Con l’ultima “ondata”, infine, l’autorità politica conviene sull’opportunità di emanare provvedimenti finalizzati all’erogazione di prestazioni e servizi proceduralmente definiti per tutti i cittadini: si tratta dei diritti di “terza 1 T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Laterza, Roma-Bari 2002. EDOARDO GREBLO generazione”, i diritti sociali di ripartizione, i quali corrispondono all’idea che non sia possibile agire in maniera politicamente autonoma se non vengono create le condizioni effettive per la piena realizzazione dell’autonomia privata. Nonostante questa linea evolutiva abbia rappresentato il vettore del progresso morale che ha conferito credibilità e forza di attrazione alla dottrina “occidentale” dei diritti dell’uomo, essa è attualmente sottoposta a pressioni fortissime.2 Mentre sul piano nazionale si assiste all’attacco retorico e materiale alle politiche di Welfare, sul piano globale si mira a sganciare le libertà civili e politiche dalla garanzia dei diritti sociali ed economici. Un intellettuale autorevole come Michael Ignatieff sostiene per esempio l’idea che siano i diritti suscettibili di tutelare la libera capacità umana di agire (agency) in modo autonomo in vista della realizzazione di scopi razionali – la “libertà negativa” nell’accezione attribuita al concetto da Isaiah Berlin per distinguerla dalla “libertà positiva” – a rappresentare la sola classe dei diritti verosimilmente capace di riscuotere un consenso internazionale sufficientemente ampio.3 Per John Rawls, invece, la “speciale urgenza”4 dei diritti umani non è strettamente limitata alla tutela della libertà da una costrizione esterna, ma ricomprende anche le classiche libertà civili e politiche – e tuttavia non contempla i diritti democratici che permettono ai cittadini di partecipare a una prassi comune. Nella misura in cui questi approcci “minimalisti” ai diritti umani dissociano radicalmente i diritti-immunità dai diritti-pretese e ripropongono l’idea che per assicurare un diritto a una persona è sufficiente che lo Stato si astenga da ogni ingiustificata intrusione negli affari privati dei cittadini, si pongono in controtendenza rispetto alla giurisprudenza sui diritti umani prevalente in ambito internazionale, che invece considera i diritti come un sistema indivisibile di garanzie reciprocamente intrecciate. Il fatto che la concezione minimalista dei diritti umani venga attualmente riproposta per ridimensionare i diritti sociali, culturali ed economici, non meno che gli sforzi dei movimenti per i diritti umani per estendere i diritti civili e politici a fattispecie in precedenza ignorate o sottostimate, può anzi essere considerato come una risposta alla costante espansione del discorso interculturale sui diritti umani, al fenomeno che Ignatieff definisce come “l’inflazione dei diritti”.5 Sull’idea che l’età dei diritti stia attraversando una crisi profonda, cfr. U. Allegretti, Diritti e stato nella mondializzazione, Città aperta, Troina 2002, pp. 121-197; R. Falk, L'eclisse dei diritti umani, in L. Bimbi (a cura di), Not in My Name. Guerra e diritto, Editori Riuniti, Roma 2003, pp. 72-86 e Id., The Great Terror War, Arris Books, Gloucestershire, 2003, pp. 147-172; T. Mazzarese, Is the Age of Rights at a Turning Point?, in “Finnish Yearbook of International Law”, 13, 2002, pp. 107-126. 3 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani (2001), Feltrinelli, Milano 2003. 4 J. Rawls, Il diritto dei popoli (1999), Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 104. 5 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 92. Cfr. anche A. Gutmann, Introduction, in A. Gutmann (a cura di), Human Rights as Politics and Idolatry, 2 307 Diritti minimi All’origine dell’idea che per giustificare una pratica dei diritti umani più efficace di quella attuata dalle organizzazioni internazionali impegnate in questo campo sia necessaria una procedura deflattiva o una giustificazione “minimalista” vi sono due distinti ordini di considerazioni. Da una parte vi è chi ritiene che il pluralismo, un dato di fatto che non può ovviamente essere eluso, implichi una qualche forma di relativismo: ogni tradizione, immagine del mondo o cultura porta impressa su di sé i propri rispettivi – e incommensurabili – criteri di giudizio alla cui luce vanno valutate le violazioni dei diritti umani, si tratti di questioni come l’inviolabilità della vita privata o della libertà di opinione, della libertà di associazione o del diritto di partecipazione. Dall’altra vi è chi ritiene che tutto quello che si può dire dei diritti umani è che essi sono necessari per difendere gli individui dalla violenza ingiustificata e che la sola possibile giustificazione adducibile a loro sostegno sia di natura storica e prudenziale. Queste due distinte forme di giustificazione “minimalista” si distinguono perciò a seconda di quale sia la caratteristica dei diritti umani a richiedere una sorta di “dimagrimento” concettuale rispetto a ogni credenza di tipo sia universalistico e fondativo, sia contenutistico e sostantivo. Nel primo caso si pone l’accento sull’ascetismo giustificativo: se il discorso dei diritti umani deve dare ascolto in anticipo a tutte le voci, occorre ridurre al minimo le particolarità che dissimulano sotto il mantello dell’universalità criteri e principi che non andrebbero esportati al di fuori della validità meramente locale del loro rispettivo contesto di origine – e quindi di applicazione. Nel secondo caso l’accento cade invece sulla necessità di ridimensionare l’estensione e le finalità dei diritti umani: questi vanno ricondotti essenzialmente alla tutela dei diritti di cui gli individui godono nei confronti dello Stato e dei concittadini. I diritti sono diritti “negativi” e servono a garantire i margini di scelta entro i quali le persone devono essere e rimanere libere da coercizioni esterne.6 Di là delle differenze, alla base della concezione minimalista vi è l’idea che il Princeton University Press, Princeton 2001, secondo la quale “la proliferazione dei diritti umani, che arriva a includere diritti che non sono evidentemente necessari a proteggere le capacità di agire essenziali o i bisogni o la dignità delle persone finisce per screditare le finalità dei diritti umani e per indebolire i propositi di coloro che dovrebbero potenzialmente applicarli” (p. X). Cfr. anche C. Douzinas, The End of Human Rights. Critical Legal Thought at the Turn of the Century, Hart, Oxford 2000 e A. Cassese, “Ripensare i diritti umani: quali prospettive per i prossimi decenni?”, in Id., I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 211-229. Di “inflazione” dei diversi soggetti titolari dei diritti parla anche C. Margiotta, I diritti e l’inflazione dei soggetti, in “Filosofia Politica”, 3, 2005, pp. 422-426. 6 J. Cohen, in Minimalism About Human Rights: The Most We Can Hope For?, “The Journal of Political Philosophy”, 3, 2004, p. 192, si riferisce a queste prospettive richiamandosi, rispettivamente, al “minimalismo giustificativo” e al “contenuto sostantivo”. 308 EDOARDO GREBLO sistema dei diritti possa – e debba – essere disaggregato e scomposto, isolando e differenziando le diverse tipologie di diritti e riclassificandoli in funzione di singoli scopi particolari, con buona pace di quanto affermato dalla Dichiarazione di Vienna del 1993, nella quale, all’art. 5, si afferma espressamente che “tutti i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interconnessi”, e che “la comunità internazionale ha il dovere di trattare i diritti umani in modo globale e in maniera corretta ed equa, ponendoli tutti su un piano di parità e valorizzandoli allo stesso modo” – oltre che delle tendenze prevalenti nella giurisprudenza internazionale e nelle campagne promosse dagli attivisti e dalle varie Organizzazioni non governative impegnate in questo campo.7 In effetti, non c’è dubbio che alla universalità solennemente proclamata dei diritti dell’uomo non corrisponda una eguale efficacia nel loro grado di protezione internazionale. E tuttavia, secondo questa dottrina, ciò non è imputabile soltanto al particolarismo degli Stati nazionali e al principio della inviolabilità delle loro frontiere, ma anche e (forse) soprattutto alla loro tendenza a espandersi al di là del solo contesto di applicazione in cui esprimono legittimi interessi universali: quello di creare una cornice normativa in cui gli individui più vulnerabili e privi di potere possano usufruire delle protezioni offerte dalla “libertà negativa”, cioè della pura e semplice difesa dell’integrità psicofisica personale, dell’attività economica e della privacy. L’idea soggiacente è che il passaggio dai diritti civili ai diritti politici e poi ai diritti sociali, ossia dalle libertà negative alla “libertà positiva”, richieda ai poteri, alle autorità e alle agenzie chiamate ad amministrarli prestazioni destinate a essere sempre più difficili da realizzare. E ciò perché il riconoscimento di nuove categorie di diritti a nuove categorie di persone genera problemi tanto sul piano dei contenuti, dal momento che comporta obblighi non solo di astensione ma anche di azione da parte dei poteri pubblici, quanto dal punto di vista del pluralismo, dal momento che quanto più ci si avvicina allo loro effettiva implementazione tanto più ci si deve misurare con la varietà e pluralità dei modelli di vita buona. La domanda che è opportuno porsi è allora la seguente: le concezioni minimaliste dei diritti umani – sia quelle fondate sul richiamo al fatto del pluralismo (Rawls), sia quelle motivate (almeno prevalentemente) da considerazioni pragmatiche e prudenziali (Ignatieff) – mantengono quanto promettono? E cioè: per porre alcuni diritti al riparo dalle critiche e dalle contestazioni, è davvero necessario isolare un La Dichiarazione di Vienna (1993) afferma che “tutti i diritti umani sono universali, indivisibili, interdipendenti e interrelati”. Cfr. E. Brems, Human Rights: Universality and Diversity, Martinus Nijhoff Publishers, The Hague 2001; I.E. Koch, Human Rights as Indivisible Rights, Martinus Nijhoff Publishers, The Hague 2009. Per una visione critica, cfr. D.J. Whelan, Indivisible Human Rights. A History, University of Pennsylvania Press, Philadephia 2010. 7 309 Diritti minimi nucleo circoscritto di libertà e rinunciare alle concezioni che ne suggeriscono, invece, l’indivisibilità e l’interdipendenza? Naturalmente, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani potrebbero essere difese in vari modi. È per esempio possibile ricorrere alle strategie argomentative che attestano i legami strutturali tra le differenti classi di diritti umani e suggeriscono di astenersi dall’introdurre una chiara linea di demarcazione tra diritti (umani) negativi e positivi.8 Oppure è possibile ricavare sostegno dai teorici delle capacità, che dimostrano la complementarità tra l’incremento delle capacità umane e lo sviluppo delle condizioni che permettono la realizzazione dei diritti umani.9 In questa sede ci si limiterà a un obiettivo decisamente più circoscritto: a sostenere, cioè, che neppure le protezioni più elementari garantite dalla “libertà negativa” – come il diritto alla incolumità fisica, alla sicurezza personale, alla difesa dal male e dalla crudeltà che gli esseri umani possono infliggere ad altri esseri umani – possono essere assicurate senza alcune forme di protezione economica e sociale e senza le libertà che sono (almeno in parte) costitutive di questi stessi diritti. I cosiddetti “nuovi” diritti umani, che estendono alcuni diritti, in particolare i diritti civili, ben al di là della loro classica collocazione e che servono a difendere i membri più vulnerabili di una nazione o di una cultura da pratiche – violazioni all’integrità fisica, traffico di esseri umani, schiavitù domestica e altre – considerate giuste e legittime nell’ambiente di provenienza, illustrano in modo particolarmente chiaro in quale misura le violazioni dei diritti civili, sociali ed economici siano intrecciate le une con le altre.10 Alcune recenti critiche alla concezione neoliberale dei diritti umani si sono appuntate sul fatto che nel sancta sanctorum dei diritti, il nucleo minimo considerato realisticamente difendibile, non compaiano i diritti politici di partecipazione democratica.11 Ora, nella prospettiva minimalista è certo possibile concedere che la libertà di parola e la libertà politica debbano Cfr. per esempio J.W. Nickel, “A Defense of Welfare Rights as Human Rights”, in T. Christiano e J. Christman (a cura di), Contemporary Debates in Political Philosophy, WileyBlackwell, Oxford 2009, pp. 437-455, e Id., Rethinking Indivisibility: Towards a Theory of Supporting Relations Between Human Rights, “Human Rights Quarterly”, 4, 2008, pp. 9841001. 