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Libera la ricerca Scienze Sociali 1 LIBERA LA RICERCA Un progetto Odoya - Libri di Emil nato per consentire la pubblicazione a costo zero dei libri dei ricercatori precari. La selezione dei testi è effettuata attraverso un sistema di blind referee. Le opere sono coperte da licenza Creative Commons, disponibili on line su Google Libri. Responsabili del progetto: Marco de Simoni e Michele Filippini Gennaro Ascione A sud di nessun Sud Postcolonialismo, movimenti antisistemici e studi decoloniali I LIBRI DI EMIL © 2009 Casa editrice Emil di Odoya srl : 978-88-96026-25-0 Creative Commons some rights reserved I libri di Emil Via Benedetto Marcello 7 - 40141 Bologna www.ilibridiemil.it A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 5 A Martina Cimmino Che mai il frastuono del silenzio inghiottisca l’anelito dell’indecifrabile A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 6 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 7 Indice Prefazione, Sandro Mezzadra 9 Premessa. A sud di nessun Sud Introduzione. Archeologia dei saperi, paleontologia dei movimenti 11 15 PRIMA PARTE TERZO MONDO E TERZOMONDISMO Il farsi storia del concetto di Terzo Mondo 23 La parabola del terzomondismo (1955-1981) 29 Terzo Mondo oggi. Mito mobilitante o chimera paralizzante? 39 SECONDA PARTE ALLE RADICI DEGLI STUDI SUBALTERNI Indian Subaltern Studies. Per una storiografia antielitaria 49 La rivolta contadina da oggetto di ricerca a paradigma dell’agire subalterno 55 La strutturazione cognitiva dell’esperienza nassalita 67 L’archivio coloniale in chiaro-scuro 81 TERZA PARTE SAPERI SUBALTERNI SOSTENIBILI 95 Al limite degli studi subalterni Le coordinate del dibattito latinoamericano 103 Studi subalterni e Postcoloniali in America Latina. Transizioni politiche e transiti concettuali 113 7 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 8 Decentrare gli studi postcoloniali. Latinamericanismo requiescat in pace? 121 Dal postoccidentalismo ai De-colonial Studies. Apuntes per un nuovo paradigma 129 La questione indigena nella prospettiva decoloniale 139 (In) conclusione. Imparare a imparare dagli oppressi 149 Bibliografia Indice dei nomi 151 170 8 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 9 Prefazione Sebbene con un sensibile ritardo rispetto ad altri contesti culturali e politici, gli studi postcoloniali sono oggi ampiamente diffusi e dibattuti anche in Italia. Proprio questa discrasia, d’altro canto, può consentire al dibattito italiano di enfatizzare la radicalità politica e il carico di provocazione teorica che contraddistingue questo insieme eterogeneo di studi ed esperienze intellettuali. È dall’interno della critica storiografica e politica maturata negli studi postcoloniali che A sud di nessun Sud prende le mosse, per poi estendere il proprio campo d’analisi alle modalità di produzione della conoscenza nel tempo del capitalismo globale: il libro di Gennaro Ascione affronta il nodo centrale del complesso rapporto tra le vicende dei movimenti sociali emersi lungo il processo di decolonizzazione e negli Stati post-coloniali e le prospettive analitiche radicali che giungono a comporre il mosaico articolato degli studi postcoloniali oggi. Uno dei principali meriti del libro consiste nel proporre una genealogia degli studi postcoloniali differente da quella che si è affermata come canonica: Ascione li sottrae all’egemonia teorica della filosofia del linguaggio francese, di matrice post-strutturalista e decostruzionista, per mostrare (in una prospettiva analoga a quella proposta da Robert Young) come il poststrutturalismo stesso derivi semmai in una certa misura dall’esperienza delle lotte anticoloniali. Ma soprattutto è qui evidenziato come il versante storiografico della critica postcoloniale tragga linfa vitale dall’esperienza di mobilitazione e di resistenza di alcuni importanti movimenti sociali in India e in America Latina, assunti e metabolizzati nel linguaggio teorico attraverso il fondamentale filtro degli studi subalterni. Il quadro che emerge dalla ricerca qui presentata è quello di un confronto dialogico tra discorsi radicali all’interno dello spazio “geostorico” del Sud del mondo, qui costruito a partire dalla messa in scena – assai sofisticata sotto il profilo metodologico – di una “comparazione incorporata” (Philip McMichael) tra India e America latina. E tale elaborazione si risolve sia nella messa in discussione del contesto globale condiviso da questi discorsi e che ne rappresentava la premessa epistemica, vale a dire dell’idea stessa dell’esistenza di un “Sud globale” in una fase storica caratterizzata dalla dissolvenza del Terzo Mondo e del terzomondismo; sia in una ulteriore e metodica “provincializzazione dell’Europa” (Dipesh Chakrabarty), che – piuttosto che venir considerata lo sfondo scontato o il riferimento critico implicito – si trova a essere relegata in uno spazio al massimo tangente al focus analitico. Siffatta provincializzazione analitica prepara la scena in cui si manifesta la potenza politica dell’irruzione sovversiva dei discorsi e delle pratiche politiche dell’ex Terzo Mondo nel tempio dell’Occidente bianco: la teoria (p. 43). Questa irruzione capovolge uno degli archetipi del rapporto tra teoria e prassi nell’immaginario della sinistra mondiale, più o meno terzomondista, tra le lotte anticoloniali e i movimenti sociali post-coloniali da un lato e l’elaborazione di un discorso politico che vi fa riferimento dall’altro. La prassi dei movimenti sociali nelle (ex)colonie che ispira la teoria nella metropoli è un’immagine consolidata. A sud di nessun Sud riesce invece a evidenziare 9 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 10 il valore politico ma intrinsecamente e volutamente teorico di quelle esperienze di resistenza e dei saperi che ne derivano, nonché del loro impatto creativo sulla teoria continentale. Infine, questa irruzione porta con sé l’evidenziazione critica dei limiti delle forme del sapere eurocentriche, che si articola su due livelli interconnessi. Il primo è quello della ricostruzione del passato come impresa razionale: la Storia come codice di rappresentazione ne risulta fortemente ridimensionata nelle sue pretese di esaustività, ma allo stesso tempo altrettanto trasformata nella misura in cui è capace di assumere in maniera consapevolmente etica la fluidità del confine tra spiegazione e narrazione. Il secondo livello è quello dell’incapacità del linguaggio delle scienze umane come sistema chiuso di rappresentare i processi di produzione della conoscenza che incorporano l’esperienza dei movimenti sociali anticoloniali e che si muovono in un territorio non tracciato dalla retorica dello stato-nazione o della partecipazione politica alle sue istituzioni. Qui una nuova “immaginazione sociologica”, per riprendere la formula di Charles Wright Mills, si nutre dell’epistemologia della complessità e del lessico delle scienze della vita. Ed è in direzione dell’elaborazione di concetti nuovi per un’immaginazione sociologica della contemporaneità e di nuovi strumenti d’analisi per la ri-lettura della storia moderna e contemporanea che A sud di nessun Sud compie un passo in avanti importante rispetto al dibattito italiano ma anche internazionale all’interno degli studi postcoloniali. Sandro Mezzadra 10 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 11 Premessa Quando tornai da basso il vecchio aveva già appoggiato la testa sul bancone. Era completamente andato. Non avevamo mangiato niente tutto il giorno e lui non aveva una gran resistenza. Accanto alla testa china c’era un dollaro e qualche spicciolo. Per un attimo pensai di portarmelo dietro, ma non riuscivo neanche a badare a me stesso. Uscii dal bar. La notte era fresca e io mi diressi verso Nord. Charles Bukowski A sud di nessun nord Un tardo pomeriggio di primavera inoltrata, nel periodo in cui iniziavo la stesura di questo lavoro, chiacchieravo con un mio amico che abita a cinquanta metri da casa mia. Ponticelli. Estrema periferia orientale di Napoli. Così come nell’immortale sceneggiatura di Troisi, la sua storia d’amore più importante, fino a quel momento per fortuna, era andata in frantumi in malo modo e il suo risentimento aveva come effetto collaterale quello di ricondurre qualsiasi argomento di conversazione a un’invettiva più o meno accesa nei confronti di lei. Per tenere a bada i miei fantasmi e distrarre lui da pensieri nefasti provai a sedare gli uni e sopire gli altri, annoiandoci con il racconto di ciò di cui mi accingevo a scrivere; dopo alcuni minuti, determinato nel mio intento di dissuasione ma altrettanto incerto sull’efficacia della mia esposizione per uno studente di architettura, dilatai volutamente una pausa interlocutoria e lo fissai discreto, sebbene intimamente speranzoso in una reazione. E la reazione non si fece attendere: «Capisco perfettamente ciò che intendi», mi disse. «Una volta ero su a San Martino a godermi la vista di Napoli dall’alto insieme a lei, e lei mi fece notare orgogliosa la differenza di visuale tra la zona collinare in cui viveva e i quartieri popolari della città. “È vero”, le risposi, “da qui voi vedete un magnifico panorama… ma tieni a mente, tesoro: il panorama siamo noi!”». Custodisco geloso questa diafora brillantemente esemplificativa dello spiazzamento di angolo visuale che il postcolonialismo ha prodotto nelle modalità di rappresentazione della storia del sistema-mondo moderno. Al di là di ogni mia più rosea aspettativa, l’idea che volevo comunicargli aveva attraversato i subcontinenti topologicamente lontani (India e America Latina) in cui i miei esotici contadini bengalesi, operai di Calcutta, seringeiros ecuadoriani, zapatisti messicani, rischiavano di restare intrappolati, e si adagiava con ergonomica disinvoltura sull’ettaro di biosfera lacera di cui noi due condividiamo i tragitti, i codici, le storie. Quella reazione (solo superficialmente naïf) rispondeva, in virtù della sagacia irriflessa e in fondo indecifrabile dell’analogia, all’appello con cui Robert Young apriva il suo Postcolonialism: Se sei qualcuno che non s’identifica come occidentale, o in qualche modo non completamente occidentale anche se vivi in un paese occidentale, o qualcuno che è parte di una cultura ma tuttavia 1 Young 2003: 2. 11 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 12 è escluso dalle sue voci dominanti, interno eppure all’esterno, allora il postcolonialismo ti offre un modo di vedere le cose in maniera differente1. Differente da cosa? Senza dubbio differente dallo sguardo coloniale europeo; dagli articolati disegni globali che hanno costituito nel corso dei secoli la panoplia teorica della dominazione bianca, borghese, maschile, eterosessuale, cristiana nel mondo moderno; ma, allo stesso tempo, e in un modo forse più caustico e terapeutico, differente dai progetti di emancipazione politica emersi e affermatisi come egemonici nel quadro delle numerosissime, eterogenee, divergenti forme organizzate di opposizione al dominio coloniale e imperialista. Progetti di emancipazione inscritti per lo più nella grammatica del nazionalismo e spesso nella lingua del marxismo europeo. Il postcolonialismo viene al mondo brandendo il coltello insanguinato appena estratto dal ventre della storia coloniale e si solleva sulle sue gambe sospinto dalla pulsione edipea del parricidio di Marx. Eppure ne conserva in parte il patrimonio genetico; a sua volta muta, si trasforma nei vari contesti dello spazio-tempo della modernità in cui transita, vive delle storie aliene che tenta di raccontare, matura la consapevolezza della propria transitorietà, offre il fianco ad altri saperi bastardi, e insieme a essi continua a porsi interrogativi altrimenti impensabili. Questi interrogativi, oggi, sospingono il postcolonialismo stesso al di là dei propri confini interpretativi. Confini tracciati progressivamente dai moti centripeti specifici dei processi di omeostatizzazione epistemica per mezzo dei quali qualsiasi prospettiva analitica acquisisce legittimità nel corso della propria strutturazione gnoseologica. La destabilizzazione di tali confini muove in direzione di un rinnovato quanto necessario interesse per il mondo come unità d’analisi, indipendentemente dalla scala interpretativa di volta in volta assunta o ipotizzata (Escobar 2008: 3). Un mondo dove le coordinate spazio-temporali di ciascuna narrazione acquisiscono rilievo nella misura in cui il derapage anisotropico tra l’ordine logico e quello storico di concetti intrinsecamente relazionali quali capitalismo e colonialismo, giunge sì a fondare la consapevolezza della capacità performativa connessa al loro potere euristico di astrazioni concrete, ma allo stesso tempo è tale da stagliare l’ineludibilità del vincolo latu sensu biologico sull’orizzonte storico della loro futuribile mortalità antropologica. Il postcolonialismo si costituisce come un campo di opzioni simultaneamente politiche e teoriche, in cui la provocatorietà delle prime s’intreccia con l’originalità delle seconde. Queste ultime sono riconducibili alla costellazione della critica postcoloniale, emersa negli anni Ottanta, diffusasi nel panorama accademico internazionale nel corso degli anni Novanta e più recentemente implosa, secondo l’immagine proposta da Mezzadra, per innestarsi con i suoi concetti, i suoi approcci e le sue intuizioni, sotto forma di enzimi nel tessuto vivente di altri dibattiti politici e scientifici (Mezzadra 2008: 10). Gli studi postcoloniali descrivono uno spazio critico piuttosto che una teoria; un insieme di prospettive che condividono una tensione verso quei gruppi sociali, quelle esperienze storiche, quelle forme culturali marginalizzate, aggredite, messe a tacere dal colonialismo e dalla sua palingenesi neocoloniale nel secondo dopoguerra. In questo senso, gli studi postcoloniali si inseriscono nella scia del pensiero critico, che Max Horkheimer definì come quell’attività di analisi tesa al disvelamento delle logiche di funzionamento che garantiscono il perdurare dello status quo, con l’obbiettivo di sostituirle con ordinamenti sociali maggiormente egualitari (Horkheimer 1972: 188). Nel tentativo di attualizzare la definizione fornita da Horkheimer, William Robinson ha definito il pensiero critico come il tentativo di mettere in questione la realtà sociale in cui studiamo ed esistiamo, domandandoci da cosa derivi l’ordine attuale, quali sono gli attori in gioco, quale il potenziale umano coinvolto nel cambiamento sociale e che relazioni può il discorso critico stabilire tra le soggettività che individua e gli ordini preesistenti o possibili (Robinson 2006: 13). Gli studi postcoloniali hanno avuto il merito, insieme ad altre prospettive d’analisi emerse negli ultimi decenni, di elaborare una critica serrata alle modalità stesse di pensare la storia del colonialismo: quest’ultimo, si sostiene, non può essere inteso esclusivamente in termini di una 12 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 13 matrice omogeneizzante che conterrebbe ab origine e in potenza le condizioni stesse della sua evoluzione, in grado quindi di procedere sussumendo completamente ciò che è altro da sé e che incontra lungo il suo espandersi. Sia che ci riferiamo alla modernità in termini di sistema di valori, che di organizzazione socio-economica, l’immagine contro cui la critica postcoloniale si oppone è quella del diffusionismo. La critica postcoloniale ha inteso narrare la modernità in termini di interazione costitutiva tra colonizzatore e colonizzato, in un rapporto asimmetrico, senza dubbio, ma reciproco (Mezzadra 2005: 145-147). L’immagine dell’implosione risulta utile non soltanto per descrivere lo stato di (non)coesione accademica degli studi postcoloniali oggi. Essa coglie quella struttura molecolare fatta di tanti spunti di riflessione che appare evidente, sin dall’inizio, a chi si muove all’interno del campo del postcoloniale o a chi ne attraversa gli spazi profondi, piuttosto che le superfici sdrucciolevoli. Questo caratteristico disgregarsi, disperdersi per poi riformarsi sotto sembianze nuove, costituisce la modalità privilegiata per mezzo della quale la critica postcoloniale ha viaggiato dall’India all’America Latina; viaggio che costituisce la trama di questo lavoro. Va chiarito che, più che articolarsi in relazione alla matrice decostruzionista della critica postcoloniale, il dialogo tra America Latina e India si sviluppa intorno alla possibilità di una storia sociale dei subalterni e al progetto intellettuale di rileggere la storia della modernità al di là dell’apparato categoriale eurocentrico. Per questo motivo gli studiosi latinoamericani s’interessarono agli strumenti concettuali elaborati da Ranajit Guha e dal collettivo degli storici subalterni indiani per spiegare e criticare le inadeguatezze e le insufficienze delle narrazioni ispirate al paradigma liberal-marxista sulle rivolte contadine, colpevoli di aver tratteggiato, senza sfumature di rilievo, l’immagine compatta della partecipazione organica delle masse al movimento di liberazione nazionale indiano (Grosfoguel 2006: 284). Gli studi subalterni indiani, insieme alla loro declinazione che prende forma sulla sponda orientale del Pacifico centro-meridionale, evidenziano i limiti del discorso dell’impero nella costruzione eteroglossa del discorso sull’impero. Costruzione eteroglossa, dunque. Mentre nel lavoro di Guha tale costruzione si configurava come approdo dell’extraversione delle categorie eurocentriche adoperate fino ad allora dalla storiografia sulle mobilitazioni politiche dei subalterni, sia per gli studiosi latinoamericani, sia nel progetto di “provincializzare l’Europa” di Chakrabarty, essa costituisce piuttosto una piattaforma programmatica condivisa. E tuttavia, le modalità di questa costruzione eteroglossa definiscono percorsi intellettuali difformi, che si evidenziano fin dall’inizio tra gli studiosi latinoamericani2. Riproponendo per certi versi ciò che Spivak aveva battezzato “essenzialismo strategico”, gli studiosi latinoamericani adottano come prassi intellettuale quella di fondare le proprie letture su autori non europei. Il tentativo di costruire una genealogia latinoamericana della riflessione non-eurocentrica li ha condotti infatti a confrontarsi con una tradizione di pensiero “indigena” spesso sottovalutata. Questa genealogia, che collega l’ideale bolivariano, la teologia della liberazione, le teorie della dipendenza, messa in comunicazione con gli studi postcoloniali, rappresenta il luogo della genesi della proposta scientifica dei De-colonial Studies. Percorsi intellettuali difformi si è detto. L’interesse comune per il rapporto dei gruppi subalterni con la storia del mondo moderno assume sembianze diverse nei diversi spazi considerati. Qui si sovrappongono i contesti geostorici e i contesti intellettuali. Da un lato, lo sforzo d’individuare le nuove figure della subalternità si traduce in una differente problematizzazione dello spazio in relazione alle forme di resistenza all’egemonia. Tendenzialmente, gli studi postcoloniali 2 «Tra le diverse ragioni alla base della scissione interna al Latin American Subaltern Studies Group, una consisteva nel disaccordo tra chi leggeva la subalternità come una critica postmoderna (ovvero una critica eurocentrica dell’eurocentrismo) e chi leggeva la subalternità come un tentativo di decolonizzare l’eurocentrismo a partire dai saperi subalternizzati e marginalizzati» (Mignolo 2000a: 183−186, 213−214). 13 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 14 nel mondo anglofono si concentrano sulle molteplici sfumature dei fenomeni migratori e ne assumono la centralità nella rappresentazione dell’intera modernità, organizzando i propri discorsi non più intorno ai gruppi subalterni dell’India coloniale, ma piuttosto intorno al fenomeno delle diaspore; tendenzialmente, dal canto suo, la prospettiva latinoamericana si concentra su quei gruppi che fanno invece della resistenza alla mobilità il nucleo centrale della propria ecologia politica; per questo motivo, la prospettiva latinoamericana assume come forma esemplare di resistenza i movimenti indigeni. L’effetto complessivo di tali prospettive suggerisce almeno due punti di fuga non contraddittori. Da un lato, il focus differenziale sulle figure della subalternità sposta lo sguardo verso la critica delle forme occidentali di cittadinanza, dove quest’ultima, tutt’altro che costituirsi come fondamento condiviso di un ordinamento sociale pacificato, diviene lo spazio politico della lotta sociale per il riconoscimento giuridico della viscosità dei confini geografici, legali, culturali, sia all’interno delle statualità occidentali che in quelle sorte nel corso delle fasi sincopate del processo sistemico di decolonizzazione. Dall’altro, la mobilità del concetto di subalternità all’interno del campo del postcoloniale, e più in generale nel quadro di quel vasto spazio geostorico cui in anni recenti si è soliti riferirsi con il termine di Sud Globale, produce l’effetto di una radicale problematizzazione della coesione di tale Sud e della sua adeguatezza nel colmare il vuoto lasciato dal tramonto del Terzo Mondo3. Non solo la crisi dell’eurocentrismo svela la natura performativa anziché ontologica del Nord come costrutto iperreale, ma la critica subalterna al postcolonialismo stesso disarticola l’ologramma di un Sud globale, restituendo al pensiero critico la radicalità politica e generativa propria di una molteplicità mutevole di “sud” concreti. Alla normatività eteroriproduttiva corrisponde l’articolazione eterarchica della subalternità, e nel cono d’ombra proiettato dall’immagine di un Sud globale, brulicano i sud, ossia i  transienti in cui si sostanziano le biopolitiche del capitale4. Secondo Arrighi «il Sud Globale (Global South) è il prodotto di quattro diversi processi storici innestati l’uno sull’altro a mo’ di matrioska. Il primo è stato la conquista europea del mondo e il conseguente spopolamento e ripopolazione delle Americhe e dell’Australasia, e la colonizzazione dell’Africa e di gran parte dell’Asia. Il secondo processo è stato la rivolta contro l’Occidente da parte dei popoli di Asia e Africa nella prima metà del XX secolo. Il terzo processo è la costituzione del Terzo Mondo durante la Guerra fredda. Il quarto è stato il collasso del Secondo Mondo e la ricostituzione del Primo Mondo e del Terzo Mondo come rispettivamente il Nord Globale e il Sud Globale, nel periodo post-Guerra fredda» (Arrighi 2006: 1). 3 Sul concetto di normatività eteroriproduttiva (NER) si veda Spivak 2005: 46 e ss. Sul concetto di eterarchia si faccia riferimento al pensiero sulle strutture sociali di Kyriakos M. Kontopoulos (Kontopoulos 1993). 4 14 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 15 Introduzione Intratesto. Archeologia dei saperi, paleontologia dei movimenti. La trama del dialogo tra studi subalterni in India e in America Latina prende spunto dalla proposta metodologica di McMichael della “comparazione incorporata” (incorporated comparison). Essa si fonda su tre assunti: la comparazione non va letta in termini di una procedura formale, “esterna”, in cui i casi vengono giustapposti come veicoli separati di modelli di variazione comuni o contrastanti. La comparazione è piuttosto “interna” all’indagine storica, dove i processi-istanze sono comparabili perché storicamente connessi e reciprocamente condizionanti. Secondo, la comparazione incorporata non procede a partire da una concezione a priori della composizione e del contesto delle unità comparate, ma piuttosto queste ultime si formano in relazione le une alle altre e in relazione al tutto, formato attraverso le loro interrelazioni. In altre parole, il tutto non è dato, ma autoformantesi. Terzo, la comparazione può essere condotta attraverso lo spazio e il tempo, separatamente oppure congiuntamente (McMichael 2000: 271). Il nostro discorso s’inscrive nella crisi del concetto di Terzo Mondo e del terzomondismo. Dinamiche interconnesse analizzate nel capitolo introduttivo e che forniscono le coordinate per addentrarsi nell’indagine sulla storiografia dell’Indian Subaltern Studies Group e sui De-colonial Studies latinoamericani. La vicenda del collettivo di ricercatori indiano e del suo rapporto morfogenetico con il movimento nassalita, guerriglia d’ispirazione maoista, diffusosi in India negli anni Sessanta, costituisce il nucleo tematico della seconda parte del lavoro. L’analisi dell’Indian Subaltern Studies Group è circoscritta a un ambito definito di studiosi e di riflessioni, poiché la sua vicenda intellettuale vive, dal punto di vista editoriale, attraverso la collana che questi stessi studiosi curavano e di cui erano fondatori e editori: la serie Subaltern Studies. Questa circostanza ha offerto la possibilità di analizzare la formazione e la rielaborazione di determinati concetti, quello di subalternità e di violenza simbolica principalmente, a partire da una serie di discorsi e metodologie organizzati in modo relativamente coeso, e strutturati come nucleo centrale, in termini di programma di ricerca. Una volta definite le componenti metodologiche ed euristiche di tale programma di ricerca, e rei di averne storicizzato il contributo, lo abbiamo ancorato a una struttura narrativa di ordine cronologico e causale. Tale coesione, che si approssimi o meno a un grado “accettabile” di plausibilità analitica, resta pur sempre una ri-costruzione che, al pari di altre, più o meno accurate, trova sostegno inconscio e infine validazione in una struttura inferenziale piuttosto familiare. Chiamiamola linea narrativa (story line). Essa realizza di fatto quella che Hayden Whyte ha definito “addomesitcazione politica” dei fatti storici, che pretende di scoprire nella complessità della realtà storica un ordine a essa immanente e umanamente intelligibile. Eppure, secondo Whyte La realtà storica non ha nessun ordine in se stessa. Fornirle un ordine è una responsabilità umana messa in atto, in questo caso, dallo storico. Quando lo storico scrive come se la realtà ordinata 15 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 16 delle narrazioni storiche fosse qualcosa che è esistita “naturalmente” nel mondo – indipendentemente dall’azione dello storico di ordinamento della realtà – questi si sottrae alla responsabilità che l’uomo deve assumere per dare un “significato” là dove prima non ve ne era alcuno. Se [...], come storici, accettassimo questa responsabilità [...] riconosceremmo sia l’innato disordine della realtà sia la visione (politica) che ispira il significato che andiamo a cercare in essa1. Proprio in virtù di questo ordine logico e cronologico, “l’evoluzione” della vicenda degli studi subalterni giunge tuttavia a dischiudere il programma di ricerca originario, per connettersi in modo complesso al pensiero di Edward Said, agli studi postcoloniali, e a una serie di dibattiti che intanto prendevano forma in America Latina nei primi anni Novanta e che costituiscono il nucleo tematico della terza parte del lavoro. Qui, le condizioni epistemiche e le esigenze organizzative in cui si inserivano i dibattiti teorici che abbiamo delineato a proposito dell’India interagiscono con un quadro diversamente articolato e che si offre a un diverso tipo di narrazione. Una comunità accademica diffusa lungo i network che connettono il Sudamerica con gli Stati Uniti; nessuna rivista che fa da punto di riferimento esplicito per il dibattito (eccetto l’esperienza di «Nepantla», nata nel 2000 e conclusasi nel 2003); ma soprattutto un insieme di prospettive in fase di elaborazione che definiscono, a tutt’oggi, un campo di possibilità aperto, vivo e in continua trasformazione. Nessuna struttura rigida di ordine logico-cronologico può rendere questa complessa discontinuità, perché siamo di fronte a saperi in formazione, che rielaborano continuamente le proprie premesse e i propri spazi di indagine. In relazione a fenomeni ben più “stabili” di quanto non lo siano i processi sociali di produzione della conoscenza storica, un analogo problema di approssimazione all’oggetto di studio ha costituito la base della geometria dei frattali di Mandelbrot. Nel descrivere la procedura di definizione degli oggetti frattali, Mandelbrot afferma: La nozione che fa da filo conduttore sarà designata da uno dei due neologismi sinonimi “oggetto frattale” e “frattale”, termini da me concepiti […] e che si richiamano all’aggettivo latino fractus, che significa “interrotto”, “irregolare”. È il caso di definire una figura frattale in maniera rigorosa, per poter in seguito affermare che un oggetto reale è frattale quando lo è la figura che ne rappresenta il modello? Ritenendo che un formalismo del genere sarebbe prematuro, ho adottato un metodo affatto diverso: esso si basa su di una caratterizzazione aperta, intuitiva, che procede per tocchi successivi2. Nell’impossibilità di adottare una definizione circoscritta a un determinato progetto di ricerca, come è stato possibile per la prospettiva indiana degli studi subalterni, procediamo in un modo che immaginiamo simile a quello delineato da Mandelbrot per definire i frattali. Quanto all’America Latina, dunque, alcuni nuclei tematici emergono come cruciali, ed è attorno a essi che prende forma man mano un discorso riconoscibile sui movimenti indigeni, ed è intorno a tali concetti che gli intellettuali coinvolti nel dibattito hanno elaborato il proprio pensiero: il postcolonialismo, gli studi subalterni, il latinamericanismo, i De-Colonial Studies sono piattaforme critiche in relazione l’una all’altra che definiscono, nel complesso, un quadro di notevole effervescenza gnoseologica3. Come hanno affermato Deleuze e Guattari, la contemporaneità ci spinge a elaborare nuove forme d’indagine. Il sapere si configura non solo come uno sguardo nella profondità dei processi, 1 Whyte 1987: 72. 2 Mandelbrot 1987: 7. 3 Mutuiamo il concetto di effervescenza gnoseologica da Lentini (Lentini 2003: 394). 16 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 17 ma anche come una prospettiva sull’estensione del mondo e della conoscenza; i concetti, in questo senso, non si reggono sui fondamenti, ma innervano la superficie del campo d’indagine e ne connettono gli spazi frammentari e discontinui (Deleuze e Guattari: 2004: 33). Ponendo due ordini di questioni differenti, i processi di produzione del sapere individuati in ciascuno dei due contesti geostorici in cui prende forma il lavoro costringono al consapevole opportunismo metodologico proposto da Feyerabend, il quale afferma: Dobbiamo credere veramente che le regole ingenue e semplicistiche che i metodologi prendono come loro guida, possano rendere ragione di un tale labirinto di interazioni? E non è chiaro che può partecipare a un processo di questo genere solo un opportunista senza scrupoli, che non sia legato a nessuna particolare filosofia e che adotti in ogni caso il procedimento che gli sembra il più opportuno nella particolare circostanza? […] Un mezzo complesso comprende sviluppi sorprendenti e imprevisti, richiede procedimenti complessi e presenta difficoltà insuperabili a un’analisi la quale operi sulla base di regole che siano state costituite in anticipo e senza tener conto delle condizioni sempre mutevoli della storia4. Lo spazio definito dalle interazioni tra studi subalterni, prospettiva postcoloniale e studi decoloniali, emerge nella sua natura teorica e politica. In esso, la divergenza principale resta quella generata dalla diffidenza verso l’ontologizzazione della agency da un lato e l’esigenza politica di fondarne la possibilità storica dall’altro. Il limite del progetto decostruzionista, che tanta parte ha negli studi postcoloniali, sembra evidenziarsi proprio nel momento in cui se ne riconoscono a pieno i meriti. Il decostruzionismo, concentrandosi sulla ridefinizione continua del concetto di limite, estromette implicitamente dal proprio discorso i limiti intrinseci nel logocentrismo teorico. Esso finisce paradossalmente con l’assumere le sembianze della ragione illuministica di cui è fiero antagonista, pretendendo di sapere leggere ogni forma di vita e di relazione che si estrinsechi per mezzo del linguaggio. In questo senso dunque, da un punto di vista complessivo, il postcolonialismo renderebbe il discorso eurocentrico resiliente rispetto a questi processi e quei saperi che tentano di demolirne le fondamenta. Ma la consapevolezza di questa sottile complicità tra critica postcoloniale ed eurocentrismo sembra farsi largo. La stessa Spivak, decostruzionista radicale, ha sostenuto la necessità di «creare quelle infrastrutture che siano in grado di dare voce all’azione collettiva dei subalterni» (Spivak 2005: 55). Said, in Dire la verità, afferma che “gli intellettuali sono stati padri e madri dei movimenti, ma anche figlie e figli, o addirittura nipoti” (Said 1995: 25). Si noti la struttura asimmetrica del chiasmo. Può darsi che non sia di enorme importanza ai fini del discorso complessivo di Said sul rapporto tra intellettuali e potere, ma se così non fosse, allora suonerebbe come un monito all’umiltà nei confronti dei movimenti sociali e di chi, con tutti i limiti e le contraddizioni, si fa carico, spesso inconsapevolmente, di processi di trasformazione dell’ordine esistente. Del resto, chi fa la storia del proprio tempo, spesso, non fa in tempo a scriverla. E tuttavia, il rapporto tra l’emergere di alcuni saperi e di alcuni movimenti sociali sembra essere ben più complesso che la mera narrazione o descrizione di un fenomeno da parte dello storico. Nikolao Merker, negli anni Settanta del secolo scorso, tentò di aprire un varco in questo spazio profondo5. Egli rinvenne, nella complicata ed erudita cosmologia di Paracelso, lo shock che le rivolte contadine che imperversarono in Europa nei primi decenni del XVI secolo, agli albori dell’età moderna, avevano esercitato sulla sua visione del mondo6. Paracelso, considerato 4 Feyerabend 2005: 16. 5 Si vedano l’introduzione e il primo capitolo di Merker 1974. Ci riferiamo alle rivolte contadine che si diffusero in Europa negli anni Venti del XVI secolo e che divamparono dalla Germania meridionale fino alla Svizzera. 6 17 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 18 oggi il primo medico erborista, nelle sue innumerevoli opere menziona raramente in modo esplicito il radicalismo contadino di cui fu testimone7. Così come Guha non nomina i nassaliti nei saggi contenuti nella collana Subaltern Studies. Eppure ambedue i discorsi, i saperi che hanno contribuito a costruire, recano traccia di quei fenomeni e delle ribellioni che ne nutrirono l’immaginario politico. E così questo lavoro. Tuttavia non si tratta di reperti da recuperare attraverso un’archeologia del sapere, poiché la metafora foucaultiana produce l’immagine insoddisfacente di una reliquia da porre nella teca delle estinzioni per essere infine contemplata da inconsapevoli darwinisti compiaciuti. Le tracce di questi fenomeni sociali formano piuttosto un sostrato storico in cui si conserva intatto il loro patrimonio genetico che, raccontando di ciò che è stato, svela sempre qualcosa su ciò che è, sarebbe stato, potrebbe essere8. Fossili di forme di vita umana organizzata, rispetto ai quali il lavoro di ricerca e decodifica è meravigliosamente intricato quanto quello della più appassionata studiosa di paleontologia. Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim fu un grande alchimista, astronomo e medico svizzero. Studiò a Ferrara negli stessi anni di Copernico e fu il primo in Occidente a estendere l’arte medica agli estratti delle piante officinali. 7 8 Per una critica al darwinismo e alle sue implicazioni sulla concezione del tempo, si veda Eldredge 1999. 18 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 19 PRIMA PARTE TERZO MONDO E TERZOMONDISMO A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 20 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 21 Il Terzo Mondo è molto più terzo di noi. (dal libro Io speriamo che me la cavo) A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 22 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 23 Il farsi Storia del concetto di Terzo Mondo L’eurocentrismo delle scienze storico-sociali e l’apparato logico-grammaticale attraverso cui il pensiero occidentale ha prodotto le proprie narrazioni del passato e letto l’incontro coloniale sono stati messi in discussione da diverse prospettive, a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Edward Said, nel tentativo di rendere la complessità della storia intellettuale del diffondersi di questi approcci nelle istituzioni culturali e accademiche occidentali, ha affermato: Nelle università europee e americane studenti e docenti avevano lavorato assiduamente negli anni Ottanta per allargare le discipline ritenute fondamentali, in modo da includere testi prodotti da donne, artisti e pensatori non europei e subalterni. Quest’impresa fu accompagnata da importanti cambiamenti nell’approccio agli area studies, da molto tempo appannaggio degli orientalisti classici e dei loro omologhi in altre discipline. L’Antropologia, la Scienza Politica, la Letteratura, la Sociologia e soprattutto la Storia sentirono l’effetto di una critica delle fonti condotta ad ampio raggio, dell’introduzione della teoria e dello spodestamento della prospettiva eurocentrica1. Nell’introduzione al suo seminale studio sull’orientalismo, il pensatore palestinese sottolineava come, nel corso della storia dei saperi eurocentrici dediti alla costruzione e dominazione dei popoli non-europei, l’interazione tra orientalismo accademico e orientalismo extra-accademico non fosse mai venuta a mancare (Said 1999: 13). Seppur muovendo da una critica strutturalista eterodossa alle interpretazioni di matrice culturalista del rapporto tra le ideologie del capitalismo e l’Islam politico, l’economista egiziano Samir Amin ha fornito una definizione piuttosto inclusiva del significato storico dell’eurocentrismo, in grado di rendere il senso del suo operare quasi meccanico in ambiti quali la riflessione scientifica, il discorso pubblico e la produzione culturale: L’eurocentrismo non è una teoria che a causa della sua coerenza globale e della sua aspirazione totalizzante pretende di fornire la chiave interpretativa dei problemi di cui s’interessa la Scienza Sociale. L’eurocentrismo non è altro che una deformazione, sistematica e fondamentale, che la maggior parte delle ideologie e delle teorie sociali dominanti condividono. In altre parole, l’eurocentrismo è un paradigma che, come tutti i paradigmi, funziona in modo automatico, nella vaghezza dell’evidenza apparente e del senso comune. Per questo motivo esso si manifesta secondo modalità differenti, tanto nelle espressioni volgari dei pregiudizi veicolati attraverso i mezzi di comunicazione, quanto nelle asserzioni erudite degli specialisti dei diversi campi del sapere2. 1 Said 1999: 348. 2 Amin 1989: 9. 23 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 24 E per quanto la fascinazione per la terminologia di Thomas Kuhn irrigidisca la caratterizzazione dell’eurocentrismo fornita da Amin entro l’immagine di un sistema di significanti relativamente coeso, essa coglie un elemento essenziale del suo manifestarsi storicamente, ovvero la sua multiforme fenomenologia. In risposta a questa complessa eterogeneità di manifestazioni e di modus operandi, le critiche rivolte all’etnocentrismo europeo e al suo universalismo si sono articolate lungo linee di indagine polimorfe e sono emerse da varie collocazioni geo-storiche che compongono la cartografia discontinua del mondo moderno3. Rispetto a essa, il Medio Oriente costituisce uno tra i molteplici luoghi di una diffusa e spesso simultanea effervescenza gnoseologica. Mentre alcune di queste linee d’indagine nascono all’interno del pensiero occidentale, o meglio da studiosi formatisi entro la tradizione del pensiero occidentale, dai decostruzionisti ai postmodernisti, dai teorici della dipendenza agli studiosi dei sistemi-mondo, altre linee d’indagine, invece, affondano le proprie radici in contesti intellettuali situati in quello che nel mondo bipolare veniva definito Terzo Mondo, oppure sono opera di studiosi provenienti dalle ex colonie, trasferitisi nelle accademie dei paesi del Primo Mondo: Subaltern Studies e Postcolonial Studies. Come rilevato da Sandro Mezzadra, questo secondo insieme di prospettive ha avuto il merito innanzitutto di delegittimare le modalità egemoniche di pensare la storia del colonialismo, nonché di relativizzare il ruolo dell’Occidente e dei suoi saperi nella produzione dello spazio-tempo della modernità (Mezzadra 2008). Sia che ci riferiamo alla modernità in termini di sistema di valori, che di organizzazione socio-economica, l’immagine contro cui la critica postcoloniale si oppone è quella del diffusionismo: l’insieme di prospettive individuate dal campo del postcoloniale hanno inteso narrare la modernità in termini d’interazione costitutiva tra colonizzatore e colonizzato, in un rapporto asimmetrico, senza dubbio, ma inevitabilmente reciproco (Mezzadra 2005: 145-147). Non solo. Esse hanno saputo destabilizzare alcuni degli strumenti d’analisi più incisivi che i diversi orientamenti analitici afferenti al primo insieme di prospettive avevano elaborato nella fucina degli studi sullo sviluppo e della teoria critica. Ancora, negli ultimi anni queste prospettive legate ai contesti ex coloniali del Terzo Mondo hanno aperto il campo all’emergere ulteriore di saperi e riflessioni originali, come i De-colonial Studies latinoamericani. Infine, l’intenso dialogo critico tra Subaltern Studies, Postcolonial Studies e prospettiva de-coloniale è stato in grado di contribuire in modo sensibile alla problematizzazione delle coordinate stesse che descrivevano la collocazione geo-epistemica delle loro rispettive genealogie. Giorgio Baratta ha inteso rappresentare la mappa di siffatte collocazioni in termini di articolazione territoriale della critica allo storicismo europeo a cavallo tra XX e XXI secolo4. Ebbene, la costruzione di tale rappresentazione dello spazio della modernità è il prodotto storico di una proiezione di sviluppo che assume come piano ausiliario il concetto di Terzo Mondo. Terzo Mondo è uno dei lemmi fondamentali della Storia e delle scienze sociali nella seconda metà del Novecento. La sua diffusione in ambiti spesso reciprocamente distanti testimonia una percezione condivisa del suo valore descrittivo e della sua capacità di individuare delle entità che L’attributo geostorico si riferisce al concetto di geo-historical di Taylor. Taylor introduce il suo contributo alla rielaborazione delle categorie interpretative della modernità sostenendo la necessità di oltrepassare l’immagine del mondo moderno come uno spazio omogeneo universale, in direzione di una concettualizzazione maggiormente fluida, basata sull’idea che differenti processi storici interconnessi abbiano prodotto molteplici spazi e tempi, sebbene in un quadro solistico e sistemico (Taylor 1999: 5-6, 34). La riflessione di Taylor sistematizza l’idea di Wallerstein di concepire le coordinate fondamentali del sistema-mondo capitalistico in termini di unico spazio-tempo della modernità (Wallerstein 1996b: 135-148). 3 4 Discorso introduttivo tenuto al convegno tenuto su Gramsci in occasione del settantesimo anniversario della morte del segretario del Pci. Gramsci. Le culture e il mondo, convegno internazionale di studi promosso e organizzato dall’International Gramsci Society e dalla Fondazione Istituto Gramsci. Roma 27-28 Aprile 2007. 24 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 25 sono parte della geografia del mondo moderno. Tuttavia, il concetto di Terzo Mondo non ha mai costituito una categoria analitica chiara, ma piuttosto la tassonomia astigmatica di un insieme di stati e regioni dell’economia-mondo moderna. Il suo utilizzo accomuna sia coloro che lo hanno assunto come piattaforma di rivendicazioni ispirate al principio della redistribuzione delle risorse politiche ed economiche su scala mondiale, sia coloro che lo hanno accolto, adoperato e diffuso nel lessico accademico, avallandone altresì il suo potere euristico (Clapham 1985: 7). Peter Worsley, studioso che per primo basò esplicitamente il proprio The Third World su tale concetto, ha poi affermato diversi anni dopo che, negli anni Sessanta, la natura del cosiddetto Terzo Mondo appariva talmente autoevidente che nel libro egli non aveva ritenuto necessario definire in modo più specifico quello spazio geostorico corrispondente ai paesi ex coloniali (Worsley 1984: 309). In effetti, il concetto di Terzo Mondo ha spesso assunto connotati normativi piuttosto che analitici. John Goldthorpe aprì uno dei suoi lavori più conosciuti e influenti in questo modo: «Se i paesi ricchi e industrializzati del mondo moderno possono essere raggruppati in Occidente e Oriente, allora i paesi poveri costituiscono il Terzo Mondo, che si distingue dagli altri due per la ridotta capacità di controllo sulle risorse» (Goldthorpe 1975: 1). Tuttavia, e spesso al di là dell’efficacia terminologica e dell’adeguatezza del lemma Terzo Mondo, diverse prospettive politiche e scientifiche hanno sottolineato la necessità e l’importanza del valore identitario di tale concetto, in funzione di una coscienza condivisa delle soggettività storiche accomunate dall’esperienza del colonialismo e dalla prolungata sottomissione al dominio occidentale. In questo senso, secondo John Toyle, «il Terzo Mondo non dovrebbe scomparire dalle nostre menti. Esso dovrebbe piuttosto ricordarci continuamente di una nostra mancanza collettiva, ovvero l’incapacità di percepirci come appartenenti a un solo mondo e non a molti, differenti mondi» (Toyle 1992: 31). Il campo di tensioni definito dal dibattito intorno alle questioni veicolate dal concetto di Terzo Mondo appare di gran lunga meno vivace negli ultimi anni. Per quanto poco esplicativo in sé, uno sguardo alle occorrenze del termine “Third World” nella letteratura accademica e nella pubblicistica politica ed economica del mondo anglofono evidenzia un suo palese declino5. Ma proprio la parabola del concetto di Terzo Mondo è essenziale per comprendere le relazioni storiche che sono alla base della genesi degli Studi subalterni, postcoloniali e decoloniali. Così come gran parte del lessico vischioso per mezzo del quale la Storia del Novecento continua a ostacolare l’elaborazione di un pensiero posteurocentrico, anche la nozione di Terzo Mondo ha origine nella retorica dei primi e convulsi anni della Guerra fredda. Mentre i due blocchi andavano definendosi e cristallizzandosi in una configurazione spaziale che spaccava longitudinalmente l’Europa postbellica, nella letteratura polemica della sinistra non-comunista francese di fine anni Quaranta, maturava l’idea della necessità di una “terza forza” che fosse distinta sia dal capitalismo americano che dal comunismo sovietico e assicurasse una prospettiva di futura autonomia alla Francia nello scacchiere internazionale (Tomlinson 2003: 309-310). Come afferma Safire, il termine francese tiers monde si diffuse nel periodo 1947-1949 per descrivere partiti e gruppi politici che tentavano di mantenere le distanze sia dal regime della Quarta Repubblica (1946-1958) che dal Rassemblement du peuple français di De Gaulle. Ben presto però, gli fu preferita l’eco politico-militare del termine “Terza Forza” (Safire 1972: 659). L’invenzione del concetto di Terzo Mondo, nell’accezione a noi nota, è tuttavia attribuita al demografo Alfred Sauvy che lo adoperò in un articolo del 1952, dal titolo Trois Mondes, Une Planète, apparso sul giornale socialista «L’Observateur» il 14 Agosto 1953. In esso, Sauvy delineava la situazione di sudditanza dei paesi dell’Africa e dell’Asia rispetto alle due superpotenze Secondo Tomlinson, una ricerca per parole chiave tra le collezioni online e cartacee delle principali biblioteche anglo-americane riporta che esistono 1805 libri sull’argomento. Di questi, 140 pubblicati prima del 1975, 654 tra il 1975 e il 1984, 755 tra il 1985 e il 1994, e 169 tra il 1995 e il 2001 (Tomlinson 2003: 308). 5 25 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 26 (Love 1979; McCall 1980). E sebbene Worsley abbia sostenuto che tale termine fosse già presente in un articolo di Claude Bourdet del 1949, intitolato Neutralisme et Nationalisme en France, la genealogia della letteratura sul Terzo Mondo riconduce sostanzialmente a Sauvy e, ancora più specificamente, al volume che i suoi colleghi dell’Institut National des Etudes Démographiques diedero alle stampe nel 1956, con il titolo di Le Tiers Monde: Sous-développement et développement (Worsley 1979). Negli anni Cinquanta del Novecento, dunque, il concetto di Terzo Mondo veicolava già due significati cruciali, e cioè un deficit di potere rispetto a Stati Uniti e Urss, ma simultaneamente la propensione a produrre uno spazio politico alternativo a entrambi. E tuttavia è la letteratura sullo sviluppo il vastissimo campo a cui il termine Terzo Mondo è indissolubilmente legato. Nel suo fondamentale The Economic Development in Latin America and its Problems pubblicato nel 1950, Raul Prebisch definiva i paesi del continente latinoamericano come “non-industrializzati”, per differenziarli dall’Europa, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Analogamente, nella sua tesi di dottorato discussa il 20 Giugno 1957, Samir Amin rilevava come la definizione generalmente accettata di paesi sottosviluppati sottintendesse strutture socio-economiche caratterizzate da diffusa povertà. Sebbene è ipotizzabile che, a differenza di Prebisch, Amin conoscesse il termine Terzo Mondo utilizzato nel dibattito francofono, appare evidente come la sovrapposizione lessicale tra questo e il campo semantico definito da lemmi quali “paesi sottosviluppati” non fosse stata istantanea (Wolf-Phillips 1987: 1315). E infatti, come fa notare Love, fu solo nel 1963 che, simultaneamente, Allias nel suo Le Tiers Monde au Carrefour adoperò in modo intercambiabile entrambe le espressioni, e Clifford Geertz, in Agricultural Innovations: the Process of Ecological Change in Indonesia, sostenne la necessità di elaborare nuovi strumenti metodologici per la comprensione dei nuovi paesi del “Terzo Mondo” (Geertz 1963: XVIII). Il sottosviluppo, pertanto, veniva accettato come un elemento intrinseco e specifico di quelle regioni dell’economia mondiale che il termine Terzo Mondo andava rappresentando, desumendone i confini a partire dall’ordine politico internazionale scaturito dalla conferenza di Yalta. Al di là della lessicologia, è nel suo sostanziarsi in realtà storica che il Terzo Mondo ha rappresentato uno strumento di potere e un luogo di conflitto. Tale concetto si innesta su di una trama storiografica e sociologica in cui lo sviluppo, come mito organizzatore, costituisce il pivot6. La reiterata imposizione dell’ideologia dello sviluppo come panacea del problema della povertà su scala locale e globale ne ha tramutato gli incerti fondamenti epistemologici nel granito del senso comune7. Banalmente, ciascuno di noi sa bene (o è convinto di sapere) a cosa ci si riferisce quando si parla del sottosviluppo come principale problema dei paesi del Terzo Mondo, e il sintagma contiene in se stesso sia la domanda che la risposta, il fine e il mezzo, fusi nella tautologia trans-storica che fa dello sviluppo sia l’obbiettivo che lo strumento stesso del suo raggiungimento. Come fa notare correttamente Makki, mentre le categorie di Terzo e Primo Mondo fanno riferimento a una toponomastica globale e statica, il concetto di sviluppo designava il processo dinamico che avrebbe reso possibile il passaggio dall’uno all’altro (Makki 2004: 150). Secondo la narrazione eurocentrica del divenire storico, di cui l’ideologia dello sviluppo rappresenta una com- 6 A tal proposito resta piuttosto esaustiva la critica strutturalista offerta da Arrighi (Arrighi 1996). La critica al concetto di sviluppo si articola in molteplici prospettive teoriche, che ne colgono aspetti differenti ma complementari. In estrema sintesi possiamo distinguere un insieme di analisi maggiormente concentrate sulla dimensione storico-strutturale, e un altro insieme più orientato alla decostruzione delle strutture simboliche e linguistiche funzionali alla sua legittimazione. Per quanto riguarda il primo insieme, i riferimenti principali derivano dalle scienze sociali e dai Development Studies, sono riconducibili alle teorie della dipendenza e all’analisi dei sistemimondo (fondamentali Frank 1978 e 1980; Arrighi 1990, 1991 e 1996; Wallerstein 1979; Wallerstein 1991). Il secondo insieme di analisi è invece più marcatamente teorico-speculativo, e riconducbile al versante postmodernista della critica storico-culturale (si vedano Rahnema 1997, Rist 1997 e Sachs 1998). 7 26 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 27 ponente di assoluto rilievo, questo passaggio dall’arretratezza al progresso sociale, a sua volta, era immaginato come l’esito contemporaneo di un processo di lunga durata consistito nell’espansione spaziale dell’Europa sul globo. Grazie a esso, l’Europa esportava i benefici delle sue conquiste morali, tecnologiche, organizzative al resto del mondo, e allo stesso tempo si poneva al centro di un ordine mondiale gerarchico e multidimensionale. L’Europa ha teso sempre a rappresentare se stessa in termini di opposizioni antitetiche rispetto ai suoi Altri: nobile/selvaggio; civilizzato/primitivo; colonizzatore/colonizzato; moderno/arretrato (Guha 2003: 47-53). Rispetto a questa sequenza, Primo Mondo e Terzo Mondo da un lato e sviluppo e sottosviluppo dall’altro, segnano simultaneamente sia un cambiamento decisivo nel modo di concepire le relazioni tra l’Occidente e il resto del mondo, sia la riformulazione di relazioni di dominio plurisecolare (Rist 1997: 21 e ss.). La realizzazione spaziale di quest’ordine, che si compì al volgere del XIX secolo, iniziò a scompaginarsi a causa di una potente combinazione di emancipazione politica da parte dei paesi colonizzati e degli effetti strutturali dei due conflitti mondiali. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, bisognava erigere una nuova e più solida organizzazione del mondo: gli stati europei uscivano dalla guerra incapaci di risollevarsi da soli e dunque di gestire i propri domini d’oltremare; qui, intanto, nuovi sentimenti d’indipendenza divampavano nei cuori di coloro i quali, reduci da sanguinose battaglie motivate ideologicamente dall’imperativo di sconfiggere un nemico che negava la libertà degli individui e l’autodeterminazione dei popoli, aspiravano ora proprio a quella libertà per sé e a quell’autodeterminazione per il proprio popolo. Gli Stati Uniti d’America, entrati nel primo conflitto mondiale come debitori dell’Europa, ora godevano del vantaggio di non avere subìto danni al proprio apparato industriale ed erano divenuti i creditori del mondo (Hobsbawm 1994: 304). Essi rappresentavano sia una leaderhip economica che morale: la loro storia di nazione sottrattasi al giogo coloniale britannico, il credo liberale di cui la loro costituzione era espressione, il grado di prosperità diffusa se paragonata alla condizione in cui versava l’Europa, la potenza produttiva messa in campo nel conflitto, la supremazia militare espressa sul campo di battaglia e con la prova di forza di Hiroshima e Nagasaki li proiettavano come guida di quel “mondo libero” che all’indomani del conflitto iniziò a riconoscersi in opposizione al nascente blocco sovietico, cristallizzatosi grazie al mancato ritiro dell’Armata Rossa dai territori occupati. Il Terzo Mondo, secondo la definizione residuale che da questo nuovo ordine derivava, rappresentava più della metà dei territori e della popolazione mondiale. Il riassetto di tale ordine poneva importanti questioni di natura politica ed economica, dunque; ma altrettanto importanti erano quelle di natura ideologica. La frattura coloniale separava l’immagine degli Stati Uniti da quella del vecchio continente, spaccato a sua volta tra vincitori e vinti. L’effetto complessivo in termini geoculturali era che la superiorità morale dell’Occidente, inteso come entità dotata di un determinato grado di coesione immaginata, scricchiolava e con esso l’ethos originario della modernità occidentale stessa. Ciò che rimaneva appannaggio indubbio dell’uomo bianco era la tecnologia, paradossale vincitrice di ambedue i conflitti (Cooper e Packard 1997: 1-40). La sua presunta neutralità fu assunta a misura dell’uomo (Adas 1990: 135). Come ha osservato Wallerstein, l’elemento costante nel sistema di rappresentazione che ha strutturato il dominio dell’Occidente sia prima che dopo i due conflitti mondiali è la distinzione tra modernità della tecnologia e modernità della liberazione: con il primo concetto si intende il raggiungimento del livello tecnologico più avanzato in un dato periodo storico; con il secondo concetto, di matrice illuminista, egli individua piuttosto l’orizzonte del definitivo trionfo della libertà umana e l’affermazione più compiuta dell’Uomo nella Storia. Ebbene, secondo Wallerstein: Ancora una volta le classi dominanti (situate nel Nord) cercarono di persuadere le nuove classi pericolose dell’identità delle due modernità. Woodrow Wilson offrì l’autodeterminazione delle nazioni e i presidenti Roosvelt, Truman e Kennedy offrirono lo sviluppo economico delle ex colonie, ovvero gli equivalenti strutturali su scala mondiale di ciò che erano stati, su scala nazionale, il suffragio universale e il welfare state8. 27 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 28 Se il colonialismo pose la questione del progresso in termini di processo eterodiretto messo in atto dai colonizzatori come mission civlisatrice, manifest destiny, white man’s burden, nel secondo dopoguerra esso fu inteso piuttosto come processo naturale, una sindrome universale verso cui tutte le società convergevano (cfr. Inkeles 1966). Lo sviluppo delle colonie, che rivendicavano l’indipendenza politica e un’identità distinta dai due blocchi contrapposti, poteva essere avviato e gestito per la prima volta nella storia da élite non Occidentali (cfr. Inkeles e Smith 1973). L’impalcatura teorica dell’ideologia dello sviluppo fu prodotta in seno alle teorie della modernizzazione elaborate a partire dagli anni Cinquanta intorno al concetto di stadi di sviluppo, reso celebre da economisti americani fortemente legati all’establishment governativo9. La sua affermazione come paradigma dominante delle scienze sociali consistette nel radicare l’evoluzionismo in una ingegneria sociale che assegnava a ciascuna “società” un posto preciso su di una scala gerarchica che muove dallo stato primitivo a quello avanzato, attraverso un divenire storico assunto come unidirezionale, univoco e irreversibile. Più in particolare, l’impatto storico di tali saperi si tradusse nell’alterare la natura causale del nesso che collega il concetto di Terzo Mondo con quello di sviluppo: in virtù delle teorie della modernizzazione, infatti, lo sviluppo sarebbe la risposta al problema della povertà, dell’arretratezza, del sottosviluppo del Terzo Mondo. Ciò che risulta completamente reciso da questa immagine del cambiamento sociale, infatti, è il contesto storico della sua genesi, definito a sua volta dai rapporti di forza tra Occidente ed ex colonie e dalla dialettica tra le diverse esigenze organizzative di cui tali rapporti erano espressione. Fu infatti nel quadro della Guerra fredda che molti paesi di nuova indipendenza optarono per il non-allineamento, nel tentativo di preservare un certo grado di autonomia e condurre le questioni dell’aiuto e della partecipazione alle trasformazioni in atto nel sistema interstatale nell’alveo delle nascenti istituzioni multilaterali delle Nazioni Unite. In quegli anni tali questioni erano lo sfondo imprescindibile del dibattito americano sulle linee di politica estera da adottare. Secondo Walt Witmann Rostow, padre della teoria degli stadi, era fin troppo evidente che la posizione, le risorse naturali e le popolazioni delle aree sottosviluppate sono tali da poter diventare realmente integrate al blocco comunista. Gli Stati Uniti diventerebbero allora la seconda potenza del mondo. Indirettamente, l’evoluzione delle aree sottosviluppate è capace di determinare il destino dell’Europa occidentale e del Giappone, nonché il valore di queste regioni industrializzate nell’alleanza del mondo libero che noi siamo destinati a guidare. In breve, sono in gioco la nostra sicurezza militare e il nostro modo di vita. E dunque sarebbe più corretto affermare che lo sviluppo rappresentasse una risposta alle esigenze organizzative degli Stati Uniti d’America, e all’affermazione della sua egemonia planetaria piuttosto che la soluzione ai problemi dei paesi di nuova indipendenza. E tuttavia, sostenere che lo sviluppismo sia stata un’imposizione da parte degli Stati Uniti d’America, accettata passivamente dagli stati emersi in seguito al processo di decolonizzazione, sarebbe un errore. Esso fu piuttosto l’orizzonte politico e antropologico accettato indistintamente dalle élite che furono protagoniste della storia del secondo dopoguerra e, in questo senso, lo sviluppismo è stato a tutti gli effetti l’ideologia egemone del XX secolo. 8 Wallerstein 1996: 141. Per una ricostruzione dell’ascesa dei teorici della modernizzazione all’interno delle istituzioni americane e della loro influenza nelle scelte di politica estera degli Stati Uniti, si veda l’interessante lavoro di Latham (Latham 2000: 31 e ss). 9 28 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 29 La parabola del terzomondismo (1955-1981) Il primo tentativo di dare sostanza a una posizione distinta dai due blocchi fu l’Asian African Conference, tenutasi nella città di Bandung nella parte centrale dell’Indonesia, tra il 17 e il 24 aprile del 1955. Voluta e animata, tra gli altri, da figure centrali nei processi di decolonizzazione dei rispettivi stati-nazione, quali Sukarno, Nehru, Ho Chi Minh, Nasser, Zhou Enlai, la conferenza di Bandung caratterizzò una fase delle relazioni internazionali a cui si fa spesso riferimento nel discorso pubblico e storiografico per mezzo di termini allusivi, come “lo spirito di Bandung” o “l’era di Bandung”: tali concetti individuano rispettivamente un orizzonte condiviso da diverse entità politiche e gruppi dirigenti postcoloniali e un determinato periodo storico compreso grossomodo tra il 1955 e il 1980, in cui tale orizzonte politico condizionò o sembrò in grado di poter condizionare in modo sensibile le relazioni di forza nel quadro del sistema interstatale. Come sottolinea Berger, la conferenza di Bandung viene spesso ricordata come il momento cruciale in cui emerse l’autocoscienza del Terzo Mondo come attore politico collettivo, eppure in nessun documento, né preparatorio, né conclusivo, il termine Terzo Mondo fu mai adoperato. L’enfasi di Bandung era anticoloniale (Berger 2004: 10). La dichiarazione finale sottoscritta dai partecipanti condannava tutte le manifestazioni del colonialismo, e intendeva essere non solo un attacco al colonialismo formale delle potenze dell’Europa occidentale, ma anche una critica all’occupazione sovietica dell’Europa orientale e delle nuove strategie con cui gli Stati Uniti interferivano negli affari delle ex colonie1. Il documento si chiudeva con l’auspicio di un’intensa collaborazione tra i governi di Asia e Africa; la creazione di un fondo per lo sviluppo economico che operasse attraverso le Nazioni Unite; la condanna delle violazioni del diritto di autodeterminazione dei popoli da parte di Israele e Sudafrica (Myrdal, Singh e Wright 1956: 12-15). Senza dubbio, Bandung fu un momento importante per dare visibilità al nuovo status diplomatico raggiunto dalle ex colonie e alle figure più importanti che erano protagoniste dei movimenti per l’indipendenza; altrettanto evidente fu fin dall’inizio che il linguaggio e le tensioni della Guerra fredda avrebbero condizionato fortemente le relazioni interne alla conferenza. È significativo, ad esempio, che mentre la delegazione indiana e quella indonesiana tentarono di far passare la linea del cosiddetto “neutralismo positivo” come approccio comune alle questioni di politica estera, dichiarando la volontà di collocarsi alla stessa distanza da ciascuno dei due blocchi, altre delegazioni come quelle di Ceylon, Iraq e Filippine spingevano per dare precedenza a dichiarazioni d’intenti che posponevano qualsiasi progetto comune alla “eliminazione 1 Si veda <http://www.issafrica.org/AF/RegOrg/unity_to_union/pdfs/asiaafrica/bandung55.pdf>. 