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UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA Daira NOCERA Abstract: The most obvious characteristic of the context found in Room 3 is the large majority of amphora fragments present in the deposit. Moreover, the average dimension of the fragments is around cm. 25/30 whereas the average dimension of the fragments from the other ceramic classes is much smaller (approximately cm. 2-5). The really significant aspects of this context is in the types of amphora used, mainly Dressel 20 and Dressel 1, and in large dimension of fragments. These characteristics suggest a usage for drainage and structural purposes. The selection of the material makes us think that these fragments were particularly suitable to bear weights and avoid dampness. Le campagne di scavo effettuate nel Foro di Nerva nel 1996-1997, a cura della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma e dell’Istituto di Topografia di Roma e dell’Italia Antica della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, hanno permesso di chiarire alcuni aspetti importanti relativi alla sistemazione dell’area prima della costruzione del Foro. Le notizie tramandate dalle fonti1 sull’esistenza del quartiere repubblicano dell’Argiletum hanno ricevuto delle importanti conferme in campo archeologico nella campagna del 1996-1997 durante la quale sono state messe in luce strutture pertinenti all’epoca repubblicana e interpretate come resti di domus ed ergastula. ambiente 3 ma che vanno però immaginati come un’area unitaria ipogea. Il contesto ceramico qui esaminato proviene dall’ambiente 35 che risulta delimitato dai resti delle fondazioni UUSS 3300 e 3163 nella zona più a sud-ovest dell’area di scavo. Un dato archeologico di grande importanza, acquisito nella campagna del 1996-1997, riguarda una fase successiva a quella repubblicana e consente un confronto preciso con altri contesti di scavo. La scoperta di alcune fondazioni di pilastri quadrangolari (fig. 2) ha permesso di ipotizzare una fase di epoca neroniana. L’ipotesi è legittimata dal confronto puntuale, in termini di posizione stratigrafica e tecnica edilizia, con i ritrovamenti fatti tra il Clivo Palatino e la Via Nova che testimoniano una sistemazione immediatamente successiva all’incendio del 64 d.C.6 Sappiamo dalle fonti7 che nel luglio di quell’anno Roma fu devastata da un incendio di dimensioni catastrofiche a seguito del quale Nerone avviò un imponente programma di ristrutturazione che non fu sempre portato a compimento. Negli interventi archeologici effettuati nell’area centrale di Roma, negli ultimi anni, è stato possibile riconoscere le tracce di questo evento e del fervore edilizio che ne seguì e che ricalcò sempre lo stesso schema: dopo l’incendio si provvede ad un potente interro che viene poi tagliato per posare le nuove fondazioni.8 L’area di scavo interessava l’angolo sud-occidentale della piazza2 dove sono state rinvenute fondazioni cementizie pertinenti ad una prima fase progettuale della piazza stessa. Queste erano probabilmente, in fase con la fondazione curvilinea già individuata dal Bartoli nel 19393 e interpretata, all’epoca, come resti del cosiddetto “Tempio di Giano” noto da fonti medievali e oggi ritenuta una prima fase dell’impianto forense che prevedeva il tempio rivolto ad est.4 Tali fondazioni tagliano una serie di strutture più antiche relative al quartiere dell’Argiletum e interpretate come resti di ergastula e di altre strutture residenziali caratterizzate dalla presenza di mosaici pavimentali e datate tra il II e gli inizi del I sec. a.C. Nell’area in questione (fig. 1) si riconoscono tre fondazioni, che dovrebbero essere pertinenti alla prima fase del tempio (UUSS 3338, 3300 e 3163), tutte e tre allineate con orientamento NO-SE che, insieme ad altre fondazioni a queste trasversali, delimitano un’area quadrangolare all’interno della quale sono stati individuati gli ambienti ipogei del quartiere repubblicano. La fondazione US 3300 taglia in due quest’area quadrangolare formando due ambienti rettangolari che sono stati denominati, nel corso dello scavo, ambiente 2 e Grazie all’esame dei rapporti stratigrafici, nel caso dello scavo del Foro di Nerva la successione cronologica degli eventi potrebbe dunque essere così ricostruita: gli ambienti ipogei dell’ambiente 3 sarebbero pertinenti all’epoca repubblicana; l’occupazione dell’area dovrebbe poi protrarsi fino all’epoca neroniana quando l’incendio del 64 d.C. devasta la zona lasciando evidenti tracce sulle 5 I contesti ceramici provenienti dall’ambiente 2, così come quelli messi in luce nell’ambiente 1, posto più a N-E, sono stati studiati da Adele Rinaldi (Rinaldi 2006 e supra). 6 Santangeli Valenzani,Volpe 1986, p. 419. 7 Suet. Nero 38; Tac. ann 15, 39; Cass. Dio 62, 18. 8 Si vedano a questo proposito gli scavi della Meta Sudans, (Panella 1986), il già citato articolo di R. Santangeli Valenzani e R. Volpe del 1986 e gli scavi effettuati sulle pendici settentrionali del Palatino (Carandini, Papi 1986). 