9 M.C. Nussbaum, Diventare persone (2000), Il Mulino, Bologna 2001, e Ead., Le nuove frontiere della giustizia (2006), Il Mulino, Bologna 2000; A.K. Sen, Lo sviluppo è libertà (1999), Mondadori, Milano 2000, e Id., Elements of a Theory of Human Rights, “Philosophy and Public Affairs”, 4, 2004, pp. 315-356. 10 Cfr. C. Bob (a cura di), The International Struggle for New Human Rights, University of Pennsylvania Press, Philadelphia (PA), 2009. 11 Cfr. J. Cohen, in Minimalism About Human Rights: The Most We Can Hope For?, cit.; M. Nussbaum, Women and the Law of Peoples, “Politics, Philosophy and Economics”, 3, 2002, pp. 283-306; S. Benhabib, Is There a Human Right to Democracy? Beyond Interventionism and Indifference, The University of Kansas, Lawrence (KS) 2008. 8 310 EDOARDO GREBLO prevedere alcuni prerequisiti materiali, da una ridiscussione della distribuzione economica alla distribuzione dell’istruzione, e tuttavia rimane indiscussa la convinzione che, per ragioni ispirate alla prudenza, sia opportuno adottare una procedura deflazionista, così da tenere a freno la crescita incontrollata di una politica dei “diritti insaziabili12, ossia la tendenza a definire come un diritto tutto ciò che è desiderabile. Per essere efficaci, le politiche orientate a promuovere il rispetto dei diritti umani dovrebbero rinunciare a una retorica sentimentale che scalda il cuore, ma mette in moto un processo di moltiplicazione arbitraria di tutto ciò che si rivendica come diritto da realizzare. E dovrebbero, invece, isolare, in nome di un’antiretorica orientata in chiave pragmatica alternativa alla cattiva retorica di “un umanesimo in adorazione di se stesso”, come dice Ignatieff, un numero limitato di diritti fondamentali, che andrebbero considerati obiettivi prioritari, e creare degli spazi orientati a risultati concreti nei quali predisporre iniziative coerenti in vista della loro attuazione. Questa linea di attacco perde però molta della sua persuasività non appena si presti attenzione al fatto che alcuni diritti civili e politici sono parzialmente comprensivi dei diritti e delle libertà sociali che operano a sostegno della integrità e della sicurezza fisica. La concezione minimalista dei diritti umani non presta il fianco a dubbi legittimi soltanto dal punto di vista – messo in luce dalle critiche di matrice democratica – che rileva l’assenza, nella individuazione dei diritti umani fondamentali, del diritto all’autodeterminazione politica, ma anche da un punto di vista più originario, per così dire. Nella giurisprudenza internazionale relativa ai diritti umani si è infatti cominciato a riconoscere che vi sono paesi nei quali esistono strutture di socializzazione, rituali, usanze matrimoniali (tra le quali i sistemi di controllo o di proprietà dei beni) che, essendo consuetudinari, vengono tradizionalmente sottovalutati nonostante siano profondamente lesivi della dignità umana. A. Pintore, Diritti insaziabili, in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 20022, pp. 179-200. Cfr. anche A. Gutmann, Introduction, in Ead. (a cura di), Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton, 2001, p. X, secondo la quale “la proliferazione dei diritti umani, che arriva a spingersi sino a comprendere diritti che non sono certamente necessari a proteggere la capacità di agire o i bisogni o la dignità delle persone, ridimensiona le finalità dei diritti umani e indebolisce, in misura corrispondente, la determinazione di coloro che sono potenzialmente incaricati di applicarli”, e A. Cassese, Ripensare i diritti umani: quali prospettive per i prossimi decenni?, in Id., I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 211-229, secondo cui che le istituzioni internazionali disperdono il loro impegno per la protezione dei diritti su un “fronte troppo esteso” e suggerisce una razionalizzazione improntata alla focalizzazione dell'attenzione di tali organizzazioni “su un ristretto numero di diritti umani essenziali”, alla predisposizione di “pochi ma efficaci meccanismi di controllo e di garanzia effettiva dell'attuazione di tali diritti”, e all’accentuazione e diffusione di una “’risposta penale’ alle più gravi violazioni dei diritti umani” (pp. 213-214). 12 311 Diritti minimi Alcune delle più controverse usanze di questo tipo rappresentano una seria sfida all’idea di poter costringere l’intera gamma dei diritti soggettivi entro lo spazio normativo circoscritto da alcuni diritti minimi, poiché rivelano quanto alcune libertà civili e politiche dipendano in misura sostanziale dalla titolarità non solo formale di certi diritti e di certe forme di protezione sociale, come una corretta equiparazione giuridica (neutra cioè rispetto al genere) e un effettivo diritto al lavoro, all’educazione e alla salute. Il carattere profondamente intrecciato di queste rivendicazioni, non meno che delle risposte che occorre dare alle loro violazioni, pone così radicalmente in discussione la biforcazione tra diritti umani di prima, di seconda e di terza generazione – oltre che di ogni distinzione precostituita tra pubblico e privato, dovuta, almeno in parte, al pregiudizio che le violazioni dei diritti umani riguardino unicamente la dimensione pubblica, quasi che le leggi che regolano il matrimonio, il divorzio, l’istruzione obbligatoria e l’eredità fossero una faccenda puramente intrafamiliare. 2. Le ragioni del pluralismo… L’approccio di Rawls a un diritto dei popoli scelto dai rappresentanti dei popoli liberali e che possa risultare accettabile anche ai popoli non liberali è ispirato alla volontà di rispondere alla sfida del pluralismo. Assumendo le società o i “popoli”, e non gli Stati né, tanto meno, gli individui,13 quale unità analitica in materia di relazioni internazionali, Rawls si chiede: “Quale può essere la base di una società dei popoli, date le ragionevoli e attese differenze dei popoli fra di loro, con le loro istituzioni e lingue, religioni e culture distintive, e inoltre con storie differenti, variamente situati in regioni e territori diversi del mondo e infine con l’esperienza di vicende differenti?”.14 La sua risposta ripropone la soluzione al problema della giustizia ideata per essere Questa scelta è stata ampiamente dibattuta. Cfr. S. Benhabib, I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini (2004), Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, pp. 60 ss., per la quale “nel Diritto dei popoli di Rawls gli individui non sono i principali agenti della giustizia, ma tendono piuttosto a scomparire all’interno delle entità che Rawls chiama ‘popoli’”. 14 J. Rawls, Il diritto dei popoli, Edizioni di Comunità, Torino 2001, p. 70. Cfr. T. Pogge, An Egalitarian Law of the People, “Philosophy and Public Affair”, 3, 1994, pp. 195-224; A. Kuper, Rawlsian Global Justice, “Political Theory”, 5, 2000, pp. 640-674; S. Caney, Cosmopolitism and the Laws of the People, “Journal of Political Philosophy”, 1, 2002, pp. 95-123; T. Nagel, The Problem of Global Justice, “Philosophy and Public Affairs”, 2, 2005, pp. 113-146; A. Buchanan, Rawls’s Law of Peoples: Rules for a Vanished Westphalian World, “Ethics”, 110, 2000, pp. 697-721; R. Martin e D.A. Reidy (a cura di), Rawls’s Law of Peoples: A Realistic Utopia?, Blackwell, Oxford 2006. 13 312 EDOARDO GREBLO applicata su scala nazionale: le leggi, le istituzioni e le norme che riguardano la giustizia su scala globale non devono essere basate su dottrine moralmente comprensive, e perciò controverse.15 Al dato di fatto del pluralismo ragionevole a livello domestico, espressione permanente di una cultura democratica che assicura eguali libertà a tutti i cittadini senza distinzione di provenienza culturale, convinzione religiosa e condotta di vita individuale, corrisponde la varietà dei popoli ragionevoli con le loro differenti culture e tradizioni di pensiero, sia religiose sia non religiose. Al “fatto” del pluralismo ragionevole sia a livello nazionale sia a livello internazionale, Rawls reagisce suggerendo una concezione sufficientemente neutra delle norme chiamate a definire i criteri di giustizia globale: se si vuole che possa cristallizzarsi un’intesa di fondo tra popoli con concezioni religiose o metafisiche diverse, è necessario collegarsi a enunciati normativi la cui validità possa essere trasversale rispetto ai confini delle varie concezioni del mondo. Se applicato alla sfera delle relazioni internazionali, il “fatto” del pluralismo ragionevole – che addomestica le differenze ideologiche o religiose trasformandole in fonti di ragionevoli divergenze di opinione – suggerisce un insieme di principi-guida che Rawls definisce “diritto dei popoli” e che incorpora fin dall’inizio una gamma decisamente minore di norme tipicamente liberali rispetto a quanto si verifica nel caso del liberalismo politico, ovvero la teoria domestica della giustizia.16 Uno dei principi cardine del diritto dei popoli è il rispetto dei diritti umani, cui Rawls attribuisce il compito divenuto paradigmatico nella comunità internazionale: portare a termine il processo di legalizzazione di un’autorità statale che potrebbe altrimenti agire senza freni. Lo Stato, inteso come l’organizzazione politica di un popolo, è un’autorità potestativa la cui sovranità giuridica interna deve rispondere alla crescente pressione di normative e giurisdizioni sovrannazionali. Questa pressione lo costringe a sottoscrivere una serie di veri e propri obblighi formali, che lo vincolano al rispetto degli interessi universali di chi è deprivato di potere, pena l’applicazione di sanzioni internazionali. Quando uno Stato mette in pericolo la vita dei suoi cittadini minacciandone i diritti fondamentali, la comunità internazionale non può solo stare a guardare. L’appartenenza al consesso internazionale che Rawls definisce “società dei popoli”, tuttavia, implica la condivisione soltanto di alcuni fondamentali diritti umani, i quali rappresentano un “sottoinsieme proprio dei diritti posseduti dai cittadini in un Cfr. J. Donnelly, Universal Human Rights in Theory & Practice,2 Cornell University Press, Ithaca 2003,2 pp. 40 ss. 16 A. Buchanan, “Taking the Human out of Human Rights”, in R. Martin e D.A. Reidy (a cura di), Rawls’s Law of Peoples. A Realistic Utopia?, cit., p. 151. 