29 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 30 della minaccia comunista”2. Bandung fu seguita dal summit del Nam (Non-Aligned Movement) a Belgrado nel settembre 1961. Qui, una serie di stati, tra cui il Pakistan, che pure erano presenti a Bandung, furono esclusi poiché apertamente schierati con una delle due superpotenze, così come lo furono alcune colonie francesi, mentre governi rivoluzionari di ispirazione marxistaleninista furono invitati per la prima volta. In realtà, anche a Belgrado era chiaro che sia i movimenti nazionalisti che i governi che ne erano scaturiti dipendevano da rapporti di varia natura con ciascuna delle due superpotenze, talvolta con entrambe e, in ogni caso, dal sistema interstatale e dai rapporti di forza che ne regolavano il funzionamento (Hershberg 2007: 375). Ma proprio tali rapporti di forza apparivano piuttosto fluidi a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, specialmente in Asia. Dopo la morte di Stalin nel 1953, infatti, la Cina di Mao prese progressivamente le distanze dal modello economico sovietico, procedendo simultaneamente a una controversa opera di rilettura del marxismo-leninismo che in seguito venne organizzato dall’intellighenzia cinese in termini di maoismo3. Tale allontanamento tra Mosca e Pechino incrinò la solidità di uno degli assi portanti di Bandung, vale a dire l’intesa tra la Cina di Zhou En Lai e l’India di Nehru, processo degenerativo che culminò con la guerra indo-cinese del 1962-63 (Garver 2002: 111 e ss.). La via indiana al socialismo di Stato in politica interna e il pieno sostegno al non-allineamento in politica estera, di cui Nehru era promotore, erano già in crisi quando questi morì nel 1964; il suo declino è stato visto da alcuni studiosi come l’esempio paradigmatico dei limiti del marxismo in rapporto allo sviluppo nazionale nel contesto della decolonizzazione4 (Seth 1995: 9-23). Meno di due anni dopo, Sukarno, considerato dallo stesso Nehru come un suo discepolo, che aveva tentato un’ardita, e per certi versi pionieristica, sintesi tra nazionalismo antioccidentale, marxismo e Islam, fu progressivamente sostituito dal generale Suharto, che represse nel sangue, con l’appoggio della Cia, un tentativo di golpe imputato al partito comunista indonesiano, all’epoca il più numeroso al mondo dopo Cina e Unione Sovietica. Per le due “superpotenze”, dal punto di vista geopolitico, il Nam costituiva un problema ma anche un’opportunità di estendere la propria sfera d’influenza, tant’è che esse tentarono sempre di alimentarne le rivalità interne e indebolirne il peso collettivo. Gli Usa, ossessionati dal dogma del contenimento, sponsorizzarono gruppi dirigenti “amici”, come in Pakistan, data la sua prossimità sia all’Urss che al Medio Oriente (altro nodo nevralgico nello scacchiere internazionale ed epicentro del processo di decolonizzazione e del non-allineamento). Nello scenario mediorientale, l’Egitto di Nasser, giunto al potere con il colpo di stato del 1952, andava posizionandosi come principale promotore del movimento pan-arabo. Inoltre, diversi analisti dell’epoca videro nel nazionalismo secolare di Nasser la tendenza verso una concezione socialista dello Stato, che dal punto di vista economico aveva come obbiettivo l’industrializzazione e come metodo il modello di sostituzione delle importazioni che simultaneamente veniva adottato da molti stati (cfr. Perez 1965). Nel delineare la sua figura, Edward Said ha scritto: Nasser non fu mai gradito all’Occidente. E ciò può essere considerato come un indice di quanto il suo antiimperialismo fosse genuino, nonostante le disastrose campagne militari in cui lanciò Peter Lyon, nel suo lavoro del 1963, distinse la posizione del non-allineamento sia dal neutralismo statunitense del XIX secolo, sia da quello che lui stesso definiva come isolazionismo sovietico. Lyon sottolineava come diversi paesi, soprattutto mediorientali, sfruttavano la loro neutralità per negoziare con ambedue le superpotenze in diversi settori economici o politici (Lyon 1963: 25 e ss.). 2 3 Sull’economia politica del “Grande Balzo in avanti” e il suo rapporto con la politica agraria sovietica degli anni Trenta si veda Goldman e Gordon 2000: 289-299. Si vedano anche: Friedman, Pickowicz e Selden 2006; Gray 2006. Sul processo di sinizzazione del marxismo si vedano Knight 2003 e 2005. 4 Per uno studio dettagliato del modello indiano di sviluppo si veda Frankel 1978. 30 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 31 l’Egitto, la soppressione della democrazia di cui fu colpevole, la sua eccessiva retorica da leader maximo. […] Egli fu il primo moderno leader dell’Egitto indipendente, che visse nell’ambizione di trasformare la sua nazione nel più importante dei paesi arabi e del Terzo Mondo5. La traiettoria dell’Egitto ispirò altri movimenti di liberazione nazionale, come quello che portò Gheddafi al potere in Libia nel 1966, sebbene con un’enfasi profondamente diversa sulla componente religiosa. Ciò si spiega in parte con la volontà di Nasser di egemonizzare la Lega dei paesi arabi, e soprattutto con la sua volontà di tessere relazioni di varia natura con altri movimenti di liberazione nazionale, sia in Medio Oriente che in Africa; dal supporto al Front de Libération Nationale in Algeria alla rivolta dei Mau Mau in Kenya6. E tuttavia, la figura più emblematica del non-allineamento in Africa resta Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente, dal 1957 al 1966, la cui esperienza aprì la strada alle indipendenze di altri sedici paesi africani7. Il contributo di Nkrumah al terzomondismo fu, a differenza di molti altri leader del Nam, teorico, analitico e interpretativo, oltre che politico. Egli seppe cogliere l’essenza del processo di decolonizzazione nel momento stesso in cui quest’ultimo andava compiendosi. Nel suo Neo-colonialism. The Last Stage of Imperialism (1965), Nkrumah palesa l’intreccio organizzativo e ideologico grazie a cui l’Occidente, ma in particolare gli Usa, perpetuavano lo sfruttamento e il controllo dei popoli ex coloniali: Di fronte alle mobilitazioni dei popoli dei territori ex coloniali in Asia, Africa, nei Caraibi e in America Latina, l’imperialismo cambia semplicemente tattica. Senza alcuno scrupolo fa a meno delle sue bandiere, servendosi persino di alcuni dei suoi più odiati rappresentanti espatriati all’estero. Esso afferma di “dare” l’indipendenza a quelli che erano i suoi sudditi, e di concedere “l’aiuto” per il loro sviluppo. Nascosto sotto frasi come questa, tuttavia, l’imperialismo escogita innumerevoli modi per raggiungere gli stessi obbiettivi perseguiti in precedenza dal nudo colonialismo. Ed è l’insieme di questi moderni tentativi di perpetuare il colonialismo parlando allo stesso tempo di “libertà” che s’identifica come neo-colonialismo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e lungo tutti gli anni Settanta, il processo di decolonizzazione portò al potere gruppi dirigenti di orientamento politico più radicale di quanto non fosse avvenuto con i movimenti nazionalisti degli anni Cinquanta, sebbene la natura politica di queste diverse formazioni è stata il fulcro di un ampio dibattito che ha espresso posizioni spesso molto divergenti. Paul Gilroy, ad esempio, si riferisce ai regimi di Bandung in termini di un’unica generazione (Gilroy 2000: 288, 345). David Scott, invece, individua tre generazioni dei regimi di Bandung: 1950-1960; 1960-1970; 1980-2000 (Scott 1999: 195-198, 221-226). Secondo alcuni le élite del non-allineamento possono essere descritte sulla base dei loro rapporti con il marxismo, e ricondotte al succedersi di due generazioni: la prima generazione dei regimi di Bandung era espressione di progetti nazionalistici di matrice borghese, che intendevano costruire stati postcoloniali per mezzo di un processo di modernizzazione fondato su di un pragmatismo anticomunista, basato tuttavia sia su un appoggio militare da parte dell’Urss e allo stesso tempo su relazioni economiche con gli Usa (San Juan 2000). Secondo altri, come Berger, una simile ca- 5 Said 2001: 161. La questione del non-allineamento dell’Egitto di Nasser è stata ripresa più di recente da Pattanayak (Pattanayak 2000). 6 7 Un’interessante nota biografica su Nkrumah è che prima di tornare in Ghana, lasciato per gli Stati Uniti d’America nel 1935, per prendere parte al movimento di liberazione nazionale dal 1947, egli venne in contatto con figure centrali del versante trotskista del panafricanismo come Dubuois. In particolare C.L.R. James, autore, tra l’altro di The Black Jacobins di cui ci occupiamo nel primo paragrafo del secondo capitolo, gli procurò una lettera di presentazione per fargli proseguire gli studi a Londra. 31 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 32 ratterizzazione non corrisponde né a molti dei regimi post-coloniali di prima generazione, né ad altri simbolo della seconda. I primi, a causa del rapporto che figure come Nasser, Sukarno e Nehru avevano con il “socialismo”, il marxismo e con i partiti comunisti dei loro paesi. I secondi, poiché leader come Amilcar Cabral a Capoverde, Nyerere in Tanzania o Gheddafi in Libia, pur ispirandosi tutti al marxismo, difficilmente possono essere pacificamente definiti in modo omogeneo come marxisti (Berger 2004: 20-21). Per quanto verosimili possano essere ritenute queste tipologie, esse rimangono pur sempre idealtipi decontestualizzati dai processi storici transnazionali nei quali questi regimi si muovevano, e che ponevano esigenze sensibilmente diverse da quelle caratteristiche dell’immediato dopoguerra. L’irrigidimento politico e diplomatico delle relazioni tra i due blocchi, negli anni Sessanta, coincise da un lato con la progressiva affermazione dell’ideologia dello sviluppo, dall’altro con la disarticolazione interna alla sfera d’influenza sovietica, in cui andavano emergendo, lentamente ma costantemente, la Cina maoista e Cuba come nuovi poli di attrazione per i movimenti rivoluzionari8. Gli Stati Uniti d’America, memori del fallimento della controrivoluzione a Cuba nel 1961, dotarono di nuovi strumenti pragmatici la strategia del contenimento, inaugurando la formula dell’aiuto economico allo sviluppo per i paesi del Terzo Mondo. A partire dal 1961, infatti, gli Stati Uniti avviarono il gigantesco programma di investimenti e trasferimento di tecnologie verso l’America Latina, noto come l’Alleanza per il Progresso (Latham 2000: 69-109). L’Urss di Chruščëv, dal canto suo, impose la propria versione dello sviluppismo ai paesi al di qua della cortina di ferro. Così facendo, l’antagonista degli Stati Uniti d’America dava anch’essa il suo contributo decisivo alla diffusione su scala mondiale dell’industrializzazione, tramutata in misura inopinabile del grado di progresso raggiunto da ciascuno stato-nazione, in forza delle teorie della modernizzazione. Sebbene Chruščëv avesse avviato il processo di destalinizzazione nel 1958, infatti, una linea di continuità passava per la politica economica di Stalin (e di Lenin prima di lui): la formula leniniana “il socialismo è uguale ai soviet più l’elettricità” non sembrava aver perso smalto (Wallerstein 2003: 35). Il corollario di questa visione era un’enfasi teorica e politica sulle classi industriali urbane a scapito di quelle rurali agrarie, ovvero della stragrande maggioranza delle popolazioni dei paesi del Terzo Mondo, sulla cui mobilitazione si fondavano i progetti di liberazione nazionale dei rispettivi partiti rivoluzionari. In America Latina, mentre i gruppi al potere accettavano entusiasti i finanziamenti dell’Allenaza per il Progresso, l’Urss appoggiava dappertutto le componenti maggiormente riformiste dei partiti comunisti locali, sostenendo la linea della via gradualista al socialismo, che passava per tappe consequenziali quali il processo d’industrializzazione, la creazione di un proletariato urbano, l’alleanza strategica con le borghesie nazionali. Nient’altro che il verbo della teoria degli stadi declinato in desinenze marxiste (Di Meglio 1997: 21). In questo scenario, i partiti rivoluzionari protagonisti dell’ondata di decolonizzazione che attraversò il Terzo Mondo nella seconda metà degli anni Sessanta presero le distanze, almeno politicamente benché non finanziariamente, da Mosca, ispirandosi alla mobilitazione contadina condotta da Mao nello Hunan e più spesso alla Rivoluzione cubana e al foquismo di Ernesto Guevara9. Proprio a L’Havana, nel gennaio del 1966, ebbe luogo la Conferenza Tricontinentale di Solidarietà tra i popoli di Asia, Africa e America Latina10. Oltre che prendervi parte un numero sensibilmente maggiore di delegazioni rispetto a quante non avessero preso parte alla conferenza 8 Per percepire le diverse fasi della retorica terzomondista adottata progressivamente in politica estera dalla Cina, si veda Yu 1977: 1039-1045. Secondo Guevara, l’esperienza delle Rivoulzione cubana testimoniava che le condizioni oggettive dello sfruttamento capitalistico non fossero sufficienti da sole a dare il via all’insurrezione. Le masse contadine dovevano essere istigate da piccoli gruppi di guerriglieri (fuochi) che avrebbero poi coinvolto i contadini nella rivolta. Questa teoria della prassi rivoluzionaria fu sistematizzata in seguito nel libro Revolución ne la revolución da Regis Debray, filosofo francese vicino alle posizioni di Louis Althusser. 9 32 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 33 di Bandung, queste provenivano anche dall’America Latina. Mentre a Bandung si erano riuniti i paesi di nuova indipendenza, la Tricontinentale de L’Havana coinvolse delegazioni provenienti dalle diverse aree geografiche i cui popoli erano accomunati dal colonialismo come esperienza storica. Questo cambiamento, unito alla tendenziale egemonia ideologica del marxismo nelle sue molteplici declinazioni, estese il campo di tensione politico del non-allineamento e lo caratterizzò non solo e non più in termini di anticolonialismo, bensì di lotta all’imperialismo. Ma allo stesso tempo, in seno a ciascun partito comunista, dal Sudafrica alla Francia, al Cile, allo Sri Lanka, la frattura coloniale creava nuove tensioni per lo più centrifughe rispetto al marxismo europeo e sovietico. In questa relazione controversa tra anticolonialismo e marxismo, Robert Young ha collocato la genesi delle spinte storiche che sono alla radice di quell’insieme di teorie e di prospettive che definiamo postcolonialismo (Young 2007: 36). La riformulazione delle istanze che erano state espresse a Bandung era parte di un complesso e articolato processo di elaborazione teorica che s’intrecciava indissolubilmente con le istanze politiche cui abbiamo accennato. Il terzomondismo, come movimento e attitutidine politica che fa del concetto di Terzo Mondo e della comune esperienza di sfruttamento coloniale un fondamento identitario, poggiava gran parte delle sue rivendicazioni sulla critica al sistema economico internazionale elaborata dai teorici della dependencia. Il nucleo centrale di questa critica elaborata da una rete di studiosi latinoamericani, sia nelle versioni maggiormente riformiste che radicali, era l’attribuzione delle cause prime del sottosviluppo del Terzo Mondo non all’arretratezza endogena di ciascuno stato, così come i maramaldi teorici della modernizzazione della Scuola di Chicago avevano stabilito, bensì allo sviluppo e alla ricchezza stessi del Primo Mondo. Secondo i teorici della dependencia, sulla scorta delle analisi di Prebisch, il continuo drenaggio di ricchezza dal Terzo Mondo in direzione del Primo si realizzava per mezzo del deterioramento secolare delle ragioni di scambio del commercio internazionale di lunga distanza, e risultava incomprensibile se non entro uno spazio geostorico concepito per la prima volta come mondiale e integrato, indissolubilmente interconnesso e descritto dal concetto relazionale di centro-periferia. La rilevanza di Raul Prebisch e del lavoro collettivo dell’Ecla nella genesi delle teorie della dependencia arricchisce l’immagine teorica e politico-economica del terzomondismo di una dimensione cruciale: la dimensione istituzionale. I paesi del Terzo Mondo tentarono di condurre quasi tutte le questioni di politica e di economia internazionali nell’alveo degli organismi multilaterali delle Nazioni Unite, sperando in questo modo di poter esercitare collettivamente una maggiore pressione rispetto a quanto non fossero in grado di fare nelle contrattazioni bilaterali con i paesi ricchi. Ma qual era la natura di queste rivendicazioni? A conclusione della conferenza di Bandung, il primo ministro della Tanzania, Nyerere, aveva dichiarato: Con il non-allineamento stiamo dicendo alle grandi potenze che anche noi facciamo parte di questo pianeta. Affermiamo il diritto delle nazioni piccole, o più deboli dal punto di vista militare, a determinare le loro politiche nel proprio interesse e ad avere un’influenza negli affari mondiali. […] Sotto ogni punto di vista, riteniamo che la nostra libertà effettiva di effettuare scelte economiche, sociali e politiche sia compromessa dalla nostra esigenza di sviluppo economico11. Come rileva McMichael, il significato sottinteso di questa dichiarazione era una contestazione della legittimità del modello economico di sviluppo basato sull’ordine multilaterale esistente. Il primo oggetto del contendere era l’insufficienza dei prestiti concessi dalla Banca mondiale: i paesi del Terzo Mondo membri delle Nazioni Unite spinsero affinché la gestione 10 Organización de Solidaridad con los Pueblos de Asia, África y América Latina, Ospaaal. 11 Nyerere, cit. in McMichael 2006: 4. 33 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 34 dei prestiti fosse regolata da un istituto dell’Onu, il Sunfed (Special United Nations Fund for Economic Development). Ma i paesi ricchi, seppur incrementando sensibilmente l’afflusso di capitali verso il Terzo Mondo, fecero in modo che fosse la Banca mondiale, e non le Nazioni Unite, a occuparsene. Furono create diverse banche regionali e subregionali con cui ammantare la capacità di controllo politico della gestione dei crediti e delle modalità di recupero nelle mani dei paesi ricchi, sotto le spoglie dei tecnicismi finanziari e della burocratizzazione delle procedure di erogazione dei fondi (McMichael 2004: 63). A tal proposito, il capitolo conclusivo di Neocolonialism, intitolato I meccanismi del neo-colonialismo, merita di essere citato per esteso data la lucidità con cui Nkrumah denunciava, già nel 1965, il sistema dell’“aiuto” allo sviluppo e le modalità della sua implementazione: Una delle tecniche del neo-colonialismo consiste nell’applicazione di alti tassi d’interesse. [...] I tassi d’interesse su circa i ¾ dei prestiti offerti dalle principali potenze imperialiste superano il 5% e in certi casi arrivano al 7-8%, mentre i tempi programmati per la restituzione sono gravosamente brevi. Questo metodo di penetrazione per mezzo dell’aiuto economico è diventato oneroso per diversi paesi che iniziano a dubitare dei suoi vantaggi. Questo “aiuto” si rivela essere un nuovo strumento di sfruttamento, un metodo moderno di estrazione della ricchezza, celato da un nome maggiormente cosmetico. Un’altra trappola economica è “l’aiuto multilaterale” attraverso le organizzazioni internazionali: il Fondo monetario internazionale, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (conosciuta come la Banca mondiale), l’Associazione per la Cooperazione Finanziaria e lo Sviluppo Internazionale, sostenute in gran parte dal capitale americano. Queste agenzie agiscono forzando gli aspiranti debitori ad accettare condizioni offensive, come fornire informazioni sulle loro economie, sottoporre i loro piani economici alla revisione della Banca mondiale e accettare che fosse quest’ultima a supervisionare l’utilizzo dei fondi ottenuti. Né, del resto, l’intera faccenda de “l’aiuto” si esaurisce nelle cifre che ne rendono conto, dal momento che esistono altre condizioni che la rendono possibile: la conclusione dei trattati sul commercio e la navigazione; gli accordi di cooperazione internazionale; il diritto d’ingerenza nelle questioni finanziarie interne, incluse la moneta e il tasso di cambio, al fine di abbassare le barriere doganali in favore della penetrazione di beni e capitali provenienti dal paese “donatore”; la protezione degli investimenti stranieri; la determinazione dell’utilizzo dei fondi; l’obbligo di fornitura di materie prime. Queste condizioni si applicano all’agricoltura, all’industria, al commercio12. La questione dell’organizzazione del commercio internazionale, già sollevata per certi versi da Prebisch, costituì il secondo grande tema del terzomondismo. Nel 1964, settantasette paesi del Terzo Mondo guidati dall’America Latina diedero vita al Gruppo dei 77 (G-77) e spinsero per la fondazione dell’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development), ovvero la prima organizzazione in seno alle Nazioni Unite che costituì lo spazio politico-istituzionale per le rivendicazioni dei paesi del Terzo Mondo. Essi chiesero la stabilizzazione, nel breve termine, dei prezzi dei beni d’importazione dai paesi industrializzati, compresi quelli tecnologici; l’aumento dei prezzi delle materie prime e dei semilavorati che esportavano, l’abbattimento delle barriere doganali dei paesi ricchi a protezione dei prodotti agricoli e dei manufatti nazionali. In sintesi, il Terzo Mondo aspirava a godere dell’espansione dell’economia mondiale. Del resto, come afferma Hobsbawm, la ricostruzione aveva funzionato talmente bene che Giappone e Germania erano giunti a competere con gli Stati Uniti d’America in diversi settori produttivi; allo stesso tempo, il patto fordista si era dimostrato solido, tanto da rendere tendenzialmente rigido il mercato del lavoro nei paesi ricchi. Di conseguenza, i margini di profitto derivanti dagli investimenti in Europa e Stati Uniti d’America tendevano decisamente a comprimersi. Le autorità finanziarie di Gran Bretagna e Stati Uniti videro nell’immissione di ingenti quantità 12 Cit. in Nkrumah 1965: 55-57. 34 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 35 di moneta l’unica risposta flessibile alla minaccia del rallentamento della crescita: tabù sia del keynesianesimo che del contenimento, dato che si temeva che l’Urss fosse vicina al “sorpasso” proclamato da Chruščëv. Arrighi fa notare che non appena avvertirono i primi segnali di aumento della pressione fiscale sui capitali da parte dell’amministrazione americana, a partire dal 1967, le multinazionali statunitensi preferirono depositare i loro patrimoni in altri mercati valutari offshore, piuttosto che rimpatriarli (Arrighi 2003: 64). Quando Nixon dichiarò la non-converitibilità del dollaro, nel 1971, la quantità di eurodollari iniziò vertiginosamente a crescere13. Intanto, nel 1965, i paesi produttori di petrolio si erano federati nell’Opec (Organization of the Petroleum Exporting Countries), nel tentativo di stabilizzare i prezzi del greggio, di limitare le interferenze dei paesi del Primo Mondo nella gestione delle scorte e di creare canali preferenziali per i flussi di capitale in uscita, frutto del commercio dei combustibili fossili di cui disponevano ampiamente14. Quando l’Opec decise di quadruplicare il prezzo del greggio nel 1973 e di bloccarne l’esportazione verso i paesi occidentali al culmine della guerra del Kippur, la “crisi energetica” produsse un surplus di circa ottanta miliardi di petrodollari, che furono accumulati nelle banche private europee, contribuendo a generare un’offerta di capitale talmente eccedente da sospingere i tassi d’interesse a livelli irrisori (McCallum 1981: 323). Come sintetizza Susan Strange, gli sbocchi possibili per arginare l’esondazione di questo eccesso di liquidità nel circuito economico internazionale risultarono allora due. Da un lato la via della finanziarizzazione dei capitali e della speculazione sulle valute nazionali dei paesi del Terzo Mondo; investimento il cui tempo di rotazione andava fortemente riducendosi grazie ai progressi nelle tecnologie di comunicazione a distanza. L’altra via consisteva nell’aiuto allo sviluppo poiché, contrariamente alla speculazione valutaria sebbene paradossalmente in concomitanza con essa, il modello dell’industrializzazione nazionale e dell’agrobusiness dei paesi del Terzo Mondo implicava dei grossi immobilizzi per investimenti di medio-lungo periodo in infrastrutture e tecnologie produttive e manageriali (Strange 1999: 102-108). Come afferma David Calleo: Prima i paesi dovevano “meritarsi” il denaro che avevano intenzione di spendere. Ora potevano prenderlo in prestito. Con una liquidità apparentemente capace di espandersi all’infinito, i governi credevano che la capacità di credito non avesse bisogno più di alcun controllo esterno sulla spesa […] paesi in deficit potevano ottenere indefinitamente prestiti dalla magica macchina della liquidità15. I risultati congiunti della rapida espansione dell’economia mondiale, dell’eccesso di liquidità, e degli sforzi per lo sviluppo nazionale da parte delle élite terzomondiste non si fecero attendere e, a fronte delle premesse, furono decisamente contraddittori. Negli anni Settanta, il tasso di crescita del Terzo Mondo aveva superato quello del Primo Mondo; i paesi della periferia esportavano più manufatti di quelli del centro; le agricolture dei paesi del centro producevano ed esportavano in misura maggiore di quanto non facessero i paesi del Terzo Mondo, nonostante molti di essi avessero utilizzato larga parte dei prestiti internazionali per sviluppare le coltivazioni per l’esportazione. Ma soprattutto, il divario di ricchezza e di perequazione dei redditi nazionali tra Primo e Terzo Mondo risultava notevolmente esteso e costantemente in crescita secondo tutti gli indicatori aggregati16. 13 Il mercato degli eurodollari, ovvero depositi in dollari presso banche europee e dunque al di fuori della giurisdizione della Federal Reserve, fu istituito negli anni per evitare che i paesi comunisti accumulassero dollari presso le banche americane. Il volume di eurodollari crebbe tuttavia a causa dei depositi offshore delle multinazionali statunitensi e delle operazioni speculative delle banche di Wall Street, giungendo a quadruplicarsi tra il 1967 e il 1970. Algeria, Angola, Ecuador, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Venezuela. 14 15 Calleo 1982: 137-138. 35 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 36 Nel 1974, il G-77 diede vita a un’iniziativa che ebbe grande risonanza internazionale dentro e fuori l’Assemblea delle Nazioni Unite. Con la Dichiarazione per la realizzazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale (New International Economic Order, Nieo), i paesi del Terzo Mondo espressero la necessità di regolare l’attività delle multinazionali operanti sul proprio territorio, rivendicarono la libertà di nazionalizzare i settori che ritenevano di vitale importanza per le economie nazionali, chiesero di introdurre dei criteri di non-reciprocità negli accordi multilaterali con i paesi ricchi. In sostanza, maggiore disponibilità di fondi per lo sviluppo nel breve periodo e, nel medio periodo, la redistribuzione di parte della ricchezza mondiale che avevano contribuito e continuavano ampiamente a creare. Eppure, per quanto questa iniziativa fosse dipinta come “la ribellione del Terzo Mondo”, essa segnò allo stesso tempo il culmine e l’inizio del “climaterio del terzomondismo” (Berger 2004: 24). È chiaro che la sensazione di essere di fronte a una sfida senza precedenti ai paesi ricchi non fosse del tutto infondata, specialmente se lanciata negli stessi mesi in cui si profilava distintamente la disfatta definitiva dell’esercito statunitense nella guerra del Vietnam (19621975): la spinta ideologica del terzomondismo, che aggregava una varietà di stati dal peso politico piuttosto dispari, poggiava su un gruppo di stati a medio reddito nazionale (tra questi il Messico, il Brasile, il Venezuela, l’Iran, l’Algeria) che controllavano risorse strategiche e porzioni cruciali di catene di merci essenziali per il commercio mondiale e per le economie dei paesi ricchi. Ma di che natura era questa sfida? Il senso politico del Nieo non era tanto il rischio paventato di un sovvertimento dell’ordine economico internazionale, che in effetti non fu mai messo in discussione, ma piuttosto la rivendicazione della necessità di una sua riforma a vantaggio dei paesi del Terzo Mondo, o di parte di essi. Lo strumento di mobilitazione su cui i paesi a medio reddito poterono costituire un’egemonia all’interno del G-77 fu la denuncia del fallimento delle politiche di riduzione della povertà promosse dai paesi del centro: questo fallimento fu addotto come evidenza dell’incapacità di questi ultimi di gestire lo sviluppo in modo tale da estenderne i vantaggi alle popolazioni che abitavano i paesi del Terzo Mondo. La reazione del Primo Mondo fu sagace. Nel cuore della presidenza McNamara della Banca mondiale (1968-1981), la strategia di sminuire il peso politico e ideologico della proposta del Nieo assunse le sembianze di una rinnovata enfasi sulla cooperazione allo sviluppo. Quest’ultima si fondava, dal punto di vista analitico, sulla riesumazione dell’ottocentesco spettro malthusiano della scarsità delle risorse, che la crisi energetica aveva evocato; dal punto di vista concettuale, su una nuova concettualizzazione della povertà globale, che fu scoperta essere non urbana e industriale, bensì rurale e nascosta17. Ma, come nota McMichael, sebbene «la risposta del Primo Mondo combinasse questioni di governance con temi morali, il tema principale era il tempo: come esso passò, così fece l’energia della spinta dell’iniziativa del Nieo» (McMichael 2006: 112). La maggior parte dei fondi venne infatti trasferita verso i paesi a medio reddito; la crescita del reddito nazionale di paesi come il Brasile, Singapore, Messico, Hong Kong, Taiwan e Corea del Sud (le cosiddette Nics – New Industrializing Countries) alimentò con nuove success stories la fede nello sviluppismo, così come era già avvenuto per l’Italia e il Giappone postbellici. Ignari o forse incuranti del fatto che, proprio come nel caso dei “miracoli” italiano e giapponese, la mappa Per una panoramica sui dati del divario nell’arco dell’era di Bandung, si veda Summers e Heston 1991. Per un’introduzione al dibattito sulle interpretazioni economiciste del persistere del divario, a cavallo tra la fine della Guerra fredda e gli anni immediatamente successivi si vedano: Lucas 1990; Singer e Ansari 1988; Romer 1989. 16 17 Il concetto di povertà è stato studiato sotto molti aspetti, così come il suo utilizzo nei documenti delle organizzazioni internazionali ha costituito oggetto di un ampio e complesso dibattito sociologico, economico e storico. Una ricostruzione acuta delle logiche di potere a esso sottese, e delle loro trasformazioni dal XIX secolo a oggi è stata offerta da Maijid Rhanema, nel suo saggio incluso nel volume di studi postsviluppisti edito in inglese da Wolfgang Sachs nel 1992. Per l’edizione italiana, si veda Rahnema, il saggio intitolato Povertà, in Sachs 1998. 36 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 37 dell’aiuto allo sviluppo che andava prendendo forma poteva essere sovrapposta, fino a coincidere con la geografia delle criticità geostrategiche e commerciali degli Stati Uniti, i paesi del Terzo Mondo videro scompaginata la coesione del fronte comune che avevano tentato di costruire. In estrema sintesi, fu lasciato che le istanze comuni si sgretolassero sotto il peso degli interessi nazionali divergenti tra gli stati più forti che ne erano parte: le élite che li guidavano furono fatte accomodare al convivio dei potenti, che ebbero buon gioco nel trasformare mendicanti più o meno esotici in ospiti più o meno ossequiosi, ma comunque morigerati. Il brusco risveglio dal torpore indotto dall’abuso sistematico dell’indebitamento avvenne nel 1980, quando l’amministrazione Reagan diede il via a una severa politica di austerità monetaria, e sia la Banca d’Inghilterra che la Federal Reserve inaugurarono la cosiddetta Medium Term Financial Strategy per il quinquennio 1980-1985 (Arestis e Sawyer 1998: 26-28). Era l’inizio dell’ipnotica egemonia del neomonetarismo come dottrina finanziaria: l’innalzamento del tasso di sconto, misura necessaria a limitare l’ipertrofia del dollaro, produsse sul piano internazionale una drastica riduzione della disponibilità di capitali e prosciugò i fondi per la cooperazione allo sviluppo18. L’insolvenza di tutti i paesi del Terzo Mondo costrinse ciascuno di essi a riconvertire le proprie economie in funzione delle esportazioni e a demolire la spesa pubblica. Nel tentativo di coprire quantomeno gli interessi maturati, essi negoziarono e rinegoziarono a più riprese e individualmente le condizioni di restituzione dei prestiti, incappando in quella che, già nel 1974, Cheryl Payer aveva battezzato la “trappola del debito” (Payer 1974: 11; Sachs 1988; Lindert e Morton 1989). La gestione della crisi del debito fu affidata al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, che imposero a ciascun paese l’accettazione delle misure macroeconomiche previste dai piani di aggiustamento strutturale. La fruizione dell’aiuto internazionale, divenuto vitale per l’economie del Terzo Mondo, fu subordinato alle nuove priorità imposte dall’austerity: riequilibrio della bilancia dei pagamenti, svalutazione delle divise nazionali, riduzione delle importazioni e aumento delle esportazioni, privatizzazione dei settori d’intervento pubblico, riduzione del costo del lavoro per attrarre capitali stranieri (Congdon 1988: 109-110). Per i paesi del G-77, gli anni Ottanta proseguirono con la marginalizzazione e l’impoverimento di gran parte di essi, nonché con un’ulteriore divergenza all’interno di quello che era stato il gruppo delle Nics: da un lato la spettacolare ascesa delle “tigri asiatiche”, dall’altra gli spettacolari crolli dei paesi sudamericani19 (De Rivero 1999: 120). Quando il mondo assistette alla caduta del Muro di Berlino, il fronte terzomondista era già stato ampiamente sbaragliato. Sul piano interno, gli effetti del neo-monetarismo furono evidenti nel breve termine soprattutto sui livelli di occupazione e stigmatizzati come innovativi ma altamente rischiosi. (Si veda ad esempio Dean 1985). I due principi cardine del neo-monetarismo sono l’ipotesi del tasso naturale di disoccupazione e delle aspettative razionali. L’ipotesi del tasso naturale di disoccupazione suggerisce che la gestione della domanda aggregata è inutile dal momento che la disoccupazione non può essere portata al di sotto di una determinata soglia relativamente alta e stabile, attraverso una politica monetaria inflazionistica. L’ipotesi delle aspettative razionali, a sua volta, sostiene che le aspettative degli attori rispetto all’inflazione coincidono grossomodo con l’inflazione reale, e dunque le discrepanze tra aspettative e inflazione deriverebbero proprio dall’intervento di politica macroeconomica tesa a incrementare la disponibilità di moneta. 18 19 Sull’ascesa dei paesi asiatici e sui loro differenti modelli di relazione tra Stato e mercato si veda Wade 2004. Per una panoramica sulle crisi finanziarie degli anni Ottanta e Novanta e sulla loro gestione da parte delle istituzioni finanziarie internazionali, si veda Stiglitz 2002. 37 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 38 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 39 Terzo Mondo oggi. Mito mobilitante o chimera paralizzante? Nel 1981, pochi mesi dopo che la controrivoluzione monetarista ponesse fine alle aspirazioni del terzomondismo, Carl Pletsch aprì il dibattito sull’inadeguatezza del concetto di Terzo Mondo1: La divisione del pianeta in tre mondi si basa su di una coppia molto astratta di distinzioni binarie, quantomeno grossolane. Prima, il mondo è stato diviso tra parti “moderne” e “tradizionali”. Poi la porzione moderna è stata divisa in parti “comuniste” (o socialiste) e parti “libere”. Questi quattro termini fanno parte di una semantica sociale estremamente generale. Essi derivano la loro validità dall’opposizione reciproca, piuttosto che dalla relazione con le cose che ritengono di descrivere2. L’articolo di Pletsch anticipava alcuni dei temi che emersero con forza dopo la fine della Guerra fredda, quando le perplessità di Pletsch si materializzarono in una congiuntura storica mondiale profondamente mutata con la quale misurarsi. Come racconta Minolfi, nel suo avvincente studio sulla “guerra dei paradigmi” nelle teorie delle relazioni internazionali postGuerra fredda, fu allora che emerse l’immagine che la fine di un ordinamento relativamente stabile del potere si manifestava con evidenza senza, però, essere sostituita da un altro ordinamento e senza lasciare intravedere le forme della sua successione (Minolfi 2005: 1-3). La famosa tesi della “fine della storia” di Fukuyama radicò la percezione di trovarsi al di là di un varco temporale epocale, percezione condivisa, per parte sua, dalla riflessione postmodernista. Proprio nell’ambito dell’analisi del rapporto tra la condizione postmoderna e le trasformazioni del capitalismo di fine millennio3, Frederic Jameson offriva un’interpretazione generale del rapporto tra letteratura e immaginario politico nelle ex colonie: Tutti i testi del Terzo Mondo sono necessariamente allegorici, in un modo molto specifico: essi vanno intesi come allegorie nazionali […]. Una delle caratteristiche determinanti della cultura capitalistica è la separazione radicale tra la sfera pubblica e quella privata. Sebbene in termini analitici separiamo la dimensione soggettiva in pubblica e privata, o tra poetica e politica, le relazione In verità, i primi numeri della neonata rivista «Third World Quarterly», tra il 1979 e il 1980, ospitarono diverse riflessioni sul concetto di Terzo Mondo, cui abbiamo già fatto riferimento nel primo paragrafo di questa introduzione. Tuttavia queste riflessioni si muovevano nell’ambito della filologia e non sul piano dell’ermeneutica storica del concetto. 1 2 Pletsch 1981: 571. Il primo saggio in cui Jameson espose le sue tesi fu poi seguito da una trattazione più ampia (Jameson 1991). Una tappa cruciale dell’analisi del postmodernismo è senza dubbio il lavoro di David Harvey (Harvey 1995). 3 39 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 40 tra queste sfere sono completamente differenti nella cultura del Terzo Mondo. I testi del Terzo Mondo proiettano necessariamente una dimensione politica sotto forma di allegoria4. In risposta alle tesi di Jameson, Aijaz Ahmad stigmatizzò la matrice weberiana di quella che reputava un’oggettivazione del concetto di Terzo Mondo, evidenziando l’inconsistenza teorica delle premesse analitiche su cui Jameson fondava il suo giudizio: Non trovo per nulla significativo che il Primo e il Secondo Mondo siano identificati in base ai loro sistemi produttivi, laddove la categoria di Terzo Mondo – il Terzo Mondo – sia definita puramente in termini di “esperienza” di fenomeni introdotti dall’esterno […] questa classificazione separa ideologicamente coloro che fanno la storia da coloro che ne sono oggetto5. Sebbene concordi dichiaratamente con le critiche di Ahmad al postmodernismo, Arif Dirlik ha inteso tuttavia ribaltare il senso dello scarso valore analitico del concetto di Terzo Mondo. Secondo Dirlik, sebbene il concetto di Terzo Mondo fosse figlio della Guerra fredda, sarebbe riduttivo e controproducente derivare da ciò la valutazione che il terzomondismo fosse soltanto un’illusione temporanea, utile altresì a mascherare profonde differenze tra società eterogenee6. Al di là di ciò, continua Dirlik, il terzomondismo è stato un mito mobilitante: Piuttosto che abbandonare il concetto di Terzo Mondo, andrebbe presa in considerazione, a fronte della fine del socialismo, la possibilità del suo ritorno, sebbene nel quadro di un vocabolario trasformato. […] Il Terzo Mondo del terzomondismo, infatti, era un concetto esplicitamente politico7. La proposta di Dirlik sembra trovare sostegno in quelle analisi strutturaliste delle trasformazioni dell’economia mondiale che, sulla base della sostenuta crescita economica delle regioni asiatiche, enfatizzano il peso politico, economico e militare di quei paesi appartenenti all’ex Terzo Mondo e che, in alcuni settori produttivi strategici, hanno stretto accordi di reciproca collaborazione nel corso degli ultimi anni. Ravi Palat, ad esempio, ha invocato la necessità di una nuova Bandung tra i paesi come Cina, Brasile, Sudafrica, Nigeria, Malesia e India, che costituirebbero, a suo giudizio, l’asse potenziale per la costituzione di una possibile alternativa egemonica agli Stati Uniti d’America. Il declino conclamato dell’egemonia statunitense, posto a margine della tesi di Palat, non distoglie tuttavia l’attenzione dagli scenari ch’egli prospetta. Secondo Palat, la ristrutturazione delle gerarchie di potere all’interno del sistema interstatale, sostenuta da dinamiche interne a questi paesi, aprirebbe la strada a una trasformazione delle logiche di funzionamento del mondo moderno, in direzione di forme maggiormente egualitarie di organizzazione sociale (Palat 2008: 733). La Cina postmaoista viene spesso assunta a esempio. Si sostiene, in estrema sintesi, che le forti contraddizioni sociali interne al suo portentoso sviluppo sarebbero in grado di influire sul tipo di organizzazione del potere della Cina, in modo tale da assicurare un certo grado di partecipazione rilevante ai lavoratori e alle lavoratrici urbani e rurali alla creazione di un modello di sviluppo alternativo (Amin 2003: 10; Harvey 2007: 172-174). Indipendentemente dagli scenari futuribili sulla transizione egemonica che il capitalismo storico vive, le fondamenta del rinnovato appello allo spirito di Bandung sembrano suscitare le ubbie di quanti vi 4 Jameson 1991: 69. Ahmad 1987: 99-100. Per la trattazione più ampia, che include anche una lettura critica delle teorie postcoloniali, si veda anche Ahmad 1993. 5 Il dibattito recente sul concetto di Terzo Mondo è stato riaperto da un numero monografico di «Third World Quarterly» nel 2004, che contiene diversi dei contributi a cui si fa riferimento. 6 7 Dirlik 2004: 136. 40 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 41 scorgono una riedizione del progetto sviluppo, organizzata intorno a un nuovo e contemporaneo “miracolo economico” (Tomba 2002: XIII). Diversi studiosi mettono in guardia dal rischio che l’evocazione del terzomondismo possa avere come effetto collaterale quello di rivitalizzare il concetto di Terzo Mondo come strumento d’analisi, finendo col fornire appoggio teorico a una serie di prospettive che, in diversi modi, ancora oggi restano ancorate saldamente alla retorica della modernizzazione (Randall 2004: 44-48). Di questo parere è Heloise Weber, la quale sottolinea che poiché l’utilizzo del concetto di Terzo Mondo nelle politiche internazionali per lo sviluppo faceva riferimento a entità politiche territoriali, la sua efficacia sarebbe drasticamente ridotta dalla progressiva deterritorializzazione delle configurazioni di potere che connotano le evoluzioni recenti del processo di globalizzazione. Analogamente, David Held e Anthony McGrew sostengono la progressiva irrilevanza della dimensione territoriale nell’analisi della distribuzione delle risorse politiche tra diversi gruppi sociali nell’attuale fase di globalizzazione del capitalismo. Tuttavia, la stessa retorica della globalizzazione, di cui sia Held, sia McGrew, sia Heloise Weber non sembrano liberarsi, finisce col conferire nuovo vigore al concetto di Terzo Mondo, proprio in virtù di quel processo di deterritorliazzazione di cui il nostro tempo sarebbe testimone. A tal proposito, Marc Williams ha fatto notare come, pur evirato del suo potere euristico dal punto di vista geografico, e della sua efficacia politica, il concetto di Terzo Mondo continui a veicolare il senso dell’arretratezza e della povertà cronica, assurgendo dunque allo statuto di “puro strumento ideologico”, sedimentato nel discorso pubblico (cit. in Weber 2004: 3). Tant’è che, paradossalmente, anche autori decisamente critici verso lo sviluppismo hanno adoperato di recente il concetto di Terzo Mondo per indicare il diffondersi di condizioni di crescente vulnerabilità nel contesto globale delle nuove forme di stratificazione sociale. Così, Caroline Thomas ha affermato che «nel mondo entrato nel terzo millennio, il Terzo Mondo sembra tutt’altro che scomparso» (Thomas 2000: 225). William Robinson aveva sostenuto in precedenza che «la globalizzazione implica una ristrutturazione sia del centro che della periferia, il cui esito è ciò che alcuni hanno identificato come “latinamericanizzazione” degli Stati Uniti d’America o “terzomondizzazione” del Primo Mondo» (Robinson 1998: 341-342). Ebbene, se la rifunzionalizzazione del concetto di Terzo Mondo appare inevitabilmente legata all’ideologia dello sviluppo e all’immagine tendenziosa del binomio povertà-arretratezza propria delle teorie della modernizzazione, l’appello allo spirito di Bandung, come arma di mobilitazione ideologica, somiglia a una chimera paralizzante, in grado di celare un rischioso anacronismo. Anacronismo evidente di fronte al configurarsi d’interessi, orizzonti ed esigenze organizzative nettamente divergenti nel quadro della competizione internazionale; rischioso nella misura in cui esso si mostra implicitamente accondiscendente con i meccanismi di oppressione di cui proprio le élite terzomondiste sono state complici e agenti nel corso della storia del XX secolo (Mezzadra 2008). Se è vero, infatti, che tra il 1945 e il 1981 ben 105 stati divennero indipendenti ed espressero dei gruppi dirigenti non europei, la sovranità politica che essi raggiunsero, sostenuti da movimenti di liberazione di massa, consistette nell’investitura di uno status formale, strumentale all’equilibrio transitorio di un nuovo ordine mondiale fondato, in ultima istanza, sull’economia politica dell’imperialismo (McMichael e Rajeev 2004: 242). Non solo il colonialismo, dunque, costituisce il terreno comune alle diverse riflessioni critiche che compongono il campo degli studi subalterni, postcoloniali, e decoloniali: in India come in America Latina, la genealogia e la diffusione di tali prospettive sono indissolubilmente connesse alla critica dello storicismo, dello sviluppismo, del nazionalismo, e del tipo di sovranità che ne ha consentito la legittimazione. Dipesh Chakrabarty ha chiarito la dialettica storica che collega questi processi e dunque il meccanismo con cui i saperi eurocentrici continuamente ricreano uno iato temporale tra l’Occidente e il resto del mondo. Per Chakrabarty, lo storicismo ha operato imponendo alle popolazioni non europee l’idea del “non ancora” (not yet), relegandole cioè all’anticamera della storia, in attesa del momento giusto in cui divenire soggetti autocoscienti, educati e 41 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 42 pronti per essere fautori del proprio destino politico (Chakrabarty 2000: 23-24). Questa dinamica spazio-temporale trova nel mito dello sviluppo la sua versione novecentesca e nella teoria degli stadi lo strumento di classificazione dell’evoluzione delle forme organizzative umane, inscritte a forza nel quadro dello stato-nazione (Di Meglio 1997). Ma la costruzione dello stato-nazione nel contesto della decolonizzazione incorpora una contraddizione fondamentale legata proprio alla dimensione temporale della rivendicazione dell’autonomia politica: le lotte anticoloniali non sarebbero state in grado di mobilitare le masse se avessero posposto ulteriormente le proprie rivendicazioni in un futuro più o meno remoto; per questo motivo i movimenti di liberazione opposero sempre al “non ancora” del liberalismo ottocentesco l’hic et nunc del nazionalismo terzomondista. Gli esiti di questa necessaria apertura alle masse contraddiceva la ricetta liberale europea nella misura in cui le masse venivano gettate nell’arena politica definita dalle istituzioni dello Stato borghese di derivazione europea, pur essendo prive di qualsiasi precedente familiarità con le forme occidentali della rappresentanza. L’esito di questa contraddizione dà forma storica sia all’ambivalenza del nazionalismo nel Terzo Mondo come processo e costruzione discorsiva, sia alla morfologia delle élite che ne furono protagoniste in quanto macroattori sociali: queste ultime, da un lato forzarono i vincoli che lo storicismo imponeva alle loro aspirazioni di guidare subito i propri stati e di posizionarli nel consesso delle nazioni; dall’altro adoperarono in modo eclettico la teoria degli stadi e l’idea della governabilità per fondare la propria legittimità politica presso corpi sociali profondamente eterogenei, laddove non disgregati (Chakrabarty 2000: 25-26). Secondo Bose, a proposito degli strumenti politici e ideologici adoperati dall’élite nazionalista che guidò l’India postcoloniale: «piuttosto che usare lo Stato come strumento di sviluppo, fu lo sviluppo a divenire uno strumento dello Stato» (Bose 1997: 153). Ancora su Nkrumah. Per Nkrumah, l’anticolonialismo dei movimenti di liberazione si oppone in modo antitetico al neo-colonialismo. La natura indigena delle élite nazionaliste emerse dai movimenti di liberazione nazionale sembra essere sufficiente a Nkrumah per localizzare i luoghi del dominio neocoloniale al di là dei confini dei nuovi stati indipendenti e delle sue nuove classi dirigenti. Ed è qui che, invece, la radicalità di Fanon si offre all’esegesi da cui il postcolonialismo come progetto origina. Come rileva acutamente Miguel Mellino, nel momento angolare che mette in comunicazione Pelle nera maschere bianche con Per la Rivoluzione africana, Fanon giunge a concepire precocemente la necessaria transitorietà del nazionalismo terzomondista, e auspica il collasso dello Stato postcoloniale come antidoto alla palingenesi del dominio coloniale sui soggetti subalterni (Mellino 2006: 11). Fanon, in fondo, anticipa quella che sarà la critica alla teoria dei due passi delle avanguardie del movimento del Sessantotto nei confronti dei partiti marxisti europei occidentali e orientali (Arrighi, Frank e Wallerstein 1992). In quest’ottica, dunque, è evidente come la destabilizzazione del marxismo europeo muova dalle ex colonie verso la metropoli e si snodi lungo la faglia coloniale che attraversa i movimenti antisistemici nati negli anni Sessanta. Come argomentato da Robert Young, a partire dalla conferenza Tricontinentale de L’Havana, l’esperienza delle lotte anticoloniali entra in contatto con i discorsi di dissidenza prodotti in Occidente. Il foquismo di Guevara, come tattica di guerriglia, ispira non solo altri movimenti di guerriglia nel Terzo Mondo, finanche le strategie intellettuali e discorsive dei gruppi radicali in occidente (Young 2007: 36, 52). La teoria occidentale che impara dai movimenti nel Terzo Mondo è l’immagine che ne deriva: un’immagine familiare per la sinistra europea, quella in cui l’esperienza delle lotte anticoloniali suggerisce ai movimenti antisistemici occidentali e ai suoi teorici nuove forme di elaborazione concettuale che si spingono oltre l’ortodossia marxista, compresa quella sovietica. Ma il rapporto tra teoria e prassi, così spazializzato nello scenario globale, finisce col riprodurre in fondo una gerarchia intellettuale in cui la teoria viene a essere immaginata come una prerogativa dell’Occidente, mentre la prassi come la caratteristica saliente dei movimenti antisistemici del Terzo Mondo. 42 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 43 Va qui riaffermato che, al contrario, proprio figure come Franz Fanon e Ernesto Guevara mettono in crisi questa gerarchia tacita. La loro è a tutti gli effetti un’irruzione nel tempio della razionalità dell’uomo europeo: la teoria. A Fanon si è già accennato. Torniamo a Cuba, nel 1966. A margine dei lavori della Tricontinentale, Guevara scriveva i suoi Apuntes críticos a la economía política. In essi, raccolti lungo diversi anni per essere infine pubblicati nel 2006, egli sottopone a scrutinio severo i dogmi del marxismo, confutandoli senza timori reverenziali al cospetto della realtà storica del mondo coloniale rispetto a cui sia Marx che Lenin mostravano i propri limiti di conoscenza, d’interpertazione, di comprensione. Il grimaldello con cui Guevara scardina la rigidità delle categorie marxiste è l’introduzione metodica della differenza storica che si evidenzia ovunque nelle specificità del mondo coloniale. La sua costruzione critica non procede in modo dialettico. Per usare la formula che esattamente negli stessi anni Deleuze andava enucleando, si tratta di «una differenza senza negazione, poiché la differenza, non essendo subordinata all’identico, non arriverebbe o non avrebbe bisogno di giungere sino all’opposizione e alla contraddizione»8. La sua costruzione critica procede per mezzo di successivi spostamenti dell’angolo visuale, quegli spiazzamenti cui la critica postcoloniale ci ha allenati. Pur collocandosi all’interno dell’orizzonte del terzomondismo, la forma non sistematica e frammentaria in cui gli Apuntes sono redatti, più che costituire un cluster di sillogismi più o meno reciprocamente corroboranti, risulta gravida d’innumerevoli squarci nella riflessione sul capitalismo globale e sulle modalità del suo funzionamento nei contesti extraoccidentali e su quelle che possiamo leggere come le molteplici figure della subalternità. In questo senso, il passaggio dall’anticolonialismo come orizzonte al postcolonialismo come prospettiva va inteso in termini di superamento non dialettico delle scorciatoie di matrice struttural-funzionalista che ipotecavano sin dall’inizio il futuro del terzomondismo. Queste scorciatoie, quali “sviluppo ineguale”, “dipendenza” e “neo-colonialismo”, hanno fallito nel condurre lo sguardo dei progetti di liberazione oltre l’orizzonte novecentesco del mito storiografico della superiorità europea, incarnata dal mito dello sviluppo nazionale e dalle scienze sociali erette intorno a questo mito (Mezzadra 2008: 30). Questo superamento non dialettico non si limita all’esercizio linguistico dell’antiessenzialismo, ma guarda costantemente alle forme storicamente determinate del conflitto tra egemonia e subalternità. In esso risiede il contributo complessivo del postcolonialismo e delle sue declinazioni territoriali che ci accingiamo a esplorare. Al di là dell’elaborazione di strumenti concettuali altri rispetto a quelli che hanno costituito il sostegno ideologico dell’eurocentrismo, il postcolonialismo si concretizza politicamente nella neutralizzazione del terzomondismo e dei suoi avatar. 8 La prima edizione francese di Differenza e ripetizione è infatti del 1968. 43 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 44 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 45 SECONDA PARTE ALLE RADICI DEGLI STUDI SUBALTERNI A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 46 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 47 Mistero non è ciò che può essere deliberatamente nascosto, ma, piuttosto, il fatto che il gamut del possibile è sempre in grado di sorprenderci. E ciò difficilmente può essere rappresentato. I contadini non presentano documenti come fanno le personalità urbane. E ciò non perché siano “semplici” o più sinceri o meno astuti; semplicemente, lo spazio che separa ciò che è sconosciuto di una persona da ciò che tutto il mondo sa di lui – e questo è lo spazio di ogni rappresentazione – è estremamente angusto. John Berger The Shape of a Pocket A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 48 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 49 Indian Subaltern Studies. Per una storiografia antielitaria In diversi saggi apparsi negli ultimi venti anni, alcuni degli studiosi più rappresentativi del Subaltern Studies Group hanno fornito delle autobiografie collettive, descrivendo il proprio lavoro, il dibattito nel quale presero posizione e le innovazioni che ne derivarono (Guha e Spivak 2002; Chakrabarty 2000; Chaturvedi 2000). Alcuni di essi ne hanno successivamente criticato gli approdi (O’Hanlon 1988; Bahl 1997; Bahl e Callahan 1998; Sarkar 1997). Altri, esterni al gruppo e provenienti da altre aree dell’ex Terzo Mondo, ne hanno riconosciuto l’efficacia al di là e al di fuori del contesto indiano e, al tempo stesso, ne hanno evidenziato alcuni limiti (Beverley e Oviedo 1995; Lal 2001). Tuttavia, alcuni elementi emergono come centrali a proposito del dibattito sul nazionalismo indiano degli anni Settanta. Tutte le ricostruzioni di quel periodo descrivono la situazione in cui lo stato-nazione indiano versava come caratterizzata da una forte crisi sia economica che istituzionale. L’accentuazione delle disuguaglianze socio-economiche interne al paese e la delusione nei confronti dell’élite nazionalista, che aveva fatto della lotta di liberazione il principale collante nazionale tra gruppi sociali profondamente eterogenei, sembravano minare progressivamente la legittimità del ceto dirigente agli occhi della popolazione. Il governo di Indira Gandhi, nonostante la crisi finanziaria internazionale del 1973, proseguì sulla strada delle politiche di sviluppo intraprese da Nehru, che avevano prodotto, nei decenni immediatamente precedenti, una sensibile industrializzazione del paese. Il consenso della classe politica intorno alla pianificazione macroeconomica, e dell’élite intellettuale intorno al marxismo ortodosso e alle teorie della dipendenza, consentiva al ceto dirigente d’imputare le disfunzioni e le sperequazioni interne allo stato ai meccanismi perversi del commercio internazionale. Nel 1975, il governo dichiarò lo stato d’emergenza in risposta alla decisione della Corte Suprema di invalidare la rielezione di Indira Gandhi in seguito all’accertamento di alcune irregolarità nello svolgimento delle consultazioni elettorali e avviò contestualmente una dura repressione militare nei confronti dei movimenti di opposizione armati, principalmente contro quelli di ispirazione maoista; allo stesso tempo, sia attraverso appelli populistici all’unità del paese sia attraverso strategie di riallocazione delle risorse politiche per mezzo di relazioni clientelari, l’élite tentava di riaffermare la propria legittimità (Chakrabarty 2000: 11; Prakash 1994: 1476). Tra gli intellettuali marxisti aumentavano le tensioni e le perplessità rispetto alla situazione politica. Alcuni ricordavano come già in occasione della guerra indo-cinese (19621963) il governo Nehru avesse strumentalizzato la retorica dell’unità per opporsi alla diffusione dei movimenti di opposizione di ispirazione maoista, posponendo le istanze di democratizzazione provenienti dal basso; eppure, nel complesso, la complicità degl’intellettuali marxisti nell’elaborazione di un discorso nazionalistico dai toni trionfalistici aveva fatto dubitare fortemente della loro autonomia dall’Indian National Congress (Bahl e Callahan 1998: 87). Come afferma lo stesso Chakrabarty: 49 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 50 La persistenza del conflitto religioso e di classe in India dopo l’indipendenza; la guerra indo-cinese nel 1962, che fece sembrare falso il nazionalismo ufficiale, alla fine fece invaghire molti giovani urbani e acculturati per il maoismo; l’esplodere di un movimento politico violento (noto come movimento nassalita), che portò molti giovani nelle aree rurali durante gli anni Sessanta e Settanta. Tutti questi fattori, e molti altri, contribuirono ad alienare i giovani storici dagli slogan della storiografia nazionalista1. Il dibattito storiografico sul nazionalismo indiano forniva infatti le coordinate entro cui gli studi subalterni presero posizione, ovvero il contesto intellettuale nel quale emersero2. Tale dibattito aveva dato luogo a un duro scontro ideologico, ancora in atto negli anni Settanta, che ruotava intorno alla relazione tra il dominio inglese e il movimento di liberazione nazionale, e che opponeva la storiografia marxista indiana a quella imperiale britannica. Questo dibattito rifletteva le tensioni generate dalla volontà di una parte della comunità accademica nazionale di procedere a una decolonizzazione della storia dello stato-nazione indiano. In questo dibattito, il marxismo era mobilitato in opposizione alla storiografia di matrice imperiale e a sostegno della narrazione incentrata sulla funzione emancipatrice del nazionalismo indiano (Chakrabarty 2000: 11). Già all’indomani dell’indipendenza, lo storico marxista A.R. Desai, sulla base dello studio delle forme di organizzazione economica del subcontinente nell’epoca precoloniale, aveva argomentato che un’India unita, indipendente e con un’economia socialista sarebbe stata in grado di superare le crisi e i problemi che aveva ereditato dal colonialismo (Desai 1949). Retrospettivamente appare evidente l’utilità politica immediata di una simile tesi che imputava le difficoltà dei primi anni postindipendenza alla gestione coloniale e suggeriva di differire la possibilità di valutare l’operato dell’élite nazionalista indiana alla conclusione di un ciclo di governo significativo quantomeno in termini temporali; ciononostante questo studio aprì la strada a una serie di riflessioni ulteriori che muovevano dalla sua plausibilià come ipotesi da verificare. Alla fine degli anni Sessanta infatti, il programma di ricerca dell’economista neosmithiano Morris Davis Morris, avviato oltre un decennio prima, era giunto a sollevare diversi dubbi sugli effettivi benefici socio-economici che il dominio inglese si supponeva avesse prodotto nel subcontinente indiano. Sulla base di una complessa analisi multivariata delle relazioni tra tasso di crescita della produttività marginale dei fattori terra e lavoro, dei livelli di incremento demografico, delle trasformazioni quantitative delle unioni matrimoniali, dell’apporto calorico differenziale per fasce diverse della popolazione di alcune regioni storicamente, etnicamente e geo-morfologicamente diverse dell’India, egli sostenne che i sistemi di gestione delle risorse e di organizzazione sociale che il lessico delle teorie della modernizzazione (allora in auge) denominava premoderne, garantivano maggiori opportunità di sussistenza e di benessere di quanto non si fossero dimostrate capaci di fare storicamente i sistemi imposti dai colonizzatori (Morris 1969). Da un versante differente del dibattito sugli esiti del colonialismo in India, negli anni Settanta, l’antropologia storica di Bernard S. Cohn si era interessata ai processi di costruzione identitaria 1 Chakrabarty 2002: 6-7. Secondo la definizione metodologica fornita da Skinner «La rilevante nozione di contesto è una delle più complesse, ma possiamo mettere facilmente in luce il suo aspetto principale, il fatto cioè che tutti gli enunciati proferiti consapevolmente sono intesi come atti comunicativi. Per cui, come ha sempre sottolineato Austin, essi si manifestano o come atti di carattere convenzionalmente riconoscibile o ancora più diffusamente nella forma di interventi riconoscibili in quella che Austin chiama situazione linguistica totale. […] I tipi di enunciati in esame non possono essere visti semplicemente come serie di proposizioni; devono essere sempre visti allo stesso tempo come argomentazioni. Argomentare significa sempre argomentare a favore o contro un certo assunto, o punto di vista, o azione. […] In altri termini, se vogliamo comprendere una proposizione dobbiamo comprendere perché essa è stata avanzata. Non dobbiamo considerarla semplicemente come una proposizione, ma come una mossa in una discussione, riscoprirne i presupposti e i propositi che ne hanno guidato il compimento» (Skinner 2001: 138-139). 