[go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

Cristianesimo e nichilismo tra Heidegger e Jonas

CRISTIANESIMO E NICHILISMO TRA HEIDEGGER E JONAS di Michele GARDINI (relazione tenuta a Monteveglio (BO) il 4 maggio 2013 nell’ambito del ciclo di incontri Custos, quid noctis?) I l nichilismo, come situazione attuale dell’umanità, non corrisponde tanto alla metafora della notte, come si potrebbe affrettatamente ritenere, quanto a quella del crepuscolo, e questo per due ordini di ragioni. In primo luogo, il nichilismo non è la fine, la morte, ma l’agonia e l’impossibilità di finire (di morire). La morte sarebbe almeno la fine, un punto fermo dopo il quale qualcosa di nuovo può nascere. Il nichilismo, per impiegare una formulazione che viene da Nietzsche, è invece qualcosa di «tirato orribilmente in lungo», un’estenuazione che non conosce fine. Notiamo a tale proposito la finezza dell’espressione nietzschiana: Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?» (La volontà di potenza, §2) Ciò che è terribile nella situazione nichilistica non è che i valori si siano svalutati, ma che si svalutino, e non cessino di svuotarsi in un’agonia senza fine. In secondo luogo, il crepuscolo è quel momento del giorno nel quale le ombre si confondono con le luci: ovvero, è quel momento nella situazione dell’umanità nella quale le ombre della disperazione e le luci della salvezza si sovrappongono, si mescolano, si confondono, e lo stesso problema viene ripresentato sempre di nuovo, come un trompe-l’oeil, sotto le vesti ingannevoli della propria soluzione. Possiamo anticipare che questa natura ambivalente dell’esperienza nichilistica è perfettamente omologa a quella della tecnica. Della distruzione operata dalla tecnica cerchiamo il rimedio sempre nella tecnica, in un’implicazione senza fine di salvezza e dannazione. È importante mantenere fermo fin da subito che l’ambivalenza del nostro rapporto con la tecnica ha una struttura corrispondente a quella dell’esperienza nichilistica. Tenendo ben presente questa chiave di lettura generale, cerchiamo di addentrarci con prudenza in quel labirinto che va sotto il nome di “nichilismo occidentale”. All’ingresso di questo labirinto sta, inevitabilmente, la figura di Friedrich Nietzsche, il primo pensatore che ebbe il coraggio di affondare lo sguardo fino al cuore, al centro più oscuro del fenomeno nichilistico. Il nichilismo è davanti alla porta: donde ci viene questo che è il più inquietante fra tutti gli ospiti? Punto di partenza: è un errore rimandare allo “stato di necessità sociale”, o alla “degenerazione fisiologica”, o persino alla corruzione come causa del nichilismo. La nostra epoca è la più dabbene e compassionevole […]. Invece: in una interpretazione perfettamente determinata, in quella cristiano-morale, sta il nichillismo (La volontà di potenza, §1). Nietzsche ha duramente criticato la banale immagine positivista del mondo come raccolta e concatenazione scientifica di fatti. Il mondo è piuttosto un “nulla di fatto” e una lotta infinita di interpretazioni, che tendono ad affermare la propria potenza le une sulle altre: quella scientifica 1 e positivistica non è la presunta immagine “vera” della realtà, bensì una di queste innumerevoli interpretazioni, giunta – per ben precise motivazioni storiche – a dominare sulle concorrenti. Ora, ciò che ha di interessante – nel passo appena citato – «il più inquietante di tutti gli ospiti» è non solo il fatto di essere il risultato storico “di lunga durata” di una determinata interpretazione della realtà, quella «cristiano-morale», ma di rappresentare a propria volta il terreno conteso da varie interpretazioni: quella proposta da Nietzsche entra nel breve spazio di poche righe in conflitto con un’interpretazione sociologica, una fisiologica e addirittura una patologica… Nietzsche, in altre parole, è molto attento a non cadere in una specie