15 313 Diritti minimi regime costituzional-democratico”.17 Questa versione minimalista e politica dei diritti umani, che si inquadra nel contesto del pluralismo ragionevole applicato al mondo globale, dipende a sua volta in misura cruciale dalla distinzione tra le società dei popoli liberali bene ordinati e le società dei popoli gerarchici decenti. Mentre i popoli liberali dispongono di un governo democratico costituzionale ragionevolmente giusto al servizio dei loro interessi fondamentali, i cittadini condividono un certo “comune sentire” e aderiscono a una concezione politica e morale del giusto e della giustizia,18 i popoli non liberali sono privi di queste caratteristiche di base, anche se dispongono di una concezione della giustizia quale bene comune e mostrano di rispettare questa concezione nel funzionamento della loro gerarchia di consultazione decente. Non vi sono perciò ostacoli che impediscano alle società dei popoli liberali di aderire all’insieme dei principi regolativi incorporati nel diritto dei popoli, che includono i doveri di non-intervento, di rispetto per i diritti umani e di assistenza nei confronti delle società svantaggiate da condizioni sfavorevoli. I principi incorporati del diritto dei popoli sono però compatibili con il “fatto” del pluralismo soltanto se l’universalismo che li sottende è decisamente minimalista. Devono cioè essere l’espressione di alcuni minima moralia “leggeri” abbastanza da poter essere condivisi anche dai popoli gerarchici bene ordinati, e non soltanto dai popoli liberali. Rawls ritiene infatti che sia di importanza cruciale che il diritto dei popoli non richieda alle società decenti di abbandonare o modificare le loro istituzioni religiose per adottare istituzioni di tipo liberale,19 e che anzi queste società abbiano l’opportunità di interpretare e applicare l’universalismo dei diritti umani in linea con quel senso morale condiviso che coincide con i confini dei singoli popoli. Rinunciando preventivamente a ogni giustificazione di tipo comprensivo e limitandone il contenuto a un nucleo normativo circoscritto, Rawls si aspetta che i diritti umani possano rendersi indipendenti dalla specificità culturale e contestuale dell’Occidente, e che se ne possa così rendere conto anche nella prospettiva delle altre culture. Come ha sostenuto Kenneth Baynes, nella posizione di Rawls si riflette una decisa presa di distanze dalle giustificazioni basate sul diritto naturale e da ogni affermazione che possa risultare “controversa dal punto di vista filosofico, metafisico o religioso, a vantaggio di una fondazione dei diritti umani improntata in un senso spiccatamente politico”.20 Rawls sviluppa perciò la sua concezione politica e minimalista dei diritti umani nel contesto delle norme che potrebbero verosimilmente essere adottate J. Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 107. Ivi, p. 30. 19 Ivi, p. 161, 20 K. Baynes, Discourse Ethics and the Political Conception of Human Rights, “Ethics and Global Politics”, 1, 2009, p. 1. 17 18 314 EDOARDO GREBLO sia dalle società liberali sia dalle società non liberali. Ora, la distinzione tra le une e le altre dipende dallo status conferito ai diritti politici di partecipazione democratica. I popoli non liberali differiscono in misura significativa dai popoli liberali per il fatto di non garantire la piena eguaglianza politica dei cittadini. Inoltre, le forme istituzionali che queste società possono assumere, forme religiose e forme secolari, mostrano una caratteristica comune che Rawls definisce “associazionistica”, nel senso che la partecipazione dei singoli cittadini alla vita della società non avviene uti singuli, ma in quanto membri dei rispettivi gruppi di appartenenza, ai quali è concesso di accedere a una gerarchia di consultazione decente.21 Il pluralismo ragionevole richiede perciò che i diritti umani incorporati nel diritto dei popoli debbano limitarsi a ritagliare un sottoinsieme della gamma completa dei diritti di cui godono i cittadini delle democrazie costituzionali e di alcune società comunitarie o associazioniste.22 Nella visione di Rawls, questo sottoinsieme comprende il diritto alla vita (mezzi di sussistenza e sicurezza personale); il diritto alla libertà (libertà dalla schiavitù, dalla servitù e dal lavoro coatto), nonché alla libertà di coscienza, garantita in una misura sufficiente ad assicurare la libertà di religione e di pensiero; il diritto alla proprietà (proprietà personale); e infine il diritto a quell’eguaglianza formale che è espressione delle regole della giustizia naturale (casi simili vanno trattati in modo simile). I diritti umani, così intesi, non possono essere respinti perché tipicamente liberali o specifici della tradizione occidentale. Il loro non è un orizzonte politico parrocchiale.23 Basta poco per vedere come dalla lista di Rawls siano assenti molti dei diritti umani specificati nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, oltre che nei due Patti delle Nazioni Unite sui diritti umani – il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali – emanati nel 1996 ed entrati in vigore dieci anni più tardi, così come nella Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW, 1979). In particolare, spicca l’assenza dei diritti individuali di partecipazione e rappresentanza politica: invece di offrire ai cittadini la possibilità di associarsi in modo da esprimere una volontà politica in grado di influire sulle autorità o i governi, le società gerarchiche decenti possiedono “una gerarchia di consultazione decente o un suo equivalente” e riconoscono un certo diritto al dissenso, rinunciando a liberarsi dei dissidenti “semplicemente tacciandoli di incompetenza o di scarsa J. Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 84. Ivi, p. 81. 23 Ivi, pp. 85-86. 21 22 315 Diritti minimi comprensione”.24 Questa forma “corporativa” di consultazione politica – che presta ascolto alla voce dei cittadini solo in quanto “membri delle associazioni” ed è associata a un regime interno di leggi che corredano i privati di eguali doveri e diritti (distinti dai diritti umani) – fa le veci delle libertà soggettive (ancorché distribuite fattualmente in maniera diseguale) di cui nelle società liberali i cittadini possono godere in qualità di “persone giuridiche” (quali titolari dei diritti). Nella concezione di Rawls, una carenza di diritti democratici può essere la ragionevole espressione di una concezione del bene comune tipica di un determinato popolo. È in effetti sorprendente che Rawls non preveda di includere tra le norme destinate a governare le relazioni internazionali una qualche forma di garanzia per l’uniforme inclusione dei cittadini nel processo legislativo e per l’accesso egualitario ai fori decisionali in cui i governi prendono le decisioni politicamente rilevanti. Lasciando da parte la questione, fortemente controversa, di un “diritto umano alla democrazia”, è tuttavia opportuno attirare l’attenzione sulla “speciale urgenza” dei diritti alla vita e alla libertà che Rawls colloca in cima alla sua lista dei diritti, in modo da avere un punto di riferimento per comprendere realmente cosa significa garantire un diritto – ovvero se ciò comporti la semplice rimozione di ostacoli o se, invece, richieda sostegni istituzionali e programmi di azione positiva. Seguendo l’impostazione proposta da Henry Shue, Rawls concepisce il diritto alla vita in modo da includere nel suo raggio d’azione i “mezzi di sussistenza” e la “sicurezza personale”.25 Ciò ovviamente non significa trasformare gli individui in clienti sempre insoddisfatti di anonime burocrazie nazionali e internazionali, che scambiano per un diritto tutto ciò che considerano desiderabile. E però deve includere per lo meno il diritto all’alimentazione e alla libertà dalla fame, come indicato all’art. 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, e il diritto alla protezione dalla violenza fisica, come indicato, per esempio, dalla risoluzione 48/10 del 23 febbraio 1994 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ora, nessuno può godere pienamente di un diritto formalmente riconosciuto se qualcun altro può credibilmente minacciarlo di omicidio, stupro, maltrattamenti e così via. Le violazioni alla sicurezza e all’integrità fisica, peraltro endemiche in molte parti del mondo, costituiscono un ostacolo talvolta insormontabile al godimento di qualsiasi diritto. Se un diritto può essere esercitato solo a prezzo di gravi rischi, difendere le persone per ciò che può loro accadere nello spazio del male non può che essere prioritario rispetto a qualsiasi altra garanzia eventualmente riconosciuta. Se alle persone risulta preclusa una seria protezione dai mali sociali fondamentali, esse non sono in 24 25 Ivi, p. 80. Ivi, p. 80. 316 EDOARDO GREBLO grado di avvalersi degli altri diritti nominalmente garantiti. Il diritto alla piena sicurezza fisica rientra a pieno titolo tra i diritti fondamentali perché la sua mancata applicazione potrebbe lasciare a disposizione di altri, governi compresi, mezzi (purtroppo) estremamente efficaci per fare in modo che la garanzia dei diritti risulti, nella migliore delle ipotesi, giuridicamente selettiva e politicamente discrezionale.26 L’idea che il diritto alla sicurezza fisica costituisca un prerequisito all’esercizio di ogni altro diritto, poiché la sua mancanza nega alla radice la capacità di ogni individuo di realizzare i propri fini, quali che siano, dovrebbe perciò essere considerata come una componente fondamentale dei “diritti minimi” nel senso di Rawls. Il diritto alla sicurezza fisica dovrebbe così assolvere a una duplice funzione, a seconda che debba fronteggiare minacce provenienti da organi o persone che occupano posizioni di autorità all’interno di un sistema politico, funzionante o in via di disgregazione, oppure da organi o persone ascrivibili a un contesto di inserimento privato o genericamente sociale non direttamente legato all’attività dello Stato. Nel primo caso gli appelli al diritto alla sicurezza fisica mirano a opporsi sia all’azione dei governi che non esitano a servirsi di pratiche ingiustificate e ingiustificabili come la tortura o l’incarcerazione arbitraria, sia alla loro inazione dinanzi agli atti di violenza destatalizzata che hanno in più casi la loro prima origine dalla dissoluzione di un’autorità statale, che si disgrega in un’atroce combinazione di etnonazionalismo, faide tribali e terrore da guerra civile.27 Nel secondo caso mirano a opporsi a fenomeni meno episodici e più strutturali, che rappresentano una beffarda e sistematica smentita dei diritti universalmente garantiti, come le pratiche “culturali” di assegnazione precostituita di ruoli e posizioni sociali che trasformano la violenza in una componente “normale” della vita quotidiana. Il diritto umano delle donne alla libertà dalla violenza, sotto qualunque profilo questa venga esercitata, rappresenta un chiaro esempio di un diritto la cui realizzazione richiede un approccio multifattoriale. La Dichiarazione del 1993 sulla Eliminazione della violenza contro le donne ha assegnato agli Stati la responsabilità di introdurre e applicare entro i rispettivi confini una legislazione che trasformi in fattispecie penalmente perseguibili sia alcune delle più controverse usanze “culturali” tipiche di certe società patriarcali, dalla clitoridectomia ai matrimoni in età infantile o ad altre forme di matrimoni imposti, sia le pratiche oppressive, ma socialmente approvate, nei confronti delle donne, che spesso rimangono nascoste nella sfera privata o domestica. In aggiunta a questa Dichiarazione, esistono numerosi altri strumenti a tutela e promozione dei diritti umani che puntano l’obiettivo sulla violenza correlata al H. Shue, Basic Rights: Subsistence, Affluence, and the U.S. Foreign Policy, Princeton University Press, Princeton 1980, 19962. 27 J. Habermas, L’Occidente diviso (2004), Laterza, Roma-Bari 2005, p. 172. 