1 Mart. 2, 17, 1-3; Cic. att. 4, 17, 7; Mart. 1, 2,8. Per la planimetria generale dell’area si rimanda alle figg. 1-2 del contributo di A. Rinaldi in questo stesso volume. 3 Cfr. Morselli, Tortorici 1989, pp. 103-127, per un resoconto dettagliato sui primi interventi di scavo nell’area. 4 Viscogliosi 2000, p. 68. 2 73 CONTESTI CERAMICI DAI FORI IMPERIALI Fig. 1 – Foro di Nerva. Pianta dell’area di scavo con l’ambiente 3 in evidenza (disegno F. Carboni, rielaborazione grafica D. Nocera) ambizioso progetto edilizio, Nerone fa interrare gli ambienti ipogei e dà inizio alla costruzione dei pilastri quadrangolari in vista di un monumentale programma edilizio che non viene portato a compimento. Questa fase edilizia è quindi obliterata dal primo progetto del Foro che inizia intorno agli anni 85-87 d.C. L’esame del materiale ceramico proveniente dall’interro dell’ambiente 3 consente di formulare alcune osservazioni non solo di ordine cronologico e/o socioeconomico, ma anche, e soprattutto, di fornire maggiori dettagli sulla funzione dell’interro che rappresenta, a mio avviso, il dato più interessante. CARATTERISTICHE DEL CONTESTO E CLASSI CERAMICHE NON ANFORICHE Fig. 2 – Foro di Nerva. Composizione del contesto secondo le percentuali dei materiali anforici e non anforici Osservando i frammenti rinvenuti, una delle caratteristiche più evidenti è rappresentata dall’indice di frammentarietà dei materiali anforici che è piuttosto basso: cm 25-30 in media, mentre per gli altri materiali ci strutture dell’ambiente. Al fine di ristrutturare l’intera area danneggiata dal fuoco e con l’intento di realizzare un 74 D. NOCERA: UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA Fig. 3 – Foro di Nerva. Cronologia delle forme anforiche attestate prodotte a partire dal 130 a.C. fino alla metà del I a.C.9 e dalle anfore Maña C (4%) la cui produzione inizia dalla fine del III a.C. per terminare tra l’età augustea e il primo sec. d.C.10 La forchetta cronologica può essere ulteriormente ristretta se si considera la presenza di due frammenti di piatti in terra sigillata del tipo Conspectus 20.4.4 e un frammento di orlo di coppa del tipo Marabini LI che costituiscono delle varianti la cui produzione comincia proprio con Nerone.11 troviamo di fronte a numerosi frammenti, per la maggior parte sono pareti, di piccolissime dimensioni, da cm 2 a 4 in media. L’insieme dei materiali non anforici raggiunge dunque un totale numerico considerevole ma non rappresentativo del contesto. Se il grafico in figura 2 ci presenta una proporzione numerica tra le due categorie analizzate (anfore e materiali non anforici) non così sbilanciata in favore dei materiali anforici (62% contro il 38%) è indispensabile tenere presente l’indice di frammentarietà piuttosto alto dei frammenti appartenenti a classi non anforiche che rende l’insieme dei frammenti suddetti particolarmente non significativo. Il maggior numero di frammenti di materiali non anforici appartiene alla classe della ceramica comune da mensa e sono stati rinvenuti in gran parte nell’US 3397. Le pareti di questa classe provenienti dall’US 3397 rappresentano di per se stesse, con 469 pezzi, la quantità più significativa di frammenti non anforici del contesto. Sembrerebbe proprio un deposito unitario di frammenti atti a ultimare il riempimento con lo scopo che vedremo meglio nelle conclusioni. Non stupisce quindi che il maggior numero di frammenti di materiali non anforici appartengano alla classe della ceramica comune da mensa e da fuoco (il 44% del totale) che grazie all’impasto potevano meglio delle classi fini essere utilizzati in questo tipo di riempimento volto, ipoteticamente, ad un’azione di drenaggio e di sopportazione di carichi. Le caratteristiche del contesto fanno presupporre una selezione dei materiali, al momento dell’interro, atta ad ottenere dei riempimenti che avessero delle caratteristiche particolari che verranno esaminate nel dettaglio più avanti. L’inquadramento cronologico della maggior parte del materiale anforico è circoscrivibile al pieno I sec. d.C. (fig. 3). Nel caso della classe ceramica delle anfore non si può propriamente parlare di “indicatori di epoca”, infatti non esiste una vera e propria produzione che inizia in epoca neroniana. Comunque, è possibile constatare una piccolissima percentuale di materiale residuo rappresentato dai frammenti di Dressel 1 (3%) che sono 9 Panella 2001, p. 193. Bruno 2005, p. 374. 11 Rizzo 2003, p. 9. 