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Academia.eduAcademia.edu
Vol. 1, nn. 1-2 (2012) Towards a multidisciplinary foundation of Ontology Edited by Andrea Le Moli and Pietro Giuffrida CRF Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica Palermo EPEKEINA is a sixmonthly double-blind peer-reviewed journal published online by CRF - Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica, a non-profit cultural association and indipendent research centre founded in Palermo (Italy) as spin-off of the local University. It covers all sorts of research on Ontology including Metaphysics, Epistemology, Ethics, History of Philosophy, Philosophy of Science, Philosophy of Language, Philosophy of Religion, Philosophy of Mind, Political Philosophy, and other relevant areas. It tries to provide a platform for scholars worldwide to exchange their latest findings. Associate Editors Rosaria Caldarone Angelo Cicatello Andrea Le Moli Scientific Committee Joseph Cohen Sophie Fisher Stephen E. Gersh Leonard Lawlor Franco Lo Piparo Francisco J. M. Martinez Giuseppe Nicolaci Pietro Palumbo Giusto Picone Leonardo Samonà Mauro Bonazzi Antonio Chella Vincenzo Costa Farouk Grewing David Konstan Section Advisors Carlos Lévy Pietro Li Causi Riccardo Manzotti Sophia Papaioannou Renata Raccanelli Chiara Agnello Carmelo Calì Marco Carapezza Editorial Board Francesco La Mantia Rosa Maria Lupo Rosa Rita Marchese Editorial Office Pietro Giuffrida Raffaele Mirelli Andreas Urs Sommer Michael Staedtler Grazia Tagliavia Filippo Sorbello Katharina Volk Christine Walde Jula Wildberger Gareth Williams Fabio Tutrone Luca Vanzago Published on line by CRF – Centro Internazionale per la ricerca filosofica Palermo www.ricercafilosofica.it DOI prefix: 10.7408 Journal Logo by Fabrizio Spina www.tornatorespina.it Cover image by Lanfranco Quadrio www.lanfrancoquadrio.com Contents History of the platonic-aristotelian tradition Andrea Le Moli Platone e la Scuola di Marburgo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Pietro Giuffrida Being opposite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Raffaele Mirelli Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates . . . . . . . . . . . . . 51 Mediæval Ontology Stephen Gersh Rewriting the Proslogion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71 Critical Ontology and Modern Age Luciano Sesta “We never advance one step beyond ourselves” . . . . . . . . . . . . . 99 Emanuele Lacca Juan Sanchez Sedeño . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117 Hermeneutical and Phenomenological Ontology Luca Vanzago Passivity and Time . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Ontology and Deconstruction Leonardo Samonà L’ospitalità dello straniero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 Carmine Di Martino Derrida e il pensiero del vivente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 163 Patrizia Cecala Tra identità e alterità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177 5 Notes, Reports & Interviews Emanuele Lacca The 10th ISNS International Conference . . . . . . . . . . . . . . . . Laura Candiotto X International Ontology Congress 199 . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 Raffaele Mirelli Ohnmacht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit . . . . . . . . . . . 207 Book Reviews Pietro Giuffrida Jessica Moss, Aristotle on the Apparent Good . . . . . . . . . . . . . 213 Filippo Di Trapani Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 Omar Di Paola Laura Candiotto, Le vie della confutazione . . . . . . . . . . . . . . 225 History of the platonic-aristotelian tradition Platone e la Scuola di Marburgo Ontologia e metafisica in Cohen, Natorp, Hartmann 1 Andrea Le Moli 1. Introduzione: l’opposizione logica-metafisica nel giovane Nicolai Hartmann (1905-1909) La rinnovata interpretazione di Platone è un momento determinante dell’impostazione che definisce in senso unitario la cosiddetta Marburger Schule. Tra le opere che contribuiscono a tracciarne i caratteri c’è sicuramente quella Logica platonica dell’essere (Platos Logik des Seins) pubblicata nel 1909 da Nicolai Hartmann (1882-1950) come terzo volume della serie delle Philosophischen Arbeiten curate da Hermann Cohen e Paul Natorp.2 Si tratta di un testo che, oltre a testimoniare una continuità profonda tra le principali impostazioni neokantiane in merito all’interpretazione della filosofia platonica, parte da una particolare opposizione tra «logica» e «metafisica» che, a detta di Hartmann, condizionerebbe ogni interpretazione del pensiero di Platone sin dai tempi dei suoi immediati successori e di Aristotele.3 Lo scritto del 1909 esordisce opponendo espressamente all’idea che quella di Platone sia una «metafisica dell’essere» l’opposta tesi per cui essa sarebbe in realtà una «logica»: Che in Platone, nella misura in cui la sua è in generale una filosofia teoretica, si debba trattare di una teoria dell’essere, difficilmente qualcuno lo contesterà. Che però questa teoria rappresenti 1 Una versione di questo contributo è già apparsa in Roccaro 2010, 157-175. Hartmann 1909. 3 La teorizzazione di quest’opposizione viene maturata dal pensatore russo-tedesco nel corso del suo apprendistato filosofico a Marburgo, appunto presso i fondatori del Neokantismo marburghese, Hermann Cohen e Paul Natorp. Nato nel 1882 a Riga, capitale dell’antico stato di Livonia, Hartmann aveva frequentato inizialmente le scuole elementari russe e solo nel 1897 aveva avuto accesso al ginnasio di lingua tedesca di San Pietroburgo. In seguito alla rivoluzione russa del 1905 si era quindi trasferito a Marburgo, dove aveva vinto un concorso accademico con una dissertazione dal titolo Il concetto di essere e non-essere nel suo significato per la teoria platonica delle idee che sarebbe poi confluita nella tesi di laurea del 1907 dal titolo Il problema dell’essere nella filosofia greca prima di Platone. Questi studi sarebbero culminati nella pubblicazione nel 1909 di quella Logica platonica dell’essere che, insieme al testo su I principi filosofici della matematica in Proclo Diadoco, gli permetteranno di conseguire la libera docenza. 2 Andrea Le Moli una logica, e non piuttosto una metafisica dell’essere, è una tesi che forse non incontra un consenso immediato [c. n.].4 E riportando l’opzione metafisica ad una sorta di «variante interpretativa» del platonismo sorta in conseguenza di una sopravvalutazione, da un lato, delle critiche aristoteliche; dall’altro, degli elementi mistici e spiritualistici presenti nella filosofia dell’Ateniese: Si è sempre visto in Platone il metafisico. Da Aristotele in poi si è intesa la sua idea come una cosa sovrasensibile, la sua anima come una sostanza psichica, la sua dottrina dell’essere come ontologia. Questa convinzione è dunque antica quanto il platonismo stesso e, come si usa anche affermare, è un fatto storico allo stesso modo di quello. Pertanto questa convinzione deve avere da qualche parte la sua motivazione, che non deve essere trascurata, nella misura in cui anche lo sguardo storico che matura lentamente giunge ad una concezione più profonda. [...] la sua predilezione per la teologia orfica e pitagorica, la sua personale fede nell’immortalità e nella vita nell’aldilà, la sua visione estetico-teleologica della bontà e della bellezza dell’universo naturale sono incontestabili e, dal punto di vista storico-culturale, tratti dominanti della sua opera, così come del suo influsso sul mondo a lui contemporaneo e successivo. Ma ciò non vuol dire che questi tratti devono essere anche quelli determinanti dal punto di vista filosofico. [...] Per questa ragione la concezione logica dell’essere non ha alcun bisogno di essere messa in un rapporto rigorosamente esclusivo con quella metafisica delle idee che per la maggior parte si è cercata in Platone e che in quasi tutte le presentazioni del suo pensiero è stata posta in cima [...]. E come è certo che nel corso generale dei problemi filosofici l’interesse metafisico è oltrepassato e sostituito da quello logico-scientifico, altrettanto certo deve essere che il punto di vista logico, per come si può rintracciare in un pensatore antico, deve rappresentare un criterio più profondo e determinante per la valutazione della sua filosofia rispetto a quello metafisico, per quanto anche questo possa sempre presentarsi integro accanto a quello. In questo senso la «logica dell’essere» nel cui senso noi cerchiamo di intendere la dottrina delle idee, lascia sufficiente spazio in Platone ai tratti poetici, mitici e dunque metafisici. Essa non pretende di essere l’unico punto di vista possibile, ma certo quello che dà la misura dell’apprezzabilità filosofica.5 4 5 Hartmann 1909, III. Hartmann 1909, III-VI. 10 Platone e la Scuola di Marburgo Per giustificare questa tesi occorre, secondo Hartmann, dimostrare (erweisen) «il carattere logico del concetto platonico di essere», il che può essere fatto anzitutto riportando l’istanza metafisica alle condizioni storiche obiettive del contesto platonico e preplatonico. Già nella dissertazione del 1905 Hartmann aveva ripercorso le posizioni fondamentali della filosofia presocratica in relazione al problema del «non essere» e, a partire dall’analisi testuale dei frammenti e delle testimonianze relative, cercato di dimostrare come nel lessico arcaico che doveva fornire la base di sviluppo del più tardo concetto di «essere», fosse contenuto un movimento che andava in direzione di una progressiva liberazione dalla rappresentazione tradizionale e prefilosofica: Quel che è istruttivo nella storia preplatonica dell’essere è il processo, in costante compimento, di affrancamento dalla rappresentazione iniziale di un ente dato.6 L’affrancamento dal piano della Vorstelllung di un ente già dato avrebbe condotto, secondo Hartmann, alla divisione eraclito-parmenidea del cosmo della rappresentazione in due «sfere» o «livelli»: quello del «vero essere» (aletheia) e quello della «parvenza» (doxa). La progressiva contestazione del piano di datità dell’essere (l’essere come qualcosa di già dato assolutamente) in cui la rappresentazione umana inizialmente si muove si sarebbe tradotta nel tentativo dei due filosofi, da un lato, di dimostrare l’illusorietà della rappresentazione immediata, dall’altro di attestare la consistenza del reale ad un livello più profondo di quello accessibile ai sensi: il piano del concetto o logos. Quest’ultimo sarebbe stato, tanto in Eraclito quanto in Parmenide, caratterizzato come il piano di unità in cui trovano conciliazione armonica quelle «opposizioni insostenibili» tra essere e non-essere che la dimensione della doxa rivela invece ad ogni passo. In quanto capacità di cogliere in unità le determinazioni contrarie del reale (il tempo, il movimento, il divenire, il generarsi e il corrompersi delle cose), il logos funzionerebbe dunque come una unità, già sempre armonicamente articolata, tra positivo e negativo, così che il senso di «essere» che viene fuori da questa nuova considerazione «logica» del mondo subirebbe una profonda estensione e modificazione rispetto a quello tradizionale. Secondo il tipo di rappresentazione che qui è in opera, infatti, l’«essere» non avrebbe più il senso di un oscillare perenne tra determinazioni contrarie (il nascere e il perire, il generarsi e il corrompersi), ma piuttosto quello di un «contenere» le opposizioni («essere» e «non essere») all’interno di una relazione armonica. E questo nuovo senso si rivelerebbe fondato proprio sulla capacità del logos di tenere in rapporto non contraddittorio le determinazioni contrarie. 6 Hartmann 1909, 83. 11 Andrea Le Moli Questa correlazione fondamentale tra positivo e negativo che sta alla base del concetto «filosofico» di essere è, secondo Hartmann, il fulcro di una corretta comprensione anche della dottrina platonica delle Idee. La sua mancata tematizzazione spiegherebbe il fraintendimento sostanziale cui la dottrina delle idee sarebbe andata incontro già nel pensiero di Aristotele: Nella filosofia platonica ci si fanno incontro due concetti la cui importanza fondamentale viene messa ripetutamente e con forza in primo piano, e che, per così dire, assumono una posizione centrale rispetto agli altri concetti fondamentali. Sono i concetti di essere e non-essere. Non in tutte le epoche si è saputo valutare correttamente l’importanza di questi concetti, che sono coinvolti nella comprensione dell’idea platonica e la accompagnano. Questi concetti sono pensati come idee e per le idee. Per questo motivo occorre anzitutto aver colto il significato metodico dell’idea per poter familiarizzare con il senso metodico di questi concetti, che Platone intendeva nel fatto che i concetti fondamentali devono esser posti a fondamento per poter riconoscere, a partire da essi, la possibilità del sapere stabile (gesicherten Wissens). Solo da questo punto di vista si può comprendere la correlazione fondamentale tra essere e non-essere. Poiché Platone aveva avuto nell’idea il mezzo per conquistare il versante metodico dei concetti, questa correlazione fondamentale poteva mostrarsi a lui nel suo essenziale valore logico. Questo valore viene nuovamente perso già con Aristotele. E però anche questo doveva di necessità accadere, dal momento che era andato perduto il medio (Mittel) logico dell’idea. Infatti senza questo non c’è alcun problema dell’essere in senso platonico, vale a dire come correlazione logica fondamentale. Per Aristotele tutto ciò che per Platone era una capacità (Leistung) del pensiero ricade nell’orizzonte del dato. Da qui anche l’idea diventa per lui una cosa - e in quanto tale naturalmente rigettata. L’essere, però, che non può venire rigettato, diventa assoluto – nel senso dell’Assolutamente Dato. Tutti i quattro principi dell’essere che egli enuncia vengono da lui compresi in questa assoluta datità. Per questo motivo non c’è più spazio per il non-essere. Esso deve perdere il suo senso originario, che doveva essere puramente metodico (reine Methode); ma questo tratto metodico puro viene in Aristotele disconosciuto .7 Il «problema dell’essere» (Seinsproblem) diverrebbe dunque compiutamente interpretabile in Platone come una questione di natura «logica», ossia come 7 Hartmann 1909, 1-2. 12 Platone e la Scuola di Marburgo l’articolazione a tutti i livelli del reale della polarità fondamentale tra essere e non essere. Stante la sua esplicita espulsione del non-essere dal piano della riflessione ontologica, Aristotele avrebbe finito invece per ridurre l’essere ed i suoi quattro principi ad un orizzonte di datità, perdendo le potenzialità squisitamente logiche della Grundkorrelation: [in Aristotele] Il problema dell’essere smette di muoversi nella correlazione ineludibile. L’essere assolutamente dato non ha infatti bisogno di alcun correlato.8 La tesi per cui in Platone sarebbe venuta storicamente a maturazione la consistenza dell’essere in questa «correlazione fondamentale» viene dimostrata da Hartmann attraverso l’esibizione di quei passi in cui l’idea manifesta la sua natura sintetico-relazionale. Questo avverrebbe essenzialmente in due modi: da un lato nel fatto che la singola cosa esistente è definibile unicamente come appartenente alla classe espressa dalla sua idea, e quindi all’interno di una necessaria articolazione del nesso uno-molti; dall’altro nel fatto che anche la singola idea, specialmente nel Platone maturo, è concepibile e definibile unicamente nel quadro di una disposizione regolata (syntaxis) delle idee stesse. I diversi piani o livelli dell’essere implicati dalla rappresentazione platonica del mondo (le cose sensibili come «grado ridotto» di essere e le idee come «vero essere») diventano così uniformemente comprensibili solo alla luce di un senso di «essere» specificamente «logico», ossia come campo delle relazioni che si estendono tra il sostrato sensibile e la forma logica da un lato, e tra le forme logiche pure dall’altro. La conseguenza più forte di questa equiparazione tra la sfera dell’essere e il «logico» è la negazione sempre più decisa della datità originaria di un mondo di «cose», «enti» o «realtà» indipendentemente dal loro emergere nel contesto di una rete di relazioni con e tra le forme logiche. Diventa a questo punto chiaro perché nel giovane Hartmann si può parlare della «metafisica» come di una dimensione «dogmatica»: tanto nel senso di una riflessione sullo statuto trascendente delle realtà ideali quanto nel senso dell’affermazione di una «realtà» indipendente dalla rappresentazione la metafisica presuppone infatti l’unità di un essere assolutamente «dato», cioè concepibile in se stesso indipendentemente dalle operazioni logiche che ne articolano la struttura. Anche se in seguito, com’è noto, egli opererà un progressivo distacco da questa impostazione, tipica del neokantismo marburghese (finendo per confluire nel variegato orizzonte della fenomenologia), almeno fino ai primissimi anni ’20 le sue tematiche, anche e soprattutto in riferimento alle interpretazioni della filosofia greca, risultano aderenti all’impianto teorico generale entro il quale si era concretizzata la sua formazione. 8 Hartmann 1909, 2. 13 Andrea Le Moli Quest’ambito di interpretazione è quello le cui linee guida erano state fissate sistematicamente dal capolavoro di Paul Natorp, la Dottrina platonica delle Idee.9 A sua volta lo scritto di Natorp, che così profondamente doveva segnare (anche se principalmente in chiave polemica) la storia delle interpretazioni di Platone del Novecento, poggiava sulle tesi formulate da Hermann Cohen già a partire dal 1866, anno di pubblicazione del saggio Die platonische Ideenlehre psychologisch entwickelt nella «Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft» 10 e quindi dal 1878, anno in cui vide la luce il più celebre Platos Ideenlehre und die Mathematik.11 Questi scritti di Cohen su Platone, proprio a motivo del loro carattere pionieristico, dovevano fornire, unitamente alla Logica di Hermann Lotze,12 la base per la nuova lettura di Platone condotta anche dai neokantiani della Scuola del Baden, che inizieranno ad occuparsi di Platone all’inizio del secolo con Wilhelm Windelband 13 e continueranno fino al 1911/12, anno in cui si svolsero le lezioni su Platone di Emil Lask a Heidelberg,14 nel breve periodo in cui rilevò la cattedra che era stata proprio di Windelband, prima di morire sul fronte galiziano nel 1915.15 La rilevazione di questa linea di discendenza è significativa perché aiuta a marcare, a partire da una conune radice iniziale, una progressiva distinzione di fondo tra le due direttrici fondamentali del pensiero neokantiano tedesco in merito all’interpretazione di Platone. La linea che, attraverso Natorp e Hartmann, arriva fino a Cassirer, riterrà infatti di dover sviluppare la torsione in senso «logico» già operata da Cohen del nesso platonico tra idea ed essere nel senso di una progressiva identificazione dell’essere con il prodotto della funzionalità «pura» del pensare, ossia nel senso di una negazione della possibilità di chiamare in causa l’ambito dell’essere come una dimensione di datità in qualche modo originaria, puntando invece l’accento sul processo in virtù del quale il pensiero stesso procede, in virtù dell’espressione pura della propria funzionalità, a configurare il riferimento ai suoi prodotti in termini di «enti». In questo modo essa tenderà a escludere ogni commistione tra «logica» e «metafisica», sia nel senso di recidere ogni 9 Natorp 1903. La Platos Ideenlehre costituisce, com’è noto un primo punto di culmine di un lavoro critico sulla radice classica dell’a priori che Natorp aveva intrapreso già dal 1885 con alcuni articoli e recensioni. Per la rassegna completa di questi scritti, come per ogni riferimento bibliografico relativo alla produzione neokantiana su Platone e alla letteratura secondaria rinvio a Le Moli 2003, 52-53, nota 115. 10 Cohen 1866. 11 Cohen 1878. 12 Lotze 1912. 13 Windelband 1900. 14 Lask 1924. 15 A seguito della morte di Lask la successione fu assunta Heinrich Rickert, già allievo di Windelband e Direttore della tesi di Dottorato dello stesso Lask. 14 Platone e la Scuola di Marburgo tendenza all’ipostatizzazione delle forme pure nella posizione di un regno di un «vero e più alto essere» qualitativamente trascendente il piano fenomenico, sia nel senso di rifiutare qualunque datità ontologica residua o prioritaria rispetto al processo che configura l’essere in dipendenza del movimento di una forma logica. In entrambi i casi si conferma quello che sarà sempre un tratto decisivo dell’impostazione marburghese, e cioè la negazione di ogni idea di «trascendenza» tanto dal lato della presunta separatezza dell’essere «vero» (ideale) rispetto a quello condizionato, quanto dal lato della trascendenza originaria di «enti», «oggetti» o «materie» rispetto alla capacità che il pensiero puro ha di configurarli in quanto «enti», «oggetti» o «materie».16 La variante che nacque tra Freiburg e Heidelberg (con Windelband, Rickert e Lask) tenderà invece a ricercare, anche se con minore costanza e profondità esegetica,17 nella particolare consistenza della forma logica individuata dall’idea platonica il fondamento per la posizione di una nuova ontologia dei «valori». Questo progetto si fondava su quello che, già a metà Ottocento Lotze (presso cui Windelband si era addottorato nel 1870), aveva riconosciuto come il tratto caratteristico dell’idea platonica: il fatto di presentarsi come la legalità (Gesetzlichkeit) originaria che struttura l’esperienza e che come tale riceve la sua peculiare consistenza dal fatto di essere «legge», ossia di «valere» (gelten) autenticamente «a priori», proprio come le leggi fisiche e naturali, nell’impostazione logicista che gli era propria, non cominciano a valere nel momento in cui le si individua ma, valendo «già da sempre», forniscono autenticamente a priori il fondamento della loro possibile individuazione. Il fatto che entrambe queste posizioni siano riconducibili alla nuova tendenza logicizzante sviluppata in Germania, per certi versi parallelamente, anche da Lotze e Cohen,18 comporta la necessità di ricostruire le matrici di questa tendenza, almeno per quanto riguarda la linea di discendenza che ci interessa 16 Cfr. su questo Cohen 1914, 536: «La cosa, l’oggetto, è il problema. E cosa esprime il problema? Il fatto che devono essere trovati metodi per la scoperta dell’oggetto e per la sua produzione. Assumerlo a principio come dato e proprio sul fondamento dell’attestazione sensibile è un’altra cosa, solo, non è il modo in cui procede la scienza». 17 Gli studi critici tendono generalmente a sottolineare la marginalità della presenza di Platone nell’orizzonte teorico della südwestdeutsche Schule rispetto al ruolo centrale e paradigmatico che essa ricopriva nel contesto marburghese. Cfr. ad esempio Holzhey 1997, 227-228. Holzhey tuttavia assume come paradigmatica di questo atteggiamento unicamente l’interpretazione data nel Platon di Windelband (che peraltro non esamina in dettaglio) ma non tiene ad esempio in alcun conto la variante, a mio avviso significativa, rappresentata dalle lezioni di Lask. 18 Sulla querelle tra Eduard Zeller ed Hermann Cohen relativamente alla dipendenza più o meno diretta dell’interpretazione dell’idea di Cohen dalla Geltungsfrage di Lotze (rilevabile peraltro esplicitamente solo a partire dal testo del 1878) cfr. Schulthess 1993, 65-66. 15 Andrea Le Moli discutere qui, e che è quella del neokantismo marburghese. Essa ha origine precisamente dal modo in cui, negli scritti di Hermann Cohen espressamente dedicati a Platone, si annuncia quella nuova e radicale opposizione tra «logica» e «metafisica» che informerà, in successione, anzitutto il pensiero di Natorp,19 quindi quello di Hartmann. 2. Metodica e ipotetica delle idee: Hermann Cohen (1866-1878) La radicalità della tesi formulata da Cohen consiste in due assunzioni di fondo, tra loro intimamente connesse. La prima, sviluppata principalmente nel saggio del 1866 Die platonische Ideenlehre psychologisch entwickelt, individua nella nozione platonica di «idea» una sorta di «elemento spirituale a priori» che colloca il pensiero platonico nella continuità di uno sviluppo globale dello spirito (Geist) greco: quello che procede in direzione del ruolo sempre più centrale assunto dalla dimensione «creativa» interiore dell’individuo, dal complesso dell’estrinsecazione dei suoi stati psicologici, in breve dalla centralità della sua psiche-coscienza nel processo di costituzione della realtà come qualcosa di esterno. Ciò corrisponderebbe all’evoluzione che il pensiero tragico e la teoria estetica greca attraversano tra VI e V secolo e troverebbe un suo primo punto d’accumulo nell’intelletualismo etico socratico (teso ad esempio all’ascolto della voce interiore in materia di conflitti etici): Platone ha detto: se io, oscillando, tra le categorie dell’essere e del divenire, rivolgo lo sguardo a tutto ciò che esiste e che secondo le indicazioni di Socrate deve avere un concetto, allora quest’essere concettuale, questo concetto essente non è, visto alla luce, altro che ciò che io guardo (schaue), come il poeta guarda le sue figure nello spirito, l’artista guarda le sue creazioni e crea secondo questo guardare, come l’artigiano, il falegname e il tornitore vedono anzitutto in mente (im Geiste) le figure secondo cui producono gli oggetti. Questo guardare non è però il vedere di Protagora, bensì il fondamento psicologico del sapere socratico, il vedere concettuale, il vedere nel pensiero, nell’astrazione, la considerazione pensante, la teoria. Azzardiamo l’ipotesi che Platone – qualora volessimo intendere l’origine psicologica delle sue idee -, in verità ha chiarito il vedere stesso come essenza, il vedere però dell’essenza [c. n.], il vedere del concetto, vale a dire come concetto ed essenza possono essere conosciuti solo nel vedere, e 19 Paradigmatico in questo senso il giudizio di Natorp 1903, VI (7): «Non esito a citare Hermann Cohen come colui che ci ha aperto gli occhi, oltre su Kant, anche su Platone». 16 Platone e la Scuola di Marburgo come nel vedere non viene conosciuto altro se non il concetto e l’essenza. Qui viene segnato con chiarezza e nettezza un reale progresso rispetto a Socrate. Socrate ha spiegato che l’essenza, il concetto, è l’ente, ma ha lasciato aperta la questione: come conosciamo questa essenza, questo concetto? Platone risponde a questa domanda definendo, con l’originalità limitata del pioniere, il vedere come l’attività autentica del pensatore e dell’artista, come fondamento di ogni creare, del più basso come del più alto; in questo modo egli è il più antico progenitore dell’intuizione intellettuale, dell’idealismo trascendentale.20 La seconda è l’interpretazione della nozione di idea in un senso rinnovato, destinato ad essere espresso in tutta la sua portata nello scritto del 1878 Platons Ideenlehre und die Mathematik, ma che viene già annunciato nel saggio del 1866: Quando poi emerge la questione: che cos’è il concetto socratico, l’essenza dell’opera d’arte, del tavolo, del bello? Questa è la risposta platonica: ciò che io vedo in quanto questa essenza, l’immagine che mi si manifesta nel guardare, a cui l’artista si rivolge nel suo creare, a cui guardano il falegname e il tornitore nel costruire la sedia e la spola.21 Per comprendere la particolare coloritura secondo cui Cohen interpreta l’idea in dipendenza della dimensione del «vedere creativo», occorre partire da quello che è forse il punto storiograficamente più discusso della sua tesi, e cioè la ripresa dell’ipotesi filologica relativa ad una distinzione radicale, già nell’accezione greca, dei significati dei due termini con cui Platone si riferisce a questo modo del «vedere»: eidos e idea.22 Per Cohen, anche a motivo della sua declinazione principalmente al «plurale» (come eide), l’eidos sarebbe infatti il concetto socratico e si alterna con il genos, la dynamis, la physis, l’ousia, a indicare ciò che noi, nella nostra rappresentazione confusa siamo erroneamente abituati a chiamare idea, mentre idea ricorre solo di rado al plurale. [...] Questo testimonia tuttavia il difetto della concezione che abbiamo avuto finora, cui non è riuscito trovare un elemento veramente creativo nell’idea platonica, un elemento che va realmente oltre il concetto socratico, 20 Cohen 1866, 52-53. Cohen 1866, 53-54. 22 Cohen 1866, 60: «Ritengo che a partire dai dialoghi del secondo periodo (secondo la partizione di K. F. Hermann) vi sia una netta distinzione tra eidos e idea». 21 17 Andrea Le Moli l’universale, il genere, come si è finora definita l’idea. Se invece si mantiene davanti agli occhi il nostro sviluppo, diventa predominante nella maggior parte degli scritti platonici in cui viene usato idea il significato determinato di attività noetica vivente del guardare (lebendigen Denktätigkeit des Schauens).23 Mentre l’idea corrisponderebbe ad una sorta di «noema nell’anima, una modalità del pensiero, una intuizione (Anschauung) noetica costruita dall’anima».24 Le idee sarebbero «le operazioni intuitive (Anschauungshandlungen) che si producono nell’anima del soggetto intuente».25 Nella sua distinzione dall’eidos l’idea si presenterebbe così originariamente come «l’azione vivente del guardare» 26 mentre l’eidos come «il concetto finito, il genere».27 Ciò modificherebbe radicalmente la questione della consistenza ontologica dell’idea: «Concepita in quanto intuizione assoluta, l’idea è presente (vorhanden) solo ogni qualvolta venga anche ripetuta attraverso il pensiero. «Assoluta» vuol dire qui: prodotta (erzeugt) nell’anima».28 Questo permetterebbe anche di separare il movimento storico di sviluppo che conduce a quell’ipostatizzazione dei gene e degli eide che sarà oggetto di critica da parte di Aristotele, dal processo teorico in forza del quale l’idea consegue uno statuto ontologico diverso, espressione della sua natura funzionale e pura. Questo processo sarebbe stato tuttavia, secondo Cohen, già parzialmente ritrattato dallo stesso Platone nel corso della sua evoluzione spirituale. Nei dialoghi della maturità si annuncerebbe infatti un processo «di trasformazione dell’idea da una forma dell’intuire a una forma dell’intuito» 29 che culminerebbe in una complessiva ricusazione dell’intero contesto di formazione dell’idea nei dialoghi tardi, primi fra tutti Parmenide 30 e Timeo.31 Più precisamente, il mutamento essenziale nella considerazione dell’idea platonica sarebbe, secondo Cohen, quello che confonde il momento semplicemente formale, attivo e produttivo (corrispondente al greco idea, idein) della forma con la concrezione dell’attività pensante che ha luogo nel concetto 23 Cohen 1866, 60-61. Cohen 1866, 66. 