26 317 Diritti minimi genere, come la Dichiarazione di Vienna (1993), la Convenzione interamericana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne (1994), la Piattaforma d’azione delle Nazioni Unite per l’eguaglianza di genere (1995) eccetera. In questi documenti si afferma l’idea che le discriminazioni capaci di attentare all’integrità fisica e psichica dei membri più vulnerabili del nucleo familiare, per quanto rientrino nella sfera privata e dipendano da modelli culturali consolidati, abbiano un carattere strutturale, nel senso che dipendono dal modo in cui la cultura trasmette e impone particolari ruoli sociali. E si sostiene il principio che i necessari cambiamenti debbano essere indotti promuovendo una significativa azione legislativa diretta a sconfiggere le pratiche, sia nella sfera sociale sia in quella domestica, che non solo violano l’integrità delle persone più vulnerabili, ma che spesso riescono a plasmarne i vissuti emotivi e cognitivi sino al punto da indurle a interiorizzare lo status loro assegnato – a prescindere dal fatto che ciò si verifichi tra le mura di casa, nei luoghi di lavoro, nelle sedi educative e formative e così via. In questi documenti viene respinto ogni tentativo di spostare le pratiche “culturali” incompatibili con la dignità umana – leggi differenziate sul divorzio, leggi ingiuste sullo stupro e l’adulterio, poligamia riservata ai soli uomini – in un contesto sottratto alla sfera d’azione degli strumenti internazionali preposti alla tutela dei diritti umani. È vero che la funzione dei diritti umani non si esaurisce nell’azione legislativa,28 ma certo non la esclude. In certi casi, invocare l’aiuto della legge sia contro la violenza domestica, lo stupro coniugale, l’abuso sessuale infantile e così via, sia contro innumerevoli altre e meno tangibili violazioni della dignità e dell’eguaglianza della persona, può essere la sola soluzione realisticamente praticabile. Ora, in che modo questo approccio estensivo alla definizione di ciò che andrebbe fatto rientrare nella fattispecie della violenza contro la dignità e l’integrità delle persone è compatibile con la concezione minimalista dei diritti umani proposta in Il diritto dei popoli? Anzitutto, se si intende porre rimedio alle forme di violenza correlate al genere occorre astenersi dal considerare la casa come un ambito privato – il centro ipotetico della sfera privata degli affetti e delle cure – in cui la legge e lo Stato non dovrebbero “ficcare il naso”.29 In secondo luogo, se si vuole fare in modo che la violenza correlata al genere venga riconosciuta come la violazione di uno dei più fondamentali diritti umani, ovvero il diritto alla sicurezza fisica e all’integrità corporea, si dovrebbe rinunciare all’idea precostituita che violazioni di questa natura siano sempre provenienti da fonti ufficiali, legate sia ad agenzie e funzionari A. Sen, L’idea di giustizia (2009), Mondadori, Milano 2010, pp. 370 ss. M. Nussbaum, Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Il Mulino, Bologna 2001, p. 313. 28 29 318 EDOARDO GREBLO governativi, sia – per esempio – ai dirigenti di un movimento di guerriglia o di una multinazionale. Spesso sono invece ascrivibili a ruoli e funzioni che distribuiscono in maniera asimmetrica diritti e doveri, specie là dove sulla vita familiare incombono forme di dominio patriarcale improntate a gerarchia e subordinazione. Negare la politicità dello spazio domestico significa non dare il giusto peso alle forme di violenza intrafamiliare, quasi che la famiglia fosse una sfera di rapporti intangibili, una giurisdizione autonoma governata da norme proprie. Ma, soprattutto, non è coerente con l’importanza che la prospettiva di Rawls annette alla sicurezza fisica, che rientra pienamente nel sancta sanctorum dei diritti umani destinati a regolare la società dei popoli. Sebbene Rawls non escluda esplicitamente questa tipologia di violazione, la sua convinzione che alle società non liberali, ma decenti, dovrebbe essere permesso di interpretare e implementare il nocciolo dei diritti umani in un modo che risulti compatibile con la “comunità di senso morale condiviso”, fa sospettare che la questione della violenza correlata al genere venga da lui considerata come un problema che esula dal campo d’azione tipico dei diritti umani universali – per lo meno sino a quando si rimane nella cornice del diritto dei popoli. Questa conclusione è in sintonia con la convinzione di Rawls che le diseguaglianze sociali non siano una materia che riguardi il diritto dei popoli, ed è compatibile con l’altra sua convinzione, e cioè che le società gerarchiche, ma decenti, non sono tenute a garantire alcuna forma di partecipazione politica diffusa, dal momento che offrono ai loro cittadini l’opportunità di esprimere opinioni discordanti. La forma associazionista di consultazione politica che Rawls attribuisce a queste società corrisponde a una concezione della società mondiale come un arcipelago anarchicamente decentrato, in cui gli assetti politici e sociali si trovano al di fuori dell’ambito d’azione del diritto internazionale tenuto a rispettare i vincoli imposti dai diritti umani. Non può dunque sorprendere che nel Kazanistan immaginario descritto da Rawls, esempio fittizio di una società non liberale, gerarchicamente ordinata ma decente, la diseguaglianza giuridica delle donne e delle minoranze religiose (o di altro tipo) attuata mediante diritti differenziati sia pienamente legittima, poiché questi assetti riflettono la concezione locale e socialmente diffusa del bene: in una società gerarchica decente le persone non sono “considerate alla stregua di cittadini liberi ed eguali, né come individui separati meritevoli di eguale rappresentanza (secondo la massima: un individuo, un voto)”, poiché “ciascuna persona appartiene a un gruppo rappresentato da un organo nella gerarchia di consultazione”.30 Rawls asserisce che una società con fini collettivi forti può rispettare la diversità, anche quando ha a che fare con persone che non condividono i suoi fini comuni, per quanto non è detto che alle minoranze 30 J. Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 94. 319 Diritti minimi religiose vengano riconosciute le medesime garanzie giuridiche assicurate ai membri (delle varie religioni non islamiche e alle altre minoranze) della maggioranza (islamica). Se perciò una società dovesse decidere di perseguire delle politiche improntate alla discriminazione di genere o di orientamento sessuale, non sarebbe possibile muovere, dal punto di vista del diritto dei popoli, alcuna obiezione di principio. È vero che Rawls accenna al problema della “rappresentazione nella gerarchia di consultazione dei membri delle società, come per esempio le donne, la cui lunga storia di oppressione ed abusi si configura come violazione dei loro diritti umani”.31 E aggiunge l’eventualità che possa essere necessario “predisporre le cose in modo che la maggioranza dei membri degli organi che rappresentano gli oppressi (di una volta) sia scelta fra quelli i cui diritti sono stati violati”.32 Tuttavia, il sostegno offerto al diritto delle società di interpretare il diritto dei popoli nella prospettiva del partecipante che giudica a partire dalla propria comprensiva concezione del mondo, indica chiaramente che le pratiche e gli assetti socioculturali, inclusi quelli che minano direttamente i diritti umani dei membri più vulnerabili dei gruppi, non rientrano nel sancta sanctorum dei diritti umani riconosciuto dal diritto dei popoli. Anche se Rawls, cioè, riconosce che l’incompleta equiparazione giuridica dei cittadini praticata nelle società non liberali è dissonante con il punto di vista dei diritti che in Occidente è ormai considerato “classico”, ritiene tuttavia che questa sorta di daltonismo non sia incompatibile con il nucleo ristretto dei diritti umani incastonato nel diritto dei popoli. Proprio l’esempio rappresentato dalla violenza contro le donne e i membri più vulnerabili dei gruppi e della società è però lì a dimostrare quanto ciò possa essere problematico. Non è chiaro, in particolare, come si possa affermare che i diritti umani fondamentali dei membri delle minoranze, oppure degli individui particolarmente vulnerabili della società, sono stati rispettati quando, nelle società di appartenenza, viene loro negata persino l’equiparazione politicogiuridica formale. Se il diritto alla vita include il diritto alla sicurezza fisica e il diritto alla libertà comprende la libertà di muoversi e spostarsi liberamente, negare il godimento dei più elementari diritti economici e sociali – come il diritto all’educazione e il diritto al lavoro – in un contesto socioeconomico che offre invece queste opportunità a tutti gli altri cittadini significherà intaccare anche quel nocciolo duro dei diritti che Rawls considera irrinunciabili. Come ha osservato Nussbaum, i diritti diseguali in materia di proprietà personale, divorzio e custodia dei figli lasciano le donne prive di realistiche possibilità di vita autonoma oppure di fuga dalla prigionia delle pareti domestiche, aggravando così la loro subordinazione – e, si potrebbe aggiungere, la loro 31 32 Ivi, p. 98. Ibid. 320 EDOARDO GREBLO vulnerabilità alla violenza.33 È però la realtà macroscopicamente visibile nei paesi in via di sviluppo a smentire la convinzione di Rawls circa la possibilità di rispettare il nocciolo intangibile dei diritti umani anche quando si negano i diritti sociali e le libertà civili di una parte dei cittadini. Da un lato le diseguaglianze strutturali correlate al genere non rientrano nella concezione dei diritti umani proposta da Rawls, ma dall’altro sono proprio queste le diseguaglianze che hanno le implicazioni di più vasta portata per le distinzioni arbitrarie tra le persone lungo le linee della sicurezza del diritto alla vita e alla libertà. Nel caso delle donne, le disparità nella distribuzione delle risorse e delle opportunità all’interno della famiglia, l’assenza di sostegno pubblico nella cura dei bambini e degli anziani, la giurisprudenza che regola il matrimonio, il divorzio, l’istruzione obbligatoria e l’eredità modellano, limitano e condizionano, pervasivamente e in profondità, le libertà civili formalmente e potenzialmente a disposizione di tutti. Le sistematiche diseguaglianze che affliggono le donne e i membri delle minoranze etniche o religiose incrementano drammaticamente la loro esposizione alle più diverse e crudeli forme di illibertà, che vanno dal mancato accesso a beni fondamentali come le cure mediche, un’istruzione adeguata o un impiego remunerativo sino alla discriminazione razziale, all’incarcerazione arbitraria o alla tortura. Tuttavia, poiché nell’orizzonte concettuale di Rawls non rientrano né i diritti umani sociali e culturali né, in larga misura, i diritti economici, considerati troppo controversi per ispirare le relazioni che dovrebbero sussistere tra le società liberali e le società non liberali, non vi è neppure alcuna ragione di principio per cercare di contrastare le strutture di socializzazione, i sistemi di proprietà dei beni e di controllo delle risorse che portano alla sistematica emarginazione delle donne e delle minoranze dal mondo sociale e pubblico. La tensione tra i presupposti universalistici del liberalismo politico di Rawls e l’orientamento tendenzialmente particolaristico che impronta la sua concezione del diritto dei popoli emerge qui in tutta evidenza. La scelta di non applicare la visione etica della giustizia considerata valida su scala nazionale anche sul piano internazionale del diritto dei popoli – in nome di quella “decenza” che dovrebbe servire a prefigurare un’estensione normativa della società dei popoli anche ai popoli non liberali – permette che uno dei diritti umani più violati, come quello “ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione e alle cure mediche” (Dichiarazione universale, articolo 25), possa rimanere ostaggio di governi corrotti, repressivi e impopolari. Tanto più che le persone estremamente Cfr. anche C. Fabre e D. Miller, Justice and Culture: Rawls, Sen, Nussbaum e O’Neill, “Political Studies Review”, 1, 2003, pp. 4-17. 