2 50 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 51 di gruppi musulmani e indù nell’India coloniale, con l’obbiettivo di valutare l’impatto della dimensione religiosa e culturale sulla formazione delle loro identità collettive. Una delle tesi di maggior rilievo cui Cohn giunse a partire dalle analisi di piccolo e medio raggio che aveva condotto, fu quella secondo la quale il conflitto tra indù e musulmani che aveva avuto come esito la formazione di due stati-nazione distinti, India e Pakistan, fosse stato determinato in modo profondo dalle politiche di indirect rule britanniche, a causa delle quali le differenze etnico-religiose erano state artificiosamente enfatizzate per mezzo del divide et impera coloniale, piuttosto che derivare da un più generale assetto socio-culturale proprio dell’Asia meridionale (Cohn 1998). Nella tradizione storiografica imperiale, viceversa, il dominio britannico veniva dipinto come il principale enzima del processo di unificazione politica del subcontinente, avendo introdotto un insieme di leggi codificate, istituzioni di governo, infrastrutture sanitarie di base, e avendo dato avvio all’industrializzazione. Gli storici della Cambridge School, che pure avevano rivoluzionato l’approccio metodologico alla storia delle idee enfatizzando la necessità di situare le fonti nello spazio e nel tempo, erano i principali fautori della tesi, seppur declinata con diversi accenti da studiosi di altro orientamento, secondo la quale l’India non sarebbe stata mai capace di incamminarsi autonomamente lungo il tragitto della modernizzazione poiché le strutture politiche ed economiche che caratterizzano tale processo erano totalmente estranee alla cultura e alle forme di organizzazione indigene. Questa posizione si articolava in una specifica argomentazione circa la natura del nazionalismo indiano: l’indipendenza, si sosteneva, andava letta esclusivamente nell’ottica delle lotte interne alle élite indiane, piuttosto che in quella della coscienza popolare del proprio diritto di autodeterminazione. Secondo Anil Seal, principale esponente di questa prospettiva, il nazionalismo indiano era l’esito retorico dell’elaborazione del discorso politico di una ristretta élite locale, educata nelle istituzioni accademiche fondate dagli inglesi, abile nell’estendere progressivamente il proprio potere su scala nazionale, in virtù di una strategia di collaborazione e di competizione con il colonizzatore. Essi presentavano la loro lettura come antiidealistica, poiché concentrata sugli “interessi” di singoli attori o ristretti gruppi di attori da ambo le parti, indiana e britannica. Secondo questi storici, l’interesse inglese ad alleggerire gli oneri finanziari per la gestione dell’apparato amministrativo, burocratico e militare della colonia, piuttosto che un’altruistica lungimiranza, aveva imposto la necessità di includere membri dei gruppi sociali indigeni maggiormente influenti all’interno delle istituzioni di governo. Oppure, specularmente, la penetrazione dello Stato coloniale all’interno delle strutture di potere indigene era stata agevolata dal mutuo vantaggio che sia il raj che le élite locali potevano trarre da una simile interferenza vicendevole (Seal 1968). Questa tesi fu ulteriormente sostenuta, estesa e approfondita successivamente dallo stesso Seal e da John Gallagher, i quali, insieme agli studiosi coinvolti nel loro programma di ricerca storiografica, sottolinearono come, nel processo di decolonizzazione e di formazione del ceto dirigente del nascente stato indiano, l’appello agli ideali di libertà e indipendenza dal dominio britannico fosse strettamente strumentale all’estensione e al radicamento del potere delle nuove élite nazionali nella complessa costellazione socio-culturale del subcontinente. In altre parole, la spinta idealistica del movimento di liberazione non era che un epifenomeno delle lotte interne al ceto dirigente indiano, costretto a operare in uno spazio residuale, seppur crescente, rispetto al potere britannico. Lo spazio della politica indiana si estendeva dunque entro un ristretto margine di possibilità e si sviluppava lungo le strutture di casta, in termini orizzontali, da cui derivava un sistema di distribuzione per linee verticali che si affidava alle reti di lignaggio (Gallagher e Seal 1973). A questa immagine, che sfidava dal versante conservatore il mito nazionalistico indiano, si opponeva con forza quella elaborata dagli studiosi, per lo più marxisti, che avevano preso parte in prima persona al movimento per l’indipendenza e che leggevano nel nazionalismo la principale forza di liberazione dal giogo coloniale (Guha 1997: 13). Bipan Chandra, professore alla prestigiosa Jawaharlal Nehru University, applicando le teorie della dependencia latinoamericane ai problemi dello sviluppo indiano, sosteneva infatti che il colonialismo era stato la causa dell’arretratezza economica dell’India e che gli insuccessi della pianificazione macroeconomica 51 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 52 erano dei parziali successi le cui lacune erano esternamente determinate dalle condizioni sfavorevoli assicurate dal funzionamento complessivo dell’economia mondiale. A questa maggiore preoccupazione per le ripercussioni presenti del percorso storico dell’indipendenza indiana dal punto di vista strutturale, in termini marxisti, corrispondeva altresì una spiegazione tendenzialmente sovrastrutturalista del processo di unificazione nazionale e di decolonizzazione. Secondo Chandra, il motore di tale processo andava individuato nella mobilitazione delle forze sociali contro il dominio inglese: sotto la guida di Gandhi e Nehru, il popolo indiano si era riconosciuto per la prima volta come un soggetto collettivo. Pertanto, era sul terreno ideologico che lo scontro per il potere aveva avuto luogo a dispetto delle altre divisioni interne di classe, di casta o di religione; il conflitto centrale della storia contemporanea del subcontinente era quello tra una identità nazionale indiana e l’imperialismo britannico. Può apparire singolare che gli epigoni del materialismo storico in India avallassero posizioni teoriche maggiormente “sovrastrutturali” di quanto in fin dei conti non facessero i loro avversari intellettuali di ispirazione dichiaratamente liberale. Eppure l’enfasi di Chandra sulla dimensione ideologica, idealistica secondo Seal, del nazionalismo indiano si adattava maggiormente alle condizioni storiche dello stato-nazione indiano e in generale a quelle del Terzo Mondo nel secondo dopoguerra. La limitata e contraddittoria affermazione dei processi di urbanizzazione e industrializzazione veniva interpretata in termini di immaturità dello sviluppo delle forze sociali capitalistiche, secondo le categorie analitiche proprie di una lettura orgogliosamente produttivista del marxismo, e veniva teorizzata come una condizione costantemente riprodotta dallo sviluppo stesso del capitalismo in quanto sistema mondiale. Secondo Chandra, la storia dell’India coloniale era stata il teatro di una battaglia epica tra la modernizzazione incarnata dal nazionalismo contro l’arretratezza imposta dal colonialismo, dal momento che quest’ultimo rappresentava un ostacolo al processo di sviluppo delle forze produttive, il cui dispiegarsi era stato nuovamente garantito dall’intervento dell’élite che aveva portato a termine il processo di decolonizzazione (Chandra 1979). È evidente il ruolo giocato dal coinvolgimento in prima persona nelle mobilitazioni per l’indipendenza di studiosi come Chandra, per i quali la tesi della mancanza assoluta di una dimensione idelogico-volontaristica nel discorso sul nazionalismo indiano non era assolutamente plausibile. E viceversa, l’immagine dell’epopea del popolo indiano unito contro l’invasore vacillava in seguito a nuovi contributi storiografici che apparvero proprio alla fine degli anni Settanta. Nuove ricerche relative alle modalità di coinvolgimento e partecipazione dei contadini e dei lavoratori urbani nel progetto di liberazione nazionale gettavano luce su specifiche zone d’ombra. Alcune indagini sulla mobilitazione di massa del movimento gandhiano degli anni Venti e Trenta del XX secolo suggerivano addirittura l’esistenza di una componente reazionaria nel principale partito nazionalista, l’Indian National Congress. Diversi studi testimoniavano l’uso della “mano pesante” nei confronti di operai e contadini che, protestando contro l’oppressione ai loro danni perpetrata non solo dai britannici, ma dagli stessi nazionalisti, andavano oltre i limiti autoimposti dall’agenda politica nazionalista del partito. Alcuni dei giovani ricercatori che firmarono questi studi lavoravano in Inghilterra, Gyanera Pandey a Oxford, David Hardiman e David Arnold alla University of Sussex, altri in Australia e a New Delhi (Arnold 1977; Pandey 1978; Hardiman 1981; Chakrabarty 2002: 6). Fu in questo fermento che Ranajit Guha diede vita all’Indian Subaltern Studies Group. Il suo pensiero è l’elemento centrale nell’elaborazione della prospettiva degli studi subalterni, dal momento che fornì le linee d’indagine prevalenti all’interno dell’Indian Subaltern Studies Group3. Il suo lavoro più importante, fino ad allora, era stato A Rule of Property for Bengal. An A differenza di Skinner e Pocock, Marc Bevir ha sostenuto la rilevanza dei singoli pensatori in relazione all’innovazione concettuale e alle trasformazioni del discorso. Per Skinner invece «non vi è alcun dubbio che in base al [suo] approccio l’attenzione principale è riservata al discorso generale e non ai singoli autori. Il tipo storico che [Skinner 3 52 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 53 Essay on the Idea of Permanent Settlement, uno studio sulle relazioni tra la concezione della proprietà privata propria dell’élite bengalese nel XIX secolo e il sistema di licenze e di gestione delle rimesse agricole nel Bengala coloniale, nel quale egli sottolineava la stretta correlazione tra la storia delle idee e l’economia politica nella definizione dei sistemi di contrattazione relativi all’utilizzo della terra (Guha 1963). Guha riunì in un unico gruppo di ricerca alcuni giovani storici, tra cui Partha Chatterjee, Gyanendra Pandey, Shahid Amin, David Arnold, David Hardiman e Dipesh Chakrabarty, il cui lavoro venne pubblicato per la prima volta in due volumi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Secondo Guha, entrambe le tradizioni storiografiche, imperiale e marxista-nazionalista, erano elitarie. Se la Cambridge School escludeva dal quadro l’elemento della partecipazione popolare, i marxisti la leggevano soltanto in termini di rapporti di classe e le loro tesi risultavano inefficaci nel considerare rapporti clientelari, di casta o religiosi. Ciò che ambedue le narrazioni colpevolmente escludevano era non solo il ruolo determinante delle masse popolari nel raggiungimento dell’indipendenza, ma la coscienza che esse avevano della propria partecipazione al progetto nazionalista. Guha si proponeva invece di rinvenire e testimoniare le tracce di un agire autonomo, non riducibile completamente alla volontà di un ceto dirigente in formazione, indipendentemente dalla natura del rapporto di quest’ultimo con il dominio coloniale (Guha 1982: 3 e ss.). Guha adoperò il concetto di subalterno in modo tale da individuare un campo semantico quanto più inclusivo possibile, collocandovi «tutti i gruppi subordinati per ragioni storiche, classe, genere, cultura, lingua e religione», oppure, in maniera ancor più provocatoria, definendolo come «la differenza demografica tra la popolazione indiana totale e l’élite dominante indigena e straniera» (Guha cit. in Chakrabarty 2000b: 15; Guha 1983a: 41). Ma nel cantiere di idee aperto da Gramsci negli anni della sua prigionia, ciò che allo storico indiano apparve particolarmente adatto a interpretare la morfologia del potere postcoloniale nel subcontinente fu la teoria del rapporto tra dominatori e dominati4. Secondo Gramsci, in estrema sintesi, i gruppi subalterni interagiscono con le formazioni politiche dominanti in modo da influenzarne le decisioni e tale processo genera delle trasformazioni in entrambe le soggettività, subalterna e dominante. Ma è proprio nella dialettica con il potere che la stessa identità subalterna, altrimenti “frammentaria per definizione”, si costituisce come soggetto collettivo (Gramsci 1966: 123). Per Guha, nell’India coloniale, non solo i gruppi subalterni intervenivano indirettamente nelle scelte delle élite e sviluppavano le proprie strategie di collaborazione e resistenza, ma operavano simultaneamente in uno spazio politico autonomo rispetto allo spazio politico delle formazioni dominanti, anzi, era proprio nell’atto del sottrarsi all’interazione con il potere che i gruppi subalterni salvaguardavano la propria indipendenza d’azione e di pensiero, la loro essenziale alterità (Mellon 1994: 1495). Questa alterità si esprimeva in forme che risultavano problematiche dal punto di vista analitico anche per le spiegazioni di tipo marxista, sebbene queste ultime si dichiarassero dalla parte delle classi meno abbienti. Il mito organizzatore della transizione dal feudalesimo al capitalismo ne imprigionava le argomentazioni entro uno schema interpretativo nel quale il sistema delle caste, la religione, i costumi tradizionali, e altri sistemi normativi non trovavano spazio se non in quanto forme arcaiche residuali, testimonianze di un passato destinato a estinguersi con il graduale ma inesorabile cammino lungo la via della modernizzazione. Secondo Guha, la sto- cerca] di descrivere studia principalmente ciò che Pocock chiama “linguaggi” del dibattito, e solo secondariamente la relazione tra contributi individuali a questi linguaggi e l’insieme del discorso nel suo complesso» (Skinner 2001: 142-143). Si vedano anche Bevir 1999: 31-78, Bevir 1997 e 2000. 4 Per un’analisi dettagliata e critica del rapporto tra Gramsci e le teorie postcoloniali si vedano Brennan 2000 e 2001. 53 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 54 riografia dell’India coloniale non era colpevole di aver negletto spazi di indagine storica, ma di averne effettivamente negato l’esistenza per mezzo di una visione complessiva della storia imbevuta del mito del progresso, rispetto al quale le élite rappresentavano l’avamposto morale, politico e culturale dell’intera società. Questa conformazione caratteristica del rapporto tra l’organizzazione del potere statale e la politica delle classi subalterne in India era stata colpevolmente sottovalutata da ambedue le storiografie verso cui egli rivolgeva la propria critica. Ma proprio a causa del nesso funzionale tra discorso storiografico nazionalista, sebbene antiimperiale, e la legittimità del ceto dirigente indiano emerso dalla lotta d’indipendenza, la critica di Guha e dei suoi giovani collaboratori si faceva ancor più incisiva allorché sottolineava la faziosità di tale elaborazione, in virtù della quale, escludendo la possibilità di una partecipazione popolare consapevole e relativamente autonoma, la storia del nazionalismo non produceva altro che una sorta di biografia intellettuale dell’élite indiana (Guha e Spivak 2002: 33). La storiografia sul nazionalismo leggeva il rapporto tra élite indigena e popolo indiano esclusivamente secondo due modalità complementari: in un caso «l’articolazione di massa del nazionalismo indiano viene presa in considerazione in termini negativi, come un problema di ordine pubblico, nell’altro caso, in termini positivi, come risposta al carisma di determinati leader provenienti dall’élite» (Guha e Spivak 2002: 34). Ciò che è lasciato inevitabilmente fuori da questa storiografia “non-storica”, continuava Guha, è la politica del popolo. Accanto allo spazio della politica delle élite era esistito, durante tutto il periodo coloniale, un altro spazio della politica indiana, nel quale gli attori principali non erano i gruppi dominanti della società indigena, ma le classi e i gruppi subalterni che costituivano la grande massa della popolazione lavoratrice e gli strati intermedi nelle città e nelle campagne, ovvero il popolo. Si trattava di uno spazio autonomo, la cui esistenza non era effetto della politica delle élite e che non dipendeva da essa5. Questa negligenza originaria, prosegue Guha, ha avuto come ripercussione un particolare approccio per mezzo del quale la storiografia indiana ha guardato alle mobilitazioni popolari nell’India coloniale. Secondo questo approccio, tali mobilitazioni si organizzavano intorno a due sistemi di relazioni connessi ma distinti, di cui soltanto il primo era stato oggetto, quantomeno fino a quel momento, di analisi storico-sociale. Un primo sistema, verticale, metteva le classi subalterne a contatto con la politica delle élite; l’altro, orizzontale, ricalcava vincoli di natura tribale, di parentela e culturali secondo schemi tradizionali, nel senso storico specifico di pre-coloniali. Ed è a questo vastissimo quanto inesplorato territorio che il progetto Subaltern Studies guardava ed è in direzione di tale obbiettivo che l’intero programma di ricerca venne articolato6. 5 Guha e Spivak 2002: 35. Riprendiamo il concetto di programma di ricerca da Imre Lakatos. Secondo Lakatos i “programmi di ricerca” si edificano sulla base di un nocciolo ritenuto infalsificabile (o “euristica negativa”) che non va considerato come esterno alle teorie e concettualizzato dunque in termini di riferimento normativo esogeno, ma invece come nucleo centrale interno alla teoria stessa. In polemica con Popper, Lakatos assegna una funzione storica ancorché logica a tale nucleo, vale a dire quella di evitare l’immediata falsificazione che rischierebbe di far morire la prospettiva emergente di una sorta di “malattia infantile” prima ancora di avere potuto esprimere la sua produttività (Lakatos 1978). 6 54 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 55 La rivolta contadina da oggetto di ricerca a paradigma dell’agire subalterno Come afferma Partha Chatterjee, il problema preliminare consisteva nell’individuare quei momenti, quegli eventi nel corso dei quali la coscienza dei subalterni assumeva una forma collettiva e diveniva visibile, dunque riconoscibile, documentabile e analizzabile (Chatterjee 2006). In altre parole quegli eventi in cui, nel lessico gramsciano, la frammentarietà intrinseca della coscienza delle classi subalterne veniva sospesa, seppur transitoriamente, per esprimere la propria opposizione e resistenza al dominio e allo sfruttamento, prima di scomporsi repentinamente e sottrarsi nuovamente alla possibilità stessa di essere registrata e codificata nella forma mediata del documento ufficiale redatto dalle autorità coloniali. Questa strategia investigativa ricalcava di fatto quella che aveva guidato in precedenza gli studi di Eric Hobsbawm sui “ribelli primitivi”1. Secondo Guha, infatti L’orientamento della mobilitazione dell’élite tendeva a essere più legalista e costituzionalista, mentre la mobilitazione dei subalterni era relativamente più violenta. La prima era, nell’insieme, più cauta e controllata, la seconda più spontanea. Nel periodo coloniale la forma più generale della mobilitazione popolare era quella delle sollevazioni contadine: e, d’altro canto, anche nelle molte occasioni storiche in cui sono state coinvolte grandi masse di lavoratori e di membri della piccola borghesia nelle aree urbane, la forma di mobilitazione derivava direttamente dal paradigma della rivolta contadina2. Posto in questi termini, il problema storiografico dell’articolazione di massa del nazionalismo indiano viene ricondotto all’analisi delle ragioni della sollevazione delle masse rurali, dal punto di vista delle classi subalterne3. In questo modo, Guha tenta di sottolineare una specificità latu sensu antropologica della mobilitazione contadina rispetto a quella “dell’élite”, in virtù della quale poter sganciare la sfera della politica dei subalterni da quella delle élite indigene e ricavarne un ambito di studio distinto, che pertanto necessita dell’elaborazione di strumenti euristici differenti da quelli fino ad allora adoperati4. La tesi dell’esistenza di uno spazio autonomo dell’agire dei su1 Lo stesso Hobsbawm era giunto a individuare nel fenomeno del banditismo una forma di mobilitazione direttamente collegata ai movimenti sociali in cui si esprimevano le istanze delle classi subalterne, e a considerare siffatti fenomeni come spiragli attraverso i quali indagare le pratiche dei subalterni stessi (cfr. Hobsbawm 1972). 2 Guha e Spivak 2002: 36. Va notato che questa posizione diverge dalla tesi di James Scott a proposito delle forme di opposizione al potere proprie dei contadini in Malesia e descritte nel famoso saggio intitolato Weapons of the Weak nel quale Scott considera tutta una serie di atti, dal furto ai danni dei ricchi, al perdurare di specifici momenti di ritualità collettiva come forme di resistenza (cfr. Scott 1985). 3 4 Nell’analizzare la storiografia dei Subaltern Studies indiani in termini di formazione discorsiva facciamo riferimento alla definizione generale fornita da Pocock, secondo cui per discorso s’intende «una struttura complessa che comprende un vocabolario, una grammatica e una retorica, nonché un insieme di assunti e implicazioni che esistono simulta- 55 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 56 balterni ha dato origine a varie critiche sia da parte di studiosi indiani che non indiani. Tali critiche, eterogenee e molteplici, tuttavia convergono sulla difficoltà intrinseca di separare in due ambiti distinti le mobilitazioni delle élite da quelle del popolo, e dunque di circoscrivere nettamente due spazi di ricerca autonomi l’uno dall’altro. Difficilmente schematizzabile risulta infatti la natura viscosa delle relazioni sociali e dei vincoli, strumentali o meno, che tessono la rete dei rapporti tra coloro, gruppi o singoli individui, che gestivano a più livelli il potere all’interno degli apparati dello Stato o nelle organizzazioni politiche e coloro i quali ne erano esclusi o ne subivano comunque gli effetti. A tal proposito, lo storico indiano Javeed Alam ha rilevato come la supposta esistenza di uno spazio autonomo della politica dei subalterni ponesse immediatamente un problema di ordine empirico, dal momento che nella miriade di documenti sulle numerosissime mobilitazioni contadine succedutesi nell’India coloniale, gli storici del Subaltern Studies Group sembravano decidere piuttosto arbitrariamente quali documenti costituissero testimonianze genuine di eventi tali da poter essere ritenuti autentici tentativi di rovesciamento dell’ordine coloniale, e che come tali eccedessero o superassero le forme proprie di quelle mobilitazioni la cui genesi veniva viceversa ricondotta alla coscienza delle élite locali (Alam 1983: 45-52). E d’altro canto, come ha sostenuto Das Gupta, proprio in quella dimensione intermedia tra i due estremi concepiti da Guha, espressi lungo l’asse concettuale egemonico/subalterno, si annidano processi di competizione, mediazione e scambio che testimoniano una estrema complessità e variabilità degli assetti organizzativi della gestione territoriale dello Stato e dei suoi apparati (Das Gupta 1986: 387-390). Tanto più se, come Binay Bhushan Chauduri, consideriamo approfonditamente il processo di radicalizzazione delle rivolte contadine nell’India degli anni Venti e Trenta del XX secolo, tema che gli stessi storici del Subaltern Studies Group affrontano a più riprese. Secondo Chauduri, infatti, il cambiamento nelle modalità espressive delle istanze di rivolta contadine sarebbe direttamente connesso all’accentuarsi e al diffondersi delle parole d’ordine e della retorica del movimento anticoloniale a livello nazionale e pertanto la reciproca interazione, senza dubbio asimmetrica in termini di potere relativo e assoluto, tra élite nazionaliste e masse rurali era stata connotata da una profonda integrazione politica a più livelli (Chauduri 1986: 393). E tuttavia, proprio accogliendo nel merito tali critiche grossomodo coeve all’elaborazione de, e al dibattito su, l’impostazione generale del programma di ricerca dei Subaltern Studies, possiamo interrogarci a proposito dell’insieme articolato di nessi che collega l’interesse storiografico per le sollevazioni contadine nel subcontinente indiano con il significato e gli esiti dell’opzione politica praticata negli anni Ottanta dai ricercatori dell’Indian Subaltern Studies Group di proporre una storiografia delle classi cosiddette subalterne. La definizione dell’oggetto di ricerca in questione (le rivolte contadine), pur seguendo procedure inferenziali capaci di assicurare, sul piano razionale, un grado di plausibilità tale sia da costituire la base per le successive elaborazioni teoriche (lo sviluppo di una metodologia di ricerca adeguata), sia da fornire un apparato logico-grammaticale che consentisse di difendere la propria posizione nel dibattito storiografico indiano e internazionale, si fondava su di una opzione preferenziale a favore di un insieme di gruppi sociali definiti appunto subalterni rispetto a una particolare strutturazione del potere5. Tale attribuzione derivava sostanzialmente da un principio (ideologico) in ultima istanza egualitario, nel senso di voler restituire pari dignità a soggetti collettivi cui la storiografia aveva assegnato un ruolo marginale. Pertanto tale opzione storiografica nasceva da un insieme articolato di neamente, che può essere adoperato da una comunità semi-specifica di utilizzatori-del-linguaggio (language-users) per fini politici, e che si estende talvolta fino ad articolarsi in una visione del mondo o in una ideologia» (Pocock 1996: 47). Si veda anche Pocock 1990. 5 Georg Iggers, riprendendo Peter Novick, ha posto la questione della plausibilità in termini di procedure metodologiche della ricerca: «La plausibilità ovviamente si fonda non sull’invenzione arbitraria di un resoconto storico ma piuttosto implica strategie razionali per determinare ciò che di fatto è plausibile» (Iggers 1997: 145). 56 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 57 spinte, il cui senso politico va ricercato nelle esigenze organizzative complesse e nelle motivazioni contingenti avvertite dagli studiosi che diedero vita ai Subaltern Studies6. I saggi di ricerca applicata riguardanti le rivolte contadine, contenuti nei primi cinque dei dodici volumi della collana Subaltern Studies, attraversano un arco temporale che va dall’ultima fase di espansione dell’impero Mogol (primo ventennio del XVII secolo) e giunge fino alle soglie degli anni Ottanta del Novecento. Il lavoro che arriva più indietro nel tempo è quello di Gautam Bhadra. Esso descrive una serie di mobilitazioni contadine che presero corpo all’estremo confine nordorientale dell’impero Mogol. Le prime di cui si hanno documenti risalgono al 1614 e corrispondono al processo di integrazione delle regioni periferiche del subcontinente all’interno del sistema politico imperiale precoloniale. Secondo Bhadra, le rivolte, che si susseguirono con una certa frequenza fino al 1621, erano causate dall’imposizione da parte dei Mogol del proprio sistema di organizzazione della produzione agricola sulle popolazioni rurali di quello che è oggi il distretto di Kamrup-Goalpara. Questo sistema tendeva all’estrazione del massimo valore possibile dall’uso della terra, anche per mezzo di prestazioni di lavoro coatto, laddove i sistemi che lo precedevano puntavano a livelli di sussistenza stabiliti secondo un complesso computo del fabbisogno annuo della popolazione di ciascun villaggio (Bhadra 1983: 57). Bhadra sottolinea come le ribellioni avvenute in quegli anni (per altro tutte represse) assunsero molteplici forme di organizzazione e coinvolsero strati di popolazione differenti per status sociale ed economico, piuttosto che riprodurre ogni volta la medesima dinamica di coinvolgimento e di mobilitazione. Secondo Bhadra, l’esplodere ripetuto di forme dissimili di rivolta contadina testimonierebbe l’incapacità dell’impero Mogol di integrare completamente le popolazioni rurali all’interno delle proprie strutture politiche ed economiche. In questa dialettica di potere asimmetrica, per i contadini e i loro capi la rivolta sarebbe risultata l’unico mezzo di opposizione all’intrusione dei Mogol nel loro spazio sociale: Queste rivolte, con tutte le loro variazioni, erano parte della tradizione generale della ribellione contro lo stato Mogol. In quest’area, le sollevazioni prese in esame segnarono anche l’inizio di una tradizione di resistenza contadina che verrà invocata più volte e sotto varie forme contro Mir Jumla, contro gli Ahomos durante la rivolta di Moamaria e contro il dominio britannico nel tardo XIX secolo7. Il saggio di Bhadra è tuttavia l’unico a occuparsi delle mobilitazioni contadine nell’India precoloniale, sebbene, nel discorso complessivo dei Subaltern Studies, esso svolga l’importante 6 L’ordine di questioni cui facciamo riferimento è stato oggetto di un ampio dibattito sul senso e sul valore dell’epistemologia cartesiana al di là del suo stretto significato filosofico ed è giunto a introdurre nuovi elementi nella definizione dei molteplici spazi in cui il discorso interviene e nelle cui tensioni a sua volta è immerso. Sotto il profilo storico, Popkin e Curley sono giunti ad affermare che Cartesio cercava in realtà di rispondere nello specifico alla sfida dello scetticismo pirroniano e suggerivano dunque che la forma, il significato e la retorica del suo discorso andavano letti sullo sfondo di in un dibattito differito con il filosofo greco. Sotto il profilo epistemologico, Aldo Gargani ha sostenuto che Cartesio, assumendo il modello grammaticale matematico come metodica di validazione delle asserzioni scientifiche, rimandasse alla volontà divina la possibile revocabilità dello statuto grammaticale dell’intera epistemologia: dal momento che non è concepibile qualcosa al di fuori della volontà di Dio - egli ha affermato allora anche la matematica così come l’ordine della natura derivano e dipendono sempre da un potere supremo, insindacabile e arbitrario. Il punto verso cui queste due prospettive convergono è che la genesi del discorso di Cartesio sulle modalità della conoscenza della realtà, desumibile per lo più da Le meditazioni, si colloca all’intersezione tra diversi ambiti: intellettuale, ideologico, religioso, epistemologico. O meglio, il suo lessico, il suo modello grammaticale e la sua retorica non rispondono a esigenze dettate esclusivamente da un ordine di questioni afferente a una sola di queste dimensioni, per quanto possa apparire manifesta e palese la prevalenza di una di esse dal punto di vista performativo, e dunque maggiormente suscettibile di essere analizzata secondo un modus explanandum del tipo causaeffetto (Curley 1979; Popkin 1995: 261-287). 7 Bhadra 1983: 59. 57 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 58 funzione di mettere in prospettiva le sollevazioni del periodo coloniale a partire da fenomeni riscontrabili anche nel periodo della dominazione Mogol. L’opposizione al dominio inglese sarebbe stata dunque anticipata da quella offerta alla penetrazione Mogol, e dunque, alla discontinuità rappresentata dalla diversa natura dei due imperi si opporrebbe la continuità costituita dall’opposizione dei contadini della regione; viceversa, alla continuità rappresentata dal succedersi di due sistemi di dominio maggiormente centralizzati e potenti dediti allo sfruttamento del territorio e delle risorse indigene (Mogol prima e britannico poi) si opporrebbe la discontinuità con cui l’istanza di resistere a tale dominio da parte delle popolazioni rurali si manifesterebbe entro forme divergenti e talvolta contraddittorie per fini, interessi e strategie8. Ma come interpretare questa dialettica tra potere e resistenza? Ciò che Bhadra delinea è un attrito tra uno spazio territoriale ed economico interno rurale e uno spazio esterno imperiale. E la medesima dicotomia fondamentale informa anche lo studio di David Arnold sui movimenti insurrezionali nelle zone collinari di Guden e Rampa in Andhra Pradesh tra il 1839 e il 1924. Arnold inscrive i processi di cambiamento che attraversano il tessuto sociale delle comunità montane da lui studiate secondo uno schema interpretativo che oppone, in prima istanza, un network di relazioni interno-collinare-indigeno a un network esteso esterno-della pianura-coloniale; e che, in seconda istanza, oppone invece i contadini alle élite locali. In virtù del primo tipo di dicotomia, le trasformazioni del network interno rispondono in modo attivo agli stimoli provenienti da quello esterno, sia in termini di mobilitazione collettiva che nelle modalità in cui i medesimi processi vengono percepiti e interpretati dai contadini da un lato e dall’élite coloniale dall’altro. Secondo questo schema duale, le dinamiche di modernizzazione, nel senso più tradizionale, cioè la costruzione di strade, l’aumento degli scambi commerciali, la progressiva burocratizzazione nella gestione del territorio, le politiche sanitarie coloniali, vengono lette dal punto di vista dei contadini (o presunto tale), nella cui prospettiva corrisponderebbero rispettivamente al disboscamento selvaggio e all’approvvigionamento di legname da inserire nelle filiere del commercio di lunga distanza, alla ristrutturazione eterodiretta dei sistemi produttivi locali, all’estensione e approfondimento del controllo delle risorse fondiarie da parte dello Stato, alla messa al bando delle pratiche mediche autoctone. In virtù del secondo tipo di dicotomia, invece, alla reiterata necessità, da parte dei contadini, di rispondere in modo collettivo alle diverse fasi di ristrutturazione del potere coloniale, corrisponde un atteggiamento ambivalente da parte delle élite locali nei confronti delle mobilitazioni e dei cambiamenti nell’assetto del dominio britannico. L’articolazione di questi processi viene tratteggiata dunque secondo uno schema evoluzionistico non-deterministico in cui le politiche coloniali e le mobilitazioni che vi si op8 Bhadra sottolinea in più passaggi la circostanza per cui a volte i capi dei villaggi si facevano promotori delle sollevazioni, mentre altre volte queste provenivano dai contadini stessi. La spontaneità di questa seconda modalità di insurrezione divideva spesso i capivillaggio sulla necessità di assecondare e guidare le sollevazioni oppure di farle rientrare. (Bhadra 1983: 45-48) Inoltre, su questa lettura delle dinamiche interne alle sollevazioni popolari concorda anche Gyan Pandey, nel suo studio sui conflitti tra indù e musulmani nati alla fine del XIX secolo nella regione Bhojipuri, nell’India settentrionale. Le tensioni tra questi due gruppi, che la maggior parte degli storici dell’India avevano concettualizzato per mezzo del termine communalism, vengono ricondotte da Pandey a dinamiche prettamente politiche, frutto dei conflitti sull’uso delle risorse agricole derivanti dall’atteggiamento ambiguo e strumentale degli inglesi nei confronti delle élite locali (Pandey 1983: 120-125). 9 Arnold sostiene ad esempio che «gli eventi di Rampa tra il 1840 e il 1848 seguirono l’espulsione degli ultimi eredi della famiglia di mansabdar locali [cariche eminenti della burocrazia dell’impero Mogol, nda] nel 1839-40» e vengono descritti come dei tentativi di restaurazione animati dai diretti sottoposti locali dei mansabdar, i costies, per ottenere i loro vecchi privilegi. In questo senso la prima fase delle sollevazioni popolari in quella zona sarebbe frutto degli scontri interni alle élite locali (Arnold 1982: 106, 140-142). Viceversa, «la costruzione di strade capaci di collegare le colline alla pianura fu una conseguenza immediata della rivolta di Rampa del 1879-80», dal momento che gli in- 58 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 59 pongono si influenzano vicendevolmente in termini di risposte adattive reciproche9. Ciò che Arnold intende dimostrare, sulla base della complessità e dell’eterogeneità delle rivolte contadine, è che la storiografia sulle rivolte nell’Andhra Pradesh si era soffermata colpevolmente, fino a quel momento, esclusivamente sugli anni Venti del XX secolo, poiché solo questa fase delle mobilitazioni faceva parte della narrazione del nazionalismo indiano. Questa negligenza non ci sorprende affatto. Essa indica non che c’era qualcosa di particolarmente oscuro o insignificante in queste fonti, circa la loro storia, ma piuttosto che c’è qualcosa di specificamente oscuro e insignificante nella storiografia sull’India moderna. La conoscenza accademica convenzionale sul subcontinente sottolinea (specialmente in opposizione alle intense rivolte contadine in Cina e alle rivoluzioni del XX secolo) elementi di fatalismo e passività, corruzione ed egoismo, rassegnazione di fronte alle avversità e all’oppressione10. È evidente come il bersaglio critico di Arnold non sia soltanto la storiografia imperiale, sia perché quest’ultima considera le rivolte come epifenomeni della più ampia mobilitazione indotta dalle lotte intestine tra le élite nazionaliste, sia perché l’analisi delle dinamiche insurrezionali condotta dallo storico indiano assegna un ruolo rilevante all’organizzazione dei processi materiali e di gestione delle risorse, così come nella tradizione del materialismo storico. Pertanto è proprio agli epigoni di quest’ultima che Arnold rimprovera un pregiudizio analitico, secondo il quale la mobilitazione dei contadini indiani aveva storicamente valore di una emancipazione solo ed esclusivamente nella misura in cui essa si esprimeva nelle forme delle organizzazioni politiche di massa modellate a immagine e somiglianza di quelle nate in Europa nel corso del XIX secolo e sotto la guida di una leadership nazionalista. Inoltre, la passività imputata alle classi subalterne indiane si offre a una lettura ulteriore. Essa svela infatti i referenti teorici impliciti di tale pregiudizio di cui risulta intrisa la storiografia indiana di ispirazione marxista, vale a dire quegli scritti di Karl Marx sull’India e la Cina che concorrono alla formazione del dibattuto e controverso concetto di modo asiatico di produzione. In questi articoli, infatti, Marx stesso sembra delineare i tratti caratteristici del popolo indiano e definirlo, proprio in termini comparativi rispetto al popolo cinese, come “naturalmente” remissivo e succube del potere qualunque siano le sembianze che esso ha assunto nel corso del tempo11 (Marx 1960: 107-118). In diversi passaggi dei suoi articoli sull’India (scritti negli anni Cinquanta e Sessanta), Marx, sia nell’intento di accentuare le tinte fosche della brutalità del dominio britannico, che viceversa per avvalorare la tesi del potere emancipatore dello sviluppo capitalistico in India, aveva descritto il popolo indiano come «incapace così di resistenza come di metamorfosi», se non grazie all’intervento inglese in virtù del quale «dagli indigeni istruiti a Calcutta con riluttanza e parsimonia sotto il controllo inglese, sta[va] nascendo una nuova classe terventi infrastrutturali venivano promossi come strumento privilegiato per stimolare il progresso economico e dunque avviare l’opera di civilizzazione e pacificazione dei contadini ribelli (Ivi, p. 109). A sua volta, però, tale sollevazione affondava le radici negli effetti collaterali delle subdole strategie di depauperamento subite dai contadini a opera di usurai e commercianti “esterni”, con la complicità dello Stato coloniale e dei suoi apparati. «I commercianti prestavano denaro ai contadini analfabeti in cambio di scritture private che specificavano una quantità di tamarindi da consegnare dopo il successivo raccolto. I contadini venivano indotti quasi sempre a garantire più di quanto avessero mai potuto raccogliere, e al momento della inadempienza i commercianti li minacciavano di citarli in giudizio innanzi alla corte. E siccome era più facile che un contadino entrasse nella tana di una tigre piuttosto che comparire innanzi alla corte di Rajahmundry, il commerciante otteneva facilmente il decreto di confisca dei suoi beni, ex parte, spesso anche per un valore superiore a quello stabilito nel contratto» (Ivi, p. 110). 10 Arnold 1982: 88. Per contro, il popolo cinese riceveva il plauso del pensatore tedesco per la fierezza mostrata contro gli inglesi in occasione delle guerre dell’Oppio e delle rivolte degli anni Cinquanta (Marx 1960: 37-39, 182-183). 11 59 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 60 dotata dei requisiti essenziali del governo e imbevuta di scienza europea» (Ivi, pp. 112-113). Ed è interessante notare come il discorso marxista-nazionalista si adattasse perfettamente a questa logica, considerando l’élite locale come avanguardia autoctona della lotta anticoloniale, istruita e socializzata, in quanto gruppo dirigente, alla scienza sociale della costruzione di uno stato-nazione moderno, che ricalcava il modello di quello occidentale. Nello spazio della politica indiana come dipinto dalla storiografia nazionalista marxista, «il nazionalismo», scriveva Bipan Chandra, «aveva aiutato il contadino a fare la sua comparsa nella storia e a fargli prendere coscienza dei suoi stessi bisogni e necessità, e soprattutto gli aveva conferito la possibilità di intervenire e agire attivamente nello sviluppo politico e sociale del paese» (Chandra 1979: 345). L’Indian National Congress rimaneva infatti il punto di riferimento per la maggior parte degli studi di Storia politica, i quali non si spingevano oltre il problema delle differenti caratterizzazioni locali delle attività del Congresso nelle regioni in cui si svilupparono le mobilitazioni tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del XX secolo. Nel suo originale saggio sulle sollevazioni degli abitanti delle aree forestali della regione himalayana del Kumuan, Ramachandra Guha critica questa lettura del processo di partecipazione delle popolazioni rurali alla lotta anticoloniale. Innanzitutto egli introduce un elemento ampiamente escluso dalle narrazioni intorno alle sollevazioni contro i britannici, vale a dire la questione ecologica del rapporto tra le popolazioni indigene contadine e l’ambiente che abitavano. La principale dimensione della lotta anticoloniale in quest’area, afferma invece lo storico indiano, consisteva proprio nell’opposizione delle popolazioni rurali alla sottrazione del legname da parte degli inglesi, dal momento che i primi concepivano la foresta come una risorsa nel suo valore complessivo di ecosistema, dal quale traevano tutti i mezzi necessari alla propria sopravvivenza e organizzazione sociale (Guha Ramachandra 1985: 55-58). Nell’economia complessiva di tale gestione, essi praticavano l’incendio rituale di parte della foresta una volta all’anno, sebbene la variabilità del tasso di precipitazioni annue nella regione si ripercuoteva con effetti molto diversi sulla superficie di foresta che tale pratica di fatto distruggeva di anno in anno. Questa pratica fu progressivamente osteggiata dall’amministrazione coloniale a partire dal 1893 fino a essere definitivamente vietata nel 1914, periodo nel quale si moltiplicarono gli arresti a carico dei contadini con l’accusa di piromania. Ramachandra Guha si sofferma su quello che può apparire come un paradosso, e cioè il fatto che l’amministrazione coloniale si trovasse schierata a difesa del territorio occupato dalla foresta e attaccato dai piromani indigeni. Ma la sua interpretazione evita altresì una spiegazione strettamente legata al concetto di interesse, alla quale soccombevano tutte le letture di ispirazione marxista dello stesso fenomeno: quest’ultima opponeva la volontà dei colonizzatori di preservare i propri interessi commerciali (il legno) al fanatismo mistico degli indigeni capaci di danneggiare anche irreversibilmente il proprio ecosistema pur di non rinunciare alle proprie tradizioni culturali. L’incendio della foresta, che fu l’espressione massima della violenza delle ribellioni delle popolazioni rurali del Kamaun britannico, assumeva, secondo Ramachandra Guha, un valore strettamente politico: Da un lato [l’incendio] rappresentava la rivendicazione di quei diritti di controllo del territorio esercitati tradizionalmente che erano stati fortemente limitati dallo Stato. Dall’altro, dal momento che le aree incendiate risultavano essere quasi esclusivamente ricoperte di Pino di Chir, evidenzia la specifica volontà di colpire deliberatamente gli interessi dei colonizzatori e di sfidarne direttamente il potere12. Questa considerazione tenta di scardinare una delle categorie centrali del discorso nazionalista Guha Ramachandra 1985: 89. Il Chir Pin (Pinus roxburghii. In italiano Pino di chir) è una varietà di pino dell’Himalaya da cui si ricavano oli essenziali utili come lubrificanti nell’industria meccanica o come base per prodotti cosmetici. 12 60 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 61 indiano, vale a dire l’adesione delle masse rurali alla dottrina gandhiana della non-violenza. Già nel suo studio sui ribelli delle aree collinari dell’Uttar Pradesh, ripreso da Ramachandra Guha, David Arnold aveva sottolineato che «per molti indiani la non-violenza doveva apparire non più che una sorta di tattica, repentinamente abbandonata in favore dell’azione violenta una volta che si fosse dimostrata inefficace»13. Così facendo, Arnold aveva aperto la strada all’ipotesi che i subalterni si “agganciassero” (hook up) al movimento nazionalista in modo occasionale piuttosto che abbracciarne in pieno le rivendicazioni e condividerne il programma generale. Ma l’intervento di Ramachandra Guha occupa un posto ancora più specifico nell’ecologia complessiva del discorso dei Subaltern Studies. In primo luogo, lo spazio della ribellione al potere coloniale viene esteso includendovi codici di azione sociale che si collocano al di là della griglia concettuale della partecipazione politica collettiva, ereditata dalle forme di organizzazione sociale proprie dell’Occidente e dello Stato-nazione ottocentesco14: le pratiche di ribellione delle popolazioni delle aree rurali himalayane non risultavano infatti riconducibili alla linea gandhiana pur non presentandosi sotto forma di rivolte armate. Inoltre, il movimento di liberazione nazionale è presente nel saggio solo in pochissimi passaggi e come un’eco lontana, filtrata per giunta dai discorsi di alcuni dei capivillaggio locali, i quali a loro volta manifestavano una sensibile diffidenza nei confronti della figura di Gandhi stesso (Ivi, p. 88). Secondo l’interpretazione proposta da Ramachandra Guha, le rivolte rispondevano a esigenze strettamente locali e principalmente materiali, che davano luogo a conflitti sull’utilizzo e la gestione delle risorse a disposizione, articolate nell’ambito di un immaginario culturale che attingeva alla religione e al misticismo di cui la vita contadina della regione era senza dubbio intrisa. E non potevano, né tanto meno dovevano, essere tradotte in un capitolo della “saga del gandhismo” (Ivi, pp. 82, 86). Proprio nel tentativo di mettere in crisi questa saga, gli storici dell’Indian Subaltern Studies Group studiarono le mobilitazioni in alcune delle aree rurali maggiormente coinvolte nel movimento di liberazione nazionale, e che proprio per questo erano state fino a quel momento oggetto di numerose ricostruzioni. Ma mentre la storiografia nazionalista aveva consacrato le rivolte nelle aree rurali a episodi esemplari della partecipazione consapevole dei contadini a un progetto politico unico di un popolo indiano, di cui aveva stabilito implicitamente un’ontologia storica in divenire, i Subaltern Studies avanzarono l’ipotesi di una relazione complessa e discontinua tra le mobilitazioni e il processo di decolonizzazione che culminò nella formazione di uno stato-nazione indipendente. Gyan Pandey si è occupato proprio delle modalità di coinvolgimento dell’Indian National Congress nel movimento contadino in Awadh15. Attraverso una dettagliata descrizione degli eventi che si succedettero negli anni tra il 1919 e il 1922, Pandey giunge a due conclusioni principali: la prima è che le rivolte in questione discendevano direttamente da quelle avute luogo nella medesima regione nel 1857 (Pandey 1982: 144); la seconda è che sia Gandhi che Nehru operarono affinché la componente maggiormente radicale del movimento fosse smobilitata, in 13 Arnold 1980: 98. Aggiungiamo che questa tesi è analoga alla conclusione cui giunge Michael Adas. Secondo Adas, la progressiva burocratizzazione dell’apparato statale coloniale generò dapprima un aumento di quelle forme di protesta legali da parte degli indigeni come le petizioni o le manifestazioni pubbliche, ma la crescente sfiducia in questi mezzi, a giudicare dai risultati che produsse, condusse sempre di più le popolazioni rurali a adottare la rivolta come unico mezzo di espressione del proprio malcontento. Se infatti i contadini erano soliti attribuire alla divinità malevola di Rakshas l’estensione eccessiva o l’incapacità di controllare gli incendi che essi stessi appiccavano, nel periodo considerato, quando cioè la pressione territoriale dell’amministrazione coloniale divenne per loro eccessivamente intrusiva, essi passarono a invocare l’intervento di Rakshas attribuendo a questa divinità la volontà di respingere gli intrusi occidentali fuori dalle foreste che essa abitava (Guha Ramachandra 1985: 100). 14 15 L’Awadh è uno stato nordorientale dell’India al confine con il Pakistan, annesso al dominio britannico nel 1856 e tra i cui abitanti gli inglesi reclutarono numerose milizie. 61 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 62 modo da ricondurre le sollevazioni contadine al movimento nazionalista, in nome dell’unità contro il colonizzatore britannico (Ivi, pp. 152-155). I discorsi di Gandhi sulla non-violenza, pronunciati in occasione delle rivolte in Awadh, vengono interpretati secondo un duplice codice: da un lato quello nazionalista di matrice occidentale-legalista; dall’altro quello dei contadini indigeni. Nel primo, Gandhi è un uomo politico, formatosi come giurista; nel secondo è un mahatma, un Pandit, un Brahman (Ivi, p. 166). In questo modo Pandey demarca due spazi distinti caratterizzati da due immaginari politici differenti tra i quali l’interazione possibile passa inevitabilmente attraverso una traduzione culturale che si muove a cavallo tra due mondi riconducibili, in ultima istanza, l’uno all’Occidente (nella forma del discorso politico nazionalista e legalista) e l’altro ai subalterni (nella forma della mobilitazione violenta contro l’oppressione coloniale). All’intersezione di questi due spazi si collocano dunque i leader dell’élite nazionalista indiana, la cui posizione tuttavia risulta tutt’altro che neutra: la loro opera di traduzione finisce infatti col canalizzare le istanze di ribellione popolari nel quadro dello Stato-nazione e delle sue organizzazioni (quadro condiviso dall’élite nazionalista e dai colonizzatori britannici), in modo che i contadini abbandonino la fase di mobilitazione, dopo che essa aveva scosso il potere dei colonizzatori, per affidare la mediazione ai “politici di professione” (Ivi, p. 188). Pandey enfatizza un elemento cruciale del rapporto tra leader nazionalisti e mobilitazioni in Awadh che è stato successivamente “dimenticato” dalla storiografia indiana del secondo dopoguerra: Sia Gandhi che Nehru riconobbero e in verità sottolinearono il fatto che il movimento contadino di Awadh fosse anteriore e indipendente dal Movimento di Non-Collaborazione, sebbene fosse evidente che i due mostrassero un certo grado di interazione reciproca e che ciascuno avesse tratto forza dall’altro. Con esitazione, e tuttavia senza alcun dubbio, i leader dell’Indian National Congress furono coinvolti nel conflitto tra i contadini e i loro oppositori16. A una conclusione analoga giunge anche Tanika Sarkar, dopo aver analizzato le cause e la morfologia delle proteste tribali nella regione di Malda, tra il 1924 e il 1932. Sarkar muove dalla constatazione della disomogeneità delle rivolte in esame, dovuta sia alle precondizioni socio-economiche, sia alle tradizioni culturali e religiose dei gruppi analizzati, sia ai tempi e ai modi dell’esplodere delle contestazioni verso il regime coloniale. Ma mentre Pandey aveva seguito lo sviluppo diacronico dello stesso movimento di ribellione in Awahd lungo un periodo abbastanza lungo, Sarkar narra le vicende di diversi gruppi tribali nel contesto spazio-temporale da lui individuato come unità d’analisi, adottando come filo conduttore il ruolo attivo svolto dai gandhisti nel riarticolare le istanze dei contadini in termini di adesione al movimento di liberazione nazionale. Secondo Sarkar La forza del movimento Gandhiano consisteva esattamente in questo: per molti gruppi subalterni i suoi fini e i suoi metodi erano abbastanza vasti e accomodanti da adattarsi alle loro particolari forme di lotta. […] Dunque, il più ampio movimento nazionalista fornì uno spazio appropriato e un contesto conveniente nel quale molti gruppi differenti poterono continuare a perseguire i propri obbiettivi specifici nell’idioma della propria cultura17. È chiaro come questa tesi possa essere letta in termini di capacità del discorso gandhiano di parlare a una molteplicità di gruppi sociali profondamente diversi e di veicolarne le aspirazioni entro uno spazio e una simbologia comuni. Eppure Sarkar tenta di spingersi al di là della tesi di Pandey dell’interazione reciproca tra agire subalterno e movimento nazionalista. Pandey fon- 16 Pandey 1982: 186, corsivo aggiunto. 17 Sarkar 1985: 164. 62 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 63 dava l’autonomia dell’agire subalterno sull’esistenza di un percorso di mobilitazione di lungo periodo che si intersecava con il movimento di liberazione nazionale e ne veniva parzialmente cooptato, per mezzo di un atteggiamento ambiguo e strumentalizzante da parte dei leader nazionalisti nei confronti dei contadini. Sarkar argomenta invece una sorta di irrilevanza di questa ambiguità dal punto di vista delle popolazioni rurali. Secondo Sarkar, infatti, la strategia adottata da differenti gruppi subalterni sarebbe stata quella di utilizzare il linguaggio e la simbologia del discorso nazionalista in modo da dare forza e legittimità alle proprie istanze, le quali restavano tuttavia indipendenti dall’aspirazione di costruire uno stato-nazione moderno e peraltro strettamente connesse a problemi locali, come la tassazione eccessiva, sia monetaria che in natura, il lavoro coatto e la redistribuzione delle terre coltivabili (Sarkar 1985: 48, 156-158, 160). E tuttavia, il tentativo maggiormente esplicito e radicale di dimostrare l’ipotesi dell’autonomia dell’agire subalterno all’interno delle rivolte è quello di Stephen Henningham. Egli si occupa della rivolta contadina del Bihar nel 1942, nel corso della quale, in seguito all’intensificarsi delle mobilitazioni del movimento Quit India, i britannici diedero vita a una severa repressione nei confronti del Congresso sia a livello nazionale che locale. Per la storiografia nazionalista indiana, la rivolta in questione andava paragonata per importanza e significatività a quella dei Sepoys del 1857, al punto da creare quello che Henningam chiama “il mito della rivolta del 1942”. Secondo questo mito, all’arresto dei capi locali del Congresso da parte delle autorità britanniche sarebbe succeduto un inasprirsi delle ribellioni, dei saccheggi e degli attacchi alle caserme di polizia da parte dei contadini, la cui violenza andrebbe considerata come un eccesso, come una momentanea distorsione della lealtà al culto gandhiano della non-violenza. Secondo Henningam invece, proprio l’assenza dei capi locali del Congresso, imprigionati dalle autorità coloniali, diede spazio all’esplodere di una rivolta che era espressione esclusiva del movimento di resistenza dei subalterni e che, in quanto tale, assunse l’uso della violenza fisica e simbolica come elemento caratteristico del proprio sviluppo. I saccheggi dei raccolti, la presa in ostaggio e l’uccisione di numerosi funzionari di polizia locali, gli attacchi ai palazzi dell’amministrazione coloniale, svolsero, continua Henningam, addirittura la funzione di aggregare e di coinvolgere strati della popolazione povera che, fino a quel momento esclusi, non avevano preso parte alle mobilitazioni del movimento Quit India. Ciò che doveva essere preso in considerazione era, dunque il carattere duplice della rivolta, in virtù del quale essa rappresentava non una sola, ma due insurrezioni interagenti. Una insurrezione consisteva in una sommossa dell’élite nazionalista promossa da contadini di casta molto elevata e dai piccoli proprietari terrieri che costituivano la stragrande maggioranza del Congresso. L’altra insurrezione consisteva invece in una ribellione dei gruppi subalterni in cui l’iniziativa apparteneva ai poveri, appartenenti alle caste più basse della regione18. Henningam motiva questa lettura sulla base di un’analisi della composizione sociale della rivolta a partire dalle fonti archivistiche che registrano gli arresti degli insorti, e dai documenti processuali che vennero prodotti nel periodo immediatamente successivo alla repressione della rivolta, avvenuta nello stesso 1942. E giunge a sostenere che quelli che erano stati raccontati come eccessi dell’insurrezione, erano in realtà le forme specifiche della mobilitazione dei subalterni; quella che veniva narrata come la deriva violenta di un movimento di massa privato della propria leaderhip politica, non era altro che l’espressione della natura violenta dell’esplodere delle forze sociali che erano state represse dal colonialismo e che i nazionalisti avevano tentato di ricondurre nel quadro della lotta per la liberazione nazionale. Più in particolare, Henningam aggiunge al discorso dei Subaltern Studies la critica al ruolo di direzione politica delle insurrezioni del Bihar accordato dalla storiografia marxista all’ala sinistra del Congresso. Secondo Hen- 18 Henningam 1983: 136. 63 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 64 ningam, infatti, la propaganda alimentata dai socialisti, inneggiante al sabotaggio delle proprietà dell’amministrazione coloniale, sarebbe comparsa in un momento di gran lunga successivo allo scoppio della violenza insurrezionale dei contadini poveri (Henningam 1983: 150-151). In questo senso dunque, la ribellione “subalterna” non sarebbe riconducibile neppure alle tendenze maggiormente rivoluzionarie della componente marxista del movimento nazionalista. Come emerge dai saggi presi in considerazione, l’approccio degli studi subalterni tenta in diversi modi di sottrarre l’esperienza delle rivolte contadine al discorso nazionalistico. Gli elementi su cui tale critica si fonda sono principalmente tre. Essa propone una diversa periodizzazione delle rivolte contadine in virtù della quale le insurrezioni sarebbero una caratteristica costante delle forme di resistenza delle classi subalterne alle diverse morfologie del potere succedutesi nel subcontinente e rispetto alle quali tali gruppi avrebbero comunque occupato una posizione succube. In secondo luogo, in quanto processo storico di lungo periodo, tali mobilitazioni sarebbero in larga parte dotate di una propria autonomia rispetto alle sollevazioni che attraversarono il dominio coloniale e che coinvolsero gli strati più elevati della gerarchia sociale indigena; questa autonomia è molteplice, poiché caratterizza l’agire dei subalterni sia nell’era precoloniale, sia in relazione alle sollevazioni che videro protagoniste le élite locali nel corso del XIX secolo, sia nei confronti del movimento di liberazione nazionale sviluppatosi in particolare tra gli anni Venti e Quaranta del XX secolo, sia infine rispetto a quelle fazioni di quest’ultimo che pure manifestavano un atteggiamento maggiormente radicale sia nelle rivendicazioni e negli obbiettivi perseguiti, che nelle pratiche di ribellione. In terzo luogo, di conseguenza, il rapporto tra agire subalterno e nazionalismo indiano non poteva essere letto in termini di adesione a un programma politico condiviso: il discorso nazionalista prodotto dai leader del movimento di liberazione era stato di fatto ricodificato dai contadini secondo un immaginario diverso da quello delle istituzioni politiche statali e pertanto il loro appoggio era stato ampiamente strumentalizzato dall’Indian National Congress, nonché falsificato, dal punto di vista storiografico, dagli studiosi di ispirazione marxista. Ma se il discorso nazionalista rappresentava una distorsione più o meno consapevole dei processi storici di resistenza al dominio coloniale e delle forme di partecipazione di amplissimi strati sociali, qual’era il suo significato in relazione al presente? Quali erano le ragioni storiche, o in ogni caso gli effetti politici di questa falsificazione storiografica? E in che modo l’interesse scientifico per l’articolazione di massa del nazionalismo rifletteva le trasformazioni della distribuzione delle risorse politiche all’interno del neonato stato-nazione indiano? O ancora, quali erano le condizioni storiche contingenti tali da rendere le mobilitazioni dei contadini una questione rilevante nella storiografia del secondo dopoguerra? Secondo Gautam Bhadra Il ruolo politico giocato dai contadini nei movimenti nazionalisti e comunisti nel Terzo Mondo durante questo secolo, così come i programmi di rivoluzione agraria avviati dai loro leader più radicali hanno costretto gli storici di tutti gli orientamenti politici a rivalutare una tradizione fin qui negletta. E tuttavia alcuni storici [stanno] tentando di appropriarsi della tradizione della resistenza contadina in modo che siano le élite al potere nel Terzo Mondo ad avvantaggiarsene19. La questione è naturalmente complessa. Tuttavia il modo in cui Bhadra la inquadra coglie senza dubbio degli elementi che da un lato accomunano i paesi attraversati dal processo di decolonizzazione, e dall’altro definiscono in modo critico il rapporto tra storiografia sui movimenti sociali e trasformazioni nell’assetto socio-politico della direzione dello Stato. Ma sopratutto essa è significativa del modo in cui l’Indian Subaltern Studies Group, come soggetto collettivo, percepisse tale rapporto in relazione all’India. Dunque la volontà di elaborare una storiografia antielitaria non si limitava semplicemente a riportare nella narrazione della lotta anticoloniale il 19 Bhadra 1983: 41. 64 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 65 ruolo dei subalterni, ma si traduceva piuttosto nell’opporsi dal punto di vista intellettuale all’appropriazione della storia della resistenza dei gruppi collocati nelle posizioni più basse della gerarchia sociale da parte del discorso storiografico liberal-marxista. Questo tentativo di appropriazione passava per una omogeneizzazione delle pratiche dei subalterni, dei loro rituali e obbiettivi, a quelli del movimento nazionalista dal quale era emersa l’élite che ora gestiva il potere nello stato indiano. Per questo motivo, l’attacco a questa narrazione omogeneizzante fu realizzato attraverso una puntuale complessificazione analitica del fenomeno della rivolta contadina, che ebbe come effetto quello di fornirne una rappresentazione frammentaria e discontinua. In una determinata prospettiva, almeno. 65 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 66 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 67 La strutturazione cognitiva dell’esperienza nassalita L’eterogeneità di tali sollevazioni costituisce il risultato storiografico maggiormente rilevante delle ricerche contenute nei primi cinque volumi della collana Subaltern Studies. Ciononostante, proprio tale eterogeneità fu riarticolata dagli stessi storici del Subaltern Studies Group in funzione di una lettura che, in virtù del senso generale dato loro dai saggi introduttivi e di metodologia, tende a fornire un’immagine anch’essa unitaria, sebbene alternativa, di queste stesse insurrezioni. Ciò che rende il discorso dei Subaltern Studies un insieme di argomentazioni coeso e leggibile nel suo complesso è uno schema interpretativo nel quale ciascun atto di ribellione all’autorità, sia essa precoloniale o coloniale, rappresentata direttamente dai britannici o dalle élite locali espressione dell’indirect rule, assume il valore di un tassello nel mosaico della mobilitazione collettiva da parte dei subalterni, opposta al potere nelle sue diverse forme. Ranajit Guha, nel fondamentale saggio metodologico che chiude il secondo volume della collana Subaltern Studies, esordisce in questo modo: Tutte le volte che un contadino si è ribellato al dominio esercitato dal raj, lo ha fatto violando esplicitamente e necessariamente una serie di codici che definivano la sua condizione reale in quanto membro della società coloniale […] che stabiliva, tramite la struttura della proprietà e tramite il diritto, la subalternità stessa dei contadini1. Guha colloca di fatto il succedersi delle rivolte contadine avvenute in spazi, in tempi e in circostanze differenti, in un unico percorso storico che sembrerebbe testimoniare una dinamica coerente di ribellione dei subalterni. Se in effetti la lotta anticoloniale non era servita neppure transitoriamente a fornire quella coesione tra élite e subalterni che era alla base della retorica dell’esistenza di un’unica nazione indiana, allora il movimento nazionalista non aveva rappresentato, dal punto di vista dei subalterni, un momento di resistenza al potere dello Stato qualitativamente differente da quelli vissuti nei secoli precedenti. L’ipotesi interpretativa che la storiografia dell’Indian Subaltern Studies Group adombrava era infatti che la condizione di subalternità delle classi contadine e, per analogia, dei lavoratori urbani, fosse costantemente riprodotta anche all’interno dell’India guidata dall’élite indigena. Guha rielaborò lo strumento euristico gramsciano dell’egemonia, privato della componente del consenso, per sostenere che come era avvenuto per l’élite nazionalista italiana nella seconda metà dell’Ottocento, così l’élite nazionalista indiana del XX secolo godeva sì del dominio sui gruppi subalterni, ma non era egemone rispetto a essi e tale differenza era intrinseca; o meglio, così come il processo di formazione dello stato-nazione italiano era differente da quello della 1 Guha e Spivak 2002: 43. 67 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 68 Francia per non essere stato caratterizzato dalla presenza di un partito giacobino, così la stratificazione sociale esperita dall’India differiva da quella inglese, per non aver prodotto un analogo proletariato industriale e, di conseguenza, le organizzazioni politiche tese a canalizzarne le attività nella vita istituzionale della macchina statale. Pertanto, la configurazione assunta dal potere nel subcontinente non tendeva necessariamente verso il consolidamento di una egemonia, ma poteva funzionare, e di fatto aveva funzionato, indipendentemente da essa. Un dominio senza egemonia2. In altre parole, l’approdo storico del 1947 non aveva costituito la sponda sulla quale i flutti delle rivolte contadine, accresciutisi in portata e volume lungo decenni di oppressione e di sfruttamento coloniali, si erano infranti dopo aver contribuito in modo determinante a sospingere via il colonizzatore. Tutt’altro. I marosi della rivolta erano in realtà defluiti solo transitoriamente nella risacca dei primissimi anni della costituzione dello stato-nazione indiano indipendente, per agitare nuovamente, sotto le spoglie dei movimenti contadini di estrema sinistra, anche l’India degli anni Sessanta e Settanta del XX secolo guidata dall’élite che aveva formato la leadership del movimento di liberazione nazionale. La storia dell’opposizione al potere statale da parte delle classi subalterne indiane poneva due questioni relative al periodo postindipendenza: le due questioni consistevano da un lato nell’individuazione di quei processi che avevano generato tale risacca, vale a dire la quiescenza temporanea delle mobilitazioni contadine, e dall’altro nell’identificazione delle forze sociali in grado di far increspare nuovamente e con veemenza i flutti della ribellione, vale a dire quei movimenti in cui si rendevano nuovamente visibili le istanze contingenti dei subalterni. In questo senso, un ruolo rilevante nell’interpretazione complessiva della funzione politica del discorso dei Subaltern Studies è svolto dal lavoro di Arvin N. Das. Questa ricerca analizza le trasformazioni del tessuto sociale rurale della regione del Bihar dall’indipendenza alla fine degli anni Settanta e si occupa precisamente delle riforme agrarie e delle insurrezioni che ebbero luogo in quella stessa regione3. Das ripropone lo schema d’interpretazione duale sostenendo che le trasformazioni nella gestione delle risorse agricole e produttive del Bihar fossero il frutto delle tensioni tra gli interventi dall’alto, realizzati dall’élite a diversi livelli e in diversi settori, e le spinte all’autorganizzazione sperimentate dai contadini poveri, ai margini delle disposizioni governative e spesso in opposizione a esse (Das 1983). La rilevanza del lavoro di Das risiede tuttavia in una ulteriore complessificazione del tema del dualismo nella società indiana: la sua analisi non ruota esclusivamente intorno alla riforma dell’apparato burocratico dello Stato-nazione, delle sue istituzioni politiche e della sua base fiscale4. Egli vi collega le politiche macroeconomiche statali nel settore agricolo e reputa l’impatto congiunto di queste riforme e di quelle amministrative come il principale strumento di intervento nelle aree rurali, nonché il segno tangibile dell’indipendenza dal punto di vista delle trasformazioni nelle condizioni di vita dei gruppi subalterni (Ibidem). 