25 Cohen 1866, 68. 26 Cohen 1866, 65. 27 Cohen 1866, 62. 28 Cohen 1866, 67. 29 Cohen 1866, 66. 30 Cohen 1866, 61: «Il processo psichico per cui questa azione di consolida in una sostanza [...] si vedrà con precisione nell’esposizione dello sviluppo dialettico del Parmenide [...]». 31 Indicativo, a questo proposito, il modo in cui Cohen esclude il Timeo dal movimento di sviluppo spirituale che egli rintraccia in Platone, in quanto produttore di contraddizioni insanabili con l’impianto platonico complessivo. Cfr. Cohen 1866, 85. 24 18 Platone e la Scuola di Marburgo (corrispondente al momento «eidetico» nel senso della formazione e ipostatizzazione di un eidos stabile). Ciò sarebbe in qualche modo dovuto alla difficoltà da parte di Platone di conciliare la peculiarità ontologica della dimensione eidetica, da lui per primo individuata, con una rappresentazione del concetto e del senso di «essere» ancora in qualche modo vincolata a schemi tradizionali, primo fra tutti al paradigma eleatico dell’identità «sostanziale» di pensiero ed essere. È interessante vedere come questa presunta ambiguità platonica si rifletta in un certo senso anche nello scritto di Cohen. In esso, infatti, quando parla di «essere» riferito allo statuto dell’idea, Cohen da un lato ha in mente, polemicamente, la sostanzializzazione e ipostatizzazione della forma espressa dall’equivalenza idea-ousia, dall’altro individua una dimensione di funzionalità pura distinta dall’ousia, una sorta di «terzo regno dell’essere» (la dimensione logica) di cui tuttavia sembra fare ancora fatica a definire esattamente i caratteri. Il risultato di questo residuo di ambiguità è che in questa prima produzione di Cohen non vi è ancora del tutto tracciato lo spazio per una «logica» dell’essere nel senso della riduzione della sfera dell’on al complesso della funzionalità pura del pensiero; mentre si allontana già più recisamente l’idea di una «metafisica» dell’essere nel senso di una identificazione di Sein e Denken sotto la categoria dell’ousia intesa in quanto «sostanzialità». La concezione dell’essere che è all’opera in questi primi tentativi di Cohen è quindi in qualche modo tesa, come la parallela impostazione di Hermann Lotze, a conferire all’idea uno statuto di «terzo regno» tra essere e divenire che tuttavia, non identificandosi ancora pienamente (come invece accade in Lotze) con il «valere», subisce ancora l’attrazione semantica del concetto di «essere».32 E questo nonostante Cohen tenti di sfruttare, per contestualizzare questo terzo regno, la collocazione extrasostanziale (epekeina tes ousias) dell’Idea del Bene come principio puro della produzione del pensiero (e quindi delle idee). Riferendosi all’analogia tra l’idea del Bene e il sole egli infatti commenta: Ciò che di serio e vero possiamo apprendere anche da questo stupefacente paragone è la conferma della nostra concezione anche su questo versante, per il fatto che l’idea (del Bene) non è una ousia. Che essa superi per rango (überragt) ogni ousia è un altro predicato, che troverà la sua giustificazione psicologica rispetto ad un esempio analogo, più tardo: in ogni caso essa non 32 Cfr. Cohen 1866, 86-87: «[...] l’idea crea un nuovo essere che consta tanto del divenire, proprio oggetto della scienza naturale, quanto dell’essere, oggetto della filosofia». Lotze aveva invece collocato la «realtà» dell’idea in quella dimensione del «puro valere» (reines Gelten) abitata dalla «legge» in quanto questa esplica puramente il proprio ambito di funzionalità. 19 Andrea Le Moli è una ousia; essa è infatti solo nel topos noetos, il suo essere è il pensiero [c. n.].33 Riassumendo, i tratti fondativi dell’impostazione che qui Cohen inaugura possono essere così schematizzati: 1. la bipartizione semantica fondamentale tra tra idea e eidos; 2. la negazione di ogni sostanzialità all’idea e la sua identificazione con l’attività pura del pensare, nei termini di una absolute Anschauung; 3. il principio della produzione (Erzeugung) che spiega il generarsi dell’intero complesso delle idee da un principio puro della produzione, l’idea del Bene, o finalità immanente dell’atto del pensare. La questione viene ripresa e approfondita più di dieci anni dopo, nello scritto del 1878 Platons Ideenlehre und die Mathematik che, lasciando da parte le questioni legate all’aspetto «psicologico» della teoria delle idee, riaffronta proprio la questione del loro statuto ontologico a partire dall’alternativa sostanziale/noetico.34 In quest’occasione viene inaugurata da Cohen la polemica contro l’interpretazione critica di Aristotele delle idee nel senso del chorismos.35 La soluzione di Cohen consiste, com’è noto, in primo luogo nel ricondurre l’essere delle idee a quel particolare tipo di essere che si struttura nel pensare ma, peculiarmente, nel distinguere, su questo stesso piano, ancora due livelli di essere: 1. quello, ancora sostanziale, della concrezione del pensare, del «concetto», ossia del pensiero quando questo viene assunto come una realtà essente nel senso dell’essere «esistenziale» e 2. quello semplicemente funzionale della forma logica «pura», ossia della noesi come «funzione» legiferante. Dunque sbaglia, secondo Cohen, chi vede nell’idea «solo il concreto di un concetto e non la pura astrazione della funzione legiferante», vale a dire chi «pensa l’essere sempre e soltanto come esistenza (Dasein) e il valore conoscitivo, il tratto di validità sempre e solo come una propagazione insistente nell’intuizione [...]. Da questo misconoscimento della distinzione tra essere (Sein) ed esistere (Dasein) deriva in generale la mancata comprensione dell’idealismo, e quindi anche dell’idea platonica».36 Lo statuto ontologico proprio delle idee è quindi da ricercare nell’espressione della loro natura funzionale, nel modo in cui cioè «informano» la realtà esistente a tutti i livelli (i concetti così come gli enti empirici). Il tipo di funzionalità che specifica l’essere delle idee è, com’è noto, illustrato da Cohen in base all’analogia con il modo in cui le leggi matematiche e geometriche da un lato spiegano la costituzione formale delle cose esistenti, dall’altro possono produrre (erzeugen) configurazioni oggettuali non comprese tra quelle effettivamente esistenti, come i numeri irrazionali o il poliedro a 33 Cohen 1866, 77. Cfr. Cohen 1878, 344. 35 Cfr. Cohen 1878, 344 e ss. 36 Cohen 1878, 347-348. 34 20 Platone e la Scuola di Marburgo mille lati. Il tratto notevole di questo processo di produzione è il fatto che queste configurazioni non possono essere escluse dalla sfera dell’essere per il fatto che per esse valgono le stesse leggi che valgono per la realtà esistente, in quanto sono state prodotte «puramente» dal pensiero in base a quelle. Esse, quindi «sono» ad un livello «altro» rispetto tanto a quello della realtà materiale concreta quanto a quello dei concetti ricavati per astrazione dalla realtà materiale. Esse disegnano cioè un piano dell’essere costruito puramente in funzione dell’applicazione di una legge già valida per la realtà esistente. In virtù di ciò, l’essere che pertiene alle forme logiche è l’espressione del carattere puro e «metodico» delle leggi del pensiero, ossia del loro funzionare come schemi applicativi, «metodi» di costruzione di realtà e oggetti, leggi e regole di produzione che funzionano in una doppia direzione: dal lato della riconduzione delle realtà esistenti alla loro forma strutturale e dal lato, opposto, della possibilità di produrre, in base all’applicazione dello stesso «metodo», ossia della stessa forma strutturale, realtà non ancora comprese nel novero di quelle esistenti. A ben vedere Cohen sta qui giocando con una possibilità interpretativa che giace latente nel nocciolo stesso di quel senso di idea come «forma strutturale» e «regola di costruzione» che in Platone disciplina, ad esempio, il regno della poiesis come produzione di artefatti (technei onta) e per il quale la regola che presiede alla costruzione ad esempio di un letto, deve «valere», oltre che per spiegare il modo in cui è fatto ogni letto esistente (ossia ogni realtà che ricade, a motivo della sua configurazione strutturale, sotto l’eidos del letto), anche per ogni possibilità futura di costruire letti, ossia di realtà che, pur con l’impiego di nuovi materiali e tecnologie e pur progettati secondo modelli inusitati (si pensi a tutti gli oggetti dell’odierno design) continuino a rispettare la legge di costruzione funzionale del letto e possano quindi ancora rientrare nel novero delle realtà comprese in quell’eidos. Cohen sta cioè riconoscendo la possibilità di vedere nell’eidos una forma «plastica»; sufficientemente «pura», cioè, da consentire l’estensione del regno dell’essere e l’incremento indefinito della realtà in virtù della capacità del pensiero di articolare metodi (Methoden) per la produzione (Erzeugung) di oggetti.37 Nella sua impostazione le idee funzionano allora come schemi potenziali di costruzione di oggetti che, pur non ancora esistendo, «sono» già in quanto coerenti con le leggi del pensare: nulla vieta infatti di pensare un poliedro di mille lati, di immaginarlo esistente o, in ultimo, di costruirlo fisicamente posto che si riesca a sviluppare la tecnologia 37 Cfr. Cohen 1878, 356: «Si tratta piuttosto della medesima visione non sensibile, quantunque suscitata dal sensibile, che conduce [Platone] a estendere il campo della stereometria [...]: la produzione di nuove figure, di nuovi oggetti, di nuovi aei onta in forza dello stesso metodo che permette il sorgere come noeta di cose assolutamente non presenti in natura». 21 Andrea Le Moli adeguata. Nella misura in cui l’esistenza di un poliedro di mille lati non implica alcuna contraddizione logica, l’idea che regolamenta la sua costruzione assume uno statuto ontologico che Cohen, seguendo anzitutto il Fedone, definisce «ipotetico», ossia prescrittore di un procedimento (metodo) non contraddittorio di produzione di una realtà non ancora effettivamente esistente. Nelle parole di Cohen: [...] nell’ipotesi si compenetrano entrambi i motivi dell’idealismo. Viene pensato come idea solo ciò che è concepito come presupposto sufficiente di un essere conforme a leggi, nella misura in cui questo stesso può conseguire un’esistenza feconda solo nella connessione metodica dei pensieri, come radice di quella.38 Questo assunto doveva condurre Cohen a sviluppare un interessante tentativo di interpretare lo statuto «anipotetico» dell’idea del Bene per integrare dialettica ed etica in una lettura unitaria nuova del pensiero di Platone. Ma per quel che riguarda la nostra trattazione è sufficiente attestarsi al punto in cui il filosofo marburghese afferma che è la «connessione metodica dei pensieri» quella che produce la possibilità di un esserci effettivamente esistente (Dasein). Proprio la parte portante di questa tesi doveva infatti contribuire a formare il modo in cui Paul Natorp (abilitatosi con Cohen nel 1881) avrebbe elaborato una immagine di Platone che, per complessità e ricchezza, doveva rappresentare una sfida teorica per tutta l’esegesi del Novecento. 3. Trascendimento metodico e posizione pura del pensiero: Paul Natorp (1903-1921) Il punto di partenza del capolavoro di Natorp, la Platos Ideenlehre del 1902, è costituito da un implicito omaggio a Hermann Cohen, vale a dire dalla ripresa (forse appena più cauta) di quella bipartizione semantica fondamentale tra eidos e idea che era stata (ri)proposta 39 dal maestro marburghese già nel 1866: Molto spesso, a differenza di quanto avviene per eidos, con la parola idea bisogna pensare non solo passivamente a ciò che viene visto, all’aspetto che la cosa offre, bensì, perlomeno nello stesso tempo, al vedere, alla vista o allo sguardo, alla visione 38 Cohen 1878, 362. Sull’ipotesi di una bipartizione semantica fondamentale tra eidos e idea in alcuni suoi aspetti storici e teorici si veda Le Moli 2002, 67-73, 88-97. Sull’origine della questione, come sulla plausibilità più direttamente filologica di questa ipotesi in relazione proprio alle tesi neokantiane (specialmente a quelle di Hartmann), si veda invece Friedlaender 2004, 29, cui rimando anche per una rassegna delle principali posizioni critiche di inizio Novecento, che si trova a p. 1212, alla nota 17. 39 22 Platone e la Scuola di Marburgo in quanto attività di colui che guarda. Questa parola era perciò come destinata a esprimere e fissare nella coscienza la scoperta del Logico in tutta la sua autentica originarietà e vivente forza motrice, ossia la scoperta della legalità, delle leggi in virtù di cui il pensiero configura il proprio oggetto quando, per così dire, dirige lo sguardo verso di esso, quando non lo assume semplicemente come oggetto dato. [...] Molto spesso le due espressioni si scambiano vicendevolmente, ma è nondimeno possibile individuare la seguente differenza: [...] nella divisione dei concetti [...] viene impiegato quasi sempre eidos, mentre idea ricorre solo in via eccezionale – per esempio per rendere più vario l’uso linguistico -; per contro, l’unità del contenuto concettuale viene regolarmente designata come l’«unica Idea» [...] e molto raramente invece come l’unico eidos. Questa unità viene ripetutamente descritta come qualcosa che sorge solo in uno sguardo d’insieme, solo nella «sinossi» dello spirito. Nella parola idea, dunque, è ancora viva la produzione dell’unità concettuale, mentre l’eidos esprime più che altro il prodotto finito, la figura interna già data e stabile dell’oggetto.40 Indicando così il «Logico» (das Logische) anzitutto come l’attività configuratrice in virtù della quale il pensiero struttura i dati fenomenici in un sistema di connessioni stabili che assume il carattere della «legge» (Gesetzt) e passa quindi dalla semplice ricezione di un dato alla produzione di un contenuto «oggettuale». È proprio a partire da questa accezione di «logico» che è possibile ricavare il modo in cui, secondo Natorp, nell’espressione pura della sua funzionalità il pensiero (logos) articola la propria forma in quella che è una vera e propria dimensione d’«essere»: Anche l’espressione «il Logico», a sua volta, si presta a considerazioni di carattere linguistico. Nella vita ordinaria, logos [...] significa o la (singola) enunciazione, sempre riguardo al suo senso razionale, oppure il discorso (concatenato), riguardo alla sua concatenazione razionale, cioè alla concatenazione entro la quale il senso di un’enunciazione è la condizione o la conseguenza del senso di un’altra enunciazione: nel secondo significato, dunque, logos indica il discorso in quanto concatenazione del pensiero, come concatenazione noetica entro la quale la singola enunciazione sorge e si sviluppa, viene prodotta e produce. In vista di ciò, una prima esigenza è appunto quella di delimitare esattamente il concetto, cioè nel senso della predicazione, e di fissarlo in modo rigoroso nella sua identità: ciò che viene posto nuovamente in 40 Natorp 1903, 1, 2-3 (11-13). 23 Andrea Le Moli ogni «proposizione» è infatti il senso della predicazione. A tale contesto appartiene inoltre l’accordo tra le varie posizioni, il quale viene innanzitutto condizionato da quella delimitazione e fissazione, ma poi soggiace ulteriormente alle sue proprie condizioni: si tratta della conservazione dell’unità, della connessione noetica di tutte quelle posizioni l’una con l’altra [...]. L’unità, l’accordo del pensiero con se stesso, l’accordo in cui unicamente il pensato sussiste o «è», ha luogo ed è vero [...] è il principio dominante per entrambe: per l’unità del concetto e per l’unità della concatenazione noetica.41 L’idea è dunque l’espressione unitaria della connessione tra le forme logiche in cui si esplica l’originaria attività sintetica dell’intelletto. Nella sua accezione metodica (che Natorp riprende da Cohen) l’idea diventa quindi la regola interamente a priori che presiede alla costituzione-costruzione dell’oggetto della/nella esperienza. Questa accezione metodica conduce a riproporre la critica all’interpretazione sostanzialistica già in opera a partire da Aristotele: Non c’è alcun dubbio che le idee di Platone, dall’inizio alla fine [...], significano metodi e non cose: significano unità noetiche, posizioni pure del pensiero e non «oggetti» esterni soprasensibili.42 Il che comporta una rilettura dell’auto kath’auto per certi versi inedita, che intende la dimensione dell’«in sé» come la cifra di qualcosa che ha una propria esistenza meramente noetica. Questo tipo di sussistenza è quella del concetto, che esiste come tale «nella misura in cui è sufficientemente fondato nel nesso sistematico dei concetti».43 Dall’altro lato, lo studio della percezione sensibile semplice mostra come sia proprio l’intervento e la sempre già avvenuta concatenazione delle forme noetiche a ordinare e strutturare un complesso altrimenti rapsodico di percezioni in «qualcosa» di «essente». Questa tesi è ricavata principalmente a partire dall’analisi della struttura della percezione nel Teeteto, in cui si dimostra come sia proprio il sistema della connessione necessaria tra le forme noetiche (ta noeta) che rende possibile la stessa percezione sensibile. A partire dal Teeteto si ricava in questo senso una doppia accezione dell’essere che sarà mantenuta da Platone anche nel Sofista: l’on è da un lato la forma noetica semplice che concorre assieme alle altre (uno, identico, diverso, simile, dissimile, ecc.) alla fissazione del contenuto percettivo come qualcosa di determinato; dall’altro lato, «essere» è anche il risultato concreto dell’esperienza costruita dalla concatenazione di tutte le forme noetiche fondamentali. Anche nella de41 Natorp 1903, 4 (14-15). Natorp 1903, 74-75 (101-102). 43 Natorp 1903, 99 (131-132). 42 24 Platone e la Scuola di Marburgo scrizione della koinonia dei megista gene del Sofista sembra esserci un perfetto parallelismo tra questa bivalenza dell’on nel Teeteto e il ruolo dell’essere come contemporaneamente determinazione singola (uno dei generi) e come risultato dell’unione di tutte le determinazioni (ciò che il complesso dei generi definisce). In primo luogo il Teeteto mostra quindi, secondo Natorp, in che senso si possa pienamente parlare di una «tendenza platonica al metodo trascendentale» che conduce a interpretare l’essere nel senso della posizione «pura» della forma «logica». Il senso verso cui l’interpretazione del Teeteto proposta da Natorp tende è dunque quello di intendere l’esperienza e la sua originaria portata significativa come il risultato di un trascendimento metodico del sensibile nel categoriale. Il fatto stesso che anche la percezione più semplice sia già il prodotto di una avvenuta organizzazione noetica di un materiale che, senza quell’intervento, si ridurrebbe a un cumulo rapsodico di sensazioni, dimostra per Natorp come già in Platone, e proprio partire da Teeteto e Sofista, maturi l’idea che la realtà, l’essere e l’esperienza siano il prodotto di una giunzione originaria, di una originaria (a priori) sintesi tra un elemento materiale (empirico) e una forma noetica (logica, categoriale). Per cui, nella linea evolutiva che attraversa i suoi dialoghi, Platone riuscirebbe, secondo Natorp, a chiarire il senso di quella che nella prospettiva aristotelica diventa una «contrapposizione tra due mondi» fondandola in un’originaria sintesi trascendentale tra l’elemento empirico e quello categoriale e qualificando più esattamente l’essere come il risultato della sempre già avvenuta interpenetrazione tra i due mondi. Tuttavia, come già rilevato da Cohen, questa supposta tendenza platonica al metodo trascendentale sembrerebbe subire delle forti oscillazioni, soprattutto nei dialoghi tardi. È il caso ad esempio del Fedro, in cui la sopravvivenza di elementi mitici e spiritualistici porta quasi a rilevare la nozione di «trascendimento metodico» in favore della posizione di un regno «metafisico» di realtà trascendenti: È il pericolo della trascendenza ciò contro cui il Fedro non offre nessuna difesa adeguata. [...] Al fondo di tutto ciò giace certamente l’originarietà della funzione noetica, e nient’altro. Si può dire anzi che il fondamento sia il Trascendentale. Ma nel Fedro il Trascendentale non diviene forse Trascendente? Ciò che è trascendimento metodico non diviene forse l’Essere trascendente reificato? Viene certo pensata la legge dell’unità, ma non è pensata come legge per la conoscenza dell’oggetto dell’esperienza, bensì come oggetto da conoscere anche per se stesso al di là dell’esperienza: come qualcosa che «è» anche per sé [...]. Platone, stimolato soprattutto dagli Eleati a progettare la propria dialettica per andare oltre Socrate, dovette inannzitutto superare questo scoglio su cui essi avevano fatto naufragio. Platone non naufragò; ma nessun altro suo scritto lo rivela in pericolo di scontrarsi con 25 Andrea Le Moli gli scogli quanto il Fedro. Vediamo come egli, nel Teeteto, nel Fedone, nel Simposio e nella Repubblica si avvicini gradualmente al superamento del Trascendente in favore del Trascendentale, per raggiungerlo definitivamente nel Parmenide. Già la denominazione del fenomeno come immagine, copia, imitazione del puro Essere, non è più eleatica. Ma tuttavia ogni accento ricade fin qui sull’inesattezza della copia. Analogamente, proprio in base a tale denominazione, le Idee appaiono troppo facilmente come un’altra classe di cose parallele alle cose sensibili, e tra le due classi ha luogo una tipica relazione fra cose. Se è una metafora, allora bisogna confessare che è la più pericolosa che si potesse scegliere.44 Il pericolo rappresentato nel Fedro è dunque quello di aprire la possibilità del passaggio da un senso di «trascendente» come «trascendimento metodico del sensibile nel categoriale» al senso di un «essere trascendente reificato», e quindi da un senso «logico» di «essere» come espressione della concatenazione logica tra le forme e i concetti, ad un senso, paradossalmente «arcaico», di «essere» come datità assoluta, prelogica e precategoriale. Nello spazio aperto da questa oscillazione platonica si muoverà secondo Natorp (e poi secondo Hartmann) Aristotele nel riportare il piano dell’essere ad un orizzonte di absolute Gegebenheit. E tuttavia, proprio questa scissione dell’essere dalla forma logica in cui esso necessariamente, secondo i Neokantiani, si verrebbe a costituire, permetterà ad Aristotele di prendere, forse per la prima volta nella storia dell’Occidente, in considerazione la forma logica generale (del pensare e del parlare) in una purezza nuova, nel tentativo (sicuramente inedito rispetto a Platone) di «formalizzare», ossia di astrarre dalla connessione immediata con l’essere cui si riferiscono, le regole di associazione e combinazione dei concetti e delle strutture logiche secondo sistemi di invarianti e di leggi . 4. Conclusioni Le principali posizioni che nell’ambito del Neokantismo sviluppano, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’interpretazione di Platone e della teoria delle idee, se appaiono risentire della nuova temperie logicista che inizia a percorrere l’epistemologia europea di quegli anni, sviluppano tuttavia questa stessa cornice in una variante decisamente peculiare e, dal punto di vista sia teorico che storiografico, significativa. Questa peculiarità poggia su due elementi di fondo che sono: da un lato, la particolare giunzione tra impianto trascendentale e logica di matrice idealistica 44 Natorp 1903, 87-88 (116-117). 26 Platone e la Scuola di Marburgo (vero e proprio unicum del Neokantismo marburghese) entro cui quegli autori si formano, dall’altro la loro assidua e impegnata frequentazione filologica con testi e riferimenti della classicità. In conseguenza di questa provenienza, la lettura neokantiana si orienta specificamente verso un significato del «logico» (e in generale del logos) come synthesis e syntaxis, «com-posizione» e «sintassi»,45 in cui il senso di questi due concetti è quello di una (dis)posizione congiunta di determinazioni (cumpositio), ossia della posizione di una relazione originaria a partire dalla quale soltanto è possibile identificare qualcosa in termini di «parti». Ogni posizione di «qualcosa» nel pensiero o nell’esperienza è cioè la testimonianza di una sempre già avvenuta sintesi tra determinazioni noetiche, sintesi che si presenta nei termini di una correlazione tra concetti mutuamente richiamantisi, ossia che si dispongono non in virtù di un ordine estrinseco ma in base ad una legge di interrelazione che essi stessi generano. In questo senso ogni posizione è sempre una «con-posizione», e il fatto che la correlazione tra le determinazioni noetiche di fondo (Grundkorrelation) avvenga secondo delle leggi di combinazione precise che consentono certe forme di sintesi e ne escludono altre (si parla infatti di dynamis koinonias), permette di parlare di una vera e propria «sistemica» delle forme logiche e, quindi, di un «sistema», ad esempio della filosofia platonica, nel senso dell’espressione a più livelli di un unico complesso di dinamiche relazionali tra le forme e i concetti. In Natorp, questa tesi viene ricavata esplicitamente dall’analisi della struttura logica della predicazione: il fatto che qualunque logos-giudizio, anche quello negativo, funzioni in base a questa struttura sintetica originaria, denuncia il fatto che, nell’impostazione neokantiana, tanto il pensiero quanto il linguaggio hanno struttura predicativa, ossia ricavata dall’analisi delle forme logico-linguistiche, senza che, si deve dire, venga fatta qui alcuna distinzione tra i due piani. In questo senso il Neokantismo marburghese farà sempre riferimento ad una accezione di logica intesa come sistema di leggi, ossia di regole di combinazione tra elementi che, a partire dal loro generarsi già all’interno della relazione sistemica, possono essere identificati e, eventualmente, isolati in quanto elementi. Si verifica dunque qui il rimando ad una sfera del «Logico» come possibilità di definire oggettivamente e stabilmente le cose in base alla loro collocazione all’interno di sistemi di relazioni sovra- o sotto ordinate fondate sulla struttura della predicazione verbale, e ad un corrispondente senso di «essere» come rete di relazioni logiche tra i concetti. Questo significato è ricavato anzitutto dalle due articolazioni della relazione corrispondenti alle due parti del Sofista: la diairetica dei concetti e la koinonia dei generi. Da entrambe emergerebbe la proposizione di un significato di essere di tipo relazionale, vale a dire di un 45 Ma anche: «ordinamento», «schiera», «coordinazione» e «sistema». 27 Andrea Le Moli senso per cui l’identità di un concetto (genos) in generale non è «incrinata» bensì garantita proprio dalla commistione con altri concetti, e si presenta quindi come il risultato di una rete cui i concetti sono sospesi, legati e determinantisi vicendevolmente. Se l’antesignano platonico di quella disciplina che modernamente si è chiamata «logica formale», ossia la «diairetica» delle relazioni tra i concetti che trova il suo punto più alto nel Sofista,46 è allora la tecnica che attua e articola in analisi determinate questo principio filosofico generale della relazione, si deve tuttavia dire che è la comunicazione (koinonia) tra la «forma pura» dei concetti la regola generale che struttura e disciplina la definibilità reciproca degli stessi e quindi giustifica il passaggio al metodo diairetico. A differenza del modo in cui il paradigma logicista condizionerà la lettura di Platone che, da Lotze in poi, verrà data dai logici puri (come ad esempio da Frege), la logica diventerà dunque, nell’accezione neokantiana, la determinazione dei concetti originari, non ulteriormente divisibili, a partire dai quali il pensiero configura i propri contenuti in termini di «enti». In questo modo la nozione di «essere» sarà equiparata contemporaneamente al risutato e al procedere dell’attività tramite cui il pensiero oggettiva le proprie regole di costituzione nella posizione di qualcosa di esterno rispetto a sé. In conseguenza di ciò, anche il Neokantismo marburghese contribuirà, parallelamente ad altre impostazioni che si sviluppano nello stesso periodo, a marcare criticamente la natura «atopica» della «metafisica» e a rigettare l’istanza da essa rappresentata. E tuttavia questo tratto, comune a tanto pensiero del primo Novecento, si specificherà significativamente nel Neokantismo per il fatto che il rifiuto della metafisica non avverrà in nome di una liberazione complessiva dall’eredità ingombrante del pensiero antico, ma per contestare la metafisica stessa come interpretazione «ingenua» e fuorviante di un complesso di intuizioni che lo stesso pensiero antico avrebbe concepito in forma essenzialmente logica. Andrea Le Moli Università degli Studi di Palermo Dipartimento Fieri-Aglaia andrea.lemoli@unipa.it 46 Quasi tutte le principali impostazioni critiche nel campo della storia della logica concordano nel riconoscere nel perfezionamento della tecnica diairetica il contributo precipuamente platonico allo sviluppo aurorale di una disciplina (la «logica formale»), il cui primo tentativo di sistematizzazione avverrebbe solo con Aristotele. Cfr. ad esempio W. C. Kneale e M. Kneale 1972, 16-17, 29; Bochénski 1972, 55. 28 Platone e la Scuola di Marburgo Riferimenti bibliografici Bochénski, J. M. 1972, La logica formale dai Presocratici a Leibniz, Trad. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino. Cohen, H. 1866, «Die platonische Ideenlehre psychologisch entwickelt», in Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft, 4, pp. 40364. ristampato in A. Görland und E. Cassirer (a cura di), Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, Berlin 1928, pp. 30-87. 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Windelband, W. 1900, Platon, Fromman, Stuttgart. 30 Being opposite On the translation of antikeimena in Aristotle’s De anima Pietro Giuffrida The enquirer who approaches this subject must ascertain what each of these faculties is before he proceeds to investigate the questions next in order and so forth. But if we are asked to state what each of these is; that is to say, what the cognitive, sensitive and nutritive faculties respectively are, we must begin by stating what the act of thinking is and what the act of sensation is. For activities and functions are logically prior to faculties. But, if so, and if a study of the correlative objects should have preceded, these objects will for the same reason have to be defined first: I mean, nutriment and the sensible and the intelligible. Consequently we have to treat of nutriment and generation. 