transfeminist research
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Le sezioni transgender in carcere: una sfida al binarismo penitenziario In questo contributo analizzeremo le esperienze delle detenute transgender intervistate nelle sezioni protette degli istituti di Belluno e Poggioreale (cfr. par.... more
Le sezioni transgender in carcere: una sfida al binarismo penitenziario
In questo contributo analizzeremo le esperienze delle detenute transgender intervistate nelle sezioni protette degli istituti di Belluno e Poggioreale (cfr. par. 4.3). Come un’ampia letteratura internazionale ha rilevato, soprattutto in ambito anglosassone (Bosworth, 1999, 2017; Bosworth, Carrabine, 2001; Bosworth, Kaufman, 2012; Oparah, 2010; Pemberton, 2013; Rosenblum, 2000; Edney, 2004; Buist, Stone, 2014; Stanley, Smith, 2011), dove l’intreccio tra attivismo, ricerca accademica e teorie femministe è molto più avanzato che in Italia, le persone transgender subiscono lungo tutto l’arco della loro vita un continuum di violenza di genere sistemica, istituzionale e culturale, che le vede lottare contro una normatività eterosessuale incapace di riconoscerle come soggettività (del diritto e della cittadinanza) a pieno titolo. La non intelligibilità delle soggettività transgender nei sistemi giuridici occidentali segnati dall’eteronormatività si riflette in una serie di processi di discriminazione, patologizzazione, medicalizzazione ed esclusione che provocano dei paradossi ancora lontani dall’essere risolti. Come vere e proprie cartine di tornasole, infatti, le persone transgender fanno emergere con nitidezza le contraddizioni di un sistema giuridico fondato su una presunta neutralità a cui è sotteso in realtà un paradigma normativo di genere non solo binario ma eterosessuale, dove il maschile resta sempre la norma e le altre identità di genere risultano di fatto residuali. Tale sistema però funziona come un prisma intersezionale, esercita cioè una serie di dispositivi di discriminazione e gerarchizzazione che si muovono lungo la linea del genere, del colore, dell’abilità, della provenienza ecc. Linee, segmenti di controllo e disciplinamento che investono il corpo – i corpi – incarnati, e a cui gli stessi corpi resistono attraverso strategie che non si limitano alla mera sopravvivenza nelle pieghe di un mondo incapace di includerli e riconoscerli, ma ne mettono in crisi la stessa definizione dei confini epistemologici, cognitivi, giuridici, culturali e così via. In altre parole, i corpi e le soggettività transgender “sfidano” i codici eteronormativi per il solo fatto di esserci e di esercitare un’agency nel definire un’identità che è strutturalmente ed istituzionalmente non riconosciuta. Se però ad essere negata è l’agency che determina la rivendicazione di esistere in quanto corpi non conformi, allo stesso tempo il dispositivo eterosessuale non può negarne l’esistenza in sé, ed opera quindi strategie di inferiorizzazione e infantilizzazione che costruiscono di fatto le soggettività trans come soggettività patologiche, anormali, da correggere, e di cui il potere medico e giuridico si fanno carico per renderle compatibili.
Questo paradigma, in bilico tra il paternalismo e la violenza eteronormativa, si dispiega con maggiore acutezza all’interno del carcere, un campo fondato su rigidi codici binari di genere ed essenzialisti, per cui le identità di genere dei e delle detenute si definiscono in base alla corrispondenza con il cosiddetto sesso biologico. Come vedremo, questo limbo giuridico si traduce per le persone trans detenute in un vero inferno, dove la violenza sistemica esperita al di fuori delle mura si intensifica sia da parte degli altri detenuti che da parte degli agenti penitenziari, spesso del tutto impreparati a riconoscere, ancora una volta, la piena esistenza di questi corpi e di queste identità (cfr. cap. 6, infra). In questo senso le teorie transfemministe e intersezionali riconoscono nell’incompatibilità delle soggettività transgender un potenziale di resistenza intrinseco, che interroga la norma eterosessuale dentro e fuori dalle mura del carcere, ne illumina le contraddizioni, e costringe il sistema giuridico e penale a fare i conti con la questione dell’agency come processo di soggettivazione legato alla scelta della propria identità di genere.