di autocontraddizione performativa: quello che ci sta fornendo non è la descrizione neutrale di un fatto, ma una nuova interpretazione, “agonistica” come tutte le interpretazioni, che imputa al cristianesimo la responsabilità del nichilismo occidentale e misura con le interpretazioni concorrenti la propria forza di esplicazione del fenomeno storico. In altre parole: il cristianesimo non è un fatto, ma a propria volta un’interpretazione della realtà; non siamo noi a interpretare il nichilismo come un fenomeno originato dal cristianesimo, ma è il cristianesimo che, con la sua interpretazione della realtà e l’imposizione alla realtà del suo peculiare tipo di forza, ha generato il nichilismo. Che tutta la realtà vada tradotta in termini di conflitto tra forze e di dominio di forze su altre forze è particolarmente importante per valutare il rapporto tra Nietzsche e il fenomeno nichilistico. L’interpretazione cristiana è una forza, e l’interpretazione nietzschiana di quest’interpretazione è a sua volta una forza. Ma: 1) che cos’è una forza? 2) quale tipo di forza è incarnata nell’interpretazione cristiano-morale della realtà? Una forza è, qualunque sia il suo tipo, ciò che fa tutto quello che può fare. Essa è «volontà di potenza», cioè ricerca della massima esplicazione e del massimo potenziamento. Gli snodi principali dell’imputazione storica di Nietzsche, a questo punto, sono ben noti. Una certa forza, che Nietzsche chiama «reattiva», si è impadronita della realtà, ma invece di misurarsi lealmente con le forze concorrenti le ha emarginate, oscurate, ridotte al silenzio. Ha rimosso, in particolare, l’antica esperienza tragica della vita, l’ultimo momento in cui l’umanità occidentale si è dimostrata abbastanza forte per confrontarsi a viso aperto con l’abisso oscuro dell’esistenza, riassumendolo nelle forme artistiche più elevate (unione delle opposte polarità della forma e dell’informe, del sublime e del terrore, dell’ordine e del caos). È l’interpretazione del mondo in chiave morale propria degli «schiavi», degli «umili», dei «sofferenti». Si tratta di un «tipo umano» che, costituzionalmente incapace d’immergersi con gioia nel flusso della vita, con le sue terribili lacerazioni, gioca sempre di retroguardia e trama nell’ombra. Il carattere di questa forza è «parassitario». Essendo incapace d’intervenire immediatamente sull’esuberanza del reale, essa si attacca ad altre forze cercando d’impedirne il naturale dispiegamento. Il sogno del mediocre è trascinare tutto ciò che lo circonda nella mediocrità, per non sentire più il carattere umiliante della propria condizione. Questo tipo umano è talmente obliquo da non saper dire “sì” se non attraverso due “no”. In luogo dell’affermazione, subentra in lui l’immagine di un Dio che dice no a tutte le manifestazioni di esuberanza vitale, quelle che lo schiavo avverte a propria volta come un no detto alla propria condizione da chi – per forza, bellezza, valore – sta sopra di lui e lo domina (cioè, per il semplice fatto di essere, lo nega). In questo doppio “no” sta, secondo Nietzsche, il segreto del ni2 chilismo occidentale e lo svelamento della sua origine cristiana. L’essenza del cristianesimo è costituzionalmente negativa, nega sistematicamente ogni manifestazione della vita nell’«al di qua» per trasferire tutto il valore nell’«al di là». In questo modo incorre però in una contraddizione insuperabile. Questo Dio, che diventa il ricettacolo di tutta la vita e di tutto il valore, è allo stesso tempo, per la sua stessa «genealogia», un Dio negatore, che annienta ogni vita e valore: un Dio la cui stessa sostanza è la negazione, e che i cristiani si ostinano a chiamare «Dio vivente» (es. Mt, 16, 16) solo per un tragico rovesciamento illusorio. Più il cristiano pone nella bocca del suo Dio la parola “vita”, più questo Dio dissolve la vita. Ma un «al di là» fatto di negazione è esso stesso un