BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO
GUIDO CAPOVILLA. – Dante e i «pre-danteschi». Alcuni sondaggi. – Padova, Unipress, 2009, pp. 235.
Il volume, che raccoglie – preceduti da un’ampia premessa – sette saggi, tre dei quali inediti, gli altri apparsi tra il 1980 e il 2007, si propone di
indagare i rapporti fra la poesia del secondo Duecento, concentrandosi specialmente su alcuni poeti toscani, e quella dantesca, e quindi di soppesare
il debito di Dante nei confronti della tradizione toscana e tosco-emiliana
precedente e coeva, insieme delineando i confini di una koiné stilistico-lessicale generalmente duecentesca. Il problema di decidere, di fronte a una
lettura sinottica di testi dei duecentisti e di Dante, fra casi di anteriorità, di
interazione o di riecheggiamento, si pone infatti fin dall’inizio, complicato
dalla penuria o dall’incertezza dei dati biografici e delle datazioni dei testi.
Suscitato da questo, si pone quindi il problema di capire, di volta in volta,
la direzione degli influssi fra testi e poeti, chi sia fra i due il modello, se e
in che modo i due facciano riferimento a un modello comune o all’insieme
di una tradizione, e eventualmente con quali rapporti fra loro (1).
A questo proposito è utile chiarire alcune denominazioni correnti per i
duecentisti, specialmente quella vulgata di “siculo-toscani”: R. Coluccia, basandosi su dati documentari e codicologici (la fascicolazione del Vaticano
Latino 3793), distingue fra siculo-toscani, cioè quei poeti dell’area tosco-occidentale che, nel secondo Duecento, imitano fedelmente il modello siciliano, e “toscano-siculi”, fra i quali Bonagiunta e Guittone, dediti invece alla
sperimentazione (2). Di questi ultimi, sulla scia appunto della proposta di
(1) In anni recenti, e specialmente a partire dal 2004, i rapporti fra Dante e la
lirica duecentesca sono stati oggetto di un diffuso interesse critico, espressione ultima del quale è appunto il saggio di Capovilla. Si segnalano, ad es., il volume Da Guido Guinizzelli a Dante. Nuove prospettive sulla lirica del Duecento. Atti del Convegno di studi. Padova-Monselice, 10-12 maggio 2002, a cura di F. Brugnolo e G. Peron, Padova, Il Poligrafo, 2004; al suo interno, il contributo di M. CICCUTO, Uno
sguardo critico alla lirica delle origini: l’esperienza delle rime “petrose”, pp. 333-40, riguardante un aspetto centrale nell’indagine di Capovilla; e il volume di G. MARRANI,
Con Dante dopo Dante. Studi sulla prima fortuna del Dante lirico, Firenze, Le Lettere, 2004, che si occupa dei modi dell’imitazione dantesca nella poesia di autori non
toscani: Nicolò de’ Rossi, Giovanni Quirini e Antonio da Ferrara.
(2) Vd. I poeti della scuola siciliana. vol. I Giacomo da Lentini. Edizione critica
con commento a cura di R. Antonelli; vol. II Poeti alla corte di Federico II. Edizione critica diretta da C. Di Girolamo; vol. III Poeti siculo-toscani. Edizione critica diretta da R. Coluccia, Milano, Mondadori, 2008, 3 voll., vol. III p. XLII; e il susseguente contributo di R. COLUCCIA, I poeti siculo-toscani. Rapporto da un’edizione
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Coluccia, Capovilla sottolinea nuovamente non tanto l’origine nella tradizione della poesia cortese siciliana, quanto piuttosto l’innovazione rispetto
al punto di avvio: la conoscenza della poesia francese e provenzale, il realismo e la varietà tematica, rispetto alla «fissità cortese» dei siciliani (p. 23),
la ricerca dell’equivocità e della difficoltà e l’atteggiamento agonistico che
si esprimono nel gusto della tenzone. Sulla base di queste precisazioni Capovilla propone quindi l’etichetta di «tosco-bolognesi» (p. 11), a suo parere valida anche in virtù della rilevanza di Guinizzelli e di altri poeti bolognesi e toscani nel VI fascicolo del canzoniere Vaticano (forse indizio, fra
gli altri, di una precoce conoscenza dei siciliani a Bologna), dell’assidua frequentazione dello Studio bolognese da parte di toscani prima, durante e
dopo il soggiorno bolognese di Dante, e della considerazione da lui riservata ai poeti emiliani (3).
