Tradotto da Ginevra Bianchini / Decolonial Subversions, 2023
Manifesto: edizione italiana
Tradotto da Ginevra Bianchini
Preambolo
L’idea di questo Manifesto venne proposta dalla Dr. Monika Hirmer, una delle Editrici
Fondatrici di Decolonial Subversions, sentendo che la piattaforma aveva bisogno di una
direzione attiva più radicale. Basandosi su molteplici conversazioni con l’Editrice Fondatrice
Dr. Romina Istratii, Monika ha prima proposto un manifesto più lungo del presente
documento che, pur riflettendo in modo più ampio le motivazioni e i valori di entrambe le
editrici, era stato profondamente influenzato dall’approccio alla decolonizzazione di
quest’ultima. Romina e Monika hanno quindi concordato di redigere un manifesto più
conciso al fine di delineare i principi comunemente condivisi che hanno ispirato Decolonial
Subversions. Il manifesto di Monika è stato pubblicato altrove ed esplora le direzioni plurime
che questa piattaforma potrebbe prendere (vedi il Manifesto originale di Monika).
Accogliamo suggerimenti o nuove articolazioni in risposta al Manifesto di Base qui
delineato. È nostro obiettivo incoraggiare una vivace discussione attorno alla prassi della
decolonizzazione nel contesto di questa piattaforma e ben oltre, in linea con la visione per
cui Decolonial Subversions emerge come uno sforzo collaborativo, internazionale e
comunitario.
Il concetto di decolonizzazione è divenuto sempre più popolare negli ultimi anni
all’interno della discussione accademica, come anche nel linguaggio quotidiano. Benché
l’integrazione multidisciplinare di una prospettiva decoloniale dia l’impressione che la
portata della decolonizzazione sia stata estesa, nella nostra esperienza è rimasta spesso
limitata alla discussione filosofica, svolgendo un ruolo puramente di facciata e lontana dalle
sue concrete applicazioni. In realtà, la centralità del dibattito decoloniale spesso nasconde la
mancanza di cambiamenti sostanziali negli atteggiamenti, norme e strutture che lo stesso
dibattito avrebbe dovuto produrre. Siamo convinte che l’atto di perseguire la
decolonizzazione, tanto nella ricerca quanto nella pratica quotidiana, necessiti il
riconoscimento di questo paradosso e il rovesciamento dei fattori strutturali e normativi che
attualmente la sostengono.
Decolonial Subversions scaturisce da una profonda preoccupazione nei riguardi della forma
sempre più superficiale che la decolonizzazione sta assumendo e della mancanza di un
impegno concreto verso un ordine mondiale re-immaginato all’interno del dibattito
accademico tradizionale. Sebbene siamo coscienti del fatto che complesse gerarchie
permeano le istituzioni coinvolte nella produzione e disseminazione della conoscenza, siamo
anche consapevoli dell’esistenza di modi diversi di creare, condividere e valutare la
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conoscenza e la ricerca, in grado di supportare pratiche più eque capaci di incentivare
modelli alternativi di vita accademica e di coinvolgimento con il mondo.
Decolonial Subversions è un tentativo di dimostrare che le cose si possono fare
diversamente. Con il fine di contestare e revisionare gli attuali paradigmi dominanti della
creazione della conoscenza, miriamo a rivisitare in modo critico delle domande
fondamentali, tra cui: cosa viene considerata conoscenza legittimata? Come si esprime
questo sapere? Chi definisce i criteri di legittimità e nell'interesse di chi vengono resi
universali? Come può la produzione della conoscenza sensibilizzarsi alla molteplicità delle
esistenti concezioni del mondo? Se la produzione del sapere necessita di essere
de-istituzionalizzata, come si può raggiungere questo scopo?
Con Decolonial Subversions vogliamo fornire una piattaforma per la diffusione di
prospettive decoloniali implementando un modello che sovverte le attuali pratiche di
produzione, convalida e disseminazione del sapere – sia all’interno che al di fuori del
mondo accademico. Mettiamo in pratica il nostro intento allontanandoci da criteri
tradizionali di comunicazione (che privilegiano l’inglese come lingua, il testo come formato,
l’intelletto come centro della conoscenza) e rimuovendo barriere che perpetuano asimmetrie
nella produzione del sapere (come, ad esempio, tasse di pubblicazione, rigide linee guida
editoriali e oscuri processi di peer review).