nulla. Ciò che resta, come risultato dell’interpretazione cristiano-morale del mondo, è un «deserto», l’habitat del «cammello», l’animale da soma docilmente sottomesso. Tra al di qua e al di là, la somma del valore totalizza zero. Proprio da questo punto prende le mosse il più grande interprete novecentesco del pensiero di Nietzsche, Martin Heidegger. La consonanza con la diagnosi di Nietzsche è, per alcuni aspetti notevole, anche se non completa. Heidegger concorda senz’altro sul fatto che il nichilismo sia il risultato di una certa interpretazione della realtà: un’interpretazione esclusiva, violenta, intollerante, che ha impoverito fino all’esaurimento la nostra esperienza del mondo, respingendo nell’ombra il suo “altro”. Egli non declina però i suoi termini nello stesso senso di Nietzsche. Anche in merito alla questione del coinvolgimento teorico del pensiero heideggeriano nell’ideologia nazista, può essere importante ricordare che Heidegger non si rifà mai a nozioni quali «schiavo», «essere inferiore», «tarato», ecc. Per Heidegger, in modo forse più oscuro, il nichilismo coincide con il cosiddetto «oblio dell’essere», e il cristianesimo non ne è l’origine, ma è semplicemente una stazione nella tragedia cha ha accompagnato più di duemila anni di storia occidentale. Un’altra stazione fondamentale di questa vicenda, come tra poco vedremo, è proprio il pensiero di Nietzsche. Le origini di questo oblio risalgono ora al primo dischiudersi della filosofia presocratica, quando la metafisica è nata pur rimanendo a lungo creditrice di un nome. Appena, nella mente dei primi maestri del pensiero, un “mondo vero” si elevò su un mondo “apparente”, il significato originario della parola essere andò perduto. Il mondo vero dovrebbe infatti custodire l’autentico essere delle cose che nel nostro mondo sono disperse, precarie, transeunti, fatalmente esposte alla generazione e alla corruzione – cose che, appunto, non meritano mai a pieno titolo l’attribuzione dell’essere. Ma il mondo vero è, in realtà, da subito pensato come una proiezione amplificata del mondo terreno, cioè proprio di quel mondo che avrebbe dovuto fondare e giustificare. A ben guardare non vi troviamo affatto l’“essere”, bensì nuovamente i simulacri delle cose, innalzati in dignità (essere come valore assoluto), stabilizzati fino all’immutabilità (essere come presenza costante), ma pur sempre cosali per natura. Se la vera attribuzione dell’essere è rifiutata alle cose, allora dev’essere rifiutata anche a questo presunto “mondo vero” che pure vorrebbe chiamarsi “mondo dell’essere”! La fatale contraddizione – incarnata esemplarmente dall’idea platonica – è che proprio nel “mondo dell’essere” non troviamo l’essere. È una contraddizione non proprio identica, ma parallela a quella nietzscheana di un Dio che, fonte della vita, è il negatore della vita, e motiva fra l’altro la sprezzante definizione che Nietzsche offrì del cristianesimo come «platonismo per il popolo». La metafisica, per Heidegger, è appunto questo circolo vizioso tra fon3 dante e fondato: il “mondo vero” dovrebbe fondare il “mondo apparente”, ma in realtà è pensato proprio sul fondamento, a immagine e somiglianza di quest’ultimo. Ciò che rimane escluso da questo circolo fatale e perverso è proprio l’essere in quanto tale, e oblio dell’essere significa appunto dominio incontrastato, planetario, del suo opposto – il nulla. Possiamo dunque, con una prima, prudente generalizzazione, cominciare a formulare due ipotesi sul nichilismo. In primo luogo, il nichilismo si presenta sempre sotto le spoglie del suo apparente opposto: la vita, l’essere; innalza anzi quest’opposto fino all’assoluto e, in quest’accentuazione unilaterale, ottiene il più paradossale dei risultati: la mortificazione della vita, l’oblio dell’essere, in tutti i casi l’oscurità del nulla. In secondo luogo, il nichilismo procede sempre da una