Il saggio di Capovilla si occupa principalmente dei precedenti duecenteschi della “petrosità” dantesca espressa, sia nelle canzoni sia nella Commedia, da rime aspre o comunque di forte impatto sul piano fono-semantico, e da rime rare frutto dell’intento sperimentale appunto duecentesco.
Capovilla si concentra su alcuni canti dell’Inferno nei quali i riscontri con
le costellazioni rimiche duecentesche convivono con dichiarazioni di impossibilità a rendere con le parole l’eccezionalità delle vicende (ad es. If.
XXVIII e XXXII) o con esempi di sperimentazione linguistica (ad es. incipit di
If. VII); poi, con la proposta interpretativa di If. XXX 66 («faccendo i lor canali freddi e molli») riconduce l’uso dantesco nel solco della prosa “scientifica” di Restoro d’Arezzo.
L’indagine prende le mosse dai rapporti fra la poesia di Guinizzelli e
quella del toscano Monte Andrea, esule a Bologna «in un momento imprecisabile della sua attività poetica» (p. 4). Il suo sonetto Qui son fermo:
che ’l gentil core e largo si può accostare sia a quello che Guittone gli indirizza (A te, Montuccio, ed algli altri, il cui nomo), in quanto entrambi propongono una palinodia della concezione dell’amore salvifico, sia ad altri
suoi sonetti del soggiorno bolognese, in quanto tutti accomunati da un’impronta guinizzelliana che risulterebbe sorprendente prima di Cavalcanti e
Dante. Quello che ci interessa è che Capovilla dimostri non solo la presenza di Dante nella memoria poetica di Monte Andrea, ma quella dello
(con qualche indicazione di lavoro ulteriore), in Storia della lingua italiana e filologia.
Atti del VII convegno internazionale ASLI, Pisa-Firenze, 18-20 dicembre 2008,
in c. s.
(3) Nell’ordinamento della prima parte del canzoniere Vaticano Latino 3793
(fasc. II-XV), i primi quattro fascicoli (tranne il primo contenente l’indice) sono dedicati ai poeti della corte federiciana fino a re Enzo, mentre nel quinto compaiono
rimatori sia emiliani sia della Toscana occidentale. «Se il sesto fascicolo, il primo dopo
i siciliani, si apre con Guinizzelli e i bolognesi, la scelta deve essere assunta nella sua
valenza positiva e non come una sorta di incoerenza dell’ordinatore […] Lo stesso
varrà per i municipali toscani», precisa Antonelli, concludendo che il Vaticano conferma «il ruolo “paterno”, di predecessore più che di iniziatore, che Dante volle poi
attribuire a Guinizzelli, e ribadisce anche il ruolo-chiave svolto da Bonagiunta nel
trapiantare nell’Italia municipale i modi lentiniani della corte federiciana» (vd. R. ANTONELLI, Struttura materiale e disegno storiografico del canzoniere vaticano, in I canzonieri della lirica italiana delle origini, vol. IV (Studi Critici), a cura di L. Leonardi,
Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2007, pp. 3-23, alle pp. 12 e 13).
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stesso Monte in vari luoghi della poesia dantesca, a cominciare dalla canzone (Amor, da che convien pur ch’io mi doglia) che il poeta invia a Moroello Malaspina, accompagnata dall’epistola IV, forse fra il 1307 e il 1308.
Il sonetto di Monte Sì m’à legato Amor, quanto più tiro risulta infatti uno
dei testi più vicini alla canzone sia sul piano stilistico sia su quello tematico, dal momento che la lirica trecentesca, alla quale Dante partecipa con
questa sua ultima prova, tende a «riadeguarsi a logiche cortigiane, attingendo senza troppe distinzioni di scuole al patrimonio accumulato e disponibile» (p. 97). Un altro riferimento per la canzone “montanina” è una
canzone de reprobatione Amoris di Bacciarone da Pisa, Nova m’è volontà
nel cor creata, della quale interessano specialmente i riecheggiamenti in If.