33 321 Diritti minimi povere, spesso fisicamente e mentalmente compromesse dalla malnutrizione e schiacciate dal problema di assicurarsi le risorse necessarie alla pura e semplice sopravvivenza quotidiana, non sono certo in condizioni di esercitare particolari pressioni sulle autorità che le governano. L’incoerenza di Rawls, come Nussbaum ha sottolineato, implica fra l’altro una specie di arbitrarietà morale, nel senso che mentre le persone che aderiscono a culture, religioni e tradizioni compatibili e a cui è capitato in sorte di vivere in società democratiche e liberali meritano, stando alla sua prospettiva, di godere della piena protezione dei diritti umani, le persone che hanno avuto la sfortuna di nascere al di là dei “nostri” confini possono invece scoprire che i loro diritti godono di un livello di tutela spesso marcatamente inferiore, senza, e questo è il punto, che ciò comprometta la concezione rawlsiana della giustizia internazionale.34 Rawls è evidentemente dell’avviso che i diritti politici minimi incorporati nel diritto dei popoli possano essere sufficienti per arginare le violazioni più macroscopiche dei diritti umani, poiché sono comunque in grado di far risuonare eventuali voci di dissenso o contestazione. Tuttavia, come si è già avuto modo di osservare, il diritto democratico alla rappresentanza politica non rientra nella classe speciale dei diritti umani specificata dal diritto dei popoli.35 Anche se vi è stato chi ha asserito che le società capaci di governare collettivamente se stesse nel quadro dei diritto dei popoli concedono ai propri cittadini maggiori diritti di quanto comunemente si creda,36 riesce difficile credere che i gruppi e le persone discriminate possano usufruire di un’equa e paritaria politica dell’inclusione nel caso in cui ai diritti collettivi venga attribuita una qualche preminenza sui loro fruitori individuali. Se ai diritti politici non viene riconosciuta la natura di diritti soggettivi già a partire dal loro concetto, e se lo status ascritto ai cittadini dipende da modelli fortemente asimmetrici di distribuzione delle risorse sociali, ai diritti viene a mancare quel valore intrinseco che può trasformare affermazioni magari largamente condivise in una dottrina capace di sottoporre l’autorità politica a vincoli e obblighi. È difficile che gli esseri umani possano disporre di una sia pur minima libera capacità di azione in condizioni di stridente diseguaglianza nello spazio dei redditi. La perdita del reddito genera infatti danni psicologici, perdita di motivazione al lavoro, di capacità professionale e fiducia in sé, disgregazione delle relazioni familiari e della vita sociale, inasprimento dell’esclusione sociale M. Nussbaum, Women and the Law of Peoples, “Politics, Philosophy and Economics”, 3, 2002, pp. 293-294. 35 Cfr. A. Kuper, Democracy Beyond Borders. Justice and Representation in Global Institutions, Oxford University Press, Oxford 2004. 36 S. Macedo, The Law of Peoples: What Self-Governing Peoples Owe to One Another: Universalism, Diversity and the Law of Peoples, “Fordham Law Review”, 5, 2004, pp. 17351736. 34 322 EDOARDO GREBLO e delle asimmetrie tra i sessi.37 Questo non significa che per l’esercizio della libera capacità di agire sia necessario, in nome di un ideale astratto di equità, che la distribuzione delle risorse economiche tra gli individui avvenga a prescindere da ogni altra considerazione, per esempio di efficienza, produttività o incentivazione. Ma in un contesto in cui la distribuzione dei beni primari – “diritti, libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e la coscienza del proprio valore”, stando all’elenco di Rawls38 – avviene in maniera spaventosamente iniqua e in cui molte libertà civili sono drammaticamente ridotte – per esempio la capacità delle donne di fare scelte sulla direzione da dare alla propria vita –, risulta a dir poco irrealistico continuare a pensare che le persone svantaggiate o i membri più vulnerabili di certi gruppo possano essere davvero in condizioni di far sentire la propria voce. Il problema, cioè, non è semplicemente che nella teoria di Rawls non è previsto che le società gerarchiche decenti siano tenute a riconoscere diritti politici, o di autonomia politica, ai loro cittadini. Il problema è soprattutto nel fatto che, in assenza di eguali libertà e di una efficace tutela dei diritti sociali ed economici fondamentali, anche i diritti più elementari di espressione e consultazione politica che il diritto dei popoli non può non incorporare finiscono per scomparire o per diventare inaccessibili, almeno per alcuni dei membri della comunità politica. Persino il diritto a esprimere opinioni dissenzienti, che secondo Rawls le società gerarchiche decenti devono impegnarsi a rispettare, può essere messo in pericolo quando si nega – strutturalmente e sistematicamente – alle persone ogni possibilità di godere delle opportunità sociali ed economiche fondamentali. È difficile dare voce a progetti di cambiamento di istituzioni e pratiche quando le capacità di agire liberamente sono rese più vulnerabili dalla precarietà o atrofizzate dalla miseria. Le capacità di agire incontrano ostacoli spesso insormontabili non solo in un reddito inadeguato, che condanna a una vita di privazioni o malattie, ma anche nelle difficoltà per alcune persone di prendere parte alla vita della comunità politica. “Gli assetti istituzionali possono invalidare le capacità di agire sia limitando le capacità di pensare e di agire in modo indipendente, sia facendo in modo che le richieste vadano incontro ai bisogni e soddisfino i desideri degli altri”.39 Rilievi di questo tenore suggeriscono almeno una conclusione, e cioè che il ruolo critico che certi diritti sociali ed economici rivestono per l’attuazione A. Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia (1999), Mondadori, Milano 2000, p. 99. 38 J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), Feltrinelli, Milano 2008, p. 103. 39 O. O’Neill, “Justice, Gender and International Boundaries”, in Ead., Bounds of Justice, Cambridge University Press, Cambridge 2000, p. 163. Cfr. S.E. Merry, Human Rights and Gender Violence: Translating International Law into Local Justice. University of Chicago Press, Chicago 2005. 37 323 Diritti minimi effettiva dei diritti civili e politici, inclusi i diritti alla vita, alla libertà e alla sicurezza fisica, impone al diritto dei popoli di accogliere anche i diritti umani di tipo socioeconomico. Il fatalismo di Rawls riguardo al fatto che molte delle pratiche in uso nelle società gerarchiche decenti servono semplicemente a coprire con il mantello delle tradizioni, dei costumi o delle usanze forme tutt’altro che “decenti” di diseguaglianza giuridica e sociale potrebbe, in altre parole, significare che molti dei diritti umani ipoteticamente garantiti ai cittadini di queste società finiscono per essere, per alcuni o per molti di loro, drasticamente ridimensionati. La distinzione, così viva in Rawls, tra la sfera pubblica e politica, in cui trova applicazione la dottrina dei diritti umani, e la sfera privata, nella quale lo Stato non dovrebbe intervenire per regolare la condotta delle persone, a meno di un forte interesse vincolante, è – almeno in parte – ciò che gli permette di immaginare che una società, in cui i cittadini hanno anche formalmente diritti sociali diseguali e libertà civili asimmetriche, sia una società che rispetta il nucleo essenziale dei diritti umani. L’implicita dipendenza dalla dicotomia pubblico/privato non aiuta Rawls a riconoscere che proprio queste diseguaglianze possono essere così acute da minare alla radice alcuni dei diritti umani ai quali il diritto dei popoli annette una intrinseca importanza, come il diritto alla vita e alla sicurezza fisica. E soprattutto gli impedisce di vedere, a differenza di quanto ormai avviene nella comunità internazionale, che sia i mali sociali evitabili, sia molte delle forme di violenza alle quali sono soggetti, in numerose parti del mondo, i membri di certe minoranze religiose, etniche o sessuali, rappresentano altrettante violazioni dei diritti umani. Se poi capita che delle pratiche ingiuste o crudeli riescano a trovare appoggio nelle verità di fede o nelle visioni del mondo di tipo confessionale – che Rawls considera al di là dell’orizzonte che circoscrive le norme della giustizia internazionale –, non vi è modo per gli insider di ottenere la protezione dei loro diritti all’interno della loro cultura, e neppure di salvaguardare quel nucleo minimo di diritti umani sul quale un’etica delle relazioni internazionali ispirata al liberalismo non dovrebbe in alcun modo transigere. 3. … e le ragioni della prudenza L’impulso a limitare i diritti a un sottoinsieme delle libertà garantite a tutti i cittadini liberi ed eguali di una società liberaldemocratica e a lasciare da parte i diritti umani sociali, culturali e economici, sia perché più contestati e controversi, sia perché meno esigibili e justiciable, trova piena espressione 324 EDOARDO GREBLO nell’opera di Ignatieff.40 Come Rawls, anche Ignatieff ritiene necessario garantire efficacemente, a livello internazionale, l’attuazione di quel nucleo essenziale di diritti umani che è diretta espressione delle più fondamentali libertà umane. E, come Rawls, anche Ignatieff ritiene che i diritti da considerare come realmente essenziali, per il rispetto dei parametri di giustizia internazionale, debbano essere circoscritti e individuati tra le libertà civili e politiche di base, trascurando quelli economici e sociali, nonché le varie formulazioni di terza e quarta generazione. E, soprattutto, ritiene opportuno rinunciare preventivamente a ogni pretesa fondativa: siccome le pretese fondative dividono, occorre “cercare di costruire il sostegno ai diritti umani sulla base di ciò che nella realtà essi fanno per gli esseri umani”,41 cioè proteggere la capacità di azione umana, la capacità di ogni individuo di coltivare i propri progetti di vita senza essere ingiustificatamente ostacolato o intralciato. I diritti umani intesi in questo senso coincidono con lo spazio coperto dalla “libertà negativa”, che garantisce al singolo individuo spazi ben definiti di libertà, quindi sfere di libero arbitrio e di autonoma progettazione dell’esistenza. In questo modo, di nuovo come Rawls, Ignatieff si propone di circoscrivere un nucleo difendibile di diritti umani al riparo da giustificazioni problematiche, come quelle che coltivano l’ambiziosa quanto irrealistica pretesa di appellarsi alle perdute certezze della metafisica oppure a modelli vincolanti di vita buona. Trattare i diritti umani come se fossero una “religione secolare” basata su nozioni controverse di ciò in cui consiste la dignità, il valore o la sacralità umana non può che essere controproducente rispetto ai fini che ci si prefigge, poiché è probabile che sprecare tempo su questioni che creano divisioni solo per cercare di convincere gli scettici possa distogliere l’attenzione dall’urgenza ben più pressante di reagire agli indecenti soprusi che si consumano in molte aree del nostro pianeta. Solo un’impostazione pragmatica, che si astiene dall’attendere un chiarimento preliminare di carattere teorico, può consentire un’immediata applicazione dei diritti umani in grado di contrastare situazioni di estrema povertà o di pesante oppressione. Una giustificazione dei diritti umani in chiave prudenziale e pragmatica resta comunque una giustificazione sviluppata in una prospettiva esplicitamente politica, cui spetta il compito di riportare i fini morali sul terreno delle situazioni concrete. Il vero contenuto dei diritti è rappresentato dai conflitti: tra individui e gruppi di appartenenza, tra gruppi e pratiche, norme e istituzioni oppressive e tra diritti, beni e rivendicazioni in reciproca Su Ignatieff, cfr. gli interventi http://www.juragentium.unifi.it/it/forum/ignatief/ 41 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 57. 