1 The main concern of this article is the interpretation of this passage, and the particular way by which it is generally translated by modern editors. Almost all modern translations adopt the two locutions that I emphasize in the text: objects and correlative objects, to translate the Greek word antikeimena. 2 But this choice is not neutral, nor it is without consequences for the understanding of the text. Rather, I suggest it is affected by three problems: 1. De anima 402b11-17 and 415a14-23 are the only two cases in the whole Aristotelian corpus where the word antikeimena is translated with ‘objects’ or ‘correlative objects’; 2. this translation is nesting in the earth of Aristotelian psychology the modern opposition between subject and object; 1 Tr. Hicks 1907, 63 (italics mine), De anima II.4 415a14-23: ̓Αναγκαῖον δὲ τὸν µέλλοντα περὶ τούτων σκέψιν ποιεῖσθαι λαβεῖν ἕκαστον αὐτῶν τί ἐστιν, εἶθ΄ οὕτως περὶ τῶν ἐχοµένων καὶ περὶ τῶν ἄλλων ἐπιζητεῖν. εἰ δὲ χρὴ λέγειν τί ἕκαστον αὐτῶν, οἷον τί τὸ νοητικὸν ἢ τὸ αἰσθητικὸν ἢ τὸ θρεπτικόν, πρότερον ἔτι λεκτέον τί τὸ νοεῖν καὶ τί τὸ αἰσθάνεσθαι· πρότεραι γάρ εἰσι τῶν δυνάµεων αἱ ἐνέργειαι καὶ αἱ πράξεις κατὰ τὸν λόγον. εἰ δ΄ οὕτως, τούτων δ΄ ἔτι πρότερα τὰ ἀντικείµενα δεῖ τεθεωρηκέναι, περὶ ἐκείνων πρῶτον ἂν δέοι διορίσαι διὰ τὴν αὐτὴν αἰτίαν, οἷον περὶ τροφῆς καὶ αἰσθητοῦ καὶ νοητοῦ. ὥστε πρῶτον περὶ τροφῆς καὶ γεννήσεως λεκτέον. See the similar passage in I.1 402b11-17. 2 All the English and Italian translation, and two of the French, adopt the locution “relative” or “correlative objects”. See Hicks 1907, 63; Hamlyn 1993, 17; Barnes 1984, 26; Movia 2005, 133; Laurenti 2007, 136; Barbotin 1966, 38; Bodéüs 1993, 150. The only exception seems to be Tricot 2003, 25, that uses the word “opposées”. For some remarks about the adoption of this translation see Bodéüs 1993, 80 n.5; Movia 1991, 296 n.2; Hicks 1907, 189-90; and Rodier 1985, 21 e 225. Pietro Giuffrida 3. it implies that antikeimena in De anima is not used as a technical term, and that its presence in this text has not theoretical consequences. Arguing that the word antikeimena plays a specific role in De anima, I will propose some arguments for the inadequacy of the standard translation, and I will suggest that the Aristotelian explicit theory of opposite terms, as developed in Categories and Metaphysics, is the appropriate ground for the usage of the word antikeimena in De anima. 1. Dewan on the historical introduction of the term ‘obiectum’ Let start the analysis of the problems involved in the translation of antikeimena by referring to Lawrence Dewan’s article “Obiectum”. Notes on the invention of a word. 3 In this article Dewan presents an interesting discover: the first philosophical usages of the Latin word ‘obiectum’ appears in the XIII d.C. in two commentaries on the powers of the soul: the De anima attributed to Roberto Grossatesta, and the anonymous De potentiis animae et obiectis. Both these texts paraphrase the Aristotelian nexus dynameis-energeiai-antikeimena, that originally appears in De anima I.1 and II.4. They both adopt the word ‘obiecta’ instead of ‘opposita’, despite the latter was the word normally used in the Latin translation of this passages. 4 Therefore, the introduction of the word ‘obiectum’ in the history of philosophy is the outcome of an interpretation of Aristotle’s De anima, that, for some specific (medieval) theoretical issues, modifies the ordinary Latin translation, replacing the word opposita with the new philosophical term obiecta. 5 The historical reasons that explain this substitution are not in view of this article, 6 but I think it is really important to remind Dewan’s arguments 3 Dewan 2008. See Dewan 2008, 427 ff. Dewan shows that in the vetera translatio, the only one available when the two commentaries were written, James of Venice renders antikeimena with opposita, as well as in translation from Arabic by Michael Scot. Only in the later revision of James of Venice’ translation by William of Moerbeke the first of the two occurrences is rendered by obiecta. Dewan’s conclusion is that «the word “obiectum” is found in the translations only after its invention by teachers (as distinct from translators). Around 1268, by which date the word is already well established, William of Moerbeke is still prone to write “opposita”» (Dewan 2008, 427). 5 See Dewan 2008, 428. 6 See Dewan 2008, 405-19. The author connects the adoption of Aristotle’s nexus dynameis-energeiai-antikeimena to the explanation of several functions of human soul by maintaining its unity. In this sense, the ultimate responsible for the multiplicity of the energeiai are the various types of antikeimena from which and to which the movement starts. «[...] the essence of the soul being itself simple or lacking diversity, if 4 32 Being opposite about such transformation of the text, which seems to be not legitimate from a strictly Aristotelian point of view. If I correctly understand Dewan’s arguments, he explains De anima usage of antikeimena with reference to the theory of opposite terms developed in Categories and detailed in Metaphysics. With this word Aristotle refers in De anima to a special kind of opposites, i.e. the relative terms, generally exemplified by the couples double/half, larger/taller and so on. Notably, this usage is especially related to the case of relatives analyzed in Metaphysics V.15, where Aristotle addresses the relation between knowledge and the knowable, and between sensation and the sensible. These couples are characterized by lack of reciprocity (antistrephein), which is the quality that normally identifies the relatives. Paraphrasing Metaphysics V.15, Dewan explains that: In the Metaphysics, Aristotle distinguish carefully between the case of relatives based on number and power, on one hand, and that of relatives of the type measurable-measure, knowableknowledge, on the other hand. [...] In the latter case, the measurable and the knowable is so called not because it, by virtue of its very self, is said of something else, but rather because something else (the measure, knowledge) is said of it. The knowable, in its own being, is not essentially a “knowable”. What this means is that the knowable is not, according to its own being, a pros ti, and so neither is it an antikeimenon. Thus, the trend of this doctrine of Metaphysics is toward the conclusion that it is primarily the knowledge or perception that the term “to antikeimenon” fits. The knowable would be so called with less appropriateness. 7 In other words, the relation between terms like ‘sensation’ and ‘sensible’ is not bidirectional, such as that between ‘double’ and ‘half’. Therefore in such cases can be recognized an independent term (the sensible) and a dependent one, properly regarded as relative (the sensation). But if it is true, the direction implied in the Aristotelian concept of ‘relatives’ is exactly the contrary of the direction implied by the concept of obiectum. The term obiectum appropriately indicates the knowable, while the oppositum rather indicates the knowledge. For this reason only sensibles, intelligibles and nutriment can properly be said obiecta of their respective faculty. On the contrary the Aristotelian notion of relative terms, especially when applied in knowing contexts, properly denote the faculty, and not what normally we would call their ‘objects’. Although, from this argument, which undermines the parallel between there is a diversity among the powers of the soul, it must be explained [...] by some other factor in the situation, that is, either by the organs and instruments or by the obiecta» (Dewan 2008, 412). 7 Dewan 2008, 421. 33 Pietro Giuffrida the two concepts of antikeimena and obiecta, another consequence can be drawn. If we accept that only the knowledge, instead of the knowable, can properly be considered an antikeimenon, also Aristotle’s usage of this term in De anima is not quiet coherent. Indeed, in this treatise Aristotle is pointing out as opposite and relative terms the «nutriment and the sensible and the intelligible», 8 whereas, according to Metaphysics V.15, only the faculties can be described as such. Therefore Dewan can draw the conclusion: From all this, it looks as though Aristotle, when uses the term “ta antikeimena” for food, the sensible, and the knowable, is using a term with a well-determined sense, but not a term tailored to that set of items as such. It is not a technical term for those items. 9 1.1. Effects of the substitution of opposita with obiecta Dewan’s article has the merit of showing an historical short-circuit, that produces some consequences in the contemporaneous reception of De anima. The usage of the expression ‘relative objects’ to translate antikeimena in De anima can determine a misinterpretation of the Aristotelian text. However, in the following paragraphs I propose another evaluation of the role played by the notion of antikeimena. In fact, I do not agree with Dewan’s claim that antikeimena in De anima is not used as a technical term, and I am not sure that the role of the term in this context is to characterize as relatives each faculty (threptikon, aisthetikon, noētikon) and their respective opposites (trophē, aisthēta, noēta). 10 Then, in order to verify the meaning of the five occurrences of antikeimenon in De anima, I will refer to the explicit theory of opposite terms developed in Categories and in Metaphysics. If, as I think, the notion of opposites plays a specific role in Aristotle’s philosophy, the ultimate reason to reject the translation of antikeimena as ‘correlative objects’ is that it overshadows the technical role played by this term in De anima. In order to prove this claim, I propose to go through three stages. In the first, I examine some passages from Categories and Metaphysics where Aristotle delineates an explicit theory of opposite terms. In the second, I point out a coherent usage of this theory in Physics V, where the notion of opposition plays a central role in the theory of motion and change. Then in the third, I analyze the five occurrences of antikeimenon in De anima to argue that they are understandable only on the base of the technical meaning of this term. 8 See De anima II.4 415a14-23. Dewan 2008, 421. 10 See De anima II.4 415a14-23. 9 34 Being opposite 2. Aristotelian explicit theory of antikeimena Aristotle speaks about antikeimena in some parts of his corpus. One extensive description is provided in Categories 10, but it is necessary to compare it with Metaphysics V 10, and with some other texts. The general schema of the four kinds of opposite terms is drawn in Categories 10: Things are said to be opposed to one another in four ways: as relatives or as contraries or as privation and possession or as affirmation and negation. 11 Also other texts agree with this initial account of the opposites, 12 and on this basis it is possible to point out some general features of this notion. The four kinds of opposites seem independent and irreducible (Categories 10 broadly emphasize their respective character). Furthermore, the list of the possible kinds of opposition seems complete: Aristotle does not mention other cases of opposite terms. 13 The first consequence of this account is that the term antikeimena - as an equivocal term - has not simply one meaning, so that each case of opposition can always be explained by referring it to one of the four kind. Then, when antikeimena is used without any other specifications, it should be regarded as generally pointing to all the four meanings, as a general or weak term. 2.1. Opposites as relatives A general account of relative terms is found in Categories 7, but a further analysis is located in Metaphysics V.15. 14 We call relatives all such things as are said to be just what they are, of or than other things, or in some other way in relation to something else. For example, what is larger is called what 11 Tr. Ackrill 1963, 31, Categories 10, 11b17-8: Λέγεται δὲ ἕτερον ἑτέρῳ ἀντικεῖσθαι τετραχῶς, ἢ ὡς τὰ πρός τι, ἢ ὡς τὰ ἐναντία, ἢ ὡς στέρησις καὶ ἕξις, ἢ ὡς κατάφασις καὶ ἀπόφασις. 12 See Metaphysics V.10 and X.4. 13 In Metaphysics V.10 1018a20-3 Aristotle also includes in the list of the kinds of opposites «the extremes from which and into which generation and dissolution take place; and the attributes that cannot be present at the same time in that which is receptive of both» (tr. Barnes 1984, 70). But it is highly probable that they are respectively synonyms of the contradictories, usually intended as principles of generation and corruption, and of contraries. For the former see Metaphysics X 4; for the latter see Categories 11. On this argument see Rossitto 1977, 44 ff. 14 See also Categories 10 11b31 ff. and 12b16 ff. For a general account see Mignucci 1986 and Morales 1994. Also useful the notes to the text in Bodéüs 2002. 35 Pietro Giuffrida it is than something else (it is called larger than something); and what is double is called what it is of something else (it is called double of something); similarly with all other such cases. The following, too, and their like, are among relatives: state, condition, perception, knowledge, position. 15 To define terms like ‘slave’ and ‘master’, or ‘double’ and ‘half’, it is necessary to refer to their relation with another terms. Each slave is called the slave of his master, like the master is called ‘master of his slave’. This mutual dependence of relatives permits to point out two essential features of this term. They have to be reciprocal and simultaneous. Reciprocity implies that both terms involved in the relation require in its own definition the reference to the other one. 16 Simultaneity requires that both terms exist at the same time: in absence of a master, the man just called slave no longer is a slave. 17 Nevertheless, these features are not verified by relative terms as a whole. This is particularly clear about simultaneity, that is involved only in some relatives, and explicitly excluded by relations such as epistēmē/epistēton and aisthēsis/aisthēton. Indeed these cases require that the second term already exists when the relation is established. But the same couples of relatives lack the first and more important feature, i.e. reciprocity. Only the first term of these couples - respectively the aisthēsis and the epistēmē - requires for its own existence an actual relation to the other one, whereas the second one exists before and independently of the relation. In such case it is possible to regard a term as absolute, and the other one as dependent, because its existence requires the relation with the first one. This problem is already focused in Categories 7 7b15 ff., but in Metaphysics it receives a more detailed examination, by distinguishing three kinds of relatives. Things called numerical relatives or relatives in respect of capacity are all relatives from being called just what they are of something else, not from the other thing being relatives to them. But the measurable and the knowable and the thinkable are called relatives from something else being called [what it is] relative to them. For ‘thinkable’ signifies that there exists thought of it, 15 Tr. Barnes 1984, 11, Categories 7 6a36-b6: Πρός τι δὲ τὰ τοιαῦτα λέγεται, ὅσα αὐτὰ ἅπερ ἐστὶν ἑτέρων εἶναι λέγεται ἢ ὁπωσοῦν ἄλλως πρὸς ἕτερον· οἷον τὸ µεῖζον τοῦθ΄ ὅπερ ἐστὶν ἑτέρου λέγεται, – τινὸς γὰρ µεῖζον λέγεται, – καὶ τὸ διπλάσιον ἑτέρου λέγεται τοῦθ΄ ὅπερ ἐστίν, – τινὸς γὰρ διπλάσιον λέγεται· – ὡσαύτως δὲ καὶ ὅσα ἄλλα τοιαῦτα. ἔστι δὲ καὶ τὰ τοιαῦτα τῶν πρός τι οἷον ἕξις, διάθεσις, αἴσθησις, ἐπιστήµη, θέσις. 16 See Categories 7 6b27 ff.: Πάντα δὲ τὰ πρός τι πρὸς ἀντιστρέφοντα λέγεται... 17 See Categories 7 7b15 ff.: ∆οκεῖ δὲ τὰ πρός τι ἅµα τῇ φύσει εἶναι... 36 Being opposite but the thought is not relative to that of which it is a thought (for then we should have said the same thing twice). Similarly sight is the sight of something, not of that of which it is the sight (though of course it is true to say this); in fact it is relative to colour or to something else of the sort. But according to the other way of speaking the same thing would be said twice,–’it is the sight of that which is the object of sight’. 18 2.2. Opposites as contraries Aristotle makes an extensive usage of the concept of contraries (enantia) in Categories, in the context of the analysis of predicamenta. This notion is analyzed in the chapter devoted to the opposites, and further in a distinct chapter, the XI. The distinctive feature that characterize two terms as contraries is identified in their reference to the same reality (one species or genus, one category...) and, conversely, in the impossibility of belonging to the same thing at the same time. The terms white and black, for example, belong to the same qualitative range, and the subject of which they are predicates cannot be said, at the same time, both black and white. It is clearly the nature of contraries to belong to the same thing (the same either in species or in genus) - sickness and health in an animal’s body, but whiteness and blackness in a body simply, and justice and injustice in a soul. All contraries must either be in the same genus or in contrary genera, or be themselves genera. For white and black are in the same genus (since colour is their genus), but justice and injustice are in contrary genera (since the genus of one is virtue, of the other vice), while good and bad are not in a genus but are themselves actually genera of certain things. 19 2.3. Opposites as ‘form and privation’ The account of privation in Categories explicitly focuses only on the ‘natural privation’, i.e. the privation of whatever a subject is naturally endowed of. 20 We say that anything capable of receiving a possession is deprived of it when it is entirely absent from that which naturally has it, at the time when it is natural for it to have it. For it is not 18 Metaphysics V.15 1021a27-30, tr. Kirwan 1993, 52. Categories 11 14a15-26, tr. Barnes 1984, 24. 20 Other kind of privation is identified in Metaphysics V.22. 19 37 Pietro Giuffrida what has not teeth that we call toothless, or what has not sight blind, but what has not got them at the time when it is natural for it to have them. For some things from birth have neither sight nor teeth yet are not called toothless or blind. 21 2.4. Opposites as contradictories In Categories the contradiction is identified by two features: (1) one of the two contradictory propositions must always be true, and the other one must always be false; (2) there is not any possible intermediate between them. Then, for two propositions to be opposed, they must respectively affirm and denies the same thing about the same subject. To build a contradiction it is not enough to predicate two contraries, like ‘healthy’ and ‘sick’, nor a disposition and its privation, because in these cases the true proposition cannot always be distinguished. But with an affirmation and negation one will always be false and the other true whether he exists or not. For take ‘Socrates is sick’ and ‘Socrates is not sick’: if he exists it is clear that one or the other of them will be true or false, and equally if he does not; for if he does not exist ‘he is sick’ is false but ‘he is not sick’ true. Thus it would be distinctive of these alone–opposed affirmations and negations–that always one or the other of them is true or false. 22 3. Aristotle’s usage of antikeimena in Physics V I analyze Physics V as a relevant context of usage of antikeimena, perhaps also useful for understanding the role that this term plays in De anima. I select this book from Physics because it contains eight of the 31 antikeimena occurrences of the whole treatise, and because these occurrences play a great role in the Aristotelian theory of motion and change. As a matter of fact, in this book Aristotle draws a sort of schema involving four kinds of change, relying for this purpose on the general case of change (metabolē) of a substrat (upokeimenon) between two opposite terms (antikeimena). The aim is to include in a single theoretical framework the generation (genesis), the qualitative alteration (alloiōsis), the quantitative augmentation (auxēis), the local movement (phora), and their respective contraries. This is possible by distinguishing the two cases of antikeimena among which any change can take place: the contraries (enantia) and the contradictories (antiphaseis). 21 22 Categories 12a28-34, tr. Barnes 1984, 21. Categories 10 13b-36, tr. Barnes 1984, 23. 38 Being opposite Change which is not accidental on the other hand is not to be found in everything, but only in contraries, in things intermediate between contraries, and in contradictories, as may be proved by induction. 23 The final scheme of change includes the generation (genesis) - as the only kind of metabolē that takes place between two antiphaseis - and three cases of motion (kinēsis), i.e. alteration (alloiōsis), augmentation (auxēis), and local movement (phora), that require enantia as their starting point. This achievement requires the application of the categorial scheme, and contradiction and contrariety as relevant kinds of antikeimena. Contradiction grounds the analysis of generation and corruption. These are logically and ontologically problematic because they require that a substance comes from being to notbeing and vice versa. Contrariety allows the identification of the terms a quo and ad quem of three kinds of change, that respectively belong to the quality (poton), the quantity (poson), and the place (topos). 24 metabolai kinēseis ginēsis alloiōsis auxēis phora antikeimena enantia antiphaseis kata to poson kata to poion kata to topon 3.1. The change model and the interpretation of De anima In the brief summary of Aristotle’s theory of opposites I pointed out that the word antikeimena is not usually associated with a singular meaning. It is rather 23 Tr. Hardie and Gaye 1984, Physics V.1 224b28-9: ἡ δὲ µὴ κατὰ συµβεβηκὸς οὐκ ἐν ἅπασιν, ἀλλ΄ ἐν τοῖς ἐναντίοις καὶ τοῖς µεταξὺ καὶ ἐν ἀντιφάσει. See also Physics VIII.7 261a32-6: «Every other motion and change is from an opposite to an opposite: thus for the processes of becoming and perishing the limits are what is and what is not, for alteration the contrary affections, and for increase and decrease either greatness and smallness or perfection and imperfection of magnitude; and changes to contraries are contrary changes». 24 See Physics V.1. I found the same schema of the four metabolai in Zanatta 1999, 4 n. 4 and in Tricot 1990, 260, n. 13. A more recent account, but with different purpose, in Rosen 2012, 82 ff. 39 Pietro Giuffrida used with reference to all its four kinds. This hypothesis does not exclude that in some contexts Aristotle uses the same term as synonym of a particular kind of opposition, like contraries or relatives, but affirms that antikeimena is normally used as a general and equivocal term, as denoting not one but many kinds of opposition. 25 Such general character is shared by another concept: the concept of change. With metabolē Aristotle does not denote a particular kind of change, but all the four cases established in Physics, that is the generation, and the three kinds of motion: qualitative (kata to poion), quantitative (kata to poson) and local (kata topon). 26 The two concepts of change and of opposition are developed by Aristotle with mutual reference. The generic term metabolē corresponds to the other generic term antikeimena, as well as each kind of metabolē requires a special meaning of antikeimena. 27 This correspondence between antikeimena and metabolē, as two generic and plurivocal terms, produces the ground for the usage of antikeimena in De anima. In other words, I think that the concept of opposition as found in Categories and as applied in Physics to the model of change, could be an adequate background for the interpretation of the usage of antikeimena in De anima as a technical term. 4. Aristotle’s use of antikeimena in De anima In De anima the word antikeimena occurs used five times, but two of this occurrences - I.1 402b11-17 and II.4 415a14-23 - are almost specular: in the first one Aristotle proposes in a problematic and aporetic way a procedure for the inquire of the soul, whereas in the second one he accepts and confirms this same procedure. Before analysing these two parallel occurrences, that are the most problematics and the only two where antikeimena is normally translated as “correlative objects”, I will examine the other three passages to check if there is a coherent and unitary use of the questioned term. 4.1. De anima I.5 411a2-7 And if the soul is to be construed out of elements, there is no need to employ them all, the one of a pair of contraries being sufficient 25 This hypothesis seems confirmed by the text quoted from Physics VIII.7 and from its use in the book V.. 26 See Physics V.2 266a25-33 and VIII.7 260a26-9. 27 The relevant exception is that only two of the four kinds of opposite terms are regarded as principles of change. Aristotle explicitly exclude that relatives and privation can provide cases of change. See Physics V.2 225b10 ff. 40 Being opposite to discern both itself and its opposite. For by that which is straight we discern both straight and the crocked, the carpenter’s rule being the test of both. 28 This text is located in the part of the treatise devoted to the discussion of Aristotle’s predecessors theories on the soul. It belongs to a polemical context, where is not always easy to distinguish Aristotle’s own position. In this case Aristotle is engaged with the gnoseological theory grounded on the assumption that “like is known by like”, 29 from which several aporetic consequences follow. Adopting this theory the predecessors did not clearly distinguish the sensation from the intellection. The cognition in general is therefore seen as a material interaction between the knower and what is known. Hence the knowledge is explained on the basis of the similarity between the elementary structure of the things and of the soul. In this context, the quoted text submits a minor criticism: the thesis of the similarity of the elementary structure of the soul and the knowable is unnecessary and redundant, since the four elements are organized in two couple of contraries, and the possession of only one element for each couple is sufficient to explain also the discrimination of the other terms. In this text the word antikeimenon is strictly associated with the notion of contrariety, and it seems to be used like a synonym of enantion to denote the other term of a couple of contraries. In my opinion that the polemical context of the quoted text undermines the importance of this occurrence in order to explain the role of the word antikeimena in the two problematic cases of I.1 402b11-17 and II.4 415a14-23. However, this text too contributes to show a complex as well as on important context for the notions of contrariety and opposition. 4.2. De anima II.4 416a29-34 But there is a difficult here; for some say that the like is fed by like, as is the case with the growth, while others, as we said, think the reverse, that one thing is fed by its contrary, since the like is unaffected by like whereas food changes and is digested; and in all cases changes is to the opposite or to an intermediate state. 30 28 Tr. Hicks 1907, 42 (italics mine), De anima I.5 411a2-7: εἰ δὲ δεῖ τὴν ψυχὴν ἐκ τῶν στοιχείων ποιεῖν, οὐθὲν δεῖ ἐξ ἁπάντων· ἱκανὸν γὰρ θάτερον µέρος τῆς ἐναντιώσεως ἑαυτό τε κρίνειν καὶ τὸ ἀντικείµενον. καὶ γὰρ τῷ εὐθεῖ καὶ αὐτὸ καὶ τὸ καµπύλον γινώσκοµεν· κριτὴς γὰρ ἀµφοῖν ὁ κανών, τὸ δὲ καµπύλον οὔθ΄ ἑαυτοῦ οὔτε τοῦ εὐθέος. 29 See De anima I.5 409b20-410b22. 30 Tr. Hamlyn 1993, 20 (italics mine), De anima II.4 416a29-34: ἀπορίαν δ΄ ἔχει· φασὶ γὰρ οἱ µὲν τὸ ὅµοιον τῷ ὁµοίῳ τρέφεσθαι, καθάπερ καὶ αὐξάνεσθαι, τοῖς δ΄ ὥσπερ εἴποµεν τοὔµπαλιν δοκεῖ, τὸ ἐναντίον τῷ ἐνα ίῳ, ὡς ἀπαθοῦς ὄντος τοῦ ὁµοίου ὑπὸ 41 Pietro Giuffrida Located in the chapter devoted to the nutritive and reproductive faculty, also this text discusses predecessors’ theory on the relation between two similar terms: in this case the food and the living beings. Here Aristotle opposes those who explain growing through the similarity of the terms involved in the relation, and those who consider this terms as necessarly unsimilar. The solution later proposed by Aristotle consists in synthesizing this two claims, putting them as two stages of the same process. In the first stage the nourishment and the living being are contraries and unsimilar, whereas in the second stage, at the end of the digestion, the food is made actually similar to the living beings. The whole examination of the process of digestion is built on a continuous usage of the notion of contrariety. But, unlike the case of I.5, here the word antikeimenon is not used as a synonym of enantia. In my opinion the concise, elliptical sentence: «in all cases changes (metabolē) is to the opposite (antikeimenon) or to an intermediate state (metaxu)» can be considered as Aristotelian claim, even if interposed in the discussion with the predecessors. One evidence can be provided for this reading. This sentence is similar to some other texts frequently found in some other texts, where Aristotle establishes a connection between metabolē and antikeimenon. One relevant example can be found in Metaphysics IV.7: For there is not change except into opposites and things in the middle. 31 In this context there is a similar use of the word antikeimenon as a technical but generic term, denoting several kinds of opposites among which the change - several kinds of change - can take place. The occurrence of the same sentence in some other treatises would allow to regard the passage quoted from De anima as a link to the change model developed in Physics and its peculiar use of the word antikeimena. τοῦ ὁµοίου, τὴν δὲ τροφὴν δεῖν µεταβάλλειν κα πέττεσθαι· ἡ δὲ µεταβολὴ πᾶσιν εἰς τὸ ἀντικείµενον ἢ τὸ µεταξύ.. 