In questo contributo analizzeremo le esperienze delle detenute transgender intervistate nelle sezioni protette degli istituti di Belluno e Poggioreale (cfr. par. 4.3). Come un’ampia letteratura internazionale ha rilevato, soprattutto in ambito anglosassone (Bosworth, 1999, 2017; Bosworth, Carrabine, 2001; Bosworth, Kaufman, 2012; Oparah, 2010; Pemberton, 2013; Rosenblum, 2000; Edney, 2004; Buist, Stone, 2014; Stanley, Smith, 2011), dove l’intreccio tra attivismo, ricerca accademica e teorie femministe è molto più avanzato che in Italia, le persone transgender subiscono lungo tutto l’arco della loro vita un continuum di violenza di genere sistemica, istituzionale e culturale, che le vede lottare contro una normatività eterosessuale incapace di riconoscerle come soggettività (del diritto e della cittadinanza) a pieno titolo. La non intelligibilità delle soggettività transgender nei sistemi giuridici occidentali segnati dall’eteronormatività si riflette in una serie di processi di discriminazione, patologizzazione, medicalizzazione ed esclusione che provocano dei paradossi ancora lontani dall’essere risolti. Come vere e proprie cartine di tornasole, infatti, le persone transgender fanno emergere con nitidezza le contraddizioni di un sistema giuridico fondato su una presunta neutralità a cui è sotteso in realtà un paradigma normativo di genere non solo binario ma eterosessuale, dove il maschile resta sempre la norma e le altre identità di genere risultano di fatto residuali. Tale sistema però funziona come un prisma intersezionale, esercita cioè una serie di dispositivi di discriminazione e gerarchizzazione che si muovono lungo la linea del genere, del colore, dell’abilità, della provenienza ecc. Linee, segmenti di controllo e disciplinamento che investono il corpo – i corpi – incarnati, e a cui gli stessi corpi resistono attraverso strategie che non si limitano alla mera sopravvivenza nelle pieghe di un mondo incapace di includerli e riconoscerli, ma ne mettono in crisi la stessa definizione dei confini epistemologici, cognitivi, giuridici, culturali e così via. In altre parole, i corpi e le soggettività transgender “sfidano” i codici eteronormativi per il solo fatto di esserci e di esercitare un’agency nel definire un’identità che è strutturalmente ed istituzionalmente non riconosciuta. Se però ad essere negata è l’agency che determina la rivendicazione di esistere in quanto corpi non conformi, allo stesso tempo il dispositivo eterosessuale non può negarne l’esistenza in sé, ed opera quindi strategie di inferiorizzazione e infantilizzazione che costruiscono di fatto le soggettività trans come soggettività patologiche, anormali, da correggere, e di cui il potere medico e giuridico si fanno carico per renderle compatibili.
Questo paradigma, in bilico tra il paternalismo e la violenza eteronormativa, si dispiega con maggiore acutezza all’interno del carcere, un campo fondato su rigidi codici binari di genere ed essenzialisti, per cui le identità di genere dei e delle detenute si definiscono in base alla corrispondenza con il cosiddetto sesso biologico. Come vedremo, questo limbo giuridico si traduce per le persone trans detenute in un vero inferno, dove la violenza sistemica esperita al di fuori delle mura si intensifica sia da parte degli altri detenuti che da parte degli agenti penitenziari, spesso del tutto impreparati a riconoscere, ancora una volta, la piena esistenza di questi corpi e di queste identità (cfr. cap. 6, infra). In questo senso le teorie transfemministe e intersezionali riconoscono nell’incompatibilità delle soggettività transgender un potenziale di resistenza intrinseco, che interroga la norma eterosessuale dentro e fuori dalle mura del carcere, ne illumina le contraddizioni, e costringe il sistema giuridico e penale a fare i conti con la questione dell’agency come processo di soggettivazione legato alla scelta della propria identità di genere.