2 La versione più estesa e approfondita di questa tesi è esposta dallo stesso autore in Guha 1997. Le tesi esposte in questo saggio da Das trovano una forma maggiormente estesa e approfondita in Das 1983. A sua volta questo stesso volume raccoglie gli articoli apparsi in precedenza sul numero monografico di «Journal of Peasant Studies», Vol. 9 No. 3, del 1981, intitolato Agrarian Movements in India: Studies in XX Century Bihar. 3 Dal punto di vista amministrativo, le riforme governative consistettero nell’abolizione del ceto sociale degli zamindar per mezzo di un atto legislativo datato 6 giugno 1949. Tuttavia, sebbene privati del loro ruolo istituzionale di collettori delle tasse, essi ottennero dal governo degli indennizzi in denaro, con i quali gran parte di essi acquistarono terre coltivabili, diventando essi stessi proprietari terrieri (Das 1983: 182-194). 4 5 L’insieme di misure tecniche, economiche e commerciali che vanno sotto il nome di Rivoluzione Verde, furono fortemente sponsorizzate dal governo americano, dalla Rockfeller Foundation e dalla Ford Foundation già a partire dagli anni Quaranta. Tale programma consisteva in un pacchetto integrato di tecnologie offerte ai governi del Terzo 68 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 69 Tali politiche sono riconducibili alla cosiddetta “Rivoluzione Verde” e alle diverse fasi della sua attuazione da parte dei governi Nehru prima e Indira Gandhi poi5; con l’avvio della Rivoluzione Verde, nel 1947, l’India si allineava a un più ampio progetto mondiale di riassetto del settore agroalimentare che avrebbe dovuto svolgere una duplice funzione6: per un verso esso doveva fornire una risposta all’esigenza di soddisfare il fabbisogno alimentare delle popolazioni indigene e incrementare la quota nazionale aggregata di partecipazione al commercio estero7; per un altro verso, i benefici immediati dovevano servire a smobilitare la militanza contadina che la guerra e i movimenti di liberazione nazionale avevano in parte armato e alimentato8. Come lo stesso Das ammette, nel corso dei primi venti anni dal suo avvio, la Rivoluzione Verde in India ebbe l’effetto di estendere la superficie delle terre coltivabili, di aumentare la redditività della terra e di incrementare i raccolti. Questi risultati furono ottenuti attraverso una serie di programmi specifici che prevedevano una profonda riorganizzazione dell’assetto socio-territoriale dei villaggi, tesa, secondo le direttive del governo nazionale che facevano eco ai documenti programmatici della Banca mondiale, ad armonizzare la vita rurale nel senso di contenerne la conflittualità interna e nei confronti dell’autorità9. Eppure, continua Das, verso la metà degli anni Sessanta la palese sperequazione di reddito tra i proprietari terrieri e i contadini poveri assunse dimensioni critiche e fu percepita come un processo irreversibile, tale da minare le speranze di riscatto sociale nutrite dalla popolazione povera, fino a esplodere in scioperi, saccheggi e rivolte che si diffusero nella regione del Bihar così come in altre zone rurali dell’India (Ivi, pp. 202-204; Franke 1974; Gough 1978; Weiskopf 1977; Bhagwan M. R., Haraksingh K., Payne R. e Smith D. 1973, in particolare 319; Scarlett 1978: 47-58). Parte dei contadini delle regioni più povere, il Bihar, l’Andhra Pradesh, il Bengala nordorientale, il distretto del Punjab e altri territori in cui le politiche di sviluppo nazionale si erano materializzate nell’applicazione del modello dell’impresa agricola ad alto rendimento, caldeggiato dalle istituzioni internazionali e fortemente voluto dal governo nazionale, si opponevano dunque all’implementazione della seconda fase della Rivoluzione Verde (Ommen 1971 e 1975; Muthiah 1977; Billings e Singh 1969; Bardhan 1970). Il governo Gandhi la inaugurò nel 1967, anno in cui i contadini di Naxalbari assassinarono un ufficiale di polizia, dando il via alla ribellione che fornì «la scintilla per lo scoppio dell’incendio», vale a dire l’inizio del movimento nassalita (Guha 2007: 3). Mondo, che si articolava principalmente in tre tipi di interventi: l’estensione delle aree coltivabili, la realizzazione di due raccolti all’anno invece che uno, l’utilizzo di sementi geneticamente modificate (cosiddette Hyv, acronimo di High Yelding Varieties). L’impatto di queste politiche fu profondo, sia dal punto di vista economico che ecologico, dal momento che vincolò i contadini all’utilizzo di pesticidi chimici e sostituì colture e sistemi agricoli tradizionali con procedure standardizzate e parzialmente meccanizzate (McMichael 2006: 73-77, 98-101). Le prime politiche agricole riferibili al programma della Rivoluzione Verde in India furono avviate nel 1947 e furono presentate come la necessaria contromisura al riproporsi di carestie catastrofiche come quella del Bengala del 1943. La seconda fase del programma fu iniziata nel 1967, sulla base della constatazione del sensibile fallimento degli interventi precedenti in molte delle aree coinvolte, proclamando l’obbiettivo dell’autosufficienza alimentare per le zone rurali del subcontinente. Per un’elaborazione sofisticata e successiva delle linee argomentative utilizzate all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale si veda Sin 1999, in particolare il capitolo intitolato Carestie e altre crisi, pp. 163-192. La questione del ruolo delle carestie nella coscienza dei contadini in rivolta costituisce l’oggetto di un interessante saggio contenuto in un volume della collana Subaltern Studies (cfr. Arnold 1984). 6 7 La questione della soddisfazione del fabbisogno alimentare per una popolazione in continua crescita fu affrontata dal governo Nehru accettando il cosiddetto PL-480. Questo programma alimentare, che porta il nome della risoluzione del senato americano con cui vennero stanziati i fondi per la Public Law 480 appunto, prevedeva: 1) la commercializzazione a prezzi molto agevolati, in valuta locale, delle eccedenze agricole, soprattutto cereali, ai paesi del terzo mondo; 2) l’assistenza in caso di carestie; 3) lo scambio di alimenti in cambio di materie prime strategiche, inaugurando quella che diverrà la nota formula del food-for-oil. Questo programma è strettamente connesso alle politiche agricole 69 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 70 Nel complesso, le misure tecniche e organizzative previste implicavano di fatto la distruzione dei sistemi tradizionali di coltivazione, già ampiamente compromessi, e generava nuove povertà a fronte della concentrazione del potere economico e politico negli stessi gruppi cui, era stato sottratto legalmente lo statuto giuridico che fino all’indipendenza ne aveva garantito la supremazia sociale a livello locale10. Al riemergere delle rivolte contadine nella seconda metà degli anni Sessanta, i ricercatori dell’Indian Subaltern Studies Group attribuivano un valore storico preciso11. Come ha di recente affermato Guha, esse segnarono, per la generazione che aveva lottato per l’indipendenza, la fine di un ciclo politico apertosi nel 1947 durante il quale la legittimità del ceto dirigente si era nutrita delle vaste aspettative di benessere create nella mobilitazione anticoloniale; per la generazione cresciuta dopo il 1947, esse rispecchiavano la sfiducia generalizzata nelle istituzioni e nelle forze politiche cui veniva imputata l’incapacità di assicurare loro un futuro migliore di quello nel quale erano cresciuti. Dipesh Chakrabarty, dal canto suo, ha ricordato enfaticamente il fermento degli ultimi anni Sessanta in occasione del quarantesimo anniversario della rivolta di Naxalbari, sottolineando che l’esplodere delle rivolte contadine visse nel mito della Rivoluzione culturale cinese e coincise con le contestazioni di piazza ai partiti della sinistra comunista e socialista da parte degli studenti dell’élite indiana nelle università di Calcutta e New Delhi, divenute intanto i focolai urbani della rivolta nassalita12. In sintesi, ciò che accomunava i membri di queste due generazioni era la frustrazione dovuta al manifestarsi dei primi chiari sintomi del fallimento del “progetto sviluppo”, declinato nella sua versione indiana e che si esprimeva nella critica ai partiti della sinistra istituzionale13. Il progetto storiografico degli studi subalterni, afferma Guha, «era parte integrante dei suoi tempi, un progetto che intendeva partecipare al mondo al quale apparteneva e non essere semplicemente una osservazione accademica ex post. Un figlio dell’esperienza istruito nella teoria». Questa esperienza, continua Guha, fu condizionata in modo decisivo dagli esiti ad ampio raggio del movimento nassalita14. Come ricercatori del Subaltern Studies Group iniziammo a lavorare a metà anni Settanta, quando la rivolta nassalita era stata chiaramente repressa, sebbene le questioni che aveva sollevato rimanevano ancora senza risposta. Noi cercammo di situare queste questioni nel contesto del passato coloniale. […] I problemi del presente facevano riferimento direttamente al passato immediato15. Il movimento nassalita rappresenta dunque il varco temporale in grado di connettere l’orizzonte coevo all’emergere del progetto Subaltern Studies con le lotte anticoloniali16. Esso costituisce un dei paesi del Terzo Mondo: esso risponde alle esigenze di smaltimento delle riserve alimentari statunitensi generate dalle stesse innovazioni tecnologiche e organizzative che costituiranno il pacchetto di soluzioni note come Rivoluzione Verde; inoltre, l’effetto combinato della trasformazione radicale dell’organizzazione (in senso lato) della produzione agricola, da un lato, e la sostituzione costante e progressiva del riso con il granoturco nella dieta delle popolazioni dell’Asia meridionale, che consentiva agli Stati Uniti d’America di tenere alti i prezzi dei propri prodotti agricoli nei mercati concorrenziali, sconvolse nel corso di venti anni il tessuto sociale delle aree rurali (cfr. Friedman 1982). 8 Secondo McMichael «la crescente povertà rurale, l’insoddisfazione rurale per la urban bias e il persistente attivismo contadino sulla questione della terra, inserirono la riforma fondiaria nell’agenda politica in Asia e in America Latina». McMichael 2006: 75. 9 La disposizione legislativa nazionale era intitolata Extension and Community Development Scheme. Le principali agenzie che vi facevano capo erano la Intensive Area Development Programme (Iadp), la Small Farmers Development Agency (Sfda), il Marginal Farmers and Agricultural Labourers Programme (Mfal), il Rural Works Programme (Rwp), il Pilot Intensive Rural Employment Project (Pirep), i Tribal Development Plans (Tdp). 10 La seconda fase, in particolare, prevedeva l’utilizzo di fertilizzanti chimici e l’estensione capillare di sistemi di irrigazione necessari al raggiungimento dell’obbiettivo prefissato del doppio raccolto. E tuttavia tali opere di ingegneria idraulica avevano come effetto collaterale la moltiplicazione di piante parassitarie la cui eliminazione richiedeva l’impiego massiccio di diserbanti (cfr. McMichael 2006: 74). 70 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 71 momento di rottura nell’immaginario politico indiano che fa da humus originario all’elaborazione del successivo discorso storiografico17. Se infatti dal punto di vista storico il movimento nassalita sembrava raccogliere parte dell’eredità delle rivolte anticoloniali a causa della medesima base sociale (i contadini poveri), dal punto di vista gnoseologico, esso, viceversa, ha operato di fatto come referente implicito della rivolta contadina intesa come oggetto di ricerca degli studi subalterni. Il movimento nassalita forma la materia da cui fu dedotto, sebbene indirettamente, il modello concettuale da proiettare nel passato per mezzo della trasposizione in forma di modulo grammaticale di un insieme di suoi tratti rilevanti, o presunti tali. Indirettamente, giacché la rilevanza di alcune di queste caratteristiche a scapito di altre deriva dal modo in cui tale fenomeno sociale venne rappresentato attraverso diversi canali, che variano da quello informale, a quello propagandistico, a quello mediatico, a quello politico, a quello scientifico. Tuttavia, dal momento che i Subaltern Studies rappresentano un intervento nello spazio del dibattito sulla storia dei movimenti sociali in India, è in quest’arena che tale discorso trasse i propri riferimenti concettuali, e dunque è entro la struttura del discorso e delle procedure di legittimazione delle asserzioni scientifiche proprie di tale arena che esso fondava le proprie pretese gnoseologiche. Più specificamente, il discorso dei Subaltern Studies trasse alcuni dei moduli oggettuali dedicati alla descrizione/acquisizione del fenomeno nassalita dal dibattito sociologico e politologico18. La vicenda dei ribelli nassaliti ha suscitato vivo interesse a causa del complesso rapporto di competizione e di conflitto che i ribelli assunsero nei confronti delle principali organizzazioni comuniste del paese e per le relazioni che essi avevano con la Cina maoista. Indipendentemente dalle interpretazioni, molteplici, differenti e talvolta contraddittorie che ciascun autore interessato ha poi fornito sulle cause, la natura, la specificità del movimento nassalita, essi sembrano convergere intorno a un nucleo di condizioni che contribuiscono sicuramente a collocare storicamente queste rivolte e a gettar luce sulle principali dinamiche che le caratterizzarono, sottolineando il valore di determinati eventi che ne scandirono l’evoluzione. Sebbene con accenti differenti, sembra piuttosto plausibile situare la storia del movimento nassalita nel contesto delle trasformazioni del movimento comunista nell’Asia meridionale e, quantomeno, nel complesso rapporto tra i partiti comunisti russo, cinese e indiano all’indomani della morte di Stalin nel 1953. Fu allora infatti che la denuncia dello stalinismo da parte di Chruščëv fu tacciata di revisionismo dall’élite dirigente cinese e fu allora che si manifestarono aperte divergenze strategiche, politiche, militari ed economiche, che non sono e non possono essere oggetto di questo studio, il cui effetto complessivo fu però senza dubbio un allontanamento e una crescente 11 La ricostruzione del rapporto complesso tra l’elaborazione del programma di ricerca dei Subaltern Studies e le istanze intellettuali avvertite dagli studiosi in esso coinvolti risulta chiarita dagli interventi “biografici” di alcuni degli stessi membri del collettivo, compresi coloro che ne fuoriuscirono polemicamente a metà degli anni Ottanta come Sumit Sarkar (cfr. nota 2 alla Prefazione). Se infatti, come afferma Ankersmith a proposito della questione storiografica e metodologica dell’interpretazione del Leviatano di Hobbes, la ricerca storica risulta agevolata dalla disponibilità di post scripta in cui l’autore afferma esattamente le proprie intenzioni in relazione al testo da esaminare, allora il fermento politico nei centri culturali dell’India degli anni Sessanta e Settanta appare leggibile, in modo plausibile, sulla base delle differenti tipologie di testi in esame (Ankersmith 2000: 325). 12 Chakrabarty 2007. Il titolo stesso del commento di Chakrabarty, The Shining Path, è significativo, da momento che mette in collegamento simbolicamente il movimento nassalita con i ribelli di Sendero Luminoso (il testo del commento di Chakrabarty è in rete all’URL <http://naxalrevolution.blogspot.com/2007/05/shining-path.html>). Sendero Luminoso è il nome abbreviato del movimento insurrezionale peruviano (Partito comunista del Perù – Sentiero Luminoso) fondato nel 1969, e accomunato ai ribelli indiani sia dal suo radicamento nelle aree rurali povere del paese che dall’ispirazione dichiaratamente maoista. 13 Come afferma Lentini, riprendendo McMichael, «Il “progetto sviluppo” [è da intendersi come] una proiezione organizzativa virtuale incentivata dall’impetuoso processo di indipendenza politica del mondo coloniale, la cui economia politica aveva come perno l’idea di mercati regolati per via statale e di una spesa pubblica keynesiana. Gli 71 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 72 competizione tra Mosca e Pechino, che si ripercuoterà sia sulle organizzazioni comuniste e socialiste del Terzo Mondo che su quelle occidentali, giungendo a creare due poli di attrazione all’interno della stessa zona di influenza sovietica. In seguito alla guerra Indo-Cinese (19601964), infatti, lo scontro politico e ideologico all’interno del Partito comunista indiano si acuì notevolmente, alimentato dalle pressioni esterne da parte dei comunisti russi e dei comunisti cinesi; i primi affinché il Partito Comunista Indiano continuasse a garantire la propria lealtà alla linea di politica internazionale di Mosca, i secondi nel tentativo di accelerare quel processo di avvicinamento alle posizioni di Pechino che già a partire dalle tensioni sino-sovietiche della seconda metà degli anni Cinquanta aveva spaccato il movimento comunista indiano sul piano sia politico che ideologico. Nel corso del settimo congresso del Partito comunista dell’India (Pci) a Calcutta, svoltosi tra il 31 ottobre e il 7 novembre del 1964, un numero minoritario ma piuttosto significativo di militanti e di quadri del Pci che si erano progressivamente attestati su posizioni che possiamo definire grossomodo filocinesi e certamente più radicali nel contesto della politica interna diede vita a una scissione per formare il Partito comunista marxista dell’India (Pci-m). Il Pci-m, nato dunque dal dissenso nei confronti delle linee guida della politica del Pci e della sua lealtà a Mosca, raccoglieva diverse componenti, tra le quali un gruppo di quadri che si ispiravano al pensiero di Mao, che aveva attraversato il Tibet nel corso della Guerra appena conclusa, i quali vedevano in tale scisma la possibilità di una radicalizzazione della strategia politica e un avvicinamento al Partito comunista cinese. Le elezioni del febbraio 1967 videro, nel complesso, la vittoria dei comunisti indiani che ottennero il potere in diversi stati e formarono coalizioni di governo che includevano il Pci al fianco del Pci-m. A molti quadri del Pci-m furono assegnati incarichi di governo, nel tentativo di contenerne le spinte maggiormente eversive. I governi del cosiddetto Fronte Unito durarono fino al 1969 in Kerala e, con una interruzione, fino al 1970 nel Bengala Occidentale. Ma il successo elettorale acuì i contrasti interni al neonato Pci-m sull’interpretazione di quel dato e sulle conseguenze strategiche che ne dovevano conseguire. Proprio il consenso degli strati più poveri della popolazione, testimoniato dalla distribuzione geografica e demografica del voto si offrì a due letture divergenti19: alcuni sostenevano che la configurazione del sistema partitico raggiunto costituisse l’approdo a partire dal quale rafforzare la posizione del partito, altri vi vedevano solo un punto da cui iniziare una ulteriore svolta a sinistra. scopi sociali dichiarati erano diritti sociali garantiti, welfare e cittadinanza, mentre lo sviluppo consisteva nell’applicazione del modello dell’industrializzazione e nella gestione economica diretta dallo Stato» (Lentini 2003: 381). 14 Il termine nassalita è un aggettivo con il quale, in modo informale, si individuano i gruppi comunisti rivoluzionari indiani nati sulla scia dello scontro sino-sovietico (1960-1964). La parola deriva da Naxalbari, nome del villaggio del Bengala Occidentale nel quale avvenne la prima rivolta contadina guidata da una fazione di estrema sinistra nel 1967. All’inizio degli anni Settanta, il movimento si frazionò notevolmente fino a essere virtualmente represso nel 1971. Per una ricostruzione dettagliata della ribellione contadina di Naxalbari si vedano Samanta 1984 e Banerjee 1984. Per un resoconto complessivo della diffusione del movimento nassalita nei primi anni Settanta si veda Mohanty 1977. Per uno studio specifico sul movimento nassalita nel Bihar (regione studiata anche da Das) si veda Mukherjee e Yadav 1980. 15 Guha 2007: 7. Nel 1973, il numero di attivisti detenuti, legati al movimento nassalita (o presunti tali) superò i 32000. Tant’è che il 15 Agosto 1974, nel giorno del ventisettesimo anniversario dell’indipendenza indiana, più di trecento accademici, tra cui Chomsky, inviarono una nota di protesta al governo di Indira Gandhi contro il trattamento subìto dai prigionieri politici. Vi fece seguito una denuncia di Amnesty International per lo stesso motivo che si infranse di lì a poco contro lo stato d’emergenza dichiarato dal governo il 26 Giugno 1975. Lo storico Gyan Prakash, che aderì al gruppo solo alla fine degli anni Ottanta, descrivendo il contesto nel quale gli studi subalterni intervennero afferma: «La legittimità dello statonazione uscito dall’indipendenza divenne precaria allorché il suo programma di modernizzazione capitalistica accentuò le disuguaglianze e i conflitti politici e sociali. Di fronte all’esplodere di forti movimenti sociali di differente ispirazione ideologica che sfidavano la sua pretesa di rappresentare il popolo, lo Stato ricorse alla repressione» (Prakash 1994: 1476). 16 72 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 73 Nel villaggio di Naxalbari, nel distretto di Darjeeling dello stato del Bengala Occidentale, il governo appena eletto, formato dal Fronte Unito, si vide costretto ad affrontare una rivolta contadina capeggiata da alcuni quadri locali del Pci-m. Dopo gli immediati tentativi di giungere a una mediazione, lo stesso Pci-m optò per la repressione della rivolta, generando molti malumori tra i propri militanti e quadri in tutto il paese, che formarono gruppi maoisti in Andra Pradesh, in Kerala e altrove, i quali avevano come riferimento esplicito i ribelli di Naxalbari, da cui l’aggettivo informale nassalita appunto. Intanto, il Partito comunista cinese, almeno ufficialmente, plaudeva allo scoppio delle rivolte più o meno dichiaratamente filocinesi e auspicava il profilarsi di un’ondata di insurrezioni maoiste nel subcontinente20. Incoraggiati anche dall’appoggio cinese, i dissidenti del Pci-m formarono, nel novembre l’Aicccr (Comitato di Coordinamento dei Rivoluzionari di Tutta l’India), al fine di coordinare le attività dei diversi gruppi maoisti del paese21. Nel 1969 L’Aicccr, estesa quanto fluida in termini di struttura organizzativa, venne formalizzata nel Partito comunista indiano marxista-leninista (Pci-ml), a costo di provocare ulteriori malcontenti tra quelle frange maoiste che intendevano prolungare la fase di mobilitazione prima di dare corpo a un vero e proprio partito, poiché ciò avrebbe significato un necessario riorientamento della strategia politica e alimentato le tendenze all’istituzionalizzazione (Dasgupta 1974: 232). Tuttavia, le organizzazioni nassalite erano accomunate da alcune divergenze cruciali rispetto ai due principali partiti comunisti: la prima, e più ovvia, consisteva nell’appoggiare la linea di politica estera della Cina piuttosto che dell’Unione Sovietica, la seconda consisteva nella differente analisi della struttura di classe dell’India e dunque la strategia rivoluzionaria che da tale analisi sarebbe dovuta scaturire. Infatti, l’adozione del maoismo come strategia rivoluzionaria, come retorica del discorso politico e come riferimento ideologico, ebbe l’effetto di focalizzare un’enorme attenzione sui contadini, in termini di classe e di soggetto rivoluzionario. Ma ciò che costituisce un elemento distintivo del movimento nassalita rispetto alle altre organizzazioni comuniste della scena politica indiana degli anni Sessanta, era la prassi rivoluzionaria attuata sistematicamente nelle aree rurali. Questa pratica ispirò la formazione di molti gruppi di ribelli autonomi che si rifacevano al maoismo. Nei primi due anni di ribellioni i contadini crearono delle amministrazioni parallele nei villaggi rurali, bruciarono i contratti agricoli e dichiararono estinti i debiti con i proprietari terrieri. Le tensioni con i notabili locali crebbero nel giro di pochissime settimane, giungendo all’insurPocock ha più volte sostenuto che il contesto intellettuale a cui un’opera fa riferimento non sempre è esclusivamente quello contemporaneo alla comparsa dell’opera stessa, ma spesso va individuato in dibattiti ed eventi precedenti o non strettamente corrispondenti a quelli esplicitati dall’autore (Pocock 1973, 1980). 17 18 Analogamente, nella sua critica ai fondamenti epistemologici della conoscenza scientifica, Aldo Gargani ha individuato nelle teorie di Boyle e Newton «un nuovo modello decisionale nel quale interviene una esperienza storicoculturale integrale. Si tratta di un modulo di legittimazione e di decisione delineato innanzitutto nel corso dei dibattiti teologici sulla “regola della fede” (rule of faith) che hanno luogo lungo il XVI secolo in Inghilterra» (Gargani 1975: 58). 19 Pattabhiram 1967. Durante tutto il mese di giugno del 1967, la radio di regime cinese annunciava: «Il tuono di primavera fa tremare l’India», cui fecero eco diversi editoriali sul «Quotidiano del Popolo» in cui si condannava la repressione operata dal Pci-m nel Bengala Occidentale. 20 21 Il ruolo della Cina in questa vicenda è senza dubbio rilevante, sebbene l’entità del sostegno materiale fornito da Pechino ai ribelli resta a tutt’oggi un punto oscuro. Tuttavia, dopo l’iniziale appoggio agli insorti, Pechino, intorno al 1970 mutò atteggiamento. Fino a quel momento infatti, dopo una visita segreta di una delegazione del Pci-ml a Pechino, nel 1968, la politica dei comunisti cinesi era stata quella di individuare una leadership del movimento che fosse riconoscibile e di far emergere quelle figure che manifestavano una maggiore lealtà nei propri confronti (cfr. Chakrabarty 1992: 43-59). 73 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 74 rezione violenta da parte dei contadini. Finché nel luglio del 1967, il Fronte Unito, che amministrava i governi locali, autorizzò una massiccia operazione di repressione che portò all’arresto di molti leader del movimento entro la fine di quello stesso anno. Ciononostante, nel 1968 il Pci-ml lanciò un’offensiva paramilitare contro i proprietari terrieri in Andhra Pradesh e nel distretto di Srikakulam. I gruppi di insorti si impossessarono dei raccolti non consegnandoli ai latifondisti, cancellarono i debiti dei contadini e uccisero diversi notabili e usurai, terrorizzando la borghesia contadina di quelle zone. Quando Mazumdar visitò l’Andhra Pradesh nel 1969, fu accolto come il leader del movimento, che nel frattempo aveva dato vita a un governo provvisorio dichiaratamente maoista e alle comuni agricole sul modello cinese, tant’è che egli dichiarò quella regione lo “Hunan indiano”22. Nella seconda metà del 1969 e nel corso del 1970, il Pci-ml diede vita a numerose rivolte che culminarono nell’istituzione dei “tribunali del popolo” e in diverse esecuzioni, nel Bengala Occidentale, nel Bihar, nel Punjab e l’Uttar Pradesh. Mentre la repressione militare iniziava a produrre i primi effetti al volgere del 1970, i partiti comunisti prendevano le distanze dagli “eccessi” raggiunti dai nassaliti e anche molti di coloro, studenti delle università di Calcutta e Delhi per lo più, che simpatizzavano per, o appoggiavano apertamente, i ribelli perché ne condividevano le ragioni di insoddisfazione politica furono scossi dai risvolti maggiormente violenti delle insurrezioni23. Nel corso della seconda metà degli anni Sessanta, lungo tutti gli anni Settanta e fino ai primi anni Ottanta, il dibattito scientifico sulla ribellione nassalita fu animato quasi esclusivamente da studiosi marxisti, alle prese con il diffondersi di un’insurrezione di estrema sinistra, radicata nelle aree rurali più povere dell’India, i cui leader si dichiaravano leali al marxismo-leninismo e accusavano, da una posizione extraparlamentare, i partiti comunisti indiani di aver abbandonato l’obbiettivo del socialismo e di non rappresentare più la parte più numerosa e più povera del paese. Sotto questo punto di vista, affermava perentorio Biplab Dasgupta24: Indipendentemente dall’essere d’accordo o meno con i nassaliti, i marxisti indiani non possono eludere l’impegno di studiare lo sviluppo di questo fenomeno, il suo passato, il suo presente e le sue possibili prospettive future, e trarre da tale studio le proprie conclusioni25. Il dibattito si concentrò sull’elemento che caratterizzava con maggiore evidenza empirica questo movimento sociale come qualcosa di parzialmente estraneo all’esperienza storica e all’immaginario politico della sinistra indiana, e allo stesso tempo come una caratteristica ingombrante e da cui prendere le distanze: i cosiddetti “eccessi rivoluzionari”. Fu lo stesso Dasgupta a definire i risvolti più cruenti delle insurrezioni nassalite come “eccessi”. Oltre all’efferatezza di determinate esecuzioni in cui persero la vita alcuni membri dell’élite terriera locale o funzionari di polizia, gli “eccessi” erano tali poiché andavano al di là delle esigenze della rivolta, nel senso che spesso non erano necessari, dal momento che avvenivano quando il controllo della situazione nei villaggi era già finito nelle mani dei ribelli (Dasgupta 1975: 142). Eppure essi non furono né episodici, né improvvisi, bensì rispondevano spesso alla cosiddetta “linea dell’annichilimento” (kathama) 22 Testo originale in Bengalese, tradotto in inglese con il titolo Will it become the Indian Hunan? e pubblicato su «L’indiana Liberation» (Vol. II, No. 5, Marzo 1969), <http://www.marxists.org/reference/archive/mazumdar/1969/03/x01.html> (in inglese). 23 Nel 1973 i detenuti collegati alla repressione del movimento nassalita erano circa 32.000. Biblap Dasgupta fu il primo storico a recarsi nelle zone dove era iniziata la rivolta, non appena fu violentemente repressa. La violenza della repressione fu tale che dopo la morte di Mazumdar intervennero le Nazioni Unite con un’operazione di pacificazione. Dasgupta trascorse circa sette mesi nell’area di Naxalbari nel 1973 per poi dare alle stampe la prima monografia sull’argomento (Dasgupta 1974). 24 25 Dasgupta 1978: 4. 74 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 75 di Mazumdar26. A partire dai documenti del 1966, Mazumdar aveva preso posizione a favore delle forme più violente di rivolta che si erano manifestate nel corso delle insurrezioni nelle campagne indiane nella prima metà degli anni Sessanta in seguito agli effetti della guerra con la Cina. Egli aveva progressivamente elaborato, diffuso e giustificato l’idea che nell’atto rivoluzionario la spoliazione del potere operata ai danni dei proprietari terrieri, o dei commercianti, o la neutralizzazione degli agenti di polizia e dell’esercito non fossero sufficienti alla “liberazione” dei contadini dai vincoli feudali ai quali intendevano sottrarsi. Quelli che erano individuati come “nemici di classe” andavano eliminati fisicamente con la giustificazione, ad esempio, che «la repressione non veniva realizzata dalla stazione di polizia ma dall’ispettore in persona». Inoltre, le esecuzioni dovevano avvenire con modalità precise che comprendevano l’utilizzo di pugnali e bastoni invece che di armi da fuoco, e non a causa dell’eventuale indisponibilità di tali strumenti: i contadini dovevano essere incoraggiati a pensare che la loro ribellione non avrebbe dovuto attendere di avere a disposizione un numero sufficiente di armi da fuoco. Ma soprattutto, «uccidere con armi che sono estensioni delle mani comporta una maggiore fisicità che non impugnare una pistola; in questo modo s’incoraggia il contadino ad agire di sua iniziativa e a osare, laddove le armi da fuoco tendono a soffocarlo» (Mazumdar 1970, cit. in Dasgupta 1975: 46). Secondo Mazumdar «Il rancore e la rabbia della gente trovava espressione quando dipingeva i propri slogan con il sangue del nemico e appendeva la sua testa al tetto della sua casa» (Mazumdar 1970, cit. in Duyker 1987: 152). La violenza perpetrata dai contadini era dunque diversa da quella dello Stato, e implicava un maggior coinvolgimento corporeo, dunque diretto, materiale ed emotivo dei ribelli, per mezzo del quale «capovolgere il sistema di potere che li opprimeva»27. Questa pratica cruenta, reiterata e deliberata fu severamente condannata nel dibattito pubblico. Tuttavia, come teoria della prassi rivoluzionaria, essa fu anche vivamente dibattuta su piani analitici molteplici da diversi marxisti indiani. A un estremo dello spettro della discussione si collocava la posizione riconducibile alla linea argomentativa di Anit Sen. Secondo Sen, «la corretta interpretazione del conflitto di classe prevede che una persona appartiene a una classe in virtù della sua posizione nel sistema produttivo. E dunque un proprietario terriero cessa di essere tale nel momento in cui viene privato della sua posizione garantita dal potere dello Stato», mentre la concezione di Mazumdar, continua Sen, «risponde a una visione idealistica del concetto di classe secondo la quale il proprietario terriero deriva il suo potere da un ordine soprannaturale e dunque l’oppressione può essere rimossa soltanto se si rimuove dalla faccia della Terra colui che la incarna» (Sen 1980: 132). 26 I leader del movimento nassalita nella seconda metà degli anni Sessanta erano Kanu Sanyal, un politico di origini piccolo-borghesi che aveva vissuto e lavorato nelle zone contadine del Bengala per diversi anni, Jangal Santhal, un contadino, e soprattutto Charu Mazumdar, che aveva scritto fino a quel momento una serie di articoli nei quali tentava di adattare la teoria rivoluzionaria elaborata da Mao durante il periodo di Yenan al contesto indiano, accentuando la caratterizzazione delle ribellioni in termini di rivolta antifeudale. Charu Mazumdar era stato l’ispiratore di diverse rivolte contadine precedenti a quella di Naxalbari. Intorno al 1969 egli divenne il leader del movimento. Appoggiato dalla Cina a partire dal 1967, il suo prestigio internazionale fu accresciuto per mezzo della pubblicazione di due suoi articoli sulla «Rivista di Pechino», che ne diffuse i discorsi attraverso il network diplomatico e politico della ambasciate cinesi nel mondo, e all’interno del movimento comunista internazionale, consacrandolo come “il grande leader del movimento rivoluzionario indiano” per il suo riferimento continuo a Mao (Dasgupta 1978: 6). Quando i nassaliti adottarono la linea politica dell’annichilimento, ebbe inizio il progressivo allontanamento di Pechino e in generale l’isolamento di Mazumdar, anche in virtù dell’abbandono della linea di massa maoista che aveva caratterizzato i primi anni di insurrezioni. Piuttosto che cercare il coinvolgimento attivo dell’intera popolazione nella lotta insurrezionale, Mazumdar optò per azioni di guerriglia isolate e spesso in opposizione alle organizzazioni sindacali delle aree in cui avevano luogo le ribellioni. Chakrabarty (che risponde al nome di Srremati, da non confondere con Dipesh, membro dell’Indian Subaltern Studies Group) imputa questo mutamento di atteggiamento alla conclusione della Rivoluzione culturale in Cina e alla volontà di Zhou en’lai di prendere le distanze dalle violenze perpetrate dai nassaliti nelle campagne indiane. Chakrabarty riporta infatti il testo del dialogo dell’ottobre 1970 tra il leader cinese e quello indiano Souren Bose (membro della delegazione che nel 1968 aveva fatto segretamente visita ai vertici del Partito comunista cinese a Pechino), nel quale il 75 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 76 All’estremo opposto, marxisti più radicali come Sankar Ghosh erano dell’avviso che gli eccessi rivoluzionari derivassero da una lettura forzatamente limitata e selettiva degli scritti di Mao. Più che aspirare a una corretta interpretazione del marxismo come metodologia d’analisi dei rapporti sociali, secondo Ghosh i leader del movimento nassalita tendevano a trarre il “loro” maoismo dalla lettura esclusiva del Libro Rosso e del Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan. Per questo motivo Mazumdar e gli altri rimanevano vincolati da un lato a un testo in larga parte propagandistico e in ogni caso superficialmente analitico, e dall’altro a un testo profondamente analitico della realtà delle campagne, ma in cui la strategia rivoluzionaria va definendosi dinamicamente in parallelo al farsi storia dell’esperienza del movimento contadino cinese, piuttosto che offrirsi come un modello compiuto28. E tuttavia, anche la posizione di Ghosh, che intendeva in parte affrontare il problema analitico di confrontarsi con il maoismo sul piano teorico, si limitava a imputare gli “eccessi” a una parziale ignoranza del pensiero di Mao29; proiettando questa considerazione sulla storia del movimento di liberazione indiano, Ghosh finiva con l’avallare la tesi secondo la quale la violenza come prassi deliberata non costituiva una caratteristica propria delle rivolte dei contadini nel subcontinente, se non limitatamente al perseguimento degli obbiettivi immediati della rivolta oppure in condizioni in cui l’assenza dei leader dava via libera alle derive proprie dello spontaneismo incontrollato30. In fin dei conti, dunque, questa lettura salvaguardava la propria compatibilità storiografica con il versante marxista del mito nazionalistico della non-violenza, inscrivendo la violenza di diverse rivolte della lotta anticoloniale entro la dialettica interna al movimento nazionalista tra moderati, socialisti e comunisti. In questo senso dunque, gli eccessi venivano stigmatizzati come patologici. È chiaro come sul piano logico sia possibile argomentare che il concetto stesso di “eccesso” si fondi in ultima istanza su una valutazione implicita di quale sia il grado socialmente accettabile di violenza. Ma è altrettanto evidente, nonché maggiormente rilevante, che l’analisi politica di suddetti “eccessi” poggiasse sull’assunto che il movimento nassalita, come fenomeno storico specifico, non si sottraesse in alcun modo significativo alla possibilità di essere interpretato entro la struttura del linguaggio marxista, per collocarne le azioni e il loro senso nella griglia concettuale della militanza. In quest’ottica, le due letture, sia quella di Sen che quella di Ghosh, tendevano a convergere lungo gli assi del giudizio morale, dell’ortodossia teorica e dell’opportunità strategica, per intercettarsi vicendevolmente in prossimità della categoria sociologica di devianza31. primo criticava lo slogan nassalita “il presidente cinese è il nostro presidente”. Seguì una lettera aperta di Bose e di altri leader (in carcere) che attribuivano tutte le responsabilità a Mazumdar (cfr. Chakrabarty 1990: 135 e ss.). Questi morì in carcere il 28 luglio 1972, non superando il dodicesimo giorno di detenzione. 27 Mazumdar 1969, Eight historical documents on the uncompromising struggle against revisionism by our respected leader Charu Mazumdar. Pubblicato in Bengalese dalla commissione del Bengala settentrionale del CPI–ML, citato in Dasgupta 1974: 6 e riportato in nota 19 di Dasgupta 1978: 23. Cfr. Ghosh 1975, e il recente lavoro di Mukherjee (2007), in cui l’autore problematizza il rapporto dei leader nassaliti con i maoisti cinesi in termini di confronto ideologico e sulla prassi di mobilitazione delle masse rurali. Il leader nassalita Sanyal elaborò un resoconto delle ribellioni e delle loro cause immediate seguendo i lavori di Mao sulla lotta contadina nello Hunan. Cfr. Sanyal K., Report on the Peasant Movement in the Terai Region (ottobre 1968), ampiamente citato in Ghosh 1992, pp. 345-363. Mao Tse-tung, tra il 1926 e il 1927, pubblicò una serie di articoli sul periodico «Contadini Cinesi» che analizzavano sia la condizione socio-economica della regione dello Hunan, che le strategie paramilitari e di comunicazione da seguire nella mobilitazione. Questo è uno dei motivi di maggior interesse degli scritti del cosiddetto “periodo di Hunan”, poiché diversi rivoluzionari, in India, Vietnam e Cambogia, vi videro una sorta di prontuario della mobilitazione contadina e un modello analitico per le condizioni delle aree rurali. 28 29 Secondo Ghosh, non si teneva conto, ad esempio, della dimensione volontarisitca della partecipazione alla lotta di classe teorizzata da Mao, secondo cui anche il proprietario terriero, attraverso la procedura dell’autocritica e dopo essere stato privato della proprietà, poteva divenire “un uomo nuovo” e schierarsi dalla parte della rivoluzione. 76 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 77 Ciò non toglie che la concettualizzazione della violenza dei nassaliti, delle modalità con cui veniva praticata e le motivazioni che venivano addotte per giustificarla e istigarla, ponevano l’apparato logico-grammaticale del marxismo di fronte a un limite di ordine categoriale, lo conducevano sulla soglia di un territorio non tracciato. Tale limite può essere pensato come l’impossibilità di dare un nome a una forma non strumentale di pratica deliberata della violenza che si traduce in una modalità di soggettivazione collettiva del ribelle non direttamente inscrivibile entro il linguaggio della militanza, né della tattica, né dell’interesse, se non in termini di superamento di un limite, se non negativamente. Le modalità di siffatta forma di soggettivazione delineano dunque uno iato tra limite ed eccesso, tra un’interpretazione latu sensu finalistica dell’agire sociale e l’impasse di derivazione nominalista di fronte all’attribuzione di senso a una pratica sociale che appare inutile, persino nei modi, rispetto ai fini della rivolta stessa. Ciò produce una deformazione di quella rete neurale del concetto occidentale di militanza politica che ci è più familiare e che in alcune delle sue regioni più recondite appare liminare all’immaginario nichilista, e dunque ancor più fuorviante, dato il suo individualismo esasperato, opposto alla natura organicamente collettiva delle ribellioni contadine32. Entro le maglie in tensione di questo tessuto concettuale, la mossa linguistica e storiografica di Guha fu quella di dotare il modulo grammaticale elaborato per designare la specificità del movimento nassalita di una profondità temporale propria e tutt’altro che neutra dal punto di vista delle sue implicazioni politiche e teoriche. Egli tradusse gli eccessi rivoluzionari dei ribelli nassaliti nella violenza simbolica dei contadini dell’India coloniale. Ribellarsi significava distruggere gran parte di quell’universo simbolico che al contadino era familiare, di cui aveva imparato a leggere e manipolare i segni al fine di estrapolare dal complicato mondo che lo circondava un significato complessivo che gli permettesse di trovarvi una collocazione. Il rischio connaturato al tentativo di “capovolgere le cose” in tali condizioni era, quindi, così grande che difficilmente il contadino si sarebbe impegnato a cuor leggero in un simile progetto33. Se nella società indiana esisteva una elaborata semiotica del potere per cui il dominio si esercitava anche entro ambiti e livelli non materiali, la ribellione non poteva essere semplicemente una questione di proprietà. Questa lettura sembrerebbe essere avallata dalle ricerche di Seth secondo il quale, in sintesi, nel corso delle rivolte coloniali l’atto di impossessarsi della terra o di distruggere i libri contabili su cui i proprietari terrieri registravano i debiti dei lavoratori agricoli non era disgiunto dall’attacco deliberato alle icone e ai simboli del potere e ai codici gerarchici 30 Su questo punto Ghosh riprende quasi per intero l’argomentazione di Lenin contro l’estremismo (cfr. Lenin 1955). Su questa linea del resto si muove l’opinione di Samanta secondo la quale tali efferatezze possono essere lette in termini di fanatico “zelo rivoluzionario” dal momento che gli stessi nassaliti le giustificavano nel linguaggio marxista (cfr. Samanta 1984). 31 32 Il nichilismo si identifica con il movimento antimonarchico diffusosi nella Russia zarista intorno al 1860 e noto appunto come “nichilismo russo” (nigilismo). Ispirati dal razionalismo occidentale, dalle tendenze scientiste e positiviste del pensiero europeo del XIX secolo, i nichilisti russi, in aperto contrasto con il contemporaneo sviluppo del pensiero populista (narodnicestvo) tra l’élite democratica antizarista, intendevano capovolgere l’assetto organizzativo della società russa, considerata una gabbia opprimente e semifeudale. Furono tra i primi a scegliere il terrorismo come pratica di lotta e ad attentare ai simboli religiosi e del potere zarista, così come furono il primo gruppo a vedere un’attiva e fondamentale partecipazione femminile alle proprie attività. Tra le nichiliste russe (nigilistka) va sottolineata la presenza di Vera Zasulic, che sarà poi una esponente di spicco dell’intellighenstia russa negli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo e al cui nome è legata una famosa lettera scritta da Marx a proposito delle prospettive della rivoluzione proletaria in Russia (corrispondenza dell’8 marzo 1881). Sul nichilismo russo cfr. Stites 1978. Sul populismo russo e sul suo rapporto col marxismo e con le altre correnti radicali europee dell’Ottocento cfr. Venturi 1952 e Walichi 1973. 33 Guha e Spivak 2002: 43. 77 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 78 del suo linguaggio (Seth 1995, 1997, 2002). L’idea di “capovolgere le cose” che nei discorsi di Mazumdar giustificava la pratica della linea dell’annichilimento, in Guha produceva un effetto storiografico e uno politico. Dal punto di vista storiografico, le tesi di Guha contestavano esplicitamente la convinzione radicata nel dibattito accademico indiano che le rivolte contadine dovessero rientrare necessariamente in forme spontaneistiche di ribellione (Guha e Spivak 2002: 44-45). L’obbiettivo polemico diretto ed esplicito di Guha era la storiografia marxista britannica, e in particolare le tesi di Eric Hobsbawm riguardo ai “ribelli primitivi”. Secondo lo storico inglese infatti, le forme di opposizione e resistenza che si organizzavano ricalcando strutture di tipo parentale o religioso non potevano essere considerate prettamente politiche. I gruppi sociali che esprimono in questo modo la propria soggettività non avrebbero ancora introiettato, secondo Eric Hobsbawm, i codici delle istituzioni capitalistiche e il loro agire sarebbe, in questo senso, pre-politico. Per i “ribelli primitivi” dunque, l’acquisizione della coscienza politica si collocherebbe in un certo senso «all’esterno della logica del capitalismo: essa giunge loro dal di fuori, in modo insidioso, per mezzo dell’operare di forze economiche che non capiscono e sulle quali non possono disporre di alcuna capacità di controllo». Secondo Guha invece, l’insurrezione dei contadini nell’India coloniale era affatto politica, ma il suo valore non poteva essere riconosciuto come tale se per comprenderlo si adoperavano le categorie interpretative che assumevano la società occidentale come modello di riferimento34. Il fatto che queste rivolte miravano principalmente a distruggere l’autorità dell’élite senza disporre di alcun piano ben elaborato per sostituirla, non le pone al di fuori del regno della politica. Al contrario, l’insurrezione affermava il suo carattere politico proprio attraverso le sue procedure negative e d’inversione35. Dal punto di vista politico, le tesi storiografiche di Guha ponevano le pratiche dei nassaliti in una prospettiva diversa da quella degli “eccessi rivoluzionari” e giungevano a fondarne teoricamente e storicamente il valore di spazio proprio dell’agire subalterno. Tali “procedure negative” sarebbero infatti le forme specifiche della coscienza contadina e delle sue modalità di soggettivazione, dal momento che «l’identità del contadino era data dalla complessità della sua subalternità. In altre parole, egli imparava a riconoscere se stesso non attraverso le proprietà e gli attributi della propria condizione sociale ma per mezzo di una diminuzione, se non di una negazione, di quella dei suoi superiori». In un gioco a somma zero in cui l’autorità e il prestigio del proprietario terriero erano tali grazie alla distanza materiale e simbolica tra questi e il contadino, la rivolta doveva passare per l’annullamento di tale distanza, proprio attraverso pratiche relativamente incomprensibili. Ma se la violenza serviva ad annullare la distanza in termini di potere, il concetto di violenza simbolica annullava di fatto la distanza temporale tra le rivolte anticoloniali e quelle nassalite, realizzando quella che Gumbrecht ha definito una presentificazione del passato attraverso il linguaggio (Gumbrecht 2006: 324)36. Come ha fatto notare Stuurman, il medium esperienziale Scrive Guha: «Il materiale adoperato da Hobsbawm è derivato quasi interamente dell’esperienza europea e le sue generalizzazioni rispondono a questa circostanza. Sebbene la nozione di prepolitico risulti valida per altri paesi essa è di poco aiuto per la storia dell’India» (Guha 1983: 6). 35 Ivi, p. 3. 36 Per una trattazione estesa si veda Gumbrecht 2004. Sul rapporto tra esperienza e narrazione del passato cfr. Whyte 1987, in particolare il capitolo intitolato The Politics of Historical Interpretation, Discipline and De-sublimation, pp. 58-83; Ankersmit 2005: 252-260, 308-310. Sul concetto di presentificazione nel pensiero di Giovanni Gentile si veda Peters 2006 e Fogu 2003. Nel delineare simili eventi linguistici, sia Skinner che Gumbrecht adoperano la metafora dell’epifania, al fine di includere nell’analisi l’elemento dell’emotività correlato alla trasposizione narrativa nel 34 78 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 79 in azione è rappresentato da quella che Williams chiamò “struttura dei sentimenti” (structure of feelings) (Stuurman 2000: 135; Williams 1977: 192-198). In questo senso, David Harvey, nel suo fondamentale lavoro sull’accumulazione flessibile e le configurazioni culturali che vi corrispondono, ha definito la transizione dal modernismo al postmodernismo come uno spostamento dell’esperienza dello spazio-tempo in termini di struttura dei sentimenti (cfr. Grossberg e Nelson 1988; Harvey 1995: 9, 38-42). E, entro un quadro analitico non olistico, Robert Young, pur avallando la tesi di Eagleton della “rigida tradizione reazionaria” da cui Williams avrebbe derivato i propri valori, ha tuttavia proposto la stessa chiave di lettura per spiegare in che modo alcune esperienze soggettive dei movimenti di liberazione nazionale si siano riverberate sensibilmente sugli studi subalterni e sulle successive elaborazioni della teoria postcoloniale (Eagleton 1976, cit. in Young 2007: 30). La prima pagina del suo dibattuto White Mithologies è dedicata a un passo in cui Hélène Cixous descrive la propria percezione emotiva (e allo stesso tempo razionale) dell’esperienza della guerra franco-algerina37. Young individua in questo “ricordo” l’embrione della riflessione poststrutturalista, per sostenere infine la natura intimamente meticcia di tale teoria, e proporre di riconsiderarla alla stregua di un ibrido franco-maghrebino (Young 2007: 38). Così [spiega Young nell’ultima introduzione a quella stessa opera] all’origine della formazione ideologica del gruppo dei Subaltern Studies, come è noto, ci sono le rivolte maoiste nassalite scoppiate nel 1967 nel Bengala Occidentale. […] Dato che gli storici dei Subaltern Studies erano stati ispirati dai nassaliti, niente di strano che dagli anni Ottanta in poi si sarebbero orientati con sempre maggiore convinzione verso le posizioni politico-teoriche identificate in seguito con il “postcolonialismo”: in tal modo due forme di maoismo, entrambe rielaborate da una cultura diversa da quella di origine, finivano per sovrapporsi. La teoria parigina incontrava l’insurrezione contadina indiana creando un intenso cocktail di politica subalterna. E tuttavia, il modo laconico con cui Young dà il senso della relazione generale tra movimenti sociali e saperi liquefa la potenza della sua intuizione in una constatazione apodittica, disperdendone l’efficacia in uno spazio-tempo rapsodico ed enunciativo. Egli sovrappone il movimento nassalita, il maoismo dei suoi leader, quella che Mezzadra sintetizza come “l’influenza del radicalismo contadino di fine anni Sessanta” su Guha e il debito teorico di Althusser al marxismo di Mao (Mezzadra 2002: 12). Il suo obbiettivo è individuare un linguaggio comune che sia simultaneamente condizione di possibilità e spinta ideologica per l’interazione reciproca tra le differenti attitudini politiche e teoriche che egli ritiene confluite nel punch del postcolonialismo38. Young si incammina risoluto lungo il sentiero della critica di Spivak a Foucault e Deleuze, rei di aver ridotto il maoismo a “l’eccentrico fenomeno del maoismo intellettuale francese” (Spivak 2004: 272). Ma imbocca una scorciatoia d’impronta platonica, spinto dalla fretta di giungere a depositare il brevetto della mappatura del genoma della teoria postcoloniale. presente di eventi passati (Gumbrecht 2006: 318; Skinner 2001: 191). Il concetto di epifania viene qui inteso nel senso etimologico di “manifestazione” così come utilizzato da James Joyce, in Gente di Dublino, in particolare nel racconto conclusivo intitolato I morti. «Appresi tutto da questo primo spettacolo: vidi che il potere bianco (francese), superiore, plutocratico, civile era fondato sulla repressione di popolazioni improvvisamente divenute “invisibili” al modo di tutti i proletari, gli immigrati, le minoranze che non sono del giusto “colore”» (Cixous 1966, cit. in Young 2007: 61). 37 38 Secondo Young «dopo il 1968 l’ampia massa di opere intellettuali prodotte nel corso delle lotte anticoloniali fu a poco a poco raccolta per armonizzarla ai discorsi occidentali di critica e dissidenza, usandola poi per combattere il sapere e il potere egemonici e eurocentrici. La forma d’intervento teorico prodotta da questa congiunzione politica, ricca di spunti e nuove energie, sarebbe stata chiamata “postcolonialismo”» (Young 2007: 36). 79 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 80 Paradossalmente, egli finisce con l’intendere il maoismo come il discorso egemonico all’interno di un campo di forze critiche e antagoniste. Young descrive l’insurrezione nassalita essenzialmente come una guerriglia maoista, poi attribuisce ai Subaltern Studies la medesima matrice ideologica, per avvalorare reciprocamente ambedue queste caratterizzazioni storiche e produrre infine l’effetto di rinsaldare retrospettivamente il nesso interpretativo che egli stesso ha stabilito. Nel far ciò, Young soprassiede alla contraddittorietà tra la sua lettura dei Subaltern Studies e la storiografia dei Subaltern Studies. L’intero programma di ricerca, infatti, ruotava intorno alla presunta esistenza di uno spazio autonomo dei subalterni che interagiva con i codici esterni a esso in modo opportunistico e in ogni caso senza che fosse mai realizzata una perfetta corrispondenza tra i due immaginari politici. Va detto altresì che alcune caratteristiche del pensiero di Mao lo rendevano maggiormente duttile, adattabile e aperto a includere le istanze e le strategie politiche proprie dei contadini, di quanto le forme a esso contemporanee di marxismo, teorico e organizzativo, non si erano e non si sarebbero mai dimostrate. Ma tali “pregi” non possono essere consacrati a presunte proprietà intrinseche al maoismo come struttura logica, tali da rendererlo immune alla critica all’omogeneizzazione delle pratiche di lotta dei contadini, fulcro della riflessione dei Subaltern Studies. Supporre il contrario equivale a sostenere che il maoismo avrebbe avuto successo laddove il nazionalismo aveva fallito, e cioè nel tradurre completamente le istanze dei subalterni in forme pienamente intelligibili nei codici di un’immaginario altro. 80 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 81 L’archivio coloniale in chiaroscuro Il progetto di recuperare le tracce dell’agire autonomo dei subalterni aveva posto fin da subito una serie di problemi di ordine metodologico relativo al tipo di fonti da utilizzare, ma soprattutto al modo in cui concettualizzarne il contenuto. L’intervento di Guha nella storiografia sui movimenti sociali e sulle mobilitazioni dei contadini si collegava, sotto questo profilo, a dibattiti e a studiosi che si erano posti problemi analoghi. Eugen Weber, a metà anni Settanta, nel suo studio sui contadini nella Francia del XIX secolo, aveva sottolineato che «gli analfabeti non sono di fatto incomprensibili; essi in realtà si esprimono in diversi modi. Sociologi, etnografi, geografi e demografi storici stanno fornendo nuovi modi di affrontare questo problema» (Weber 1977: XVI). Edward Palmer Thompson e Keith Thomas, dal canto loro, avevano, in precedenza, mutuato diversi strumenti d’analisi dall’antropologia, nel tentativo di colmare quel vuoto di conoscenza che la storiografia inglese continuava a riprodurre per quanto riguardava l’indagine sul passato degli strati sociali più bassi (Thompson 2001: 481). Sebbene la voce dei contadini non apparisse direttamente nei documenti d’archivio, Guha si concentrò sulle fonti scritte e in misura di gran lunga minore sul contributo che poteva provenire dalle fonti orali1. Ma se Guha e Thompson condividevano l’idea secondo la quale nelle rispettive storiografie nazionali esisteva un vuoto di conoscenza relativo a coloro che lo storico inglese identificava come “common people” e Chatterjee, in modo polemico, come “the people of no importance”, il modo in cui essi praticarono un’opzione di ricerca simile li condusse lungo percorsi divergenti, poiché le fonti a disposizione di Thompson consistevano in parte in documenti prodotti da membri dei gruppi che egli voleva studiare, mentre Guha non poteva disporre di materiali analoghi, dato l’analfabetismo delle popolazioni rurali dell’India coloniale2. Le tesi metodologiche dei Subaltern Studies sono esposte da Guha ne La prosa della controinsurrezione e nella breve precisazione terminologica dal titolo Una nota sul senso dei termini élite, popolo, subalterni ecc., utilizzati in questo saggio che conclude il già citato A proposito di alcuni aspetti della storiografia dell’India coloniale. Inoltre, tali tesi metodologiche sono estese e approfondite in alcuni saggi di Chakrabarty e Chatterjee. Nel secondo dei due saggi di Guha menzionati, troviamo una specificazione di ordine lessicale e pertanto afferente all’ambito gramCome ha affermato recentemente lo stesso Chatterjee, gli storici subalterni «scoprirono nuove fonti in cui era possibile ritrovare la voce dei subalterni, ma queste fonti sono davvero scarse» (Chatterjee 2006: 2). L’utilizzo delle fonti orali è maggiormente rilevante nel capitolo intitolato Transmission in Guha 1983: 220-278, in cui Guha descrive le dinamiche informali di comunicazione tra i contadini nel processo di mobilitazione che precedeva le rivolte. 1 Nei volumi della collana Subaltern Studies, l’unica ricerca che utilizza come documento storico una sorta di diario, redatto da un membro di un gruppo subalterno, è opera di Gyan Pandey (Pandey 1984). 2 81 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 82 maticale, mentre nel primo abbiamo un tentativo di formalizzazione del modo in cui egli proponeva di leggere l’archivio; quest’ultima consiste nella traduzione in metodo d’indagine delle istanze storico-sociali di rappresentazione che abbiamo identificato attraverso il prisma del rapporto tra movimenti sociali e produzione di sapere. Le fonti vennero classificate da Guha in: discorso primario, secondario e terziario, in base all’ordine della loro apparizione nel tempo e ai rapporti di filiazione che esistono tra essi. Ognuno [precisa Guha] si differenzia dagli altri due per il grado di identificazione formale e/o consapevole (intesa come opposta all’identificazione reale e/o tacita) con il punto di vista ufficiale, per la sua distanza dagli eventi a cui si riferisce e per la proporzione in cui le componenti distributive e integrative si fondono nel testo. Servendosi dell’analisi sequenziale propria della teoria linguistica di Bally, Barthes e Benveniste, Guha distingueva, all’interno dei resoconti narrativi e dei rapporti delle autorità coloniali sulle rivolte, quegli elementi che «indicano – ossia raccontano – le azioni dei ribelli [da] quelli interpretativi, che le commentano, al fine di comprendere – ossia spiegare – il loro significato» (Ivi, pp. 54-55)3. Guha mostrò brillantemente come l’intrusione degli elementi interpretativi nella narrazione degli eventi fosse presente anche in quei documenti il cui linguaggio avrebbe dovuto rispondere strettamente alla mera funzione di informare le autorità centrali su ciò che stava avvenendo nei distretti rurali e dunque, a fortori, egli negò la presunta oggettività storiografica delle ricostruzioni storiche che si fondavano su tali materiali, per denunciare infine la complice circolarità tra le pratiche di repressione e le informazioni veicolate in simili ricostruzioni4. Ciò che egli rinvenne dietro le note allarmate dei funzionari coloniali locali in ansia di fronte all’approssimarsi delle ribellioni, dietro la riprovazione morale per i saccheggi, dietro l’insofferenza militarista per i successi di alcune insurrezioni contadine, così come dietro alla paternalistica preoccupazione liberale per “l’incivilimento” dei “miti e benevoli” contadini indiani, era il bisbigliare del potere bianco, la “voce del colonialismo vigente” (Ivi, p. 60). E Guha fece in modo di campionarlo e amplificarlo, per rendere udibili le dissonanze di cui le fonti archivistiche recavano ineluttabilmente traccia. Il discorso storiografico, strettamente intrecciato con la politica, finisce così per fare propri gli interessi e gli obbiettivi del regime coloniale stesso. In questa affinità con la politica, la storiografia svela la propria natura di conoscenza colonialista. Essa deriva cioè direttamente da quella conoscenza che la borghesia aveva utilizzato nel periodo della sua ascesa per interpretare il mondo al fine di dominarlo e di stabilire la propria egemonia all’interno delle società occidentali, ma che si era poi trasformato in uno strumento di oppressione nazionale non appena la borghesia stessa avviò la lotta per conquistare “un posto al sole”. Fu così che quella medesima Scienza Politica che aveva forgiato l’ideale della cittadinanza per gli stati-nazione europei fu utilizzata, nell’India coloniale, per fondare istituzioni e per redigere leggi che si proponevano l’obbiettivo specifico di generare una cittadinanza mitigata e di seconda classe. Quella stessa Economia Politica che si sviluppò in Europa in contrapposizione al feudalesimo in India finì per contribuire alla nascita di un latifondo neofeudale. Anche la storiografia si adattò alle relazioni di potere vigenti sotto il raj e fu posta sempre più al servizio dello Stato5. 3 In nota Guha dichiara in particolare il debito contratto con Barthes (Guha e Spivak 2002: 100, nota 9). «[…] gli indizi rendono il dispaccio qualcosa di più che un semplice resoconto degli avvenimenti, e aiutano a inserire in esso un significato, un’interpretazione» (Guha e Spivak 2002: 59). 4 5 Guha e Spivak 2002: 78. 82 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 83 Anticipando in parte alcuni dei temi di riflessione di Paolo Rossi e Aleida Assmann sull’importanza dell’archivio come luogo dell’oblio, oltre che della memoria, Guha affermò che l’ideologia colonialista interveniva a monte della produzione storiografica, sottraendosi a priori alla possibilità di essere rintracciata esclusivamente sul piano razionale, dal momento che agiva sul modo attraverso cui coloro che producevano i documenti, sia nel momento stesso degli eventi, che nei momenti successivi in cui gli stessi eventi venivano rielaborati, percepivano emotivamente e raccontavano i fenomeni a cui assistevano o avevano assistito, e di cui erano o erano stati parte6. Nell’evento dell’insurrezione dunque, la storiografia colonialista non poteva che collocarsi su uno dei due versanti dello scontro tra detentori del potere e ribelli, dal momento che «l’antagonismo tra i due è irriducibile e non vi è spazio per la neutralità» (Ivi, p. 62). Per Guha la rivolta contadina rendeva manifesta un’opposizione latente nella dialettica sociale dell’India coloniale, restituendo una dicotomia chiaramente intelligibile. Gli indizi all’interno di questo discorso [la storiografia coloniale] ci introducono a un particolare codice, costituito in modo tale che per ognuno dei suoi segni noi abbiamo un opposto, un contro-messaggio, espresso in un altro codice. Prendendo a prestito una rappresentazione binaria resa famosa da Mao Tse-tung, l’espressione “va veramente male!” deve avere, per ciascun elemento all’interno di uno dei due codici, una corrispondenza in un elemento nell’altro codice a cui possa essere applicata l’espressione “va veramente bene!”, e viceversa. In un grafico che esprime lo scontro tra questi codici si possono collocare gl’indizi in corsivo all’interno dei testi […] in modo tale da individuare la loro collocazione rispetto ai termini (citati in maniera simmetrica) che alludono, per quanto impliciti, alla corrispondente matrice veramente male7. MALE BENE insorti contadini fanatici puritanesimo islamico audaci e sfrenate atrocità contro gli abitanti resistenza all’oppressione sfidare l’autorità dello Stato rivolta contro gli zamindar disturbare la quiete pubblica lotta per un ordine migliore intenzione di attaccare intenzione di punire gli oppressori uno dei loro dèi deve governare come un re autogoverno dei Santal Guha, dunque, intendeva sopperire ai silenzi delle fonti d’archivio per mezzo di una strategia deduttiva in cui uno dei due opposti di ciascuna coppia dicotomica considerata veniva concettualizzato in termini di allusione, e rinviava a una dimensione implicita. La sua proposta metodologica consisteva pertanto nel far emergere la matrice discorsiva delle rivolte contadine e renderla leggibile grazie a un intervento di natura ideologica. La scelta di sottoporre a scrutinio storiografico i documenti coloniali si traduceva nella volontà di opporvi un’interpretazione de6 «Cancellare ha anche a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità. Si è voluto spesso impedire che le idee circolino e si affermino, si è voluto (e si vuole) limitare, far tacere, consegnare al silenzio e all’oblio. Qui l’invito o la costrizione alla dimenticanza hanno a che fare con le ortodossie, con il tentativo di costringere ogni possibile pensiero entro un’immagine irrigidita e paranoicale del mondo» (Rossi 1991: 25; cfr. anche Assman 2000). 