31 Tr. Kirwan 1993, 24 (partially modified), Metaphysics IV.7 1011b34-5: οὐ γὰρ ἔστι µεταβολὴ ἀλλ΄ ἢ εἰς τὰ ἀντικείµενα καὶ µεταξύ. Three other similar passages in Physics V.1: «Change which is not accidental on the other hand is not to be found in everything, but only in contraries, in things intermediate between contraries, and in contradictories, as may be proved by induction» (tr. Hardie and Gaye 1984, 224b28-9: ἡ δὲ µὴ κατὰ συµβεβηκὸς οὐκ ἐν ἅπασιν, ἀλλ΄ ἐν τοῖς ἐναντίοις καὶ τοῖς µεταξὺ καὶ ἐν ἀντιφάσει); and V.2: «Now every change implies a pair of opposites, and opposites may be either contraries or contradictories; since then contradiction admits of no mean term, it is obvious that ‘between’ must imply a pair of contraries» (tr. Hardie and Gaye 1984, 227a7-10: ἐπεὶ δὲ πᾶσα µεταβολὴ ἐν τοῖς ἀντικειµένοις, τὰ δ΄ ἀντικείµενα τά τε ἐναντία καὶ τὰ κατὰ ἀντίφασιν, ἀντιφάσεως δ΄ οὐδὲν ἀνὰ µέσον, φανερὸν ὅτι ἐν τοῖς ἐναντίοις ἔσται τὸ ῾µεταξύ̓); and the text from Physics VIII quoted at p. 39, n. 23. 42 Being opposite 4.3. De anima II.11 424a10-6 Again, just as sight was in a way of both the visible and the invisible, and just as the other senses too were similarly concerned with opposites, so too touch is of the tangible and the intangible; and the intangible is that which has to a very small degree the distinguishing characteristic of things which are tangible, as is the case with air, and also those tangible which are in excess, as are those which are destructive. 32 In my opinion it is possible to read this text as denoting not one but two couples of opposite terms. Surely, it is possible that the opposition here involves the sight and the visible, the touch and the tangible. So, in a first sense, this text would confirm that Aristotle uses ta antikeimena as synonym of ta pros ti, to denote terms like knowledge and knowable as relatives. But I would like to propose another interpretation of the same text. The terms identified as opposites are respectively the visible and the invisible, and the tangible and the intangible. In this sense the sight and the touch are relatives terms, because this relation is expressed by the grammatic construction of the phrase with the genitive tōn antikeimenōn. Yet the second term of this relation, the antikeimena related to each sense, is not identified with a single object, but rather with a range of contraries, that are perceptible qualities. Such interpretation, requiring that ta antikeimena is used as synonym of ta enantia (instead of ta pros ti), is grounded on the account of aisthēsis developed by Aristotle in book II of De anima. Here Aristotle tries to explain the somatic level of sensation as an alteration (alloiōsis) of a initial state, through the stimulus of a sensible object. This initial stage is qualified as an indeterminate or an intermediate one. Then, the action of a sensible quality on a sensory organ causes a sort of break of this equilibrium, an alteration that properly constitutes the somatic ground of perception. 33 Therefore, this occurrence firstly contains a confirmation that the sensation and the sensible are relative terms. However, this relation is not designated by the word antikeimena, but by the grammatic construction of the phrase, and particularly by the genitive tōn antikeimenōn. The proper target of Aristotle’s usage of antikeimena in this context is not this relation, but the contrariety 32 Tr. Hamlyn 1993, 42 (italics mine), De anima II.11 424a10-6: ἔτι δ΄ ὥσπερ ὁρατοῦ καὶ ἀοράτου ἦν πως ἡ ὄψις, ὁµοίως δὲ καὶ αἱ λοιπαὶ τῶν ἀντικειµένων, οὕτω καὶ ἡ ἁφὴ τοῦ ἁπτοῦ καὶ ἀνάπτου· ἄναπτον δ΄ ἐστὶ τό τε µικρὰν ἔχον πάµπαν διαφορὰν τῶν ἁπτῶν, οἷον πέπονθεν ὁ ἀήρ, καὶ τῶν ἁπτῶν αἱ ὑπερβολαί, ὥσπερ τὰ φθαρτικά.. 33 For an extensive reconstruction of the somatic process involved in Aristotle’s psychology, see Moss 2012, chapter 2. For a review of the debate on the kind of alloiōsis involved in sensation, see Shields 1993 and Berti 1998. Recent contributions in Rosen 2012 and Bowin 2012. 43 Pietro Giuffrida involved in the sensible qualities as responsible for the somatic alteration. If it is true, this passage, and the relation here established between an activity of the living beings and its specific couple of opposite terms, can provide a decisive contribution to the interpretation of the two problematic occurrences we are concerned with. Then, I propose to read antikeimena as indicating not the objects of each faculty qua relative to the faculty, but the contrary terms required for the changes of the living beings. 4.4. The problematic occurrences of antikeimena The review of the three less problematic occurrences of antikeimenon provides us with two selected evidences for the interpretation of the problematic occurrences. 1 In II.4 416a29-34 Aristotle uses antikeimenon in the singular form in a short sentence, frequently attested in some other parts of the corpus: [...] and in all cases changes is to the opposite or to an intermediate state [...] In my opinion, the presence of this passage in De anima can be read as a first connection with Aristotle’s usage of the term antikeimenon in Physics. In this sense I suggest to read this word not as a synonym of enantia (as the context of the phrase could suggest), but as broad and general notion of being opposites, without reference to or exclusion of anyone of the four kinds of opposition. 2 The case of II.11 424a10-6 is as important as complex. Saying that all the senses are «concerned with opposites» Aristotle is meaning that each sense is relative to the opposites. But if it is correct, this passage can be decisive for a a different interpretation of the two problematic occurrences of antikeimenon. It suggests that sensation is not simply relative to its proper object, but that it is relative to a range of contrary or opposite terms. In this sense, I propose to understand the relation between each activity and its opposite terms as a triadic model, that corresponds to the Physics model upokeimenon-antikeimena. 34 4.4.1 De anima II.4 415a14-23 The enquirer who approaches this subject [i.e. the soul] must ascertain what each of these faculties is before he proceeds to 34 In the following paragraphs I will analyze only II.4, because this contains the definitive version of the nexus dynameis-energeiai-antikeimena, which overcomes the precedent aporetic version of I.1 402b11-17. 44 Being opposite investigate the questions next in order and so forth. But if we are asked to state what each of these is; that is to say, what the cognitive, sensitive and nutritive faculties respectively are, we must begin by stating what the act of thinking is and what the act of sensation is. For activities and functions are logically prior to faculties. But, if so, and if a study of the correlative objects should have preceded, these objects will for the same reason have to be defined first: I mean, nutriment and the sensible and the intelligible. Consequently we have to treat of nutriment and generation. 35 In this text Aristotle identifies two levels for the analysis of the soul faculties: for each faculty the enquiry will start from the analysis of its activity or function. In turn, this analysis depends on the description of the opposite terms of each activity, that is the starting point of the movements of the living beings. This opposite terms are designated as the starting point of the enquiry of the faculties, that Aristotle often calls the first for us. Adopting the traditional translation of antikeimena as “correlative objects” the Aristotelian schema of the relation between the faculties, the activities and the environment is identified with the subject/object relation. Yet another interpretation is possible by comparing this passage to II.11. According to the latter, the term antikeimena is not be used to denote the relation between each faculty and its respective terminus a quo, but rather to identify the range of terms from which and to which several cases of change can take place. Unlike II.11, in II.4 we not find the genitive tōn antikeimenōn, that permits to put in a different logical level (1) the relation between the faculty and its antikeimena and (2) the proper opposition of the opposites terms. Still, despite this difference, it seems to me that the parallel between the two passages can be helpful for the interpretation of II.4. Another relevant difference between the two passages is that only in II.11 the context suggests antikeimena as synonym of enantia. But in my opinion this does not indicate an incoherence. This difference rather permits to explain the relation between the two passages. As a matter of fact, II.11 is only devoted to the sensible faculty that, as a qualitative alteration, requires a relation to qualitative contraries (enantia kata to poton). Otherwise, II.4 35 Tr. Hicks 1907, 63 (italics mine), De anima II.4 415a14-23: ̓Αναγκαῖον δὲ τὸν µέλλοντα περὶ τούτων σκέψιν ποιεῖσθαι λαβεῖν ἕκαστον αὐτῶν τί ἐστιν, εἶθ΄ οὕτως περὶ τῶν ἐχοµένων καὶ περὶ τῶν ἄλλων ἐπιζητεῖν. εἰ δὲ χρὴ λέγειν τί ἕκαστον αὐτῶν, οἷον τί τὸ νοητικὸν ἢ τὸ αἰσθητικὸν ἢ τὸ θρεπτικόν, πρότερον ἔτι λεκτέον τί τὸ νοεῖν καὶ τί τὸ αἰσθάνεσθαι· πρότεραι γάρ εἰσι τῶν δυνάµεων αἱ ἐνέργειαι καὶ αἱ πράξεις κατὰ τὸν λόγον. εἰ δ΄ οὕτως, τούτων δ΄ ἔτι πρότερα τὰ ἀντικείµενα δεῖ τεθεωρηκέναι, περὶ ἐκείνων πρῶτον ἂν δέοι διορίσαι διὰ τὴν αὐτὴν αἰτίαν, οἷον περὶ τροφῆς καὶ αἰσθητοῦ καὶ νοητοῦ. ὥστε πρῶτον περὶ τροφῆς καὶ γεννήσεως λεκτέον. 45 Pietro Giuffrida concerns the whole of the three faculties, with their respective peculiarities. Yet, the antikeimena involved by the sensation is not the same required for the growing and the generation, not for the intellect or the local movement. Then, in II.4 is more appropriate the reference to a weak and general concept antikeimena, that would include more than one kind of opposition. In this view, a more adequate translation would not emphasise the relation between each faculty and its objects, nor the contrariety required by the sensation, but the more general concept of opposition. Since the changes involved in life belong not to one but to several kinds, It seems to me more effective to leave the meaning of antikeimena undetermined. Indeed the explain of the alteration involved in sensation and intellection requires qualitative contraries (enantia kata to poton), whereas the analysis of the first faculty, responsible for growth and generation, requires quantitative contrariety (enantia kata to poson) and contradiction (antiphasis). The reference to the relation between each faculty and its object on the other hand does not provide the connection with the change model. 5. Conclusions Dewan arguments against an unnoticed substitution of opposita with obiecta relies on the incompatibility between the two concept of opposita and obiecta. In his view, the Aristotelian opposites as analyzed in Categories and Metaphysics is primarily used to point out the activities rather than their objects. Nevertheless, the usage of antikeimena in De anima does not seem consistent with this theory. In the treatise on the soul this word is mainly used to denote the objects instead of the activities. Then, if Dewan’s first conclusion is the inadequacy of the current translation, the second is that the Aristotelian usage of antikeimena in De anima does not rely on the technical meaning of this term. I suggested some arguments against this second conclusion, looking for evidence of a proper technical usage of antikeimena in De anima. In this sense, I suggested as appropriate context for this usage some parts of Categories and Metaphysics where Aristotle explicitly elaborates a theory of opposite terms, and Physics V as an application of this theory. The role played by the opposites in the construction of the change model is in fact useful for the interpretation of the treatise on the soul. Here the analysis of four kinds of change that characterize living beings (the generation, the qualitative alteration, the growing, and the local movement) requires the reference to two kind of opposition: the contraries and the contradictories. I tried to prove that the relation between De anima and the change model has great influence both on the method and the target of the treatise. In this sense, the most relevant evidence that I can indicate is found in De anima II.11, where the relation between the senses and the sensibles can be seen as an ap- 46 Being opposite plication of the Physic’s triadic model upokeimenon-antikeimena. Considering this text as a context for the two problematic occurrences we are concerned with (I.1 and II.4), we will have to avoid the translation of antikeimena as “correlative objects”. Translating this word simply as ‘opposites’ makes clear the peculiar application of the triadic change model in De anima, and allows to recognize the activities due to each faculty as special cases of change that respectively require two contraries or two contradictories. Pietro Giuffrida Università degli Studi di Palermo pietro.giuffrida@unipa.it References Editions and translations of De anima Barbotin, E. 1966, Aristote. De l’âme, texte établi par A. Janone. Traduction et notes de E. Barbotin, Les Belles Lettres, Paris. Bodéüs, R. 1993, Aristote. 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Als griechisches Wort hat der daimon in den homerischen Werken seinen Ursprung. Diese Herkunft bereitet uns aber nicht wenige Schwierigkeiten. Die Darstellung des daimon in der mythologischen Welt Homers geschieht nicht in definitorischer Eindeutigkeit, weil das Wort sehr vielfältig verwendet wurde. Mein Ziel ist es, einen linearen Weg des Begriffes anzudeuten, um die konkreten Eigenschaften herauszuarbeiten (charasso). Durch die Lektüre der präphilosophischen Schriften Ilias und Odyssee wird das Wort zwei Bedeutungen gewinnen, zwei Hauptbegriffe, die sich neben dem Begriff des daimon positionieren: theos (Gottheit) und moira (Schicksal). Etymologisch wurde das Wort daimon als Synonym für theos gebraucht und gedeutet. Tatsächlich taucht in der Ilias und der Odyssee die Bedeutung und der Gebrauch des daimon häufig in Zusammenhang mit dem Wort theos auf: beide Begriffe können als Synonyme gebraucht werden. Im Sinne einer metrischen Anwendung ist daimon als Alternative zu theos zu betrachten: hierfür gibt es zahlreiche Beispiele. Wie F. A. Wilford schrieb: Thus to accept Daimon as a living supernatural agency leads to the second difficulty, one which poses a question which could at once dispose of the whole problem: namely to ask whether Daimon does not after all simply mean any god not named, and so act as a vague synonym for theos, its use being due to a desire for variety, to metrical convenience, or to the mere repetition of a formula. There are two objections to this. Firstly, if ever Daimon should seem to mean theos, it is surprisingly difficult to say which god is being referred to.1 1 Wilford 1965, 218. Raffaele Mirelli Wenn daimon als Synonym für theos dargestellt werden kann, so müsste gefragt werden, welches der beiden Wörter zuerst entstand oder welches zuerst diese göttliche Dimension bezeichnet hat: «This implies that the use of daimon with an indefinite reference is older than the use of theos with a definite reference; whence it follows that the words are not merely synonyms».2 Das bedeutet, dass mein Forschungsobjekt als ein primitives Erlebnis der Gottheit erscheint, das noch nicht als “offiziell” 3 angenommen werden konnte: «This after all is natural, if we broadly accept Herodotus’ remark that it was Homer and Hesiod who assigned the gods their names and stations».4 Und das erklärt, warum keine übereinstimmende Theorie oder Interpretation existiert, die das Wort daimon als klare Alternative für theos erscheinen lässt: «The difference in meaning between the two words leads to the conclusion that daimon had reference to the early experience of the indifferently numinous».5 Die Definition des daimon als eine lebendige und übernatürliche Kraft bleibt sehr interessant für den weiteren Gang meiner Überlegungen. Der daimon stellt eine inoffizielle Eigenheit der göttlichen Sphäre dar, die das zukünftige Bewusstsein des philosophischen Ich charakterisieren wird. In der Analyse von Wilford zeigt sich eine wesentliche Schwierigkeit, nämlich die Frage, wie der Forscher das Wort im Sinne einer einzigen Bedeutung einschränken kann: «It should now be clear that already in Homer daimon was a word of manifold significance. It is therefore of some interest to try to see if the word has any underlying meaning [...]».6 Meine Vermutung ist, dass der daimon der Dimension des Individuums zugrunde liegen könnte. Wäre es dann nötig, das sub-iectum in die Betrachtung einzubeziehen? Oder spricht man hier einfach von dem Unterbewusstsein als reflektierter Erfahrungswelt der menschlichen Gefühle? Diese Fragen werde ich zu beantworten versuchen. An dieser Stelle ist es wichtig zu verstehen, wie der daimon seine verschiedenen Erscheinungsweisen zum Vorschein bringt. Der daimon operiert und generiert seinen Einfluss auf zwei Weisen: Diese Kraft wird entweder als eine äußerliche oder als eine innerliche vom Individuum wahrgenommen. Wilford deutet drei verschiedene Klassen und Wirkungsbereiche an, in denen der daimon seine Aktivität entfaltet: «The first class is characterised by the formula daimoni isos» 7 ; in diesem Fall erscheint der daimon selbst im äußerlichen Raum, um den Menschen davor zu warnen, 2 Wilford 1965, 219. Mit dem Wort “offiziell” bezeichne ich die Sphäre der Gottheit Griechenlands, die auf den homerischen Werken und Tradition basiert. Diese Ordnung wurde von der polis als offiziell angenommen. 4 Wilford 1965, 218. 5 Wilford 1965, 218. 6 Wilford 1965, 222. 7 Wilford 1965, 221. 3 52 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates gewisse Dinge zu tun. Die zweite Klasse, in der der daimon sich immer noch im äußerlichen Raum wahrnehmen lässt, ist folgendermaßen zu bestimmen: The second class of instances, by far the best represented of the three, shows daimon still affecting the individual as it were from the outside, but in a much less wholesale manner. In this case daimon is blamed for some external physical event which directly affects the individual, usually adversely.8 Der “living unknown” – wie Wilford schreibt – wird oft als negative Kraft wahrgenommen und ist deswegen verantwortlich für das Geschehen von Ereignissen, die dem Individuum hinderlich sind. Die dritte Klasse dagegen deutet den Weg zur platonischen Philosophie an, indem die Charakterisierung des sokratischen daimon auftaucht. Hier wird der daimon als Ratgeber dargestellt: «The third class, confirmed mainly to the Odyssey, is comparatively small but most interesting. In this, the power of daimon operates internally upon the individual´s thoughts or feelings».9 Wie man daraus ersieht, kann der daimon nicht als individuelle Gottheit erklärt werden. Herbert Jennings Rose 10 stellt die These auf, dass das Suffix -mon immer die persönliche Sphäre involviert: diese Perspektive könnte sich als sehr fruchtbar erweisen, obwohl in diesem Kontext der daimon seine Eigenständigkeit noch nicht gewonnen zu haben scheint. Nur in der dritten Klasse ist dieser Aspekt angedeutet, aber der Kampf des daimon um seinen eigenen Raum ist längst noch nicht entschieden. Die Geschichte des Begriffes bietet zahlreiche Wahloptionen von reflektierten Konsequenzen und Auswirkungen, die sich durch die platonischen und neuplatonischen Doktrinen vollziehen. Der Begriff daimon in der Bedeutung “Schicksal” in der homerischen Zeit – und das ist eine weithin akzeptierte These – erweitert die Perspektive und zeigt, wie die Vielseitigkeit und die Dynamik des Wortes erst durch die von Platon geschaffene Figur des Sokrates und des daimonion ti begrenzt und eingeengt wird und wie vieldeutig und dynamisch dieses Wort sein könnte. Die anfaengliche Auffassung des daimon, oder besser formuliert, diese kulturell tradierte Kenntnis des daimon als moira entwickelte sich auto-intuitiv in dem “empfangenden Subjekt” und wurde dann im Sinne eines Charakters akzeptiert. Als Odysseus sagt, dass der daimon die Wogen geglättet hat, überwindet er die unterwerfende göttliche Sphäre (die offizielle), um den daimon als autonome Macht zu akzeptieren. Der daimon stellt die andere Seite der Gottheit dar und fängt an, die unbestimmte Sphäre zu bilden, in der sich die instinktive Wahrnehmung des Ich und die der Gottheit vermischen. 8 Wilford 1965, 221. Wilford 1965, 221. 10 Vgl. Rose 1952 und Rose 1935. 9 53 Raffaele Mirelli 1.2. Hesiod: daimon und heros Durch die Werke Hesiods wird dem Begriff daimon eine weitere Perspektive und Bedeutung hinzugefügt. Die Verbindung zwischen Göttern und Menschen wird in der Theogonie inszeniert. Die Grenzen, die von Homer gesetzt wurden, gelten nicht mehr und der daimon und die Heroen gewinnen immer mehr Raum in der Alltagswelt Griechenlands. Die olympischen Götter kümmern sich wesentlich mehr um die Menschen und treten in direkten Kontakt mit ihnen. Was verpönt ist, erschafft eine verlockende Situation, aus der die Heroen als neue Figuren entstehen. In der Theogonie sind die Beispiele zahlreich: in den Versen 938 bis 1022 befinden sich viele Beispiele, in denen Götter und Menschen gemeinsam neue Lebewesen hervorbringen: «Maia die Tochter des Atlas, teilte das heilige Lager des Zeus und gebar ihm den ruhmvollen Hermes, den Herold der Götter».11 Die Herolde waren Diener der Götter und als solcher wird später der daimon betrachtet. Schon bei Plato wird der daimon als Mittelwesen zwischen der göttlichen und der menschlichen Sphäre gedeutet. Nun stehen bei Hesiod der daimon und der heros auf der gleichen Stufe einer untergeordneten Gottheit. Wie Hermann Usener formuliert: «So mussten dämonen und heroen ineinander laufen».12 Die Heroen und die Dämonen entsprechen der Entstehung eines neuen Bedürfnisses. Die Götter des Olymps sind zu weit von den Menschen entfernt, um ihnen ein passendes, reflektiertes Vorbild zu sein. Die von Hesiod neu erschaffene Thematik des Alltagslebens benötigt eine entsprechende religiöse Dimension, die dem Menschen näher steht. In Hesiods Werken können sich die Menschen nur durch Arbeit ein neues Recht gegenüber der Gottheit verdienen; dieses Recht besteht in einer neuen moralischen Ordnung, in der die Menschheit die Arbeit als Mittel zur Glückseligkeit betrachtet. Die wesentliche Leistung der epischen Dichtung Hesiods besteht in der Umwandlung der moralischen Werte. Die von Homer überlieferte Welt der Krieger wird in die neue Perspektive der bäuerlichen Arbeit gebracht. Die olympische Welt des Zeus stellt eine alte Ordnung dar, die durch die hesiodischen Werke sich verändern musste. Der daimon wird von Hesiod als heros dargestellt, als Wächter der Weltordnung. In diesem Prozess findet der Mensch sich in den bei Hesiod dargestellten Figuren der Heroen widergespiegelt. Ein heros ist ebenso wie ein daimon ein Halbgott. Er gehört weder zum Himmel noch zur Erde, sein Platz ist neben den Menschen als Diener, indem er als perfektes Vorbild für sie gelten darf. In den Werken und Tagen, in der Beschreibung der Zeitalter der Menschheit (insgesamt sind es fünf), wo die Menschen eine regressive Entwicklung erleben, findet man die Figur des daimon und der Heroen. Ich beziehe mich direkt auf das goldene Zeitalter, in dem die Menschen als daimones 11 12 Schönberger 2008, 73. Usener 2000, 253. 54 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates bezeichnet werden. In dieser außergewöhnlichen Betrachtung Hesiods scheint die Menschheit harmonisch zu leben: Es ist nicht nötig zu arbeiten, da die Erde alles zur Verfügung stellt und man ist geistig und körperlich vollkommen gesund. Aus diesem langlebigen Dasein der Menschen entsteht dann die Figur des daimon: Die Menschen werden zu Dämonen, indem sie als Wächter dienen. Genauso werden in dem vierten Zeitalter die Helden von Theben und Troja zu Heroen und Halbgöttern. Mit Usener lässt sich sagen: Die Hesiodische dichtung von den Weltaltern scheint zwar einen wertunterschied zwischen beiden aufzustellen, indem sie die menschen des goldenen zeitalters zu dämonen [...], die des vierten, die helden von Theben und Troja, zu heroen und halbgöttern [...] werden lässt: aber in beiden fällen sind es seelen entschlafener, ob sie als dämonen oder heroen fortleben.13 Auch in der Theogonie gibt es weitere Beispiele, welche die beiden Begriffe des daimon und der Heroen miteinander verbinden: Eos gebar dem Thitonos den Memnon in eherner Rüstung, ihn, den Koenig Aithiopiens, und dann Emathion, den Herrscher. Ferner, von Kephalos schwanger, gebar sie den glänzenden Sprößling Phaëthon, der an Stärke und Kraft sich maß mit den Göttern. Dieser war noch ein Knabe und blühte in zartester Jugend kindlichen Sinnes, da raffte die Göttin mit lächelnden Antlitz Aphrodite, ihn fort zu ihren hochheiligen Häusern, wo den Vergöttlichten sie zum nächtlichen Hüter bestellte. 14 Daimona dion kann weder als Hüter noch als Heros übersetzt werden.15 Es besteht die Möglichkeit, die beiden Wortbegriffe weiterhin als Synonyme zu betrachten, indem ich die beiden Interpretationsperspektiven und Unterschiede, die zwischen daimon und theos bestehen, akzeptiere. Der daimon lässt sich nicht leicht einordnen: Wenn man aber den Begriff des heros bei Hesiod analysiert, wird die Verbindung zwischen diesen Begriffen deutlich. Bei Hesiod gilt der heros als göttliche Figur, die dem Menschen nah ist. Der heros stellt ein Beispiel für die griechische Tradition dar, der der Stadt Schutz bietet. Er ist, wie der daimon, ein Wächter und hat direkten Kontakt mit der Gottheit. Durch 13 Usener 2000, 253. Hesiod, «Theogonie» 984-991, übersetzt in Schirnding 1991, 79. 15 Vgl. die übersetzung in Schönberger 2008, 75: «[...] Als der in prangender Jugend frisch erblüht war, entrückte die hold lächelnde Aphrodite den munteren Knaben und machte ihn in ihrem heiligen Tempel zum nächtlichen Hüter und herrlichen Heros». 14 55 Raffaele Mirelli seine Aktivität zeigt sich der Wille der Götter. Er ist und bleibt aber unter den Menschen, um wahrscheinlich den Plan des Schicksals zu erfüllen. Der daimon dagegen ist ein Wesen, das gewissermaßen hinter ihm steht, ein Wesen, das nur durch menschliches Nichtwissen und Ängste erzeugt wird. Man kann sagen, dass in dieser von Hesiod erschaffenen Welt der daimon zusammen mit dem heros auf eine harmonische Art koexistieren, die vorher bei Homer mit dem Wort theos nicht zu sehen war. Der daimon teilt mit dem heros den Raum der Dichtung Hesiods, um ein und dasselbe zu bezeichnen. Er gilt oft als hilfreiche Form, die sämtliche Begriffe des symbolischen Raums erweitert. Um die These meiner Arbeit zu untermauern, werde ich den daimon als einen Charakter der griechischen Kultur bezeichnen.16 1.3. Hermann Usener: daimon und Heroen Mit dem Werk Götternamen erschafft Usener ein komplettes und genaues Bild der Religiosität Griechenlands und ihrer vielfältigen Kulte. Wie bereits dargestellt wurde, ist der daimon in Zusammenhang mit dem Begriff des heros zu sehen. In dieser Klimax, in der sich theos, daimon und heros entfalten, hat man gesehen, wie der daimon sich immer verstecken musste. Durch die Analyse von Usener wird klar, dass der daimon durch das alltägliche Leben einen wichtigen Raum gewonnen hat. Daimon und Heroen entsprechen Useners Begriff der Sondergötter. Diese untergeordnete Welt der Gottheit ist eine Konsequenz des Kultes der polis und eine klare Alternative zu der offiziellen, in der Stadt ausgeprägten Religiosität. Die Analyse von Usener bewegt sich, in Bezug auf die Heroen und den daimon, in diesem Feld: Dämonen und Heroen sind Sondergötter, indem sie den Bedürfnissen des Volkes näher stehen, sie sind Götter des Dorfs und des Landes: Die götter des dorfs und des landes, die bauerngötter sind die einfältigen ihres geschlechts, in der stadt kann man sie nicht brauchen; die von marmelstein und gold schimmernden tempel, 16 Mit dem Wort “Charaktér” beziehen ich mich auf das Verb “charasso”: Es bezeichnet im griechischen Handwerk die Aktivität des Eingravierens und des Prägens entweder einer Münze oder eines metallischen Blatt mit einem metallischen Stift. Dies impliziert, dass der Charakter als Einprägung und als Teil unseres genetischen Vermögens zu verstehen ist. Aus dieser Sicht ist der daimon eine überlieferte, innerliche, seelische und körperliche Prägung. Diese Eigenschaft entspricht dem Ursprung des philosophischen thaumazein, und zwar als Wille zum Fragen. Als Konsequenz würde sich daraus ergeben, dass Homer und Hesiod als die Ersten zu bezeichnen sind, die auf eine naive Art die ersten philosophischen Fragen über Weltanschauungen aufgeworfen haben. Diese These wurde von Maximos Tyros in seinen Dissertationes formuliert und steht in scharfem Gegensatz zur gängigen philosophiegeschichtlichen Auffassung. 56 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates der glanz der feste, das alles kommt nur den großen herren unter den göttern zu, deren scharfem auge und weitem blick die mächtige hand entspricht. Das sind die wahren götter: die ländlichen sind wesen niederer ordnung, etwa wie die feldscherer des dorfs neben den großen wissenschaftlichen autoritäten der stadt.17 Trotzdem hat sich dieser Kult erweitert und für jeden Aspekt des Lebens, für jede Situation, gab es eine Gottheit, die den Gang der Ereignisse überwachte. Das bedeutet, dass die Götter des Landes eine große Rolle in Griechenland gespielt haben. Was haben denn tatsächlich diese Begriffe der Dämonen und der Heroen angedeutet? Die Darstellung von Usener ist sehr präzis: Obwohl an sich ganz verschiedenartig, haben diese beiden begriffe doch so viele berührungen, daß sie, sofern es gilt, göttliche wesen niederen rangs zu bezeichnen, im späteren sprachgebrauch ununterscheidbar zusammenfließen. Als allgemeinste bezeichnung eines göttlichen wesens mußte daimon im gegensatze zu persönlichen göttern ein wesen bedeuten, das ohne gott (theos) zu sein an den göttlichen eigenschaften der unsterblichkeit und überlegenen kraft anteil hatte. Und so bestimmte schon der platonische Sokrates die dämonen als mittelwesen und vermittler zwischen göttern und menschen (Symp. 23 A). Die dehnbarkeit und nahe verwandtschaft dieses begriffs, [...] machte ihn besonders geeignet, göttliche wesen zu bezeichnen, welchen der entwickelte hellenische glaube einen niederen rang anweisen mußte.18 Die Entwicklung des Begriffes daimon hat eine besondere Art des Hellenismus hervorgebracht: bei Homer ist er ein Unikum gewesen, der dem Individuum als unbestimmte Gottheit zur Seite stand; im Laufe der Zeit und durch die hesiodischen Werke hat er fast eine eigene Identität gewonnen, die den Geist des Landes verkörperte. Dieser ist einfach untergeordnet worden, um eine spezifische offizielle Wahrnehmung der Religiosität zu bezeichnen. Die Eigenschaft des daimon als vox media, als Medium, hat ihn befriedet: er spielt die Rolle eines Mittelwesens, steht aber, anders als vorher, in einer direkteren Art zum Individuum. Nach Hesiod ist er zusammen mit den Heroen einer der Wächter, der in ihren Aufgaben dem Willen des Volkes unterworfen ist. Die von ihm konzipierte Auffassung der Ereignisse als zusammenbindende Dimension zwischen der Sphäre des Ich und der Religiosität ist erfüllt worden und er stellt sich als “benanntes Phänomen” in das griechische Dasein. 