10 75 CONTESTI CERAMICI DAI FORI IMPERIALI Fig. 4 – Foro di Nerva. Composizione dei materiali anforici secondo le aree di produzione trasportati in altri contenitori. Una delle ragioni della predominanza delle anfore spagnole è probabilmente da ascrivere al fatto che la Spagna non produceva un solo tipo di prodotto ma diversi generi:14 dall’olio, trasportato nelle Dressel 20, al vino, contenuto nelle Dressel 2-4 o nelle Pascual 1, ai prodotti a base di pesce trasportati nelle Dressel 7-13 o al defrutum, contenuto nelle Haltern 70. La superiorità dei contenitori spagnoli risulta anche da alcuni contesti della Meta Sudans dove le percentuali sono sempre a favore di questi contenitori anche se in misura minore: 26,5% contro il 24,3% delle anfore di provenienza italica.15 Un confronto piuttosto preciso è offerto dal rinvenimento del deposito della Longarina a Ostia dove la molteplicità dei prodotti provenienti dalla Spagna trova un corrispettivo nei diversi contenitori, soprattutto betici, che, anche in questo caso, superano le altre produzioni.16 Il calcolo medio delle presenze di anfore in epoca neroniana a Roma, elaborato da G. Rizzo,17 fornisce un dato leggermente diverso: esaminando i dati di contesti dalla Meta Sudans, dagli scavi tra Via Nova e Clivo Palatino e dalle pendici del Palatino, il 31,98% è costituito dai contenitori italici mentre quelli spagnoli rappresentano il 29,34%.18 Oltre alla ceramica comune da mensa e da fuoco le altre classi rappresentate sono: la terra sigillata italica, la vernice nera, le pareti sottili, la ceramica a vernice rossa interna, la comune dipinta e le lucerne. LE ANFORE Il materiale anforico rappresenta un’importante fonte di informazioni sugli scambi commerciali dei generi alimentari che interessava Roma nella prima età imperiale. Le anfore erano adibite al trasporto a medio e lungo raggio delle derrate e i rinvenimenti di questo tipo di materiale consentono una visualizzazione degli scambi in senso geografico ed economico. Per comprendere meglio la circolazione di questo tipo di contenitore è possibile confrontare questo contesto con i materiali provenienti da alcuni degli scavi più ricchi effettuati negli ultimi anni a Roma, mi riferisco principalmente agli interventi nell’area della Meta Sudans12e tra il Clivo Palatino e la Via Nova13 che hanno restituito materiale databile all’età neroniana. La tabella 2 illustra la composizione del materiale anforico indicando le forme riconosciute e le aree di produzione mentre il grafico in fig. 4 fornisce le percentuali delle diverse produzioni, secondo le aree di provenienza, all’interno del contesto. La differenza del dato non è però significativa in quanto il numero delle produzioni italiche potrebbe necessitare di alcune correzioni. Infatti, data la difficoltà di attribuire alcuni frammenti a produzioni regionali o provinciali note esiste un’alta probabilità che le attribuzioni a quelle italiche siano sovrastimate.19 Le produzioni che provengono dalla Spagna, in particolare dalla Betica, sono, con il 43%, le più attestate. Sono stati riconosciuti 910 frammenti di cui 73 sono pezzi significativi. La Spagna ricopriva senza dubbio un ruolo importante nel commercio di epoca imperiale. La regione della Betica, con l’anfora tipo Dressel 20 (la più attestata in assoluto all’interno del contesto, 20% con 530 frammenti), riforniva la capitale di olio dall’età augustea fino al III sec. d.C., mentre le altre regioni spagnole producevano ed esportavano diversi generi alimentari 12 13 Tra le produzioni italiche di questo contesto le più documentate sono sicuramente le Dressel 2-4, anfore vinarie prodotte in diversi centri dell’Italia tirrenica a partire dalla metà del I sec. a.C. fino al II sec. d.C. 14 Panella 1992, p. 190. Panella 1992, p. 190, fig. 1. 16 Hesnard 1980, p. 150. 17 Rizzo 2003. 18 Ibidem, p. 144 e p. 150. 19 Ibidem, p. 149. 15 Meta Sudans I. Palatium e Sacra Via I; Santangeli Valenzani,Volpe 1986. 76 D. NOCERA: UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA del Marocco.26 Gli indici per le produzioni egee e africane risultano analoghi ai contesti contemporanei. Sia i livelli neroniani della Meta Sudans che quelli tra la Via Nova e il Clivo Palatino presentano una composizione dei materiali anforici in cui le produzioni egee rappresentano rispettivamente il 21,6% e il 20,8% mentre quelle africane si attestano sul 14,8% e 15,9% del totale e seguono le produzioni italiche e spagnole.27 Le percentuali delle produzioni, illustrate nel grafico in fig. 6 indicano una successione simile secondo cui, dopo le produzioni spagnole e italiche con il 47% e 31%, seguono le anfore di origine egeo-orientale con il 15% e quelle africane con il 4%. Prodotte nell’Italia adriatica sono invece le Dressel 6A che rappresentano i tipi più attestati dopo le Dressel 2-4 italiche. Le Dressel 6A erano adibite al trasporto del vino prodotto nelle regioni dell’Adriatico centro-settentrionale e nordorientale. Da notare la presenza, all’interno del contesto, di un frammento di Dressel 6A con orlo intatto ed ansa con bollo inscritto entro un cartiglio rettangolare sull’orlo che indica chiaramente la provenienza dall’area picena (SAFINIAE PICE, fig. 7e).20 Il commercio del vino italico era affidato anche ad altri tipi di contenitore a fondo piatto come le anfore di Spello e di Forlimpopoli (Ostia II 521/Ostia III 369-370 e Ostia 1 451/Ostia IV 