contraddizione nascosta: il Dio della vita che nega la vita, il mondo dell’essere che oblia l’essere; e questa contraddizione, anche se non rilevata, produce nullificazione – perché nessuna realtà può corrispondere a un pensiero contraddittorio. Il nichilismo, dunque, si presenta sotto le spoglie del suo apparente opposto e (proprio per questo) ripropone come soluzione il suo stesso problema. Ma anche lo stesso Nietzsche, che aveva voluto opporre l’intero suo pensiero alla desolazione del nichilismo moderno, ricade allora fatalmente vittima di questo schema. La volontà di potenza, quella nozione multiforme che costituisce per Nietzsche l’uscita dal labirinto del nulla, testimonia così per Heidegger l’appartenenza del suo autore alla storia del nichilismo, dunque del cristianesimo. Nietzsche ha inteso la volontà di potenza come il libero dispiegamento della forza, il suo misurarsi a viso aperto con altre forze, la creazione di nuovi valori. L’ha dunque identificata con un esercizio di sé non più impedito dal parassitismo delle forze reattive e dalle costrizioni illusorie della morale ebraico-cristiana. Per Heidegger, però, volontà di potenza significa, se letta attraverso il duro insegnamento della modernità, manipolazione totale della realtà e violenza generalizzata verso tutto ciò che è. Tutta la storia dell’occidente, se letta con la saggezza della retrospezione, è volontà di potenza – volontà di asservimento di tutto ciò che esiste da parte dell’uomo. Più precisamente, volontà di potenza significa soprattutto estrema manifestazione del dominio di ciò che sta “in alto” su ciò che sta “in basso”, proprio quella che vediamo oggi all’opera nello sfruttamento spietato della natura: la verticalità del suo carattere impositivo la rende manifestazione di una storia che nasce dall’idea platonica, passa per il Dio cristiano e termina con il dominio planetario della tecnica moderna. Tutte queste figure, che hanno via via usurpato il significato della parola “essere”, sono in realtà surrogato e oblio dell’essere; la storia della metafisica non è la vera storia dell’essere, ma la storia della violenza, della pre-potenza che il presunto “mondo vero” ha esercitato sul “mondo apparente”. Nietzsche, che con la sua sensibilità storica non aveva misconosciuto certe inevitabili affinità del suo pensiero con il cristianesimo, è parte integrante di questa vicenda, che non poteva che terminare nel carattere distruttivo della tecnica moderna. Si può dire che la vera natura della metafisica si riveli, per Heidegger, nel ricorrere della preposizione greca katá, corrispondente a una chiara forma di “verticalità”. Catabasi è la caduta dell’eterno nel tempo e l’ingresso di Dio nel mondo. In logica, d’altra parte, si dice che un termine cade sotto un concetto (per dire che rientra nella sua estensione), e i Greci definivano la struttura dell’asserzione come ti katà tinos, “qualcosa in quanto qualcosa”. In Nietzsche troviamo ancora, 4 non a caso, l’attimo supremo di esercizio della volontà di potenza pensato come irruzione dell’eternità nel tempo. Nella tecnica, infine, vediamo l’irreggimentazione di tutto il divenire in una pianificazione calcolata. Sempre la tecnica, che fa tutto quello che può fare, è l’incarnazione finale – dunque la verità – di ciò che per Nietzsche è la forza. Nietzsche è dunque, agli occhi di Heidegger, un «platonico sfrenato» e un nichilista cristiano. Viceversa, nel pensiero di Heidegger sono riscontrabili, se non m’inganno, almeno tre aspetti che lo rendono radicalmente anticristiano. In primo luogo, quella che Heidegger chiama «gettatezza» (Geworfenheit), l’«essere-gettati» in un mondo senza poter padroneggiare né la propria origine, né la propria destinazione, non ha nulla a che vedere con la caduta in senso teologico e metafisico. L’uomo non cade dall’eterno presente nella dispersione del tempo, ma esiste da sempre e per sempre