40 325 all’indirizzo Diritti minimi competizione. I diritti servono cioè a stabilire un “minimo invalicabile”42 oltre il quale ogni richiesta volta a sottoporre a costrizioni la vita degli individui non è legittimata a spingersi. All’atto pratico, ciò significa che ogni concreto intervento a tutela dei diritti umani, ogni stimolo per un’azione sociale più incisiva, ogni sforzo per tradurre progressivamente in realtà importanti libertà umane richiede tutta una varietà di strumenti e di mezzi, ma, soprattutto, costringe a compromessi spiacevoli sia tra i fini e i mezzi, sia, e soprattutto, tra un fine e l’altro. Diversamente però da Rawls, che considera il minimalismo dei diritti umani come un modo per depotenziare la polemica tra individualisti e collettivisti e trovare una interpretazione che sappia renderne conto anche nella prospettiva delle altre culture, Ignatieff ripropone con forza la concezione dei diritti soggettivi nata con Locke, che considera i diritti umani parte di un ordinamento giuridico individualistico. I diritti umani sono pretese azionabili che offrono agli individui una sorta di guscio protettivo per la privata condotta di vita della singola persona, ed è proprio questa loro caratteristica che permette di prestare la dovuta attenzione alle importanza di specifiche libertà in contesti specifici. È solo perché vengono riconosciuti alle singole persone giuridiche, cui conferiscono pretese individualmente azionabili, che i diritti umani possono porre un argine a interventi arbitrari negli ambiti autonomi e privati della vita compiuti dalla famiglia, dal gruppo, dallo Stato o dalla religione. Poiché però le rivendicazioni costitutivamente legate all’importanza della libertà umana sono inevitabilmente questioni politiche, se si vuole che possano essere considerate compatibili con la “vera natura” dei valori locali occorre procedere con estrema precauzione quando ci si inoltra sul terreno del bene. Se i diritti umani possono realisticamente pretendere di proteggere la libertà negativa delle persone è solo perché si astengono dall’indicare quali debbano essere i modelli di vita buona che gli individui possono condurre. Anche Ignatieff, tuttavia, ritiene opportuno che la difesa dei diritti privati di libertà possa andare a spese dei diritti politici di partecipazione e persino, in nome della prudenza politica, del diritto al “giusto processo” contro le pratiche di detenzione arbitraria. Per tutelare il sancta sanctorum dei diritti umani è sufficiente un accordo negativo, ossia la comune ripulsa per violazioni perpetrate da bande e governi criminali, oppure la comune indignazione per le pulizie etniche e i genocidi. Al di là di questo accordo negativo, che muove dal disvalore rappresentato “dall’esperienza del dolore e dalla nostra capacità di immedesimarci con il dolore degli altri”,43 ossia dal fatto che ciò che è sofferenza e umiliazione per un altro è anche sofferenza e umiliazione per me, piuttosto che dal valore rappresentato 42 43 Ivi, p. 71. Ivi, p. 90. 326 EDOARDO GREBLO dall’idea del bene, si apre lo scenario in cui si svolge il conflitto delle interpretazioni – uno scenario per il quale Ignatieff dimostra una certa insofferenza. Parafrasando Marx, si potrebbe pensare che, anche per Ignatieff, quando ci si batte per i diritti umani cambiare il mondo è più importante che interpretarlo. La decisione di astenersi dal prendere in considerazione le obiezioni sulla natura e il fondamento dei diritti umani e, soprattutto, di negare la legittimità di alcune delle voci specifiche che potrebbero rientrare in questa categoria, risulta non meno problematica di quanto sia apparsa in Rawls. Se, seguendo Shue, riteniamo che i diritti fondamentali alla vita e alla libertà debbano includere la tutela della sicurezza fisica, dell’integrità corporea e della libertà fondamentale di movimento, è difficile immaginare come ciò sia possibile in assenza di opportune protezioni sociali ed economiche. Basta guardare alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che pone sotto il proprio ombrello protettivo una serie di libertà e di istanze molto più ampia di quella riconosciuta da Ignatieff. Nella lista rientrano non solo i diritti politici fondamentali, ma anche il diritto al lavoro, all’istruzione, alla tutela dalla disoccupazione e dalla povertà e persino a una retribuzione adeguata. Ignatieff riconosce che i diritti individuali possono essere esercitati solo all’interno di una quadro di diritti collettivi e che hanno bisogno di essere integrati con diritti sociali ed economici,44 ma ritiene che l’inclusione di queste libertà nel novero dei diritti finisca per indebolire l’efficacia di un nucleo difendibile di rivendicazioni legittime. L’esclusione non deriva dalla negazione della loro importanza, ma ha che fare con la convinzione che i diritti economico-sociali abbiano prevalentemente a che fare con la tipologia dei diritti collettivi. E il fatto che i diritti collettivi veri e propri implichino un macrosoggetto, una comunità o un gruppo che ne sia titolare, rischia di depotenziare la sensibilità per le effettive costrizioni che possono limitare la libertà individuale in culture o comunità politiche che non conoscono diritti soggettivi a priori, ma soltanto diritti attribuiti a posteriori agli individui. Ispirandosi a Sen, Ignatieff afferma che determinate libertà politiche sono di fatto la condizione logica per i successivi diritti sociali ed economici: “Senza la libertà di costruire ed esprimere opinioni politiche, senza la libertà di parola e di riunione, insieme alla libertà di proprietà, gli attori non possono organizzarsi allo scopo di lottare per la sicurezza sociale ed economica”.45 In altre parole, Ignatieff si serve degli argomenti proposti da Shue e da altri in direzione opposta. Vi possono cioè essere circostanze in cui l’esercizio dei diritti individuali preveda il riconoscimento dei diritti collettivi – il diritto a parlare nella lingua materna, per esempio, che non può essere tutelato dai soli diritti individuali –, ma i 44 45 Ivi, p. 91. Ivi, p. 92. 327 Diritti minimi diritti individuali senza quelli collettivi si concludono nella tirannia. Come dimostra l’esempio delle varie forme di violenza correlate al genere, le minacce portate alla sicurezza fisica e agli aspetti più essenziali della libertà personale non possono essere facilmente isolate dalle condizioni strutturali che rendono i membri individuali dei gruppi subalterni particolarmente vulnerabili a ciò che può loro accadere nello spazio del male. In società profondamente ineguali, le persone che non godono di alcun diritto in settori come l’abitazione, l’alimentazione, l’educazione di base e il lavoro, oppure in materia di legislazione familiare o di protezione da discriminazioni basate sull’appartenenza a un gruppo che le autorità o la cultura di maggioranza considerano meritevole di ostracismo o di repressione, corrono rischi proporzionalmente più alti di essere colpite da forme di sofferenza socialmente evitabili e di vedersi quotidianamente limitate nell’esercizio effettivo delle proprie libertà civili. Correggere queste radicate diseguaglianze strutturali richiede impegni concreti, sia istituzionali sia politici. Come gli attivisti per i diritti umani sostengono da tempo, per ridurre la vulnerabilità delle donne alla violenza è necessario che le autorità politiche ne promuovano la capacità di procurarsi un reddito, di conquistarsi un ruolo economico al di fuori della famiglia, di avere accesso alle fonti che potrebbero favorirne l’alfabetizzazione e l’istruzione, di vedersi riconosciuti i diritti di proprietà e così via.46 Da questo punto di vista, l’idea di Ignatieff che gli Stati onorano i propri obblighi in materia di diritti umani quando si astengono dall’infrangere la libera “capacità di agire” dei loro cittadini, o quando impediscono che siano altri, nella società civile o in famiglia, a farlo, è inadeguata e insufficiente. Perché una libertà rientri nello spettro dei diritti umani in un modo che al singolo, indipendentemente dai suoi sforzi personali, risulterebbe precluso, è necessario che le definizioni minimaliste dei diritti umani vengano integrate con i diritti di seconda e di terza generazione, dilatandone in misura significativa il raggio d’azione. Per esempio, come ricorda Sen, l’alfabetizzazione femminile risulta correlata in modo “inequivocabile e significativo” a livello statistico alla riduzione della mortalità sotto i cinque anni, a prescindere dal livello di alfabetizzazione maschile.47 Sebbene la lista incastonata nel nucleo difendibile dei diritti umani proposta da Ignatieff sia persino più breve di quella suggerita da Rawls, e riguardi sostanzialmente i diritti strettamente necessari per vivere comunque la propria vita, il fatto di porre l’accento sulla libertà degli individui – la cui libera capacità di azione è la prima a cadere vittima di un ethos che agli individui chiede anzitutto inserimento e sottomissione – sembra promettere una Cfr. A. Sen, Lo sviluppo è libertà, cit., cap. VIII (“Ruolo attivo delle donne e mutamento sociale”), pp. 192-205. 47 Ivi, p. 199. 46 328 EDOARDO GREBLO concezione più incisiva dei diritti civili e politici. Per esempio, sarebbe possibile ascrivere le violazioni più macroscopiche compiute ai danni delle minoranze sessuali al novero delle autentiche violazioni dei diritti umani rubricandole nella fattispecie giuridica dello stupro quale crimine di guerra. E tuttavia, anche se Ignatieff non è certo bendisposto nei confronti delle teocrazie o dei nazionalismi,48 la sua prospettiva risulta limitativa riguardo alla definizione appropriata delle condizioni di soglia che devono essere soddisfatte affinché vi sia sufficiente convergenza sulla individuazione dei mali sociali primari che possono essere considerati come altrettante inconfutabili violazioni dei diritti umani. Ciò è dovuto, in primo luogo, al modo in cui i diritti civili e politici vengono distinti dai diritti sociali ed economici, e al fatto che solo un nucleo selezionato dei primi può essere, secondo Ignatieff, ragionevolmente candidato a superare le differenze di concezione dei sistemi sociali e i contrasti interculturali – soprattutto tra un Occidente secolarizzato e le correnti fondamentalisticamente ispirate dell’Islam da un lato, e tra un Occidente individualistico e i sostenitori dei cosiddetti “valori asiatici”, per i quali le esigenze della comunità sarebbero prioritarie rispetto alle pretese giuridiche individuali e mettono al primo posto la disciplina e non i diritti, l’autorità e non i titoli, dall’altro. Ma è anche dovuto, in secondo luogo, alla dicotomia, correlata e parallela, tra sfera pubblica e sfera privata, che porta a ignorare il ruolo delle leggi e delle istituzioni nel modellare la famiglia come istituzione, quasi che la famiglia fosse qualcosa che esiste “per natura” – quando invece la forma della struttura familiare, non meno che certi diritti e privilegi riconosciuti ad alcuni dei suoi membri, sono per molti aspetti prodotti dell’azione dello Stato. Così, anche se nella prospettiva di Ignatieff è possibile considerare lo stupro indirizzato a operazioni di guerra come una flagrante violazione dei diritti umani, è molto più difficile farvi rientrare le varie forme di violenza domestica o sessuale nell’eventualità che lo Stato si astenga sistematicamente dal proteggere le donne dalle forme di violenza direttamente correlate a pratiche “culturali” privatizzate e destatalizzate per definizione. Se il linguaggio dei diritti umani intende superare le presunte tensioni culturali riducendosi a un nucleo circoscritto di alcune specifiche libertà, allora, per quanto riguarda la sfera privata, daranno solo i crimini più crudeli ed efferati a poter essere rubricati nella fattispecie di una violazione ai diritti umani. Mentre non vi è alcuna violazione, in questo senso, quando lo Stato rinuncia a introdurre o ad applicare normative che vietino lo stupro coniugale, impongano l’istruzione obbligatoria, proibiscano il matrimonio e il lavoro minorile e così via se le pratiche dannose per la vita e l’integrità delle persone traggono origine da Ivi, p. 35: “La democrazia senza il costituzionalismo è semplicemente la tirannia della maggioranza etnica”. 