440-441) che sono qui attestate da due frammenti. Nei livelli neroniani rinvenuti nei pressi dell’arco di Tito le percentuali dei materiali anforici sono nettamente sbilanciate in favore dei contenitori di provenienza italica che rappresentano il 39,1% del totale seguiti subito dopo dalle produzioni dell’area egea con il 20,8%, mentre quelle ispaniche occupano solo il terzo posto con il 9,1%.21 Le differenze che si riscontrano tra un deposito e l’altro possono dipendere da svariate circostanze che non sempre è possibile determinare, ma, come vedremo, nel calcolo medio dei ritrovamenti le composizioni sono abbastanza simili. Per quanto riguarda le produzioni di origine gallica, nel contesto in oggetto rappresentano il 2%, nell’area della Meta Sudans il 2,5% 3 e lo 0,5% nei livelli della Via Nova e Clivo Palatino. La poca rilevanza delle anfore di produzione gallica e, di conseguenza, delle derrate contenute (vino), sembra essere, infatti, un dato accertato per i contesti di epoca neroniana così come sono poco testimoniati i prodotti provenienti dall’Egitto e dall’area siro-palestinese.28 CONCLUSIONI Lo studio delle anfore investe necessariamente la sfera del commercio su medio e lungo raggio e consente di formulare alcune osservazioni non solo relative agli scambi ma che interessano altri aspetti di tipo socioculturale legati alle derrate contenute e alla diffusione dei consumi. Nel contesto qui esaminato le anfore di origine egeoorientale risultano le più attestate dopo quelle spagnole e italiche con il 13% e 283 frammenti. I tipi Camulodunum 184, riconoscibile dalla tipica ansa a coda rilevata, le Dressel 5 e gli esemplari di anfore cretesi (AC2a e AC2b) sono da considerarsi pienamente contestuali poiché prodotti tra l’età augustea e il II sec. d.C.22 Tutti questi contenitori erano adibiti al trasporto del vino egeo che era, infatti, molto apprezzato a Roma,23 in particolare il vino dell’isola di Cos dalla cui tradizionale produzione anforaria greca deriva il tipo di epoca romana della Dressel 5.24 Le proporzioni tra i contenitori adibiti al trasporto del vino e gli altri tipi di derrate (fig. 5) indicano una netta prevalenza dei primi che rappresentano il 56% del totale seguiti dalle anfore olearie, di esclusiva provenienza betica, che raggiungono il 23%. Il dato numerico richiede alcune precisazioni che consentano di penetrare meglio il problema del mercato alimentare d’importazione a Roma in questo periodo. Sarebbe, infatti, naturale aspettarsi una superiorità numerica dei contenitori oleari, se si considera che l’olio non era semplicemente un prodotto alimentare, ma veniva anche utilizzato per l’illuminazione e per la preparazione degli unguenti. Inoltre, mentre è ben attestata una produzione locale italica di vino il cui trasporto in anfore era, quindi, meno necessario, l’olio poteva essere importato principalmente dalla Spagna e, più tardi, soprattutto dal II sec. d.C.,29 dall’Africa. Detto questo è possibile riequilibrare il dato numerico precisando che la capacità dei contenitori oleari betici, le Dressel 20, è quasi tripla rispetto alle anfore vinarie classiche di tipo Dressel 2-4 (76-77 l per le prime e 26-34 l per le seconde). Alle aree africane sono stati attribuiti 84 frammenti che rappresentano il 4% del totale. Tra le anfore di origine africana sono stati riconosciuti 4 frammenti pertinenti ai contenitori Maña C1 e C2 prodotti in numerosi centri nord-africani e che si possono considerare residui in questo contesto in quanto la produzione comincia a partire dal III sec. a.C. e si interrompe con l’età augustea o, in alcuni casi, all’inizio del I sec. d.C.25 Il contenuto delle anfore del tipo Maña è ancora sconosciuto, si ipotizza che potesse essere garum data la presenza di impianti per la salatura del pesce lungo la costa atlantica 20 Per un bollo identico si veda il confronto con l’esemplare n. 103 in Anfore romane a Padova. Il bollo è impresso in un cartiglio rettangolare con lettere rilevate e si scioglie in SAF(INIAE) PIC(ENAE/ENTINAE). Da altri confronti si può associare questo esemplare con una produzione legata alla famiglia degli Herennii localizzata in Emilia, Istria e Piceno (Pesavento Mattioli, Cipriano 1994, p. 521). 21 Panella 1992, p. 193. 22 Peacock, Williams 1986, p. 103; Ostia II, p. 119; Marangou Lerat 1995, p. 81. 23 Marangou Lerat 1995, p. 2. 24 Rizzo 2003, p. 155, nota n. 68. 25 Bruno 2005, p. 374. I contenitori a fondo piatto poi, adibiti anch’essi al trasporto del vino, sono di dimensioni ancora più piccole 26 Ibidem, p. 374. Panella 1992, pp. 190-193. 28 Rizzo 2003, p. 160. 29 Panella 2001, p. 207. 