Introduzione In questo contributo traccerò una genealogia parziale dei dibattiti teorici tra le prospettive femministe, transfemministe, intersezionali e queer nel campo (della critica) del diritto, della criminologia e della sociologia... more
Introduzione In questo contributo traccerò una genealogia parziale dei dibattiti teorici tra le prospettive femministe, transfemministe, intersezionali e queer nel campo (della critica) del diritto, della criminologia e della sociologia della punizione, rispetto ai processi di criminalizzazione, vittimizzazione e alle forme di resistenza soggettiva e collettiva. Tali dibattiti si fondano dal punto di vista epistemologico e politico su alcuni assunti centrali per il femminismo nel suo complesso: la definizione di identità, la soggettivazione, il rapporto tra corpo e norma, il genere. In campo criminologico femminista queste concettualizzazioni si declinano differentemente a seconda del posizionamento e della lettura che si dà all'esperienza (Scott, 1992), uno dei fondamenti dell'epistemologia femminista in campo sociologico, giuridico, politico e criminologico. L'esperienza è il "processo di soggettivazione con cui, per tutti gli esseri sociali, viene costruita la soggettività", attraverso la quale "ognuno si posiziona o è posizionato nella realtà sociale e in questo modo percepisce e comprende come soggettive le relazioni materiali, economiche e interpersonali-che sono a tutti gli effetti sociali e in una prospettiva più ampia, storiche" (De Lauretis, 1984: 159, trad. mia). I femminismi, fondandosi sull'esperienza soggettiva che costituisce l'elemento di riconoscimento per un "noi", sono prospettive epistemologiche che attraversano continuamente i confini dei campi del sapere. La cosiddetta rivoluzione epistemologica femminista scaturisce da una prima mossa che scompagina gli ordini discorsivi dei paradigmi classici, sdoppiando quel soggetto molare, universale e presunto neutro dei sistemi scientifici e giuridici occidentali in un due, aggiungendo il soggetto "donna" come corpo incarnato e sessuato che ha costituito da sempre l'altra rispetto al cittadino, al soggetto del sapere e del diritto. Con questa mossa, che in sé contiene la parzialità e il posizionamento del soggetto-donna in un'esclusione ontologica dal regime dell'intellegibilità moderna, i femminismi si fondano dunque nei processi immanenti di esclusione, discriminazione, vittimizzazione simbolica e materiale delle donne. Come dice De Lauretis, questi processi coinvolgono i sistemi giuridici, politici, economici, sociali, e la loro analisi non può che attraversarne i campi individuando i dispositivi che hanno contribuito e contribuiscono alla loro formazione e al loro mantenimento. In particolare, per quanto riguarda lo studio della produzione normativa, della sua funzione performativa, delle relazioni sociali governate dalle diverse forme di controllo, disciplinamento e incorporamento delle norme, la distinzione classica delle scienze sociali positiviste perde definitivamente di significato : le teorie femministe si collocano costitutivamente altrove, perché la loro genealogia scaturisce dalla e nella critica alle stesse, e colpisce l’ordine epistemologico su cui si reggono i paradigmi classici e rovesciandone definitivamente la prospettiva, i soggetti, la contestualizzazione. Parlare di processi di criminalizzazione e vittimizzazione delle identità di genere e degli orientamenti sessuali, di intersezionalità e attivismo transfemminista non ha solo a che fare con la definizione e la decostruzione del crimine, della condizione femminile o LGBTQI, delle norme sociali e giuridiche che ne compongono la cornice, ma coinvolge anche la formulazione del lessico stesso che si utilizza per nominare questi fenomeni, la ricostruzione genealogica dei processi di definizione e di soggettivazione; in altre parole riguarda il sovvertimento dei fondamenti delle scienze positiviste, se per esse si intendono procedimenti conoscitivi astratti, avalutativi e neutrali.
Come vedremo, all’interno delle prospettive dibattiti femministi si intrecciano molteplici piani di analisi: quello simbolico, quello materiale, quello giuridico, quello medico, quello politico e delle pratiche. I rimandi teorici tra teorie giuridiche, criminologiche e filosofiche nelle prospettive femministe sono inevitabili, e proverò a ricostruirne una parte utile a comprendere alcuni aspetti essenziali del contesto attuale. Inizierò descrivendo la famosa "tripartizione" delle prospettive femministe criminologiche e giuridiche elaborata da Carol Smart nel 1992. Smart è una sociologa e criminologa femminista che ha avuto il merito di interrogare per prima la criminologia – anche quella critica – a partire dalla forclusione del genere come categoria analitica (e non mera variabile) dagli studi sui processi di criminalizzazione e vittimizzazione. Il suo sguardo è, quindi, ancora una volta interno e immanente alla stessa elaborazione delle prospettive femministe, di cui ha determinato attivamente gli sviluppi e le articolazioni. Nella sua tripartizione, Smart distingue tre tipologie di femminismo storico le cui differenze si fondano su diverse modalità di descrizione del rapporto tra uguaglianza e differenza, genere, diritto, vittimizzazione: quello liberale, quello radicale e quello postmoderno.