nel tempo. Per questo preciso aspetto, il pensiero heideggeriano è, più di ogni altro, pensiero di una finitezza radicale e priva di compromessi. Lo spirito non giunge a cadere nel tempo, ma esiste come temporalizzazione originaria della temporalità (Essere e tempo, p. 509). La redenzione dal tempo anonimo, vuoto, alienante della società contemporanea non coincide per Heidegger con il ritorno alla dimensione dell’eterno. Persino quando parla di «attimo», Heidegger non pensa mai all’irruzione dell’eternità nel tempo, ma sempre alla trasfigurazione del tempo mondano, incentrato su un vuoto presente, in un tempo autentico, più “temporale” del precedente, che è progetto di sé legato all’avvenire. L’autentico progetto del proprio avvenire è – esso solo – ciò che rende un uomo uomo, e non cosa. In secondo luogo, Dio non è pensabile – al modo della Scolastica medioevale – come “sostanza” (substantia transcendentalis), e in particolare come essere perfettamente autonomo, eterno, immutabile, unitario, non distinto in “essenza” ed “esistenza” e dunque non passibile, nella sua autosufficienza, di alcuna predicazione: un Dio che sarebbe una specie di “super-cosa”! Si tratta di caratteri che, a partire da Harnack, vengono definiti di «ellenizzazione del cristianesimo», frutto dunque di traslazione dell’essere parmenideo e platonico al Dio delle Scritture. Per inciso, più di un interprete ha puntato il dito su un caso piuttosto impressionante di questa ipotetica ellenizzazione. È il celebre episodio del roveto ardente, nel quale Dio, sollecitato da Mosè a rivelare il proprio nome, risponde: «Io sono colui che sono» (Es, 3, 14). Sull’interpretazione agostiniana di questo versetto si è costruita grande parte della metafisica cristiana, che pensa Dio come essere e nient’altro che essere: essere, per così dire, in tutta la sua pienezza e “allo stato puro”. È invece verosimile che la risposta di Dio, anche in base all’evidenza contestuale, significhi tutt’altro, qualcosa che suonerebbe all’incirca: “come io mi chiamo, non ti riguarda!”, ovvero “sono fatti miei”. Piuttosto che al platonismo, sarebbe forse più sensato, privilegiando innanzitutto un’ermeneutica interna alla Torah, riferire il versetto dell’Esodo a un altro celebre passo del Genesi (2, 19): «Dio il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato». Adamo ha dato il nome agli animali e, in tal modo, ha simbolicamente affermato il potere dell’uomo sul resto della natura. Dio rifiuta di rivelare il proprio nome affinché Mosè non gli riservi lo stesso trattamento. Che si tratti o meno di un formidabile equivoco storico – nel senso di produttore di storia – per Heidegger pensare Dio come essere sostanziale è un’autentica «bestemmia». Il Dio cristiano 5 crea le cose, ma viene esso stesso pensato come una “cosa” (sostanza). Leggiamo ora alcune delle parole di Heidegger in proposito: Solo a partire dalla verità dell’essere si può pensare l’essenza del sacro. Solo a partire dall’essenza del sacro si può pensare l’essenza della divinità. Solo alla luce dell’essenza della divinità si può pensare e dire che cosa debba nominare la parola “Dio” (Lettera sull’“umanismo”, p. 303). Da notare, per inciso, l’inversione che il «pensare e dire» opera sul metafisico «legein te kai noein» di Parmenide, spia linguistica del fatto che Heidegger ci chiede di pensare Dio in senso totalmente antimetafisico. In ogni caso, il Dio creatore dell’essere dal nulla ed esso stesso pensato come essere è – come si vede – il Dio metafisico per eccellenza, nel senso che riproduce in sé il circolo della metafisica a noi ben noto. Dio è all’origine dell’essere, ma allo stesso tempo è quell’essere che esso stesso ha originato. Quando Heidegger scrive che non semplicemente a partire dall’essere, ma dalla «verità dell’essere» dobbiamo pensare Dio, vuole dissolvere il connubio tra la divinità e un errato concetto