17 18 Usener 2000, 247. Usener 2000, 248. 57 Raffaele Mirelli Während er im “Schlaf” lag, hat die Figur des heros aus ihm Kraft gesammelt und diese von dem daimon erschaffene Welt der persönlichen Götterauffassung übernommen. Der daimon bleibt immer noch versteckt, obwohl er jetzt zu Recht unter der Kategorie der Sondergötter eingeordnet worden ist. Der heros ist dem daimon sehr nah, aber er vertritt einen anderen Aspekt der religiösen Wahrnehmung, indem er dem Kult der Ahnen im Rahmen einer aristokratischen Macht entspricht: «An sich sind heroen die seligen geister der abgeschiedenen, vorab der ahnen. Wer hienieden fromm, gerecht und tapfer gelebt hat, geht nach dem tode als heros (svar-vat glanzbehaftet) ein zu den unsterblichen».19 Es könnte sein, dass ein solches von den Heroen gegebenes Vorbild der Lebensart eine entsprechende Eudämonie entstehen lässt.20 Der heros besitzt die Macht in dem Haus, in dem er verehrt wird. Wer sich nach diesen Prinzipien eingerichtet hat und danach lebt, wird nach seinem Tode als “unsterblicher heros” weiterleben und immer als exemplum erinnert: «Die verehrung der ahnen ist eng mit dem sakralen mittelpunkt des inneren hauses, dem häuslichen herde verknüpft».21 Die Gottheit, die dem Kult der Ahnen vorsteht, verliert nicht an Macht, obwohl sie in eine menschliche Umgebung versetzt ist; ihr Schutz garantiert eine dauerhafte Beziehung zwischen ihr und der Familie, in der sie verehrt wird. Diese neue untergeordnete Schicht von Gottheiten beweist die Dynamik einer schnellen Entwicklung der Sphäre der persönlichen Götter, in der nun Dämonen und Heroen die Hauptrolle spielten: «Hier soll nur als solchen gestalten, die sich ohne weiteres als alte sondergötter zu erkennen geben, gezeigt werden, daß die herrschaft der persönlichen götter ihnen nur eine untergeordnete rolle als heroen oder dämonen gestatten konnte, so wie wir das wort des babrios auslegten».22 Der daimon gehört nicht nur dem Individuum, sondern der ganzen Gesellschaft. Es ist dann eine Gefahr, zahlreiche Gottheiten zu ehren, denn die Macht eines Staats wird dadurch stark reduziert und die Institution kann unter diesen Bedingungen nicht mehr so prominent ihr Monopol ausüben. Die Heroen und die Dämonen der Stadt, des Dorfes, stellen eine Mikrorealität der Religiosität dar, die schwer zu kontrollieren ist. Der Zentralismus einer offiziellen Macht, die durch Religion und Kulte die Menschen regiert, ist trotz zahlreicher göttlichen Wesen für alle Griechen präsent: diese Anwesenheit der Autorität ist den Dämonen und den Heroen zu verdanken; diese untergeordnete Schicht der Gottheit ist von 19 Usener 2000, 248. Hier würde ich schon im Voraus die Verbindung von daimon, Heroen und Genien aufzeigen, um den Begriffen eine abgerundete historische Perspektive zu ermöglichen. Obwohl sie zu verschiedenen Zeitpunkten auftreten, bleiben sie in konstanter Berührung und bestimmen somit die Vielfältigkeit und die Ähnlichkeit der unterschiedlichen Kulturen, in denen sie entstanden sind und angewandt wurden. 21 Usener 2000, 249. 22 Usener 2000, 255. 20 58 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates offiziellen Gottheiten der Stadt abhängig. Wenn diese Gottheiten nicht der offiziellen Macht der Stadt entsprochen hätten, wären sie für die Einwohner des Landes überflüssig und unbedeutend gewesen. In der Analyse von Usener sind zahlreiche Beispiele von Gottheiten aufgelistet, die sich in ganz Griechenland und dessen Kolonien ausgebreitet haben. Nun ist hier auch zu beachten, wie sich die “exportierten Modelle der Gottheiten” mit den inländischen Kulten der Kolonien vermischt haben: «Hermes ist Dios aggelos; in Sizilien wurde Aggelos weiblich verehrt wegegöttin (Hekate Enodia) und galt als tochter des Zeus und der Hera».23 Man darf mit Usener zusammenfassen: Wir haben den vorgang so oft im einzelnen beobachten können, daß sich nun leicht ein gesamtbild ergibt. Alle diese götter, solange ihre benennungen begrifflich durchsichtig bleiben, sind schattenhafte gestalten, denen es an körper und schwere fehlt, um sich auf den füßen zu halten. Wie schatten erscheinen sie in dem hellen licht, das über die welt des Zeus ausgegossen ist: sie heißen dämonen oder heroen. Sie sind zu schwach und ohnmächtig, um der anziehungskraft zu widerstehen, welche voll ausgebildete und anerkannte götter verwandten begriffs ausüben. Wollen sie sich die alte würde wahren, so können sie nichts besseres tun als der höheren gottheit sich anschließen. Sie müssen gleichsam hörige werden; um eines mächtigeren schutzes willen geben sie freiheit und selbstständigkeit auf. Das geschieht, indem sie in die gefolgschaft des persönlichen gottes treten; am gewöhnlichsten, indem sie in ihm aufgehn und sich demselben als attribut hingeben.24 Usener deutet an vielen Stellen seines Werks an, dass diese Wesen, Heroen und Dämonen als gefallene Götter bezeichnet werden können. Diese gefallenen Götter müssen, wie schon analysiert, als Attribute einer höheren Gottheit den Bedürfnissen eines sehr komplexen Phänomens entsprechen: es muss in dem alltäglichen Leben der Griechen, des Volkes, immer eine Gottheit geben, welche die Taten der Menschen überwacht und begleitet. Egal, ob es ein offizieller Gott ist oder eines seiner niedrigen Wesen. Der daimon und der heros konstituieren die Verbindung zu einer höheren Macht, die sich nicht allzu oft zeigen darf. Diese Macht bleibt in dem Individuum als teilbares Phänomen und begibt sich auf den Weg des Ich durch die Maske des daimon. Anderseits diszipliniert der heros das Ich als Vorbild für die ganze Familienordnung und stellt ein offizielles Attribut der Gesellschaft dar. Der daimon ist etwas Besonderes, das seiner Natur gemäß versteckt bleiben muss. Der daimon ist ein Gattungsbegriff, 23 24 Usener 2000, 268. Usener 2000, 272. 59 Raffaele Mirelli der sich, anders als der heros, in eine besondere Beziehung zu den Menschen setzt. Er deutet die tiefste Natur des Ich an und kann deswegen mit dem Unbewusstsein verwechselt werden. 2. Die Unbestimmtheit des Göttlichen in dem Philosophen 2.1. Der daimon: seine begrifflichen Koordinaten bei Platon Bevor die direkte Analyse zu den platonischen Dialogen durchgeführt werden kann, steht mir die Herausforderung bevor, eine Interpretation vorzunehmen, die dem Zweck meiner Forschung dient. Zahlreich sind die Kritiken, die sich in der Geschichte der Philosophie durchgesetzt haben. Im Fall Platons ist die Kritikparade seiner Werke unendlich, deswegen würde ich einen “Kommentar” als Mittel zur Interpretation verwenden, um die Komplexität jener zu vermindern. Somit werde ich zugleich fähig, dem daimon ein Eigenes zu verleihen, ohne diese Pluralität von philosophischen Stimmen mäßigen zu müssen. Platons Erbe, seine singuläre Form des Schreibens als neue literarische Form erweitert den Interpretationsspiegel seines Philosophierens und erlaubt ein tieferes Verständnis des Modus philosophicus. Das Ziel dieses zweiten Teil ist es, den daimon in dem systematischen Corpus platonicum zu verorten und ihm eine spezifische Bedeutung zuzuschreiben: Für die Platoniker des Altertums hat die Dämonologie einen bestimmten Platz in dem Gedankenbau des Meisters. Die modernen Darsteller seiner Philosophie sind zu aufgeklärt, um seine Äußerungen über diesen Gegenstand ganz ernst zu nehmen. Aber mit welchem Recht hält man, was von den Dämonen gesagt wird, für bloßes Spiel und überträgt gleichzeitig die physikalischen und physiologischen ‘Lehren’ des Timaios und die ‘Sprachphilosophie’ des Kratylos in die Paragraphen eines Platonischen Systems? Doch nur darum, weil es heut eine Wissenschaft von der Natur und von der Sprache gibt, aber keine von den Dämonen. Nun, der Kratylos gleicht wahrhaftig einem Durcheinander tollster Kapriolen weit eher als einer sprachwissenschaftlichen Abhandlung, und über die mythische Naturwissenschaft des Timaios hätte ein Forscher wie Demokrit vermutlich den Kopf geschüttelt. Überhaupt sollte kein Zweifel sein, daß Platon in seinen Schriften unmittelbar keine Wissenschaft in unserem Sinne lehrt. Und wenn gewiß ‘Spiel’ ist, was die Personen der platonischen Dramen über die Welt des Dämonischen aussagen, so doch ein Spiel, dem wie allem platonischen Spielen tiefer Ernst 60 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates innewohnt. Wer sich freilich erkühnen wollte, diesen Ernst mit Worten auszusprechen, dem würde Platon einwenden: ‘Soviel weiß ich: wenn es schon geschrieben oder gesagt werden sollte, würde es von mir am besten gesagt werden’ (Brief VII 341 D).25 Auf der Basis dieses Zitats von Paul Friedländer will ich mit der Argumentation fortfahren, um das daimonion ti zu definieren, das in der Apologie des Sokrates von Platon benannt wurde. Friedländers hermeneutische Perspektive ist nämlich eine wesentlich reife Voraussetzung dieser Überlegung: der daimon (wie er schreibt “die Dämonen”) ist ein faktischer Teil der Philosophie und der “Wissenschaft” Platons. Doch ist Friedländer vorsichtig und warnt vor der Gefahr, die der daimon mit sich bringt, und er deutet an, dass das daimonion ti eine Prärogative des Sokrates war. Mit Sokrates landet Platon im dämonischen Bereich des Philosophierens: Platon traf auf einen dämonischen Bereich, als er dem Sokrates begegnete. Denn in dem Leben dieses Mannes, der wie kein anderer es sich zur Aufgabe gesetzt zu haben schien, mit der Kraft seines Verstandes das Unklare ‘aufzuklären’, gab es geheimnisvolle Mächte, die er nicht prüfte auf ihren Rechtsanspruch, sondern denen er gehorchte. Er sprach oft und gern von seinem ‘Daimonion’, und so bekannt war diese Seltsamkeit, daß die Anklage darauf fußen und ihm vorwerfen konnte, ‘er führe neue dämonische Wesen (kaina daimonia) ein’. Wir fragen nicht bei der Psychopathologie an, welcher Art dieses Daimonion war, und versuchen nicht mit Schopenhauer ihm einen Platz zwischen Wahrträumen, Geisterseherei und andern okkulten Phänomenen zu geben. Noch weniger freilich darf man das Ungewöhnliche dadurch dem Verständnis näher bringen, daß man es als ‘innere Stimme des individuellen Taktes’, als ‘Ausdruck der geistigen Freiheit’, als sicheren ‘Maßstab der Subjektivität’ dem rationalen und gesellschaftlichen Erfahrungskreis einordnet.26 Als Maßstab einer Subjektivität kann der daimon nicht gelten, weil er die philosophische Subjektivität impliziert. Es wurde schon angedeutet: der daimon ist eine Vor-substantia, eine Voraussetzung und Grundlage der Individualität zur Philosophie und der griechischen Gesellschaft zur Eudämonie. Die Dimension des Dämonischen, in der er seinen Ursprung nimmt (und zwar in der präphilosophischen Zeit der Griechen), ist der Ort an dem der Philosoph seine Motivation zur Wissenschaft als Philosophie schöpft. 25 26 Friedländer 1964, 34. Friedländer 1964, 34-5. 61 Raffaele Mirelli Diese neue Interpretation über Platon und Sokrates kann nur der daimon erzielen, weil er ein Unbestimmtes darstellt, das menschlichen philosophischen Verstand entgeht. Seine neutrale Position zwischen Menschen und Göttern als Jenseitsposition garantiert die Bewegung des Wissens selbst zur Bestimmung der philosophischen und menschlichen Begrifflichkeit des Inneren und des Äußeren. Die mit ihm verbundene Unbestimmtheit ist ebenso Ziel meiner Forschung; durch sie ‘bestimmt‘ er das philosophische Wissen im Sinne einer dynamischen und metamorphierenden Wissenschaft. Der daimon ist nach meiner platonischen Auffassung das Philosophische in dem Menschen, ein mystisches quid der Philosophie Platons und der ganzen griechischen Tradition: Ja man stört sich den Zugang eigentlich schon, wenn man ‘das Daimonion’ sagt, als wäre es ein Ding, anstatt es in der neutralen Ausdrucksart des Griechischen ‘das Dämonische’ zu nennen. In dieser Wortbildung liegt einerseits ausgedrückt jenes Unbestimmte: ‘aber du weißt nicht, von wannen es kommt und wohin es fährt’; dann aber genauer, daß dieses wirkende Etwas nicht innerhalb des Menschen und ihm zur Verfügung ist, vielmehr von einem umfassenden Bereich außer ihm eingreift in ihn und mit Ehrfurcht von ihm bemerkt wird. So gibt es auf einer andern Stufe ‘das Göttliche’, und Platon läßt gar den Sokrates in der Verteidigungsrede beides verbinden und eben jene Erscheinung ‘ein Göttliches und Dämonisches’ (theion ti kai daimonion gignetai 31 D) oder auch ‘das Zeichen des Gottes’ (to tou theou semeion 40 B) nennen.27 2.2. Sokrates vor Gericht: die Rechtfertigung des Philosophen und die Valenz der Apologie als Warnungsschrift für die nachkommenden Philosophen «Was wohl euch, ihr Athener, meine Ankläger angetan haben, weiß ich nicht: ich meines Teils aber hätte ja selbst beinahe über sie meiner selbst vergessen; so überredend haben sie gesprochen».28 Der Ausgangspunkt der ersten Rede ist deutlich gegen die Rhetorik der Sophisten gerichtet. Die Richter sind nämlich von den Anklägern überzeugt worden, dass Sokrates ein Verbrecher sei. Sokrates zeigt ihnen aber den rhetorischen Prozess, durch den man vergessen könnte, was das Wahre im tugendhaften Sinne bedeutet. Wie erklärt Sokrates diesen Prozess? Er sagt: “ich meines Teils aber hätte ja selbst beinahe über sie 27 Friedländer 1964, 35. Platon, «Apologie des Sokrates», 17 A, übersetz v. Schleiermacher in Otto et al. 1957, 13. 28 62 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates meiner selbst vergessen” – das impliziert die Möglichkeit, sein eigenes Wesen zu vergessen. Die Worte und die Methodik der Sophisten sind so überzeugend, dass man die Koordinaten der Individualität verlieren könnte. Das Überreden ist eine der Grundlagen der Sophistik. Die Sophisten waren in der damaligen Zeit die Erzieher der aristokratischen Jugend Athens. Ebenso haben die Richter durch diese Sophistik die Wahrheit und sich selbst verloren. In der Apologie erweist sich die Erkenntnis des Selbst als sehr wichtig. Sie wurde von Platon schon am Ende seiner Briefe skizziert. Sokrates ist der Mensch, der Philosoph, der nach seinem Wesen sucht. Für ihn ist dies das Ziel des tugendhaften Lebens, und zwar die Wahrheit dieser Erkenntnis zu erreichen. «Wiewohl Wahres, daß ich das Wort heraussage, haben sie gar nichts gesagt» 29 : hier kommt das Wort ‘Wahres’ sofort ans Licht. Hier stellt sich die erste Herausforderung der platonischen Lehre dar: wie soll der Forscher das Wort interpretieren und wie soll der Begriff des Wahren in der platonischen Doktrin verstanden werden? Die doxa stellt sich der Wahrheit gegenüber als Gegensatz und Feind. Die Welt, unsere Welt, existiert für den Philosophen als täuschende Realität, aber in ihr besteht immer noch der erste Schritt zu dieser Wahrheit. Der Philosoph lässt sich am Anfang seines Lebens – als eines Lernprozesses – von dieser Welt täuschen. Der Prozess beginnt deswegen in der Welt der doxa: diese Enttäuschung ist notwendig, damit die spätere Welt der eidos erfahren werden kann. Sokrates will diese Pathologie, die von der Rhetorik aktiviert wird, aufzeigen. Rhetorik und Wahrheit stehen im Widerstreit und doxa und eidos tauchen als Parameter des Urteilens auf. «Am meisten aber habe ich eins von ihnen bewundert unter dem vielen, was sie gelogen, dieses, wo sie sagten, ihr müßtet euch wohl hüten, daß ihr nicht von mir getäuscht würdet, weil ich gar gewaltig wäre im Reden».30 Sokrates ist auf seine Art schon bestimmend. Platon will es uns Leser in diesem Fall deutlich machen: Sokrates ist mit seiner wahrhaften Art und mit seiner Erkenntnis des Selbst den meisten zu weit voraus. Es ist nicht einfach, den anderen die Wahrheit zu zeigen, man wird deswegen oft verurteilt und zum Opfer gemacht. Das ist nämlich der Zweck der Apologie: sie ist eine Warnung für die Menschheit und das ist von Platon exoterisch gemeint. Meines Erachtens wurde die Apologie als Warnungsschrift konzipiert für die meisten, aber vor allem für die Philosophen. Diese gilt als Beispiel für die Menschen. Wer nach der Wahrheit sucht und sie verbreiten will, wird alles verlieren – seinen Körper, seine Seele, sein Leben. Diese Deutung – die Apologie als Warnung zu interpretieren und nicht nur als vorbildliche Schrift über Sokrates – exponiert eine Umwertung des platonischen Zweckes bzw. des Philosophen als Verbrecher. Es kann nicht einfach angenommen werden, dass Sokrates im Recht war. Die sokratische Einstellung war für die Gesellschaft zu gefährlich 29 30 17 A, in Otto et al. 1957, 13. 17 A, in Otto et al. 1957, 13. 63 Raffaele Mirelli und die Philosophen, die ihm treu blieben, waren nicht die Majorität, sondern eine kleine Minorität, die sich in der Akademie verstecken sollte und musste. Nur in der Akademie konnten die Worte und die Doktrinen der Philosophen verstanden werden. Außerhalb der Akademie wurden sie als revolutionär und unmöglich, ja als umwertende Kräfte geschätzt. Sokrates und Platon wollten trotzdem die Majorität für sich gewinnen, aber es war dieser Drang zum Heroischen, der sie zur Isolierung verurteilt hat. Die Philosophie von Platon ist meines Erachtens nur unter dieser Perspektive als eine zu idealistische zu verstehen. Denn daß sie sich nicht schämen, sogleich von mir widerlegt zu werden durch die Tat, wenn ich mich nun auch im geringsten nicht gewaltig zeige im Reden, dieses dünkte mich ihr Unverschämtestes zu sein; wofern diese nicht etwa den gewaltig im Reden nennen, der die Wahrheit redet. Denn wenn sie dies meinen, möchte ich mich wohl dazu bekennen, ein Redner zu sein, der sich nicht mit ihnen vergleicht.31 Wer die Wahrheit ausspricht ist gewalttätig und das kann nur schlimme Folgen haben. Die Ankläger meinen auch das Wahre behauptet zu haben, nur können sie nicht verstehen, was Wahrheit tatsächlich bedeutet. Hier zeigt sich die ganze Ironie: die platonische Wahrheit zeigt sich begrenzt auf eine kleine Gesellschaft von Philosophen. Warum sollten die Ankläger sich schämen? Man erfährt die Wahrheit angesichts seiner Taten immer später. Durch eine logische chronologische Konsequenz. Deswegen stellt diese Ironie eine brutale Logik des Denkens und eine aristokratische, elitäre Zugehörigkeit der Philosophen dar: «[...] Diese [die Ankläger] nämlich, wie ich behaupte, haben gar nichts Wahres geredet».32 Sie kennen die Wahrheit nicht. «Ihr aber sollt von mir die ganze Wahrheit hören. Jedoch, ihr Athener, beim Zeus, Reden aus zierlich erlesenen Worten gefällig zusammengeschmückt und aufgeputzt, wie dieser ihre waren, keineswegs, sondern ganz schlicht werdet ihr mich reden hören in ungewählten Worten».33 Sokrates weiß, dass das, was er sagen wird, der Wahrheit entspricht. Er stellt sich schon wieder gegen die reine Rhetorik und betont dies. Die Wahrheit braucht keine Rhetorik; sie kommt direkt ans Ziel. In diesem Abschnitt taucht die Autorität des Sokrates auf. Platon lässt das ganz deutlich erscheinen: Sokrates ist der Mann, welcher die Wahrheit kennt. Die Richter sollten deswegen zuhören und lernen. So mutig ist Sokrates: die Leser bekommen den Eindruck, dass Sokrates an dem Ort des Geschehens keine Angst verspürte. Sokrates ist beinah frech. Platon wollte den Lesern mitteilen, dass derjenige, der sich so frech vor der Autorität 31 17 B, in Otto et al. 1957, 13. 17 B, in Otto et al. 1957, 13. 33 17 BC, in Otto et al. 1957, 13. 32 64 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates präsentiert, ein Verbrechen begeht und das Verbrechen ist dem Philosophen notwendig. Apologetisch ist die Apologie tatsächlich, aber wer sich rechtfertigt, bestätigt vor der Menge sein Schuldgefühl: «Denn ich glaube, was ich sage, ist gerecht, und niemand unter euch erwarte noch sonst etwas».34 Anderseits tritt Sokrates in seinem ehrwürdigen Alter zum ersten Male vor Gericht, und er braucht nicht zu lügen. Sein Leben ist schon genug gelebt worden und das wird er selbst später in dem Kriton andeuten. Indes bitte ich euch darum noch sehr, ihr Athener, und bedinge es mir aus, wenn ihr mich hört mit ähnlichen Reden meine Verteidigung führen, wie ich gewöhnt bin auch auf dem Markt zu reden bei den Wechslertischen, wo viele unter euch mich gehört haben, und anderwärts, daß ihr euch nicht verwundert noch mir Getümmel erregt deshalb. Denn so verhält sich die Sache. Jetzt zum erstenmal trete ich vor Gericht, da ich siebzig Jahre alt bin.35 Schon ist Sokrates zu diesem Zeitpunkt seiner Verteidigung ein wenig vorsichtiger geworden. Die mutige Einstellung verändert sich zu einer “Sympathie” den Richtern gegenüber. In diesem Moment ist Sokrates ein Sophist, indem er sofort den Akzent der Rede umsetzt, damit die Athener das Mitleiden empfinden können. Sokrates ist ein Botschafter, der keine Schuld mittragen kann, er ist ein Mittel, durch das die Wahrheit sich offenbart. Die Wahrheit gehört für Sokrates den Göttern. So wie ihr nun, wenn ich wirklich ein Fremder wäre, mir es nachsehen würdet, daß ich in jeder Mundart und Weise redete, worin ich erzogen worden: ebenso erbitte ich mir auch nun dieses Billige, wie mich dünkt, von euch, daß ihr nämlich die Art zu reden überseht – vielleicht ist sie schlechter, vielleicht auch wohl gar besser – und nur dies erwägt und acht darauf habt, ob das Recht ist oder nicht, was ich sage.36 Hier darf man noch einen Rückzug von Sokrates erleben, und zwar das Sich-Rechtfertigen unter Berufung auf seine kulturelle Tradition, “worin ich erzogen worden”; darin besteht kein Verbrechen: ein Grieche zu sein impliziert die Verschiedenheit der Sprache und die seines Daseins. «Denn dies ist des Richters Tüchtigkeit, des Redners aber, die Wahrheit zu reden».37 Das klingt fast wie eine Predigt: die Wahrheit muss ans Licht kommen; nun ist es aber nicht so einfach, sie zu erkennen. Sokrates wiederholt aber gerne das Wort Wahrheit, um sie den Richtern einzureden, obwohl 34 17 C, in Otto et al. 1957, 13. 17 CD, in Otto et al. 1957, 13. 36 17 D-18 A, in Otto et al. 1957, 14. 37 18 A, in Otto et al. 1957, 14. 35 65 Raffaele Mirelli das sophistisch ist. Ein Richter ist immer nur ein Mensch, und Sokrates ist für Platon ein übermenschliches Wesen. Sein Leben und seine Philosophie sind Objekt der Gesellschaftsinteressen, aber diejenigen, die seinen Lebensstil akzeptieren, sind nicht die Richter und nicht die Menge, sondern seine Schüler, die nachkommenden akademischen Philosophen. Zuerst nun, ihr Athener, muß ich mich wohl verteidigen gegen das, dessen ich zuerst fälschlich angeklagt bin, und gegen meine ersten Ankläger, und hernach gegen der späteren Späteres. Denn viele Ankläger habe ich längst bei euch gehabt und schon vor vielen Jahren, und die nichts Wahres sagten, welche ich mehr fürchte als den Anytos, obgleich auch der furchtbar ist.38 Es ist schon deutlich, dass Sokrates bewusst ist, dass er nicht von allen beliebt gewesen ist. Die Feinde, die er sich geschaffen hat, sind zahlreich und sie haben gegen ihn gearbeitet, um seinem Ruf zu schaden; manche von ihnen versuchen es seit Jahren und andere seit kurzem. Diese Ankläger stammen aus zwei verschiedenen Generationen: in Athen wurde die Philosophie geboren, aber auch verneint. Schon mit Aristophanes kommt diese Wahrheit ans Licht. Die Athener, die Bürger der Stadt sind deswegen hier von Sokrates und Platon als Menge bezeichnet. Mit Sokrates steht zu diesem Zeitpunkt der Geschichte das Wesen der Philosophie vor Gericht. Mit Sokrates bezeichnet Platon die ganze “philosophische Klasse”, die Philosophen. Sie sind angeklagt worden und werden ihrem daimon nicht entgehen können. Das tugendhafte Wahre ist keine Beschäftigung der Menge, sondern nur für die Philosophen. Aber wer ist der Philosoph, außer Sokrates? Der Philosoph ist in platonisch-griechischen Hinsichten derjenige, der einen Auftrag Gottes erfüllt. Ein Gottgeliebter. Durch ihn enthüllt sich die Wahrheit des Seienden. Die arete ist hier, in der Apologie, das Wahre, das Bewahrte. 2.3. Sokrates der Gottgeliebte an einer dämonischen Daseinsstelle: Platons Warnung an die Philosophen Allein jene sind furchtbarer, ihr Männer, welche viele von euch schon als Kinder an sich gelockt und überredet, mich aber beschuldigt haben ohne Grund, als gäbe es einen Sokrates, einen Weisen Mann, der den Dingen am Himmel nachgrüble und auch das unterirdische alles erforscht habe und Unrecht zu Recht mache. Diese, ihr Athener, welche solche Gerüchte verbreitet haben, sind meine furchtbaren Ankläger. Denn die Hörer meinen gar 38 18 AB, in Otto et al. 1957, 14. 66 Platon, der Daimon und die Figur des Sokrates leicht, wer solche Dinge untersuche, glaube auch nicht einmal Götter.39 Der Gottgeliebte ist gegen die Götter eingestellt, so sagen und behaupten die Ankläger. Und was meinte Platon? Eine Apologie, unter der Kategorie des Ironischen zu verstehen und zu lesen, ist keine Entschuldigung, keine Rechtfertigung, sondern erklärt nur das Wahre. Sokrates steht als übermenschliches Wesen in der Mitte zwischen Philosophen und Menge. Er sucht diese Wahrheit im Himmel und im Unterirdischen, steht aber genau in der Mitte, wie ein daimon, zwischen Himmel und Unterwelt und deutet die Spur zur Wahrheit an. Die Zuhörer, vor allem die Richter, sind aber nicht leicht zu beeinflussen und die Zeit, die ihm zur Verfügung steht, um seine Rede fortzuführen, ist zu kurz. Der menschliche (antropodaimon) daimon als Philosoph ist ein menschlicher Gott. Er glaubt – darin besteht das gezeichnete Paradox von Platon – an die offiziellen Götter, aber nicht auf eine absolute, exklusive Weise. Neben den offiziellen Göttern der homerischen Tradition glaubt Sokrates an die weniger offiziellen, die in der griechischen Kultur keinen bestimmten Namen gewonnen haben. Platons Darstellung des Sokrates ist meiner Meinung nach keineswegs menschlich. Sein Wesen beruft sich auf die Dimension der Unbestimmtheit. Seine Position den Richtern gegenüber ist elitär, er verspürt keine Angst und scheint sich vor dem Urteil kaum zu fürchten. Die Figur von Sokrates ist gegen eine absolute Subjektivität, als paradigmatische Autorität. Dieser Sokrates braucht keine Angst zu haben, und dementsprechend keinen Gott im Sinne dieser innerlichen Autorität, die ihn von dieser Furcht erlöst und befreit. Diese Unbestimmtheit in Sokrates hat an sich etwas Göttliches. «[Ich] muß ordentlich wie mit Schatten kämpfen in meiner Verteidigung und ausfragen, ohne daß einer antwortet».40 Die Richter sind Schatten, und das endgültige Urteil bereitet keine Überraschung: für Platon ist es notwendig, eine legendäre Figur des Meisters zu vermitteln. Der historische Sokrates ist deswegen eine Legende, in der sich Mythos und Geschichte vermischen. Seine faktische Existenz kann nicht in Frage gestellt werden, aber seine Legende – und hier meine ich das Koexistieren zweier unterschiedlicher Sphären – muss weiter interpretiert werden. Das bedeutet nicht, dass man hier den historischen Sokrates verneinen will, sondern dass hier ein Paradox entsteht. Meines Erachtens ist hier nicht die Wahrheit über Sokrates gefragt, sondern es gilt zu verstehen, was er für die Bildung der Figur des akademischen Philosophen dargestellt hat. Mit der Figur des Philosophen wurden die Athener, die Bürger, geprägt, aber zu einer Umwertung gebracht, die die Menge und die Philosophie in Gefahr brachte. Weder die Menge noch die Philosophen waren zu dieser 39 40 18 BC, in Otto et al. 1957, 14. 18 D, in Otto et al. 1957, 14. 67 Raffaele Mirelli Umwertung bereit. Die Philosophie kann aus diesem Grund auch für die Philosophen gefährlich sein und natürlich für die Menge der “Nicht-Philosophen”, die sie nicht akzeptieren können: als Philosoph wird man deswegen verurteilt und für die Mitglieder der Menge kann die Wahrheit als Umwertung giftig sein. «Wohl! Verteidigen muß ich mich also, ihr Athener, und den Versuch machen, die verkehrte Meinung, die ihr in langer Zeit bekommen habt, euch in so sehr kurzer Zeit zu benehmen».41 Wie man sieht, spielt die Zeit in der sokratischen Rede eine sehr wichtige Rolle. Immer wieder betont er, wie wichtig die Zeit sei, um eine Meinung zu konstituieren. Sokrates versucht den Richtern zu zeigen, dass die Rhetorik in keinem Falle pädagogisch sein kann. In kurzer Zeit kann Sokrates die Wahrheit nicht erscheinen lassen. Die paideia in seiner Komplexität, im Sinne einer Erziehung zur Wahrheit, kann diesem Zweck nicht dienen. Sokrates ist ein Opfer seiner Zeit in zwei Hinsichten: im Hinblick auf die Zeit, in der seine Feinde ein falsches Bild von ihm aufbauen konnten, und auf die Zeit seines Gerichtsverfahrens, die ihm leider zu kurz war. Raffaele Mirelli mirelliraffaele@gmail.com Literaturverzeichnis Friedländer, P. 1964, Platon, Bd. I. Seinswahrheit und Lebenswirklichkeit, De Gruyter, Berlin. Otto, W. F., E. Grassi e G. Planböck (ed.) 1957, Platon. Sämtliche Werke, in der übersetzung von F. D. E. Schleiermacher, Rowohlt, Hamburg. Rose, H. J. 1935, «Nvmen inest: “Aminist” in Greek and Roman Religion», in The Harvard Theological Review, 28, pp. 237-257. Rose, H. J. 1952, La Notion du divin depuis Homère jusqu’à Platon: sept exposés et discussions, Fondation Hardt, Geneve. Schirnding, A. von (ed.) 1991, Hesiod. Theogonie, Artemis & Winkler, Muenchen. Schönberger, O. (ed.) 2008, Hesiod. Theogonie, Reclam, Stuttgart. Usener, H. 2000, Goetternamen. Versuch einer Lehre von der religioesen Begriffsbildung, Klostermann, Frankfurt am Main. Wilford, F. A. 1965, «Daimon in Homer», in Numen, 12, pp. 217-232. 41 18 E-19 A, in Otto et al. 1957, 15. 68 Mediæval Ontology Rewriting the Proslogion Nicholas of Cusa’s Transformation of Anselm of Canterbury’s Proof of the Existence of God Stephen Gersh The questions concerning the nature and extent of Nicholas of Cusa’s debts to Anselm of Canterbury’s thought have been considered most recently in an article entitled «Nicholas of Cusa’s Intellectual Relationship to Anselm of Canterbury» by Jasper Hopkins. 