27 77 CONTESTI CERAMICI DAI FORI IMPERIALI Fig. 5 – Foro di Nerva. Composizione dei materiali anforici secondo le derrate contenute Fig. 6 – Foro di Nerva. Composizione del contesto con indicazione della provenienza e del contenuto confronto con i materiali provenienti dalla Meta Sudans e dalla zona tra Via Nova e Clivo Palatino mette in evidenza rapporti abbastanza simili tra le diverse derrate alimentari trasportate in anfore e giunte nel mercato di Roma nella prima età imperiale.30 Nel caso della Meta Sudans il rapporto tra anfore vinarie e olearie risulta essere di 2:1 o 3:1, una volta considerata la reale quantità trasportata, mentre i contenitori da garum sono in rapporto di 1:7 rispetto a quelli da vino.31 Le stesse proporzioni si ritrovano nel contesto proveniente dallo e, comunque, molto poco attestati (5 frammenti significativi). Il 16% dei contenitori di questo contesto trasportava garum o prodotti a base di pesce e l’intero 16% è costituito da esemplari di Dressel 7-13 di produzione betica con una capacità di circa 30 litri che stanno in rapporto di 1:3 con i contenitori da vino. L’apporto delle anfore che trasportavano derrate a base di frutta o quelle di cui non si conosce il contenuto è poco rilevante e costituisce, in totale, il 5%. All’interno delle produzioni vinarie le anfore italiche risultano le più attestate seguite a breve distanza da quelle spagnole e poi da quelle di provenienza egea (fig. 6). Un 30 31 78 Panella 1992, pp. 190-195. Ibidem, p. 192. D. NOCERA: UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA scavo tra la Via Nova e il Clivo Palatino e che può essere sintetizzato con un generale predominio dei contenitori vinari all’interno dei quali si riscontra la superiorità delle anfore tirreniche su quelle egee.32 termine l’ambizioso programma edilizio voluto da Nerone per monumentalizzare la zona.39 Se da un punto di vista di inquadramento cronologico è importante il confronto con esempi coevi, uno degli aspetti più precipui di questo contesto, che è dato dalla quantità e dal bassissimo indice di frammentarietà dei materiali anforici, consente un confronto con contesti non necessariamente contemporanei ma che presentano le stesse caratteristiche e, soprattutto, la stessa funzione. Alla luce dei dati sopra esposti è possibile concludere che a Roma, nella prima età imperiale, il mercato dei vini italici è ben testimoniato dai rinvenimenti delle anfore di tipo Dressel 2-4 che giungevano soprattutto dai centri produttivi tirrenici e campani. Altri contenitori a fondo piatto, meno frequenti, come le anfore di Spello e di Forlimpopoli erano comunque utilizzati per il trasporto di vini dell’Italia centrale e adriatica. L’approvvigionamento dell’olio era garantito dall’arrivo massiccio delle Dressel 20 che, dalla regione spagnola della Betica, arrivavano a Roma a partire dall’età augustea fino al III sec. d.C. La predominanza di questo contenitore, che in questo contesto risulta la forma più attestata con il 22%, non deve affatto stupire se si pensa che l’olio, oltre agli usi di cui si è già detto sopra, era oggetto di distribuzioni straordinarie gratuite alla plebe dall’età augustea.33 Le distribuzioni diventeranno sempre più frequenti con Adriano e saranno poi estese a tutta l’Italia con Settimio Severo sotto il quale saranno quotidiane come lo erano quelle di grano.34 A partire dagli inizi del III sec. d.C. la Betica perderà il predominio sulle esportazioni olearie a favore dell’Africa che provvederà, da questo momento in poi, al rifornimento dell’Italia e della nuova capitale Costantinopoli.35 Per quanto riguarda le esportazioni del garum, testimoniate nei contesti di epoca neroniana dalla presenza di anfore Dressel 7-13, si registra una forte diminuzione di questa forma dalla seconda metà del I sec. d.C. quando aumenta l’esportazione delle forme Beltran IIA che saranno destinate ad una capillare diffusione nel II sec. d.C.36 L’apporto di derrate alimentari dalla Gallia diventa di primaria importanza solo a partire dalla metà del II sec. d.C.37 I primi arrivi si intravedono in contesti di poco successivi a quelli neroniani come alcuni livelli della Crypta Balbi datati in epoca domizianea o in alcuni strati di epoca flavia individuati tra la Basilica Emilia e il Foro Transitorio.38 Mi riferisco a casi in cui l’utilizzo delle anfore, come materiale di reimpiego, abbia una precisa funzione strutturale volta a bonificare o realizzare opere di drenaggio qualora la situazione geomorfologica dell’area lo renda necessario. Nonostante i numerosissimi esempi di questo riutilizzo dei materiali anforici uno studio scientifico del fenomeno ha avuto inizio solo in tempi relativamente recenti. Nel corso delle indagini archeologiche, infatti, si è spesso privilegiato l’aspetto legato alla classificazione dei materiali a sfavore di un’indagine particolareggiata della funzione di questo tipo di riempimenti. Uno dei primi eclatanti ritrovamenti di anfore, avvenuto a Roma alla fine dell’ottocento nella zona del Castro Pretorio, aveva attirato l’attenzione di Heinrich Dressel per la sua straordinarietà numerica. Si trattava infatti di migliaia di esemplari disposti capovolti ad una profondità di 1,40 m in file di 3 o 6.40 L’interesse del Dressel epigrafista lo portò alla pubblicazione dei tituli picti rinvenuti