48 329 Diritti minimi tradizioni religiose e culturali, dal momento che la casa è un ambito “privato” in cui è inopportuno interferire.49 È come se, in questa prospettiva, il rispetto che si deve agli esseri umani dovesse fermarsi – tranne eccezioni clamorose – sulla porta di casa. Come Rawls, anche Ignatieff ritiene infatti che gli assetti sociali e le pratiche culturali siano al di fuori del raggio d’azione che è proprio del diritto internazionale e della dottrina dei diritti umani. Si tratta di una posizione sorprendente, dal momento che Ignatieff attribuisce ai diritti umani il compito di tutelare la libera capacità di agire non solo rispetto agli Stati, ma anche alla società e alla famiglia. Ma comprensibile, poiché Ignatieff ritiene che i diritti umani possano essere disaggregati e traccia una decisa linea di demarcazione tra libertà negativa e libertà positiva – e tra le rispettive classi di diritti che ne sono il corollario. Nel ragionamento di Ignatieff vi sono però anche altri aspetti discutibili. L’idea che una concezione più espansiva dei diritti umani possa impedire il cristallizzarsi di una intesa politica di fondo che sia trasversale rispetto ai confini delle diverse concezioni del mondo è tutta da provare. Nel campo dei diritti umani, l’indivisibilità dei diritti e la rinuncia a porre la distinzione pubblico/privato nei termini di un’alternativa sono principi saldamente consolidati – e sarebbe semmai la concezione minimalista, che squalifica i “diritti umani” alla sicurezza sociale, al lavoro, al riposo e al tempo libero, a un adeguato standard di vita, all’istruzione o alla cultura indicati dagli articoli 22-27 della Dichiarazione universale, a non soddisfare l’importanza di certe libertà fondamentali e degli obblighi sociali necessari a salvaguardarle.50 Inoltre, non è affatto necessario definire i diritti economici e sociali in maniera inflattiva, al punto per esempio da includervi i bisogni legati a una dimensione personale ed eccessivamente al di là dell’effettivo raggio d’intervento delle politiche sociali. Un diritto come quello indicato nell’articolo 25 della Dichiarazione universale, che fa riferimento “a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della propria famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche”, possiede già elementi sufficienti per superare la soglia della rilevanza sociale e per potersi candidare allo status di diritto umano. E questi elementi, come suggerisce Beitz, impongono ai singoli Stati l’obbligo di fare tutto ciò che è in loro potere per sradicare la povertà, oppure – nella eventualità che non abbiano i mezzi per combattere la fame endemica di massa Ivi, p. 76: “Infatti, coloro che aderiscono a una tradizione religiosa possono credere che la partecipazione a essa consenta di godere di forme di appartenenza che per loro hanno un valore maggiore della libertà negativa propria di una capacità di azione privata”. 50 A. Eide, “Interdependence and Indivisibility of Human Rights”, in Y. Donders e V. Volodin (a cura di), Human Rights in Education, Science and Culture. Legal Developments and Challenges, UNESCO/Ashgate, Paris – Aldershot - Burlington 2007, pp. 11-51. 49 330 EDOARDO GREBLO che debilita centinaia di milioni persone e ne uccide, con andamento statistico regolare, una quota non trascurabile – di astenersi dal frapporre obiezioni ad aiuti umanitari prestati dalla comunità internazionale anche nell’eventualità che gli interventi esterni ne limitino la sovranità interna.51 Il fatto inoltre che per Ignatieff la tutela da riservare ai diritti umani vada limitata alla promozione e alla difesa delle libertà già riconosciute come tali lo porta sia a negare l’idea che riconoscere l’esistenza di qualcosa che risponde al nome di diritti umani equivalga a indicare decisi pronunciamenti etici su ciò che andrebbe fatto, sia a sottovalutarne il carattere storicamente espansivo, che ha progressivamente introdotto vincoli sempre più restrittivi a ciò che può accadere nello spazio del male e della sofferenza socialmente evitabile. Inoltre, l’orientamento volto a limitare la tutela coercitiva dei diritti dell’uomo, e in particolare della forza militare a usi umanitari, ai soli “casi di necessità rigorosamente definiti – quando è a rischio la vita umana”,52 tende a giustificare l’inerzia del sistema internazionale, che in genere è sfavorevole all’intervento negli affari interni di un paese sovrano e preferisce restare alla finestra quando gli abusi riguardanti i diritti umani non appaiono tali da varcare la soglia della rilevanza politica, neppure se si tratta di catastrofi umanitarie compiute sotto l’ombrello della sovranità di un regime criminale. Discutendo la questione dello statuto delle donne nelle società non liberali, Ignatieff sostiene che “ciò che a un attivista può sembrare una violazione dei diritti umani può non sembrare tale a quelle persone alle quali gli attivisti dei diritti umani spiegano che sono delle vittime. Questa è la ragione per cui il consenso deve essere il vincolo determinante per gli interventi in quelle aree nelle quali non sono in gioco la vita umana stessa o un grave e irreparabile danno fisico”.53 Una prospettiva di questo genere pone Ignatieff in contrasto con la Dichiarazione sulla eliminazione della violenza del 1993. La Dichiarazione di Vienna e il Programma di Azione hanno definito la violenza contro le donne come “qualunque atto di violenza di genere che produca, o possa produrre danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata”. Questa definizione comprende le violenze che si verificano all’interno della famiglia, all’interno della comunità, e le violenze perpetrate o condonate dagli Stati. Le forme di violenza correlate al genere comprendono, senza esservi limitate, violenze domestiche, abusi sessuali, stupro, molestie sessuali, tratta di donne, prostituzione forzata, e C. Beitz, “Human Rights and the Law of the People”, in D. Chatterjee (a cura di), The Ethics of Assistence: Morality and the Distant Needy, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 207-208. 52 M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., p. 23. 53 Ivi, p. 76. 51 331 Diritti minimi pratiche tradizionali dannose. Questa definizione gode ormai di largo consenso tra i governi e le istituzioni transnazionali ed è gradualmente diventata una priorità strategica per le Nazioni Unite e gli attivisti dei diritti umani, poiché si è riconosciuto che la trasformazione della condizione femminile è strettamente legata a molti aspetti del processo di sviluppo ed è uno dei principali fattori del mutamento economico e sociale. Ignatieff ritiene che sia opportuno astenersi dall’ampliare la fattispecie giuridica di ciò che può essere considerato, dal punto di vista della tutela dei diritti umani, come una forma di abuso, sfruttamento o crudeltà. E preferisce fissare la condizione di soglia ai mali perpetrati dai governi, dai loro funzionari, dirigenti e collaboratori, come la tortura e l’incarcerazione arbitraria oppure la soppressione della libertà di espressione e di riunione. Le violazioni dei diritti umani, per essere considerate tali, devono essere ufficiali, nel senso che i diritti umani proteggono le persone da violenze provenienti da alcune fonti, come i governi o i loro funzionari, ma non da tutte – non, per esempio, da altri privati.54 Se però il ruolo dei diritti umani non venisse circoscritto alla sola funzione di coprire il fabbisogno di legittimazione per interventi di polizia in favore dei diritti fondamentali di cittadini del mondo che vanno protetti contro i loro stessi governi, sarebbe possibile immaginare una concezione più espansiva dei diritti. Riconoscere i diritti umani non significa pretendere una sollevazione generale contro i regimi autoritari, o persino dispotici o criminali, che violano sistematicamente gli impegni da loro formalmente riconosciuti; significa piuttosto comprendere che se qualcuno si trova in una posizione che lo mette in condizioni di intervenire con successo per scongiurare la violazione di un certo diritto, questo qualcuno dispone di una buona ragione per agire in questo senso. Come ha affermato Beitz in rapporto ai vincoli analoghi posti da Rawls ai diritti umani, a meno che non si intenda sostituire la concezione tradizionale dei diritti umani con un’idea tecnica o si intenda riformularne la definizione, occorre riconoscere che i diritti umani servono non soltanto a stabilire le condizioni minime necessarie a ottenere riconoscimento internazionale, ma anche […] quali debbano essere gli standard di condotta dei governi e delle politiche delle varie istituzioni internazionali e delle agenzie per lo sviluppo, quali gli obiettivi condivisi di riforma politica tra le organizzazioni non governative (gli elementi di una società civile globale emergente), e quali, nelle società non democratiche, debbano essere i punti focali per i movimenti sociali in ambito nazionale.55 54 55 T. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani (2002), Laterza, Roma-Bari 2010, p. 75. C. Beitz, Rawls’s Law of the People, in “Ethics”, 110, 2000, pp. 687-688. 332 EDOARDO GREBLO Ignatieff respinge questa concezione più estensiva poiché ritiene che l’inclusione di troppe voci specifiche nella categoria dei diritti umani finisca alla lunga per trasformarli in dichiarazioni etiche generiche e irrilevanti, oppure in aspirazioni prive di elementi sufficienti per varcare la soglia della rilevanza sociale ed essere perciò considerate parte integrante di un certo diritto umano. E finisca quindi per rendere sempre più evanescenti i legami con i relativi doveri sia da parte dei singoli Stati, sia della comunità internazionale nel suo complesso. L’idea che per essere reali i diritti debbano trovare una precisa corrispondenza in relativi doveri riecheggia in molti di coloro che sollevano obiezioni alla proliferazione dei diritti umani.56 O’Neill, per esempio, condanna la proclamazione “a cuor leggero” di diritti universali che si dispensano “dal mostrare che cosa colleghi ciascun portatore di questi presunti diritti al/i relativo/i portatore/i degli specifici obblighi corrispondenti. In tal modo il contenuto di questi presunti diritti rimane del tutto oscuro”.57 Ci si appella cioè al linguaggio dei diritti umani senza disporre degli strumenti capaci di fare in modo che, come è stato detto, all’avanguardia delle grandi dichiarazioni di principio segua la salmeria delle sanzioni – persino in caso di stragi, delitti contro l’umanità o crimini di guerra. Il timore è che l’uso inflattivo dei diritti umani equivalga sia al loro depotenziamento, sia a un incremento dei potenziali di conflitto tra diritti fondamentali che non possono godere tutti dello stesso status normativo e che possono pertanto trovarsi in tensione gli uni con gli altri.58 All’idea che le Dichiarazioni proclamino “diritti di carta” è però possibile opporre alcuni argomenti, sia a) sul piano empirico, sia b) sul piano normativo, sia c) sul piano politico. a) Il fatto che molti diritti, soprattutto quelli economici e sociali, siano (rimasti) inapplicati non dice nulla circa la loro validità: se la praticabilità fosse la condizione indispensabile di qualsiasi diritto, allora non solo i diritti socioeconomici, ma tutti i diritti, incluso il diritto alla libertà, sarebbero privi Non si tratta certo di una tesi inedita. Già Kelsen sosteneva che “non vi è nessun diritto per qualcuno senza un dovere giuridico per qualcun altro” (Teoria generale del diritto e dello stato (1945), Edizioni di Comunità, Milano 1959, p. 76). Cfr. anche Id., La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, Torino 1966, p. 150: “Questa situazione, definita come ‘diritto’ o ‘pretesa’ di un dindividuo, è semplicemente l’bbligazione dell’altro od egli altri. Se si parla in questo caso di un diritto soggettivo o della pretesa di un individuo, come se questo diritto e questa pretesa fossero qualcosa di diverso dall’obbligazione dell’altro o degli altri, si crea il miraggio di due situazioni giuridicamente rilevanti, allorché la situazione è una soltanto”. 57 O. O’Neill, Towards Justice and Virtue, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 131. Cfr. anche Ead., The Dark Side of Human Rights, in “International Affairs”, 2, 2005, pp. 427-439. 58 Cfr. D. Zolo, “Fondamentalismo umanitario”, in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit., pp. 14-141. 