7 Guha e Spivak 2002:61. 83 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 84 rivativa dei medesimi eventi, prodotta dall’incontro tra l’enfasi antinazionalista di Guha, il concetto gramsciano di subalternità, le tracce delle pratiche dei ribelli presenti nei documenti d’archivio, il pensiero di Mao. Ma non solo. Guha fu influenzato dagli scritti di Mao nella costruzione del contadino come soggetto storico (Young 2007: 40-44; Mezzadra 2002: 12; Chakrabarty 2004: 241; Hutnyk 2003: 482; Bahl 2000: 90; Ascione 2006: 68). Ma, come ha rilevato Skinner, l’influenza è uno strumento euristico molto difficile da utilizzare nella storia delle idee8. (Skinner 1966: 201). Nel tentativo di qualificare questa, e altre influenze, è importante rilevare come essa si evidenzi in modo tutt’altro che lineare nell’apparato logico-grammaticale della storiografia dei Subaltern Studies. Il contadino di Guha non è semplicemente sovrapponibile con i contadini di Mao. Se quest’ultimo infatti, proprio nel Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan, procedeva a una minuziosa analisi della stratificazione sociale nelle campagne cinesi, Guha accomunava diversi gruppi della popolazione rurale esclusivamente sulla base del loro rapporto con le mobilitazioni, allorché precisava ad esempio che «i contadini ricchi e quelli benestanti che sono “naturalmente” collocati fra il “popolo” e i “subalterni”, in certe circostanze hanno potuto agire negli interessi dell’élite» (Guha e Spivak 2002: 42; cfr. Chakarabarty 2004: 244). Mao, dal canto suo, adoperava l’analisi del processo di accumulazione primitiva per delineare l’articolazione delle differenze sociali nelle aree rurali e avanzare ipotesi sulle attitudini di gruppi specifici verso la mobilitazione9. È evidente come il rapporto di determinazione tra rivolta e stratificazione sociale sia rovesciato sotto il profilo euristico, così come è evidente che l’asse di rotazione attorno al quale tale rovesciamento ha luogo è di natura temporale: Mao aveva di fronte la prospettiva di una rivoluzione da compiere, Guha quella delle rivolte contadine da analizzare. Ciò che è maggiormente rilevante, tuttavia, è che la differenza tra i due pensatori trova conferma nel modo in cui i saggi sulle rivolte prodotti dallo stesso Guha e dagli altri membri del collettivo indiano adoperano il concetto di contadino, declinandolo cioè in modo tale da rendere trasparente la molteplicità di determinazioni particolari che Mao aveva individuato al di sotto dei possidenti e semipossidenti (rispettivamente ricchi e benestanti nel lessico di Guha) (Brass 2006; Chibber 2006). Superficialità terminologica da parte dello storico indiano? In A Rule of Property for Bengal, Guha aveva affrontato il tema della relazione tra lo scontro ideologico all’interno dell’élite coloniale circa la forma da dare alla proprietà fondiaria in India alla fine del Settecento e il processo di monetarizzazione delle rimesse agricole nel Bengala, che a partire dalla fine del XVIII secolo la Compagnia delle Indie si trovò a gestire (Langford 1991; Travers 2005). Anche in quel caso, la definizione degli strati contadini si attestava sulla linea di demarcazione che separava gli zamindar dalle diverse categorie di contadini che abitavano i distretti rurali. L’analisi dell’economia politica del colonialismo inglese nel Bengala Occidentale, esposta da Guha, poggiava, dunque, anch’essa sulle fonti di archivio coloniale, le quali registra- 8 In alcuni passaggi Guha riecheggia la teoria delle contraddizioni di Mao: «L’ideologia che operava nello spazio della mobilitazione subalterna, rifletteva l’eterogeneità della composizione sociale di quello spazio, con un rilievo particolare assunto dalla prospettiva delle componenti della mobilitazione che risultavano, di volta in volta e situazione per situazione, prevalenti sulle altre» (Guha e Spivak 2002: 36). 9 Il già citato Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nello Hunan del marzo 1927 rappresentò una sensibile reinterpretazione dello strumento metodologico dell’inchiesta agraria così come intesa ed elaborata da Lenin al volgere del XIX secolo. Lenin infatti, con l’opera dal titolo Nuovi spostamenti economici nella vita contadina del 1893 (pubblicato solo nel 1923) aveva inaugurato una prospettiva di ricerca sulla stratificazione sociale che si fondava sull’analisi dettagliata di dati statistici, laddove Weber, pur condividendo l’obbiettivo di comprendere in che misura il tessuto sociale delle campagne (nelle province orientali dell’Elba nel suo caso) stava subendo una trasformazione in senso capitalistico, aveva costruito e studiato oltre tremila questionari inviati ai proprietari terrieri (cfr. Weber M., [1892] Le relazioni dei lavoratori della terra nella Germania orientale, cit. in Lentini 2003: 266). Le metodologie utilizzate nell’opera del 1893 da Lenin trovarono poi una forma più matura in Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1898). Per un’interessante ricostruzione 84 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 85 vano, più di ogni altra cosa, l’incapacità dei colonizzatori di tradurre i complessi sistemi di gestione delle risorse agricole e delle proprietà terriere indigene entro forme assimilabili al diritto occidentale (Wilson 2007). L’inconsistenza delle disposizioni legislative, unita alla rozzezza delle pretese etnografiche dei britannici, costituiva proprio una delle tesi centrali del primo significativo lavoro di Guha (Guha 1963: 5, 95-96). Ciò non toglie che, in assenza di fonti archivistiche tali da garantire una caratterizzazione maggiormente adeguata della complessità della stratificazione sociale nelle aree rurali, Guha derivasse proprio da quella etnografia e da quel diritto coloniali la caratterizzazione dei contadini, nell’impossibilità, forse, ancorché nella volontà, di servirsi a pieno degli scritti di Mao come strumento metodologico. Dall’analisi sia lessicale che sostantiva della collana Subaltern Studies, infatti, emerge in modo piuttosto evidente che la sola specificazione ulteriore concessa ai contadini è quella di “contadini tribali” o adivasi10. Definizione ereditata dagli Arii e istituzionalizzata da Nehru sulla base delle indicazioni dell’antropologo inglese Verrier Elwin11. La questione metodologica della stratificazione sociale nelle aree rurali venne sviluppata fin dai primi due volumi della serie da Partha Chatterjee, mentre Dipesh Chakrabarthy si dedicò allo studio degli operai in alcune industrie di Calcutta. Chatterjee prese spunto da alcuni studi condotti negli anni Settanta del Novecento sui conflitti tra indù e musulmani nel Bengala Orientale negli anni Trenta del Novecento, per avanzare l’ipotesi che, nel corso delle mobilitazioni, le forme di autorità politica, ideologica e culturale avessero maggior peso di quanto non ne avessero le determinazioni socio-economiche della struttura di produzione agraria (Chatterjee 1981: 11). Egli classificava la struttura politica delle aree rurali secondo tre tipologie: Questi modi si differenziano in base a particolari relazioni di potere che si manifestano in forme ordinate e ripetute delle attività sociali, come la particolare struttura di allocazione dei diritti su oggetti materiali […] in un sistema di produzione sociale definito. Chiameremo questi tre modi comunitario, feudale e borghese12. La formulazione di Chatterjee, sulla scorta della lettura della transizione dal feudalesimo al capitalismo proposta dai cosiddetti marxisti istituzionalisti, assumeva come unità d’analisi uno spazio di relazioni sociali considerato piuttosto coeso al suo interno e dotato di una specifica capacità di resistere all’impatto delle forze economiche considerate esterne a tale insieme (cfr. Dobb, Hilton, Hobsbawm, Mczak, Mazzei, Merrington, Soboul, Wallerstein 1986; Brenner 1977; Aston e Philpin 1989). Secondo Brenner, la transizione al capitalismo aveva avuto origine in società distinte, la cui struttura di classe interna, in particolare le relazioni di proprietà, costituiva la variabile indipendente rispetto alla forma e alle direzioni di evoluzione delle forze economiche esterne, che ne risulterebbero, dunque, condizionate. Chatterjee, dal canto suo, collocava la genesi delle del dibattito interno all’intellighenzia russa sul tema della transizione al capitalismo e sulla strategia di modernizzazione si veda Walichi 1973. Mao riprese sia la logica fondativa del discorso analitico di Lenin, cioè appurare la presenza di relazioni di tipo capitalistico, che l’attenzione di Lenin per i processi di stratificazione sociale. E tuttavia Mao basò gran parte della propria analisi sull’esperienza diretta e partecipante della situazione socio-economica dello Hunan, sua regione d’origine e spazio in cui nacquero le prime cellule rivoluzionarie contadine. In un passo introduttivo a uno dei fondamentali articoli che formerà successivamente Il rapporto d’inchiesta Mao individuava l’esistenza di otto differenti categorie di persone: grandi proprietari terrieri, piccoli proprietari terrieri, contadini possidenti, contadini semipossidenti, mezzadri, contadini poveri, braccianti agricoli e artigiani rurali, elementi declassati. 10 L’unico lavoro che individua ulteriori livelli di differenziazione sociale nella struttura di produzione agraria è un saggio del 1975, scritto dall’economista indiano N. K. Chandra, ospitato nel secondo volume della collana Subaltern Studies e unico contributo dello studioso alla serie (Chandra 1982: 228, in nota 1). 11 Il termine adivasi deriva dal sanscrito atavika (“abitanti delle colline”), con cui gli Arii identificarono, al loro arrivo nel subcontinente (XVI secolo a.C.), gli aborigeni. Questa classificazione era stata istituzionalizzata nel 1947 con 85 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 86 ribellioni nella tensione tra l’estensione delle pratiche amministrative dello Stato coloniale e le resistenze opposte dai contadini in quanto entità collettiva, la cui coesione interna era garantita, invece che dalla struttura di classe, da legami di natura religiosa, linguistica, parentale, culturale13 (Chatterjee 1982: 317). Lo storico indiano riproponeva sostanzialmente, seppur nell’ottica delle strutture politiche, la dialettica tra gemeinschaft e gesellschaft14. Il villaggio era descritto come «la più piccola comunità collettiva della vita politica dell’India rurale» (Chatterjee 1982: 16). Nel definire il modo comunitario di strutturazione del potere, e il villaggio rurale come forma precapitalistica, egli riprese direttamente i Grundrisse di Marx15 (Chatterjee 1981: 12). Marx, ispirato dalla lettura dei resoconti di viaggio scritti a metà del XVII secolo da François Bernier, aveva identificato quattro forme sociali precapitalistiche, sulla base dell’assenza della proprietà privata della terra: asiatico-orientale, slava, classica o germanica16. Analogamente, per Chatterjee, l’autorità politica nei villaggi rurali dell’India coloniale risiedeva nella comunità in quanto ente collettivo (Ivi, p. 13). Nel già maturo dibattito sull’eurocentrismo in Marx, Chatterjee si collocava, adottandone dichiaratamente i punti di vista, dalla parte di coloro che intendevano salvaguardare il valore squisitamente euristico, e l’utilizzo circostanziato delle tipologie sociali precapitalistiche del “giovane” Marx, dall’onta dello storicismo17 (Krader 1975; Rosdolsky 1980; Zelený e Carver 1980). Egli esplicitò, infatti, che: Nel campo della teoria, la comunità rappresenta una concettualizzazione della prima forma di autorità sociale collettiva. Pertanto essa è precedente, dal punto di vista logico, a una concettualizzazione dello Stato come apparato repressivo, come la forma istituzionalizzata di relazioni di potere basate sullo sfruttamento nella società. […] Questa successione teorica non richiede il supporto di alcuna concezione storicista secondo la quale tutti i gruppi sociali umani debbano passare attraverso gli stadi successivi dell’anarchia, dell’organizzazione sociale comunitaria, e infine dello Stato. Il problema era piuttosto individuare il tipo di conoscenza grazie alla quale la caratterizzazione della struttura sociale e politica delle aree rurali, composte da una molteplicità di comunità, poteva contribuire a una rappresentazione adeguata al progetto di descrivere le dinamiche interne ai gruppi protagonisti della storia delle rivolte contadine, al di fuori della metanarrazione marxista, da cui gli storici subalterni intendevano prendere le distanze. Ebbene, la risposta di Chatterjee fu: l’avvio del programma di “sviluppo dei popoli tribali” voluto da Nehru, la cui elaborazione era stata affidata dal primo ministro indiano all’antropologo inglese e missionario anglicano Verrier Elwin. Proprio uno degli storici subalterni, Ramachandra Guha, ha pubblicato una biografia di Elwin (Guha Ramachandra 1999). 12 Chatterjee 1981: 12. 13 Si noti la coerenza di tale impostazione con i già citati saggi di Arnold, Pandey, Hardiman, Das, Henningam. 14 Sulla storia del concetto relazionale comunità/società, si veda Strath 2001. 15 Già nel 1970, Emilio Sereni aveva aperto il dibattito sulla distinzione tra forma e formazione nel pensiero di Marx. Dall’analisi filologica dei Grundrisse, Sereni rilevò un salto terminologico da una concettualizzazione teorica e statica (forma) a una dinamica storica (formazione). Per Sereni tuttavia era la dimensione statica a fornire una categoria fondamentale del materialismo storico, piuttosto che la definizione dinamica di un percorso caratterizzato da una continuità storica supposta necessaria (Sofri 1966: 196-207). 16 In una lettera di Marx a Engels, del 2 giugno 1853, si legge: «Sulla formazione delle città orientali non c’è nulla di più brillante, di più chiaro e di più indovinato che il vecchio François Bernier. […] Bernier trova a ragione la forma fondamentale di tutti i fenomeni dell’Oriente – lui parla della Turchia, della Persia e dell’Indostan – nel fatto che non vi esisteva nessuna proprietà privata del suolo. Questa è la vera clef del cielo orientale» (Marx 1972: 267-279). 17 In Italia il dibattito su questo tema fu piuttosto precoce (Sofri 1966; Melotti 1973). Per un’efficace collocazione di tale dibattito nel contesto storico internazionale si veda Wallerstein 2006: 34 e ss. Si vedano anche Anderson 1983 86 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 87 La comunità può essere identificata, nella sua forma più concretamente espressa, nell’antropologia sui gruppi tribali. Molti di questi studi, per lo più riguardanti l’Africa subsahariana, hanno rivelato l’esistenza di comunità tribali che apparentemente non posseggono un apparato statale o strutture politiche chiaramente identificabili, differenziate dal gruppo sociale in generale. Ma di quale antropologia si tratta? Chatterjee mutuò la teoria dei sistemi di lignaggio segmentario dall’antropologia sociale di matrice weberiana, divenuta il mainstream negli studi africanistici britannici a partire dal lavoro seminale di Fortes e Evans-Pritchard del 1940, attraverso le successive rielaborazioni di Smith, e soprattutto nella formalizzazione di Middleton e Tait18. Lo storico indiano attinse al noto volume collettaneo del 1958 edito da questi ultimi, la cui premessa, che conclude il primo capoverso dell’introduzione, era che i gruppi umani che essi avevano studiato «non erano mai entrati in contatto con gli europei» (Chatterjee 1983 note 13-18, 318 e ss.; Middleton e Tait 1958: 1). Già negli anni Sessanta del Novecento, questo presupposto aveva dato adito a critiche di diversa intensità tra gli antropologi. Secondo alcuni la teoria finiva col negare i processi storici che avevano attraversato gli spazi in questione (Ghana, Nigeria settentrionale, Sudan orientale, Uganda e Togo) e che avevano indotto, seppur indirettamente, delle trasformazioni sensibili nel tessuto organizzativo di tali gruppi (Carrasco 1960; Beattie 1964; Sahlins 1961 e 1965). Secondo altri, invece, l’enfasi sulla dimensione politica dei lignaggi sottovalutava quelle dinamiche economiche che mettevano in discussione la presunta stabilità interna dei gruppi in questione (Rey, Terray, Godelier e Meillassoux 1973). Ma soprattutto, negli anni Settanta del Novecento, un allievo di Evans-Pritchard, Talal Azad, tentò di storicizzare il pensiero antropologico britannico, portando alla luce il nesso costitutivo tra la propria disciplina accademica e l’espansione del dominio europeo sul continente africano. Azad affermò che l’antropologia struttural-funzionalista negava la storia dell’incontro coloniale in modo duplice: da un lato occultava i contesti imperiali e coloniali all’interno dei quali era nata e fioriva; Azad parlò apertamente della complicità tra la necessità di dominare i popoli non occidentali e l’istituzionalizzazione accademica di quelle forme di costruzione dell’alterità, che giustificavano teoricamente l’imposizione violenta del dominio bianco. Dall’altro, in estrema sintesi, essa contribuiva a scolpire l’immagine dell’immobilismo dei sistemi politici non europei, in una storia già simulacro del mito della superiorità europea (Azad 1975). Nel 1978, Edward Said, in Orientalismo, rese noto il contributo di Azad al di fuori della comunità degli antropologi, riferendosi a esso come seminale proposta antieurocentrica nel dibattito sulle forme di potere non europee (Said 1999: 365; Said 1994: 41). Chatterjee, pertanto, intendeva addentrarsi nelle zone d’ombra dell’archivio coloniale ricorrendo a strumenti euristici che erano stati 1) concepiti a partire dalla negazione dell’incontro coloniale; 2) già ampiamente criticati nel ventennio che aveva preceduto l’elaborazione del progetto dei Subaltern Studies; 3) prodotti da quella stessa antropologia che era il cuore della critica di Said all’orientalismo, nelle forme specifiche che esso aveva assunto nel Novecento. Con ciò non si vuole condannare una sorta di vizio ab origine. Tali prestiti concettuali e teorici, come insegna Feyerabend, sono da ritenere assolutamente imprescindibili al procedere della conoscenza (Feyerabend 2005: 24). Né tanto meno s’intende che gli esiti di qualsiasi riflessione sono interamente deducibili dalle sue premesse. Ma la forma contraddittoria con cui le tesi metodologiche di Chatterjee sono state esposte, così come quelle di Guha, pone in modo problematico e 2002. Per quanto riguarda la critica all’eurocentrismo di Marx, il riferimento è a Said 1999; Tucker 1978; Turner 1978; Lyotard 1998; Eagleton 1976. 18 La teoria dei lignaggi segmentari descriveva la struttura politica dei gruppi tribali in termini di relativa mancanza di specializzazione nelle funzioni di gestione del potere e di trasmissione unilineare dell’autorità attraverso vincoli parentali (Peters 1960; Middleton e Tait 1958; Smith 1956; Fortes e Evans-Pritchard 1940). 87 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 88 la questione del rapporto tra ricerca storica e conoscenza antropologica nel discorso dei Subaltern Studies. Il problema non è tanto capire in che misura gli storici subalterni fossero a conoscenza del coevo dibattito sui rapporti tra indirect rule e sistemi politici comunitari (Pathy 1976). Piuttosto si tratta di evidenziare il modo in cui quelle particolari conoscenze antropologiche contribuissero a plasmare una rappresentazione appropriata dei processi che si intendeva analizzare (le rivolte anticoloniali), rispetto alle domande poste dai fenomeni contemporanei (le ribellioni contadine in India negli anni Sessanta e Settanta del Novecento)19. Le indicazioni che Dipesh Chakrabarty trasse dallo studio dei lavoratori dell’industria della juta a Calcutta sono molto significative a tal proposito. Egli tentò di rendere conto della natura dei rapporti di potere politico nei quali gli operai erano inseriti, servendosi degli studi di Marx sull’organizzazione del lavoro di fabbrica e delle riflessioni di Foucault sulle pratiche di disciplinamento. Per Marx la disciplina aveva due componenti: una subordinazione tecnica del lavoratore alla macchina, e il suo ulteriore assoggettamento alla “autocrazia del capitale” nel luogo di lavoro, attuata per mezzo dei supervisori (funzione assegnata ai sardar nell’India coloniale studiata da Chakrabarty). L’autorità dei supervisori sul luogo di lavoro si materializzava attraverso strumenti quali registri, libri contabili e cartellini, dunque, per mezzo della produzione di documenti relativi alla gestione e alla condizione delle classi lavoratrici (Marx, cit. in Chakrabarty 1982: 261; Harvey 1995: 127). In ciò, la disciplina di fabbrica nell’Inghilterra del XIX secolo differiva dalle forme di organizzazione di lavoro precapitalistiche, che funzionavano, secondo Foucault, per mezzo «dell’ostentazione dei simboli della sovranità, e potevano operare anche senza una conoscenza dei dominati» (Foucault, cit. in Chakrabarty 1982: 262). Chakrabarty, nel sottrarsi al determinismo economicista, inscriveva la distinzione qualitativa tra tipologie storiche di organizzazione del lavoro in un’interpretazione produttivista de Il Capitale, che gli consentiva però di articolare la specificità delle forme di sfruttamento degli operai indiani in termini di forme specifiche di disciplinamento. Tali forme di disciplinamento si esprimevano, continua Chakrabarty, nella produzione di una particolare modalità di conoscenza delle condizioni di lavoro, la cui distanza dalla realtà osservata da Engels a Manchester nel 1844 forniva «la misura di quanto il capitalismo nel Bengala coloniale fosse differente da quello descritto da Marx» (Chakrabarty 1982: 264). La specificità di tale conoscenza si caratterizzava per l’incompletezza, l’incongruenza, la frammentarietà e la mancanza di sistematicità nella produzione dei documenti riguardanti la condizione dei lavoratori nelle fabbriche di juta di Calcutta; compito degli ispettori, i sardar. E ciò, secondo Chakrabarty, perché tali documenti erano «irrilevanti per l’esercizio del potere dei sardar, la cui autorità emanava da un dominio di tipo precapitalistico, che assicurava loro obbedienza», fondandosi su di un sistema di valori condiviso dai lavoratori. Ciò che «rendeva effettiva l’autorità dei sardar era la cultura cui lavoratori e supervisori appartenevano entrambi. Una cultura essenzialmente precapitalistica, con una forte enfasi sulla religione, la parentela, la lingua e altri legami primordiali. […] Gran parte del controllo sociale della forzalavoro derivava, pertanto, dalla comunità» (Ivi, pp. 308-309). Per questo motivo, dunque, a una cospicua partecipazione degli operai indiani alle mobilitazioni di inizio Novecento, così come quelle del dopoguerra, corrispondeva un bassissimo livello di sindacalizzazione. Sindacati e partiti operai rappresentavano forme di associazione inadeguate a strutturare la domanda di partecipazione politica in una società pervasa da una cultura profondamente gerarchica, scevra dalla sedimentazione del principio dell’uguaglianza formale, che per Marx era precondizione della coscienza di classe, e fondata invece sull’accettazione dell’intrinseca disuguaglianza tra gli esseri umani (Chakrabarty 1983: 263; 1989: 226). 19 Si noti che parte delle già citate ricerche antropologiche di Cohn, condotte negli anni Settanta, comparvero nel fondamentale volume di Hobsbawm e Ranger del 1983, The Invention of Tradition (Hobsbawm e Ranger 2002). 88 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 89 La questione della coscienza, della solidarietà, dell’organizzazione e della protesta, possono essere poste nei termini di una tensione tra i codici culturali antidemocratici della società indiana e la nozione di “uguaglianza” che la politica socialista assume, e allo stesso tempo cerca di trascendere20. I Subaltern Studies, con la loro storiografia sulle rivolte, erano essi stessi un’espressione storica di questa tensione. Essi si muovevano, nei primi anni Ottanta del Novecento, nello spazio descritto dall’attrito tra due principali spinte intellettuali (che il poststrutturalismo andava destabilizzando), contribuendo allo stesso tempo a metterne in discussione i confini interni ed esterni: da una parte una sofferta eredità marxista, dall’altra l’enigma del sistema delle caste. Le coordinate del dibattito sul sistema delle caste erano fornite dalla sociologia della religione di Weber e dagli studi antropologici sulle comunità di villaggio21 (Bahl 2004; Habib 1984; Mukherjee 1991). La dicotomia weberiana classe/status, veniva specificata nella versione classe/casta, dove la casta era considerata l’istituzione che bloccava la mobilità sociale. Del resto, l’impulso delle teorie della modernizzazione a inventare ricette di ingegneria sociale da inscrivere nell’agenda politica nazionale, sotto la voce sviluppo, imponeva di scovare le cause prime dell’arretratezza di ciascuna ex colonia, che andava a comporre il planisfero sclerotizzato degli stati-nazione, e i cui confini politici, si stabiliva, definivano lo spazio di una singola società (Wallerstein 1976; Di Meglio 1997; Lentini 2003; Arrighi 1991; Latham 2000; Escobar 1994). Fu in questo quadro che il dibattito sul sistema delle caste andò definendosi e disegnò una opposizione tra un approccio tendenzialmente materialista e uno tendenzialmente culturalista. Tuttavia, sia i lavori di Srinivas sul processo di “sanscritizzazione”, che l’etnografia weberiana di Beteille, che l’antropologia materialistica di Meillassoux, ritenevano che il sistema delle caste rappresentasse un caso limite di istituzione conosciuta, assimilabile analiticamente a un gruppo di status e dunque comparabile ad altre forme organizzative esistite in Occidente, o altrove22.Lo stesso Barrington Moore, proprio sulla base di un’analisi comparativa, sebbene in una prospettiva storica di più ampio respiro, affermò che l’assenza della rivoluzione in India andava imputata alla casta come entità culturale, la cui secolarizzazione rendeva frammentaria la base sociale e mortificava qualsiasi anelito di mobilitazione di classe23 (Moore 1998). Fu Dumont a sostenere l’irriducibilità della casta a qualsiasi altra forma organizzativa. Per Dumont, il sistema delle caste si materializzava in una moltitudine di sistemi locali gerarchizzati, in cui lo status sociale di una casta variava da una regione all’altra. «Ogni casta è inferiore a quelle che la precedono e superiore a quelle che la seguono, e tutte sono comprese tra due punti estremi», vale a dire la casta pura dei Brahmani e gli intoccabili (Dumont 1991: 125). Dumont affermava 20 Chakrabarty 1989: 229. Nel concepire il suo programma di ricerca sullo sviluppo del capitalismo in Germania, Weber aveva supposto che le ragioni del ritardo tedesco rispetto all’Inghilterra, potevano essere anche di natura culturale oltre che economiche. E per spiegare il “trionfo dell’Occidente”, Weber intraprese la sua amplissima e ambiziosa ricerca sul rapporto tra l’etica economica delle grandi religioni mondiali e gli sviluppi organizzativi nelle grandi entità geostoriche extraeuropee. Egli descrisse l’induismo come la cosmologia propria di un ristretto gruppo di eruditi, dalla quale discendeva un ordinamento rigorosamente gerarchico della società indiana, che impediva qualsiasi mobilità interna (Lentini, 2003: 269-270). Diversi studiosi inglesi, contemporanei a Weber, consideravano il sistema delle caste come una forma specifica di stratificazione (cfr. Mukherjee 1999). Sotto questo punto di vista, dunque, la possibilità di ricondurre il sistema delle caste al modello istituzionale dell’Occidente metteva d’accordo la sociologia della religione di Weber con l’orientalismo dei pensatori inglesi. Erano infatti le istituzioni occidentali, cui le forme organizzative indigene venivano di volta in volta ricondotte, a essere i referenti storici dei dibattiti tra i colonizzatori, impegnati a censire la popolazione indiana, e soprattutto a individuare e sostenere quei gruppi di potere locali da utilizzare come cinghia di trasmissione di dominio indiretto (cfr. Bayly 2004). 21 Secondo Srinivas, in India il cambiamento sociale poteva avere luogo soltanto attraverso due processi simultanei e sperati: l’occidentalizzazione e la sanscritizzazione (Barnabas 1961: 613). Sul concetto di occidentalizzazione, si veda Latouche 1992. Per sanscritizzazione Srinivas intendeva la tendenza dei membri delle caste inferiori a imitare 22 89 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 90 che la gerarchia che governava il sistema delle caste non era analoga ai meccanismi con cui in Occidente il nesso tra autorità e potere definisce, secondo Weber, i rapporti sociali (Ivi, p. 62). Il potere non risiedeva necessariamente nel livello più alto della gerarchia sociale ma era subordinato alla ritualità che contrapponeva il puro all’impuro. La purezza sarebbe dunque il fondamento ultimo della gerarchia (Ivi, p. 130). E la gerarchia costituirebbe l’essenza dell’organizzazione sociale indiana. Pertanto, il concetto di uguaglianza, alla luce del quale confrontare istituzioni differenti, sarebbe sia estraneo alla mentalità indiana, che un limite alla comprensione della specificità di tale mentalità da parte degli osservatori occidentali (Ivi, pp. 2-3). Partha Chatterjee vide nel lavoro di Dumont «la più efficace teoria sintetica delle caste» (Chatterjee 1989: 180). Come per Dumont, anche per Chatterjee è la forza ideologica del dharma (religione) che tiene insieme le jati (ciascuna casta) e assegna a ciascuna casta un posto all’interno del sistema complessivo (varna), ed è in grado di unire e allo stesso tempo dividere la società indiana24. E tuttavia Chatterjee, pur nel quadro del cosiddetto “eccezionalismo orientale”, rifiuta il carattere totalizzante che Dumont attribuiva alle caste, per fare spazio alla agency dei gruppi subalterni, che sarebbero dotati di «una ideologia propria, seppur nel quadro dell’ideologia universalizzante delle caste superiori» (Ivi, p. 184). Potere e religione erano entrambi inseparabilmente collassati […] nel linguaggio di quella violenza di massa. […] Non è possibile parlare dell’insurrezione se non nei termini di una coscienza religiosa, ovvero come dimostrazione di massa di un’autoalienazione – per riprendere l’espressione di Marx per definire l’essenza della religione – che spinge i ribelli a considerare il proprio progetto come basato su una volontà diversa dalla loro25. Per Chatterjee, come per Guha e gli altri storici subalterni, dunque, le fonti d’archivio conservavano le tracce della storia politica di comunità all’interno delle quali la religione e la ritualità erano una dimensione essenziale sia dell’ordine che della possibilità del suo capovolgimento. gli stili di vita, le pratiche e i rituali di quelle superiori (come il vegetarianesimo o l’adozione di mantra sanscriti), per migliorare la propria condizione sociale all’interno della comunità locale (Srinivas 1952: 30). Srinivas sosteneva che la “casta dominante” derivasse la propria autorità dalla prossimità allo stile di vita brahmanico, indipendentemente dalle relazioni di potere che definivano lo spazio sociale (Marriott 1955; Marriott e Cohn 1958). André Beteille tentò di applicare il modello weberiano della stratificazione sociale, combinandolo con un approccio etnografico di piccolo raggio. Egli indagò la differenziazione sociale nelle comunità che studiava, in termini di status e di classe, mettendo in discussione la coesione tra casta, classe e potere implicita nel concetto di casta dominante. Beteille mise in relazione la posizione dei bramini con i diritti di proprietà della terra e il potere politico all’interno del villaggio, per sottolineare che, nella storia dell’India, i meccanismi attraverso cui il sistema gerarchico si era riprodotto avevano lasciata sostanzialmente invariata la posizione delle caste più potenti (Beteille 1965; Thorner 1966). Meillassoux, infine, analizzò la casta nell’ottica dello sfruttamento della forza-lavoro per sostenere l’analogia tra sistema indiano e sistemi tribali dell’Africa subsahariana (Meillassoux 1973). 23 Per una illuminante critica metodologica a Moore, si veda McMichael, 1990: 392. Si veda anche l’interessante introduzione all’edizione italiana citata, curata da Gallino. Per un’analisi specifica della lettura dialettica adottata da Moore, si vedano Currie 1976 e Rothman 1970. 24 Per una sintetica precisazione terminologica sul sistema delle caste si veda Bahl 2004: 274-277. 25 Guha 1982: 89-90. 90 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 91 TERZA PARTE SAPERI SUBALTERNI SOSTENIBILI A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 92 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 93 Si racconta che i popoli di pelle chiara che abitano la faccia settentrionale dell’Atlantico pratichino una forma particolare di culto delle divinità. Essi vanno in spedizione presso gli altri popoli, s’impossessano delle statue dei loro dèi e le distruggono su immensi roghi. (dal rapporto del consigliere Dèobalè, inviato dalla corte di Corea in Cina durante la metà del XVIII secolo) A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 94 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 95 Al limite degli studi subalterni Sebbene non sia possibile stabilire delle soglie temporali nette nel percorso intellettuale del gruppo di studiosi indiani, è pur vero che esso è stato segnato da successivi riorientamenti negli obbiettivi di ricerca e negli approcci metodologici. Quanto agli obbiettivi, ciò che appare con evidenza dallo studio della collana dei Subaltern Studies è un progressivo spostamento dalla storia economica e sociale verso il tema del rapporto tra cultura e potere nella formazione del discorso nazionalistico. L’utilizzo di fonti dell’archivio coloniale, infatti, condusse in modo quasi naturale gli studiosi indiani a concentrarsi sull’analisi testuale, e ad avvicinarsi dunque alle tematiche e alle metodologie proprie del cosiddetto linguistic turn. Ma, soprattutto, la radicalizzazione delle istanze di critica all’eurocentrismo, che la parte della comunità accademica occidentale maggiormente influenzata dal postmodernismo come corrente filosofica ha accolto come originali non soltanto nel merito, ma anche in virtù della collocazione dalla quale venivano mosse, ne ha favorito la circolazione in ambiti accademici internazionali e non strettamente specialistici, dall’antropologia alla critica letteraria, fino alla sociologia dei movimenti sociali. Quanto alla dimensione della pratica storiografica, invece, possiamo individuare tre fasi che caratterizzano il programma di ricerca inaugurato da Guha nel 1980: il momento della costituzione del collettivo e dei primi lavori di ricerca applicata, durante il quale il progetto si è ricavato una certa riconoscibilità nel contesto accademico indiano come espressione di un gruppo di storici radicali che intendevano negare, come sostiene Ludden, la validità delle precedenti “storie dal basso” prodotte in India sulle rivolte contadine. La subalternità dunque divenne una novità, inventata de novo dai Subaltern Studies, che attribuirono nuovi significati a vecchie parole e segnarono un nuovo inizio per gli studi storici. Dominazione, subordinazione, egemonia, resistenza, rivolta e altri concetti già in uso, ora potevano essere subalternizzati. Per definizione, la subalternità era stata ignorata da tutti gli studiosi del passato: dunque, tutta la ricerca fino ad allora compiuta divenne elitaria1. Questa fase si caratterizza, come abbiamo visto, per il riferimento problematico quanto esplicito alla metodologia propria della storiografia marxista britannica ispirata alle opere di Edward Palmer Thompson e Eric Hobsbawm. Chakrabarty in un’intervista del 1998, infatti, affermava: Ricordo il giorno in cui Barun De mi diede il volume di Thompson, The Making of the English Working Class e disse: «Noi non abbiamo niente del genere, prova a fare un lavoro simile». Io non 1 Ludden 2002: 16. 95 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 96 avevo mai scritto di storia fino ad allora. Non avevo idea di cosa significasse e pensai di scrivere una storia dei lavoratori che vedevo intorno a me2. Un secondo momento, quello dell’internazionalizzazione del collettivo e della contemporanea ascesa di diversi suoi membri all’interno delle principali strutture di produzione del sapere angloamericane a metà degli anni Ottanta, in cui assume un valore decisivo la svolta decostruzionista e l’abbandono esplicito della prospettiva storiografica della History from below inglese. La terza fase, quella della piena riconoscibilità accademica internazionale dell’Indian Subaltern Studies Group come versante storiografico del più ampio progetto Postcolonial Studies, che corrisponde alla rivendicazione, per il termine subalternità come costruzione concettuale, della capacità di includere tutte le soggettività che hanno subito il colonialismo come processo storico. L’internazionalizzazione degli studi subalterni è legata in modo complesso alla figura di Edward Said e all’interesse di quest’ultimo per la storiografia inaugurata da Guha. Questioni di ordine intellettuale si legano infatti indissolubilmente alle sorti editoriali del progetto e al modo in cui questa stessa vicenda si inserisce nel quadro più ampio del rapporto di filiazione/affiliazione tra alcune delle opere più importanti di Said e la prospettiva degli studi postcoloniali. Spesso, tali relazioni vengono descritte quasi in termini di inferenze logiche, disegnando un percorso omogeneo che va da Orientalismo ai Subaltern Studies, infine agli studi postcoloniali. E tuttavia, una simile sequenza risulta accettabile solo a patto di una discreta dose di superficialità. Il progetto di scrivere la storia delle classi subalterne dell’India coloniale ha suscitato un notevole interesse accademico e politico negli ultimi venticinque anni, in particolare dopo che Edward Said introdusse al lavoro degli storici indiani del Subaltern Studies Group il pubblico occidentale, curando una breve quanto incisiva prefazione a un volume di saggi scelti, pubblicato per la prima volta nel 1988 e destinato a diverse ristampe3. Questa antologia, nella forma e nei contenuti in cui è stata offerta al pubblico, delinea in modo piuttosto chiaro in che rapporto essa, e dunque gli studiosi che l’hanno curata, si ponevano nei confronti di quella che, rei di semplificazione, abbiamo individuato come la prima fase degli studi subalterni indiani. Va detto, prima di inoltrarci nell’analisi del rapporto tra Said e Subaltern Studies, che i primi cinque volumi della serie, da cui i saggi che costituiscono l’antologia furono tratti, raccoglievano anche diversi articoli che non si occupavano strettamente né di rivolte né di metodologia della ricerca storica sulle rivolte. Tuttavia, questi contributi sono facilmente identificabili come relativamente “esterni” al nucleo centrale dei Subaltern Studies, dal momento che spesso costituivano ripubblicazioni parzialmente rivedute di articoli apparsi altrove, oppure interventi di critica complessiva al lavoro degli storici subalterni indiani da parte di autori non impegnati direttamente nel progetto. Ciononostante, proprio da alcuni di questi contributi, come l’introduzione delle tematiche di genere operata dalla studiosa bengalese Spivak, è scaturito un radicale ripensamento dell’intero progetto dei Subaltern Studies. Tratteremo nello specifico questo argomento. Per ora basti notare che, nell’antologia del 1988, il tema delle rivolte, cui sono dedicati i due capitoli centrali del volume, viene riproposto per mezzo dei saggi che trattano del rapporto delle classi subalterne con il movimento nazionalista da un punto di vista che potremmo definire discorsivo, nella misura in cui si assume come centrale il ruolo giocato dalla funzione performativa del discorso nazionalistico nel dare forma alle istanze di opposizione politica espresse dal movimento anticoloniale nel subcontinente. Nessuno dei saggi sulle rivolte analizzati nel primo capitolo del presente lavoro trovò spazio nell’antologia del 1988. 2 3 Questo documento è in rete all’URL <www.indialabourarchives.org/publications/Dipesh%20Chakrabarty.htm>. Guha e Spivak 1988. 96 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 97 L’interesse per l’ambito delle pratiche discorsive, che costituisce il campo di tensioni individuato e mirabilmente esplorato a più riprese da Partha Chatterjee, corroborò le forze centrifughe che andavano manifestandosi all’interno del gruppo originario, proprio in quegli anni. Già nel 1986, infatti, sulla scia dei primi contributi alla serie dati da Spivak, il tema del rapporto tra cultura e potere guadagnò maggiore spazio, tant’è che nello stesso anno, a Calcutta, durante il secondo congresso del Subaltern Studies Group, emerse una divergenza interna fondamentale. Alcuni studiosi si indirizzavano esplicitamente verso l’analisi testuale, adottando la prassi della decostruzione come principio guida nell’analisi delle fonti; altri continuavano a prediligere lo studio dell’autorganizzazione dei gruppi subalterni in termini di classe, parentela, religione e cultura. Sumit Sarkar, uno dei fondatori del gruppo, individuò in quella che egli vide come la “svolta culturalista” del gruppo un tradimento degli obbiettivi di ricerca attorno ai quali gli studiosi indiani si erano raccolti. In quello stesso anno, Rosalin O’Hanlon presentava a Cambridge, nel corso di un seminario sulla cultura popolare, il lavoro degli studiosi indiani, definendolo come il contributo più originale offerto da studiosi provenienti dal Terzo Mondo al dibattito sul colonialismo (cfr. Aschcroft, Griffiths e Tiffin 2002). Ma fu l’intervento di Said a consacrare il lavoro dell’Indian Subaltern Studies Group sul piano internazionale4. Said realizzò di fatto una ricollocazione del discorso prodotto dagli storici indiani, in virtù della quale i Subaltern Studies sono venuti a costituire una componente fondamentale del versante storiografico della critica all’eurocentrismo: essi occupano un posto cruciale nella geografia in continuo mutamento del mondo moderno. Secondo Said, Guha e gli storici che egli aveva riunito intorno alla sua storiografia esplicitamente schierata politicamente, centravano in pieno il problema del nesso tra storia e potere costituito e costituente, muovendosi entro una nozione di storiografia condivisa e sostenuta dallo stesso Said, secondo il quale Per quanto nella storiografia non possa verificarsi una vera e propria presa del potere, si può almeno tentare di mostrare, in una prospettiva di demistificazione, quali interessi sono in gioco nella pratica storiografica, quale ideologia e quale metodo vengono adottati, quali gruppi avanzano, quali retrocedono, quali sono spiazzati e quali infine sconfitti5. Secondo Said, infatti, gli studi subalterni indiani parlavano simultaneamente a due comunità senza dubbio eterogenee al loro interno quanto connesse tra di loro, ma che tuttavia raccolgono studiosi definibili (pur nella consapevolezza della generalità inerente a siffatte denominazioni) come storici dell’India e “lettori occidentali”. Per i primi, i saggi raccolti sotto il nome di Subaltern Studies Series rappresentano un tentativo di riscrivere la storia del nazionalismo indiano includendovi il ruolo giocato a più livelli dalle masse contadine che popolavano le amplissime aree rurali, dagli operai nei nascenti conglomerati urbani dell’India coloniale e da tutti quei gruppi sociali sottoposti alle varie forme del dominio coloniale britannico sul subcontinente. Per i secondi invece, i Subaltern Studies rivestono […] un’importanza meno specialistica e più generale. Il termine “subalterno” ha una connotazione sia politica sia intellettuale: il suo opposto concettuale implicito è naturalmente “dominante” o “élite”, ossia i gruppi al potere e, nel caso indiano, le classi alleate o con gli inglesi, o con una ristretta cerchia di discepoli, studiosi o epigoni che in qualche senso collaborarono con gli inglesi6. Il legame tra studi postcoloniali e subalterni è stato poi chiarito ulteriormente e sancito da diversi saggi degli stessi studiosi indiani; si vedano Prakash 1994 e Chakrabarty 2002. 4 5 Said 2002: 28. 6 Said 2002: 20. 97 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 98 Implicitamente, dunque, l’India delle lotte di liberazione e i processi storici che condussero all’indipendenza dalla Gran Bretagna viene rielaborata in termini globali da Said il quale, quasi in sordina, trasfigura (in senso letterale) il contesto di produzione del discorso in questione ne “il caso indiano”, fornendo dunque al rapporto tra classi subalterne e dominanti della storia indiana i connotati metaforici del più ampio problema della relazione costitutiva tra colonizzatori e colonizzati. Per Said, gli studi subalterni indiani erano parte di quella ampia galassia di riflessioni e contributi politici nati in seno alle lotte di liberazione nazionale, ma che, a partire proprio dai fallimenti, dai limiti, dall’incapacità di questi ultimi di trascendere l’immaginario storico della modernità occidentale, andavano a rimetterne in discussione le premesse stesse, senza alcun timore reverenziale nei confronti dei padri delle lotte anticoloniali. È in questo spirito che, in Cultura e imperialismo, Said rilegge A Rule of Property for Bengal di Guha, in cui rinviene in nuce l’embrione dei Subaltern Studies. Said colloca il libro di Guha nel quadro di una conversazione a quattro con The Black Jacobins di Cyril Lionel Robert James, The Arab Awakening di George Antonius e The Myth of Lazy Native di S. H. Alatas. Le prime due opere, sottolinea Said, si pongono dall’interno dei rispettivi movimenti di liberazione nazionale negli anni Trenta del Novecento e si propongono di parlare a un ampio pubblico, laddove il testo di Guha e quello di Alatas hanno origine nel contesto postcoloniale e si occupano di questioni più specifiche, rivolgendosi principalmente a un’audience di specialisti. Questo cambiamento d’orizzonte si ripercuote sensibilmente sulla natura stessa degli argomenti trattati in questi lavori. Per James e Antonius, infatti, il mondo discorsivo abitato dai nativi nei Caraibi e nell’Oriente arabo durante gli anni Trenta era onorevolmente dipendente dall’Occidente. Sia James che Antonius incarnavano l’aspirazione di una élite indigena a partecipare di un potere e di una cultura europei di cui sentivano di essere parte, sebbene temporaneamente esclusi dai suoi vantaggi. […] Tale armoniosa coincidenza tra l’Occidente e le sue colonie non è riscontrabile invece nei lavori di Alatas e Guha. Per essi, infatti, la cultura della metropoli e le sue pratiche istituzionali erano colpevoli di aver soppresso, sebbene senza riuscirvi mai a pieno, quelle indigene. In questo senso, la cultura diviene un campo di conflitto tra colonizzatori e colonizzati e l’obbiettivo di ambedue gli autori si concretizza nel rendere consapevoli i lettori occidentali di questa dimensione conflittuale nell’incontro coloniale (Said 1998: 250). Said pone sostanzialmente due questioni, quella della “partigianeria” del linguaggio e quella della ricezione di queste opere presso l’accademia occidentale, mostrandone limpidamente il rapporto simbiotico. Quanto alla prima, già Fanon aveva sottratto inequivocabilmente la neutralità, come pretesa al dominio della storia del colonialismo, come discorso, affermando provocatoriamente che per il nativo l’oggettività è sempre diretta conto di lui. Ma Said complica il quadro, ritagliando uno spazio enunciativo e critico per l’intellettuale del Terzo Mondo, allorché puntualizza che nel testo di Guha, come in quello degli altri tre autori considerati, «saperi e politica sono più apertamente connessi perché questi autori si considerano alla stregua di emissari presso la cultura occidentale a rappresentare una libertà e una realizzazione politica ancora incompleta, bloccata, posposta» (Said 1998: 258). Per quanto riguarda la seconda questione, relativa all’audience del lavoro di Guha e degli storici subalterni, Said svincola la sua riflessione, e con essa i testi su cui si basa, dall’essenzialismo militante proprio del pensiero di Fanon, proiettando al negativo l’immagine della natura posizionale della condizione di subalternità da cui gli intellettuali del Terzo Mondo sono costretti a pensare (Fanon 2007), per mostrare in chiaro come sia la relazione asimmetrica di potere nel campo della cultura a produrre le strutture per mezzo delle quali la subalternità intellettuale viene perpetuata e immortalata, come nei dipinti di Picasso degli stessi anni Trenta, con le tinte dell’esotico: 98 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 99 La tentazione per l’audience metropolitana di solito è stata quella di dominare questi e altri libri come semplici esempi di letteratura nativa, prodotta da “informatori nativi”, piuttosto che contributi coevi alla conoscenza. In Occidente, anche l’autorevolezza di lavori come quelli di Antonius o James è stata marginalizzata perché, agli occhi degli accademici professionisti occidentali, queste opere sembravano scritte osservando l’Occidente dall’esterno. Forse questa è una delle ragioni del perché Guha e Alatas, una generazione dopo, abbiano scelto di concentrarsi sulla retorica, le idee e i linguaggi piuttosto che sulla storia tout court, preferendo analizzare i sintomi verbali del potere ancorché il brutale esercizio di esso; i suoi processi, le sue tattiche, ancorché le sue fonti; i suoi metodi intellettuali e le sue tecniche enunciative piuttosto che la sua moralità – decostruire piuttosto che distruggere7. Quello di Said è dunque un invito a considerare la storiografia dei Subaltern Studies indiani come una prospettiva sulla modernità e sulla sua storia in un quadro complessivo, piuttosto che relegarne la capacità interpretativa a un campo di conoscenza specialistico, quello degli studi sull’Asia meridionale, rispetto al quale gli storici indiani vanterebbero un tipo di conoscenza maggiormente adeguato in quanto “appartenenti” alla cultura indiana e provenienti dal subcontinente. Per Said, la storia della classe operaia narrata da Chatterjie, le rivolte studiate da Guha, il processo di creazione della statualità indiana, gettano luce sulle relazioni costitutive e sui processi di retroazione che condussero alla “formazione” della classe lavoratrice britannica descritta da Thompson, sulle rivolte contadine nelle campagne russe e tedesche del XIX secolo. Ciò che i Subaltern Studies contribuiscono a definire è uno spazio critico che nega la possibilità di una storia unilaterale occidentale e eurocentrica, non solo sul mondo coloniale, ma sulla stessa Europa, sulla stessa metropoli. E tuttavia, Said sembra non individuare alcuna discontinuità tra A Rule of Property for Bengal e la storiografia subalterna sulle rivolte e sul nazionalismo. La questione generazionale sembra non inficiare la coesione tra il modo di sentire dei giovani ricercatori dell’Indian Subaltern Studies Group negli anni Ottanta e il loro riferimento intellettuale, ossia Guha. A dire il vero però, la questione generazionale costituiva una delle principali tensioni interne al collettivo indiano e fu proprio uno dei motivi di maggiore fertilità dell’intero progetto. Se, come lo stesso Said ha sottolineato, il lavoro di Guha del 1963 era un tentativo sofisticato e minuziosamente documentato di demistificare il rapporto di complicità tra potere del raj, conoscenza coloniale e codifica unilaterale e strumentale delle forme di controllo territoriale assimilabili in una certa misura agli istituti giurisdizionali occidentali, i Subaltern Studies rappresentano un ulteriore decentramento dell’angolo visuale da cui analizzare la storia del colonialismo. Il tentativo, controverso senza dubbio, di scrivere una storia dei subalterni da una posizione di subalternità si fa carico della consapevolezza dell’insufficienza del disvelamento delle logiche di potere e si avventura nel territorio accidentato di un sapere schierato, mobilitato nel campo della critica e della competizione politica. E tale consapevolezza è un prodotto della storia dei fallimenti dei movimenti di liberazione nazionale, delle cui vicende i giovani ricercatori indiani riuniti da Guha non condividevano la dimensione escatologica all’ombra della quale la riflessione storiografica elaborata dallo stesso Guha e dagli storici della sua generazione, aveva potuto germogliare. L’opera di Guha degli anni Sessanta mirava a mettere a nudo la natura coloniale della conoscenza e gli strumenti di dominio che essa serviva ad ammantare con la parvenza di oggettività, utilità e buon senso. Gli studi subalterni partivano dalla consapevolezza del nesso strumentale tra raj e conoscenza coloniale e osservavano le configurazioni assunte dal potere coloniale nel subcontinente dalla prospettiva subalterna. Sbirciavano in modo insolente sotto le vesti del re, senza imporsi di dovere prima slacciarle per denudarlo. 7 Said 1998: 258. 99 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 100 Per Said, così come per Jameson, o per lo stesso Ahmad, l’orizzonte resta pur sempre quello dello Stato-nazione ed è all’interno di esso che Said pensa il fallimento o il successo dei movimenti anticoloniali. Nella misura in cui lo Stato postcoloniale riesce a emanciparsi dalle istituzioni e dalle configurazioni culturali proprie dell’Occidente, esso può dirsi “indipendente”, sganciato dalla madrepatria. I Subaltern Studies, invece, individuano il fallimento dei movimenti di liberazione nazionale nello Stato-nazione stesso e nei vincoli intrinseci che esso impone alla capacità delle forze sociali indigene di esprimersi in forme proprie, altre ma allo stesso tempo moderne, di organizzazione politica. L’intervento di Said ha comunque aperto la strada alla proposta degli stessi storici indiani appartenenti all’Indian Subaltern Studies Group di adoperare il concetto di subalterno come metafora complessiva sia della condizione coloniale che postcoloniale. Questa proposta ha dato vita a un intenso dibattito, a metà anni Novanta, che ha coinvolto numerosi studiosi provenienti dall’ex Terzo Mondo e che ha trovato spazio su diverse e influenti riviste storiche internazionali. Proprio a partire dagli anni Ottanta infatti, il campo della teoria postcoloniale è andato definendosi nel mondo accademico angloamericano come un nuovo filone di studi critici sulla modernità. Nel suo intervento introduttivo sulla critica postcoloniale, Mezzadra definisce il nostro tempo, in accordo con un’immagine piuttosto condivisa, come caratterizzato da una tensione fondamentale tra il globale, inteso come omogeneità dello spazio, del tempo e del valore, e il locale inteso come caratterizzato da crepe, turbolenze e irregolarità. Nello spazio teorico aperto da questo apparente paradosso egli colloca gli ambiti di indagine in cui gli studi postcoloniali pongono questioni rilevanti in chiave storiografica, vale a dire, le caratteristiche dello spazio e del tempo in cui si articola la narrazione storica e la dimensione soggettiva dell’esperienza storica. Il primo ambito consisterebbe dunque nelle modalità di produzione dello spazio e del tempo in termini di unità d’analisi entro cui inscrivere il discorso sul passato; il secondo può essere inteso come la modalità entro cui la soggettività interviene nei processi oggetto del discorso sul passato, e pertanto indaga le possibilità di azione sul presente e in direzione del futuro. In questi due ambiti, la critica postcoloniale si introduce esercitando un’opzione preferenziale a favore dell’eterogeneità, intesa in modo oppositivo nei confronti di quelle narrazioni che pur assumendo lo spazio del globale come luogo di articolazione della semantica storica, vi inscrivono l’espansione di una matrice omogeneizzante che conterrebbe ab origine e in potenza le condizioni stesse della sua evoluzione, in grado altresì di procedere sussumendo progressivamente ciò che è altro da sé e che incontra lungo il suo espandersi. Sia che ci riferiamo all’espansione della modernità occidentale in termini di sistema di valori che di organizzazione socio-economica, l’immagine contro cui la critica postcoloniale si oppone è quella del cosiddetto diffusionismo tipico di gran parte della tradizione di pensiero dell’Occidente. Ancora Mezzadra sottolinea che questa critica si rivolge sia a quelle narrazioni diffusioniste apologetiche delle conquiste dell’Occidente sia a quelle che ne stigmatizzano le logiche di sopraffazione. Questa seconda attitudine alla storia globale descrive tale espansione come un moto che va da un centro egemonico verso una periferia, dove la seconda viene incorporata e sottomessa alle logiche di funzionamento del primo. Essa descrive una fondamentale asimmetria di potere tra centro e periferia, che sebbene costitutivamente relazionale, assegna in ultima istanza al centro una proattività nei confronti della periferia, laddove gli studi postcoloniali, pur assumendo l’asimmetria di potere insita nei rapporti spaziali del mondo moderno, spostano l’enfasi sul processo di retroazione delle colonie, o ex colonie, sulle metropoli (Mezzadra 2005: 34). Le affinità con le questioni sollevate da Guha hanno fatto in modo che diversi intellettuali coinvolti nel progetto Postcolonial Studies, con diversi background disciplinari, mostrassero un vivo interesse per i Subaltern Studies. Molti di essi, proprio sulla scia di Said, si interrogarono sul contributo che i Subaltern Studies indiani avevano dato al dibattito sulla storia del naziona100 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 101 lismo nel Terzo Mondo, e sul ruolo dell’eurocentrismo nella legittimazione dello statuto epistemologico delle Scienze Sociali8. La «American Historical Review», dal canto suo, aprì nel 1994 un forum di discussione su questo tema proponendo un confronto tra la prospettiva latinoamericana, quella indiana e la storiografia africana sulle questioni sollevate dagli studi subalterni e dalla critica postcoloniale9. Questo dibattito, pur muovendo dalla constatazione della rilevanza del contributo della storiografia subalterna al tentativo di emancipazione intellettuale dell’ex Terzo Mondo dalla supremazia intellettuale dell’Occidente e dei saperi che esso ha prodotto, ha avuto come esito una serie di caveat alla possibilità di omologare la molteplicità delle risposte storico-sociali al colonialismo a partire da un nucleo condiviso di comuni esperienze di dominio. Secondo Florencia Mellon, ad esempio, poiché l’America Latina aveva raggiunto l’indipendenza politica molto tempo addietro, le questioni economiche e di indipendenza sostanziale dall’egemonia statunitense sul continente, più che di indipendenza formale dal regime coloniale, erano più rilevanti nel dibattito scientifico latinoamericano di quanto fossero nel dibattito indiano. Se, infatti, alcune suggestioni apparivano piuttosto stimolanti, la consapevolezza più matura degli approdi teorici del dibattito sul postmodernismo doveva tradursi, secondo Mellon, in un modo diverso di affrontare la questione delle soggettività subalterne: piuttosto che parlare per i subalterni, o dar loro voce, si trattava di includerli nella produzione di sapere accademico affinché fossero essi stessi a mettere in discussione concetti come liberazione nazionale, stato-nazione, sviluppo e democrazia, dal punto di vista di identità multiple: genere, etnia e classe (Latin American Subaltern Studies Group 1993)10. In qualità di storico africano, Frederic Cooper invece non esitava a sottolineare che quella oggetto del forum ospitato dalla prestigiosa rivista statunitense non costituiva la prima forma di interazione e di scambio epistemico Sud-Sud, eppure era un primo tentativo articolato di decolonizzare il sapere da parte di soggetti collocati in posizioni strutturalmente subalterne, piuttosto che l’ennesimo sforzo di importare versioni eterodosse di prospettive autocritiche interne alle strutture di produzione del sapere occidentali. Cooper sottolineava infatti come la definizione stessa di subalternità nell’Africa postcoloniale risultasse molto più fluida di quanto non lo fosse in America Latina, o in India, poiché all’interno degli stati africani postcoloniali, il continuo susseguirsi di mutamenti nelle relazioni di potere tra gruppi sociali in competizione o in aperto conflitto, in intervalli temporali notevolmente ristretti, indeboliva la solidità di quei dispositivi concettuali fondati su rappresentazioni della distribuzione di potere che riproducono assetti sociali piuttosto sedimentati all’interno dello spazio dello Stato-nazione11. Ma l’internazionalizzazione del progetto degli studi subalterni avveniva indipendentemente dagli sviluppi che la riflessione avviata in seno al collettivo indiano aveva raggiunto. Proprio nel momento in cui attraeva l’interesse della comunità accademica internazionale, l’intero progetto veniva messo in discussione dalle fondamenta, e la decostruzione del concetto cardine su cui si basava, quello della relazione egemonico-subalterno, aveva trovato spazio proprio nelle pagine della collana Subaltern Studies. Quest’opera era stata avviata, già a partire dal 1986, da Gayatri Chakravorty Spivak. La studiosa femminista bengalese scardinava, in modo magistrale, la solidità del costrutto che aveva costituito il postulato dell’analisi delle rivolte contadine nella lettura di Guha. Vale a dire, il soggetto subalterno definito storicamente come i “contadini politicizzati”. Secondo Guha, se il discorso nazionalistico evidenziava una coscienza elitaria tesa alla costruzione dello Stato-nazione, il pragma- 8 Diverse antologie di studi subalterni furono tradotte in bengalese, in indi e in giapponese (si veda ad esempio Cuscanqui e Barragán 1998). 9 Cfr. «The American Historical Review», Vol. 99, No. 5, Forum. 10 Mellon 1994. 11 Cooper 1994. 101 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 102 tismo delle classi subalterne, pur nella sua frammentarietà, corrispondeva a uno spazio di coscienza collettivo ed esistente al di là della possibilità stessa della sua comprensione. L’unità ontologica di questa frammentarietà risultava, sostiene Spivak a proposito della storiografia subalterna, nella narrazione del fallimento del tentativo di strutturare in modo stabile la coscienza subalterna entro forme di rappresentanza. La soggettività subalterna era leggibile, dunque, in quanto fallimento. E infatti Chakrabarty, Das e Chandra avevano individuato il fallimento nell’incapacità del sindacalismo socialista di rappresentare le istanze dei lavoratori indiani in fabbrica e Chatterjee aveva mostrato i limiti di traducibilità tra il gandhismo e l’agire subalterno. Eppure, Spivak radicalizza e porta alle estreme conseguenze le tesi di Guha, affermando che ammettere il concetto stesso di fallimento presuppone la possibilità del pieno dispiegarsi del progetto politico nazionalistico, ovvero quello della piena coincidenza tra interessi dell’élite e dei subalterni. Ma ciò significherebbe ritenere reale la possibilità di tale perfetta coincidenza all’interno della struttura dello Stato-nazione, finendo dunque col fondare teoricamente lo Stato-nazione come entità storico-sociale. Infatti, conclude Spivak, «la possibilità di fallimento non può derivare da un qualsiasi criterio di successo, fintanto che il secondo è una finzione teorica» (Ibidem). Ma dunque, se la subalternità non può costituire il vero oggetto della ricerca, cosa si intende con tale nozione e, soprattutto, qual’è l’oggetto di studio della storiografia coloniale rispetto al quale il concetto di subalternità è un viatico contorto e oscuro? Per Spivak, l’esperienza dell’impossibilità di ricostituire l’agire subalterno conduce alla consapevolezza di un rapporto umile ma sostenibile dello storico rispetto alla storia dei subalterni. L’arena in cui si determina il continuo tentativo dei subalterni di assumere una posizione egemonica deve sempre, per definizione, rimanere eterogenea rispetto agli sforzi dello storico. Lo storico deve insistere nei propri sforzi per raggiungere la consapevolezza che il subalterno è necessariamente il limite assoluto dello spazio in cui la storia è narrativamente narrata in logica. È una lezione difficile da imparare, ma non impararla significa semplicemente spacciare soluzioni eleganti per una corretta pratica teorica. […] Questa è la relazione sempre asimmetrica tra interpretazione del mondo e trasformazione del mondo che Marx sottolinea nella undicesima tesi su Feuerbach: «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo»12. Ma il discorso sulla trasformazione del mondo presuppone uno storicismo in virtù del quale esiste una coscienza unificata del subalterno che informa la pratica dello storico, nel momento in cui esso si avvicina al materiale d’archivio, ed è in quest’ottica che Guha sosteneva che «l’obbiettivo centrale della ricerca è proprio tale coscienza, poiché non è possibile interpretare l’esperienza della rivolta soltanto come una storia di eventi senza soggetto. Ciò è impossibile» (Guha 1984: 11). Pertanto, secondo Guha, una continuità di fondo che assicuri una consequenzialità logico-storica tra eventi distinti deve pur esistere. E infatti, fa notare acutamente Spivak, lo stesso Marx aveva insistito, in tutto Il Capitale, sulla rilevanza della categoria di processo, o meglio di processo senza soggetto. Siamo dunque di fronte a un paradosso. Secondo Spivak, tentiamo di leggere la possibilità dell’azione del soggetto rispetto al processo, utilizzando una nozione di processo che nega la presenza stessa di un soggetto. Ciò che Spivak intende evidenziare, non è tanto il paradosso in sé, quanto il valore epistemologico della consapevolezza di tale paradosso. Ciò che stiamo conoscendo ha in questo modo valore negativo. Non è un ente (il subalterno), ma il suo dissolversi asintoticamente in prossimità della sua concettualizzazione. Ciò che ci si para dinanzi, di fatto, è un limite. Il limite della conoscenza storica, della narrazione razionale del passato. E tale consapevolezza, con tutte le sue implicazioni, deriva dalla non-storia del colonialismo, piuttosto che dalla contro-storia del liberalismo. 