1 According to this distinguished modern interpreter, Nicholas reveals considerable indebtedness to Anselm in at least five areas: the description of God, the use of a priori reasoning, the assumption of eternal truth, the theory of atonement, and the relation between faith and reason. Nevertheless, although Hopkins rightly decides to emphasize Nicholas’ affinities with the medieval world as well as his anticipations of the modern era, it becomes clear that the fifteenth-century writer’s indebtedness towards his predecessor is combined with considerable independence. It is this complex relation of semi-dependence – which one might call a ‘creative re-writing’ – that I wish to consider in the present essay. Without dissenting from the conclusions of Hopkins’ essay, my intention is to venture into a deeper consideration of the first (and to some degree also of the second and third) area of Nicholas’ indebtedness to Anselm. The focus of this analysis will be the fifteenth-century thinker’s individual and innovative treatment of what is nowadays called the ‘ontological argument’ but was formerly known as the ratio Anselmi. This argument is, of course, stated in the Proslogion. In his preface, Anselm characterizes the one argument of the Proslogion as somehow complementing or completing the many arguments of the Monologion in that this argument is sufficient a to prove itself and b to prove that God truly exists, that he is the supreme good which does not depend on anything else but on which everything else depends in order to be and to be well, and that he is whatever else we believe concerning the divine substance. 2 The argument obviously begins the main discussion of the Proslogion although it is difficult to determine how far it extends within the treatise. That Anselm clearly intends this argument to be a self-evident axiom of human reason reflecting the selfsufficient nature of the divine substance would suggest that the argument represents only the content of chapters two to four. But that he also envisages his argument as proving not only the existence but also the nature of the divine substance would require us to understand the argument as extending 1 2 Hopkins 2006. Anselm of Canterbury, Proslogion pr., ed. Schmitt 1946 (I, 93. 1-10). Stephen Gersh throughout the treatise. 3 Fortunately, our purpose here is not to establish Anselm’s intentions regarding the argument but rather to consider Nicholas of Cusa’s reaction to it. Four aspects of the ratio Anselmi seem particularly relevant here. First, there is the absence of a specified relation between the two definitions of God. Thus, God is ‘something than which a greater cannot be thought’ (aliquid quo nihil maius cogitari possit) but also ‘something greater than can be thought’ (quiddam maius quam cogitari possit). 4 The relation between the two definitions might perhaps be specified by associating the first with the fact that God exists and the second with the manner of God’s existence. Secondly, we find an emphasis upon the process of demonstration. The complementary relation between the arguments of the Monologion and the argument of the Proslogion underlines this aspect. According to the methodology explicitly stated in the earlier treatise, whatever conclusions were to be drawn from the various inquiries had to be based not on scriptural authority but on the ‘necessity’(necessitas) of reason. 5 With emphasis placed on the necessity, it is here the contrast with authority that perhaps most delineates the field of inquiry. Clearly it corresponds to an emphasis upon the process of demonstration. Third, there is the absence of distinction between the kinds of maxima implied in the two definitions of God. In principle, a distinction between the idea that God is the greatest thing that does exist – where the maximum is actual -- and the idea that God is the greatest thing that could exist – where the maximum is potential – might be invoked at this point. Finally, we find a contextualization in dialectic. The complementary relation between the arguments of the Monologion and the argument of the Proslogion also underlines this aspect. According to the methodology explicitly stated in the earlier treatise, whatever conclusions were to be drawn from the various inquiries had to be based not on scriptural authority but on the necessity ‘of reason’ (rationis). With emphasis placed on the reason, it is now the contrast with scripture that perhaps most delineates the field of inquiry. Clearly it corresponds to a contextualization in dialectic. Nicholas of Cusa refers to this cluster of ideas many times in the course of his literary career. Chronologically speaking, a list of the most explicit citations 6 would extend from his first major philosophical work De Docta Igno3 For a general discussion of this question see Gersh 1988, 255-78. Proslogion 2 (I, 101. 4-5); 15 (I, 112. 14-15). 5 Anselm of Canterbury, Monologion, ed. Schmitt 1946 (I, 7. 9-11). 6 All citations of Nicholas’ works will be from the Heidelberg Academy edition: Nicolai de Cusa Opera omnia iussu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis, Hamburg, Meiner 1932-. Individual works are cited by the traditional book and chapter numbers, with volume, section (or page), and line numbers of the Heidelberg edition given in parentheses. 4 72 Rewriting the Proslogion rantia (1440), through De Quaerendo Deo (1445), Apologia Doctae Ignorantiae (1449), Idiota, De Sapientia (1450), De Visione Dei (1453), De Beryllo (1458), De Principio (1459), De Non Aliud (1461), and De Venatione Sapientiae (1462), to his final essay in the field of philosophy De Apice Theoriae (1464). 7 Although Nicholas in every case makes a brief allusion to rather than a detailed analysis of Anselm’s argument, 8 his developments of its conceptual and methodological implications are far-reaching. For example, when Nicholas asserts that one can conceive a God who is greater than can be conceived, 9 he specifies the two definitions as the affirmative and negative aspects of a single relation. Moreover, his argument that any questioning about God’s existence presupposes that existence 10 reduces the emphasis upon the process of demonstration. Again, when Nicholas explains that the God than which a greater cannot be conceived and the God who is greater than can be conceived are both maximal, 11 he specifies the two definitions as a distinction between kinds of maxima. Finally, his analogy between the beryl stone and the maximum based on the trajectory of vision 12 replaces the contextualization in dialectic with a contextualization in geometry. In order to understand the nature of such doctrinal modifications of the ratio Anselmi a little better, we must examine the metaphysical context in which they occurred first in a general way and second with respect to each of the four aspects distinguished As usual for a thinker in the Neoplatonic tradition, it is possible to consider Nicholas’ doctrine either from its more objective and ontological or from its more subjective and epistemological viewpoint. 13 His specification of the two definitions of God as the negative and affirmative aspects of a single relation and as a distinction between kinds of maxima can be understood with respect to the former viewpoint, and his reduction of emphasis upon the process of demonstration and his replacement 7 For these citations see De Quaerendo Deo (h IV, 5. 7-8), Apologia Doctae Ignorantiae (h II, 8. 15-16), De Principio (h X/2b, 26. 16), De Apice Theoriae (h XII, 11. 2-4) – the other passages will be discussed in detail below. 8 Anselm’s actual name is attached to the argument at De Venatione Sapientiae 26 (h XII, 77. 5-6). Elsewhere we find anonymous allusions to what was, obviously, an argument well known to most of Nicholas’ readers. 9 Idiota de Sapientia II (h V2 , 28. 12-13), De Visione Dei 1 (h VI 5, 4-6). 10 IDS II (h V2 , 29. 18-30. 12). 11 De Beryllo (h XI/1, 8. 5-6), DVS 26 (h XII, 77. 2-6). 12 DB (h XI/1, 8. 5-9). 13 For an example of such an analysis of the Neoplatonic tradition before Nicholas of Cusa see Gersh 1978. The distinction is a useful one provided that one does not unconsciously lapse into a post-Kantian sense of ‘subjective.’ This tendency somewhat weakened the otherwise useful analyses of Nicholas’ thought by the German scholars who revived this study in the early twentieth century and were mostly Neo-Kantians by training. 73 Stephen Gersh of the contextualization in dialectic by a contextualization in geometry with respect to the latter. 14 1. Nicholas’ Objective Theory The main lines of this theory, which did not change substantially during the course of Nicholas’ career, are set out in De Docta Ignorantia. 15 Here, we may perhaps distinguish three philosophical ideas which the fifteenthcentury writer shares with his predecessors in the Neoplatonic tradition: the oppositional structure with a privileged term, the continuum, and the combination of the continuum with a disjunction; and three ideas representing innovations on the later writer’s part: the new privileged terms, the continuum as coincidence of opposites or as fourfold structure, and the widening of the disjunction. These two sets of ideas will be distinguished in order to simplify our exposition of Nicholas’ thought. In practice, the writer himself often interprets the first set in terms of the second and vice versa. 1.1. The oppositional structure with a privileged term For Nicholas of Cusa and his Neoplatonic sources, reality in the objective 16 sense consists of a series of oppositions each containing a superior (+) and an inferior (-) term, the most important of these oppositions being unity (+) and multiplicity (-), sameness (+) and otherness (-), rest (+) and motion (-), and eternity (+) and time (-). This structure emerges clearly in De Docta Ignorantia II where Nicholas explains his general theory of the relation between God 14 Two articles, Dangelmayr 1972 and Dangelmayr 1975, are useful in connection with the present topic. In particular, the themes of the role of the coincidentia oppositorum and of the reduced emphasis upon demonstration in Nicholas’ reading of Anselm to be developed below were noted by Dangelmayr. 15 The present author remains unconvinced by certain modern interpretations which stress the developmental side of Nicholas’ thought. The undeniable tensions there between different philosophical positions are mostly to be explained in terms of the dynamic, flexible, and ‘conjectural’ aspects of his thinking. New formulations appear at different points in Nicholas’ career, for example the possest and the non aliud of the later treatises. However, these are mostly explicable as interpretations of his own earlier positions, the process of self-interpretation climaxing in the treatise De Venatione Sapientiae of 1462 where everything passes in review. Useful ‘developmental’ accounts in English are: Watts 1982, and the collected essays of Cranz 2000. 16 The same applies to reality in the subjective sense. As we shall see, reality in the objective sense and reality in the subjective sense cannot be totally separated from one another. 74 Rewriting the Proslogion and the creature in the greatest detail..17 He also applies this structure to the relation between the God who is the unity of geometrical figures and the multiplicity of such figures, 18 to the relation between the one exemplar and the multiple exemplars of the Platonists, 19 and to the relation between the one being and the multiple substances and accidents of the Aristotelians. 20 1.2. The Continuum That the mutually opposed terms represent poles of a continuum is indicated by Nicholas’ description of the universe as proceeding from God ‘through a simple emanation’ (per simplicem emanationem). The writer clearly underlines the simplicity of the process – by stating that all the parts of the universe come into being simultaneously with the whole, contrary to the doctrine of Avicenna and other philosophers that intelligence precedes higher soul and higher soul precedes nature – and also clearly stresses the emanative character of the process. 21 When the simplicity of the process is further specified by saying that on one side of the continuum, God’s unity is a unity ‘to which no multiplicity is opposed’ (cui non opponitur [...] multitudo), 22 and that on the other side of the continuum, the creature’s unity ‘falls without proportion’ (cadat absque proportione) from the unity of God, 23 we can further conclude that the continuum can be viewed exclusively from the side of one of its poles, and that the contradictory terms can also be viewed as overlapping or coextensive. 24 17 De Docta Ignorantia II. 1-3 (h I, 61. 1-72. 22) – on oppositional structure containing superior and inferior term as a logical principle see especially Nicholas’ remarks at DDI II. 1 (h I 61. 1-64. 13). In practice, Nicholas often combines the superior term of one opposition with the inferior term of another, for example unity (+) and otherness (-) in De Coniecturis I. 9 (h III, 37. 1-43. 5). Oppositional structure in Nicholas work is discussed in Beierwaltes 1977. 18 DDI I. 10 (h I, 19. 15-21. 25). 19 DDI I. 17 (h I, 33. 13-20). 20 DDI I. 18 (h I, 36. 5-12). 21 By ‘emanative’ one means ‘dynamically unfolding.’ Nicholas most frequently uses the pair of terms: ‘enfolding’ (complicatio) and ‘unfolding’ (explicatio) to express this idea. 22 DDI I. 24 (h I, 49. 3-13). Cf. DDI I. 2 (h I, 7. 8-9); I. 4 (h I, 10. 26-7); I. 16 (h I, 30. 19-22); II. 2-3 (h I, 65. 11-72. 22). 23 DDI II. 4 (h I, 73. 23-6). 24 It is because of these implications that God’s being is identified with his creating (DDI II 2 (h I, 66. 24-5)) and God’s possibility with his actuality (DDI I. 16 (h I, 30. 8-18)). 75 Stephen Gersh 1.3. The Combination of the Continuum with a Disjunction In the objective or ontological sphere, the continuum always implies a disjunction and vice versa According to Nicholas, it is not the case that God’s unity and sameness are the cause of multiplicity and difference in the creature, but rather the creature’s own failure to achieve the unity and sameness in God – a situation implying a disjunction in the causal connection. 25 On the other hand, it is the case that God’s unity and sameness are the cause of the multiplicity and difference in the creature, rather than simply the creature’s failure to achieve the unity and sameness in God – a situation implying a continuity in the causal connection. 26 This entire argument is also applied to God’s rest and eternity with respect to the creature’s motion and time. 27 2. The New Privileged Terms Beginning in his earliest works, 28 Nicholas introduces at least two oppositions containing a superior (+) and an inferior (-) term which had either not been utilized or at least had not been extensively utilized by earlier Neoplatonists. These are ‘absolute’ (absolutum) (+) and ‘contracted’ (contractum) (-) and ‘infinite’ (infinitum) (+) and ‘finite’(finitum) (-). Given that in both these cases there is said to be a superior term (+) which precludes opposition and an inferior term (-) which allows it, Nicholas is here presenting two oppositions which have the peculiarity of challenging the nature of opposition itself. 29 That ‘absolute’ means something which is not related to, determined from, or limited by another term is indicated by the apparent derivation of the concept from twelfth-century Platonism. 30 One of the principal aims of De Docta Ignorantia is to replace a fourfold cosmological scheme of secular origin consisting of absolute necessity, necessity of involvement, determinate possibility, and absolute possibility with a more implicitly Christian threefold cosmological structure consisting of absolute maximum, contracted maximum, and simultaneously absolute and contracted maximum. 31 A close inspection of 25 DDI II. 2 (h I, 65. 11-66. 6), II. 3 (h I, 71.1-10). DDI II 3 (h I, 71. 1-10). 27 DDI II. 2 (h I, 66. 24-67. 6). 28 Nicholas introduces a number of new terms in his later writings: for example, ‘actual-possible’ (possest) and ‘non-other’ (non aliud). The interpretation of these terms presents special problems which we will not discuss here. 29 See the passages listed in n. 22. 30 We may consider ‘contracted’ to be defined in opposition to ‘absolute’. 31 For the Platonists’ fourfold see DDI II. 7-10 (h I, 81. 16-99. 12); for Nicholas’ threefold (which underlies the entire structure of De Docta Ignorantia) see DDI I. 2 (h I, 26 76 Rewriting the Proslogion terminology in these two schemes reveals that the notion of absolute is set in opposition to the notions of involvement and determinacy. Regarding ‘infinite’ there are probably two things to note. First, the term ‘infinite’ is employed as a synonym for absolute. 32 However, there is a complication in that we also encounter in Nicholas’ texts: the term ‘infinite’ applied to both absolute and contracted, 33 and the term ‘contracted’ applied to both infinite and finite. 34 Secondly, the term ‘infinite’ is employed as a synonym for negative. 35 Obviously this sense of negative – which is opposed to affirmative by Nicholas in the context of divine naming – is not a privative one. 2.1. The Continuum as Coincidence of Opposites or as Fourfold Structure Nicholas’ development of the idea that the mutually opposed terms represent poles of a continuum represents one of his greatest innovations. It is based on interpreting the relation between God and the creature in terms of a a coincidence of opposites – in which the notion of continuum excludes any disjunction – and b a fourfold structure – in which the notions of continuum and disjunction are balanced. In De Docta Ignorantia, the notion of a coincidence of opposites (A/non-B = B/non-A) is applied to various sets of terms defining God with respect to what we might term his transcendence and immanence. 36 Because the continuum as coincidence of opposites involves neither opposed nor mediating terms, it contrasts with the continuum as fourfold structure which involves both opposed and mediating terms. 37 In De Docta Ignorantia, the notion of a fourfold structure (A/non-B, A/B, non-A/B, non-A/non-B) is applied to various conjectures about God’s relation to the creature: for example, the notion that God’s truth is that either something is, or both is and is 7. 1-8. 17); II. 4 (h I, 72. 23-73. 7), the use of terminology in DDI I. 6 (h I, 13. 12-14. 21) and II. 2 (h I, 66. 7-11) suggesting a linkage between the two schemes. The Platonists’ scheme is derived from Thierry of Chartres who in turn had derived it from Boethius. 32 DDI I. 5 (h I, 11. 23-12. 21). 33 At DDI II. 1 (h I, 64. 14-65. 10) Nicholas describes the former as ‘negatively’ (negative) and the latter as ‘privatively’ (privative) infinite. Cf. II. 4 (h I, 73. 22-74. 4). 34 At DDI II. 1 (h I, 64. 14-65. 10). Nicholas explains that the contracted term’s privative infinity is infinite and finite in different respects. 35 DDI I. 26 (h I, 55. 25-56. 1). 36 DDI I. 2 (h I, 7. 1-8. 17); I. 4 (h I, 10. 1-11. 22); I. 16-17 (h I, 30. 5-35. 12); I. 21 (h I, 42. 5-44. 9), etc. As we shall see, the most important term signifying transcendence is ‘maximum’ while the most important term signifying immanence is ‘minimum’. 37 See especially the discussion of the relation between absolute and contracted terms at DDI II. 4 (h I, 73. 8-74. 24). 77 Stephen Gersh not, or is not, or neither is nor is not. 38 The relation between the notions of coincidence of opposites and of fourfold structure is an extremely subtle one, and Nicholas emphasizes that the former is not to be completely separated from the latter but somehow discovered by a more elevated mode of thinking within it. 39 2.2. The Widening of the Disjunction As we have seen, Nicholas’ insistence that the cause of multiplicity and difference in the creature is the creature’s failure to achieve the unity and sameness in God although God’s unity and sameness is in a sense also the cause of multiplicity and difference in the creature, introduces a disjunction into the continuum of causal connection. This disjunction is widened by his further argument that the sphere of the creature is dominated by proportion – which represents a specific mathematical form of multiplicity and difference – whereas there is no proportion between the creature and God. 40 Given that the relation between God and the creature is the paradigmatic instance of the relation between object and subject, analysis of the epistemological consequences of this widening of the disjunction becomes a major preoccupation of De Docta Ignorantia. 3. The Relation between the two Definitions of God The objective or ontological theory derived from Neoplatonism and especially the innovations introduced into that theory by Nicholas himself provide the framework within which the two definitions of God furnished by the ratio Anselmi can be given a new interpretation. For example, De Docta Ignorantia relates the first and second definitions by stating that we can only attain God in an incomprehensible manner, because that than which a greater cannot be – ‘since it is simply and absolutely greater than can be comprehended by us’ 41 -- is infinite truth. The relation between the first and second definitions established by the conjunction cum (‘since’) clearly corresponds to the relation 38 This illustration is taken from DDI. I. 6 (h I, 13. 12-14. 21). In a passage following on closely from that cited in the previous note, Nicholas gives as examples of fourfold the numbers 1, 10, 100, 1000, four types of universal, etc. (DDI II. 6 (h I, 79. 1-81. 15)). 39 DDI. II. 5 (h I, 76. 1-78. 29). Exploration of various combinations of the notions of coincidence of opposites and of fourfold structure is a major preoccupation of De Coniecturis. See for example the important discussion in DC I. 11(h III, 58. 1-59. 28). 40 DDI I. 1-3 (h I, 5. 1-9. 28); I. 19 (h I, 37. 11-39. 21), etc. 41 DDI I. 4 (h I, 10. 4-5) simpliciter et absolute cum maius sit, quam comprehendi per nos possit. Nicholas has already stated this ‘simplified’ version of the first definition at DDI I. 2 (h I, 7. 4-5). 78 Rewriting the Proslogion between the transcendence and immanence of God which is the main type of coincidence of opposites discussed in this treatise. 42 Among later texts which develop this argument further, Idiota de Sapientia II establishes a relation between the first and second definitions and then interprets this relation in terms of the fourfold structure. Here, the orator’s question how one can conceive a God who is greater than can be conceived is answered first in terms of that distinction between affirmative and negative divine naming which has been so well established in the earlier philosophical tradition. But then a more complex distinction is introduced: There is also a consideration of God of a kind where neither affirmation nor negation befits him but according to which he is above all affirmation and negation. In this case, the answer is to deny affirmation and negation and their combination. Thus, when it is asked whether God exists, according to affirmation one must reply on the basis of the presupposition: namely, that he exists and indeed is the absolute presupposed existence itself. According to negation one must reply that he does not exist, since in this ineffable manner of speaking nothing at all that can be said befits him. According to the assumption that he is above all affirmation and negation one must reply that he neither is absolute existence nor is not absolute existence nor is and is not absolute existence simultaneously. Rather, he is above these. 43 This passage is instructive in that it identifies the negative (non-A/B), affirmative (A/non-B), and combined (A/B) terms of the fourfold structure with the negative, affirmative, and combined divine names (non-existence, 42 In a sense, the two definitions thereafter remain permanently associated with the two aspects of Nicholas’ notion of docta ignorantia, i.e. the ‘learning’ and the ‘ignorance.’ This association is still detectable in a late treatise such as De Non Aliud. Near the beginning of this text, Nicholas speaks of God as that which is greater than can be conceived (DNA 4 (h XIII, 8. 23-24)). Towards the end, he says that God is that than which a prior cannot be conceived (DNA 22 (h XIII, 52. 5)). These two statements are connected by the paradoxical formulation – attributed to Dionysius the Areopagite – that the one thing known about God is that he precedes all knowing and conceiving (DNA 14 (h XIII, 29. 26-28)). On the last point cf. DQD (h IV, 5. 7-8). 43 IDS II (h V2 , 32. 14-24) Est deinde consideratio de deo, uti sibi nec positio nec ablatio convenit, sed prout est supra omnem positionem et ablationem. Et tunc responsio est negans affirmationem et negationem et copulationem. Ut, cum quaereretur, an deus sit, secundum positionem respondendum ex praesupposito, scilicet eum esse et hoc ipsam absolutam praesuppositam entitatem. Secundum ablationem vero respondendum eum non esse, cum illa via ineffabili nihil conveniat omnium, quae dici possunt. Sed secundum quod est supra omnem positionem et ablationem respondendum eum nec esse, absolutam scilicet entitatem, nec non esse nec utrumque simul, sed supra. 79 Stephen Gersh existence, non-existence and existence) respectively. This leaves the neutral (non-A/non-B) term of the fourfold structure free to be associated with the definition of God as that which is greater than can be thought. Several passages in De Visione Dei establish a relation between the first and second definitions, and then interpret this relation in terms of the coincidence of opposites, the fourfold structure, and the widened disjunction. 44 Having established from the beginning of the treatise that the God who is greater than can be thought is both subject and object of vision, 45 Nicholas goes on to develop this argument by transforming the notions of a coincidence of opposites – exemplified with the absoluteness and contractedness of God 46 – into the notion if a circle – where every divine name becomes convertible with every other divine name 47 – and then into the image of the circular ‘wall of paradise’ which separates us from God. 48 The argument becomes particularly interesting when -- with an implicit transformation of a circle into a square -- the fourfold structure utilized in other texts comes to the fore. Nicholas here writes: «You, O Lord [...] move with all things that move and you rest with all things that are at rest. And because some things are found to move while others are at rest, then you, O Lord, are simultaneously at rest and in movement [...] However, you are neither moved nor at rest because you are super-exalted and absolute with respect to all things that can be conceived or named.» 49 This passage seems to combine the coincidence of opposites with the fourfold structure a by establishing a coincidence between the neutral term (non-A/non-B) and the affirmative, combined, and negative terms, and b by treating the combined term (A/B) itself as a coincidence of the affirmative and negative terms. In the former case, the opposites are specified as absolute and contracted whereas in the latter, they are specified as moving and at rest. 44 The connection between the two definitions of Anselm’s Proslogion and Nicholas’ argument in De Visione Dei is discussed in the first half of the excellent article Duclow 1982. This author’s conclusion is that the threefold structure of finite, limit, and infinite which he sees as implicit in Nicholas’ metaphor of the wall of paradise «expresses the implicit structure of the Proslogion.» (p. 26). Duclow rightly notes that there are also significant differences between Anselm and Nicholas, e.g. that Nicholas views the divine nature as inherently unknowable whereas Anselm attributes our ignorance of God to sin, and that Nicholas has a systematic doctrine of infinity whereas Anselm follows the traditional Augustinian model. 45 De Visione Dei 1 (h VI, 5. 1ff). 46 DVD 2 (h VI, 7. 1-18). 47 DVD 3 (h VI, 8. 11-14). 48 DVD 9 (h VI, 37. 7-12). 49 DVD 9 (h VI, 35. 5-13) tu, domine [...] cum omnibus, quae moventur, moveris et cum stantibus stas. Et quia reperiuntur, qui aliis stantibus moventur, tunc tu, domine, stas simul et moveris [...] Nec tamen moveris nec quiescis, quia es superexaltatus et absolutus ab omnibus illis quae concipi aut nominari possunt. 80 Rewriting the Proslogion A few pages later after the introduction of the ‘wall of paradise’ image, the fourfold structure reappears: «And when I see you in the paradise, O Lord, which that wall of the coincidence of opposites encircles, I see you neither enfolding nor unfolding disjunctively or conjunctively. For disjunction and conjunction are alike the wall of coincidence, beyond which you exist absolute with respect to everything that can be said or thought.» 50 This passage again seems to combine the coincidence of opposites with the fourfold structure. However, there are important distinctions between the two passages. First, the presence of the fourfold structure is indicated not as previously by the specification of the terms themselves – absolute, contracted, etc. – but now by the specification of the relations between them – conjunction, disjunction. Secondly, the reference to God as within the wall of paradise shows either that God has become a separate term beyond coincidence b or that God has become a separate term beyond both coincidence a and coincidence b. 51 4. The Theory of Maxima As we have seen, there are four aspects of the ratio Anselmi which form the starting-points of Nicholas’ innovations. These are: the specification of the two definitions as the affirmative and negative sides of a single relation, the reduction of the emphasis upon demonstration, the specification of the two definitions as a distinction between kinds of maxima, and the replacement of the contextualization in dialectic with a contextualization in geometry. We should turn now to the distinction between kinds of maxima. Given that the theme of the maximum dominates the treatise De Docta Ignorantia to such an extent that it grounds the distinction between the work’s three books, it is obviously better to refer the reader to some of the earlier published treatments than to attempt a full analysis here. However, it may be useful to summarize the argument of book I as it develops in counterpoint with the ratio Anselmi. In chapter two, the maximum is identified with a simplified version of the first definition of God: namely, that than which a greater cannot be. The maximum is also said to coincide with the minimum because it admits 50 DVD 11 (h VI, 46. 6-11) Et quando video te deum in paradiso, quem hlc murus coincidentiae oppositorum cingit, video te nec complicare nec explicare disiunctive vel copulative. Disiunctio enim pariter et coniunctio est murus coincidentiae, ultra quem exsistis absolutus ab omni eo, quod aut dici aut cogitari potest. 