56 333 Diritti minimi di significato, dal momento che non è possibile garantire con certezza che la vita e la libertà di ogni singola persona siano sempre e dovunque al riparo da eventuali violazioni. È questione di gradi: mentre alcuni diritti possono essere assicurati con relativa facilità e senza che sulle autorità preposte alla loro tutela gravino oneri ingiustificabili o insostenibili, altri possono invece richiedere, per essere attuati, interventi economicamente dispendiosi o socialmente controversi, che possono anche essere discrezionali, non formalizzabili e privi di controlli giurisdizionali. Ma l’effettiva consistenza del loro approccio non dipende dal livello di attuazione: “l’errore di chi nega certi diritti umani sulla base della loro non completa attuabilità sta nel fatto che un diritto non pienamente tradotto in realtà resta comunque un diritto, che richiede un intervento in sua tutela”.59 b) Come Sen ha più volte ricordato, anche se le varie Dichiarazioni tendono a configurarsi come se con esse venisse riconosciuto qualcosa che risponde al nome di diritti umani, si tratta in realtà di pronunciamenti etici su ciò che andrebbe fatto. Danno cioè nome a delle aspettative, di ordine morale e dotate di valore imperativo, che indicano la necessità di promuovere gli interventi destinati a rendere concrete le libertà individuate dai diritti così riconosciuti. Può certo darsi che l’aspettativa-diritto non coincida con l’aspettativaprevisione, ma l’asimmetria tra questi due aspetti rappresenta un efficace indicatore del grado di attuazione del diritto, e non una dimostrazione della sua insussistenza. La “prova dell’esistenza” che spesso viene chiesta agli attivisti dei diritti umani andrebbe rovesciata: le persone parlano dei propri diritti morali quando si attendono che le loro aspettative possano operare da stimolo – una volta superata la soglia della rilevanza sociale – per l’elaborazione di nuove norme giuridiche. L’eventuale assenza di un valore di legge nel riconoscimento etico di diritti privi di codifica o di interpretazione in forma di legge è una sorta di lacuna, o di aporia, all’interno di un ordinamento giuridico, “che è obbligo dei pubblici poteri, interni e internazionali, riempire”.60 c) Ancora diversa, anche se spesso viene sovrapposta alle precedenti e a queste addebitata, è la questione della realizzabilità politica di queste garanzie, sia a livello nazionale sia, e soprattutto, a livello internazionale. L’assenza di un potere sovranazionale che procuri alla comunità degli Stati che opera secondo il diritto le capacità di azione indispensabili a far rispettare i diritti umani fa venir meno, a livello globale, la possibilità di una adeguata compenetrazione tra potere e diritto. Non vi sono attori che dispongano di un mandato negoziale che sia sufficientemente rappresentativo e che disponga A. Sen, L’idea di giustizia, cit., p. 390. L. Ferrajoli, “Diritti fondamentali”, in Id., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 20022, p. 31. 59 60 334 EDOARDO GREBLO contemporaneamente dei mezzi, anche coercitivi, di attuazione. La distonia tra la norma e la realtà rende parziali o selettive, quando vi sono, le varie misure relative alla tutela dei diritti umani ed emerge nella sua forma più acuta in occasione di violazioni dei diritti umani compiute da grandi potenze dotate del diritto di veto in sede di Nazioni Unite. In realtà, almeno per quanto riguarda regimi che violano le risoluzioni da loro stessi (formalmente) condivise e sottoscritte, l’asimmetria tra norma e realtà esercita una sorta di pressione di adattamento sugli Stati autoritari e costringe i rispettivi governi a servirsi, se non altro per ragioni funzionali imposte dagli oneri di integrazione nell’economia globale, delle prestazioni integrative garantite dai diritti soggettivi. In una società globale sempre più complessa, le crescenti interdipendenze tra gli Stati creano attese normative e costrizioni al compromesso che possono essere la matrice di nuovi rapporti giuridici. In realtà, i problemi relativi all’assegnazione di obblighi definiti in capo a Stati, regimi o autorità si presentano soprattutto quando le pratiche sociali discriminatorie e inegualitarie sono dotate di un limitato tasso di formalizzazione e si basano prevalentemente su regole informali e consuetudinarie, su usi, costumi e tradizioni che talvolta non arrivano neppure alla soglia di percezione degli individui coinvolti, e che però possono risultare gravemente lesivi delle loro libertà civili. Trovare il modo di applicare la legislazione vigente sui diritti umani, soprattutto là dove esistono forme tribali di società e di vita che mal si adattano, o non si adattano affatto, a ordinamenti giuridici individualistici ed egualitari, è un problema di non certo facile soluzione. E però, il riconoscimento dei “nuovi” diritti umani, come il diritto alla libertà da ogni forma di violenza sessuale o di violenza correlata al genere, serve a rimettere in discussione l’idea convenzionale – per quanto soggetta a critiche crescenti da parte della comunità internazionale – che i diritti umani “veri e propri” siano degli scudi difensivi da opporre alle forme di violenza arbitrari ed efferata compiute dai soli attori statali, come l’incarcerazione arbitraria, la tortura, la pulizia etnica, il genocidio o i crimini di guerra. Ispirandosi a questa visione convenzionale, il minimalismo dei diritti umani rimane cieco a tutta quella gamma di violazioni alla sicurezza fisica – e quindi al “nucleo difendibile” dei diritti umani alla vita e alla libertà – che le persone possono subire sia in ambito privato sia in ambito sociale. Considerare, per esempio, la violenza correlata al genere come una violazione dei diritti umani significa asserire che gli individui possono far valere le proprie rivendicazioni non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei confronti dei loro concittadini o delle agenzie della società civile che possono essere ritenute complici o parte attiva nella violazione dei diritti umani. Ciò però significa che gli assetti sociali e culturali degli Stati (o dei gruppi) non sono affatto al di là dell’orizzonte in cui rientra il “nocciolo difendibile” dei 335 Diritti minimi diritti umani, come sostengono sia Ignatieff sia Rawls. E significa, inoltre, che il diritto a essere tutelati da ogni forma di violenza sessuale o correlata al genere non può essere garantito se ci astiene dal prendere in considerazione almeno alcuni dei diritti socioeconomici – pensiamo alla capacità delle donne di guadagnarsi un reddito indipendente, di avere un lavoro extradomestico o delle proprietà – che entrambi ritengono invece opportuno lasciare ai margini dei processi di legalizzazione delle relazioni internazionali. Rawls e Ignatieff si trovano perciò di fronte al seguente dilemma: se si astengono dal condividere i progetti volti a espandere il raggio d’azione dei diritti umani sino a includere le violazioni alle libertà civili e alla sicurezza fisica dei membri più vulnerabili della società, si espongono all’accusa di incoerenza e arbitrarietà morale; se invece riconoscono che queste violazioni non caricano le aspettative delle vittime di false analogie, ma rientrano nella fattispecie giuridica delle infrazioni ai diritti umani, non possono ulteriormente rinunciare all’idea che i diritti sociali possano godere delle procedure di difesa e giustiziabilità introdotte dalle garanzie liberali “classiche” a difesa dei diritti di libertà. Ora, non è certo in discussione il fatto che i problemi correlati all’autodeterminazione delle società, al pluralismo culturale e religioso e all’“inflazione” dei diritti possano talvolta ostacolare l’emanazione di disposizioni di legge capaci di conferire valore giuridico a diritti riconosciuti come diritti umani fondamentali. Ci si può tuttavia chiedere se con ciò la funzione dei diritti umani possa dirsi esaurita o se, invece, non possa trovare anche altre applicazioni. Il fatto che i diritti umani non possano sempre ispirare l’elaborazione di profili giuridici coerenti con la loro dinamica espansiva non significa ritenere che la loro importanza risieda in via esclusiva nel determinare ciò che può essere convertito in diritto positivo. Se infatti i diritti umani vengono concepiti quali convincenti istanze morali, non è necessario che i modi e i mezzi destinati a promuoverli debbano rimanere circoscritti al campo delle iniziative giuridiche. “Grazie all’importanza di elementi come la comunicazione, le pressioni, le denunce e un dibattito ben informato, i diritti umani possono esercitare una certa influenza senza dipendere necessariamente da norme di legge coercitive”.61 Questa è una delle ragioni per cui è opportuno evitare di confinare la nozione di diritti umani al solo nucleo circoscritto dalla libertà negativa. Anche se le più recenti formulazioni ne hanno largamente ampliato il raggio d’azione, l’etica dei diritti umani può essere resa più efficace regolandosi sulle attività di monitoraggio della società e altre iniziative di sostegno condotte dalle organizzazioni non governative a difesa dei diritti soggettivi. Organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International hanno da tempo riconosciuto che anche la violazione dei “nuovi” diritti, e non solo la povertà endemica e le iniquità 61 A. Sen, L’idea di giustizia, cit., p. 371. 336 EDOARDO GREBLO sistemiche, può essere di ostacolo all’adempimento dell’obbligo morale di rispettare le libertà civili degli individui.62 Il traffico di donne e bambini a scopo di prostituzione forzata, per esempio, è una macroscopica violazione dei diritti civili, ma dipende da un contesto di povertà radicata, di deprivazione persistente e di lunga durata, oltre che dalla subordinazione correlata al genere nelle diverse aree della vita sociale, giuridica ed economica. Quando si valuta ciò che agli individui può capitare nello spazio del male o delle sofferenze socialmente evitabili, certe distinzioni – tra pubblico e privato, tra sociale e statuale, per esempio – perdono una parte della loro ragion d’essere. L’“inflazione” dei diritti stigmatizzata da Ignatieff andrebbe allora considerata, piuttosto, come un’“evoluzione”, come un forte impegno etico a integrare nel quadro di riferimento dei diritti umani violazioni alla libertà che non rientrano esattamente nelle classificazioni tradizionali, poiché si trovano all’incrocio, o al punto di intersezione, tra i diritti civili, sociali ed economici. La loro mancata applicazione non dovrebbe trasformare un diritto inattuato in un non-diritto, ma dovrebbe invece spingerci a fare in modo che delle violazioni che hanno ormai superato la soglia della rilevanza sociale diventino una voce importante nel programma e negli interventi volti a soddisfare obblighi tacitamente o implicitamente riconosciuti. La presenza di ambiguità o incertezze nel concetto dei diritti umani non è una ragione valida per accogliere la proposta minimalista, poiché sia i mali socialmente evitabili sia i possibili rimedi hanno un nesso diretto con le circostanze sociali e gli assetti economici che ostacolano l’adempimento dell’imperativo morale di rispettare i diritti da parte degli individui e delle istituzioni. I pensatori liberali non hanno certo torto quando ci ricordano che una condizione di soglia può impedire a particolari libertà di acquisire lo statuto di diritti umani e che i diritti vanno inquadrati nella sfera degli obblighi che investono gli individui, i gruppi e le istituzioni nelle società in cui risultano sistematicamente violati. Ma è anche vero che la loro importanza etica non dipende in maniera lineare dal fatto di essere immediatamente giustiziabili. Il minimalismo dei diritti umani proposto da Rawls e Ignatieff riconosce il carattere politico e contingente dei diritti umani, ma rimane ancorato a una prospettiva nomostatica, che si preclude la comprensione delle loro caratteristiche nomodinamiche: con le proclamazioni dei diritti umani non ci si limita a riconoscere l’esistenza di qualcosa che risponde al nome di diritti umani, ma si dà voce a istanze morali che richiamano l’attenzione anche su ciò che andrebbe fatto. Il minimalismo si riduce allora, nel migliore di casi, a essere un indicatore della utilizzabilità dei principi sanciti nelle Dichiarazioni, e non più una conferma della loro giustezza. D. Chong, “Economic Rights and Extreme Poverty: Moving Toward Subsistence”, in C. Bob (a cura di), The International Struggle for New Human Rights, cit., pp. 108-129. 62 337