sulle anfore e all’elaborazione della famosa tavola tipologica ma, in una breve osservazione, lo studioso definì la natura del riempimento come atta ad “isolare il più possibile dall’umidità”.41 Da quel momento in poi sono stati molti i rinvenimenti del genere poiché in epoca romana si ricorreva spesso a questa tecnica riutilizzando i contenitori in posizione verticale o diagonale e, in genere, ma non necessariamente, capovolti. In ambito italico i confronti più numerosi provengono dalla valle del Po dove la situazione idrografica e la natura geografica e fisica dei territori rendeva necessaria un’opera di stabilizzazione del suolo.42 Dall’alta e media valle del Rodano provengono invece svariati esempi di vides sanitaires o vespai di anfore da contesti cittadini.43 In sintesi, la composizione generale dei materiali anforici di questo contesto non presenta caratteristiche significativamente diverse da altri contesti contemporanei e rinvenuti in aree molto vicine allo scavo in questione. Le analogie non si fermano alle mere percentuali ma interessano il modo di formazione dei contesti in oggetto. In tutte e tre le situazioni analizzate (lo scavo dell’angolo sud-occidentale del Foro di Nerva, la Meta Sudans e l’area tra Via Nova e Clivo Palatino) si riconosce una stessa sequenza di eventi che ha portato alla formazione della stratigrafia: in seguito all’incendio del 64 d.C. si assiste ad un generale livellamento dell’area ottenuto tramite ingenti interri che dovevano servire per portare a Un’indagine archeologica del 1973 presso il sito medievale di Saint-Just, vicino a Lione, portò alla luce dei singolari depositi di anfore, della prima età imperiale, disposti in nicchie semicircolari che si aprivano al lato di un muro di un edificio medievale.44 Le anfore erano collocate dentro le nicchie con il collo rivolto verso il basso per creare un vide sanitaire con la duplice funzione 39 Ibidem, p. 190. Dressel 1879, p. 36. 41 Ibidem, p. 193. 42 Un ampio resoconto della problematica è esposto in Bonifiche e drenaggi. 43 Becker et al. 1986; Bertrand 1992; Dangreaux, Desbat 1988; Laubenheimer 1998. 44 Bertrand 1992, p. 265. 32 Ibidem, p. 195. 33 Eadem 2001, p. 204. 34 Panella 2001, p. 204. 35 Ibidem. 36 Ibidem, p. 195. 37 Ibidem, p. 200. 38 Panella 1992, pp. 195-197. 40 79 CONTESTI CERAMICI DAI FORI IMPERIALI Fig. 7 – Foro di Nerva. Esempi di frammenti anforici con basso indice di frammentarietà: a Dressel 5; b/d Haltern 70; c/f Dressel 2-4; e Dressel 6A (scala 1:5) di drenare l’acqua verso le condutture ma anche per sostenere il muro romano sul quale si era poi impostato l’edificio medievale.45 Delle 72 anfore recuperate le più attestate sono nell’ordine: Dressel 20, Haltern 70, Gallica 3, Gallica 4, Dressel 2-4, Longarina 2, Camulodunum 184, Dressel 24, anfore di Brindisi, anfore orientali.46 Il dato predominante rappresentato dalle anfore betiche deriva dalla grande diffusione di questi tipi nella prima 45 46 Ibidem. 80 Bertrand 1992, p. 266. D. NOCERA: UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA età imperiale, inoltre, in ragione del loro impasto e delle pareti molto spesse, queste anfore sono particolarmente adatte a sostenere carichi importanti. La stessa superiorità numerica degli esemplari spagnoli si riscontra in un vespaio trovato sempre a Lione, nel 1971 e 1981, in occasione di uno scavo di emergenza durante il quale furono recuperati 50 esemplari in uno spazio di m 4,8 x 2,7.47 Il deposito è stato datato all’epoca augustea e costituiva senza dubbio un vespaio di drenaggio resosi necessario dalla vicinanza del fiume Rodano.48 nel caso dei rinvenimenti di Milano, nel corso dello scavo presso l’Università Cattolica,54 o delle fosse trovate a Padova all’inizio degli anni novanta.55 Nel primo caso l’indagine archeologica ha portato alla luce resti di strutture abitative della metà del I sec. d.C. costruite anche tramite il reimpiego di anfore intere e frammentarie.56 Diverse fosse, scavate nei livelli sottostanti le strutture, risultavano riempite con grossi frammenti di anfore o esemplari segati all’altezza del collo che, in alcuni casi, erano disposti in modo sistematico, mentre altre volte erano gettati in modo caotico ed assolvevano ad una generale funzione di drenaggio.57 Anche nei rinvenimenti di Padova, pertinenti a contesti del I sec. d.C. ed aventi funzione drenante, sono state trovate fosse con anfore capovolte e collocate una accanto all’altra sui limiti della fossa, mentre all’interno erano disposte in maniera disordinata.58 Per quanto riguarda gli esempi in ambito italico, soprattutto nella pianura padana, esistono diverse modalità di utilizzo del materiale anforico in opere di bonifica o di drenaggio. Le ricerche archeologiche effettuate nel territorio di Aquileia sull’alto Adriatico hanno portato al rinvenimento di numerosi depositi di anfore in ambito urbano volti a facilitare l’insediamento in zone caratterizzate da un alto tasso di umidità.49 La colonia era