Decolonial Subversions non si illude di proporre una soluzione ultima alle pervasive norme
coloniali ed etnocentriche che, tra l’altro, sono state abbondantemente identificate a livello
internazionale da accademicɜ (vedi SJPR Volume 11, Editorial II per una discussione a
riguardo). Sebbene riconosciamo ed apprezziamo i molteplici sforzi fatti da accademicɜ,
professionistɜ e membri del pubblico per contrastare tali ‘patologie’ sistemiche, questa
piattaforma vuole opporre in modo più radicale e sovversivo gli attuali sistemi di
produzione e legittimazione del sapere. Insistendo sul fatto che, nelle loro pubblicazioni, lɜ
collaboratorɜ facciano ricorso in modo sostanziale a voci che sono state storicamente
trascurate, ci impegniamo attivamente per liberarci della dominanza epistemica occidentale.
Qualità e validità di una ricerca non dovrebbero basarsi esclusivamente sulla citazione di
studiosɜ occidentali europeɜ o nordamericanɜ, nonostante questo sia pratica comune nella
produzione accademica. Tali norme di pubblicazione, rinforzate tra l’altro dai sistemi di
indicizzazione delle riviste, favoriscono la riproduzione di gerarchie all’interno del mondo
della ricerca e del sapere. La stessa idea che la credibilità accademica dipenda dal pubblicare
in riviste competitive e di forte impatto è una convenzione occidentale che scoraggia
l’abbandono dei metodi altamente restrittivi e codificati attualmente prevalenti nella
maggior parte del mondo accademico tradizionale.
Decolonial Subversions si impegna a decentralizzare la conoscenza e a servire come
piattaforma modellata dalle voci finora non (o poco) rappresentate e da visioni del mondo e
modi di essere non conformi al paradigma dominante. Sebbene tutte le contribuzioni
vengano sottoposte a un processo di revisione rigoroso e sofisticato che ne attesti l’integrità e
l’originalità, ci asteniamo dal dare direzioni su come lɜ autorɜ debbano presentare le loro
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idee ed esperienze. Incoraggiamo questa pratica sia attraverso un nuovo modo di
revisionare gli articoli basato su un dialogo costruttivo e aperto tra revisorɜ e autorɜ, che
proponendo un rivoluzionario processo manageriale che prevede la rotazione del processo
editoriale tra collaboratorɜ residenti in varie parti del mondo. Siamo convinte che la
decisione di non conformarci ai criteri comuni della produzione del sapere accademico sia
essenziale per creare un network dinamico per la ricerca e disseminazione di sapere
decoloniale.
Delineiamo in seguito alcune delle premesse del nostro progetto, con l’intento tuttavia di
rivalutarle e migliorarle nel tempo, assieme alla comunità di Decolonial Subversions. Sebbene
il nostro sforzo emerga dalle nostre esperienze individuali e, come tale, presenti limitazioni,
speriamo che questa piattaforma ispiri un impegno sistematico per allontanarsi
‘dall’ordinaria amministrazione’ e per esplorare nuovi modi di comunicare e condividere il
sapere, che rappresentino la molteplicità del concepire e vivere l’esistenza.
Il progetto di Decolonial Subversions
Decolonial Subversions è una piattaforma per la formulazione, lo scambio, la valutazione,
l’implementazione e la disseminazione del lavoro decoloniale. Di conseguenza, la nostra
pagina web è stata concepita come una combinazione dinamica di interazione e contenuto.
La pagina riunisce una comunità di membri, tra cui lɜ editorɜ, i membri del team, il comitato
redazionale, lɜ collaboratorɜ, i partner tecnici e lɜ lettorɜ. Ci auguriamo che chi visiterà la
piattaforma possa commentare e conversare con la comunità più ampia di Decolonial
Subversions e favorire una reciproca crescita. Le pubblicazioni sono divise in tre categorie:
Sovversioni Decoloniali Visive, Acustiche e Scritte. Incoraggiando attivamente i formati audio
e video speriamo di rendere più facile a chi non ha un’istruzione considerata comunemente
‘tradizionale’ e a comunità che non privilegiano il testo scritto, condividere le loro storie e
conoscenze; in tal modo, vogliamo evitare la violenza epistemica che i prodotti accademici
tipicamente scritti e rigidamente definiti spesso impongono.
Proprio come tipi diversi di conoscenza si esprimono meglio attraverso formati differenti,
anche i testi possono rendere meglio certe idee tramite stili diversi. Contrariamente al tipico
stile lineare che richiede allɜ autorɜ di presentare le loro argomentazioni in termini di ‘dati’,
‘risultati’ o ‘analisi’, invitiamo lɜ collaboratorɜ a scegliere modalità di argomentazione e
presentazione che siano espressive delle loro culture e dei loro modi di costruire e presentare
il sapere.