12 Spivak 2000: 120. 102 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 103 Le coordinate del dibattito latinoamericano Sul finire degli anni Ottanta, in America Latina, il dibattito sul postomodernismo generò una vasta gamma di reazioni, sia in ambito accademico che nel più ampio panorama culturale del continente1. Quasi tutti gli studiosi coinvolti, dai più appassionati difensori dell’ideologia neoliberista, suffragati dalla retorica tracotante della fine delle utopie e dalla prospettiva della “fine della storia”, fino agli oppositori del progetto globalizzazione si trovarono a fare i conti con questa nuova prospettiva (McMichael 2000; Smith e Johnston 2002, Smith, Chattfield e Pagnucco 1997). Essi si divisero, in prima istanza, tra coloro i quali colsero in questo nuovo dibattito la possibilità di trascendere i confini geostorici della mappa della modernità, che relegava l’America Latina a una posizione marginale anche nella produzione di sapere, e coloro i quali, invece, videro nel concetto stesso di postmodernismo l’ennesimo cavallo di Troia del pensiero occidentale, all’interno di un panorama accademico “regionale” costretto ad accettare sempre temi e prospettive importati dall’Occidente2. Come sostenne uno dei protagonisti di questa vicenda, il filosofo di origini messicane Edoardo Mendieta, Ambedue i principali dibattiti teorici degli anni Novanta, vale a dire quello sulla postmodernità e sulla globalizzazione, investivano gli studiosi latinoamericani in modo duplice: in primo luogo, questi studiosi affrontavano nel merito le questioni relative alla possibilità di elaborare una storia mondiale della modernità a partire da una riflessione complessiva sulla transitorietà stessa di tale costruzione concettuale; in secondo luogo, essi si trovavano a mettere in discussione il quadro di riferimento geografico dal quale essi stessi traevano la propria identità teorica e culturale, vale a dire lo spazio-tempo chiamato “America Latina”3. Sia dell’affermarsi del postmodernismo, che della retorica della globalizzazione, tendevano a evidenziare il fenomeno dell’erosione dei confini, materiali e non, dello Stato-nazione, sia in termini di autonomia politica di ciascuna macchina statale rispetto ai poteri transnazionali, che in termini concettuali come unità d’analisi4; e sebbene già a partire da alcune tesi dei teorici della dipendenza tale presunta autonomia apparisse compromessa, fu solo negli anni Novanta che tale crisi investì, in America Latina, le procedure di elaborazione del discorso sul passato 1 Per una panoramica “esterna” su questo dibattito si veda il volume dello studioso spagnolo Edoardo Subirats (1994: 44 e ss.). Il dibattito sul postmodernismo in America Latina fu aperto dal numero speciale della rivista «Boundary 2», Vol. 20, No. 3, 1993. 2 3 Mendieta 1997: 254. 4 Si vedano i capitoli 1 e 2 di Harvey 1995. 103 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 104 (Appelbaum, Macpherson, e Rosemblatt 2003: XI-XVII). Il dibattito sulla storia nazionale sembrava incamminarsi verso nuove prospettive che negavano apertamente il valore euristico sia degli strumenti concettuali propri della grande narrazione della transizione dalle società tradizionali a quelle moderne che la retorica propria del discorso nazionalistico. Eppure alcuni dei temi che irruppero nel dibattito accademico con la fine della Guerra fredda erano stati anticipati, in modi differenti, da alcuni dei più acuti pensatori latinoamericani del Novecento. Inoltre, il processo di decolonizzazione di gran parte delle forme di statualità dell’America Latina si era articolato inevitabilmente in funzione del rapporto conflittuale non solo con le ex madrepatrie europee, ma anche, e in modo determinante con gli Stati Uniti d’America, sostituitisi nei processi di sfruttamento delle risorse locali alle potenze europee. L’intellighenzia dei paesi latinoamericani si era confrontata a più riprese, e già nella prima metà dell’Ottocento, con il tema dell’indipendenza politica dalla sfera di influenza statunitense, giungendo, sebbene in modo molto differenziato dal punto di vista delle soluzioni proposte, alla necessità di avviare un processo identitario che assicurasse, pur sempre nel quadro dello Stato-nazione, la capacità di elaborare risposte autonome alle esigenze organizzative specifiche delle rispettive comunità nazionali (Grosfoguel 2000a). Nell’anno 1900, il pensatore uruguaiano José Enrique Rodó, scrisse un breve quanto incisivo opuscolo destinato a influenzare in modo rilevante la percezione del rapporto tra America Latina e Stati Uniti d’America. Egli distinse tra due identità rispettivamente omogenee ma incommensurabili: quella sassone e quella latina. Anticipando alcuni dei temi sviluppati da Heidegger, Rodó parlo di due spazi culturali separati, due mondi di vita distinti, desumibili da forme di organizzazione umana non assimilabili l’una all’altra5 (Miller 1999: 174-210). La storia della civiltà latinoamericana elaborata da Rodó non si discosta sostanzialmente dalla matrice dell’idealismo hegeliano, né dalla sociologia della religione weberiana. Infatti, secondo il pensatore uruguaiano, sia la civiltà latinoamericana che quella nordamericana deriverebbero a loro volta dalla civiltà grecoromana. Ma mentre gli Stati Uniti avrebbero ricevuto questa eredità attraverso “l’umanesimo nordico-protestante”, l’America Latina avrebbe ricevuto l’eredità dell’umanesimo latino-cattolico (Miller 1999: 174-210). Nella narrazione di Rodó, la principale differenza tra le due identità è di carattere culturale. Mentre i valori supremi dell’identità sassone sono il guadagno, il lavoro e il potere di redenzione insiti nella autorealizzazione attraverso di esso, i valori distintivi della cultura latina sono la solidarietà, la generosità e la contemplazione estetica (Rodó cit. in Mendieta 1997: 45). In termini durkheimiani, Rodó individuava nell’identità latina una maggiore propensione verso la solidarietà organica, e in quella sassone una maggiore enfasi per quella meccanica. Secondo Aguilar, [Rodó] sembrava negare implicitamente che il passaggio dalla solidarietà organica a quella meccanica fosse un processo inevitabile, storicamente determinato, e finiva dunque col delineare un orizzonte antropologico della modernità in cui era possibile la coesistenza di due mondi di vita distinti, capaci entrambi di esprimere sistemi di valori specifici e, soprattutto, che non rappresentavano l’uno lo stadio evolutivo superiore dell’altro6. Mendieta, invece, notò che il valore del pensiero di Rodó veniva recuperato strumentalmente dagli stessi autori latinoamericani le cui idee erano affini a quelle dei teorici della modernità riflessiva7. E non in modo da opporlo a questi ultimi, ma proprio in virtù di alcune fondamentali 5 Tra le note biografiche di Rodó, spicca il suo prolungato soggiorno in Italia, dove Rodó visse gli ultimi anni della sua vita, conclusasi a Palermo nel 1917. 6 Mazzotti e Aguilar 1996: 12. 7 Si veda Lash 1997. 104 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 105 analogie. La riflessione di Mendieta muove dalla constatazione che, nel corso della seconda metà dellOttocento, il pivot della produzione di ricchezza risiedeva nello sviluppo industriale organizzato intorno al concetto di mercato nazionale e in relazione al ruolo che ciascuno stato occupava nella gerarchia del sistema interstatale e della divisione del lavoro, e alla posizione, egemonica o subalterna, in cui esso si collocava rispetto a ciascuno di questi due assi (Wallerstein cit. in Mendieta 1995: 18). Questo assetto, negli anni Novanta del Novecento, continuava Mendieta, sembra attraversare una trasformazione profonda e irreversibile. Il modo capitalistico di produzione manifesta a pieno la sua propensione globale che Marx aveva posto alla base della necessità dell’internazionalismo proletario de Il Manifesto, e le dinamiche transnazionali svelano l’insufficienza dello Stato-nazione come unità d’analisi del mondo (post)moderno. In termini culturali, questa dinamica si traduce nel passaggio alle società post-tradizionali ipotizzate da Giddens (Giddens 1990). Pur manifestando una certa insofferenza per quest’ultimo concetto, Mendieta lo assume come punto di partenza per rileggere la storia delle idee nel continente, collocando l’inizio di questa tradizione in quella prima distinzione evinta dalle pagine dell’Ariel di Rodó. Ebbene, Mendieta sottolinea che il concetto di società post-tradizionale, nel caso latinoamericano, si alimentava della retorica di Rodó sull’autentitcità dell’identità: se, come sostiene Giddens, le tradizioni non scompaiono, ma forniscono il materiale per la rielaborazione individuale della propria identità, allora l’identità latinoamericana si ritrova intatta anche nell’età contemporanea, come forza culturale. E viceversa, il concetto di società post-tradizionale, ammettendo la persistenza di forme culturali “tradizionali”, legittimava retrospettivamente l’idea di Rodó e assegnava un posto nella modernità anche all’America Latina, per mezzo dell’essenzializzazione di una cultura definita come tradizionale. Paradossalmente dunque, l’America Latina partecipava alla modernità, in quanto tradizione8 (Mendieta 1995: 21). Ma soprattutto, va detto, Rodó, attribuendo una superiorità etica e morale allo “spirito” latino, assumeva una posizione speculare al discorso egemonico contro il quale si scagliava, senza metterne in discussione le premesse, e riproducendo una logica culturale binaria e reciprocamente esclusiva9. La crisi dell’egemonia americana negli anni Novanta del Novecento ha posto gli intellettuali latinoamericani di fronte alla medesima domanda sull’identità del continente, e dei popoli che lo abitano, che la generazione di Rodó si era trovata ad affrontare. La differenzia sostanziale, però, è che a partire dal secondo dopoguerra il rapporto tra identità latinoamericana e nordamericana si articola nello spazio transnazionale descritto da fenomeni migratori senza precedenti nella storia della modernità (Cordero-Guzmán, Smith e Grosfoguel 2001: 10-35). Ed è in questo scenario che gli studi postcoloniali in America Latina si inseriscono e alimentano di nuove prospettive una serie di dibattiti centrali nelle scienze storico-sociali del continente, presso una comunità accademica che, così come quella del Commonwealth britannico e quella statunitense, risultava distribuita nello spazio transnazionale delineato dalle reti di relazioni che connettono l’accademia sudamericana a quella nordamericana10. Senza prendere mai in considerazione direttamente gli studiosi subalterni, in quanto comunità di storici indiani accomunati da una esperienza di ricerca ben precisa, Santiago CastroGomez sottolineava che il fatto che molti studiosi latinoamericani erano emigrati e lavorassero 8 Su questo punto si veda anche Martín Barbero 1993. Ciò che è interessante notare è che, mentre l’intera letteratura occidentale ha adoperato La Tempesta di Shakespeare come metafora dell’incontro tra la civiltà europea (Prospero) e la barbarie non europea (Calibano), Rodó personifica la cultura nordamericana in Calibano, cui oppone l’ideale estetico di Ariel per simbolizzare invece la superiorità morale latina. 9 10 Si veda Mignolo 1993. In questo saggio, lo studioso argentino ricostruisce parzialmente le reti tra istituzioni accademiche che vengono qui messe in rilievo. 105 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 106 in pianta stabile presso i dipartimenti di molte università americane costituiva la cifra di una condizione comune con gli intellettuali della prospettiva postcoloniale, o meglio, era quantomeno motivo di immediata empatia. Secondo Castro-Gomez, la domanda comune ad ambedue le comunità di studiosi era: Quale dislocazione discorsiva si produce nel momento in cui accademici provenienti dall’America Latina si impegnano ad analizzare la condizione di subalternità all’interno delle strutture di produzione del sapere nordamericane? E in che modo concetti come “Terzo Mondo” e “colonialismo” vengono riletti nelle mutate condizioni di funzionamento del mondo moderno? In effetti, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, la concettualizzazione del colonialismo era stata stimolata dalle esigenze imposte dai movimenti di liberazione nazionale che animavano lo scenario politico dell’Asia e dell’Africa, e le opzioni principali attorno alle quali le diverse prospettive critiche presero corpo erano sostanzialmente il modello dello Stato metropolitano e quello nazional-popolare, per riprendere la terminologia gramsciana ampiamente adoperata proprio in America Latina (Miller 1996: 121 e ss.). Le due opzioni erano considerate antitetiche. Per larga parte dei teorici della dipendenza, lo Stato metropolitano era l’agente dell’imperialismo e dello sfruttamento, mentre lo Stato nazional-popolare era l’agente della decolonizzazione e della liberazione anticoloniale nel Terzo Mondo (Frank 1969; Cardoso e Faletto 1978; Quijano 1978). Tuttavia, le versioni più rigide delle teorie della dipendenza erano già state criticate alla luce dello studio di processi transfrontalieri o di lunga distanza che connettevano in modo piuttosto fluido e disomogeneo gli spazi che si articolano lungo l’asse centro-periferia (Quijano 1976; Quijano e Westwell 1976). Dal punto di vista politico, emergevano i limiti delle possibilità di azione dei singoli stati nel quadro delle relazioni sistemiche che definivano il sistema interstatale, e in tutto il Terzo Mondo affioravano malcontenti e insofferenze nei confronti delle élite nazionaliste indigene che, come in India, avevano guidato i rispettivi movimenti di decolonizzazione. Inoltre, dal punto di vista degli studi culturali, anche in America Latina si faceva largo l’insufficienza euristica del concetto di cultura nazionale, e l’interesse per la frontiera (Saldivar 1997: 17-36). Nelle “zone di contatto”, per usare la nota terminologia introdotta da Mary Louis Pratt, l’incontro tra gruppi egemonici e subalterni era sempre avvenuto entro spazi-tempo fluidi, disomogenei e in continuo mutamento, tanto da renderne impossibile una definizione normativa certa e una tassonomia stabile11. La definizione di questo spazio, secondo autori differenti per posizioni e interessi, trova una corrispondenza immediata nella condizione degli intellettuali provenienti dal Terzo Mondo, ma inseriti all’interno di istituzioni accademiche transnazionali (cfr. Said 1999; Dirlik 1994; Ahmad 1992; Young 2007). Questa condizione, come sintetizzato da John Beverley nel volume che aprì il dibattito sul postcolonialismo in America Latina nel 1993, obbligava a rivedere e rielaborare le premesse stesse del discorso anticoloniale e terzomondista, per concepire infine un nuovo rapporto tra teoria e prassi nel quadro dell’elaborazione di una narrativa antiegemonica non occidentale (Beverley e Oviedo 1995: 8 e ss.). Secondo alcuni studiosi latinoamericani, le teorie postcoloniali sembravano riempire il vuoto teorico lasciato dall’eredità marxista divenuta ingombrante e offrire, in questo senso, una via d’uscita all’impasse dei progetti di ispirazione comunista (Rodriguez 2002: 45-47). Secondo altri, l’impasse era teorica più che politica e derivava dalla ridotta capacità euristica della categoria di classe. Altri intellettuali, come il filosofo messicano Santiago Castro-Gomez, vedevano il postcolonialismo come un’alternativa non tanto al marxismo, quanto proprio alle teorie della dipendenza12. Secondo Castro-Gomez 11 «Luoghi sociali in cui le culture si incontrano, si scontrano, lottano corpo a corpo» (Pratt 1997: 519). 106 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 107 [Nel contesto latinoamericano] la critica postcoloniale si poneva come un superamento, e allo stesso tempo una messa in crisi, delle narrative anticoloniali, il cui leit motiv era stata l’esternalizzazione delle cause prime dei processi di sfruttamento materiale e di marginalizzazione intellettuale, dai paesi e dalle classi dirigenti indigene, verso quelle occidentali, e statunitensi in particolare13. Ad ogni modo, le tesi della critica postcoloniale sembrarono dare forma esplicita a una insoddisfazione teorica radicata e crescente, sia nei confronti di alcune evidenti rigidità del marxismo nel rendere conto delle strutture socio-culturali del continente, sia nei confronti di una lunga tradizione di pensatori considerati i padri fondatori del pensiero critico sul colonialismo in America Latina14. Personalità come Guamán Poma de Ayala, Franscisco Bilbao, José Martí e lo stesso Rodó, sulla scia della riflessione postmoderna, erano ritenuti colpevoli di aver stabilito una separazione manichea tra una identità pura dell’America Latina opposta a quella Occidentale, tacendo sulle tensioni e le contraddizioni che il concetto stesso di America Latina sopiva15 (Brunner 1992: 37-72). Fu in questa atmosfera che l’attenzione degli studiosi latinoamericani, grazie a una serie di interventi del sociologo e antropologo argentino Nestor García Canclini dalla fine degli anni Ottanta in avanti, si rivolse con rinato vigore alla figura del socialista peruviano José Carlos Mariátegui (1890-1935) e alla specificità del suo pensiero sulla questione dell’identità latinoamericana, poiché esso appariva meno vincolato a una visione omogenea e tradizionalista. Mariátegui, come Rodó, era un autodidatta, e si definiva un antiaccademico. Egli condivideva con i pensatori che lo avevano preceduto o che gli erano contemporanei l’insofferenza verso gli Stati Uniti d’America e la loro crescente ingerenza politica ed economica nel continente; e anche lui sosteneva che l’identità latinoamericana era qualcosa di distinto da quella nordamericana. Ma, a differenza degli altri, le sue tesi derivavano dalla matrice marxista della sua formazione politico-teorica. E tuttavia, definire Mariátegui un marxista ortodosso avrebbe suscitato non poche perplessità nei suoi contemporanei, a causa della sua lettura antieconomicista del rapporto tra struttura e sovrastruttura16. E in effetti, più che al Partito comunista sovietico, Mariátegui era interessato al movimento comunista in Italia, e fu appassionato lettore e interprete del pensiero di Antonio Gramsci17. Esiliato in Italia dalla dittatura di Leguía, egli riscontrò nell’analisi della struttura di classe del Mezzogiorno delle forti analogie con quella peruviana (Aricó 1980). Il percorso di Mariàteguì e quello di Gramsci convergevano verso la complessificazione della relazione tra struttura sociale di accumulazione e cultura, ma muovevano da punti di partenza opposti. Gramsci dall’analisi di classe, Mariátegui da una tradizione di matrice culturalista Su questo punto, si veda l’interessante saggio di Kapoor (2002). Kapoor ci offre una introduzione al complesso dialogo tra queste due prospettive, e conclude che studi postcoloniali e teorie della dipendenza sono inconciliabili, dal momento che i primi sono troppo imbevuti di post-strutturalismo, mentre le seconde sono troppo strutturaliste ed economiciste. Di fatto, tuttavia, Kapoor astrae ambedue le prospettive dallo spazio-tempo da cui sono emerse, collocandole su uno stesso piano, in modo da poter effettuare una comparazione, piuttosto che evidenziarne le relazioni. 12 13 Castro-Gomez 1997: 5-33. Per un’introduzione al dibattito sull’analisi marxista della struttura sociale in America Latina, soprattutto alla luce delle trasformazioni occorse a partire dagli anni Settanta del Novecento in avanti si veda Bonnet 2001. 14 L’intellettuale cubano José Martí, nel primo decennio del Novecento, aveva pubblicato un’acuta invettiva contro gli Stati Uniti d’America, mentre José Vasconcelos, dal canto suo, aveva elaborato il concetto di razza cosmica, legando l’identità latinoamericana alla cultura cattolica, attestandosi su posizioni ancora più pro-spagnole di Rodó. 15 Si vedano a tal proposito le posizioni di Mella e Vicente Toledano, contemporanei di Mariátegui. In Aricó 1980: 89 e ss. 16 17 Si veda Mariátegui 1991. L’edizione raccoglie alcuni dei più importanti saggi del pensatore peruviano raccolti e introdotti da Anibal Quijano. 107 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 108 completamente ignara del materialismo storico18. L’effetto dell’influenza di Gramsci portò Mariátegui alla lapidaria affermazione secondo cui Qualsiasi trattazione del problema dell’indiano, sia scritta che verbale, che manchi o si rifiuti di riconoscerlo come una questione socio-economica non è altro che una sterile esercitazione teorica, destinata a esser completamente discreditata. Il nostro approccio rifiuta qualsiasi tesi che si riduce a uno o l’altro dei seguenti criteri unilaterali: amministrativo, legale, etnico, morale, educativo, ecclesiastico19. Lo sviluppo del suo pensiero seguì per certi versi un percorso analogo a quello di Lenin e di Mao, nonché di Gramsci. Vale a dire, il problema di leggere l’integrazione di regioni povere e dotate di strutture produttive prevalentemente, se non esclusivamente, agrarie, nello spazio di relazioni di scambio definito dall’egemonia del capitale. Egli ristudiò la storia del mondo colonizzato, riferendovisi nel complesso come Oriente, e rilesse in particolare la storia dell’indipendenza nazionale dell’America Latina in chiave marxista. Egli sostenne che, sebbene le relazioni di tipo capitalistico fossero state introdotte dagli spagnoli, esse continuassero a operare anche dopo l’indipendenza dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Francia e dall’Inghilterra. Anticipando di circa un trentennio il concetto di neo-colonialismo di Nkrumah, egli affermò che alla dipendenza politica dalle potenze europee si era sostituita la dipendenza economica dagli Stati Uniti d’America20. Ed è a partire da questa consapevolezza che il pensiero di Mariátegui intraprese una strada del tutto originale. Mentre i movimenti socialisti in Europa organizzavano la propria lotta entro gli spazi nazionali di stati le cui prerogative coloniali erano nettamente in declino, l’America Latina subiva l’espansionismo di quella che sarebbe diventata di lì a pochi anni la potenza egemone del mondo moderno. E per questo motivo egli manifestò un sentito disaccordo anche nei confronti di Trotsky, poiché pur condividendone l’analisi delle strutture sociali dei paesi arretrati, non ne condivideva la retorica universalizzante della fine del capitalismo da esso elaborata21. Rispetto all’internazionalismo del movimento socialista, Mariátegui affermò infatti che «Il socialismo era internazionale solo in teoria, ma il suo internazionalismo finiva ai confini dell’Occidente, ai confini della civiltà occidentale. I socialisti e i sindacalisti parlano di liberare l’umanità, ma nei fatti sono interessati all’umanità occidentale» (Mariátegui 1996: 130). Appare chiaro come il suo marxismo risultasse inseparabile dalla questione coloniale. E più in particolare il suo focus restò sempre la declinazione locale dei processi globali rispetto ai quali il marxismo, nella sua variante gramsciana, gli aveva messo a disposizione strumenti d’analisi fondamentali. Gli scritti di Mariátegui testimoniano la maturazione di una consapevolezza. E cioè che la realtà latinoamericana era differente da ciascuna delle altre in cui il pensiero di Marx era stato adoperato, sebbene inevitabilmente trasformato. In effetti, sia la Russia di Lenin che l’Italia di Gramsci avevano un proletariato industriale in crescita, un’agricoltura già integrata in relazioni commerciali di tipo capitalistico, e soprattutto, non erano percorse al loro interno da linee di demarcazione di ordine coloniale-razziale. D’altro canto inoltre, rispetto alla Cina di Mao, il Perù, che sovente Mariátegui adopera come sineddoche per l’intero continente latinoamericano, condivideva la centralità della questione agraria. Anche in Perù, infatti, la quasi totale assenza del proletariato industriale spostava immediatamente la riflessione marxista intorno al problema della transizione al socialismo, sul 18 Melis, nel volume collettaneo edito da Aricó, definisce Mariátegui il primo marxista americano (cfr. Aricó 1980). 19 Mariàtegui 1991: 22. 20 Si veda in particolare il saggio intitolato Outline of the Economic Evolution, in Mariátegui 1971. 21 Sul contributo di Trotsky alla concettualizzazione dello sviluppo dei paesi periferici si veda Lentini 2003: 156. 108 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 109 ruolo dei contadini e del loro rapporto con l’élite nazionale. E tuttavia, la Cina degli anni Trenta del Novecento aveva nella coesione etnico-culturale dei contadini con l’élite uno dei punti di maggiore forza nella lotta anticoloniale, e allo stesso tempo di argine alla diffusione del movimento comunista. In America Latina la razza, invece, era un aspetto cruciale nella definizione delle gerarchie sociali22. Questo aspetto dell’analisi del pensatore peruviano rappresenta, secondo Canclini, l’elemento distintivo della critica al paradigma liberal-marxista dal punto di vista dell’America Latina avviata da Mariátegui. Il tentativo di Canclini è quello di elaborare delle categorie che siano in grado di cogliere la specificità della storia del colonialismo nel continente, tenendo insieme l’analisi dell’ordine simbolico con quella della struttura produttiva. Né il “paradigma” dell’imitazione, né quello dell’originalità, né la “teoria” che attribuisce ogni cosa alla dipendenza, né quella pigra che intende farci partecipi del “meravigliosamente reale” o del surrealismo latinoamericano sono in grado di spiegare le nostre culture ibride. Si tratta di vedere come, nel quadro della crisi della modernità occidentale, di cui l’America Latina è parte, le relazioni tra tradizione, modernismo culturale, e modernizzazione socio-economica si trasformano. A tal proposito è necessario oltrepassare la speculazione filosofica e l’intuizionismo estetico che domina la bibliografia postcoloniale23. All’insufficienza dell’orientamento strutturalista delle teorie della dipendenza, Canclini aggiungeva la critica al concetto di autenticità posto a fondamento dell’idea di identità latinoamericana. In questa scia, John Beverley aprì il dibattito sul postcolonialismo in America Latina, con il suo volume del 1993, parafrasando un passo di Said che poneva l’enfasi sul fatto che la “autenticità” culturale era poco più di una “consapevole allucinazione” (Beverley 1993: 23 e ss.). Rispetto a questa tensione identitaria, sosteneva dal canto suo Patricia Seed, le teorie postcoloniali avevano il vantaggio di muoversi su un piano differente. Esse assumevano l’impossibilità e la faziosità di qualunque costruzione identitaria fondata sul concetto di autenticità culturale. Ciò che, in linea di massima, accomunava Spivak, Bhabha e Said, era l’idea che lo scontro ideologico tra egemonia e subalternità doveva essere condotto accantonando qualsiasi pretesa di individuare identità extraoccidentali, portatrici di sistemi di valori intrinsecamente superiori a quelli affermatisi nel corso della storia del mondo moderno come egemonici e sopravvissuti intatti all’incontro coloniale. Analogamente a quanto sostenuto da Canclini, le culture, tutte le culture, non esistono se non in forma ibrida, tanto più quelle emerse dall’interazione prolungata tra immaginari e continuamente rielaborate attraverso forme di narrazione del passato differenti rispetto a quelle istituzionalizzate nelle strutture di produzione del sapere occidentali (Seed 1993: 11 e ss.). Eppure, quella che possiamo individuare come la retorica dell’ibridità negli anni Novanta non era una novità nel dibattito latinoamericano. Già Rama, nel suo fondamentale studio sulle letterature del Terzo Mondo negli anni Settanta, aveva sottolineato quanto le influenze reciproche tra romanzi indiani e latinoamericani avessero aperto dei territori comuni tra Storia e Let- Un’ulteriore intuizione fondamentale del pensiero di Mariátegui fu la sua allergia verso il determinismo della teleologia del progresso. Egli espresse più volte la diffidenza rispetto alla teoria degli stadi di sviluppo, che in quegli anni animava il dibattito in Unione Sovietica. Mariátegui morì l’anno prima che Stalin chiudesse con una sorta di editto la questione, affermando la rigidità del modello evoluzionistico desunto dal pensiero di Marx, e dunque la perplessità di Mariátegui sembra non derivare dalla sua posizione all’interno del movimento comunista internazionale, ma piuttosto dalla sua riflessione sul colonialismo. In una delle sue biografie, si legge un suo intervento in cui egli sostiene: «può darsi che l’umanità evolva in stadi, ma questi stadi non si succedono l’un l’altro in modo lineare» (Chavarría 1979: 86). 22 23 Canclini 1995: 6. 109 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 110 teratura, prima ancora che il linguistic turn contribuisse a mettere in crisi il paradigma scientista della storiografia occidentale (cfr. Whyte 1987). L’insufficienza delle fonti d’archivio per la storia coloniale era stato, d’altro canto, uno dei temi prediletti da Guha. Questi, in Elementary Aspects of Peasant Insurgency, dedicò molta attenzione ai “rumori” che precedevano le rivolte e all’uso rituale di percussioni che annunciavano l’imminente insurrezione24. D’altronde, va ricordato, la corrispondenza immediata tra i suoni e la coscienza collettiva della rivolta è già stata messa in discussione ampiamente da Spivak, secondo la quale «non bisogna attribuire al linguaggio un’identità totalmente fondata su se stessa e basata su un modello psicologico talmente rozzo da implicare che lo spazio di “premeditazione” sia confinato al livello della coscienza deliberante (Guha e Spivak 2002: 127). E tuttavia Rama, ovviamente ignaro dei venturi contributi del decostruzionismo, aveva individuato delle strutture ritmiche e metriche tipiche delle sonorità della tradizione orale contadina indiana nelle opere di grandi scrittori latinoamericani come José Maria Arguedas, Juan Rulfo e lo stesso Gabriel García Márquez. Secondo la lettura vigotskyana propria di Rama, la scoperta di questi pattern di ripetizione testimoniava un processo di storicizzazione di fonti non secolari che adoperavano strumenti di comunicazione non necessariamente testuali. Fiumi profondi di Arguedas, ad esempio, non era semplicemente una versione coloniale del Bildungsroman ottocentesco europeo, ma piuttosto un romanzo “dei poveri” basato sulla canzone tradizionale andina (Rama 1997: 158-159). Questo processo di strutturazione basato su materiale non testuale, e tuttavia analogo ad altri fenomeni di ipostatizzazione ontologica della ridondanza, aveva implicazioni storiografiche e antropologiche, piuttosto che teoretiche. Le opere letterarie in questione, per Rama, esprimevano un universo di scambi tra culture coloniali dislocate in spazi di intersezione in cui il sistema di rappresentazioni coloniale interagiva con altri universi e cosmologie, che a loro volta si intrecciavano tra loro creando nuovi modi di percezione collettiva e individuale. Egli criticò il concetto di acculturazione con il quale le scienze storico-sociali erano solite descrivere la morfologia della società coloniale, sostenendone l’insufficienza e proponendo di sostituirlo con quello di transculturazione, inventato dall’antropologo cubano Fernando Ortiz Fernández, negli anni Quaranta del Novecento. Il concetto di transculturazione deriva da un doppio riconoscimento: da un lato conferma l’esistenza di un insieme di valori idiosincratici che si ritrovano negli angoli più remoti delle formazioni culturali contemporanee; dall’altro, afferma simultaneamente l’esistenza di una energia creativa che opera non soltanto a partire dalla tradizione, ma anche sulla base degli stimoli esterni a essa25. La transculturazione, per Rama, era l’esito del processo violento di deculturazione derivante dall’imposizione dell’ordine materiale e normativo del colonizzatore. A ciò, seppure secondo uno schema relativamente meccanicistico di matrice fisico-dinamica, corrispondeva una reazione di neoculturazione di cui erano protagonisti i soggetti coloniali. In chiave storica, si sosteneva sostanzialmente che l’imposizione dell’ordine simbolico occidentale nello spazio coloniale generava risposte attive ed eterogenee. E che queste risposte costituivano un patrimonio di fonti storiografiche specifico e qualitativamente distinto da quello europeo. Dunque, sebbene in forma di racconto, le opere letterarie dell’avanguardia transculturale latinoamericana ruotavano intorno a processi che le scienze storico-sociali occidentali, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, pensavano per mezzo di una struttura logico-grammaticale tendenzialmente nomotetica Tali suoni divennero testi scritti passando attraverso la mano degli amministratori locali britannici che, nei periodi di frequenti mobilitazioni contadine nell’Ottocento, li sentivano nei loro incubi e li collegavano inconsciamente alle ribellioni. 25 Rama 1982: 167. 24 110 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 111 (Wallerstein 1996a: 33-70). I personaggi dei romanzi recavano traccia, nei corpi e nelle menti, dei processi di marginalizzazione subiti dai gruppi sociali di cui erano membri: schiavitù, proletarizzazione, usura, nation-building, razzismo, accumulazione primitiva. Pertanto, l’interesse per le teorie postcoloniali in America Latina, al di là di ogni semplicistica spiegazione che ne individui le cause in una sorta di moda del momento, sembra derivare almeno da due circostanze. La prima è che alcune parole chiave degli studi postcoloniali apparvero come traslitterazioni di concetti radicati nella storia delle idee del continente. Ciò produsse, simultaneamente, sia un’automatica empatia, sia una sorta di “rivalità” rispetto al successo degli studiosi postcoloniali e alla diffusione dei loro lavori. Questa dinamica si evidenzia in tutta una serie di saggi tesi a dimostrare che la storia intellettuale latinoamericana era giunta ben prima dei teorici anglofoni a elaborare i concetti fondamentali del discorso postcoloniale26. Il secondo è che gli studi postcoloniali, sebbene nel quadro dell’accademia angloamericana, attaccavano da una differente prospettiva coloniale il pantheon del poststrutturalismo. Spivak e Guha, soprattutto, denunciavano la complicità istituzionale, morale e scientifica tra le scienze storico-sociali dell’accademia occidentale e l’espansione coloniale. E questa critica fu recepita istantaneamente dagli studiosi latinoamericani coinvolti nel dibattito sul postmodernismo e sulla globalizzazione. Lo spunto offerto dagli studi postcoloniali fu esteso da Santiago Castro-Gomez, che sostenne che né Marx, né Heidegger, né lo stesso Foucault avevano tematizzato i legami costitutivi tra scienze storico-sociali e progetto coloniale europeo, rimanendo chiusi all’interno di una riflessione intraeuropea che produceva un autoritratto tanto critico quanto surrettiziamente autocelebrativo della razionalità occidentale. Ciò che sfuggiva loro colpevolmente è che Le prime vittime della modernità non furono i lavoratori delle fabbriche in Europa nell’Ottocento, né gli internati nei manicomi francesi studiati da Foucault, ma i nativi delle Americhe, Africa e Asia, adoperati, sfruttati, sterminati e soggiogati in nome dell’Ordine e del Progresso, come inscritto sulla bandiera issata sul Brasile dei colonnelli. L’eccezionale sviluppo della razionalità tecnico-scientifica dell’Europa non sarebbe stato possibile senza quell’enorme laboratorio della modernità che furono le colonie. A questa conclusione era giunto brillantemente Enrique Dussel, affermando che «senza colonialismo non ci sarebbe stata l’esigenza di rappresentare il barbaro e dunque, senza ego conquiro non avrebbe preso corpo alcun ego cogito»27. Si vedano gli articoli comparsi sulla rivista su cui gran parte del dibattito sull’importazione dei Postcolonial Studies in America Latina trovò spazio, «Nepantla. Views from the South», edita dal centro di studi culturali della Duke University, allora presieduto da Arif Dirlik e animato da Mignolo e Jameson, tra gli altri (cfr. Castro-Gomez 2000). Si veda anche il saggio del 1993, scritto nelle prime battute del dibattito in questione. 26 27 Castro-Gomez 1996: 66 (cfr. 1994). 111 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 112 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 113 Studi subalterni e postcoloniali in America Latina. Transizioni politiche e transiti concettuali L’internazionalizzazione del lavoro dell’Indian Subaltern Studies Group fu uno stimolo decisivo per l’introduzione delle tematiche postcoloniali nel dibattito latinoamericano e condusse alla fondazione di un omologo gruppo in America Latina1. La maggior parte degli autori che parteciperanno al dibattito sul postcolonialismo erano parte dell’embrione che diede vita al Latin American Subaltern Studies Group nel 19932 (Mellon 1994; Grosfoguel 2002). Abbiamo accennato al vuoto teorico aperto dalla fine della Guerra fredda. Esso corrispondeva a fenomeni complessi di riassetto totale delle strutture politiche dei paesi latinoamericani e delle forze sociali mobilitate, rispetto ai quali il deficit di strumenti d’analisi costituiva una questione urgente che accomunava sia gli studiosi latinoamericani che i latinamericanisti nelle università nordamericane3. La fine dei regimi autoritari, la fine del comunismo in Unione Sovietica e la crisi dei progetti rivoluzionari che in un modo o nell’altro s’ispiravano a quella esperienza, il processo di ri-democratizzazione degli apparati statali del continente, il nuovo assetto economico internazionale modificato dall’ascesa delle potenze asiatiche andavano ridefinendo i rapporti di forza a livello internazionale e modificando la forza relativa dei movimenti sociali e i loro strumenti di intervento (Mellon 1994; Baro 1997; Ferrer 1999). Ciò che andava messo in discussione non erano soltanto la prassi politica e gli obbiettivi di quelle organizzazioni politiche di opposizione che operavano all’interno di ciascuno stato e si coordinavano in vario modo in termini regionali, ma anche i concetti chiave attorno ai quali organizzare aspirazioni, programmi, agende politiche. Si trattava di mettere in discussione il paradigma da cui concetti quali libertà, uguaglianza, socialismo avevano tratto legittimità (Alvarez 1999: 1-29). L’interesse per gli studiosi subalterni indiani derivava dagli esiti dell’opera di revisionismo storico che, sebbene controversa, era giunta a mettere in discussione gli strumenti con cui descrivere e narrare la storia delle società coloniali, finanche, nelle sue versioni più sofisticate, ad attaccare l’intero costrutto entro cui la Storia imperiale, quella nazionalista e quella marxista si erano formate4. I limiti della storiografia nazionalista erano già stati messi in evidenza da diversi studi in diversi paesi latinoemaricani e, in effetti, il concetto di subalternità così come elaborato in modo specifico dall’Indian Subaltern Studies Group non aveva avuto visibilità in America 1 Per una ricostruzione di questa vicenda si veda l’introduzione a Rodriguez 2001. I membri fondatori sono John Kraniauskas, Walter Mignolo, Alberto Moreiras, José Rabassa, Javier Sanjinés, Patricia Seed e Gareth Williams. 2 3 Per un’introduzione alla questione si vedano Calderon 1993 e Hopenhen 2004. 4 A tal proposito si vedano Prakash 1994; Chakrabarty 1992 e 2000; Guha 2000. 113 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 114 Latina fino alla fine degli anni Ottanta5. E tuttavia diverse prospettive avevano affrontato temi simili fin dagli anni Sessanta6 (Mendieta 1993; Mellon 1994; Walsh 2001, 2002a e 2002b). Del resto, l’esperienza dei movimenti anticoloniali in America Latina si era articolata in tempi differenti rispetto all’Africa e all’Asia, anticipando la questione del rapporto tra Stato-nazione e popolazioni coloniali. Ma, cosa più rilevante, dal momento che le gerarchie sociali nei paesi sudamericani erano organizzate in base all’istituzionalizzazione della discriminazione razziale, i tentativi di sovvertirla da parte di alcuni gruppi sociali includevano una forte componente identitaria di matrice etnica. Rispetto a tali movimenti, nelle parole di Seed tornava a riecheggiare il pensiero di Mariátegui, sebbene l’enfasi fosse sulla razza e non sulle condizioni materiali dell’esistenza: “qualsiasi definizione del concetto di subalternità che pretendesse di cogliere la specificità della storia dei movimenti sociali in America Latina doveva farsi carico dell’eredità del razzismo” (Seed 1993: 32) In virtù di questa rinata enfasi sulla centralità della razza rispetto alla classe, diversi studiosi latinoamericani coinvolti nel dibattito sul postcolonialismo e sugli studi subalterni hanno ripercorso il retroterra intellettuale del concetto di subalternità nel continente, concordando e dunque soffermandosi sull’importanza di tre momenti storici in cui gruppi sociali discriminati per ragioni razziali si resero protagonisti di movimenti sociali cruciali nel quadro della formazione dello stato-nazione latinoamericano: la rivoluzione messicana (1911), la rivoluzione cubana (1959) e la vittoria dei sandinisti in Nicaragua (1979). Ciascuno di essi, dal punto di vista coloniale, segna un momento di discontinuità rispetto alle configurazioni che la trasformazione delle strutture politiche aveva mostrato con una certa frequenza. Va ricordato che la maggior parte dei paesi latinoamericani raggiunse l’indipendenza nel XIX secolo sotto la guida di élite indipendentiste creole, che crearono regimi di dominio statale e di segregazione rispetto agli indios che abitavano i territori dei neonati stati7 (Quijano 1999 e 2000). Rispetto a questo tipo di processo di decolonizzazione, la rivoluzione messicana del 1911 rappresentò una rottura sensibile. A essa infatti prese parte attivamente la parte meticcia del popolo messicano, non solo in qualità di soldati, ma anche come quadri dirigenti locali del movimento rivoluzionario8. Come è noto, questa componente fu progressivamente marginalizzata e infine esclusa dalla costruzione dello stato postrivoluzionario messicano9 (Dawson 2004). Ma proprio riferendosi esplicitamente alla mobilitazione messicana, la rivoluzione cubana affrontò direttamente il problema delle popolazioni indigene, definendo se stessa come un movimento “posteuropeo”, assumendo come valore aggiunto il carattere contraddittorio di un’identità marxista rivoluzionaria, in un paese la cui popolazione condivideva il meticciato come condizione antropologica (Young 2003: 24 e ss.). Fu in questo fermento che emersero le opere di autori come Mario Vargas Llosa, Carlos Fuentes e Gabriel García Márquez; così come le teorie della dipendenza10. Per un’introduzione alla storiografia revisionista sul nazionalismo in America Latina si veda Mato 1995. In particolare si noti l’analogia tra gli studi sulle rivolte contadine dell’Indian Subaltern Studies Group, quelli di Hobwsbawm sul banditismo sociale e quelli di Joseph sui banditi messicani. Di quest’ultimo, si vedano Joseph 1990 e 1991. 7 Questa conformazione del potere e della gestione territoriale dello Stato è stata definita da Stavenaghen con il concetto di colonialismo interno (cfr. Stavenaghen 1965). 8 È evidente come la partecipazione delle classi subalterne alla Rivoluzione messicana, e soprattutto il loro ruolo sia stato molto dibattuto. Sta di fatto che la Rivoluzione del 1911, al pari della Rivoluzione di Haiti repressa dai giacobini nel XVIII secolo, fu un esempio di protagonismo delle popolazioni indigene al sovvertimento dell’ordine statale costituito (Applebaum 2003). 9 Si ricordi il riferimento alla Rivoluzione messicana nella Carta de Mexico firmata da Fidel Castro nel 1956. 10 Spinto dall’entusiasmo per la vittoria dei Rivoluzionari a Cuba, nella sua famosa rilettura di Fanon, Roberto Fernández Retamar riprendeva proprio l’immagine di Calibano utilizzata da Rodó per simboleggiare la barbarie occi5 6 114 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 115 In questo periodo, secondo Walter Mignolo, ambedue i gruppi di studiosi, scienziati sociali e letterati, vedevano come via percorribile per l’emancipazione del continente la “rottura” radicale nei confronti delle strutture di potere dominanti (Mignolo 1991). Una rottura tale da garantire, almeno in teoria, il protagonismo delle società coloniali11. Più in particolare, secondo l’economista venezuelano Edgardo Lander, la rivoluzione cubana aveva creato le condizioni per maturare l’idea che il ruolo di guida del movimento di liberazione non spettasse necessariamente all’élite nazionale ma alle classi produttive12. Indipendentemente dalla composizione sociale della leadership rivoluzionaria in America Latina, il successo politico e militare della Rivoluzione cubana generò da un lato il timore presso gli stati metropolitani che l’intero processo di decolonizzazione potesse imboccare la strada delle rivoluzioni marxiste intrapresa a Cuba (Latham 2000; McMichael 2006; Young 2007), dall’altro alimentò la convinzione, presso gli intellettuali latinoamericani, che un marxismo umanista e terzomondista avrebbe contribuito alla definizione di una soggettività storica diversa dal proletariato urbano industriale (Quijano 1978; Frank 1969; Amin 1997). Ma ciò che emergeva dall’esperienza cubana, che si ricollegava al pensiero di Fanon sulla rivoluzione algerina, era l’insufficienza del concetto di proletariato nel delineare la morfologia del soggetto rivoluzionario nel Terzo Mondo. Il dibattito su questo tema fu piuttosto vasto, e coinvolse i marxisti di tutto il mondo. Una delle soluzioni che emersero con maggiore forza dal dibattito latinoamericano, affermata in parte negli scritti teorici e nei discorsi politici a sostegno della linea del Partito comunista cubano, a Cuba e al di fuori di Cuba, fu quella della “masa trabajadora” (massa lavoratrice), che consentiva di includere nella saga della vittoria del proletariato sulla borghesia anche quelle figure dello sfruttamento coloniale che non erano direttamente desumibili da una lettura ortodossa de Il Capitale. Questo slittamento del campo semantico del concetto di classe non fu isolato, né tantomeno completo; ma è significativo nella misura in cui corrispose ad analoghi tentativi di rendere maggiormente flessibile il lessico marxista altrove nel mondo. I partiti comunisti parlamentari in Europa, dal canto loro, avevano di fronte la questione di adeguare l’abbandono delle pretese rivoluzionarie al lessico marxista dei principi leninisti. I comunisti italiani, ad esempio, risolsero il problema adeguando il lessico marxista dei principi leninisti all’abbandono delle pretese rivoluzionarie, per mezzo della transizione dal concetto di struttura a quello di formazione economico-sociale (Sofri 1996: II). In America Latina, il problema di includere i gruppi etnici discriminati nella retorica della rivoluzione venne risolto attraverso una minuziosa ermeneutica marxiana, sulla base della quale fu teorizzata l’esistenza di un soggetto di classe quanto più inclusivo possibile, con il quale l’élite intellettuale della sinistra cubana, e in seguito di altri partiti e movimenti marxisti, leninisti e maoisti, intendeva identificarsi. I “negri”, gli indios e i meticci, vennero inclusi in parte nel discorso sull’emancipazione più di quanto i “lumpen”, i sottoproletari, non fossero stati inclusi in quello marxiano, né in quello marxista europeo13. Questa fase, definita da Lander come il dentale. Egli descriveva i popoli dell’America Latina come il mostro shakesperiano costretto a una condizione succube, ma dotato di un potenziale trasformativo tale da poter distruggere l’autorità costituita e creare le condizioni per un nuovo e più egualitario ordine sociale (cfr. Fernández Retamar 1971). Delinking è il titolo dato da Amin a un suo importante volume. La base analitica per questa idea affonda le radici in diversi studi sullo sviluppo dei paesi latinoamericani, come quelli di Cardoso, degli anni Settanta. 11 Lander è oggi uno degli intellettuali vicini a Chavez. Per quanto riguarda la sua prospettiva antiimperialista, legata alla lettura delle Rivoluzione cubana. 12 13 Per uno sguardo più recente sul riaffiorare della marginalizzazione di tipo razzista nella Cuba degli anni Novanta si veda invece Oxhorn 1995. Questo lavoro è interessante proprio nella misura in cui sottolinea il legame tra le esi- 115 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 116 culmine del “modello protagonistico della rivoluzione” si conclude con la fine della guerriglia di Che Guevara in Bolivia (Lander 2001: 91). Il 1968 rappresenta, anche per il dibattito latinoamericano, una svolta decisiva, sebbene sotto punti di vista differenti rispetto all’esperienza che si viveva contemporaneamente in Europa, o in Cina o in India. Secondo Chomski, l’elemento comune a tutte queste esperienze “rivoluzionarie”, che presero corpo nel 1968 e a partire da esso, risiede nella comparsa degli studenti come soggetto collettivo autorganizzato all’interno dell’arena decisionale e nel dibattito politico sia nel Primo che nel Terzo Mondo (Chomski, Nader, Wallerstein et al. 1996: 171-195). Questa trasformazione nella composizione sociale dei movimenti di contestazione è senza dubbio un fenomeno complesso. Tuttavia, già a metà degli anni Ottanta, Carlos Vilas tentò di storicizzarne le caratteristiche e ne fornì un’immagine sintetica, affermando che il contributo degli studenti ebbe importanti esiti in ambiti diversi: Politicamente, [esso] connotò i movimenti di contestazione in termini di conflitto “intergenerazionale” che tagliava trasversalmente i gruppi sociali di élite e quelli delle classi medie e lavoratrici che gli studenti intendevano rappresentare. Nel campo della produzione culturale, l’ingresso degli studenti accese un nuovo interesse per fonti documentarie che erano state semplicemente ignorate fino a quel momento, come le fonti orali e “popolari”, le quali misero in discussione l’autorità e la legittimità degli archivi come templi assoluti della conservazione delle tracce del passato. Ciò si tradusse in una forte critica sia agli storici di professione, che all’avanguardismo intellettuale radicato nei circoli accademici della sinistra intellettuale. Inoltre, l’insoddisfazione nei confronti delle strategie metanarrative di impronta mascolina dei cosiddetti scrittori del boom, spinse la critica culturale e letteraria in direzione del quotidiano, del personale, dell’intimo, delle “storie minori”. I soggetti che apparvero meritori di interesse allora divennero le donne, i sottoproletari, gli omosessuali, i prigionieri politici e tutti quei soggetti che, si diceva, non erano stati mai rappresentati14. In analogia con quanto avveniva nei dipartimenti di Storia delle università britanniche, mediterranee, statunitensi, anche in America Latina, dunque, nasceva la spinta forte in direzione della Storia Sociale, concretizzatasi principalmente intorno al gruppo di studio su “Ideologia e Letteratura” della University of Minnesota e al Centro de Estudios Latinoamericanos “Rómulo Gallegos” a Caracas, nei primissimi anni Settanta. Ambedue questi centri di produzione del sapere diedero asilo a tutta una serie di intellettuali esuli dai regimi dittatoriali che intanto andavano occupando il potere nel cono meridionale del continente, così come l’università di Salvador de Bahia aveva costituito un punto di approdo per i teorici dell’economia politica che avevano sfidato il mainstream della Scuola di Chicago negli anni Sessanta. In questa temperie intellettuale, strettamente connessa alla lotta politica, l’America Latina conobbe diverse correnti intellettuali che intanto andavano sviluppandosi in Europa. Secondo la ricostruzione di Ileana Rodriguez Negli anni Settanta, lungo le linee accidentate dei circuiti dei movimenti politici di estrema sinistra, che collegavano Parigi a Buenos Aires, Francoforte a Caracas, o Roma a Città del Messico, o Chicago a San Paulo, furono introdotte in America Latina diverse prospettive critiche: il postrutturalismo francese, il marxismo gramsciano e la Scuola di Francoforte, il marxismo ortodosso, ma anche le teorie della modernizzazione e le teorie dello sviluppo. Allo genze specifiche della mobilitazione e il modo in cui essa condizionò il tipo di discorso marxista che l’élite rivoluzionaria si trovò a dover produrre all’indomani della conquista del potere. 14 Vilas 1986: 33-34. 116 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 117 stesso tempo, e lungo network pressoché analoghi, gli studiosi latinoamericani conobbero le opere e il pensiero di Bakhtin, Voloshinov, Lotman e la Escuela de Tartu, così come gli studi culturali britannici e americani15. Ileana Rodriguez individua nella Rivoluzione Nicaraguense l’evento catalizzatore del passaggio agli anni Ottanta nelle vicende politiche e intellettuali dell’America Latina. Secondo Rodriguez molti intellettuali latinoamericani videro nella Rivoluzione sandinista in Nicaragua la realizzazione pratica delle idee elaborate e veicolate in seno alla teologia della liberazione. Ma soprattutto, come aveva intuito immediatamente Rama, fu il concetto stesso di cultura a essere messo in crisi già durante gli anni Ottanta. Il tipo di coinvolgimento politico e sociale che caratterizza la Rivoluzione in Nicaragua pose la comunità accademica latinoamericana di fronte a problemi nuovi. Da un lato, le forme maggiormente istituzionalizzate e “normalizzate” di cultura alta, come la letteratura e la critica letteraria, furono messe in questione dalla critica che proveniva allora dai settori maggiormente aggressivi del movimento femminista, dai Black Studies nei dipartimenti di studi culturali delle università degli Stati Uniti, da parte di intellettuali e studiosi provenienti o dal Terzo Mondo, o da gruppi minoritari ed emarginati. Essi tentarono di concentrarsi su di un concetto di cultura maggiormente “antropologico” e orientato alla “esperienza vissuta”, piuttosto che allo studio di sistemi di norme e significati sociali16. Il fenomeno che si manifestava, anche dall’angolo visuale dell’America Latina, era lo spostamento di interesse, nella teoria sociale e letteraria, dalle classi ai gruppi17. E ciò nel quadro di una migrazione massiccia degli intellettuali del Terzo Mondo verso le strutture di produzione del sapere nel mondo angloamericano (Dirlik 1994). Negli stessi anni in cui il lavoro di Stuart Hall animava il dibattito nel mondo anglosassone e trasformava Birmingham in uno dei principali centri di produzione del sapere accademico sulle questioni legate al rapporto tra “culture”, la questione politica dei diritti delle minoranze dettava le priorità del dibattito accademico nordamericano intorno al tema del multiculturalismo18 (cfr. Lee 2003: 73-140). Fu in questo fermento che l’autobiografia di Rigoberta Menchú, del 1983, fu introdotta, letta e ampiamente dibattuta. Essa fu in un certo senso un apripista per tutta una serie di tematiche che costituiranno i nuclei centrali del dibattito su storia e subalternità nel continente americano. Poco più che ventenne, nei primi anni Ottanta, l’attivista per i diritti civili guatemalteca pubblicò le proprie memorie. In un libro laconicamente intitolato I, Rigoberta Menchú, (che le varrà il premio Nobel per la pace nel 1992) ella descriveva dettagliatamente e in una prosa a tratti cruda le violenze e le sopraffazioni subite dalla sua famiglia e dal suo popolo durante la guerra civile19. Come racconta Arturo Arias, che ha ricostruito il dibattito ventennale intorno all’opera di Menchú, l’impatto nell’accademia Americana fu ampio e profondo (Arias 2002: 12; 2002b). Rodriguez 1998: 53. Rama 1982: 58. 17 Sul rapporto tra classe e gruppi di status nel sistema-mondo moderno si veda Arrighi, Hopkins e Wallerstein 1992: 9-31. 18 Per una ricostruzione sintetica del dibattito si veda Gilroy 2005. In questo incisivo articolo, lo studioso britannico evidenzia sia i legami tra le politiche di inclusione/esclusione di determinati gruppi minoritari nel Regno Unito con analoghe politiche attuate negli Stati Uniti, sia i meccanismi in virtù dei quali il dibattito sul multiculturalismo americano detta l’agenda politica e accademica dell’analogo dibattito in Inghilterra. 19 Nei primi anni Ottanta, cinque organizzazioni paramilitari di ispirazione marxista diedero vita all’Unidad Revolucionaria Nacional Guatemalteca (Urng), e insorsero contro il governo fortemente sostenuto dagli Stati Uniti d’Ame15 16 117 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 118 Molti studiosi posero allora la questione del rapporto tra storia e memoria nella produzione del discorso sul passato20. Molti altri sottolinearono l’elemento di novità introdotto dal libro di Rigoberta Menchú rispetto sia alla memorialistica ottocentesca, che alle fonti documentarie che a partire dalla fine della Seconda Guerra mondiale avevano nutrito il dibattito sullo sterminio degli ebrei per mano nazista (Geisdorfer 1989). Ciò che contraddistingueva il lavoro di Menchú era il punto di vista (Arias 2002a). Ovvero la storia vista da una prospettiva subalterna che era determinata non soltanto dalla condizione di donna, ma anche e soprattutto dall’appartenenza a un gruppo sociale, gli indios, per i quali la discriminazione rappresentava un elemento di continuità che aveva attraversato la storia del mondo moderno, anzi, ne costituiva l’atto iniziale di un ininterrotto e sanguinoso Grand Guignol. Nello stesso anno in cui Menchú riceveva il premio Nobel, Patricia Seed riapriva la discussione sulle multiformi continuità tra l’epoca contemporanea e quella coloniale, con la pubblicazione della rassegna intitolata Colonial and Postcolonial Discourse. Nell’introduzione a questo volume, Seed tentava una prima lettura del pensiero di Said, Bhabha e Spivak, auspicandone una rielaborazione critica nel contesto degli studi sul colonialismo nel mondo ispanoamericano (Seed 1993: 13-25). Questa operazione suscitò una certa diffidenza presso coloro i quali, come Hernán Vidal sulla scorta della critica elaborata da Ahmad, dubitavano dell’efficacia «del poststrutturalismo e dei suoi “derivati” per comprendere la storia coloniale del continente latinoamericano» (Vidal 1993: 34; anche Ahmad 1992). «L’America Latina e i suoi intellettuali [continuava Vidal] hanno già dimostrato di essere in grado di elaborare concetti utili a comprendere la propria specificità storica, basti pensare alle teorie della dipendenza» (Vidal 1993: 36). Appare evidente come una simile argomentazione sia piuttosto miope in almeno due modi: innanzitutto essa non considera il contributo innegabile fornito dall’interazione continua dei teorici della dipendenza con altri studiosi occidentali allo sviluppo delle diverse prospettive teoriche sul rapporto centro-periferia (Grosfoguel 2000). Ma soprattutto la lettura di Vidal, oltre che non cogliere alcuni elementi d’interesse nel postcolonialismo, non rende giustizia neppure alla dimensione sistemica del contributo che le teorie della dipendenza hanno fornito nel loro complesso alla possibilità stessa di concepire la storia della modernità in termini di “mondo”, creando le premesse metodologiche per pensare lo spazio della modernità sotto forma di relazioni transnazionali, rispetto a cui il presunto potere euristico dello Stato-nazione appare, a partire da esse, irrimediabilmente ridimiensionato (Di Meglio 1997). Eppure, sulla scia dell’opposizione dichiaratamente pregiudiziale di Vidal, Klor de Alva sottolineò come gli studi postcoloniali erano emersi nella completa ignoranza della storia del colonialismo in America Latina, e quanto dunque il discorso storico che ne derivava era utile a comprendere esclusivamente la storia del Commonwealth britannico (Klor de Alva 1992). Va detto che ambedue le posizioni, a favore e contro “l’importazione” dei Postcolonial Studies nel continente non derivavano da una conoscenza approfondita delle diverse anime che facevano riferimento a questo campo di studi. Né gli uni né gli altri si ponevano questioni di merito rispetto al contributo che specifiche intuizioni o concetti potevano offrire a problemi intellettuali o esigenze politiche che la comunità accademica latinoamericana aveva affrontato, continuava rica fin dall’insediamento di Carlos Castillo Armas ad opera della Cia negli anni Sessanta. Questo conflitto sfociò in una violenta guerra civile che si concluse soltanto nel 1996. Tuttavia, fin dagli anni Sessanta, il regime di Armas, durato oltre trent’anni, si era macchiato di diversi episodi di pulizia etnica ai danni delle popolazioni dei villaggi indios che si opponevano allo sfruttamento dei territori agricoli da parte della multinazionale alimentare United Fruit Company. Nel 1999 David Stoll pubblicò un interessantissimo volume in cui metteva in dubbio la veridicità del racconto di Menchú, fondando la sua analisi su una serie di testimonianze raccolte presso la comunità originaria della stessa Menchú (cfr. Stoll 1999). 20 118 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 119 ad affrontare, o si trovava ad affrontare nuovamente. Ma, a giudicare dai temi presenti solo cinque anni più tardi rispetto alle primissime battute del dibattito, al congresso della Latin American Studies Association nel 1997 a Gudalajara, in poco tempo gli studi postcoloniali si erano ampiamente diffusi. Cosa era accaduto in questo breve lasso di tempo che separa la pubblicazione dei primi draft di Patricia Seed nel 1993 e il congresso del 1997? Nel 1992 fu fondato il Latin American Subaltern Studies Group21. Inoltre, si assistette al consolidamento gli studi culturali latinoamericani, come nuovo campo interdisciplinare, grazie alla ampia diffusione che ricevettero i lavori di autori come Fernando Calderón, Nestor García Canclini, Ortiz Fernández e Beatriz Sarlo; ancora, nel 1995, fu pubblicato il fondamentale The Darker Side of the Renaissance in cui Walter D. Mignolo sostenne, in estrema sintesi, che il colonialismo aveva operato, e continuava a operare, anche dal punto di vista cognitivo, marginalizzando e infine distruggendo i sistemi di rappresentazione e le cosmologie altre che incontrava lungo il percorso della sua espansione territoriale, politica, amministrativa ed economica (cfr. Mignolo 1995). Il manifesto inaugurale del Latin American Subaltern Studies Group (Lassg) si apre riconoscendo i meriti della storiografia inaugurata da Ranajit Guha, a partire dalla quale costruire anche per l’America Latina un discorso sul passato che “riporti nel quadro” quei soggetti che la Storia, come impresa intellettuale e istituzione sociale occidentale, aveva colpevolmente escluso. E tuttavia, gli studiosi che diedero vita al progetto definirono il proprio progetto come teso verso l’elaborazione di un discorso che fosse un’alternativa al progetto intellettuale degli Studi Culturali sviluppatosi negli anni Ottanta. Il Latin American Subaltern Studies Group intende sottolineare con forza categorie di ordine politico come “classe”, “nazione” e “genere”, che gli Studi Culturali sembrano aver inteso, laddove non addirittura sostituito, in modo meramente descrittivo, soccombendo alla retorica dell’impatto rivoluzionario dei media e delle nuove tecnologie22. Va detto che, a dispetto di questa dichiarazione di intenti, il riferimento al concetto di classe resta rilevante solo sul piano enunciativo, dal momento che a una semplice analisi delle occorrenze di tale termine nei saggi prodotti dagi studiosi legati al gruppo, su diverse riviste, il riscontro appare davvero esiguo quantitativamente e poco significativo in termini analitici23. La sequenza di termini aperti da quello di classe sembra piuttosto un tentativo di ancorare il manifesto programmatico a quello fornito da Guha nelle prime pagine del primo volume della collana Subaltern Studies. Ma soprattutto, il manifesto latinoemaricano presenta delle ambiguità di fondo. Esso afferma la propria distanza dal campo degli studi culturali, salvo riconoscere, poche pagine più avanti, che quello stesso campo da cui intendono distanziarsi, di fatto, va trasformandosi profondamente, grazie proprio al lavoro di García Canclini, il quale, nelle conclusioni, viene indicato tra i maggiori ispiratori del Lassg medesimo. Il tentativo di ritagliarsi uno spazio accademico specifico incontrava le difficoltà dovute a un assetto sia organizzativo che intellettuale dell’università nordamericana e sudamericana che non dava punti di riferimento stabili rispetto ai quali riconoscersi negativamente, così come era avvenuto in maniera netta e programmatica per il gruppo fondato da Guha nei confronti della storiografia nazionalista e sulle rivolte contadine in India. E infatti, pur essendo fondamentale per l’introduzione delle tematiche postcoloniali in America Latina e nel campo di studi del latinamericanismo, il Lassg, in quanto tale, ebbe vita davvero breve. I membri originari del gruppo di studiosi comprendeva John Kraniauskas, Walter Mignolo, Alberto Moreiras, José Rabassa, Javier Sanjinés, Patricia Seed e Gareth Williams. 