di essere, e distoglierci una volta per tutte dall’immagine di un Dio demiurgico che, come l’homo faber, si adorna dei prodotti della propria creazione. Questa «verità dell’essere» ci conduce al terzo aspetto annunciato. Leggiamo ancora Heidegger: L’essenza della verità […] è la libertà» (Dell’essenza della verità, p. 142). Non, dunque, «la verità vi farà liberi» (Gv, 8, 32), ma – se proprio volessimo esprimerci in questi termini – “la libertà vi farà veri”. Nell’autentico pensiero dell’essere, la libertà ha una precedenza di diritto sulla verità. La presunta verità della storia della metafisica, compresa la sua variante cristiana, non conduce ad alcuna libertà. Questa “verità” è oblio dell’essere e soggiogamento dell’umanità a quel «destino della metafisica occidentale» che è lo sfruttamento e l’alienazione della tecnica moderna, ovvero il nichilismo. Solo in un riconquistato spazio di libertà dell’esistenza è possibile tornare a porre sensatamente la questione della verità. Questo spazio di libertà è per Heidegger il superamento del presente, della presenza come significato dominante dell’essere, e l’apertura esistenziale verso la «temporalità» autentica dell’avvenire, verso il «progetto». Fino a che punto questo pensiero, che ha indubbi caratteri anticristiani, sia estraneo al cristianesimo nel suo complesso può essere valutato con l’aiuto di un allievo – ebreo – dello stesso Heidegger. Se, con Hans Jonas, includiamo Essere e tempo nella grande famiglia della filosofia dell’esistenza (inclusione che, a dire il vero, Heidegger ha sempre rifiutato), dobbiamo allora riconoscere che le categorie elaborate dall’esistenzialismo non si attagliano alla descrizione di ogni forma d’esistenza umana, ma specificamente a due tipi particolari, quelli descritti dall’esistenzialismo moderno e dalla gnosi tardo-antica. L’esistenzalismo sarebbe cioè, esso stesso, il pensiero di una particolare situazione che si era già presentata nell’antichità. Che Essere e tempo non contenga una generica esposizione delle strutture dell’esistenza, quanto piuttosto la descrizione di una ben determinata situazione storica, quella del mondo e dell’uomo nell’età della tecnica, non è invero una novità, bensì è un’ipotesi già formulata da alcuni interpreti del pensiero heideggeriano. Che questa descrizione coincida in più punti con un’antica variante del cristianesimo potrebbe, per il momento, confermare semplicemente la persuasione – 6 già di Heidegger – che cristianesimo e tecnica moderna condividano la medesima storia di oblio dell’essere. Osserviamo però più attentamente le deduzioni di Jonas. Gli inizi della crisi nichilistica in cui vive l’uomo moderno risalgono, secondo Jonas, al XVII sec., e l’esistenzialismo cerca di convivervi. Questa situazione è la solitudine dell’uomo nella cosmologia moderna e l’indifferenza dell’universo così acutamente sentita da Pascal. Proprio ciò che rende l’uomo più nobile, la coscienza, non lo integra più nel tutto, ma scava nei confronti dell’universo un abisso incolmabile. Si perde la ragione dell’essere qui (ciò che Heidegger chiama «esser-ci», Da-sein). Venendo meno fini e gerarchie, i valori sono lasciati ontologicamente privi di sostegno, e il sé è rigettato a se stesso nella ricerca di senso e valore. Alla visione degli antichi si sostituisce così la volontà dei moderni. A un mondo ridotto a pura estensione geometrica può corrispondere ormai solo un deus absconditus caratterizzato da volontà e potenza, che si riflette in un homo absconditus ridotto anch’esso a volontà e potenza. Un’altra epoca, contraddistinta dallo stesso rapporto tra nichilismo cosmico e acosmismo antropologico, sviluppò le medesime categorie. Il carattere distintivo dello gnosticismo è infatti il dualismo, nella sua duplice espressione antagonistica Uomo/Mondo, Uomo/Dio. Come potenza profondamente al di sotto rispetto alla divinità, su cui