Assieme alla perdita di accuratezza – e, a volte, di significato – che generalmente si
verifica quando si converte una conoscenza multidimensionale in articoli unidimensionali, la
redazione in inglese di testi originariamente formulati in altre lingue potrebbe non rendere
giustizia alle intenzioni e sfumature concettuali proposte dellɜ autorɜ. Inoltre, siamo
convinte che quando lɜ autorɜ la cui prima lingua non è l’inglese sono costrettɜ a scrivere in
inglese per rivolgersi a un pubblico più vasto, subiscono una violenza linguistica ed
epistemica in quanto determinate nozioni e processi mentali non si traducono in termini
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anglofoni, e viceversa. Per questa ragione, incoraggiamo autorɜ a inviare i loro manoscritti
nelle loro lingue madri, assieme a una versione inglese. Ogni testo verrà pubblicato nella sua
lingua originale, così come in una versione in inglese. Attraverso questa strategia, speriamo
di minimizzare la violenza epistemica inflitta dai requisiti linguistici, di mantenere le
sfumature originali del testo e, allo stesso tempo, di garantire che una ricerca o un testo
innovativo possano raggiungere e informare il mondo accademico anglofono in una qualche
forma, seppur imperfetta.
È evidente che tradurre è un’attività complessa che richiede una profonda familiarità non
solo con le lingue in questione, ma anche con i loro contesti culturali e cosmologici. In
quanto tale, comprendiamo che la traduzione è uno sforzo creativo cruciale che richiede di
essere riconosciuto come tale. Quando lɜ autorɜ non padroneggiano appieno l’inglese o non
sono a loro agio nel suo utilizzo, cerchiamo di facilitare delle collaborazioni con traduttorɜ
espertɜ affinché possano produrre una versione in inglese. Apprezziamo debitamente e
riconosciamo lɜ traduttorɜ non solo per la loro padronanza di diverse lingue, ma anche per il
loro sforzo creativo di costruire un ponte tra diverse realtà cosmologiche e socioculturali
attraverso il processo della traduzione.
Inoltre, pubblicando contributi in lingue diverse dall’inglese, assieme alla loro
traduzione, vogliamo porre il pubblico, che spesso dà per scontato che l’inglese sia la lingua
franca per la produzione del sapere, di fronte all’esperienza di essere esposti a materiali a
volte per loro incomprensibili. Questo è un tentativo di controbilanciare la dislocazione
epistemica a cui parlantɜ non anglofonɜ sono costantemente espostɜ quando interagiscono
con un sistema di conoscenza principalmente orientato verso l’inglese.
Insistiamo in particolare sul fatto che lɜ collaboratorɜ facciano ricorso e co-operino in
modo approfondito con scrittorɜ e pensatorɜ indigenɜ al di fuori dell’Europa occidentale, del
Nord America e di altre società industrializzate (il cosiddetto ‘Nord globale’). Ciò è
essenziale per superare la protrazione di una predominante autorità occidentale in quello
che è considerato il sapere legittimato.
Incoraggiamo strutturalmente questo approccio attraverso il nostro innovativo processo
di peer review. Sebbene la peer review sia cruciale, riteniamo che debba cambiare in modo
drastico per attenuare pregiudizi e motivazioni egoistiche che spesso lo dirigono.
Nonostante i processi abituali di revisione accademica siano anonimi, riconosciamo che a
volte l’anonimità può portare a un abuso di potere e alla conservazione di paradigmi
occidentali. Inoltre, è ben risaputo che, in discipline altamente specializzate, l’omissione
delle credenziali dellɜ autorɜ non garantisce la loro anonimità. In più, riteniamo che un tipo
riflessivo di produzione della conoscenza che sia trasparente riguardo al locus
epistemologico dell’autorǝ renda spesso impossibile e magari controproducente
anonimizzare il lavoro, dato che è la sua stessa identità a dare forma al processo di ricerca e
alla sua prospettiva sul mondo.
Dunque, offriamo due opzioni allɜ autorɜ: double-blind peer review oppure open review.
Nella double-blind peer review ogni contributo viene rigorosamente revisionato da almeno
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due revisorɜ specializzatɜ provenienti da diverse regioni geografiche e in differenti fasi della
loro carriera. Nel processo di open review, communichiamo a entrambe le parti le rispettive
credenziali e chiediamo allɜ revisorɜ di offrire un riscontro costruttivo che possa sia aiutare
l’autorǝ nel suǝ processo di apprendimento, al fine di rendere lǝ suǝ contributo accessibile ad
un pubblico più diversificato. Implementando questo approccio abbiamo riscontrato che
autorɜ e revisorɜ tendono a condividere suggerimenti più costruttivi e a concepire future
collaborazioni.