V, sia perché anche in questo caso, come riguardo alle riprese guittoniane
nella Commedia studiate da Del Sal (4), si può parlare di memoria “tematico-ideologica”, interessata a testi moralistici perché implicati nell’ideologia del poema; sia perché ancora una volta il passo dantesco ha a che fare
con un testo di Monte Andrea: la canzone – anch’essa de reprobatione Amoris – Ai misero tapino, ora scoperchio.
Il V canto dell’Inferno è al centro dell’ultimo contributo di Capovilla,
che si propone di restituire a Dante la paternità del sonetto Io sento pianger l’anima nel core, generalmente accolto fra le rime dubbie di Cino da Pistoia sulla base di una ripartizione dei testimoni che De Robertis dimostra
deporre invece a favore dell’attribuzione a Dante (5). Su questa base, e tenendo presenti da un lato le radici dantesche della poesia ciniana, dall’altro la forte impronta cavalcantiana del sonetto, Capovilla ne analizza ventotto loci significativi sul piano ritmico-sintattico, per poi sottoporre il testo a un confronto tematico con If. V a proposito del motivo del pianto,
della notifica di Amore originata dalla dissociazione fra passione e intellet-
(4) N. DEL SAL, Guittone (e i guittoniani) nella «Commedia», in «Studi danteschi», LXI (1989 [ma 1994]), pp. 109-52.
(5) DANTE ALIGHIERI, Rime, a cura di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, 2002,
3 voll. Il saggio di Capovilla, che era apparso col titolo Un sonetto da restituire a
Dante: esercizio di microstilistica differenziale, e ipotesi sul quinto dell’Inferno in Studi di filologia romanza e italiana offerti a Gianfranco Folena dagli allievi padovani,
Modena, S.T.E.M.-Mucchi, 1980, pp. 243-60, viene citato da De Robertis nel vol. II2
(Introduzione), p. 987, nell’ambito del capitolo riguardante alcuni testi di dubbia attribuzione. Fra essi, il sonetto Io sento pianger l’anima nel core viene restituito alla
paternità dantesca, come già nel saggio dello stesso D. DE ROBERTIS, Il canzoniere
Escorialense e la tradizione “veneziana” delle rime dello stil novo, in questo «Giornale», suppl. 27, 1954 (poi ripubblicato in volume, Torino, Loescher-Chiantore, 1954).
«Nell’esplorazione della tradizione manoscritta della poesia dello Stilnovo […] in vista dell’edizione critica delle rime di Cino» (p. 1), edizione poi non realizzata, il canzoniere Escorialense (El Escorial, Real Biblioteca de S. Lorenzo, ms. Lat. e.III.23),
«antico e autorevole rappresentante» di ben settanta testi ciniani, ha naturalmente
un’importanza primaria. Fra i testi di dubbia attribuzione a Cino, De Robertis rivendica una paternità dantesca al sonetto Io sento pianger l’anima nel core sulla base
della ripartizione delle rubriche dei testimoni (vd. pp. 44-61, riassunte da Capovilla
alle pp. 172-73). Com’è noto, il codice Escorialense ricopre un ruolo di primo piano negli studi di lirica due-trecentesca (è in preparazione l’edizione in fac-simile: Il
canzoniere Escorialense e i frammenti del dolce stile, a cura di S. Carrai e G. Marrani, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, in «I canzonieri della lirica italiana delle
origini», vol. VI, in c. s.).
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to, del libro nel quale il soggetto amante identifica la sua passione. Per tali
vie giunge ad affermare la paternità dantesca del testo, e a suggerire nel
contempo «la misura della degradazione psicologistico-elegiaca cui Cino
sottopone […] i lineari “correlativi oggettivi” cavalcantiani e danteschi»
(p. 189).
SELENE MARIA VATTERONI