persino l’uomo può guardare dall’alto del suo spirito più vicino a Dio, il creatore del mondo ha conservato del vero divino solo la potenza dell’agire, ma di un agire privo di cognizione e benevolenza (Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, p. 270) A questo Dio privo di gnosis, lo pneuma dell’uomo non deve più nessuna obbedienza. La situazione dell’uomo nel mondo è, dunque, tale che il mondo è prodotto e incarnazione della totale assenza di sapere, mentre l’essenza dell’uomo è il sapere di se stesso e di Dio. Dal lato del mondo, il difetto della natura non sta in una carenza d’ordine, ma – al contrario – in una troppo pervasiva completezza. La risposta dell’anima a questo soffocante essere-nelmondo, risposta che è anche «risveglio dal mondo», è l’angoscia. Ma, paradossalmente, ciò che può spezzare la potenza del mondo è ancora potenza: come dalla tecnica ci attendiamo la soluzione ai suoi stessi mali, così la gnosi attende la salvezza dal Redentore e dal sapere “magico” da esso apportato. All’origine di questa situazione spirituale sta il crollo dell’antica dottrina della parte e del tutto, per la quale il tutto è precedente e migliore delle parti, e dà loro la misura dell’eccellenza che compete a ciascuna. Ora il tutto è divenuto indifferente verso la parte, e l’aspirazione dell’individuo gnostico diventa, in corrispondenza, vivere autenticamente contro il tutto. Lo gnosticismo culmina così nell’«antinomismo», nella negazione del carattere vincolante della legge. Quella gnostica del deus absconditus è una concezione nichilistica. Da questo Dio (buono) non viene nessuna legge e nessuna forza. La posta in gioco è l’assoluta libertà del sé: nessuna legge può pregiudicare il «sé pneumatico», come per l’esistenzialismo nessuna natura può pregiudicare l’esistenza. Per l’esistenzialismo l’uomo non ha natura, e ciò che non ha natura non ha norma. Uno splendido frammento di scuola valentiniana può ulteriormente gettare luce sulla comparazione istituita da Jonas: Ciò che ci rende liberi è conoscere chi eravamo, che cosa siamo diventati; dove eravamo, dentro cosa siamo stati gettati; verso dove corriamo, ciò da cui veniamo liberati; cos’è la nascita e cos’è la rinascita (Clemente Alessandrino, Excerpta ex Theodoto, LXXVIII, 2 – Gnosi, esistenzialismo e nichilismo, p. 279). 7 Jonas afferma, probabilmente a ragione, che un’esegesi puntuale di questo frammento impegnerebbe un volume intero. Ciò che è importante al nostro scopo, tuttavia, è che queste parole tornano a includere in una variante del cristianesimo non solo la diagnosi heideggeriana sulla contemporaneità, ma anche quell’«esistenza autentica» che per Heidegger rappresenta il «superamento» della patologia nichilistica, dunque la “terapia”. Vi ritroviamo infatti, schematicamente: a) l’avvenire come irresistibile tensione escatologica dal passato al futuro; b) un concetto dell’essere non come presenza, ma come accadere e movimento; c) la «gettatezza» come qualità dinamica; d) la totale assenza, se non come istante di crisi escatologica, del tempo presente come contenuto sul quale il pensiero possa soffermarsi. Ora, unificando tutti questi, aspetti, si giunge a quella «decisione» (Entscheidung) assoluta che per Heidegger è assunta per l’avvenire, contro lo scadimento nel presente e oltre la metafisica. Si tratta, in altri termini, di un atto interamente ripiegato su se stesso, una decisione per la decisione. In un discorso politico, Heidegger ebbe a dire che «il Führer ha parlato»: questo, e non il contenuto del suo discorso, era l’importante. Per Jonas, una risoluzione puramente formale, senza corrispondenza nella natura e senza nomos per la decisione, è solo una «corsa dal nulla al nulla». Il pensiero heideggeriano porterebbe dunque in sé un’ineliminabile radice cristiana, che lo conduce all’integrale nichilismo. Ma dove c’è nichilismo, abbiamo detto, dev’esservi