Decolonial Subversions si dedica alla pubblicazione Open Access gratuita, per cui tutto il
contenuto è accessibile liberamente al pubblico in qualsiasi parte del mondo, in modo
immediato al momento della pubblicazione online. Storicamente, le pubblicazioni sono state
rese accessibili attraverso costosi abbonamenti o paywalls, portando avanti disuguaglianze
socioeconomiche e regionali nell’accesso alla conoscenza. La dominazione delle società
industrializzate nella produzione e pubblicazione accademica ha rinforzato un modello
editoriale che impone esorbitanti spese di produzione (ACP – Article Processing Charges)
allɜ autorɜ, con molteplici implicazioni negative. Troviamo particolarmente preoccupante il
fatto che forme di sapere che si basano su collaborazioni con comunità al di fuori
dell’Europa occidentale e del Nord America (sia tramite informatorɜ, persone intervistate,
accesso ad archivi o altre modalità) vengano rese inaccessibili alle stesse popolazioni che
hanno originariamente ispirato queste conoscenze, per via di tasse proibitive. In aggiunta,
questo meccanismo diviene una fonte di profitto per il mondo accademico occidentale. Non
solo l’accessibilità al sapere accademico è stata limitata a un pubblico con vantaggi finanziari
o connesso a specifiche università ma, inoltre, questa conoscenza è solo raramente sottoposta
alle critiche di, o condivisa con, un pubblico per cui sarebbe profondamente rilevante.
La direzione editoriale a rotazione di Decolonial Subversions è un passo rivoluzionario
verso l’implementazione di un modus operandi decoloniale nella produzione della
conoscenza. Ci prefiguriamo di implementare una rotazione di tutti i processi editoriali che
coinvolga lɜ nostrɜ collaboratorɜ istituzionali residenti in varie parti del mondo. In questo
modo, speriamo di dimostrare un impegno vero nell’abbandono del controllo sulla
produzione del sapere, nonostante il rischio che ciò possa porre.
Per far fruire questa iniziativa, abbiamo lavorato con un team internazionale di
collaboratorɜ e ricercatorɜ, specialistɜ e professionistɜ che condividono queste idee. Insieme,
designers, fotografɜ, web partners, traduttorɜ e revisorɜ formano un team internazionale,
proveniente da nazioni come l’India, l’Etiopia, la Namibia, il Senegal, il Sud Africa, Hong
Kong, l’Ungheria, la Romania, la Moldavia, l’Italia, la Germania, la Francia e il Regno Unito.
Speriamo di sviluppare ancora più collaborazioni con professionistɜ dall’Africa, dall’Asia,
dall’America Latina, dall’Europa dell’est e altre regioni storicamente trascurate nella
produzione del sapere dominante (il cosiddetto ‘Sud globale’).
Come è stato menzionato, vogliamo che questa piattaforma sia uno spazio di
esplorazione, interazione e apprendimento. Per creare una tale atmosfera abbiamo
progettato uno stile che celebra il folklore e l’arte presentɜ in varie parti del mondo. Come
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filo conduttore del nostro design abbiamo scelto un tessuto fatto a mano, il tipo ikat, anche
per via del suo significato anticoloniale. Invasorɜ colonialɜ hanno fatto grandi fortune
saccheggiando le colonie del loro cotone e importando i prodotti finiti a prezzi proibitivi.
Viceversa, le proteste anticoloniali sono state spesso organizzate attorno alla produzione del
tessuto a mano e allɜ tessitorɜ: l’influente movimento khadi di Mahatma Gandhi, per
esempio, boicottò il tessuto straniero e promosse la filatura a mano di tessuti in fibra
naturale come mezzo di sostentamento rurale. Così come durante il periodo coloniale le
proteste organizzate attorno alla tessitura a mano sono state parte integrante del movimento
contro lɜ invasorɜ, oggi lɜ tessitorɜ sono spesso forzatɜ a unirsi per far fronte allo
sfruttamento a cui vengono sottopostɜ da uno spietato capitalismo.
Come è stato suggerito, questa piattaforma è concepita come un lavoro in corso, che cerca
costantemente di creare spazi per voci troppo spesso ridotte al silenzio e per realtà che
ancora non sono considerate legittime o valide. Non sappiamo quale direzione prenderà il
progetto, quali rotture provocherà o che impatto avrà. Tuttavia, sappiamo che il
cambiamento è imminente e ci imbarchiamo con entusiasmo nel viaggio di Decolonial
Subversions.
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