51 Another passage relevant in this context is DVD 16 (h VI, 68. 7-12) where Nicholas connects the coincidence of opposites implicit in our incomprehensible comprehension of God with an ‘intellectual desire’ (desiderium intellectuale). The latter is directed towards that than which nothing is able to be more desirable – which obviously represents a more ‘affective’ version of the definition of God. 81 Stephen Gersh of no opposition. 52 Moreover, the maximum is subdivided into absolute, contracted, and simultaneously absolute and contracted maxima. Chapter three elaborates the distinction between the ‘simple maximum’ (maximum simpliciter) which cannot enter into a relation of more and less and an ordinary maximum which does enter into such a relation. 53 In chapter four, Nicholas associates the maximum with the coincidence of opposites in several ways. First, the coincidence between the two definitions of God and the coincidence between the transcendence and immanence of God are understood as relations between two maxima 54 and secondly, the maximum is said to coincide with the minimum because that which is everything that it is able to be can be neither more than itself nor less than itself. Chapter five develops the association of the maximum with the ‘infinite,’ while chapter six develops the association of the maximum with the ‘absolute.’ 55 The theme of the maximum reappears in chapter sixteen where Nicholas explains that possibility and actuality coincide in the maximum. After repeating his arguments that the maximum coincides with the minimum because it admits of no opposition, and that the coincidence between the transcendence and immanence of God is a relation between two maxima, Nicholas also explains that the maximum which coincides with the minimum is the supreme measure of all things falling between a maximum and a minimum. Chapters seventeen and eighteen further develop the argument concerning the measure of all things by associating the maximum with the primary exemplar of Platonic philosophy. Finally, the theme of maximum reappears in chapter twenty-four where Nicholas explains that the ‘name of the maximum’ (nomen maximi) is the ‘maximal name’ (nomen maximum). This name is the biblical Tetragrammaton. Nicholas’ discussion of the maximum in De Docta Ignorantia shows the relation between this concept and the privileged terms of absolute and infinite and also between this concept and the coincidence of opposites. His references to the maximum in certain later texts show the relation between this concept and the coincidence of opposites and also the relation between this concept and the disjunction. 56 In De Beryllo, Nicholas develops an analogy between a beryl stone which corrects the deficiencies of physical vision by having simultaneously a form of 52 On absence of opposition see p. 8-9. What Nicholas calls the ‘simple’ maximum corresponds to the absolute maximum. This maximum is the one studied in book I. What we call the ‘ordinary’ maximum (to which Nicholas assigns no name here) corresponds to the contracted maximum. This is the maximum is studied in book II.. 54 This passage was discussed in the previous section. 55 On these terms see p. 10. 56 Some of these later arguments are anticipated in DC I.10 (h III, 50. 1-15) and DC I. 11 (58. 1-60. 6). 53 82 Rewriting the Proslogion convex and concave and an intellectual beryl which corrects the deficiencies of intellectual vision by having simultaneously a form of maximum and minimum. 57 The process of correction – which involves the straightening of the refracted line of vision whereby we perceive the world in its difference and multiplicity by means of a coincidence of opposites – is described as follows: «Let us apply the beryl to mental eyes, and let us see through the maximum than which nothing can be greater and likewise through the minimum through which nothing can be less. And we see the principle which is before everything great and small – completely simple with respect to every mode of division – and through which everything great and small is divisible.» 58 In this text, what we have termed the disjunction corresponds to the difference between the straight line and the refracted line in the angle of vision, the emphasis being placed on the reducibility of the disjunction. De Venatione Sapientiae summarizes many of Nicholas’ ideas about the maximum, the coincidence of opposites, and the disjunction in a passage where the notion of continuum plays an important role. Here, Nicholas contrasts an ‘actualized-possibility’ – which corresponds to what was earlier called the absolute maximum and is similarly associated with the coincidence of opposites – with a ‘possibility-of-being-made’ – which corresponds with or overlaps with what was previously called the contracted maximum, associating the former with the second definition of God. Regarding the actualized-possibility he writes: «For it is not possible for anything to be seen rationally which that actualized-possibility lacks, since the latter is actually and most perfectly everything comprehensible and everything that exceeds all comprehension -- blessed Anselm truly asserting that God is that which is greater than can be conceived.» 59 A few lines below, Nicholas describes the relation between the actualized-possibility and the possibility of being made – which are now identified with simple and actual maximum respectively and also with causing and causable respectively – by stressing in the former case the disjunction between the two terms and in the latter case the continuum. «This is the basis of the principle of learned ignorance: namely, that with respect to things admitting more and less one never reaches a simple maximum or a simple minimum, even though one can reach an actual maximum and minimum [...] 57 DB (h XI/1, 3. 1-5). DB (h XI/1, 8. 5-9) Applicemus beryllum mentalibus oculis et videamus per maximum quo nihil maius esse potest, pariter et minimum, quo nihil minus esse potest, et videmus principium ante omne magnum et parvum, penitus simplex et indivisibile omni modo divisionis, quo quaecumque magna et parva sunt divisibilia. 59 DVS 26 (h XII, 77. 2-6) Non enim potest quicquam rationabiliter videri, quo ipsum possest careat, cum omnia comprehensibilia et omnem comprehensionem excedentia perfectissime actu existat, beato Anselmo veraciter asserente Deum esse maius quam concipi possit. 58 83 Stephen Gersh the causable is not the causing power, but rather the cause is potentially in the causable. The causable never becomes the causing, but rather the causing power turns into actuality at the limit of the causable.» 60 In the course of his discussion, Nicholas explains the relations between the creator and the creatable, the active intellect and the intelligible, and fire and heat in terms of the disjunction and the continuum. Interlude: The Question of Sources In order to understand more clearly what we have termed the ‘Rewriting of the Proslogion,’ we should at this point insert a few remarks about Nicholas’ philosophical sources. Now it is impossible to determine whether it was the reading of certain sources which inspired the Nicholas’ innovations in doctrine or Nicholas’ innovations in doctrine which encouraged his reading of those sources, given the extent to which the hermeneutics and the metaphysics of premodern philosophers and especially the hermeneutics and the metaphysics of Nicholas of Cusa are implicated in one another. Nevertheless, it is illuminating to make a methodological detour into sources provided that this necessary qualification is prefixed. Indeed, the essential philosophical distinction between Anselm and Nicholas will perhaps be brought into a sharper focus in this way. One of the most important sources used by Nicholas but not by Anselm is Thierry of Chartres. 61 Nicholas appears not to know this author by name, although the combination of lavish praise for an anonymous commentator on Boethius’ theological writings in the Apologia Doctae Ignorantiae 62 and the repeated occurrence of Thierry’s very distinctive teachings in Nicholas’ other works makes the debt unmistakable. In De Docta Ignorantia, Nicholas quotes the distinction between absolute necessity, determinate necessity, determinate possibility, and absolute possibility established by Thierry 63 and, although reducing the four terms to three by identifying absolute necessity and absolute possibility, articulates a fourfold structure of the logical form A/non-B, A/B, 60 DVS 26 (h XII, 79. 1-10) Haec est ratio regulae doctae ignorantiae, quod in recipientibus magis et minus numquam devenitur ad maximum simpliciter vel minimum simpliciter, licet bene ad actum maximum et minimum [...] non est factibilitas potentia faciens, sed in ipsa factibilitate faciens est in potentia. Factibile enim numquam fit faciens, sed potentia faciens in termino factibilitatis in actum pervenit.. 61 Chronology obviously plays a role here, since Thierry of Chartres was active in the second and third decades of the twelfth century, i.e. one generation after Anselm. 62 Apologia Doctae Ignorantiae (h II, 24. 5-7). 63 Thierry (and Nicholas) speak of ‘necessity of involvement’ (necessitas complexionis) rather than determinate necessity, following the terminology of Boethius’ De Consolatione Philosophiae which was the original source of the doctrine. 84 Rewriting the Proslogion non-A/B, non-A/non-B within a discussion of the contracted maximum. 64 Another source peculiar to Nicholas is Dionysius the Areopagite. 65 One could argue that this Christian Platonic writer -- whom almost everyone before Lorenzo Valla assumed to have composed his treatises during the apostolic period -- played a more fundamental role in determining the direction of Nicholas’ own philosophical speculation than did any other. It was from Dionysius that the idea of a polysemous negation representing a differentiation (non-being meaning ‘other than being’) and b superiority (non-being meaning ‘above being’) and again b1 intensification (above being meaning ‘increased being’) and b2 transcendence (above being meaning ‘surpassing being’) was learned. Given that the negative represents a comparison of more or less in the second, third, and fourth senses, but enters into a strict binary opposition with the affirmative in the first sense, negation as such becomes a symbol of the inseparability between the metaphysical ideas of continuum and disjunction. 66 Another important source used by Nicholas but not by Anselm is Proclus. 67 This pagan Platonist is cited frequently by name in Nicholas’ later writings, one of the interlocutors in his dialogue De Non Aliud 68 being the translator into Latin of Proclus’ Theologia Platonis and the speaker assigned the task of expounding at length the doctrine contained there. In De Principio, Nicholas notes the distinction between participating, participated, and unparticipated principles established by Proclus and, by expanding the three terms to four by combining and separating the participating and participated terms, articulates a fourfold structure of the logical form A/non-B, A/B, non-A/B, non-A/non-B within a discussion of the divine names. 69 If the Dionysian idea of polysemous negation is applied to this scheme in such a manner that the un-participated term can be construed as the ‘intensely participated’ term, one can perhaps at last see clearly how Nicholas conceives the strange relation of identitydifference between absolute and actual maxima. These authors representing direct sources of specific passages and arguments in Nicholas of Cusa’s writings might be contrasted with certain other authors who probably constitute indirect sources. Moreover, given the importance of the fourfold structure of the logical form A/non-B, A/B, non-A/B, non-A/non-B, two authors who exploit this scheme extensively might be sin64 DDI II. 7-10 (h I). On Nicholas’ use of Thierry of Chartres see McTighe 1958. Although Anselm could have known Dionysius, he seems to have preferred the less obviously apophatic writers Augustine and Boethius. 66 On Nicholas’ use of Dionysius see the chapter «Die Präferenz für Ps.-Dionysius bei Nikolaus von Kues und seinem italienischen Umfeld» in Senger 2002. 67 Since works of Proclus were first translated into Latin in the late thirteenth century, they were not available to Anselm. 68 De Non Aliud 1 (h XIII, 3. 1-9). 69 De Principio (h X/2b, 36. 1-17). On Nicholas’ use of Proclus see Beierwaltes 2000. 65 85 Stephen Gersh gled out here for special mention. The first of these probable indirect sources is Eriugena who introduced the fourfold structure in order to “divide” nature into creating and not created, creating and created, not creating and created, and neither creating nor created, and then employed this division as the structural basis of his treatise Periphyseon. Nicholas’ familiarity with this writer is proven by his explicit references in Apologia Doctae Ignorantiae to the author alone under the name Iohannes Scotigena 70 and to the author and his work with the words Iohannis Scotigenae Peri Physeos. 71 That Nicholas had actually studied at least part of Eriugena’s work with care is shown by the existence of a set of marginal glosses to Periphyeon, book I written in his own hand in the MS London, Brit. Libr., Addit. 11035 (tenth century). 72 These glosses draw attention to specific ideas in Eriugena’s treatise in the areas of theology and logic such as the unknowability of God, the application of contraries to God, and the quasi-identity between God and creation, and occasionally develop these ideas further: for instance, by recasting Eriugena’s account of emanative procession in terms of “contraction” (contractio). The second probable indirect source of Nicholas’ thought is Honorius Augustodunensis who paraphrased and excerpted Eriugena’s treatise in order to produce a new work entitled Clavis Physicae. Nicholas’ familiarity with the work if not with its writer is proven by his explicit reference again in Apologia Doctae Ignorantiae to something called the Clavis Physicae Theodori. 73 The existence of a set of marginal glosses to this Clavis Physicae written in his own hand in the MS Paris, Bibl. Nat. lat. 6734 (twelfth century) shows that Nicholas had studied this Eriugenian paraphrase also with care. 74 These glosses draw attention to specific ideas in Honorius’ treatise mainly in the area of Christian anthropology such as the nature of the resurrection body and the plenitude of humanity in Adam. Now in actual fact, Nicholas does not draw specific attention to the use of the fourfold structure in either Eriugena’s treatise or Honorius’ re-working of the latter. However, this is probably because he saw the dialectical methodology that it implied as absolutely fundamental or even self-evident, and his frequent habit in glossing these and other texts is to pass over in silence points that have been rehearsed time and time again in his own writings. 70 ADI 30 (h II. 21. 2). ADI 43 (h II, 29. 17-30. 1). 72 See Institut für Cusanusforschung 1963 (with the actual text of the marginalia on pp. 86-100 of this publication). 73 ADI 43 (h II, 29. 17). 74 See Honorius Augustodunensis, Clavis Physicae, ed. Lucentini 1974, p. xii and plate iv. 71 86 Rewriting the Proslogion 5. Nicholas’ Subjective Theory Returning to the distinction made earlier between the objective and ontological and the subjective and epistemological aspects, we should now follow the second of these two trajectories in Nicholas’ thought with the help of his dialogue Idiota de Mente. Once again, we may perhaps distinguish the three philosophical ideas which the fifteenth-century writer shares with his predecessors in the Neoplatonic tradition: the oppositional structure with a privileged term, the continuum, and the combination of the continuum with a disjunction; and the three ideas constituting innovations on the later writer’s part: the new privileged terms, the continuum as coincidence of opposites or as fourfold structure, and the widening of the disjunction. 75 5.1. The oppositional structure with a privileged term For Nicholas of Cusa and his Neoplatonic sources, reality in the subjective 76 sense also consists of a series of oppositions each containing a superior (+) and an inferior (-) term, the most important of these oppositions again being unity (+) and multiplicity (-), sameness (+) and otherness (-), rest (+) and motion (-), and eternity (+) and time (-). This structure emerges clearly in Idiota de Mente where Nicholas compares the enfolding and unfolding of the divine mind with the enfolding and unfolding of the human mind, what is enfolded or unfolded in these divine and human processes of thinking being the series of oppositions listed above. 77 The epistemological theory is complicated by Nicholas’ arguments that the human mind is strictly an image rather than an unfolding of the divine mind, that the divine mind has a formative whereas the human mind has a conformative activity, and that the divine mind enfolds things that themselves enfold. It should also be noted that the enfolding and unfolding of both the divine and the human minds take place both with respect to ‘concepts’ (notiones) and with respect to ‘words’ (nomina). 78 5.2. The Continuum The process of divine thinking that unfolds concepts and words and the process of human thinking that on the one hand conforms to this thinking and on the other forms its own thinking represent not so much the establishment of a 75 In what follows, we will not study all the categories applicable within the “objective” theory also within its “subjective” counterpart, since this task has already been accomplished in part during the earlier discussions. 76 For the objective theory see p. 6. 77 Idiota de Mente 4 (h V2 , 74. 12-25). 78 See IDM 4 (h V2 , 74. 1-79. 10) for concepts and IDM 2 (h V2 , 58. 1-68. 16) for words. 87 Stephen Gersh discrete network of ideas as the discrete marking of a continuum. The unity of this continuum is indicated from the side of the creature by his discussion of the ‘assimilative power’ (vis assimilativa) which permits the human mind as unity to become every kind of multiplicity. Thus, the human mind from being the unity of the point can assimilate itself to the line and from being the unity of the now can assimilate itself to time. 79 6. The New Privileged Terms The oppositions of absolute (+) and contracted (-) and of infinite (+) and finite (-) that are emphasized more by Nicholas than by earlier Neoplatonists also play a significant role in the epistemological context. In Idiota de Mente, the human mind is said to be able to achieve as a highest level of contemplation the ‘intuition of absolute truth’ (intuitio veritatis absolutae) where everything is seen without multiplicity or difference, 80 and similarly the human mind is said to ‘elevate itself to infinity’ (se ad infinitatem elevare) when it sees that all the exemplars or Forms of things are one. 81 It should be noted that the human mind – which is a contracted and finite being – does not become identified with the absolute or the infinite itself in these moments of contemplation. 6.1. The Widening of the Disjunction The argument that the sphere of the creature is dominated by proportion whereas there is no proportion between the creature and God -- together with the widening of the disjunction in the continuum of causal connection resulting from this argument -- is the basis of some of the most far-reaching developments in Nicholas’ epistemology. It is at this point that the famous theory of ‘conjectures’ (coniecturae) to which Nicholas devoted an entire treatise comes into play, 82 for a conjecture basically amounts to a special kind of 79 IDM 4 (h V2 , 75. 1-12). Cf. IDM 3 (h V2 , 72. 1-14). IDM 7 (h V2 , 105. 12-106. 1). 81 IDM 2 (h V2 , 67. 2-3) and IDM 3 (h V2 , 73. 1-6). 82 De Coniecturis (h III). The doctrine of conjecture stated in this work is extremely complicated, and we can only summarize those aspects relevant to the present topic here. Nicholas defines conjecture as ‘a positive assertion participating with otherness in truth as it is’ (positiva assertio in alteritate veritatem, uti est, participans) (DC I. 11 (h III, 57. 10-11)). Two aspects of conjecture are particularly important: 1. Conjecture is a positive assertion. The combination of continuum and disjunction is a combination of positive and negative. In a sense, conjecture treats this combination with emphasis on the affirmative side, and learned ignorance the combination with emphasis on the negative side. 2. Conjecture is opposed to ‘precision’ (praecisio). This term seems to have 1 an absolute sense as a the situation where there is no longer a combination of 80 88 Rewriting the Proslogion thought, argument, or theory which is produced in relation to the combination of a continuum with a disjunction. In a passage of Idiota de Mente, Nicholas’ explanation of the human mind’s introduction of number and proportion into things as it attempts to grasp the infinity of the extra-mental reality together with his insistence that extra-mental reality does have multiplicity from the divine mind provides us with an example of a conjecture. 83 In another passage, his provisional endorsement of the Peripatetic position that nothing can arise in the intellect which was not previously in reason or in sense together with his combination of Platonic and Peripatetic tenets in postulating simultaneously a universal through which particulars exist and a universal derived from particulars provides us with another example of a conjecture. 84 The thesis that there is no proportion between the creature and God is illustrated by a striking analogy between the Layman’s physical activity of carving spoons and his intellectual activity of making conjectures. The Layman works not by imitating the forms of created things – as does a painter – but by molding his material until the proportion underlying the form appears. 85 We might paraphrase this by saying that the painter is an artisan who takes no account of the combination of continuum and disjunction – since he assumes the fixity of his object – whereas the Layman is one who accepts and exploits this combination in his work. 7. The Reduction of the Process of Demonstration The subjective or epistemological theory derived from Neoplatonism and especially the innovations introduced into that theory by Nicholas himself provide the framework within which the ratio Anselmi can be given a new interpretation. In particular, a reduction of the emphasis upon the process of demonstration with respect to the two definitions of God is a consequence of certain developments within the context of that epistemology. An argument in Idiota de Sapientia II is a good illustration. Here, the Orator poses the question of how one can conceive God who is greater than can be conceived and, after several dialogic exchanges, the Layman answers by explaining that God may be approached in terms of the fourfold structure. The intervening exchanges are of great interest since the Layman argues as follows: continuum and disjunction, or b the fact that there is a combination of continuum and disjunction; and 2. a relative sense as the correction of a conjecture (see DC I. 10 (h III, 52. 1-13) and DC I. 11 (h III, 54. 1-57. 17)). 83 IDM 6 (h V2 , 93. 1-6). 84 IDM 2 (h V2 , 65. 1-66. 20) and IDM 4 (h V2 , 77. 5-79. 10). 85 IDM 2 (h V2 , 62. 8-14). On conjecture see further IDM 5 (h V2 , 82. 1-17) and IDM 7 2 (h V , 102. 11-15). 89 Stephen Gersh Every question about God presupposes what the question is about. Therefore one must bring into the reply with regard to every question about God that which the question presupposes. For God is signified in the signification if all terms, although he is non-signifiable [...] If somebody were to ask you whether God exists, you must say what is presupposed: namely, that he exists because he is the existence that is presupposed in the question. Thus, if somebody were to ask you what God is, since this question presupposes that quiddity exists, you will reply that God is absolute quiddity itself. And so it applies in all cases. 86 This passage is instructive in showing that the process of questioning and answering and presumably also the process of logical inference is less akin to the discovery of a new fact than to the revelation of something concealed and less akin to the sequence between temporal moment A and temporal moment B than to the transition from temporal moment A (or B) to complete timelessness. Several passages in Idiota de Mente explain what amounts to a nondiscursive mode of thinking in more detail. At one point, the Layman explains the difference between confused reason and reason informed by mind using an analogy between an uneducated man and a trained scholar as follows: «Thus, reason makes syllogisms and does not know what it is making syllogisms about without mind. But mind informs, illuminates, and perfects reasoning so that it might know what it makes syllogisms about [...] as though an uneducated man were to read some book without knowing the meaning of the words [...] while there is another man who reads, knows, and understands what he is reading.» 87 Strictly speaking, Nicholas’ analogy between psychic faculties and types of reader deals not with reason and mind but with reason and the relation between reason and mind, and therefore not with the temporal and the non-temporal spheres but with the temporal separated from and connected with the non-temporal sphere respectively. Nevertheless, that Nicholas sees the discursive and temporal processes of cognition as derived 86 IDS II (h V2 , 29. 18-30. 9) Omnis quaestio de deo praesupponit quaesitum, et id est respondendum, quod in omni quaestione de deo quaestio praesupponit, nam deus in omni terminorum significatione significatur, licet sit insignificabilis [...] Cum ergo a te quaesitum fuerit, an sit deus, hoc quod praesupponitur dicito, scilicet eum esse, quia est entitas in quaestione praesupposita. Sic si quis quaesiverit quid est deus, cum haec quaestio praesupponit quiditatem esse, respondebis deum esse ipsam quiditatem absolutam. Ita quidem in omnibus. 87 IDM 5 (h V2 , 84. 4-10). sic ratio syllogizat et nescit quid syllogizet sine mente, sed mens informat, dilucidat et perficit ratiocinationem, ut sciat quid syllogizat. Ac si idiota vim vocabulorum ignorans librum aliquem legat [...] Et sit alius, qui legat et sciat et intelligat id quod legit. 90 Rewriting the Proslogion from a non-discursive and non-temporal activity of some kind is shown by his reference elsewhere to the mind’s assimilative power by which as unity it assimilates itself to multiplicity and as now or present it assimilates itself to all time. 88 Another discussion in Idiota de Mente contextualizes the above in terms of the fourfold structure and the coincidence of opposites. At one point, Nicholas summarizes the theory which he has been developing through many dialogic exchanges to the effect that the mind in the sense of measure conforms itself to four modes of being. «It conforms itself to possibility, so that it might measure all things in a possible way. It conforms itself to absolute necessity so that it might measure all things in a unitary and simple way, as in the case of God. It conforms itself to necessity of involvement so that it might measure all things in their proper being. It conforms itself to determinate possibility so that it might measure all things as they exist.» 89 What Nicholas understands by the second and third conformations is of particular relevance to our question of discursive and non-discursive thinking. Regarding the third conformation, he has argued that the mind employs itself as an instrument and considers its own immutability. It assimilates itself to forms which it has abstracted from matter, making conjectures with respect to mathematical objects. It here sees «that one thing is thus, another thing is thus, and everything is composed of its own parts [...] that this mode of being is not truth itself but a participation in truth whereby one thing is truly in this way and another thing truly in another way.» 90 Regarding the second conformation, he has argued that the mind employs itself as an instrument and considers its own simplicity which it is incommunicable with matter. It assimilates itself to all things, producing speculations with respect to theological matters. It here «contemplates all things without any composition of parts, and not as though one thing is this and another thing as that, but as though all things are one and one thing is all.» 91 Given the fluid manner in which Nicholas makes his conjectures, it is not clear whether the third conformation corresponds to the reason operating alone or the reason operating in relation to mind in the earlier passage, and whether the second conformation corresponds to the earlier passage’s mind 88 IDM 4 (h V2 , 75. 1-12). IDM 9 (h V2 , 125. 4-8) Conformat enim se possiblitati, ut omnia possibiliter mensurat; sic necessitate absolutae, ut omnia unice et simpliciter ut deus mensuret; sic necessitate complexionis, ut omnia in proprio esse mensuret; atque possibilitati determinatae, ut omnia, quemadmodum exsistunt, mensuret. 90 IDM 7 (h V2 , 105. 3-6) prout una est sic, alia sic, et quaelibet ex suis partibus composita [...] quod hic modus essendi non est ipsa veritas, sed participatio veritatis, ut unum sic sit vere et aliud aliter vere [...]. 91 IDM 7 (h V2 , 105. 13-14) omnia intuetur absque omni compositione partium et non ut unum est hoc et aliud illud, sed ut omnia unum et unum omnia. 89 91 Stephen Gersh operating in relation to reason or mind operating alone. Nevertheless, there seems little doubt that the third conformation deals with the distinction and the second confirmation with the coincidence of opposites. 