una contraddizione nascosta che, producendo i suoi effetti nell’ombra, annienta il pensiero e la realtà. Per Jonas, la contraddizione fatale della filosofia dell’esistenza si presenta puntualmente nell’avere pensato una natura totalmente indifferente al senso, aliena a qualsiasi significato, che dovrebbe generare e contenere un essere per il quale il proprio essere ha senso e significato. C’è però almeno un punto sul quale, come forse si sarà notato, Heidegger e Jonas concordano nelle loro rispettive diagnosi. Il cristianesimo non può che produrre nichilismo fino a quando si continuerà a pensare Dio connesso all’attributo contraddittorio della potenza. Questo carattere, che per Heidegger svela il suo volto violento e impositivo alla fine della storia occidentale, nella volontà di potenza e nell’essenza della tecnica, è per Jonas non più accettabile dopo l’esperienza di Auschwitz. Di fronte all’esperienza limite, della quale nulla di più abissale è immaginabile, il Dio buono e misericordioso, il Dio che aveva stretto un’alleanza col suo popolo, ha taciuto. Chi ha tentato di agire sono stati alcuni uomini giusti, ma non Dio. Dopo questo evento storico, non è più possibile pensare Dio come prima e cavarsela a buon mercato invocando i suoi disegni “imperscrutabili”. Bisogna invece scrutare a fondo nell’immagine tradizionale di Dio, dove convivono insieme tre caratteri che oggi, dopo la Shoa, lo rendono un Dio contraddittorio, o nel migliore dei casi manifestamente incomprensibile. Tre attributi ancora una volta contraddittori, che ancora una volta sembrano elevare Dio all’infinito, sopra ogni altra creatura, ma paradossalmente lo nullificano. Solo di un Dio totalmente incomprensibile si può affermare che è assolutamente buono e cooriginariamente assolutamente onnipotente e che, nonostante ciò, sopporta il mondo così com’è. Più in generale, i tre attributi in questione – bontà assoluta, potenza assoluta e comprensibilità – sono fra loro in rapporto tale che ogni relazione tra due di loro esclude il terzo» (Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, p. 34). 8 Sostenere ciecamente, nonostante tutto, quest’immagine tradizionale significherebbe fare sì che al non-senso di Auschwitz sulla terra corrisponda il muto non-senso di Dio nei cieli, e questa sarebbe l’ultima forma, tragicamente paradossale, di rispecchiamento e comunicazione tra il cielo e la terra. Questo Dio del nulla reca in sé, con la maggiore evidenza, i due aspetti cardine del nichilismo: l’estremizzazione del positivo e la contraddizione inavvertita. Ma noi non vogliamo rinunciare alla bontà di Dio (o forse, come intendeva Sergio Quinzio, anche questo carattere andrebbe rimesso in discussione?), e neppure alla sua comprensibilità: come potremmo comunicare con qualcuno che non comprendiamo, amare qualcuno che non conosciamo? Dobbiamo allora avere il coraggio di lasciar cadere l’onnipotenza di Dio, e ammettere un Dio impotente di fronte ai mali della storia. Un Dio che entra risolutamente nel tempo, e spera di redimere se stesso attraverso la giustizia degli uomini, correndo il rischio di perdersi insieme con essi. D’altronde, il concetto stesso di “onnipotenza” appare contraddittorio non solo se unito agli altri due, ma anche in se stesso: potenza assoluta significa assenza di resistenza, ma come potrebbe una potenza esercitarsi nel vuoto, senza applicarsi a qualcosa che le resista? Giunti a questo punto, non mi chiederò ulteriormente se, con Jonas, ci troviamo dinanzi all’ennesima variante di nichilismo cristiano. Più in generale, queste brevi riflessioni hanno cercato di documentare alcune forme di coappartenenza tra cristianesimo e nichilismo. Resta da considerare se, includendo ogni volta tanto la diagnosi del problema quanto la proposta di una soluzione, tanto la malattia quanto la cura, questa coappartenenza sia davvero un abbraccio indissolubile. 9