Mi concentrerò poi, prendendo spunto da questa tripartizione, sui rapporti (conflittuali) che sono intercorsi tra quello che Smart chiama femminismo radicale e quello postmoderno: è infatti proprio nel conflitto scaturito sull'affermazione essenzialista della soggettività "Donna" del femminismo radicale che si incistano le varie articolazioni di quello che Smart definisce femminismo postmoderno: black, intersezionale, transfemminista e queer. Queste prospettive affrontano i presupposti epistemologici dell'ondata radicale degli anni '70, prevalentemente composta da donne bianche anglosassoni, da differenti posizionamenti spesso intrecciati tra loro. Ciò che in questa sede rileva, è che si tratta di nodi che interrogano direttamente la definizione dell'identità come processo di soggettivazione, a partire dalle esperienze incarnate di donne di colore e attiviste LGBTQ che trovano nella Sisterhood e nella Womenhood radicale un'aporia costitutiva, e cioè l'affermazione di una soggettività unica fondata sulla presunta esperienza comune di oppressione da parte del patriarcato: la Donna.
Il contributo dato dall'elaborazione teorica post-strutturalista di Foucault rispetto ai regimi di disciplinamento e agli ordini discorsivi, la formulazione del paradigma intersezionale di Crenshaw e i successivi lavori di Butler sulla performatività negli anni '80 e '90 costituiscono una vera rivoluzione epistemologica che permette di scomporre il soggetto unico "Donna" e di rivendicare le differenze tra donne fondate sulle diverse forme di oppressione che corrono sulla linea del colore, dell'orientamento sessuale, dell'identità di genere e della classe. Attiviste e studiose transgender, queer, di colore impongono una revisione dei presupposti stessi del femminismo radicale, aprendo a nuove prospettive epistemologiche e politiche che incidono sulla comprensione e l'interpretazione dei rapporti di potere e delle forme di vittimizzazione e criminalizzazione sociali e giuridici all'interno del paradigma (etero)patriarcale e del continuum di violenza di genere che questo produce nelle vite e sui corpi che non contano. Un continuum che attraversa anche il carcere come istituzione e paradigma della società, fondato non solo sul genere binario, ma anche sulla gerarchizzazione delle mascolinità, sulla razzializzazione e esclusione sociale di quei soggetti che ancora vengono marginalizzati dal nesso costitutivo tra neoliberismo e eteropatriarcato. In questo contesto, dal superamento dell'idea di soggettivazione come processo comune di vittimizzazione delle donne operato dai femminismi trans, intersezionali e queer, si è sviluppato il concetto di identità transgender come identità resistente elaborato dalla teorica transfemminista Oparah e ripreso da altre studiose negli ultimi anni.
Nel "Complesso carcerario industriale" (PIC – Prison Industrial Complex) costruito sulle fondamenta delle politiche neoliberiste degli anni '80 e sulle violente guerre sociali ingaggiate contro le marginalità fino ad oggi (dalla "War on Drugs" alla guerra alla criminalità, fino alla guerra al terrore), le persone transgender, queer, non conformi, di colore, disabili, povere sono state il bersaglio delle strategie di controllo, neutralizzazione e imprigionamento che costituisce l'altra faccia della medaglia del continuum di violenza di genere strutturale che subiscono nella quotidianità. Come vedremo, a questo vero e proprio processo sistemico di neutralizzazione delle diversità le comunità queer e transgender di colore hanno risposto, negli Stati Uniti e in Canada dove queste politiche si sono dispiegate con particolare recrudescenza, creando movimenti abolizionisti radicali con l'obiettivo non tanto di riformare, quanto di abbattere dalle fondamenta il sistema carcerario e la sua razionalità razzista, sessista e neoliberale.
Come vedremo, all’interno delle prospettive dibattiti femministi si intrecciano molteplici piani di analisi: quello simbolico, quello materiale, quello giuridico, quello medico, quello politico e delle pratiche. I rimandi teorici tra teorie giuridiche, criminologiche e filosofiche nelle prospettive femministe sono inevitabili, e proverò a ricostruirne una parte utile a comprendere alcuni aspetti essenziali del contesto attuale. Inizierò descrivendo la famosa "tripartizione" delle prospettive femministe criminologiche e giuridiche elaborata da Carol Smart nel 1992. Smart è una sociologa e criminologa femminista che ha avuto il merito di interrogare per prima la criminologia – anche quella critica – a partire dalla forclusione del genere come categoria analitica (e non mera variabile) dagli studi sui processi di criminalizzazione e vittimizzazione. Il suo sguardo è, quindi, ancora una volta interno e immanente alla stessa elaborazione delle prospettive femministe, di cui ha determinato attivamente gli sviluppi e le articolazioni. Nella sua tripartizione, Smart distingue tre tipologie di femminismo storico le cui differenze si fondano su diverse modalità di descrizione del rapporto tra uguaglianza e differenza, genere, diritto, vittimizzazione: quello liberale, quello radicale e quello postmoderno.