21 22 Latin American Subaltern Studies Group 1993: 117. In effetti il Lassg non ebbe mai una rivista o una serie di pubblicazioni propria, e i saggi degli studiosi coinvolti furono ospitati da alcune riviste di studi culturali latinoamericani. 23 119 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 120 Il principale contributo teorico che esso offrì fu il recupero e la rielaborazione della centralità del concetto relazionale gramsciano di egemonia-subalternità, come strumento per rappresentare un elemento costante dello sviluppo del sistema capitalistico che non può essere “normalizzato” né “naturalizzato” dall’ideologia della globalizzazione. Vale a dire il conflitto tra gruppi sociali differenti e i mutevoli esiti storici possibili di questo conflitto. A tal proposito, Ileana Rodriguez ha sottolineato l’ambivalenza del concetto gramsciano, definendo i subalterni sia come quei soggetti storici capaci di organizzarsi in relazione al potere costituito per dare vita a fenomeni di resistenza e autorganizzazione, sia come gruppi sociali in grado di comporre un blocco sociale di opposizione potenzialmente egomonico, così come era avvenuto, secondo la lettura di Vilas, in occasione della rivoluzione sandinista in Nicaragua (Rodriguez 1998: 61). Rodriguez, dunque, parte dalle tesi di Guha per recuperare la dimensione profondamente trasformativa dell’agire subalterno, e rispolverare una tradizione di studi gramsciani che rimaneva florida nel continente latinoamericano, e che aveva sostenuto intellettualmente i diversi tentativi di costruzione di uno stato nazional-popolare lungo tutto il secondo dopoguerra24. E tuttavia, questo aspetto del dibattito, orientato alla creazione di una egemonia differente da quella dei gruppi fino ad allora dominanti, venne progressivamente abbandonato, allorché irruppero nell’agenda temi di carattere più strettamente legati alla dimensione epistemica che non a quella latu sensu politica. Lo studioso argentino Walter Mignolo è una figura chiave di questi dibattiti. Egli si schierò contro la semplice “traduzione” del progetto degli studi subalterni indiani nel contesto latinoamericano. In una versione più sofisticata dell’argomentazione di Vidal e Klor de Alva, Mignolo sostenne che i limiti degli studi subalterni indiani erano insiti nel loro luogo di enunciazione, ovvero il contesto dell’impero britannico, in cui erano emersi, e pertanto tali limiti non potevano essere superati semplicemente attraverso un semplice adattamento critico (Mignolo 2000; 172 e ss.). Gli studiosi latinoamericani dovevano elaborare delle prospettive critiche sulla modernità che assumessero l’America Latina come luogo di enunciazione (Mignolo 1993; 2000a). Analogamente, Edoardo Mendieta, pur prendendo parte ai lavori del Lassg, sostenne che indipendentemente dal valore delle tesi metodologiche e storiografiche elaborate da Guha e compagni, qualsiasi tentativo di “importazione” delle loro teorie nel contesto dell’America Latina non avrebbe fatto altro che riprodurre la logica egemonica che aveva consentito all’Occidente di imporre i propri sistemi di produzione della conoscenza su tutti quelli dei popoli coloniali sottomessi nel corso dell’espansione europea sul globo. Se la cronotopologia della modernità non è altro che il punto di vista dell’Occidente reso universale dall’occultamento consapevole del suo luogo di enunciazione, allora sottovalutare la rilevanza del luogo di enunciazione, anche per quelle prospettive critiche del potere egemonico, come gli studi subalterni, significa reiterare la stessa logica di marginalizzazione dei sistemi di rappresentazione indigeni che è alla base del progetto coloniale europeo. La forza degli studi subalterni indiani, così come dell’opera di Said, allo stesso modo della filosofia di Leopoldo Zea e Enrique Dussel, risiede esattamente nella rivendicazione di una specificità geografica e storica per i propri luoghi di enunciazione25. 24 Si veda l’acuto saggio di Burgos e Perez (2002) in cui i due studiosi tentano di rilevare i pattern comuni ai diversi movimenti politici della sinistra latinoamericana di costruire una egemonia sul modello di quella teorizzata da Gramsci. 25 Mendieta 1997: 255. 120 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 121 Decentrare gli studi postcoloniali. Latinamericanismo requiescat in pace? Ma cosa condividono, oltre all’interesse per gli studi subalterni indiani, Rodriguez, Mendieta e Mignolo? Qual è il referente più o meno implicito che essi assumono come fondamento della loro riflessione sul colonialismo? Santiago Castro-Gomez sottolineò, già in un articolo del 1995, quale fosse il dazio da pagare in cambio dell’enfasi posta sul luogo di enunciazione delle teorie. Secondo Castro-Gomez, infatti, qualsiasi tentativo di ricostruire una genealogia del pensiero latinoamericano non poteva evitare di prendere le mosse da un vero e proprio postulato, piuttosto che da una piattaforma critica, vale a dire l’esistenza dell’America Latina come entità geostorica unitaria ed esclusiva. Anzi, proprio quella tradizione di pensatori indigeni, articolatasi all’interno de, e in risposta a, il processo ontogenetico di una razionalità formale in Occidente è essa stessa fondata sull’accettazione implicita della mappa coloniale della modernità. Se, si domandava Castro-Gomez, gli studiosi subalterni latinoamericani intendono demistificare l’immagine dei soggetti coloniali creata e costantemente riprodotta dai circuiti accademici egemonici sullo sfondo della macrocartografia delle regioni mondiali, perché tale impresa non può e non deve essere condotta in modo altrettanto meticoloso in relazione a quella stessa immagine dell’America Latina prodotta, elaborata e suffragata da due secoli di riflessioni di intellettuali indigeni? Lo spunto critico di Castro-Gomez è stato l’incipit per la proliferazione di molti studi dedicati a ricostruire la storia delle idee sul colonialismo in America Latina. L’enfasi sull’antiessenzializzazione della subalternità, che costituiva uno degli esiti più fecondi della travagliata vicenda intellettuale degli studi subalterni indiani, sembrava divenire dunque consapevolezza intellettuale nell’esperienza latinoamericana e si tramutava in un’arma da rivolgere contro il concetto stesso di America Latina. Quest’opera è stata fin dall’inizio piuttosto radicale, se si pensa che, piuttosto che muovere in direzione di bersagli più o meno “naturali”, come ad esempio il rapporto tra identità latinoamericana e nazionalismo, tra la mappa geostorica delle macro regioni mondiali, essa si è indirizzata al cosiddetto “macondismo”. La studiosa colombiana Erna von der Walde ha dedicato un importante saggio alla decostruzione del concetto e della funzione politica del macondismo1. Secondo Erna von der Walde, il macondismo, in cui gran parte degli intellettuali latinoamericani si riconosceva, è il luogo immaginario in cui si rispecchia compiaciuta la “buona coscienza” dell’Occidente, orgogliosa della sua capacità di rinvenire altrove il luogo magico della realizzazione del progetto di redenzione della modernità, irrimediabilmente compromesso in Occidente (von der Walde 1997: 33-35). Alberto 1 Macondo è il nome del villaggio immaginario al centro di Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. 121 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 122 Moreiras individua nel macondismo la controparte umanistica di un discorso storico-sociale ben più ampio sull’America Latina. Secondo Moreiras, i saperi e le immagini con cui l’America Latina è stata rappresentata non sono altro che la propaggine teorica di un disegno egemonico globale, che, pur affondando le proprie radici in una lunga tradizione coloniale, oggi è vincolato alle esigenze organizzative degli Stati Uniti d’America che si estendono dal Messico alla Patagonia (Moreiras 1997: 98). Per quanto anche altre potenze colonizzatrici nel corso dei secoli avessero sviluppato sistemi di rappresentazione sull’America Latina, funzionali a un determinato assetto del potere, gli Stati Uniti d’America hanno un’esigenza ulteriore, e cioè quella di rimarcare un confine che non è solo territoriale in senso Schmittiano. La frontiera tra mondo anglosassone e latino, che Rodó era in grado di localizzare materialmente nei pressi di Tijuana a cavallo tra Ottocento e Novecento, sembra dissolta alla fine del secondo millennio a causa degli enormi fenomeni migratori che portano milioni di latinoamericani all’interno del territorio dello stato-nazione statunitense. Per Moreiras, oggi più che mai, la definizione culturalista e razzista di America Latina è funzionale alla strutturazione di una gerarchizzazione interna agli Stati Uniti d’America, piuttosto che all’individuazione di un’area di instabilità politica nel quadro del sistema interstatale (Moreiras 1996: 101). E dunque questa esigenza si manifesta in modo inequivocabile all’interno dei saperi che sono dediti all’elaborazione continua di quella stessa immagine. In questo senso Il campo dei Latin American Studies, così come storicamente configuratosi, non è in grado affrontare la nuova situazione socio-culturale vissuta oggi dagli Stati Uniti d’America, dove quella che era una volta la frontiera con il Terzo Mondo è diventata una frontiera interna. Dunque, gli studi subalterni non possono essere considerati in modo isolato rispetto a un programma di ricerca più ampio, che abbia come obbiettivo la trasformazione del campo degli studi latinoamericani in modo tale da includere i nuovi immaginari politici, propri sia dei popoli migranti che di quelli indigeni latinoamericani2. Nel complesso, queste posizioni mostrano come, fin dalle prime battute, il dibattito sui Postcolonial Studies in America Latina si concentri non tanto sulle metodologie storiografiche del collettivo indiano, ma piuttosto sulla ricerca di concetti desumibili da quella esperienza intellettuale e in grado sia di aprire nuove prospettive d’analisi in un panorama accademico e politico in transizione, sia di veicolare le spinte antiegemoniche provenienti dal continente. Negli stessi anni in cui prendeva forma la riflessione di Chakrabarty che culminerà nella pubblicazione di Provincializzare l’Europa, autori come Robert Carr, José Rabasa e Javier Sanjinés, avevano già sottolineato a più riprese la complicità tra studi areali sull’America Latina e interessi egemonici statunitensi, sulla scia di quanto Immanuel Wallerstein aveva affermato a proposito delle condizioni storiche e politiche dell’emergere degli studi areali nei primi anni Sessanta del Novecento (Wallerstein 1996a; Palat 1996). Secondo Moreiras Il latinamericanismo è il crogiuolo di sistemi egemonici di rappresentazione dell’America Latina che sono stati prodotti a partire dalla Seconda Guerra mondiale e in rapporto al programma kennediano de “l’Alleanza per il Progresso”, dalla Storia e dalle Scienze Sociali, in accordo con gli interessi politici dell’amministrazione americana nel contesto della Guerra fredda. Questa condizione storica pone dunque limiti insormontabili alla capacità gnoseologica ed euristica di questo sapere3. A questa critica storica sull’emergere e sul valore degli studi d’area nel contesto dell’egemonia americana, John Beverley, seguendo il pensiero di Foucault sulle strategie fondative dei saperi, insisteva sulla dimensione organizzativo-istituzionale del latinamericasnimo. Secondo Beverly 2 Moreiras 1997: 104. 3 Moreiras 2001: 5 e ss. 122 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 123 L’apparato universitario fornisce a studenti e professori un modulo preconfezionato di strumenti e di concetti reificati per lo studio dell’America Latina: un canone conosciuto e riprodotto come “letteratura latinoamericana”, che completa l’apparato teorico costituito dagli studi di area4. Secondo Beverley, l’organizzazione istituzionale dei programmi di letteratura obbedisce a una logica egemonica che assegna all’Occidente il dominio in un determinato ambito linguistico. Ad esempio, è evidente come la suddivisione dipartimentale dell’accademia occidentale assegni un valore enorme alla letteratura spagnola rispetto a quella dell’intero continente latinoamericano, la cui produzione letteraria risulterebbe una mera appendice di quella spagnola. Ma soprattutto, ciò che preme a Beverley è sottolineare la funzione sociale che questa forma di conoscenza, compromessa ab origine con gli interessi egemonici, riveste non solo nella metropoli, ma nelle società coloniali. Questo tipo di conoscenza, alimentata dall’istituzione accademica e riprodotta dalle élite nazionali, assume infatti il ruolo di principale strumento identitario di “autocoscienza dell’America Latina”. Così come Guha, Spivak e Chatterjee, Beverley sostiene che la letteratura consiste in una pratica di formazione umanistica propria dell’élite indigena, utile in qualità di referente locale degli interessi eterodiretti delle potenze coloniali (Beverley 1996b: 166). E tuttavia, proprio la letteratura, viene rappresentata da Beverley come lo spazio in cui si produce discorsivamente il subalterno e si rappresentano le tensioni proprie delle società coloniali e alle contraddizioni interne alle élite nazionaliste dei paesi del Terzo Mondo5. (Beverley 1993: 124). L’intervento di Beverley, si conclude dunque con l’auspicio di costruire all’interno della comunità accademica latinoamericana uno spazio critico sul latinamericanismo e sulla sua funzione storica, in modo da superarne i limiti intrinseci. Raccogliendo questo invito, Walter Mignolo si è proposto di individuare e definire quali sono le coordinate spaziali entro le quali il discorso egemonico sull’America Latina ha tratto legittimità, spingendo questa idea all’indietro nel tempo. Egli infatti non si è limitato ad analizzare il latinamericanismo nel secondo dopoguerra, ma ne ha ricostruito una genealogia che coincide temporalmente con tutta l’età moderna. Per quanto questo tentativo lo accomuni nella sostanza ad altri pensatori appartenenti al Lassg, Mignolo è stato tra i primi a porsi subito in maniera critica, quasi diffidente, nei confronti degli stessi studiosi postcoloniali. Più in particolare, laddove alcuni studiosi del Lassg intendevano l’esperienza dei Subaltern Studies e la critica postcoloniale come un insieme prospettive critiche e al contempo di strumenti metodologici, Mignolo si poneva il problema dei fondamenti degli studi postcoloniali, oggettivandoli, a sua volta, come un altro discorso sulla modernità e sul colonialismo. Per Mignolo, anche gli studi postcoloniali sono riconducibili a un luogo di enunciazione specifico, e dunque, piuttosto che cercare in qualche modo di adattare la teoria postcoloniale al caso latinoamericano, bisogna mettere in discussione l’intera struttura logica di matrice cartesiana che fa dell’America Latina l’oggetto di studio e, di volta in volta, il latinamericanismo o la teoria postcoloniale il modo per comprenderlo (Mignolo 1995: 45). Mignolo suggerisce piuttosto di indagare quali “sensibilità locali” corrispondono alle istanze che gli studi postcoloniali sembrano intercettare in relazione alla storia dell’India coloniale, in modo da isolare quell’esigenza dagli indizi che conducono a essa. In altre parole, si tratta d’intendere l’interesse per gli 4 Beverley; 1999b: 149. Nel suo dibattuto Against Literature, Beverley aveva sottolineato come l’università fosse anch’essa un’istituzione inevitabilmente attraversata da quei conflitti tra forze egemoniche e antiegemoniche che è possibile individuare nel campo economico e socio-politico. Parafrasando Deridda, Beverley affermava: «Non esiste un fuori-dall’università, nel senso che tutte le pratiche egemoniche contemporanee, incluse quelle pratiche dei gruppi la cui subalternità dipende dalla mancanza di accesso alle scuole e alle università passano, in un modo o nell’altro, attraverso l’università» (Beverley 1993: X). 5 123 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 124 studi postcoloniali come viatico per la “scoperta” di istanze specifiche del continente latinoamericano. E la risposta a cui Mignolo giunge è che il contributo degli studi postcoloniali nel dibattito latinoamericano è stato soltanto quello di identificare un processo già in atto, e cioè la destrutturazione dell’identità elaborata sia dai modernizzatori nazionalisti che dagli studiosi occidentali. Ma, conclude Mignolo, a differenza dell’allergia antifondazionale della critica postcoloniale, il percorso latinoamericano non può concludersi con la demolizione di tale costrutto, bensì deve aprire la strada all’elaborazione di una identità nuova, attraverso cui affermare la specificità della modernità latinoamericana6. Sulla scorta della teoria della divisione geopolitica del lavoro intellettuale elaborata da Carl Pletsch, Mignolo sottolinea che nel periodo che va dal 1950 al 1973, ovvero la terza fase di espansione, o “l’epoca d’oro” del capitalismo (secondo la definizione di Marglin e Schor adoperata da Hobsbawm), il luogo di produzione dei discorsi intellettuali coincideva in modo pressoché totale con il Primo Mondo. Rispetto a tali discorsi, il Terzo Mondo era sostanzialmente passivo, e si limitava a importarne versioni più o meno elaborate (Pletsch 1981). A partire dagli anni Settanta, invece, le ex colonie iniziarono anch’esse a divenire dei centri di produzione del sapere, e a sviluppare prospettive più originali sulla Storia e sulle Scienze Sociali (Pletsch 1981). Pletsch sottolinea una sensibile discrasia tra il processo di decolonizzazione e l’emergere e l’affermarsi, nel panorama internazionale, di strutture di produzione del sapere e di prospettive analitiche proprie dei paesi del Terzo Mondo. E in effetti, tanto per l’America Latina, quanto per gli stati africani come il Ghana, il Mozambico, la Tanzania e la Nigeria, l’esperienza della decolonizzazione, pur dando un impulso decisivo all’elaborazione di contributi originali dal punto di vista intellettuale, non coincide temporalmente con l’affermarsi di questi discorsi sul piano internazionale (Vandira 1977: 47-72). Una spiegazione plausibile di tale discrasia risiede in fenomeni fisiologici di elaborazione del discorso scientifico, che implica un periodo di gestazione più o meno lungo, prima ancora di potersi confrontare con altri discorsi e infine affermarsi come rappresentazione adeguata della realtà storica che si intende indagare. E tuttavia, Mignolo non è interessato allo sviluppo diacronico di discorsi quali macondismo, teorie della dipendenza, afrocentrismo. Secondo Mignolo, la spiegazione per l’affermarsi dei discorsi provenienti dall’ex Terzo Mondo in un determinato momento storico è di natura sincronica, sistemica e organizzativa. L’emergere di tali discorsi corrisponde, per l’autore argentino, alla crisi dell’egemonia americana iniziata alla fine degli anni Sessanta, e non è soltanto il frutto immaturo del processo di “institution building” interno a ciascuno stato-nazione uscito dal processo di decolonizzazione. L’ascesa economica di alcune regioni del mondo ha consentito loro di alimentare e sostenere strutture di produzione del sapere, centri di ricerca e dunque discorsi e prospettive critiche, in grado di “competere” nel panorama accademico mondiale. E se i prodromi dell’egemonia americana sono posti in essere a partire dalla fine degli anni Sessanta, tale processo sembra entrare in una fase qualitativamente nuova, con la fine della Guerra fredda (Mignolo 1995: 79 e ss.). Dal punto di vista teorico, continua Mignolo, la Fine della Guerra fredda, e dunque l’inadeguatezza dell’immagine bipolare del mondo, ha dato spazio all’emergere di tre prospettive teoriche, provenienti da altrettante entità geostoriche. Il postmodernismo, il postcolonialismo, il postoccidentalismo. Le teorie postmoderne, in particolare il pensiero di Lyotard, Jameson e Foucault e il decostruzionismo di Derrida, esprimerebbero l’autocoscienza della crisi del progetto stesso della modernità, e hanno origine nel cuore dell’accademia occidentale. Le teorie postco- 6 L’approdo di questa lunga riflessione di Mignolo è il volume The Idea Of Latin America, in cui lo studioso latinoamericano divide la storia dell’elaborazione di questo processo in tre grandi periodi, intendendo il suo lavoro come una sorta di nuovo manifesto programmatico e politico (cfr. Mignolo 2005). 124 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 125 loniali condividono con il postmodernismo la stessa critica veemente al progetto eternamente incompiuto della modernità, sebbene provengano dalle dislocazioni coloniali che raggiunsero l’indipendenza formale dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Si pensi ai Subaltern Studies in India, alla riflessione di autori africani come Mbembe o Appiah o il lavoro del palestinese Said. Infine, il “postoccidentalismo” che ha origine nella prima periferia dell’Europa, l’America Latina (Mignolo 1995: 86). Il campo del postoccidentalismo, così inclusivamente definito dall’intellettuale argentino, è divenuto dunque il territorio di indagine e allo stesso tempo la prospettiva critica entro cui molti degli autori latinoamericani interessati al dibattito sul postcolonialismo hanno elaborato la propria riflessione. Il risultato complessivo di questa ampia e appassionante ricerca intellettuale, identitaria e politica, è stata un’archeologia in cui trovano collocazione quei pensatori latinoamericani che, con gli strumenti concettuali a loro disposizione, si erano già impegnati in quello che oggi possiamo definire il progetto di superamento del paradigma eurocentrico della modernità. Sin dai primi anni del Novecento, a partire da José Carlos Mariátegui, fino a Prebisch, Leopoldo Zea e Enrique Dussel, gli intellettuali latinoamericani avevano, ciascuno a suo modo, messo in crisi alcuni elementi cardine del discorso egemonico sull’America Latina. La convinzione che anima il campo del postoccidentalismo è che alcuni concetti elaborati in seno al discorso dell’America Latina sull’America Latina, sviluppatosi lungo tutto il Novecento, costituirebbero la forma embrionale di un discorso antiegemonico innovativo, intrappolato, fino a questo momento, dalle categorie interpretative e dall’armatura concettuale propria delle teorie della modernizzazione (Moreiras 1996b: 77). Una volta indebolitisi questi vincoli, in seguito alla crisi strutturale dell’egemonia americana, il passo successivo consisterebbe nel dischiudere quei “fossili”, attraverso lo strumento dell’ermeneutica. E tuttavia, a differenza dell’ermeneutica occidentale, secondo Moreiras, non si tratta di interpretare una serie di processi, oggettivandoli in virtù di una matrice di impronta cartesiana. Si tratta, da parte dello studioso, di compiere consapevolmente la mossa strategica di identificarsi con la comunità che si intende studiare/rappresentare. Solo nel momento in cui lo scienziato sociale si identifica biograficamente o eticamente o politicamente o economicamente con la comunità marginale e subalterna, si produce quella “fusione degli orizzonti” che proprio Gadamer teorizzò, senza di fatto mai raggiungerla. Lo studioso rinuncia in partenza alla pretesa di potersi avvicinare all’oggetto in qualità osservatore disinteressato. Del resto, il colonialismo ha funzionato e continua a funzionare sulla base di un pregiudizio di oggettività: uno spazio prefilosofico di identificazione. Il pensiero latinoamericano sull’America Latina, invece, si articola entro il tipo di identificazione politica e culturale pluritopica che è condizione per il sovvertimento dell’ordine epistemologico eurcentrico7. Mentre Mignolo tenta dichiaratamente di ritagliare uno spazio intellettuale e politico per il postoccidentalismo, inteso come prospettiva critica sulla modernità posta in essere dalla tradizione dei pensatori latinoamericani, Alberto Moreiras, piuttosto che muovere dalla negazione del postcolonialismo come momento fondativo del postoccidentalismo, tenta di individuare le connessioni tra questi due campi, ritornando proprio a quella dimensione sincronica e a quel contesto storico globale da cui Mignolo aveva iniziato la propria riflessione, in alcuni articoli seminali dei primi anni Novanta (Mignolo 1991; 1993). Riprendendo Said, Moreiras intende enfatizzare il modo in cui il latinamericanismo (al pari dell’orientalismo) sia indissolubilmente legato alle forme di dominio imperialistiche proprie della modernità. 7 Moreiras 1996b: 198. 125 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 126 Il sapere prodotto dagli “studi latinoamericani” non è altro che una forma specifica di potere tassonomico e di disciplinamento dell’apparato politico voluto della statualià egemonica statunitense. Una sorta di emissario di un potere globale, capace di disciplinare e ordinare la realtà definita America Latina, in modo da integrarne le specificità sotto forma di “dati” da inserire all’interno di un più ampio quadro cognitivo dominante, ritenuto valido e neutrale. Il latinamericanismo è una propaggine locale di una più ampia macchina omogeneizzante, che funziona proprio in virtù della sua capacità di rappresentarsi come un sapere che studia e racconta una differenza8. La proposta di Moreiras è infatti quella di elaborare un nuovo approccio che muova proprio dagli spazi geostorici testimoni dell’incontro e dei conflitti coloniali, gli spazi intermedi in cui avvengono gli scambi e i transiti socio-economici, le frontiere di ordine epistemico-culturale che caratterizzano l’immaginario dei migranti. Il nuovo latinamericanismo è un latinamericanismo postcoloniale. Piuttosto che proiettare un’immagine unitaria e teleologica dell’America Latina, sulla base dell’imperativo della omogeneizzazione, esso va inteso come una strategia decostruttiva di carattere fondamentalmente politico. Men che mai c’è bisogno di un nuovo apparato teorico dedito alla generazione di rappresentazioni e forme di conoscenza a partire da un insieme dato di concetti e inferenze logiche. Si tratta piuttosto di continuare nell’opera di critica dei parametri di conoscimento funzionali al processo di occidentalizzazione, senza alcuna deriva nichilista né arbitrariamente volontarista, fino a creare le condizioni per l’emergere della differenza, propria delle voci messe a tacere dal colonialismo. Nel suo saggio Restitution and Appropriation in Latinoamericanism, Moreiras identifica la contraddizione principale insita nel latinamericanismo. Da un lato le strutture cognitive della modernità occidentale, all’altro la volontà di salvare la specificità; da un lato la violenza epistemica, per dirla con Spivak, dall’altro il compito di rappresentare la differenza. Il limite al progetto del latinamericanismo risiedeva dunque proprio nelle sue premesse, e cioè nel linguaggio omogeneizzante della modernità. «Una versione epistemologica del paradosso di Abramo: obbedire alle leggi e sacrificare ciò che si ama, e allo stesso tempo avere fede nella sua salvezza come premio per il sacrificio». E dunque, per uscire da questo paradosso, ciò che non va fatto è perpetuare il mito metafisico della ricerca dei fondamenti (Moreiras 1996b: 85). A differenza di quanto sostenuto da Mignolo, Moreiras non ipotizza la “scoperta” di uno spazio specifico da cui dar voce a ciò che la modernità aveva messo a tacere. Non si tratta di una rottura radicale rispetto ai precedenti modelli epistemologici, in nome di una verità. La differenza tra il latinamericanismo e la sua versione postcoloniale non deriverebbe dalle sue radici più o meno profonde in uno spazio puro e incontaminato di esteriorità alla modernità. Qual è dunque lo scarto tra la posizione di Mignolo e quella di Moreiras? Ambedue, tutto sommato, riconoscono nel merito il potere della critica postcoloniale, nel mettere a nudo le contraddizioni e le “finzioni” che si celano dietro alle costruzioni identitarie e alle grandi narrazioni. Ma Mignolo, a differenza di Moreiras, compie un passo di natura volontaristica, o programmatica, sulla base di quelle che sente come le esigenze storiche presenti del continente latinoamericano. Moreiras è interessato a definire uno spazio da cui far emergere le istanze di cambiamento, Mignolo intraprende la costruzione di un discorso per mezzo del quale dare forma e direzione a queste istanze. Moreiras lavora sulla rielaborazione continua del limite tra frammentarietà della condizione di subalternità e la possibilità di trasformarsi in egemonia, Mignolo vi resta aggrappato dal lato dell’ermeneutica, ma si affaccia consapevolmente sul versante della proposta politica. L’elaborazione di tale proposta corrisponde a un nuovo progetto identitario per l’America Latina. 8 Moreiras 1997: 72. 126 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 127 Questo processo di produzione identitaria di una comunità accademica altrettanto vasta, è stato a più riprese analizzato dalla studiosa coreana Su-Hoon Lee. Su-Hoon Lee ha studiato in particolare il modo in cui la comunità accademica transnazionale dell’Asia orientale ha rielaborato i paradigmi delle Scienze Sociali occidentali nell’ottica di superare una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della comunità accademica anglofona (Su-Hoon Lee 2000: 769). Il recentissimo discorso su “l’Asia Orientale” nelle comunità accademiche di Giappone, Corea e Cina sembra essere legato strettamente all’accumulazione di ricchezza in questa regione. In particolare, la messa in discussione della validità della Scienza Sociale occidentale nell’analizzare le specificità dell’Asia orientale, e la volontà di indigenizzare la Scienza Sociale nel tentativo di creare un’identità asiatica nella comunità accademica risulta incomprensibile al di fuori del contesto delle trasformazioni globali e trova giustificazione in esso9. In effetti, le Scienze Sociali occidentali furono trapiantate in Asia, così come nella stragrande maggioranza dei paesi del Terzo Mondo, in modo repentino e questo processo non fu senza dubbio privo di problemi. Secondo Alatas, le comunità scientifiche dei paesi del Terzo Mondo assunsero sempre un atteggiamento ambivalente rispetto a ciò che i saperi occidentali rappresentavano per essi. «Restando sempre persuasi della propria superiorità morale rispetto all’Occidente, essi accettarono il compromesso di adottare i saperi occidentali come “utili strumenti”, giungendo man mano alla consapevolezza dell’impossibilità di adoperarli in modo neutro» (Alatas 1977). Ma se il doppio legame tra ascesa economica e critica ai saperi eurocentrici appare piuttosto chiaro nel caso delle potenze asiatiche, esso risulta meno evidente sia per l’Africa che per l’America Latina, data la complessità del mosaico delle economie regionali in gioco, ma soprattutto alla luce dell’ulteriore e progressiva marginalizzazione di tali economie nel quadro della redistribuzione della ricchezza mondiale e del riassetto dell’ordine geopolitico planetario. Negli ultimi decenni, infatti, il riassetto delle gerarchie mondiali di potere politico e culturale ha aperto spazi intellettuali nuovi, a partire dai quali diversi progetti intellettuali hanno espresso la propria capacità critica e creativa. Eppure proprio gli esiti di quelle trasformazioni delineano oggi scenari differenti per aree differenti del mondo non occidentale. Il subcontinente indiano, insieme alla Cina e agli altri paesi dell’Asia meridionale, rappresenta un’area in forte ascesa all’interno delle gerarchie del sistema-mondo moderno (Arrighi et al. 2001; Lee 2000). Il continente africano, invece, è, sotto ogni punto di vista, sempre più escluso non tanto dai processi di produzione della ricchezza mondiale, quanto da quelli di redistribuzione delle risorse economiche e politiche (Arrighi 2001; Duffield 2001). Le sue strutture di produzione del sapere, eccezion fatta per rare realtà (come, non a caso, il Sudafrica), che pure avevano ricoperto un ruolo determinante nell’elaborazione delle prospettive terzomondiste, appaiono esangui (Ercolessi e Triulzi 2005), tant’è che la stragrande maggioranza degli studiosi africani inseriti nei circuiti accademici più influenti è composta per lo più da intellettuali della diaspora, il cui contributo è indiscutibilmente rilevante. Il continente latinoamericano, pur rappresentando un’area di vitale interesse nel quadro dell’egemonia statunitense, risulta progressivamente marginalizzato in questa fase di riassetto dei disequilibri mondiali. Piuttosto che di ordine economico, la spinta in direzione della critica antiegemonica all’eurocentrismo dei saperi storico-sociali, appare sostenuta dalle esperienze di carattere politico e di mobilitazione vissute dal continente, che costituiscono il riferimento storico reiterato per i discorsi che ruotano attorno al dibattito su studi subalterni e postcoloniali in America Latina. 9 Lee 2000: 770-771. 127 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 128 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 129 Dal postoccidentalismo ai De-colonial Studies Apuntes per un nuovo paradigma Il concetto di postoccidentalismo, ripreso da Mignolo come incipit dell’elaborazione di un discorso identitario e antiegemonico per l’America Latina, fu introdotto per la prima volta da Fernández Retamar nel 1977. Secondo Fernández Retamar, il processo di autodefinizione e autorappresentazione dei popoli dell’America Latina come “non occidentali” ha origine presso quelle comunità chiaramente di origine non europea come i discendenti degli aborigeni e degli schiavi africani. Quelle comunità che José Martí, a inizio Novecento, definiva gli eredi delle prime vittime dell’arrivo della “civiltà devastatrice” (Martí, cit. in Fernández Retamar 1977: 78). E tuttavia, nell’elaborazione del discorso nazionalistico della prima metà del Novecento, in gran parte dell’America Latina, continuava Fernández Retamar, indios e africani erano considerati come gruppi estranei al corpo delle nazioni latinoamericane che andavano formandosi. La possibilità stessa di concepire questi gruppi in termini di “esclusi”, andava ricondotta al potere emancipatore del marxismo-leninismo, e alla sua rielaborazione critica realizzata nella prima metà del Novecento da José Martí e dal cubano Ruben Martínez Villana (Fernández Retamar 1977: 81). Analogamente a quanto Mao fece in termini di sinizzazione del marxismo, Mariátegui fornì una versione ispanoamericana del marxismo-leninismo, ovvero contribuì in modo determinante a porre le basi per un progetto emancipatorio che assumesse come attore storico principale un soggetto rivoluzionario non proletario, e non occidentale1. Ma mentre Mao era immerso nel mondo agrario di una Cina sostanzialmente coesa dal punto di vista etnico, Martí e Villana non poterono evitare di fornire una versione del marxismoleninismo che introducesse nella propria analisi della struttura di classe il nesso costitutivo tra detenzione dei mezzi di produzione ed etnicità. In verità, come Mariátegui aveva già sottolineato, si trattava di reintrodurre un elemento che aveva caratterizzato storicamente l’affermarsi del sistema capitalistico fin dalle sue origini, e che la Rivoluzione Industriale, e i saperi che da essa tentarono di dedurre un modello di conoscenza onnicomprensivo del mutamento sociale, aveva teso a oscurare. Del resto possiamo affermare con una certa disinvoltura che «la relazione tra lavoro e razza è evidente se si pensa alle massicce deportazioni di schiavi nelle Americhe. Non solo. Esso rappresenta il momento della genesi del capitalismo» (Mariátegui, cit. in Aricó 1980). L’atto costitutivo del progetto della modernità, continua Fernández Retamar, implica, da un lato, la schiavitù nelle Americhe, e dall’altro l’espulsione di arabi e ebrei dall’Europa. Il 1492, segna dunque la creazione di un doppio confine per l’Europa. Uno esterno, il Nuovo Mondo, l’altro interno, i “mori” e i “giudei” (Fernández Retamar 1977: 50). 1 Per un affascinante indagine sul processo di sinizzazione del marxismo, si veda Bernal 1977. 129 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 130 Nel 1980 il filosofo argentino Oscar del Barco scrisse un articolo in cui criticava apertamente alcune tendenze totalizzanti che egli individuava come insite nel marxismo. Se, infatti, gran parte dei comunisti di tutto il mondo erano propensi a distinguere di volta in volta la bontà del leninismo dalla cattiveria dello stalinismo, oppure la bontà del pensiero di Marx dagli errori dell’ortodossia marxista, del Barco, in analogia con alcune tesi strutturaliste sul potere coercitivo e performativo del linguaggio, affermò invece provocatoriamente che l’opposizione principale in seno alla storia della lotta di classe era quella tra la teoria marxista e le ortodossie che se ne consideravano eredi legittime da una parte e, dall’altra, i movimenti sociali frutto di istanze di liberazione che utilizzavano il potere emancipatorio del marxismo in modo quanto mai eclettico (Barco 1983: 134-152). Va notato che il lessico di del Barco per definire i gruppi che animano i movimenti sociali si limita al concetto di classe oppressa. In un successivo articolo del 1981, del Barco sottolineava come la sua terminologia non fosse frutto di una grossolana generalizzazione, ma allo stesso tempo fosse distinta dal concetto di massa trabajadora2. Egli aggiunse infatti che l’esperienza dei regimi dittatoriali in America Latina aveva dimostrato che il potere repressivo e di esclusione il più delle volte era stato esercitato in modo trasversale a qualunque distinzione di classe, di genere e di razza, o meglio, agendo pragmaticamente al di là delle distinzioni sociologiche su cui la ricerca del soggetto rivoluzionario d’avanguardia si era dibattuta per decenni (Barco 1980: 85). Da ciò, del Barco derivava una conclusione perentoria. L’intellettuale, per come la tradizione marxista da Gramsci a Lenin lo aveva definito, può scomparire, perché le nuove forme di movimenti sociali che vanno formandosi in risposta alle nuove forme di oppressione elaborano la propria capacità analitica a partire dalla pratica, senza avere bisogno di una teoria forte di riferimento (Ivi, p. 92)3. Ma ancora più rilevante è che la convergenza fondamentale tra del Barco e Fernández Retamar non è di ordine logico, ma storico. Ambedue individuano il momento di inizio della creazione di una identità emancipatoria propria dell’America Latina nella Rivoluzione di Haiti (1804). Poiché fu allora che per la prima volta emerse una identità non occidentale relativamente consapevole della propria condizione storica e attivamente impegnata nella trasformazione dell’ordine normativo esistente. Secondo Fernández Retamar, a Haiti, per la prima volta Indios e negri affermarono con forza un concetto che deve essere posto alla base di qualsiasi teoria della liberazione che abbia come area di interesse privilegiato l’America Latina. Piuttosto che costituire un corpo estraneo all’America Latina perché non occidentali, quei gruppi affermarono di essere parte essenziale dell’America Latina: gli estranei sono i civilizzatori4. Il richiamo alla Rivoluzione di Haiti è ben presente in diversi autori postcoloniali, da Young a Gilroy, allo stesso Chakrabarty. Per costoro, la rivoluzione haitiana ha sostanzialmente lo stesso valore espresso da Fernández Retamar. E tuttavia, il postoccidentalismo, secondo Mignolo ed Escobar, deve presupporre la disarticolazione dell’agency storica individuata dal termine “civilizzatori” che la storia del colonialismo, anche nelle sue versioni maggiormente critiche, ha spesso assunto come omogeneo. Non si tratta di elaborare dunque una storia del Sud globale, Articolo rielaborato come parte di Barco 1983: 67-74. Va detto che in parte, il rapporto tra teoria e pratica esposto da del Barco ha diverse analogie con quello teorizzato da Mao. Ma mentre Mao, e in seguito i maoisti cinesi, modificheranno la struttura stessa della teoria marxista in modo da includere le trasformazioni di natura induttiva emergenti dalla prassi rivoluzionaria entro un formalismo ampiamente duttile, del Barco, filosofo di formazione empirista, teorizza un tipo di formazione delle categorie analitiche totalmente derivante dalle esigenze imposte dalla “prassi”, termine con cui sembra intendere le condizioni contingenti che creano situazioni nuove rispetto alle quali si impone una diversa rappresentazione della realtà storico-sociale. 4 Fernández Retamar 1977:120. 2 3 130 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 131 ma di disarticolare questo concetto in una molteplicità di storie locali (Mignolo 2000: 8-35). Ma il concetto di postoccidentalismo adoperato nell’attuale dibattito in America Latina assume un valore differente dall’idea di Fernández Retamar di una identità antioccidentale. Esso non fa riferimento soltanto a un discorso di opposizione e superamento del modo con cui l’Europa stessa aveva definito il Nuovo Mondo in termini di un’alterità specifica e differente da quella “orientale”. Il postoccidentalismo di Fernández Retamar, riferito al modo in cui l’Occidente ha costruito se stesso in seguito alla conquista delle Americhe, identificandole in termini di alterità, sembra lasciare il posto a una nuova concezione della storia complessiva del mondo moderno. L’occidentalismo da superare sul piano storico-epistemologico consisterebbe sia nella metanarrazione dell’espansione dell’Europa, sia nel discorso che, dalla prospettiva latinoamericana, risulta a esso complementare e cioè l’antiorientalismo di Said. L’idea stessa dell’Occidente (occidentalismo) e l’ideologia dell’espansione coloniale a partire dal 1500 iniziò con l’identificazione e l’invenzione dell’America. Da quel momento in avanti, le Indie Occidentali definirono i confini dell’Occidente e gli consentirono di collocarsi del mondo da osservare, descrivere e classificare. […] L’occidentalismo è più che un campo di studi come l’orientalismo, nelle mani e nelle penne degli intellettuali francesi o britannici sin dal XVIII secolo. L’occidentalismo è esso stesso la prospettiva dalla quale l’Oriente può essere concepito5. La costruzione dell’Europa come soggetto sovrano della storia non sarebbe dunque riconducibile esclusivamente al processo di definizione dell’Altro che Said sintetizza con il suo concetto di orientalismo. Storicamente, ci ricorda Mignolo, l’Altro rispetto al quale l’Europa si è autorappresentata in termini di civiltà sono le Indie Occidentali, le Americhe, il Nuovo Mondo. Rispetto a esso, l’Oriente decostruito da Said, di cui il pensatore egiziano sottolinea la natura specificamente moderna, non può che essere un costrutto successivo a quello generato dalla conquista delle Americhe (Mignolo 2000a: 91 e ss.). A partire da questa ulteriore “rivendicazione” di cittadinanza intellettuale nello spazio della critica al discorso coloniale, egemonizzato dagli studi postcoloniali angloamericani e dal loro costante riferimento all’opera di Said, la prospettiva postoccidentalista ha avviato un importante confronto con la critica all’orientalismo, le cui implicazioni finiscono per distinguere la prospettiva latinoamericana da quella postcoloniale anglofona. Quest’ultima sarebbe colpevole di voler universalizzare i meccanismi di costruzione dell’altro individuati da Said a tutto il mondo coloniale. A tal proposito, i lavori di Pagden e Fabian sulle trasformazioni nei modi di rappresentazione imperiali di Spagna e Inghilterra sui popoli coloniali, sembrano corroborare in parte l’idea che le pratiche discorsive che accompagnarono il colonialismo siano più eterogenee di quanto non sia possibile intuire per mezzo della cristallizzazione del pensiero di Said in un modello interpretativo generalizzato. Ed è infatti a Pagden e Fabian che sia Mignolo che Escobar ricorrono spesso nelle loro argomentazioni. Secondo Pagden, la differenza sostanziale tra orientalismo e occidentalismo si configura già nel XVI secolo con l’emergere delle “Indie Occidentali” nel quadro del sistema di rappresentazione allora dominante nel nascente mondo moderno, vale a dire la cristianità europea. Mentre il discorso sull’Altro “orientale” ruota intorno alla costruzione di una diversità assolutamente irriducibile a quella europea, il discorso sull’Altro “occidentale”, gli amerindi, ruota intorno alla volontà e alla presunta possibilità d’inclusione della differenza. Lo stesso concetto di Indie Occidentali, sottolinea Pagden, rimanda alla volontà di includere l’intero continente americano entro un sistema di rappresentazione geostorico che colloca la diversità su di un punto di vista meramente posizionale (l’Ovest) replicando uno strumento tassonomico (le Indie) già utilizzato altrove, e a dispetto dell’evidenza, maturata in tempi decisamente brevi, di trovarsi 5 Mignolo 2005: 35-36. 131 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 132 di fronte a un intero continente completamente “nuovo” e sconosciuto (Pagden 1993 e 1995). Tant’è che nei documenti ufficiali, tanto degli imperi portoghese quanto spagnolo, il termine “Indie Occidentali” resiste fino alla caduta di ciascuno di essi, a dispetto dell’uso diffuso negli studi umanistici dei concetti di Nuovo Mondo e di America6. Il quadro che ne emerge è piuttosto articolato. Oltre a esistere una differenza sostanziale nei meccanismi di costruzione dell’alterità, veicolata dal medesimo concetto di Indie, esiste una discrepanza evidente tra i concetti adoperati dall’autorità coloniale da una parte e dai pensatori e viaggiatori per definire le colonie a Ovest dell’Europa dall’altra. Questa tassonomia diviene desueta a partire dall’opera dell’ultimo storico ufficiale dell’impero spagnolo, Juan Bautista Muñoz, che nel 1793 pubblica La storia del Nuovo Mondo. La fine del dominio ispanico sull’America Latina coincise con l’adozione di denominazioni differenti ed elaborate nel quadro di discorsi nuovi e in competizione tra loro. “America” e “Nuovo Mondo” infatti sono riconducibili rispettivamente a Lafitau e von Humboldt. Per quanto riguarda Lafitau, nella sua fondamentale critica al pensiero antropologico, Fabian ci offre una lettura sintetica del significato di lungo periodo di questa trasformazione. Secondo Fabian, l’opera di Joseph-François Lafitau testimonia la transizione concettuale dal “selvaggio cannibale” nello spazio delle Indie Occidentali al “primitivo” nel tempo della modernità occidentale (Fabian 1983). La caratterizzazione di “americano” non è altro che la specificità geografica attribuita a una subspecie di “primitivo”; una definizione negativa che lo accomuna in tutto e per tutto agli altri popoli non europei. La legittimità epistemologica di questa immagine deriva dalla teleologia del progresso ed è quella a cui la critica postcoloniale fa riferimento, sottovalutando, o eliminando completamente, la prima fase di elaborazione, e dunque le fondamenta storiche del discorso occidentalistico7. La validità della critica al discorso coloniale propria degli studi postcoloniali risulta dunque limitata al periodo che inizia nel XIX secolo e coincide con l’ascesa egemonica dell’Inghilterra (Arrighi 1996). Infatti, l’estensione del modo di rappresentazione elaborato dall’élite britannica per definire la differenza nelle proprie colonie fu esteso anche a quelle regioni del mondo che fino ad allora erano state dominate da Spagna, Francia e Portogallo, e controllate per mezzo di altri sistemi di rappresentazione. E questa transizione coincise con l’elaborazione del discorso orientalistico. Ma dunque, il tentativo di proiettare all’indietro nel tempo e a Ovest nello spazio la critica di Said all’orientalismo svela la sua natura di discorso altrettanto egemonico rispetto alle altre entità geostoriche subalterne del mondo moderno. In questo senso dunque, la prospettiva latinoamericana imputa velleità egemoniche al postcolonialismo, accusandolo di derivare le proprie coordinate spazio-temporali dai discorsi egemonici. E tuttavia, anch’essa è rea di fare un uso accortamente selettivo e ponderato del discorso elaborato da Antony Pagden, non entrando nel merito della transizione al concetto di Nuovo Mondo. Pagden, infatti, si sofferma in modo acuto sul valore dell’intervento di von Humboldt nella definizione dell’immagine dell’America Latina all’interno di un quadro globale8. In contemporanea all’affermarsi della definizione di Nuovo Mondo, e a partire proprio dal pensiero 6 Il concetto di Indie Occidentali è assunto in maniera non problematica negli scritti di Bartolomé de las Casas, Storia delle Indie (1545), Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie (1542) e l’Apologética Historia Sumaria (1555); così come nelle opere di Juan Lopez de Velazco, Geografia e descrizione universale delle Indie (1571-74); e nella Storia naturale e morale delle Indie di José de Acosta (1590). L’opera a cui Fabian fa riferimento è Moeurs des sauvages ameriquains, comparées aux moeurs des premiers temps (1724). 7 Il pensiero di von Humboldt si colloca nell’epoca della grande riflessione sugli spazi della modernità che accompagna l’ascesa della borghesia al potere negli stati dell’Europa centrale, principalmente Germania e Francia. Il titolo dell’opera, Cosmo: frammenti di una descrizione fisica dell’universo (1846-1858), che il grande studioso e viaggiatore tedesco, tra i primi europei a mettere piede sull’arcipelago delle Galapagos a largo della costa ecuadoriana, intese dare 8 132 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 133 di von Humboldt infatti, sorgeva nell’intellighenzia creola il disegno della Nuestra America con la sua forte connotazione antioccidentale9. Non è affatto assurdo, benché paradossale, dunque, sostenere che dal punto di vista delle coordinate geostoriche, il concetto di Nuestra America ricalcasse esattamente lo spazio-tempo definito da von Humbodlt10. E in effetti, come hanno fatto Coronil e Moreiras, il principale contributo che gli studi postcoloniali hanno fornito al dibattito latinoamericano consiste nell’averlo messo in guardia da quella che era stata una “malattia infantile” (per parafrasare Lenin) della prospettiva indiana; vale a dire l’essenzialismo strategico individuato da Spivak come un passaggio obbligato, e allo stesso tempo un vicolo cieco, nel progetto intellettuale di critica all’eurocentrismo (Coronil 1996; 2007; Moreiras 1996). Per Coronil, si tratta di scardinare l’eurocentrismo a partire dalla sua matrice costitutiva, come già sostenuto negli anni Sessanta da Gilles Deleuze, ovvero mettere in discussione la matrice dialettica del pensiero eurocentrico. Ma mentre Deleuze si muoveva nall’ambito dell’empirismo filosofico, Coronil tenta di legare la propria critica alla storia del colonialismo, e modificarne le categorie interpretative alla luce dei processi storici. Coronil propone di integrare ciò che il pensiero occidentale negò all’interno delle stesse categorie per mezzo delle quali tale integrazione fu realizzata, dal momento che l’incorporazione della negazione in ciò che la categoria afferma, conduce inevitabilmente alla dissoluzione di quest’ultima. E dunque, dal momento che civilizzazione fu la categoria che permise la negazione di qualsiasi potere gnoseologico alla barbarie, l’incorporazione del concetto di barbarie nel concetto stesso di civilizzazione permette di rivelare la barbarie della civilizzazione e di dissolverne il carattere morale, trans-storico ed escatologico (Coronil 1996). Le implicazioni del discorso di Coronil, sono state elaborate da Castro-Gomez in un importante articolo del 2002, in cui egli tenta di sintetizzare i risultati del dialogo tra studiosi latinoamericani e studiosi postcoloniali (Castro-Gomez 2002). Grazie a questa interazione, sostiene Castro-Gomez, la storia della modernità è divenuta leggibile attraverso i tre principali processi di subalternizzazione cognitiva che ne hanno accompagnato l’espansione territoriale. Il primo e più ovvio, è la sussunzione dell’alterità all’interno delle categorie proprie delle scienze storico-sociali. Vale a dire la definizione dell’alterità in termini oppositivi e la successiva incorporazione delle zone non-Occidentali sia dal punto di vista materiale che simbolico. Il secondo consiste nell’etnicizzazione delle forme di conoscenza non-occidentali, ritenute espressioni localistiche di pretese gnoseologiche ontologicamente inferiori rispetto ai saperi occidentali (Prakash 1994; Mignolo 2000; Shiva e Ingunn 1995). In questo modo si nega a priori la possibilità che i saperi non occidentali abbiano un valore universale. In terzo luogo, la critica interna e autoreferenziale che il pensiero occidentale lascia che si sviluppi, seppur in modo marginale al proprio interno. In questo modo, gli intellettuali e accademici di sinistra, critici del colonialismo e della modernità, mantengono e riproducono l’idea dell’Altro come frammenti di specchio in cui osservarsi. Ciò che ne deriva nel complesso è una ulteriore capacità autopoietica dell’euroecentrismo (Spivak 1999: 217-234). alla sua opera, manifesta una tensione diversa verso la conoscenza degli spazi del mondo moderno in cui la definizione di Nuovo Mondo si colloca. «L’impronta di von Humbolt sull’America Latina è quella di un viaggiatore sconvolto dall’emozione della differenza, la sensazione è quella della “scoperta”» (Pagden 1982: 146). Il paradosso della “scoperta dell’America” era già stato colto brillantemente dal fondamentale lavoro di Edmundo O’Gorman negli anni Cinquanta: «Oltre trecentocinquant’anni dopo il viaggio di Colombo, il colono scopre qualcosa che fino a quel momento non si era accorto di aver già scoperto. Un Nuovo Mondo» (O’Gorman 1958: 23). Anche la retorica del Venzuela di Chavez ricorre alla definizione di Nuestra America, derivata dall’immagine humboldtiana (Alba, Alternativa bolivariana para Nuestra America). 9 10 La vicenda del panamericanismo e dei dibattiti che coinvolsero i pensatori latinoamericani su questo tema nel corso del Novecento è ampia e complessa. Per un’interessante ricostruzione del rapporto tra movimenti di liberazione nazionale in America Latina e panamericanismo si vedano Grosfoguel 1999 e Quijano 1999. 133 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 134 E tuttavia, nonostante il contributo sintetico di Coronil, siamo di fronte a un’impasse. La decodifica dei meccanismi di subalternizzazione epistemologica è stata in grado di svelare il legame tra potere e conoscenza coloniale, ma allo stesso tempo ha mostrato la capacità resiliente del sistema di rappresentazione che ha accompagnato la storia del colonialismo. Come è possibile, allora, sottrarsi alla sua capacità di sussunzione della diversità entro le categorie interpretative proprie dell’eurocentrismo? Il limite del progetto decostruzionista, che tanta parte ha negli studi postcoloniali, sembra evidenziarsi proprio nel momento in cui se ne riconoscono a pieno i meriti. Il decostruzionismo, concentrandosi sulla ridefinizione continua del concetto di limite, estromette implicitamente dal proprio discorso i limiti intrinseci nel logocentrismo teorico. Esso finisce paradossalmente con l’assumere le sembianze della ragione illuministica di cui è fiero antagonista, pretendendo di saper leggere ogni forma di vita e di relazione che si estrinsechi per mezzo del linguaggio. Rispetto a tale pretesa, come aveva più o meno esplicitamente indicato Adorno nella sua Dialettica negativa, la strada da percorrere si configura come il sottrarsi al dialogo laddove le strutture logico-grammaticali in cui tale dialogo assume senso emergono da relazioni di potere latenti, che strutturano inevitabilmente gli esiti possibili dell’interazione a favore di chi è collocato in una posizione di dominio11. Un contributo rilevante nel tentativo di superare questa impasse e di muoversi in direzione di un paradigma tendenzialmente capace di sottrarsi al potere di sussunzione dell’eurocentrismo viene dal pensatore peruviano Anibal Quijano, con il concetto di colonialità del potere. L’esperienza di ricerca di Quijano è fortemente legata, nei primi anni della sua vicenda, ai dibattiti intorno alle teorie della dipendenza. Egli ne condivideva l’impostazione metodologica e adoperava ampiamente il concetto relazionale di centro-periferia. Già a metà degli anni Ottanta, tuttavia, Quijano aveva introdotto il concetto di colonialità, per descrivere in modo più profondo la storia del colonialismo e includere la dimensione culturale del dominio coloniale, che i teorici della dipendenza non avevano incluso nelle loro analisi di impostazione strutturalista. In un articolo del 1989, Quijano indagava il modus operandi del colonialismo europeo, nell’ottica del legame costitutivo tra dominio economico e politico da un lato, e razzismo dall’altro. Uno degli assi fondamentali del potere nel mondo moderno è la classificazione sociale della popolazione mondiale attorno all’idea di razza, una costruzione mentale che esprime la tendenza fondamentale del dominio coloniale, inclusa la sua specifica razionalità: l’eurocentrismo. L’asse razziale ha origine e carattere coloniale, ma ha dimostrato di essere più duraturo e stabile che il colonialismo stesso, all’interno della matrice di potere in cui fu stabilito. Quindi, il modello di potere che oggi è globalmente egemonico presuppone l’elemento della colonialità12. In questo senso Quijano approfondisce e specifica le tesi di Wallerstein sulla funzione del razzismo come meccanismo di gerarchizzazione della forza-lavoro su scala planetaria (Wallerstein 2000). Ma il discorso di Quijano prosegue nell’ambito del rapporto tra produzione di conoscenza e movimenti sociali. Egli sostiene infatti che per quanto i movimenti di resistenza, e con essi gli intellettuali che ne condividevano la causa, avessero sostenuto e auspicato la decolonizzazione dalle strutture di potere economiche, essi non avevano seriamente preso in considerazione la necessità politica di decolonizzare i saperi attraverso i quali 11 Lo stesso Guha, nel suo ultimo libro, ha analizzato il meccanismo di sussunzione proprio dell’eurocentrismo. Per Guha, la proprietà fondamentale dell’eurocentrismo consiste nella sua capacità di trascendere le forme particolari, e creare delle strutture logiche capaci di assumere, sebbene per approssimazione, le sembianze delle forme di vita con cui si mettono in rapporto (Guha e Spivak 2002: 12). 12 Quijano 2000: 533. 134 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 135 la storia del colonialismo era stata elaborata13. E questo perché, restando intrappolati nel paradigma marxista dell’emancipazione, essi avevano trascurato la componente epistemologica del colonialismo. L’incorporazione di storie culturali tanto diverse ed eterogenee entro un solo mondo dominato dall’Europa significò una configurazione intersoggettiva equivalente all’articolazione delle forme di controllo del lavoro da parte del capitale. Di fatto, tutte le esperienze, le storie, le risorse e i prodotti culturali finirono in un solo ordine globale organizzato intorno all’egemonia dell’Occidente. In particolare per quanto riguarda la produzione di conoscenza. Oltre ad appropriarsi delle scoperte dei popoli colonizzati, i colonizzatori repressero le forme indigene di produzione del sapere, i loro sistemi di significati e i loro universi simbolici. E sebbene questo processo fosse globale, in Asia la scrittura consentì ai colonizzati di preservare gran parte dei loro saperi, mentre in America Latina essi furono per lo più distrutti14. Quijano descrive in modo sintetico quel processo di espropriazione dei patrimoni culturali dei popoli coloniali che Abdel-Malek, riprendendo la tesi numero 128 di Guy Debord ne La Società dello spettacolo, aveva definito il plusvalore storico15. In questo processo di accumulazione simbolica, anche il marxismo aveva giocato la sua parte, avanzando anch’esso pretese universalizzanti su tutte le forme di resistenza al dominio coloniale. Anche il marxismo, come il liberalismo, l’orientalismo e infine il postcolonialismo sono in una certa misura complici della palingenesi del colonialismo sotto forma di modalità di conoscenza. E tale complicità, espressa in forma pleonastica, consiste nella nozione totalizzante di totalità. Riprendendo il discorso di Mariátegui sui limiti del socialismo, e recuperando uno dei concetti centrali nella riflessione di Samir Amin, Quijano tenta di indirizzare il dibattito verso il desprendimento, ossia lo sganciamento dai saperi che hanno avallato il dominio coloniale, in modo tale da realizzare in ultimo un delinking dalle forme eurocentriche di conoscenza16. In questo senso dunque, assume significato la proposta di lavorare alla costruzione dei saperi decoloniali (De-colonial Studies) (Quijano 2000: 523): La critica del paradigma europeo è assolutamente indispensabile. Anzi, urgente. Ma il cammino non può consistere esclusivamente nella negazione di tutte le sue categorie; nella dissoluzione della realtà nel discorso; nella pura negazione dell’idea e della possibilità stessa della conoscenza. Piuttosto, è necessario liberarsi dai vincoli che legano la razionalità/modernità con la colonialità, e legano questi due enti tra di loro. La strumentalizzazione della razionalità operata dalla colonialità 13 Quijano1990 14 Quijano 2002: 541-542. Secondo Abdel-Malek «la disponibilità, per le borghesie europee di un’ampia gamma di possibilità offerte loro dall’accumulazione del plusvalore storico condusse intellettuali e politici dei paesi centrali a rifiutare la legittimità dell’insieme parallelo di processi di produzione del sapere che si sviluppavano parallelamente nelle società orientali, in aree geoculturali differenti dalla loro» (Abdel-Malek 2000: 573). Secondo Debord «i proprietari del plusvalore storico detengono la conoscenza e il godimento degli avvenimenti vissuti. Questo tempo, separato dall’organizzazione collettiva del tempo, che predomina con la produzione ripetitiva della vita sociale, scorre al di sopra della propria comunità statica. È il tempo dell’avventura e della guerra, in cui i padroni della società ciclica vivono la loro storia personale; ed è ugualmente il tempo che appare nell’urto tra comunità straniere, la crisi dell’ordine immutabile della società. La storia sopraggiunge dunque davanti gli uomini come un fattore estraneo, come ciò che non hanno voluto e contro cui si credevano al riparo. Ma per questa via, ritorna indirettamente anche l’inquietudine negativa dell’umano, che era stata all’origine stessa di tutto lo sviluppo che si era addormentato» (Debord 2002: 112-113). 15 In verità il concetto di delinking era stato ripreso proprio pochi mesi prima in un importante articolo di Dirlik sul modello di sviluppo cinese nel contesto della neoliberismo. Dirlik individuava nel delinking il modello economico che aveva caratterizzato la prima fase postrivoluzionaria di riforma dell’economia cinese (Dirlik 2003: 259 e ss.). Per un’attualizzazione della prospettiva del delinking negli studi sullo sviluppo, si veda Amsden 2003. 16 135 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 136 del potere è ciò che ha generato i paradigmi epistemologici distorti e ha logorato le promesse liberatorie della modernità17. Quijano sembra dunque auspicare, in campo epistemologico, quello che Samir Amin aveva auspicato in termini economici e politici per i paesi del Terzo Mondo durante gli anni Settanta. Un delinking, uno sganciamento tale da di produrre categorie di conoscenza distinte da quelle che hanno strutturato fino a questo momento i saperi storico-sociali e la retorica della modernità18. Il primo concetto rispetto al quale sganciarsi, secondo Quijano, è quello di emanciapazione. Esso, come sottolinea Enrique Dussel, ha esercitato una forza d’attrazione decisiva rispetto sia a tutti i progetti di resistenza che ai discorsi egemonici. Oltre a essere stato lo stendardo del wilsonismo e il mito organizzatore dell’ascesa degli Stati Uniti a potenza egemonica, il concetto di emancipazione è servito come codice di comunicazione tra i diversi progetti di trasformazione dello status quo, sia dal punto di vista internazionale che nazionale. Dal punto di vista internazionale, esso ha rappresentato la parola d’ordine per i canali di comunicazione tra i diversi movimenti sociali, operai, femministi, per i diritti umani in tutto il mondo; e nel quadro dello Stato-nazione, esso ha rappresentato la principale forza di coesione tra élite e subalterni (Wallerstein, Arrighi, Amin e Frank 1990). Già negli anni Settanta tuttavia, il concetto di emancipazione iniziò a essere guardato con diffidenza, e fu messo in discussione dai filosofi della liberazione in America Latina. La necessità politica di distinguere l’emancipazione dalla liberazione, derivava dalla volontà di pensatori come Dussel, o Leopoldo Zea, di derivare tale concetto dalle lotte di liberazione nazionale che continuavano ad alimentare i processi e le speranze di riequilibrio del sistema inter-statale (Zea 1972; Arreguí 1969). Più in generale, il concetto di liberazione serviva a colorare con le tinte del terzomondismo, i progetti e i movimenti di resistenza che fino a quel momento si erano nutriti dell’idea europea di emancipazione. Come faceva notare Orlando Fals Borda, la genealogia del concetto di emancipazione ci conduce al diciassettesimo secolo e alla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1668, attraversa il diciottesimo secolo e l’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, per arrivare alla Rivoluzione francese. Tale genealogia nasconde due processi fondamentali: uno di ordine materiale, l’altro retorico. Tutti gli eventi di cui il concetto europeo di emancipazione si era nutrito non avevano rappresentato altro se non riassetti istituzionali, i quali, per quanto espressione di gruppi più o meno antagonisti delle élite nazionali, in ogni caso avevano escluso le classi meno abbienti dalla redistribuzione effettiva delle risorse politiche. E anche la Rivoluzione d’ottobre, che si discosta relativamente da questa caratterizzazione, ne condivideva la dimensione retorica, ovvero la pretesa di universalizzare le esigenze organizzative di un determinato gruppo sociale o comunità organizzata a tutte le altre componenti del corpo sociale (Fals Borda 1987). Del resto, lo stesso Gramsci aveva individuato nella versione dinamica del concetto di egemonia la capacità di una classe o di un gruppo di legittimare le proprie pretese di controllo sulla base della razionalità della prospettiva dell’emancipazione. Questo modello di trasformazione dell’ordinamento politico è risultato funzionale al riprodursi delle strutture di potere della modernità occidentale nonostante la vastità e la profondità del processo di decolonizzazione. Ed è la contraddizione principale in cui tutti i movimenti antisistemici si sono trovati (Cfr. Wallerstein 1991; 2006; Chatterjee 1993; Chakrabarty 2000). Sia quelli emersi nel corso dell’Ottocento in Europa, sia nella prima ondata dei movimenti di liberazione nazionale nell’immediato secondo dopoguerra, che nel corso delle lotte d’indipen- Quijano 1992. Il concetto di delinking (désconnexion, in francese) fu introdotto appunto da Samir Amin (si veda in particolare Amin 1990). 