stata dedotta nel 181 a.C. e sorgeva su un terreno soggetto a esondazioni una delle quali, particolarmente disastrosa, era stata documentata nell’VIII sec. a.C.50 Nella città di Aquileia sono stati riconosciuti depositi datati ai primi anni di vita della colonia con anfore del tipo Lamboglia 2, Dressel 1 e Dressel 6A integre, sia diritte che capovolte, sotto cardini e decumani con la funzione di aumentare la stabilità in tratti di strada cedevoli.51 Avvicinandosi all’area del contesto in oggetto non si può non ricordare il deposito della Longarina rinvenuto negli anni settanta sulla strada tra Ostia e Castel Fusano.59 Il deposito, databile al I sec. d.C., era costituito da 360 esemplari disposti orizzontalmente in modo da creare file parallele di due o tre anfore.60 La sistemazione dei materiali e le caratteristiche morfologiche della zona suggeriscono, anche in questo caso, un’interpretazione del deposito come banco di anfore con funzione di drenaggio. Nel panorama delle tipologie spicca il dominio delle anfore vinarie Dressel 2-4 di produzione italica seguite dalle Dressel 2-4 spagnole e dalle anfore spagnole da garum.61 Vere e proprie strutture di bonifica con anfore provengono dalle indagini a Oderzo (TV), antica Opitergium, dove banchi di anfore sono stati rinvenuti in diverse aree della città e, in particolare, presso il molo fluviale di epoca romana, sul fiume Monticano, che aveva una probabile funzione commerciale. Una volta scoperta la banchina del molo fino a 4 m di profondità, è venuto alla luce un banco di 28 anfore integre disposte in modo orizzontale e ben incastrate così da formare un insieme solido ed omogeneo.52 Le tipologie riconosciute appartengono ai tipi Dressel 6A e Lamboglia 2, e, in numero minore, Dressel 6B, Dressel 43 similis e Dressel 2-4 e l’ambito cronologico è quello del I secolo d.C. In questo esempio si è potuto constatare che il banco di anfore occupava una depressione morfologica e che la sua funzione era probabilmente quella di bonificare l’area per la costruzione di un edificio nei pressi del molo da identificare, ad esempio, con un horreum.53 Nel 1974, durante un saggio di scavo in un corridoio della Domus del Protiro ad Ostia, fu scoperto un vero e proprio muro di anfore disposte in modo orizzontale, una accanto all’altra e anche una sopra l’altra e perpendicolari ad un muro di cui erano parte integrante.62 Furono rinvenuti 76 esemplari tra cui i tipi più attestati sono le Dressel 1 seguite dalle neo-puniche e dalle Lamboglia 2. Il deposito è stato datato nel terzo quarto del I sec. d.C. Dall’indagine archeologica si è potuto constatare che in origine i muri di anfore dovevano essere addirittura quattro ed erano pertinenti a livelli sottostanti un’area scoperta sulla quale era collocata una grande cisterna. La scelta degli esemplari di Dressel 1 e il fatto che molte anfore fossero frammentate indica che, da una parte si voleva realizzare un’opera di drenaggio facilmente ottenibile con i grossi frammenti e necessaria per la presenza della cisterna, dall’altra si dovevano ottenere livelli stabili al di sotto della cisterna e le Dressel 1 risultavano adatte per la loro capacità di resistenza ai carichi.63 Nei due casi appena presentati il riutilizzo delle anfore era effettuato con esemplari integri disposti in modo preordinato così da formare spazi vuoti che permettessero la canalizzazione delle acque e la circolazione dell’aria. La funzione di drenaggio poteva però anche essere ottenuta utilizzando grossi frammenti disposti in modo caotico soprattutto in fosse di dimensioni contenute come 54 Bruno 1988. Cipriano et al. 1995. 56 Bruno 1988, p. 259. 57 Ibidem, p. 260, p. 263. 58 Mazzocchin, Pastore 1995, p. 104. 59 Hesnard 1980, p. 141. 60 Hesnard 1980, p. 141. 61 Ibidem, p. 150. 62 van der Werff 1986, p. 96. 63 Ibidem, p. 97. 55 47 Becker et al. 1986, p. 65. Ibidem. 49 Maselli Scotti 1998, p. 107. 50 Ibidem. 51 Maselli Scotti 1998, p. 107. 52 Tirelli et al. 1988, p. 142. 53 Ibidem, p. 143. 48 81 CONTESTI CERAMICI DAI FORI IMPERIALI Fig. 8 – Foro di Nerva. Esempi di frammenti pertinenti a classi non anforiche: a Conspectus 20.4.4; b-e orli di ceramica comune non id. (scala 1:3) forensi coincise con l’intasamento della Cloaca Maxima in modo tale da determinare il toponimo “Li Pantani” per indicare la zona.64 La Cloaca Maxima, infatti, era stata costruita, secondo la maggioranza delle fonti,65 da Tarquinio il Superbo proprio per far fronte ai continui problemi di impaludamento. Dagli esempi appena citati si comprende quanto frequente fosse, in epoca romana, il reimpiego di materiale anforico con funzione strutturale e di drenaggio. Tornando al contesto in oggetto credo sia opportuno riportare alcune osservazioni di carattere geomorfologico per comprendere come, anche in quest’area, gli strati di interro creati in seguito all’incendio di Nerone potessero avere una qualche funzione drenante e di solidità strutturale. Le caratteristiche degli strati