Mi concentrerò poi, prendendo spunto da questa tripartizione, sui rapporti (conflittuali) che sono intercorsi tra quello che Smart chiama femminismo radicale e quello postmoderno: è infatti proprio nel conflitto scaturito sull'affermazione essenzialista della soggettività "Donna" del femminismo radicale che si incistano le varie articolazioni di quello che Smart definisce femminismo postmoderno: black, intersezionale, transfemminista e queer. Queste prospettive affrontano i presupposti epistemologici dell'ondata radicale degli anni '70, prevalentemente composta da donne bianche anglosassoni, da differenti posizionamenti spesso intrecciati tra loro. Ciò che in questa sede rileva, è che si tratta di nodi che interrogano direttamente la definizione dell'identità come processo di soggettivazione, a partire dalle esperienze incarnate di donne di colore e attiviste LGBTQ che trovano nella Sisterhood e nella Womenhood radicale un'aporia costitutiva, e cioè l'affermazione di una soggettività unica fondata sulla presunta esperienza comune di oppressione da parte del patriarcato: la Donna.
Il contributo dato dall'elaborazione teorica post-strutturalista di Foucault rispetto ai regimi di disciplinamento e agli ordini discorsivi, la formulazione del paradigma intersezionale di Crenshaw e i successivi lavori di Butler sulla performatività negli anni '80 e '90 costituiscono una vera rivoluzione epistemologica che permette di scomporre il soggetto unico "Donna" e di rivendicare le differenze tra donne fondate sulle diverse forme di oppressione che corrono sulla linea del colore, dell'orientamento sessuale, dell'identità di genere e della classe. Attiviste e studiose transgender, queer, di colore impongono una revisione dei presupposti stessi del femminismo radicale, aprendo a nuove prospettive epistemologiche e politiche che incidono sulla comprensione e l'interpretazione dei rapporti di potere e delle forme di vittimizzazione e criminalizzazione sociali e giuridici all'interno del paradigma (etero)patriarcale e del continuum di violenza di genere che questo produce nelle vite e sui corpi che non contano. Un continuum che attraversa anche il carcere come istituzione e paradigma della società, fondato non solo sul genere binario, ma anche sulla gerarchizzazione delle mascolinità, sulla razzializzazione e esclusione sociale di quei soggetti che ancora vengono marginalizzati dal nesso costitutivo tra neoliberismo e eteropatriarcato. In questo contesto, dal superamento dell'idea di soggettivazione come processo comune di vittimizzazione delle donne operato dai femminismi trans, intersezionali e queer, si è sviluppato il concetto di identità transgender come identità resistente elaborato dalla teorica transfemminista Oparah e ripreso da altre studiose negli ultimi anni.
Nel "Complesso carcerario industriale" (PIC – Prison Industrial Complex) costruito sulle fondamenta delle politiche neoliberiste degli anni '80 e sulle violente guerre sociali ingaggiate contro le marginalità fino ad oggi (dalla "War on Drugs" alla guerra alla criminalità, fino alla guerra al terrore), le persone transgender, queer, non conformi, di colore, disabili, povere sono state il bersaglio delle strategie di controllo, neutralizzazione e imprigionamento che costituisce l'altra faccia della medaglia del continuum di violenza di genere strutturale che subiscono nella quotidianità. Come vedremo, a questo vero e proprio processo sistemico di neutralizzazione delle diversità le comunità queer e transgender di colore hanno risposto, negli Stati Uniti e in Canada dove queste politiche si sono dispiegate con particolare recrudescenza, creando movimenti abolizionisti radicali con l'obiettivo non tanto di riformare, quanto di abbattere dalle fondamenta il sistema carcerario e la sua razionalità razzista, sessista e neoliberale.