17 18 136 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 137 denza guidate dai fronti popolari in Asia e Africa negli anni Settanta (Ercolessi e Triulzi 2005). Sia che la conquista dello Stato fosse avvenuta per vie legaliste, che per vie rivoluzionarie, l’esito di medio periodo è stato che i movimenti antisistemici sono riusciti al massimo a ricollocare il proprio stato-nazione in una posizione migliore nel sistema interstatale, senza per questo modificarne le logiche di funzionamento, o addirittura rafforzandone le capacità discriminatorie (Arrighi, Hopkins e Wallerstein 1992: 31 e ss). In altre parole, neppure il concetto di rivoluzione segna una differenzia sostanziale rispetto al potere di sussunzione delle strutture politiche del mondo moderno rispetto ai movimenti antisistemici. Eppure, come sottolinea Escobar, alcuni movimenti antisistemici hanno tentato almeno in parte di mettere in discussione il mito razionale dell’emencipazione dell’Uomo. La rivolta dei Tupac Amaru in Perù nel 1781, Haiti nel 1804, la Rivoluzione messicana nel 1911 non risultano inscrivibili pienamente nel paradigma liberal-marxista di presa del potere (Escobar 2008). Tutte queste vivevano di motivazioni non fondate esclusivamente sul piano razionale e non miravano esclusivamente alla presa del potere dello Stato. Il loro obbiettivo, indipendente dalla padronanza di categorie storico-politiche quali stato, cittadinanza, emancipazione, era quello di liberarsi dai vincoli imperiali. Ed è a questa eredità che Quijano si riconduce nel tentativo di fondare storicamente l’idea di delinking epistemologico. Quanto i movimenti sociali cui Quijano ed Escobar fanno riferimento fossero al di fuori dell’immaginario liberal-marxista resta un territorio aperto all’indagine. E tuttavia, proprio questa tensione svela la pretesa non soltanto di creare una serie di strumenti di analisi della realtà, ma di mettere in atto un processo generativo dal punto di vista epistemologico; consapevolmente costruttivista. Di fatto le critiche teoriche all’idea di creare una nuova identità latinoamericana e il richiamo a traslare il dibattito su di un piano più squisitamente categoriale piuttosto che concettuale sembrano già riorientare il dibattito. Lo stesso Mignolo, fautore della necessità di pensare a una nuova idea di America Latina, entra nel vivo del dibattito decoloniale, chiarendo: Per emancipazione intendo il profilo specifico dei processi rivoluzionari guidati dalle borghesie europee e dalle élite creole nelle Americhe, o dalle élite native. Per liberazione intendo il profilo specifico dei processi rivoluzionari nelle colonie guidati da nativi (gruppi di fede non cristiana e non bianchi) condotti contro sia il colonizzatore europeo che contro le élite locali che usavano lo Stato-nazione come connessione e verso i progetti politici ed economici degli stati e delle imprese europee (e statunitensi nel XX secolo). L’emancipazione è, al massimo, l’immagine usata da onesti liberali e marxisti per proiettare la storia dell’Europa al di fuori dei propri spazi. Essa non può essere la linea guida per nessun progetto decoloniale o di liberazione, ma, viceversa queste ultime possono contribuire a rimappare il concetto razionale di emancipazione, esercitando continuamente un’attenta critica politica ogni qualvolta un mito irrazionale dirige gli attori sociali nei loro progetti di decolonizzazione economica, spirituale e simbolica. E sulla base di questa distinzione intendo la modernità come uno spazio-tempo formato dall’interazione conflittuale, non esclusivamente europeo, ma formato dall’interazione tra europei e non europei19. Due elementi emergono come cruciali dalle parole di Mignolo. Il primo è il recupero della componente irrazionale dell’agire politico organizzato, che era emersa, in una forma diversamente strutturata, nella riflessione di Guha. L’altro, a esso collegato, è il problema della soggettivazione collettiva. Ma questa volta non si tratta di rinvenire le tracce di una soggettività ritenuta esistita e sepolta nel passato, come auspicava il programma di ricerca di Guha. Piuttosto si tratta di compiere un ulteriore sforzo per individuare la fisionomia di quelle soggettività dotate di potenzialità antisistemiche nella contemporaneità. Pur nell’analogia di temi con i Subaltern Studies indiani, che avevano contribuito in modo rilevante alla fase di gestazione del processo complesso 19 Mignolo 2007: 9. 137 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 138 di costruzione del programma dei De-Colonial Studies, il riferimento teorico per l’individuazione di tali soggettività muove piuttosto in direzione di una rilettura radicale del processo di decolonizzazione offerta da Fanon. Ne L’Anno V della rivoluzione algerina, Fanon concludeva l’introduzione affermando: «Assistiamo in realtà all’agonia, lenta ma inesorabile, della mentalità del colono. Da cui deriva la tesi: la morte del colono è insieme morte del colonizzato e del colonizzatore [corsivo originale]», (Fanon 2007: 38). E Mignolo, dal canto suo, descrive la decolonizzazione come processo doppio che include allo stesso tempo sia il colonizzatore che il colonizzato, sebbene messo in atto a partire dalla prospettiva e dagli interessi dei dannati. Se così non fosse, i dannati risulterebbero privati del loro diritto di ribellarsi, e le loro conquiste non sarebbero altro che doni del generoso colonizzatore»20. 20 Mignolo 2007: 16. 138 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 139 La questione indigena nella prospettiva decoloniale Così come per l’emergere degli studi subalterni indiani, anche l’emergere dei De-colonial Studies manifesta un legame forte con i movimenti sociali più radicali della propria area geografica. Ma mentre nel caso indiano questo riferimento era piuttosto implicito, nel caso latinoamericano esso si evince chiaramente dai continui riferimenti al movimento zapatista, ai seringeiros ecuadoriani o ai sem terra brasiliani, ai campesinos argentini e a una serie di organizzazioni politiche e di fenomeni di resistenza organizzata in cui la centralità del conflitto tra capitale e lavoro assume i connotati della lotta per il riconoscimento dei diritti indigeni di utilizzo e di gestione collettiva della terra1. Risulta evidente che sia in America Latina che al di fuori di essa, l’interesse per la cosiddetta “questione indigena” si sia acceso dopo l’insurrezione zapatista del 1994, e dopo i successi politici dei movimenti indios in Ecuador e Bolivia. Tale attenzione è il risultato immediato delle azioni dei movimenti indigeni, dei conflitti che tali azioni generano e che intendono generare in seno alla restante parte della popolazione. Il problema che i movimenti indigeni pongono è quello della governabilità di una popolazione completamente trascurata, e che sta tentando di elaborare risposte proprie alle sue stesse domande2. La questione indigena assume un valore significativo per l’analisi della prospettiva degli studi decoloniali, perché offre un banco di prova immediato per la pretesa di sganciare determinati concetti dalla loro originaria matrice eurocentrica. Ma cosa s’intende per indigeno? Nella vasta letteratura sulla questione indigena i sinonimi di questo termine, come aborigeno o indio, non hanno né più né meno valore se considerati in modo enunciativo. E, allo stesso tempo, questi termini sono praticamente equivalenti l’uno all’altro se la tassonomia che adoperiamo si fonda sulla conoscenza e la concettualizzazione del colonialismo come la storia dell’affermazione della matrice coloniale del potere, costituiva della modernità. Oppure sui documenti ufficiali della Banca mondiale (Alvarez 1999: 1- 29). La questione indigena in America Latina emerge come dibattito nel corso del XIX secolo, all’epoca della formazione degli stati nazionali, che assumono nel continente una forma particolare di controllo della popolazione, basata su un sistema privatistico di autorità collettiva, che struttura la distribuzione delle risorse politiche in modo da gerarchizzare su base razziale ed economica la popolazione su cui esercita il potere. E d’altro canto, come hanno fatto notare, nonostante il fre- Su questo punto si veda l’affascinante saggio di Fernando Coronil, in cui egli reintroduce la categoria di terra nell’analisi marxiana dei movimenti sociali in America Latina. 1 2 Quijano 1997: 75. 139 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 140 quente disaccordo, sia Chakrabarty che Dirlik, l’Europa opera come costrutto iperreale di riferimento anche laddove il potere all’interno di ciascuno stato-nazione non è detenuto dalla popolazione bianca, in seguito al processo di decolonizzazione (Chakrabarty 1992: 24). Gli esiti del processo storico in virtù del quale l’insieme di strutture di potere, materiali e simboliche, che il termine eurocentrismo individua non rappresentano più una configurazione imposta da una soggettività dominante ai danni di un “altro” variamente costruito come tale, ma piuttosto sono ormai un’eredità globale, transnazionale, sostenuta e promossa con vigore ed effetti di lungo periodo da soggetti non europei3. Sia Dirlik che Chakrabarty hanno in mente il processo di decolonizzazione del XX secolo, eppure entrambi descrivono altrettanto adeguatamente la condizione storica dell’America Latina nel XIX secolo. Qui, dove non esiste un riscontro fenomenico ovvio tra la strutturazione razziale e le gerarchie di potere, sia i concetti di bianco/europeo, che di creolo, che di indio o aborigeno perdono di efficacia se non contestualizzati nel quadro delle trasformazioni degli assetti di potere interni allo Stato-nazione. Ma oltre alla specificità del tempo storico proprio del processo di formazione dello stato-nazione in America Latina, un dato ulteriore va preso in considerazione: quello numerico. La formazione degli stati nazionali nel continente infatti, seguiva una strutturazione in virtù della quale una esigua minoranza di discendenti degli europei gestiva il potere senza che né gli indios né i neri vi avessero assolutamente accesso. I neri perché schiavi, gli indios perché servi (Quijano 1997: 88). Anzi, per quanto egemonica fosse stata la retorica dello Statonazione in Europa, essa poteva pur sempre fare appello a una comunità presunta o immaginata come omogenea; oppure, come nel caso del discorso nazionalistico in India, essa poteva assumere il futuro come prospettiva escatologica e tentare di recidere i legami con il passato in vista di un nuovo patto sociale (Chatterjee 1993). In America Latina invece, lo Stato-nazione emergeva dalla negazione di qualsiasi diritto di cittadinanza e di uguaglianza anche formale per la stragrande maggioranza della popolazione. La situazione specifica del nuovo assetto sociale scaturito nel XIX secolo dal processo di decolonizzazione del continente strideva con l’immaginario politico che le élite nazionaliste, imbevute della retorica dello stato-nazione europeo, si trovavano davanti negli stati-nazione di cui erano al governo. Parafrasando Rodó, Leopoldo Zea parlò di una nordomanía delle élite creole nei confronti di quella inglese (Zea 1988: 16-17). Secondo Grosfoguel Dal momento che gran parte delle élite erano legate a, o parte de, la classe dei proprietari terrieri, che estraevano ricchezza da forme coatte di lavoro da cui trarre profitti sul mercato mondiale, esse furono molto eclettiche nel selezionare quali idee dell’illuminismo intendevano utilizzare. Il libero scambio e la sovranità nazionale furono strenuamente difese contro il monopolio coloniale spagnolo del commercio. E tuttavia, per ragioni di razza e di classe, le idee di libertà individuale, dei diritti umani e dell’uguaglianza furono messe da parte. Non ci fu alcuna trasformazione di rilievo nelle società latinoamericane dopo le lotte per l’indipendenza della prima parte del XIX secolo. Le élite creole lasciarono intatte le forme non capitalistiche di lavoro coatto così come le gerarchie etnicorazziali. Esse riaffermarono, dopo l’indipendenza, una gerarchia razziale in cui indiani, neri, meticci, mulatti e altri gruppi oppressi erano collocati sul gradino più basso della società4. È in questa contraddizione che emerse il concetto di questione indigena. Questo concetto designava sostanzialmente l’impasse tra una volontà modernizzatrice mossa dalla spinta a emulare i modelli occidentali rispetto ai quali l’élite creola viveva un complesso di inferiorità, e i 3 4 Dirlik 1994: 334. Grosfoguel 2000: 149. 140 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 141 vincoli imposti da una categorizzazione rigida di razza che, ponendo la differenza antropologica sul piano biologico, escludeva qualsiasi possibilità di inclusione entro un medesimo modello legale di cittadinanza per gli indios, i neri e i creoli. Come fa notare Quijano, non era sufficiente organizzare una gerarchia sociale sulla base di differenti livelli salariali, così come era stato possibile fare in Europa lungo tutto l’arco delle rivoluzioni borghesi. Né era pensabile l’eliminazione del tributo imposto sui servi, dal momento che esso rappresentava la principale linfa della base fiscale dello Stato. Pertanto, era l’argomento razziale a sostenere l’architettura istituzionale dello Stato-nazione in America Latina nell’Ottocento (Quijano 1999). La rigidità delle gerarchie sociali da un lato e questa tensione verso il liberalismo propria delle élite creole dall’altro diedero forma a un particolare modo di collocarsi rispetto all’orizzonte politico della modernità. Quest’ultimo infatti, separato da qualsiasi radicamento nelle relazioni sociali all’interno degli stati-nazione latinoamericani, finì con l’essere relegato e compresso all’ambito dell’ideologia. Mentre le rivoluzioni borghesi in Europa si erano articolate lungo un complesso percorso di transizioni politiche, strettamente connesse con le trasformazioni socio-economiche di lungo periodo, in America Latina, pur in presenza di inevitabili trasformazioni nelle relazioni sociali di produzione, le strutture politiche restarono relativamente congelate dalla matrice razzista che aveva definito la fisionomia di quelle stesse strutture. E dunque, la contraddizione tra questa condizione storica e l’attrazione esercitata sulle élite creole dal modello liberale fu risolta affermando che la via latinoamericana alla modernità non prevedeva necessariamente alcun tipo di transizione politica, né formale né sostanziale. La via latinoamericana alla modernità, in assenza dei processi di cambiamento sociale che aveva vissuto l’Europa, sarebbe stata effetto di una decisione politica (Miller 1999: 32-40). Del resto, nella seconda metà del XIX secolo, il positivismo comtiano rappresentava uno dei maggiori punti di riferimento teorici per i modernizzatori latinoamericani, giustificando la dittatura razziale e alimentando l’ideologia scientista dell’ingegneria sociale, riassunta nello slogan “ordine e progresso”5. L’America Latina, infatti, fu nel corso di tutto l’Ottocento un grande laboratorio per il liberalismo e per i grandi dibattiti sulle istituzioni politiche, generando una copiosa produzione di matrice istituzionalista. Secondo Assies, ciò è funzione diretta della qualità squisitamente formale del progetto della modernità in America Latina, e dunque effetto visibile di un’organizzazione sociale profondamente razzista. L’ordinamento statale sancito nelle costituzioni nate dal processo di decolonizzazione degli stati latinoamericani è dunque, paradossalmente, lo statuto formale di una segregazione razziale e, pertanto, i movimenti sociali del continente nati intorno alla questione indigena hanno posto, fin dalla fine del XIX secolo, il problema della cittadinanza all’interno degli stessi stati di cui erano formalmente parte (Assies 2000: 12-32). Analogamente, il dibattito intellettuale di impronta indigenista, che simultaneamente tentò di incarnare quelle medesime istanze, risultò intrappolato anch’esso nell’impossibilità di riformulare le relazioni tra europei e indigeni su basi di eguaglianza, data la solidità del pregiudizio razzista che in America Latina aveva strutturato da sempre la morfologia dell’incontro coloniale6. Del resto, anche i pensatori più radicali di inizio Novecento si muovevano all’interno di una prospettiva antropologica in virtù della quale gli indios erano costruiti non solo come inferiori, ma anche come “anteriori” all’uomo moderno7. E pertanto, data l’impossibilità di trasformare l’indio in eu- Ibidem. Si veda l’illuminante dibattito in Perù tra José Carlos Mariátegui e Luis Alberto Sánchez. Cfr. J.C. Mariátegui: Sette saggi di interpretazione della realtà peruviana (1928). E Luis Alberto Sánchez: Appunti per una biografia dell’APRA. I primi passi (1923-1931). Per un saggio accurato su questo dibattito si veda Luis Rénique 1984. 7 I “selvaggi” amerindi, nell’iconografia imperiale e non solo, costituivano gli antipodi della modernità. Si veda (in italiano) Blengino 1987. 5 6 141 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 142 ropeo, i modernizzatori latinoamericani costruirono la possibilità teorica di rispondere in modo positivo alla versione liberale della questione indigena con il concetto di meticciato. La prospettiva antropologica del mescolamento delle razze apparve a questi intellettuali come l’ipotesi plausibile per colmare il divario tra la struttura formale dello Stato postcoloniale e un corpo sociale profondamente diviso in gerarchie di ordine razziale (Gabaccia 2002). È evidente come il fatto stesso di collocare il meticciato in una prospettiva futura si fondava sull’assunzione dell’esistenza reale delle razze. Ma ancora più interessante è rilevare come, nei primi decenni del Novecento, il concetto di meticciato faceva da sponda al modello assimilazionista che in quegli anni informava le politiche di costruzione della nazionalità statunitense (Wellmann 1977). L’assimilazionismo certamente apparve come un “progresso” sensibile ai radicali latinoamericani di inizio Novecento, rispetto allo sterminio delle popolazioni indigene che si era protratto ininterrottamente per secoli dall’Alaska alla Patagonia. E la sua funzione escatologica, in direzione di una modernità possibile da costruire per superare la segregazione degli indios fu assunta come una vera e propria impresa di ingegneria sociale dai riformatori di ciascuno stato latinoamericano. Centrale, in questo processo, fu ovviamente il ruolo del sistema educativo e delle forze armate. Nelle scuole statali e nell’esercito, gli indios dovevano essere assimilati a una cultura nazionale, e ciò significò una sensibile “de-indianizzazione” soggettiva per gran parte della popolazione indigena nella prima metà del Novecento (Deloria 1994). Questo complesso processo di assimilazione passò per una attenta e sagace opera di storicizzazione della tradizione inca, maya e azteca. Mentre si glorificava la grandiosità delle civiltà precolombiane, allo stesso tempo le si relegava alla preistoria della modernità, in modo da recidere qualsiasi legame tra la percezione e l’autorappresentazione delle comunità indigene da assimilare e le loro radici storiche nella storia coloniale8 (Britton 1994). Nel secondo dopoguerra, in seguito a secoli di sterminio e a decenni di anamnesi assimilazionista, la questione indigena è sicuramente ridimensionata dal punto di vista quantitativo. Probabilmente, Kay Warren non è lontana dalla realtà quando afferma che «nonostante tre secoli di sterminio sistematico degli indigeni, dal XVI al XIX l’identità e le comunità di indios continuavano a sopravvivere. Per dissolverle entrambe c’era bisogno dello Stato-nazione» (Warren e Jackson 2003: 22). E tuttavia, a dispetto del silenzio in cui essa era precipitata per circa settant’anni a partire dai primi del Novecento, la questione indigena si ripropone sospinta dai movimenti sociali che in un modo o nell’altro vi fanno riferimento. Sebbene in modo eclettico. Un primo fenomeno è costituito infatti proprio dallo sforzo, da parte dei movimenti sociali di matrice indigena a partire dagli anni Settanta, di riconoscersi come tali. Come ha fatto notare Gonzalo Santos, molti di essi rifiutavano l’identità storica di indios e non accettavano di essere identificati come eredi delle civiltà precolombiane. E tuttavia, il riemergere delle tensioni più marcatamente identitarie, localiste e culturaliste che la crisi del progetto sviluppo ha contribuito ad alimentare sembra trovare conferma perfino nel modo in cui gruppi marginali rispetto agli stessi stati-nazione latinoamericani, come le differenti comunità di indios andine diffuse a cavallo tra Bolivia, Venezuela e Ecuador, si autodefiniscono negli ultimi quindici anni9. Molti di essi rivendicano i loro nomi precedenti all’inclusione delle proprie comunità nello stato-nazione postcoloniale, in un moto identitario assimilabile a processi analoghi su scala planetaria. 8 Fu il grande intellettuale brasiliano Paolo Freire a individuare, sebbene sotto una prospettiva pedagogica, alcune di queste dinamiche in atto nel rapporto tra educatori e popolazioni indigene. Parte di queste riflessioni fu alla base della sua Pedagogia degli oppressi. Secondo Cojti Cuxil l’eterogeneità di questi gruppi è tale da evidenziare delle nette differenziazioni tra gruppi anche quantitativamente ridotti. «Il processo di autorappresentazione delle comunità indie andine procede per linee orizzontali almeno quanto procede per linee verticali» (Cojti Cuxil 1996: 47). 9 142 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 143 Ma la vicenda della questione indigena nel quadro dello stato-nazione in America Latina sembra avere una propria specificità. La “crisi” dello Stato-nazione, o meglio la trasformazione della morfologia e delle funzioni dell’istituzione “Stato” nel mondo moderno, non segue percorsi analoghi nelle diverse aree geostoriche, dal momento che le macchine statali periferiche in generale, e in America Latina in particolare, hanno caratteristiche distinte da quelle centrali, e funzionali a garantire determinati processi di organizzazione socio-economica, distribuiti secondo l’asse della divisione internazionale del lavoro. E se per un verso la crisi dello Stato-nazione in America Latina è analoga a quella di altre regioni dell’economia mondiale e legata al fallimento del programma neoliberista che quasi tutti i paesi latinoamericani avevano fatto proprio negli anni Ottanta, per un altro verso essa se ne distacca10. La crisi dello stato-nazione latinoamericano corrisponde alla crisi di uno stato oligarchico, i cui modi operandi affondano le radici nella storia del colonialismo e si acuiscono in seguito all’accettazione dei programmi di austerity e di erosione dello Stato sociale propagandati, sostenuti e imposti dalle autorità economiche internazionali. Stati Uniti d’America, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale11. E dunque, la questione indigena, si intreccia con i movimenti di opposizione al progetto globalizzazione. Per gli indios dell’America Latina, la sottrazione del controllo dei mezzi di produzione e dei sistemi di rappresentazione, materializzata nella sottrazione della proprietà collettiva della terra, non ha seguito un percorso analogo a quanto avvenuto né nell’Europa del Seicento né nell’Africa subsahariana del XX secolo. In seguito all’abolizione del sistema di derivazione feudale delle encomiendas nel 1791, le comunità di indios dei paesi andini, ma anche di Cile, Perù e Argentina godettero della redistribuzione fondiaria che assicurava loro il controllo sulla terra in diverse regioni. Essi conservarono questo controllo nel corso del XIX secolo finché, negli anni Novanta di quel secolo, la penetrazione delle imprese e del capitale nordamericano nel settore dell’estrazione mineraria e delle piantagioni monocolturali non si concretizzò nella sottrazione sistematica delle terre gestite dagli indios in una molteplicità enorme di forme locali di organizzazioni. La sottrazione delle terre fu un processo violento, protrattosi per oltre tre decenni, e represso nel sangue dalle rispettive polizie nazionali, quando non direttamente da organizzazioni paramilitari a tutela degli interessi nordamericani. Organizzazioni analoghe a quelle che oggi vengono definite «società di sicurezza private operanti in zone di emergenze politiche complesse» (Duffield 2001: 178 e ss.). Come in Iraq e Afghanistan. Questi conflitti funsero spesso da pivot per sommovimenti politici più ampi in cui le forze organizzate delle élite locali si polarizzarono per poi confliggere, come avvenne in Messico in seguito alla rivolta dei campesinos, nel 1910, che fece da prodromo alla Rivoluzione messicana. Ma, eccetto che per il Messico, la servitù non fu abolita nel resto dei paesi andini, prima del secondo dopoguerra (Deruyttere 1997: 11-15; Plant 1998; Fabricano 1996). Pertanto, la sottrazione del potere materiale e simbolico operata ai danni delle popolazioni indigene dell’America Latina non corrisponde esclusivamente alla progressiva affermazione di relazioni di tipo capitalistico, in progressione aritmetica dal colonialismo spagnolo, allo statonazione, all’epoca dell’egemonia americana. Rispetto a questo schema, emerge il ruolo centrale dello Stato-nazione oligarchico latinoamericano, e la vicenda della sottrazione della terra corrisponde storicamente con l’affermazione del progetto assimilazionista in America Latina. E, in- 10 Per un’analisi stringente del rapporto tra erosione dello Stato sociale e politiche macroeconomiche neoliberiste, si veda Fuentes 1999. Per un’interessante analisi della transizione al neoliberismo da parte degli stati latinoamericani in particolare il Brasile di Cardoso, ex teorico della dipendenza, si veda Gorsfoguel 2002: 17-21. 11 Come ha rilevato Miller, riprendendo la definizione elaborata da Whitehead, «il concetto di oligarchia è utile per adattare al contesto ispano-americano la distinzione elaborata da Gramsci tra Stato aristocratico e Stato borghese» (Miller 1999: 4). 143 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 144 fine, questo stesso processo di sottrazione, di saccheggio nella terminologia di Wallerstein, o di accumulation by dispossession nella brillante definizione di Harvey, coincide con l’interruzione di un modo di autorappresentazione delle popolazioni indigene che, fino ai primi del Novecento, le aveva legate a un’identità storica derivante dalle popolazioni precolombiane. Questo, che possiamo dipingere metaforicamente come un vuoto identitario, senza per questo attribuire alcun valore progressivo al concetto di identità in sé, si accentua in modo rilevante a partire dagli anni Cinquanta, quando iniziano ad affermarsi le legislazioni che eliminano il lavoro servile. L’effetto immediato di queste legislazioni fu un incremento notevole del lavoro salariato, strutturalmente funzionale al progetto sviluppo e all’era dell’espansione economica del mondo moderno nella seconda metà del Novecento (Tabak e Crichlow 2000: 7191; McMichael 2000). Ciò si tradusse, come è noto, in un caotico processo di urbanizzazione che provocò in pochi anni l’emergere convulso di megalopoli straordinariamente affollate (Davis 2004; Sassen 1998). Risulta intuibile dunque che questa enorme trasformazione della base socio-economica dello Stato-nazione in America Latina creava una pressione enorme sulla struttura istituzionale a tutti i livelli, dal parlamento alle municipalità, dal momento che si trattava di organizzare enormi contingenti di provenienza contadina e indigena. Il processo di alfabetizzazione e di de-indianizzazione che abbiamo descritto in precedenza, divenne sistematico e parte necessaria del programma di inclusione della nuova forza-lavoro salariata nel sistema produttivo. Uno dei paesi dove questi processi avvennero in modo più massiccio e in tempi molto compressi fu il Perù. Qui la de-indianizzazione e allo stesso tempo l’inclusione degli indios nel sistema produttivo industriale e di share cropping negli anni Cinquanta fu molto rapido, esteso e dagli esiti rilevanti per il discorso sulla questione indigena. Ed è del movimento sociale della storia del suo paese che Quijano ha tentato una lettura de-coloniale. Quijano ci racconta che i gruppi sociali che subirono/vissero queste profonde trasformazioni furono ben presto individuati con il termine cholo. Questo termine, che significa “cane” nel dialetto delle isole caraibiche Windward al largo del Venezuela, era l’epiteto con cui i conquistadores spagnoli chiamavano offensivamente gli indios, tanto in Messico, quanto nelle Ande. Ma negli anni Cinquanta del Novecento, il più grande movimento contadino del Perù, che portò in pochi anni alla riforma agraria, si autorappresentava come “los cholos”. E quando il processo di urbanizzazione portò gran parte di essi nella nascente megalopoli di Lima, i cholos diedero vita a uno dei principali movimenti sindacali della storia del paese, che svolse un ruolo da protagonista nelle vicende legate all’inizio della recessione economica degli anni Settanta. Diversi membri di tale vasto gruppo sociale popolarono l’università, formando una componente decisiva nei movimenti studenteschi del decennio della dittatura militare in Perù (1968-1980). In quegli anni, i giovani intellettuali dell’intellighenzia chola erano impegnati in un dibattito serrato sulla presunta natura semifeudale della struttura di accumulazione peruviana. Così come i quadri del movimento nassalita in India, negli stessi anni, i chola furono fortemente influenzati dall’esperienza della Rivoluzione cinese e dal pensiero di Mao elaborato nella fase di mobilitazione del movimento comunista cinese negli anni Trenta. Parte di quella generazione contribuirà alla formazione del movimento guerrigliero maoista Sendero Luminoso, che esploderà negli anni Ottanta, rivendicando per se stesso l’identità india. Secondo Quijano, nel corso di circa cinquant’anni, i chola furono de-indianizzati; fecero propria una definizione di chiara matrice razzista attribuita loro dal colonizzatore; assunsero il meticciato come condizione antropologica e l’eredita precolombiana come patrimonio storico; rielaborarono ambedue le eredità in forma di politica attiva a partire da una condizione comune di sfruttamento; ne fecero strumento identitario da utilizzare nella lotta politica, interagendo con le altre forze economiche e politiche che si trovavano a operare nella medesima arena e su piani differenti da quello locale a quello internazionale; riabilitarono infine il concetto stesso e l’identità di indigeni (Quijano 1997: 89-90). 144 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 145 Questa ricostruzione indica sinteticamente un percorso lineare, che in realtà ha almeno due limiti. Il primo risiede nella continuità che sembrerebbe emergere tra l’identità chola e quella indigena, in termini di semplice passaggio dall’una all’altra. E, inoltre, sembrerebbe che tale processo sia stato “demograficamente” omogeneo e senza soluzione di continuità; e cioè che tutti i gruppi chola abbiano poi finito con l’identificarsi come indios. Il secondo problema risiede invece nell’enfasi posta sulla componente volontaristica di tale fenomeno. La storia di questo movimento sociale sembra quasi un programma politico consapevole di riabilitazione dell’identità indigena. E tuttavia, questo modo di raccontare questa transizione terminologica, storica e politica, ci offre un discreto punto di partenza, proprio sulla base dei limiti che riusciamo a individuare in esso. Il focus sullo sviluppo esclusivamente diacronico di tale fenomeno elude una questione fondamentale, e cioè quella delle condizioni complessive e transnazionali che hanno reso possibile la rielaborazione, da parte di alcuni gruppi che si identificavano nell’identità dei chola, in indigeni. Vale a dire quella dimensione sincronica costituita dall’insieme delle relazioni storico-sociali che definiscono il fenomeno di questo movimento sociale in un determinato spazio-tempo, con determinati vincoli e interstizi in cui può prendere forma l’azione collettiva. L’insurrezione zapatista in Messico, nel 1994, ci fornisce una chiave di lettura ulteriore sul rapporto tra saperi, identità e movimenti sociali. È emblematico che gli zapatisti del subcomandante Marcos decisero di insorgere esattamente lo stesso giorno in cui entravano in vigore gli accordi sul libero scambio in Messico, il 1 Gennaio 1994. Gli zapatisti presero il controllo su alcune province attraversate dalla selva Lacandona, dichiarandosi un movimento di guerriglia di ispirazione marxista-leninista, impegnato tuttavia in un percorso di rielaborazione della teoria e della prassi del marxismo rivoluzionario, fochista, maoista. La modalità di azione, di comunicazione, di gestione territoriale e di organizzazione della formazione dei quadri dirigenti del movimento zapatista potrebbe, e di fatto ha già riempito le pagine di moltissimi libri. Alcune di queste specificità sono evidenti anche ai più superficiali osservatori della stampa internazionale, come la leadership diffusa, la chiusura verso l’esterno, la gestione comunitaria delle risorse, le pratiche di guerriglia e di gestione del territorio. Ma, tra questi motivi di interesse, almeno tre vengono in rilievo per il nostro studio. Il primo è il rapporto con i mass media. Gli zapatisti dichiarano e di fatto mettono in atto continuamente quella che chiamano la guerriglia mediatica, ovvero tentano di strumentalizzare i mezzi di comunicazione di massa attraverso comunicati e azioni tese a fornire il massimo grado di visibilità alla propria lotta. Il secondo consiste nel rapporto ambivalente nei confronti delle istituzioni politiche dello stato-nazione messicano. Ambivalente poiché, mentre essi dichiarano di non riconoscerne l’autorità, sottraendosi alla sua giurisdizione, hanno di fatto creato una enclave semiformalmente riconosciuta dal governo nazionale. Terzo, essi descrivono il proprio movimento politico come la messa in pratica di un marxismo “geneticamente incrociato” con la cosmologia derivante dalla cultura dei popoli precolombiani. I discorsi dei subcomandanti dell’esercito zapatista parlano due lingue. Una è quella del marxismo, l’altra è quella della cosmologia maya e azteca. I due apparati logico-grammaticali non vengono mai tradotti l’uno nell’altro, bensì giustapposti, in modo da offrire la possibilità di una lettura simpatetica delle medesime tesi. Così, i processi economici di sfruttamento capitalistico corrispondono alle forze oscure del cosmo e l’azione collettiva contro l’oppressione corrisponde alla liberazione dal lato oscuro della natura umana. Secondo Marcos «Lo zapatismo è e non è un marxismo-leninismo. Lo zapatismo non è un pensiero indigeno millenarista o fondamentalista; e non è neppure una forma di resistenza indigena. Esso è un insieme di tutte queste cose, che però trova forma storica concreta nell’Ezln» (Marcos 1997: 338-339, cit. in Mignolo 2002). Walter Mignolo ha dedicato molta attenzione al valore epistemologico del discorso e della retorica del movimento zapatista, definendolo come una vera e propria rivoluzione teorica. Secondo Mignolo, il discorso zapatista è un esempio fondamentale di border thinking (o border 145 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 146 epistemolology), con cui egli intende il luogo di enunciazione che si colloca nel territorio ibrido tra immaginario coloniale europeo e cosmologie indigene; un luogo di effervescenza gnoseologica in cui il riconoscimento, e allo stesso tempo la trasformazione, dell’immaginario egemonico da parte delle cosmologie subalterne genera risposte nuove in termini di paradigma alternativo a quello eurocentrico (Mignolo 2000: 736). Rispetto allo stato messicano, prosegue Mignolo, gli zapatisti hanno utilizzato il concetto di democrazia sebbene essi lo intendessero in modo differente da quanto non facesse il governo messicano. La democrazia non è concettualizzata dagli zapatisti nei termini della Filosofia Politica europea ma sul modello dell’organizzazione sociale dei maya, fondata sulla reciprocità, sui valori comunitari invece che individuali, sul valore della saggezza piuttosto che dell’epistemologia. Né il governo messicano, né gli zapatisti dispongono della “corretta” idea di democrazia. E in ogni caso, gli zapatisti non hanno scelta. Sono costretti a usare la parola imposta dal discorso politico egemonico, sebbene l’utilizzo della medesima parola non si leghi a una sua interpretazione monologica. Una volta utilizzata, la parola democrazia costituisce un link attraverso il quale le concezioni liberali di democrazia e i concetti indigeni di reciprocità e organizzazione sociale comunitaria si incontrano. Il movimento zapatista e la sua retorica, mettono in evidenza che il border thinking, per i gruppi subalterni, non è una scelta, ma una necessità12. Ciò che Mignolo non prende in considerazione sono altri due aspetti dell’esperienza zapatista. Egli è così concentrato nell’individuare geoepistemicamente un fenomeno storico che corrisponda in pieno, avvalorandolo, al suo concetto di border thinking, che sottovaluta altre dimensioni della questione. La prima. Il rapporto degli zapatisti con i mass media è stato spesso preso in considerazione per avvalorare la tesi della rilevanza assoluta dell’analisi dei mezzi di comunicazione in rapporto ai nuovi movimenti sociali. Il “successo” degli zapatisti sarebbe misura della loro presa di coscienza di dover fare i conti con il “quinto potere”. In questo modo, tuttavia, si tende a intendere i media come un fenomeno isolato e paradossalmente onnicomprensivo della realtà sociale, fino a definirne il raggio d’azione come luogo di indagine a sé stante, e campo di forze attraverso cui tutto passa e tutto, dunque, è leggibile solo attraverso il prisma dei media13. La scelta situazionista degli zapatisti di irrompere sulla scena lo stesso giorno dell’entrata in vigore del Nafta (North American Free Trade Agreement), si offre a una ulteriore lettura. Essa segna senza dubbio la consapevolezza del potere dei nuovi e vecchi media così come la volontà di far conoscere la propria lotta a un pubblico globale, per usare il codice dei media studies. Ma tale consapevolezza deriva dall’avere a disposizione gli strumenti analitici della storia del mondo moderno, tali da comprendere il valore transnazionale, storico e di lungo periodo delle proprie rivendicazioni. Il senso di quell’atto “mediatico” corrisponde alla conoscenza di essere parte attiva in un processo globale di riorganizzazione delle disuguaglianze sociali, in un luogo specifico e unico del mondo che in quel preciso spazio-tempo funziona da cassa di risonanza per le esigenze organizzative di una comunità locale, indigena e postcoloniale, che si avvale degli strumenti di decodifica del discorso egemonico, materializzato dall’imposizione degli accordi sul “libero scambio”, messi a disposizione dal marxismo. La rottura rappresentata dal movimento zapatista non è tanto nel rapporto con i media, quanto con la Storia della modernità. A tal proposito, ritorniamo brevemente al movimento nassalita nell’India degli anni Sessanta. Anch’esso emerse a partire da, e in risposta a, dei processi di riorganizzazione globale che colpi- Mignolo 2000: 742. In questo senso si veda Hansen e Salskov-Iversen 2007. Sulla retorica del potere liberatorio dei nuovi media, si veda invece Mattelart 2003. 12 13 146 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 147 vano l’utilizzo della terra e l’organizzazione della forza-lavoro, nonché i sistemi di rappresentazione indigeni. E anche il loro manifestarsi corrispose cronologicamente all’implementazione delle politiche specifiche atte a legittimare e sostenere quei processi. E tuttavia, ciò che differenzia i nassaliti degli anni Sessanta da una parte e gli zapatisti messicani negli anni Novanta dall’altra è proprio la differente capacità di decodifica della propria condizione storica di subalternità. È chiaro che ci stiamo muovendo su una definizione di movimento sociale che non ne approfondisce le contraddizioni e differenze interne, né tantomeno si preoccupa di distinguere tra differenti livelli di consapevolezza dei differenti membri e sottogruppi che lo compongono14. E tuttavia, ciò che gli zapatisti avevano dalla loro era la conoscenza, per quanto parziale, di ciò che stava accadendo al di là della loro prospettiva locale, poiché comprendevano le esigenze organizzative che si celavano dietro discorsi universalistici sui benefici del libero mercato e dunque intuivano la dimensione spazio-temporale delle relazioni viscose nelle quali erano immersi e sulle quali intendevano intervenire. In questo senso, il sistema di rappresentazione dell’universalismo europeo, dalla prospettiva coloniale, mostrava limpidamente il proprio sciovinismo. E dunque, mentre l’atto di soggettivazione dei nassaliti restava al massimo entro il quadro normativo dello stato-nazione, quello degli zapatisti guardava allo spazio-tempo della modernità. Nel buco nero di materia collassata su se stessa che separa e allo stesso tempo mette in comunicazione il processo storico e le soggettività sociali che lo abitano, gli zapatisti poterono giocare d’anticipo, seppure di un tempo infinitesimale se stagliato sulla superficie increspata della lunga durata, poiché essi conoscevano le proprietà eteroriproduttive dell’atto normativo egemonico chiamato Nafta15. Nel collocarsi nello spazio-tempo della modernità, gli zapatisti assumono un riferimento esplicito alla storia coloniale e alle civiltà precolombiane. Tale riferimento non resta nascosto nel modo in cui essi ribaltano il valore negativo dell’epiteto coloniale, nel quadro del campo semantico assunto surrettiziamente come luogo di scontro simbolico, come i chola nella lettura di Quijano. Nel momento stesso in cui gli zapatisti insorgono, essi esordiscono affermando: «Siamo il prodotto di cinquecento anni di lotte». Su ciascuno di questi due punti si vedano le introduzioni ai rispettivi dibattiti in McAdam 1996 e Rubin 2004. Con il concetto di normatività eteroriproduttiva Spivak designa quella capacità delle strutture e dei discorsi egemonici di avviare e creare sistemi normativi flessibili, capaci a loro volta di generare nuovi ordini simbolici, afferenti comunque al medesimo rapporto di potere asimmetrico (Spivak cit. in Adamo 2005: 46-47). 14 15 147 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 148 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 149 (In) conclusione. Imparare a imparare dagli oppressi Se ci immaginiamo i lenti movimenti del camaleonte ancor più rallentati e, al contrario, i lenti movimenti prensili delle liane molto accelerati, scompare notevolmente per l’osservatore, mediante queste due procedure, la differenza tra i movimenti animali e i fenomeni di crescita delle piante Ernst Mach Erkenntnis und Irrtum Nel suo ultimo saggio, dedicato al culto moderno dei fatticci, Bruno Latour ci offre una prospettiva piuttosto originale sul rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza. Partendo dal presupposto che il conoscere un oggetto corrisponde in una certa misura a crearlo, egli utilizza la storia della conquista coloniale per spiegarci qualcosa sui conquistatori, gli europei, i moderni. La peculiarità dei moderni, per Latour, consiste nell’operare una distinzione tra il fatto, da un lato, e il feticcio dall’altro, ovvero la sostanza della storia dalla sua rappresentazione. La sua argomentazione tenta di mostrare l’artificiosità di tale separazione e la logica di subordinazione particolaristica in virtù della quale i moderni hanno definito i sistemi di rappresentazione altri in termini di idolatria, per affermare il potere dei propri idoli su un piano razionale. Egli ci racconta che Per definire i negri della costa della Guinea, i portoghesi (molto cattolici, esploratori, conquistatori, nonché mercanti di schiavi) avrebbero utilizzato l’aggettivo fetiço, participio passato del verbo fare, forma, figura, ma anche, artificiale, fittizio, e infine incantato. […] Le due radici indicano molto bene l’ambiguità dell’oggetto che parla, che si fabbrica, o che, per riunire in una sola espressione i due sensi, fa parlare1. In un dialogo immaginario, un indigeno prende la parola per chiedere la differenza tra il proprio idolo, il proprio feticcio, e le icone sante del cattolicesimo. Allo sprovveduto negro, il teologo, l’esperto, risponde che le pie immagini non sono nulla in se stesse, poiché non fanno che richiamare il ricordo del modello che, esso soltanto, deve essere oggetto di adorazione legittima, mentre i mostruosi idoli si pretenderebbero, erroneamente, allo stesso tempo manufatti e divinità (Latour 2005: 47). La scena, continua Latour, sarebbe piuttosto imbarazzante: dei popoli coperti di amuleti che deridono altri popoli coperti di amuleti. E infatti, una volta sfumata la distinzione tra immagini sacre e idoli, tra fatti e feticci, egli introduce il concetto ibrido di fatticcio. Latour prosegue attribuendo due diversi significati successivi al concetto di fatticcio; innanzitutto, egli afferma che anche l’antifeticista più convinto deve ammettere che, pur non avendo valore in sé, il feticcio produce l’effetto di istigare l’azione 1 Latour 2005: 46-47. 149 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 150 di colui che lo idolatra, senza che esso abbia fatto nulla per produrre questo effetto (Ivi, p. 52). La razionalità usata dai moderni per risolvere questo paradosso è irrazionale e contraddittoria: essi negano alle cose che fabbricano l’autonomia che donano loro o negano a coloro che li fabbricano l’autonomia che hanno dato loro. Pretendono di non essere superati dagli eventi. Ne vogliono conservare il dominio e trovarne l’origine nel soggetto pensante, che è origine dell’azione (Ivi, p. 108). Ovvero, essi fabbricano una forma di vita teorica che spieghi la separazione ch’essi stessi hanno creato. In un secondo momento, Latour utilizza il fatticcio per individuare quelle forme di conoscenza che emergono dalla pratica: «colui che agisce non ha il pieno controllo di quello che fa; apprende dalla mediazione» (Ivi, p.109). Per chiarire questo rapporto tra teoria e pratica lo studioso utilizza l’esempio della marionetta col suo burattinaio: Il burattinaio, pur interagendo fisicamente con la marionetta, la tiene, la domina. Ma supponiamo che sopraggiunga un secondo burattinaio a manipolare il nostro artista. Non mancheranno candidati: il linguaggio, l’habitus, lo spirito del tempo, la società, il paradigma, gli epistemi, gli stili. […] Ma questi agenti, per quanto li farete forti, verranno superati dal vostro marionettista, come egli è superato dalla sua marionetta. […] Al posto di una catena causale che trasmetterebbe una forza, che attualizzerebbe un potenziale, che realizzerebbe una potenzialità, non otterrete mai altro che dei leggeri superamenti. Sì, degli eventi2. Se immaginiamo una teoria come il marionettista e un fenomeno storico-sociale come la marionetta, è facile intuire il senso della metafora di Latour. Allo stesso modo, se utilizziamo questa metafora per rappresentare il rapporto tra una prospettiva storico-sociale e un movimento sociale, il quadro nebuloso e trascendente delle parole di Latour si schiarirà fino a mostrarsi nitido, se ci aiutiamo ritornando istantaneamente alla relazione morfogenetica tra Subaltern Studies indiani e radicalismo contadino, tra De-Colonial Studies e movimento indigeno, tra le due prospettive teoriche, l’una rispetto all’altra. Dapprima l’impasse di fronte al prodotto contraddittorio della storia coloniale rispetto a una forma di vita; in seguito il ribaltamento del medesimo concetto (indigeno, subalterno) nella pratica dei movimenti sociali, nella pratica della teoria sociale; il ritorno alla realtà storica dotati di strumenti trasformati; un nuovo limite. E negli interstizi, nelle discrepanze, nelle sincopi e nelle increspature tra il concetto, la rappresentazione coloniale, la pratica politica e retorica dei movimenti, la loro autorappresentazione, l’insufficienza di quest’ultima di fronte all’eterogeneità della realtà, e ancora il suo eccedere la realtà stessa che intende rappresentare una volta al cospetto di un discorso egemonico dalle coordinate spazio-temporali sistemiche, si annidano e germogliano quei leggeri superamenti il cui emergere dissolve nella pratica del pensare i confini tra teoria e fatto, tra saperi e processi. «Le differenze non sono mai lì per essere rispettate, ignorate o sottomesse, ma per servire da esca ai sentimenti, da nutrimento al pensiero» (Ivi, p. 112). Allora, questa narrazione di cui abbiamo imparato a decodificare la componente coloniale cela ancora delle insidie. Il disegno globale dell’egemonia europea parlava attraverso un discorso (la Storia) a sostegno di un progetto (la Modernità occidentale) che rispondeva alle esigenze di un particolare gruppo di eterosessuali maschi anglofoni cristiani bianchi. Ferirsi sui rovi spuntati sul ciglio dei sentieri religiosi, etnici, di genere, di orientamento sessuale e di classe che attraversano movimenti, discorsi e prospettive che immaginiamo radicali, di resistenza, di liberazione, significa, oggi, persistere nel praticare il culto moderno di imparare a imparare dagli oppressi. 2 Ivi, p. 110. 150 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 151 Bibliografia Articoli Alam, J., Peasantry, Politics, and Historiography: Critique of New Trends in Relation to Marxism, «Social Scientist», Vol. 11 No. 2, 1983, pp. 43-54. Pubblicato in Ludden, D. op. cit. 2002, pp. 43-58. 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Duffield, Mark 127 Dumont, Louis 89, 90 Dussel, Enrique 111n, 120, 125, 136 Eagleton, Terry 79, 87n Elwin, Verrier 85, 86n Engles, Friedrich 88 Ercolessi, Maria C. 127, 137 Escobar, Arturo 12, 89, 130-131, 137 Evans-Pritchard, Edwan E. 87, 87n Fabian, Joan 131-132 Fals-Borda, Orlando 136 Fanon, Franz 42-43, 98, 114n, 115, 138 Fernández Retamar, Roberto 129-131 Feyerabend, Paul K. 17, 17n, 87 Foucault, Michel 79, 122, 124, 88 Frank, Andre Gunder 26n, 30n, 42, 106, 115, 136 Freire, Paulo 142n Friedman, Harry 30n, 70n Fuentes, Carlos 114, 143n Fukuyama, Francis 39 Gabaccia, Donna 142 Gallagher, John 51 Gallino, Antonio 90n Gandhi Mohandas, Karamchand 52, 61-62 García Márquez, Gabriel 110, 114, 121n Gargani, Aldo 57n, 73n Geertz, Clifford 26 Gentile, Giovanni 78n Gandhi, Indira 49, 68, 72n Abdel-Malek, Anouar 135, 135n Adamo, Sergia 147n Adas, Michael 27, 61n Aguilar, Juan Zevallos 104 Ahmad, Aijaz 40, 40n, 100, 106, 118, Alam, Javeed 56 Althusser, Louis 32, 79 Alvarez, Mario 113, 139 Ankersmith, Frank Rudolf 71 Antonius, George 98 Appelbaum, Richard P. 114 Arias, Arturo 117, 118 Aricó, José 107, 108 Arnold, David 52, 53, 58, 58n, 59, 59n, 61, 61n, 69n, 86n Arrighi, Giovanni 14n, 26n, 35, 42, 89, 117n, 127, 132, 136, 137 Aschcroft, William 97 Ascione, Gennaro 9, 84 Assmann, Aleinda 83 Azad, Talal 87 Bahl, Vinay 49, 84, 89, 90n Baratta, Giorgio 24 Barthes, Roland 82, 82n Benveniste, Emile 82 Berger, Michael T. 29, 32, 36 Berger, John 47 Bernal, Martin 127n Bernier, Francoise 86 Beteille, André 89, 90n Beverley, John 49, 106, 109, 122, 123, 123n Bhadra, Gutam 57, 57n, 58, 58n, 64, 64n Brennan, Timothy 53n Brenner, Robert 85 Bukowski, Charles 11 Cabral, Amilcar 32 Calderon, Fernando 113n, 119 Callahan, Marc 49 Calleo, David 56, Canclini, Nestor G. 107, 109, 109n, 119 Cardoso, Fernando H. 106, 115n, 143n Carrasco, Pedro 87 Cartesio (Descartes, René) 57n Castro, Fidel 114n 170 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 171 Myrdal, Gunnar 29 Nasser, Gamal Abd el 29-32 Nehru, Jawaharlal 29, 30, 32, 49, 51, 52, 61, 62, 62, 69n, 85, 86n Nixon, Richard 35 Nkrumah, Kwame 31, 31n, 34, 34n, 42, 108 Nyerere, Julius 32-33 O’Hanlon, Rosalin 49, 97 Ortiz Fernández, Fernando 110, 119 Pagden, Anthony 131-133 Pandey, Gyandera 52, 53, 58n, 61, 62, 62n, 81n, 86n Paracelso (von Hohenheim, Philippus Aureolus) 17-18 Pocock, John Greville Agard 39, 39n, 124 Prakash, Gyan 49, 72n Prebisch, Raul 26, 33, 125 Quijano, Anibal 106, 107n, 114, 133-141, 144, 147 Rama, Angel 110, 117, 122 Reagan, Ronald 37 Rodó, José Enrique 107, 107n Rodriguez, Ileana 106, 113n, 116, 117, 117n, 120, 121 Rossi, Paolo 83 Rostow, Walter Witmann 28 Said, Edward 16-17, 23, 23n, 30, 31n, 87, 87n, 96-100, 106, 109, 118, 120, 125, 131-132 San Juan, Epifanio 31-32 Sarkar, Sumit 71n, 97 Sarkar, Tanita 62-63 Sauvy, Alfred 25-26 Seal, Anit 51, 52 Seed, Patricia 109, 113n, 114, 118, 119, 119n Sereni, Emilio 86n Shakespeare, William105n Sofri, Gianni 86n, 87n, 115n Spivak, Gayatri Chakravorti 14n, 17, 79, 84, 96, 96n, 101-102, 109-111, 118, 123, 126, 133, 147n Stalin (Vissarionovič Džugašvili, Iosif) 30, 32, 71, 109n Stiglitz, Joseph 37n Strange, Susan 35 Suharto, Haji Mohammad 30 Sukarno (Sosrodihardjo, Kusno) 29, 30, 32 Thompson, Edward Palmer 81, 95, 99 Toye, John 25 Troisi, Massimo 11 Trotsky (Davidovič Bronštejn), Lev 108 Vidal, Hernán 118, 120 Vilas, Carlos 116, 116n, 120 von der Walde, Erna 121 von Humboldt, Alexander 132-133 Wade, Robert 37n Wallerstein, Immanuel 24n, 26n, 27, 28n, 86n, 117n, 122, 134, 144, Weber, Eugen 81 Weber, Heloise 41 Weber, Max 84n Whyte, Hyden 15-16, 78n, 110 Williams, Raymond 33n, 79 Worsley, Peter 25, 26 Young, Robert 9, 11, 11n, 33, 42, 79-80, 130 Zasulich, Vera 77n Zea, Leopoldo 120, 125, 136, 140 Gheddafi, Mu’hammar 31, 32 Giddens, Anthony 105 Gilroy Paul 31, 117n, 130 Godelier, Marc 87 Goldthorpe, John 25 Ghosh, Sankar 74n Gramsci, Antonio 97n, 107-108 Gray, Jack 30n Grosfoguel, Ramon 13, 104, 105, 118, 133n, 140, 140n Guevara, Ernesto 32, 32n, 42-43, 116 Ranajit, Guha 13, 18, 52-60, 67-70, 72n, 77-79, 81-90, 95, 97-102, 110-111, 113n, 119-120, 123, 134n, 137 Hardiman, Thomas 52, 53, 86n Harvey, David 39n, 40, 79, 89, 103n, 144 Heidegger, Martin 74, 74n, 75 Henningam, David 63, 64, 86n Ho Chi Minh 29 Hobsbawm, Eric 27, 34, 55, 55n, 78, 78n, 85, 88n, 124 Hopkins, Terence Kilbourn 117, 137n Horkheimer, Max 12 Hutnyk, Peter 84 Inkeles, Alexander 28 James, Cyril Lionel Robert 98 Jameson, Frederic 39-40, 100, 111n, 124 Kontopoulos, Kyriakos M. 14n Kuhn, Thomas 24 Lafitau, Jean Francois 132 Lakatos, Imre 54n Lander, Edgardo 115, 115n, 116 Latham, Michael 28n, 32, 89 Latour, Bruno 149-150 Lee, So-Hoon 118n Lenin (Il’ič Ul’janov), Vladimir 32, 43, 76n, 84n, 85n, 108 Lentini, Orlando 84n, 89 Ludden, David 94, 95 Lyotard, Francoise 87n, 124 Mandelbrot, Benoit 16, 16n Mao Tse-tung 30, 32, 72, 74n Marcos 145 Mariátegui, José Carlos 107-109, 114, 125, 129, 135, 141n Martí, José 107, 107n, 129 Marx, Karl 108, 109n, 111 Mattelart, Armand 146n Mazumdar, Charu 74-78 Mazzei, Franco 85 McMichael, Philip 9, 15, 18, 33, 34, 36, 41, 69, 70n, 71n, 90, 103, 115 Meillassoux, Claude 87, 89, 90n Mellino, Miguel 42 Mellon, Florencia 53, 101, 113-114 Menchú, Rigoberta 117-118 Mendieta, Edoardo 103-105, 114, 120, 120n, 121 Merker, Nicolao 17 Mezzadra, Sandro 10, 12, 24, 79, 84, 100 Mignolo, Walter 13n, 105n, 111n, 113n, 115, 119, 119n, 120-126, 129-131, 133, 137-138, 145-146 Minolfi, Salvatore 39 Moore, Barrington 89-90 Moreiras, Alberto 113n, 119n, 122, 122n, 125-126, 133 171 A SUD DI NESSUN SUD:Layout 1 12/2/09 12:16 PM Pagina 172 Abstract / Being south of no South What is the nature of the relationship between anti-colonial social movements and the emergence of radical analytic perspectives such as subaltern studies, postcolonial studies e decolonial studies? Being south of no South addresses the connections linking these perspectives whose main contribution as a whole can be described as a representation of modernity as constituted by the continuous but asymmetrical interaction between colonizer and colonized peoples, in a reciprocal mode. Such an intellectual history takes place within the context of the demise of the belief in progress as the final result of the historical change and the break-up of those political organizations which had been giving shape to radical anti-systemic movements since the XIX century. The theoretical aim is to move across different disciplines and fields of knowledge, from Intellectual History, to History of Ideas, to Economic History, to History of Social Movements, in order to connect those discourses to social groups, historical experiences and cultural expressions which had been excluded and marginalized, both politically and theoretically, from the eurocentric picture of modern world. Main focus is on the creative tension between the anti-foundational theoretical bias these research perspectives are endowed with and the political interest in the very mobilizing power of specific “subaltern” movements of resistance, namely naxalite, zapatistas, seringueiros, sem terra. The debate over subalternity in India and its reformulation in Latin America is to be contextualized within the scenario of the draining process of thirdworldism as a political project, and Third World as geo-historical imaginery. This book criticizises the idea of the cohesion of either Third World as a construction, or thirdworldism as a political horizon, or latter’s lately avatars, namely the idea that today global capitalism is actually threatened by a collective entity named Global South. What emerges from such a platform is thus the limits of emancipation project of decolonization during XX century; such limits were actually part of the DNA of national liberation movements and the elite which came to power starting from the end of World War II. Against such failures, in fact, those social movements postcolonialism refers to, represent experiments in difference. This critique is articulated within four main topoi of knowledge production, where the concept of “difference” is the file rouge moving through them, outlined as follows. 173 Fanon vs Nkrumah - As per Nkrumah, anticolonialism brought about by National liberation movements was antithetic to neo-colonialism, since the indigenous roots of the ruling elites was a self-evident warranty of loyalty to colonial peoples. This position was clearly unsatisfactory for Fanon, which based his early understanding of decolonization onto the idea that different social strata always entail asymmetrical and heterogeneous relations to the state power, even within post-independence state, regardless of the indigenity factor. For Fanon third-world nationalism was but a transitory moment, whose final collapse was the actual antidote against the palingenesis of colonial domination over subaltern colonial subjects. Fanon was thus anticipating the critique of the two-steps theory brought to the forefront by the movements of 1968 against both Western and Easter European Marxist parties. If we observe it from the colonial difference, the destabilization of European Marxism clearly appears to move from the former colonies towards the metropolis, articulating its development along the colonial fault which cuts across antisystemic movements from the ’60s onwards. Guevara’s contribution - At the margins of the Tricontinental Conference meetings at l’Havana in 1966, where, as Young maintains, dissenting discourses from the West met the experience of anti-colonial struggles, Guevara wrote his Apuntes critìcos a la economia politica (published in 2006). Here he puts Marxism and its dogma under severe scrutiny through the lent of historical difference of colonial world. From the colonial difference within which Guevara had been thinking from (as Mignolo would formulate it), both Marx and Lenin showed their own limits in knowledge, interpretation, comprehension. The picklock Guevara uses to unhinge Marxist categories (as Mao had done during the 20 years long Yunan insurgency) consists of the methodical intromission of historical difference specific to the colonial world, within the living tissue of Marxist discourse. National liberation movement vs naxalite guerrilla - As Guha has recently stated, Subaltern Studies Group young researchers meant to be part and parcel of their time, thinking of their project as “a son of experience educated in theory”. In fact their experience as radical intellectuals had been deeply influenced by the the naxalite struggle in the 1970s, in at least two intertwined ways. The first is the transalation of the so called “annihilation line” (kathama) tehorized by Mazumdar into the concept of symbolic violence as deployed by Guha. The second is the inter-generational critique to the failure of Indian nationalist project and the disillusionment with the myth of the organic participation of rural masses to ghandism. Subaltern historiography on peasant revolts explicits a line of continuity between pre-colonial, colonial and post-independence rural struggles: violence as the proper locus of difference and autonomy of subaltern groups against respectively Moghul empire, British colonialism, postcolonial state. Indigenous movements vs diasporas - The critical dialogue between Postcolonial and Decolonial perspectives is crucial to operate a theoretical displacement within Postcolonialism itself. The claim to define the new figures of subalternity coagulates into a different understanding of space in conceptualizing the multiple forms of resistance to hegemony today. Basically, Postcolonial Studies focuse on migrations and diasporas, assuming their centrality as the new cornerstone in the representation of modernity; while Decolonial Studies focuse on indigenous movements which set the resistance to mobility at the core of their political ecology. 174 The continuous derapage of subalternity as a concept within Postcolonialism, and within the geohistorical space we use to refer to in terms of Global South, poses the question of the actual cohesion of such a South and its adequacy in filling the vacuum left by the twilight of the concept of Third World. Thus, not only the attack on Eurocentrism dismantles the performative, and not ontologic, nature of the North as iperreal construction; but subaltern, decolonial critique to postcolonialism itself disarticulates the hologram of a Global South, endowing critical thought with the renewed generative and political radicalism coming from a multiplicity of concrete ‘souths’. In other words, the cone of shadow projected by the chimera of a Global South is swarming with souths, that is, the many transient TROPI where biopolotics of capital materialize. Western theory learning from Third-World movements is quite a familiar image to Western Left, telling the story of how the lived experience of anti-colonial struggles is able to suggest new forms of conceptual production to Western antisystemic movements and its intellectuals. But such a presumed relationship between theory and praxis, articulated within the global space as a historical scenario, ends up in but reproducing a well known XX century intellectual hierarchy where theory tends to be conceived as prerogative of the West, while praxis would belong to the Third World. But, thinkers as Franz Fanon and Ernesto Guevara do undermine exactly such a tacit hierarchy. Their interventions have to be deeply understood as a powerful irruption into White Man’s temple: theory. We can read their mode of critique by using the formula Deleuze had been creating in the same year of the genesis of the Apuntes: “a difference without negation. because difference, not being subordinated to the identical, would never arrive, or would never need to arrive until the opposition or even until the contradiction”. Here Postcolonialism can be thus assumed as a step forward in the direction of the overcoming of XIX century social science as proposed by Wallerstein and the Gulbenkian Commission. The proper image to describe the story line of this book is provided by Said’s essays on travelling theories: discourses which move within the spaces of modernity and get changed from those spaces, by transforming the spaces themsleves. The methodological proposal to study these phenomena which tie historical experiences, social movements and knowledge production consists in intertwining anti-positivist philosophy of history with radical constructivism in philosphy of science, and, at the same, incorporating epistemological code of the Sciences of life within the discourse of historical and social sciences. Here the interdisicplinary tension towards the paradigm of complexity locate III Millenium researcher on the threshold of the continent of the reciprocal contamination of gnoseologic languages. 175 Finito di stampare nel mese di dicembre da Editografica (Bologna) I LIBRI DI EMIL www.ilibridiemil.it