di interro provenienti dallo scavo dell’ambiente 3 consentono alcuni confronti con gli esempi padani e gallici sopra esposti. Le unità stratigrafiche riempiono ambienti ipogei di piccole dimensioni e contengono una grande quantità di frammenti di anfore con un indice di frammentarietà molto basso. Alcuni pezzi sono costituiti da orli interi con La zona occupata dall’antico quartiere dell’Argiletum è rappresentata dalla parte centrale e meridionale di un’ampia valle compresa tra le pendici del Palatino, del Campidoglio, del Quirinale, del Viminale, dell’Esquilino e della Velia. Le acque di scolo si raccoglievano tutte in questa valle provocando spesso impaludamenti al punto che, nel Medioevo, la fase di abbandono delle strutture 64 65 82 Tortorici 1991, p. 19. Liv. I, LVI, 1-2; I, LIX, 9; Strabo, V, 8; Plin. Nat. Hist., XXXVI, 104. D. NOCERA: UN CONTESTO CERAMICO DALL’AMBIENTE 3 DEL FORO DI NERVA neroniana (fig. 1), riguarda un’area estesa che, dalla zona occupata dal Foro di Nerva, giunge fino al Clivo Palatino e la Via Nova. Dai resti di queste fondazioni è possibile ipotizzare una ristrutturazione monumentale organizzata secondo una serie di portici.67 Le esigenze strutturali di un così ambizioso progetto edilizio possono essere state assolte, in parte, anche con la pratica di livellare utilizzando materiali anforici che hanno una buona capacità di resistenza ai carichi. In questo contesto la netta superiorità numerica di frammenti di Dressel 20 che, come già chiarito sopra, sono anfore molto adatte a sostenere carichi, supporta l’ipotesi che, alla base della selezione dei materiali di questo interro, ci fosse anche l’esigenza di ottenere una solida base per le successive fasi edilizie. collo, anse e inizio della spalla e la maggior parte dei frammenti, soprattutto delle pareti, è pertinente ad anfore di origine spagnola. Se questi strati di interro fossero interpretati come immondezzai sarebbe molto poco giustificabile la scarsissima presenza delle altre classi ceramiche. Nel caso di uno scarico di ceramica, infatti, non si dovrebbe riscontrare un’attenta selezione dei materiali come invece avviene in questo caso. I piccolissimi frammenti delle altre classi ceramiche, pertinenti, principalmente, a ceramica comune, diventano così parte della matrice degli strati e potrebbero essere considerati delle presenze quasi incidentali all’interno del contesto. Se dunque la selezione dei materiali rappresenta un fattore precipuo, non resta che ipotizzare una funzione che potesse essere espletata dal tipo di materiale impiegato particolarmente adatto ad allontanare l’umidità e a sostenere carichi. Dimostrato dai tanti esempi che il reimpiego di anfore romane, in zone il cui profilo geomorfologico renda necessaria una qualche opera di drenaggio preventivo, era una pratica molto comune, si può pensare ad una simile funzione per questi strati di interro. Gli esemplari di anfore rinvenuti non sono, in questo caso, integri, ma frammentati e, come nel caso delle fosse di Padova o dello scavo di Milano,66 i frammenti non sono disposti secondo un ordine preciso ma in modo caotico. La necessità di disporre gli esemplari in modo ordinato ed omogeneo sui limiti delle fosse aveva lo scopo di dare stabilità ai contorni del taglio. Nel contesto in oggetto, invece, non ci troviamo di fronte a fosse scavate nel terreno, ma a spazi da riempire compresi tra muri in opera reticolata che non avevano certo bisogno di delimitazioni ulteriori. Il fatto che questi ambienti, pertinenti, lo ricordiamo, ad ergastula, fossero ipogei, quindi più soggetti ai problemi causati dall’umidità, rafforza l’ipotesi della necessità di un’opera di drenaggio preventiva. La scoperta delle fondazioni di forma quadrangolare, attribuite alla fase edilizia 66 Nonostante la necessità di drenaggio nell’area fosse solo limitata, in quanto il buon funzionamento della Cloaca Maxima, consentiva di per sé una difesa dagli impaludamenti, tali zone ipogee avrebbero sicuramente beneficiato di questo tipo di interro così adatto ad assorbire l’umidità. La selezione del materiale riscontrata nello studio di questo contesto risulta particolarmente interessante specialmente quando confrontata con gli interri degli ambienti contigui che presentano uno spettro di materiali ceramici differente. Si deve però tenere presente che lo scavo degli ergastula nell’ambiente 3 è, purtroppo, solo parziale. Dei quattro ergastula identificati nell’area solo quello  è stato completamente scavato insieme con il vano della scala (fig. 1). I dati a nostra disposizione potrebbero quindi rispecchiare una situazione non omogenea e l’interpretazione di questo tipo di interro potrebbe cambiare drasticamente. L’ipotesi qui proposta è, dunque, una delle tante spiegazioni possibili e si rimanda la discussione sul modo di formazione di questi interri al contributo di riferimento in questo stesso volume. 67 Cipriano 1995; Bruno 1988. 83 Santangeli Valenzani,Volpe 1986, p. 419.