Editoriale del nono numero della rivista Tracce Urbane. Italian Journal of Urban Studies, "La città transfemminista. Movimenti, usi e pratiche intersezionali per altri immaginari urbani/ The transfeminist city. Intersectional movements,... more
Editoriale del nono numero della rivista Tracce Urbane. Italian Journal of Urban Studies, "La città transfemminista. Movimenti, usi e pratiche intersezionali per altri immaginari urbani/ The transfeminist city. Intersectional movements, uses and practices for other urban imaginaries", a cura di Gaia Bacciola, Martina Belluto, Serena Olcuire.
In the last twenty years, increasing scholarly attention has been devoted to the screen industries as a workplace and as a site of institutional and individual cultural and creative practice (e.g., Deuze 2007; Mayer, Banks and Caldwell... more
In the last twenty years, increasing scholarly attention has been devoted to the screen industries as a workplace and as a site of institutional and individual cultural and creative practice (e.g., Deuze 2007; Mayer, Banks and Caldwell 2009; Hesmondhalgh and Baker 2010). Studies in this field have often centred on film, television and audiovisual media production (e.g., Caldwell 2008; Barra, Bonini and Splendore 2016; Comand and Venturini 2021), although forms of labour in circulation, promotion and reception of media texts have also attracted interest (e.g. Loist 2011; Grainge and Johnson 2015; Fanchi and Garofalo 2018; Treveri Gennari et al. 2020). Within these studies, a number of scholars have interrogated and utilised gender as an analytic category in order to expose and criticise unequal and divisive labour dynamics (e.g., Foster 1997; Gaines, Vatsal and Dall’Asta 2013-; Bell 2021). The gendered division of labour and the systematic exclusion of female-identifying professionals in the screen industries persistently emerge as global, transnational issues (e.g., Gledhill and Knight 2015; Hole, Jelača, Kaplan and Petro 2016; Liddy 2020). In Italy, pioneering studies on women’s labour in the audiovisual sector can be traced back to the 1970s (Bellumori 1972; Carrano 1977), but it is only in recent years that a gender perspective has been taken on more systematically, focusing on directors (e.g., Scarparo and Luciano 2010, 2013, 2020; Cantini 2013) as well as other above- and below-the-line professions (e.g., Dall’Asta 2008; Cardone and Fanchi 2011; Cardone, Jandelli and Tognolotti 2015; Buffoni 2018; Missero 2022).
This concerted academic attention continues to raise a number of critical, theoretical and methodological, questions: how instrumental is the category of gender in exposing power dynamics and labour relations in the Italian past and present screen industries? How can we uphold intersectional feminist, queer and decolonial perspectives of gender and labour in meaningful ways? How do we redress long-established heteronormative and binary approaches? Finally, how do we tackle historical bias in archival practice and engage with the promises and limitations of digital technologies?
This special journal issue aims to foreground a range of research approaches and methods to document the intersection between gender and labour from a diachronic or synchronic perspective. It welcomes a variety of theoretical frameworks and applied case studies that identify and engage (self-)critically with past and present understandings of gendered specialisation and discrimination in the Italian screen industries, also from comparative and/or transnational perspectives. This issue concurrently serves as a platform for screen industry scholars and practitioners to reflect critically on historical relations of gender bias and power in the research process, calling them to examine consciously and explicitly the assumptions that underpin their approaches and methods and the nature and availability of their archives and data resources. We are also interested in contributions from educators and practitioners whose work integrates ethical principles in the formulation of innovative research-led teaching and creative practice.
This concerted academic attention continues to raise a number of critical, theoretical and methodological, questions: how instrumental is the category of gender in exposing power dynamics and labour relations in the Italian past and present screen industries? How can we uphold intersectional feminist, queer and decolonial perspectives of gender and labour in meaningful ways? How do we redress long-established heteronormative and binary approaches? Finally, how do we tackle historical bias in archival practice and engage with the promises and limitations of digital technologies?
This special journal issue aims to foreground a range of research approaches and methods to document the intersection between gender and labour from a diachronic or synchronic perspective. It welcomes a variety of theoretical frameworks and applied case studies that identify and engage (self-)critically with past and present understandings of gendered specialisation and discrimination in the Italian screen industries, also from comparative and/or transnational perspectives. This issue concurrently serves as a platform for screen industry scholars and practitioners to reflect critically on historical relations of gender bias and power in the research process, calling them to examine consciously and explicitly the assumptions that underpin their approaches and methods and the nature and availability of their archives and data resources. We are also interested in contributions from educators and practitioners whose work integrates ethical principles in the formulation of innovative research-led teaching and creative practice.