8. The Geometrical Context As we have seen, there are four aspects of the ratio Anselmi that form the starting-points of Nicholas’ innovations. These are: the specification of the two definitions as the affirmative and negative sides of a single relation, the reduction of the emphasis upon the process of demonstration, the specification of the two definitions as a distinction between kinds of maxima, and the replacement of the contextualization in dialectic with a contextualization in geometry. We should now turn to the contextualization in geometry. Nicholas’ preoccupation with mathematics in general and geometry in particular is displayed throughout his philosophical career in writings from De Docta Ignorantia until De Apice Theoriae, and in this final section we shall simply note the most striking example of the geometrical contextualization of Anselm’s argument and add a few comments on the methodological principles underlying this contextualization. 92 The argument in De Beryllo where Nicholas develops the analogy between the beryl stone which corrects the deficiencies of physical vision and the intellectual beryl which corrects the deficiencies of intellectual vision introduces various geometrical ideas associated with the trajectory of vision. Having earlier noted the analogy between the coincidence of opposites represented by the convex and concave surfaces of the lens in the physical sphere and the coincidence of opposites represented by that which cannot be greater and that which cannot be less in the intellectual sphere, he writes Therefore when you see through the beryl the angle which is likewise the greatest and the least that can be formed, your sight will not be limited by any angle but by the single line which is the principle of the angles. This is the principle of the angles on the surface, indivisible with respect to every mode of division by which the angles are divisible. Thus, in the same manner that you see this, so may you see the absolute first principle through the mirror in an enigma. 93 92 Although Nicholas in the passages to be considered below places the emphasis on geometry, in other passages he places the emphasis on arithmetic. As illustrations of these two contrasting approaches one might cite DDI I (h I) and DC I (h III) respectively. 93 DB (h XI/1, 9. 8-14) Quando igitur tu vides per beryllum maximum pariter et minimum formabilem angulum, visus non terminabitur in angulo aliquo, sed in simplici linea, quae est principium angulorum, quae est indivisibile principium superficialium 92 Rewriting the Proslogion The geometrical character of the thought-experiment summarized in this passage is reinforced by the immediately preceding instructions to draw various diagrams. Thus, the principle of the angles constituting the corrected line of intellectual vision towards the unitary first principle is to be depicted by the straight line AB with mid-point C, while the various angles constituting the refracted lines of intellectual vision towards the world of multiplicity are to be depicted by the movement of the line CB with respect to the line CA at point C. Linking the coincidence of opposites with the ratio Anselmi once again, Nicholas notes that the straight line is equivalent to an acute angle than which no angle can be more acute and to an obtuse angle than which no angle can be more obtuse. A passage in Idiota de Mente explains how Nicholas understands explicitly the relation between geometry and the cognitive process and – because of a certain relation between magnitude and definition – implicitly the relation between geometry and the ratio Anselmi. Here, the Layman responds to a request to explain Boethius’ statement that the comprehension of the truth of things is in multitude and magnitude by saying that the ancient philosopher was calling attention to the interrelated cognitive processes of separating one thing from another and grasping the wholeness of a thing. At this point it seems that the Layman is more interested in the wholeness which corresponds to magnitude than with the separation corresponding to multitude, 94 since he immediately goes on to argue that the wholeness of something is attained only by separating it from other things, that wholeness is where something is neither greater nor less than itself, that wholeness is especially studied in geometry and astronomy, and that the wholeness of something is attained by the process of measuring. At a further prompting from the Philosopher, the Layman draws the striking conclusion that nothing will be known unless everything is known on the grounds that individual things represent parts with respect to the whole represented by the universe, the simultaneously microcosmic and macrocosmic relation between parts and whole being illustrated on the one hand by the spoon which is being carved by the Layman and the universe which is created by God. After explaining a further statement of Boethius about the necessity of studying the quadrivium because of its special concern with such matters, the Layman concludes by summarizing the connection between the mathematical notions under discussion and the structure of dialectic: 95 angulorum omni modo divisionis, quo anguli sunt divisibiles. Sicuti igitur hoc vides, ita per speculum in aenigmate videas absolutum primum principium. 94 In other words he wishes to exploit the geometrical rather than the arithmetical analogy. See n. 92. 95 The emphasis is upon connection rather than identity. Nicholas prefaces the passage about to be quoted with a remark that the logical elements described are not 93 Stephen Gersh Everything that exists falls under magnitude and multitude, since the demonstration of all things takes place through the power of the one or the other. Magnitude limits and multitude separates. Therefore, definition which limits and includes the whole being has the power of magnitude and relates itself to it, while the demonstration of definitions takes place necessarily according to the power of magnitude. On the other hand, division and the demonstration of division take place according to the power of multitude. Moreover, syllogistic demonstrations arise according to the power of magnitude and multitude. That a third proposition follows as a conclusion from two propositions is a matter of multitude. That the conclusion is drawn from universal and particular propositions is a matter of magnitude. 96 Now the fifteenth-century writer does not explicitly argue from the relation between geometry and magnitude to the relation between geometry and the ratio Anselmi by means of the relation established by the above passage between magnitude and definition. Nevertheless, it would be implausible to argue that he did not at least subconsciously assume that Anselm’s argument involves the idea of definition, that this argument deals with the idea of magnitude, and that definition involves the idea of magnitude. For Nicholas of Cusa therefore, the celebrated ratio Anselmi becomes in the last analysis a self-reflecting structure exploiting the ambivalently geometrical and logical nature of magnitude. Conclusion Given the extent to which Nicholas of Cusa has transformed Anselm of Canterbury’s proof of the existence of God, one might conclude that the title of the present essay ‘Rewriting the Proslogion’ has turned out to be something of an understatement. Clearly, the last medieval Platonist has not been content to repeat or paraphrase his predecessor’s celebrated argument, but has rather transmuted it into doctrines which sometimes modify and occasionthemselves multitudes or magnitudes but ‘fall under’ the latter. 96 IDM 10 (h V2 , 128. 3-12) [...] omne, quod est, cadit sub magnitudine vel multitudine, quoniam demonstratio omnium rerum fit vel secundum vim unius vel alterius. Magnitudo terminat, multitudo discernit. Unde diffinitio, quae totum esse terminat et includit, vim habet magnitudinis et ad eam pertinet, et diffinitionum demonstratio fit necessario secundum vim magnitudinis, divisio vero et divisionum demonstratio secundum vim multitudinis. Fiunt etiam syllogismorum demonstrationes secundum vim magnitudinis et multitudinis. Quod enim ex duabus tertia comcluditur, multitudinis est; quod autem ex universalibus et particularibus, magnitudinis est. 94 Rewriting the Proslogion ally contradict the expressed intention of the original author. Yet at a deeper level of reflection there should be no doubt that Nicholas of Cusa remains in harmony with Anselm of Canterbury. As we noted at the beginning of this essay, the argument of Anselm’s Proslogion was designed not to prove one important philosophical truth but to form the logical presupposition of a number of interrelated doctrines. As we have discovered in the subsequent analysis, the recollection of this argument in Nicholas’ writings between De Docta Ignorantia and De Venatione Sapientiae serves as the thematic nucleus of ideas about objectivity and subjectivity, about opposition, continuum, and disjunction, and about many other things. There is undoubtedly an important methodological difference between forming a logical presupposition of various doctrines and forming a thematic nucleus of different ‘conjectures.’ Nevertheless, the aspiration towards a systematic unity itself – which can only result from the intimate relation between the ratio Anselmi and the divine image in the human mind – allows no room for disagreement between the two philosophers. Stephen Gersh University of Notre Dame Medieval Institute stephen.e.gersh.1@nd.edu References Beierwaltes, W. 1977, Identität und Differenz. Zum Prinzip cusanischen Denkens, Westdeutscher Verlag, Opladen. Beierwaltes, W. 2000, “Centrum Tocius Vite. Zur Bedeutung von Proklos’ Theologia Platonis im Denken des Cusanus”, in Proclus et la Théologie Platonicienne. Actes du Colloque International de Louvain (13-16 mai 1998) en l’honneur de H.-D. Saffrey et L.G. Westerink, ed. by A.-P. Segonds and C. 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Ne deriva che se proprio si vuole parlare di un «superamento» della modernità, questo non può avere nulla di «eclatante», 3 essendo dettato, scrive Spaemann, dalla «volontà di ancorare gli autentici contenuti di autorealizzazione dell’uomo, di cui le siamo debitori, a concezioni più antiche, salvaguardandoli dalla loro interpretazione “modernista” e quindi dalla tendenza immanente al loro annullamento». 4 Si tratta, in altri termini, di salvare la modernità da se stessa, avviandone un’ermeneutica interna che sappia evidenziare i legami nascosti che essa intrattiene con alcune delle principali istanze del mondo classico, in base alle quali, soltanto, essa può conservare la sua vitalità. La proposta teorica di Spaemann, in quest’ottica, si presenta come un progetto di “compensazione” che rilegga gli esiti della modernità senza però uscire dalle condizioni che essa stessa stabilisce come imprescindibili. La prima di queste condizioni è la struttura della riflessività, che, come ha ricordato anche Gadamer, finisce al centro della filosofia con Cartesio. Hegel ha mostrato il carattere non solo imprescindibile, ma anche insuperabile di questa struttura, consegnandola alla storia del pensiero successivo nella forma di una dialettica capace di dare fondo a tutte le potenzialità insite nell’idea di soggettività. Spaemann si colloca all’interno di questa linea interpretativa, mantenendola però su un terreno antropologico ed etico che, infine, si configura nei termini di un rapporto di presupposizione reciproca fra etica e metafisica. La tesi di Spaemann, al riguardo, è la seguente: quando la struttura della riflessività 1 Belardinelli 1994, 8. Spaemann 1994a, 234. 3 Spaemann 1994a, 234. 4 Spaemann 1994a, 233. 2 Luciano Sesta viene spinta sino in fondo, si rovescia dialetticamente nel suo contrario: in qualità di cosa pensante, infatti, il cogito è il massimo di soggettività e, insieme, di oggettività, risultando fatalmente esposto, perciò stesso, a un’oscillazione dialettica fra lo spiritualismo di una coscienza senza mondo e il naturalismo di un mondo in cui la stessa coscienza è una cosa fra le altre. Una conferma, questa, dell’eterogenesi dei fini tipica della modernità, che dopo aver reclamato i diritti della soggettività, si priva degli strumenti teorici necessari per tutelarla. Se la soggettività è soltanto un epifenomeno della natura, infatti, non c’è motivo di accordarle una libertà che siamo autorizzati ad attribuire solo allo spirito. La ricaduta etica più importante di questa dialettica è il solipsismo, che Spaemann trova felicemente sintetizzato nell’asserto humeano secondo cui “we never advance one step beyond ourselves”. 5 L’affermazione di Hume è secondo Spaemann una cifra paradigmatica del moderno, perché segna il carattere insuperabile della soggettività, forse più di quanto non faccia lo stesso cogito cartesiano. 6 Sondare le implicazioni etiche di questa insuperabilità significa, per Spaemann, rilanciare una questione metafisica che il “realismo interno” della sentenza humeana tende invece a occultare, e cioè la possibilità che l’altro, per dirla con Lévinas, «superi l’idea dell’altro in me», e dunque sia “reale” beyond ourselves. Se infatti l’altro è solo un fenomeno che risulta da una modificazione delle nostre facoltà conoscitive, non ci sarà modo di raggiungerlo in quanto altro, e cioè nella posizione che esso deve mantenere perché si possa parlare di una responsabilità morale nei suoi confronti. Se il solipsismo è vero, afferma Spaemann, non c’è alcun obbligo morale nei confronti di nulla, uomo, animale o ambiente che sia. Solo se esistono entità autonome rispetto a noi, entità per le quali «è in gioco qualcosa» (che non coincide necessariamente con ciò che è in gioco per noi), allora esiste anche una dimensione morale, perché solo in questo caso il nostro agire può rispettare, violare, danneggiare o favorire qualcun altro. Ne deriva, come lapidariamente afferma Spaemann, che «non c’è etica senza metafisica», e cioè che l’esperienza morale, al di là della sentenza humeana, si basa sull’idea che vi sia realmente qualcosa al di là di noi stessi. Quest’ultimo assunto è per Spaemann una forma di “realismo metafisi5 Cfr. Spaemann 2010c. La frase di Hume è ripresa dalla seguente pagina del Trattato sulla natura umana: «Fissiamo pure, per quant’è possibile, la nostra attenzione fuori di noi; spingiamo la nostra immaginazione fino al cielo o agli estremi limiti dell’Universo: non avanzeremo di un passo di là di noi stessi, né potremo concepire altra specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel cerchio ristretto» (trad. it. in Lecaldano 1987). 6 Nel cogito cartesiano, in effetti, Spaemann rinviene al contrario un potenziale di decentramento della soggettività che, nonostante alcuni celebri e magistrali tentativi di valorizzarlo (vedi Heidegger e ancor di più Marion e Levinas), rimane in parte inesplorato. Cfr. Spaemann 2010a. 100 “We never advance one step beyond ourselves” co”, le cui chance sono da giocarsi all’interno dell’ambito etico. Al di fuori dell’esperienza morale, infatti, niente di ciò che incontriamo come “reale” sarebbe diverso da com’è se ipotizziamo che la sua esistenza non sia separabile da una modificazione dei nostri organi di senso o della nostra coscienza. I ponti e i palazzi che costruiamo in regime di realismo interno, e cioè ipotizzando che essi non siano entità separabili dalla percezione che ne abbiamo, normalmente non cadono. 7 Questo significa, per Spaemann, che soltanto l’etica ha bisogno di andare sino in fondo, interrogandosi sulla possibilità che dietro il realismo interno, e cioè il fatto che tutti i contenuti della nostra esperienza siano tali per noi, vi sia anche un realismo metafisico, e cioè qualcosa – o meglio qualcuno – che è tale in sé. 2. La ragione, ovvero uno «sguardo da nessun luogo» Ora, la forma intrascendibile del pensare e del sentire, compendiata dalla sentenza humeana, riproduce, secondo Spaemann, la logica propria della natura, caratterizzata da quella tipica impossibilità di uscire da se stessi che è propria del vivente. È vero, il vivente è in un continuo scambio con l’alterità dell’ambiente circostante e degli altri viventi. Si tratta però di un’alterità di tipo funzionale, se non addirittura strumentale, perché finalizzata al mantenimento dell’identità del vivente stesso. Essendo caratterizzato dalla curvatio in seipsum, insomma, il vivente non è capace di rapportarsi all’altro in quanto altro. Per il vivente vale dunque l’esse est percipi. La stessa categoria dell’alterità, in quest’ottica, soffre ancora di un sotterraneo riferimento al primato del medesimo: l’altro è infatti colui che è tale solo agli occhi dell’identico e in rapporto a esso. Per questo Spaemann preferisce il termine Selbstsein, “essere-sé”, per indicare il polo di riferimento di una relazione che sia autenticamente ontologica e insieme etica, una relazione, dunque, in cui l’altro non è solo, in negativo, ciò che non sono io, ma anche, positivamente, ciò che è se-stesso. Ora, come è possibile cogliere questa positività? Com’è possibile cogliere qualcosa come un Selbstsein? La risposta di Spaemann rilancia il ruolo centrale della «ragione» e, più esattamente, il carattere «eccedente» del razionale rispetto alla vita naturale. Lo si può mostrare, fra gli altri possibili modi, facendo notare che al cospetto delle funzioni biologiche che esse consentono di realizzare, le forme culturali (e dunque razionali) di soddisfazione dell’istinto appaiono certamente “inutili”. Per sopravvivere, ad esempio, è sufficiente assumere individualmente del cibo, senza che sia necessario configurare quest’azione nei termini rituali del pasto in comune. Ciò che è inutile nei confronti della logica naturale, tuttavia, può procedere solo da una dimensione che di per sé non è vincolata alla natura. La 7 Spaemann 2010d. 101 Luciano Sesta libertà con cui l’uomo si rapporta alla natura (propria e circostante) è dunque cifra di una trascendenza del razionale, che Spaemann trova suggestivamente prefigurata dall’idea aristotelica secondo cui la funzione propriamente intellettiva dell’anima umana, rispetto alle funzioni vegetative e sensitive, proviene “da fuori” (tyrathen). 8 Così, tenendo a distanza la pressione esercitata da esigenze di carattere “vegetativo” e “sensitivo”, scrive Spaemann, la ragione è quella capacità dell’uomo che ci permette di vedere noi stessi dal di fuori, di vederci, per così dire, con gli occhi di un altro, o, ancora meglio, di sapere che esiste uno sguardo siffatto che viene da altri occhi, da occhi la cui prospettiva non è quella che è propria dell’essere vivente che noi stessi siamo. 9 Un essere vivente razionale è dunque dotato non soltanto di interessi autoreferenziali, ma anche di uno “sguardo da nessun luogo”, che lo rende capace di vedersi “da fuori” come uno “fra gli altri”: «in quanto esseri razionali, scrive Spaemann, noi diventiamo, per così dire, spettatori di noi stessi». 10 Contraddicendo l’autoreferenzialità del vivere, in altri termini, la ragione relativizza «la nostra stessa vita a una vita fra le altre». 11 È perciò difficile pensare la razionalità umana in senso evoluzionistico, e cioè come il prodotto di un adattamento funzionale all’autoconservazione. Nei confronti del vivere, infatti, la ragione rappresenta un «capovolgimento di direzione», una «frattura» che «rompe il cerchio dell’autoreferenzialità e dell’autoaffermazione». 12 Ora, è in questa “inversione” che, secondo Spaemann, si apre la dimensione stricto sensu morale, e, dunque, si rende visibile il carattere “pratico” della ragione. 13 Solo con il dischiudersi della ragione, e dunque solo “uscendo” dalla chiusura naturale in noi stessi, può infatti apparirci qualcosa di realmente altro, che dunque non trae il suo significato dal fatto di rapportarsi a noi. Spaemann parla qui di uno specifico “interesse della ragione”, vale a dire un interesse che non può essere ricondotto a nulla che assomigli a un bisogno, esprimendo, piuttosto, «la relazione elementare che l’uomo intrattiene con ciò che è». 14 E 8 Spaemann 1998, 109. L’espressione si trova in Riproduzione degli animali, 736b. Spaemann 1998, 110. 10 Spaemann 1998, 240 Cfr. Spaemann 2010b. 11 Spaemann 1998, 117. 12 Spaemann 1998, 112. 13 Qui Spaemann si limita a fornire una propria versione del carattere “imparziale” della ragione, che ritroviamo, mutatis mutandis, in alcune delle principali figure dell’etica contemporanea. Si pensi alla posizione originaria e al velo di ignoranza di John Rawls, al view from nowhere di Thomas Nagel, alla capacità di immedesimazione nell’altro di John C. Harsanyi, al “punto archimedeo” di David Gauthier, per giungere al celebre punto di vista dell’arcangelo di Richard M. Hare. 14 Spaemann 1998, 223. 9 102 “We never advance one step beyond ourselves” in effetti è con la ragione, e solo con essa, che si apre l’orizzonte dell’essere, e cioè un orizzonte «la cui estensione è infinita e il cui centro è ovunque, quindi non soltanto nel punto in cui io stesso mi colloco». 15 Un orizzonte, dunque, «incondizionato», perché «non è relativo agli interessi di un essere vivente o di una specie naturale, ma che, in qualità di orizzonte essenzialmente infinito, rende possibile, al contrario, relativizzare tutti gli interessi finiti». 16 Secondo Spaemann è principalmente in quanto pratica, e cioè capace di questo distanziamento, che la ragione può essere anche teoretica. Se infatti conoscere qualcosa significa cogliere ciò che essa è in sé, è necessario aver già beneficiato della capacità di “lasciar essere” (Seinlassen) le cose perché si possa conoscerle. Affinché le cose appaiano in se stesse e non come semplici oggetti contrapposti alla nostra soggettività, occorre dunque rinunciare al loro possesso e al loro utilizzo immediato. 17 Quando rinuncia a fare di ogni ente una parte del proprio ambiente, l’uomo esce dal proprio ripiegamento naturale e, sperimentando la propria condizione eccentrica, scopre di essere non solo naturale ma anche razionale. Questo significa che l’atto mediante cui lasciamo essere le cose per ciò che sono è lo stesso tramite cui anche noi scopriamo ciò che siamo: «L’io che dipende dall’istinto non ha scoperto né se stesso né l’altro da sé; centrato su di sé come tutte le realtà organiche, egli resta nascosto a se stesso. Nell’atto del destarsi della ragione la propria realtà e quella dell’altro diventano contemporaneamente visibili». 18 La ragione è in tal senso il luogo originario dell’intersoggettività e, insieme, di ciò che è, dal momento che quello che io realmente sono, scrive Spaemann, «si costituisce attraverso la rinuncia a considerare l’altro [...] come “qualcosa” che sia essenzialmente per me, senza che io sia simultaneamente per esso». 19 Su questa reciprocità si fonda, secondo Spaemann, il “realismo metafisico”, e cioè l’assunzione che quando sentiamo, vogliamo e pensiamo, facciamo un “passo oltre noi stessi”, trovandoci realmente presso cose, animali e altri uomini. Il realismo metafisico implica l’idea che sono visto dagli uomini che vedo, e che, dunque, l’uomo che vedo non è soltanto un’immagine in me, da cui io posso sentirmi osservato come da un’immagine dipinta, che però non mi guarda realmente. 20 15 Spaemann 1998, 110. Se una cosa esiste, lo fa a prescindere da me e dalle mie esigenze, e persino dal fatto che io sappia che essa c’è. 16 Spaemann 1998, 111. 17 Noi possiamo e dobbiamo certo utilizzare le cose, ma farlo prima di rispettarle, e cioè prima di cogliere ciò che esse sono a prescindere dal nostro uso, significherebbe usarle ciecamente e, dunque, non usarle affatto, visto che non sapremmo se esse sono realmente adatte a servire i nostri scopi. 18 Spaemann 1998, 128. 19 Spaemann 2005, 77. 20 Spaemann 2010d, 311. In altri luoghi Spaemann riprende l’espressione “realismo 103 Luciano Sesta Spaemann ricorre spesso al fenomeno del dolore come paradigma di questo realismo. La reazione spontanea nei confronti del dolore altrui presuppone infatti che il dolore in questione «sia reale in un senso che rinvia alla “realtà” di un fenomeno che non è solo “per noi”». 21 Questa realtà è direttamente proporzionale al grado di importanza che le attribuiamo, crescendo a misura della nostra disponibilità morale a soccorrerla, il che può avvenire soltanto se, di nuovo, le viene riconosciuto un telos immanente irriducibile al proprio: Il mostrarsi della realtà dell’altro coincide con la collaborazione con questa realtà in quanto teleologica, con la realtà di una tensione verso altro da sé. Solo in questa collaborazione l’altro diviene reale per noi. Infatti, fintanto che egli resta per noi qualcosa di semplicemente disponibile, egli non è per noi ciò che egli è “in se stesso”: noi possiamo renderci contro di che cosa significhi un io soltanto se viviamo come io, se cioè siamo istinto ma allo stesso tempo usciamo dalla nostra autoreferenzialità e percepiamo noi stessi come l’altro dell’altro, e l’altro, da parte sua, come alter ego. 22 3. Ubi amor, ibi oculos Sulla scorta di quanto si è visto, l’affermazione di Platone secondo cui il bene è il fondamento della conoscenza, per Spaemann, significa che a colui che «vuole bene» appare come «amato» - e dunque non negativamente come un semplice “altro” (Andere), ma positivamente come un “se stesso” (Selbstsein) ciò che, nell’impostazione teoretica, ha il carattere del semplice oggetto. 23 È dunque vero, in linea con il divieto humeano di passare dall’is all’ought, che «da un dato di fatto oggettivo preso per sé non deriva mai un dovere». 24 Ma ciò accade perché il dato di fatto oggettivo potrebbe già essere il risultato di un’omissione etica, il risultato cioè di uno sguardo frettoloso, che ha mancato di riconoscere come un «se stesso» ciò che ora ci appare come un semplice «oggetto». Insomma, per Spaemann l’unità di etica e ontologia non è che una variante filosofica dell’adagio ubi amor ibi oculos. Quando abbiamo a che fare con «l’esperienza dell’altro», dunque, «percezione e presa di posizione sono inscindibili». 25 Ne deriva, per tornare metafisico” da Putnam 1985, 57. 21 Spaemann 2005, 77. 22 Spaemann 2005, 128. 23 Spaemann 1994a, 22. 24 Spaemann 1994a, 22. 25 Spaemann 1998, 230. Con un simpatico esempio, Spaemann giunge a dire che per un essere razionale «vedere un coleottero appoggiato sul dorso dimenarsi e il rimetterlo 104 “We never advance one step beyond ourselves” all’esempio di prima, che se l’esperienza del dolore altrui non è separabile dall’esigenza di rimuoverlo, non avvertire questa esigenza non è per Spaemann solo cinismo morale ma anche, per così dire, un difetto di percezione. Non esistendo infatti un’intuizione diretta del soffrire altrui, l’unico modo per coglierlo teoreticamente come reale non è sforzarsi di provare dolore – non sarebbe possibile, e la compassione, quando c’è, non sempre è immediata e spontanea –, ma riconoscere il dovere morale di rimuovere un tale soffrire, e cioè ammettere che il dolore altrui non è qualcosa di diverso dal nostro. 26 Non avvertire questo dovere significherebbe mancare la percezione dell’altro in quanto altro, significherebbe ridurlo a semplice “fenomeno”, dimenticando il suo statuto di “cosa in sé”, e cioè di un ente che, essendo se-stesso, ha un rapporto con sé e non soltanto con noi. Le implicazioni di quest’ultimo assunto, secondo Spaemann, sono di capitale importanza. Se infatti il dolore altrui non è considerato, al pari del nostro, come qualcosa che non dovrebbe esserci, allora non rimane che il solipsismo: non potremo mai fare “un passo oltre noi stessi”. Un “noi stessi” che, nota peraltro Spaemann, 27 a sua volta non sarebbe più distinguibile da una mera illusione: cosa ci garantisce che il nostro dolore sia reale e non invece soltanto sognato? Se ciò che possiamo conoscere sono sempre e soltanto alterazioni delle nostre facoltà conoscitive, cosa potrà mai distinguere le alterazioni che avvengono nel sogno da quelle che, invece, avvengono a causa di una realtà che si trova beyond ourselves? Per rispondere a questo interrogativo Spaemann ricorre proprio alla metafora del «destarsi», riprendendola da Eraclito e dal Gautama Buddha. E in effetti si tratta di una metafora che da sempre esprime il passaggio da un rapporto con cose e persone in cui siamo chiusi nel nostro mondo “sognante”, a un rapporto in cui solo «partendo dalla sollecitazione che ci viene dall’irriducibilità della realtà possiamo diventare reali noi stessi». 28 Questo «divenire reale» ha secondo Spaemann un significato insieme etico e metafisico, che dunque precede la stessa distinzione fra uso teoretico e uso pratico della ragione. Qualcosa di analogo, secondo Spaemann, a quanto hanno voluto esprimere Lévinas con l’idea dell’etica come filosofia prima, Wittgenstein con l’identificazione dell’etica con il “mistico”, e persino Adorno e Horkheimer, quando scrivono che contro l’omicidio esiste solo un argomento di carattere resulle sue zampe sono una cosa sola» (Spaemann 1998, 229). 26 Ne deriva, per converso, che «nessuno è costretto a riconoscere che un altro prova dolore» (Spaemann 2006, 47). 27 Spaemann 2010d, 311. 28 Spaemann 1998, 119. Non a caso il testo appena citato reca, in esergo, il seguente frammento di Eraclito: «Uno e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare» (trad. it. in Giannantoni 1975, 215). 105 Luciano Sesta ligioso. 29 Nella Vorwort alla raccolta di saggi Grenzen. Zur ethischen Dimension des Handelns, Spaemann riassume il suo punto di vista nel modo seguente: L’assunzione che l’altro sia reale è metafisica, così come lo è il passaggio cartesiano dal “cogito” al “sum”. Senza questo passaggio, tuttavia, non c’è alcuna etica. E viceversa: riconoscere che questo passaggio deve essere fatto è l’etica. 30 Che la realtà del reale possa mostrarsi solo tramite un’argomentazione circolare non è che una conferma del livello etico in cui si colloca il suo riconoscimento. Prendere sul serio il contenuto etico di ciò che è in gioco nel rapporto con l’altro, vuole dirci Spaemann, è più importante di ogni cautela formale finalizzata a evitare una petitio principii. Peraltro, di fronte alla sempre possibile ricaduta nel solipsismo, l’apertura del punto di vista morale è per il Nostro un’autentica rivelazione ontologica, che consente di attingere “ciò che è in verità” con un grado di certezza altrimenti precluso: La questione – irrisolvibile sul piano teoretico – circa ciò che “è in verità”, trova una soluzione in quel punto nel quale filosofia teoretica e filosofia pratica, metafisica ed etica, sono originariamente una cosa sola: nella coscienza. Io non posso considerare l’altro come una pura “apparenza” se divento consapevole della pretesa che proviene dalla sua realtà, e non posso giudicare me stesso come una pura apparenza se faccio esperienza di me come destinatario di questa pretesa. 31 Insomma, solo l’etica, nella forma di un rapporto responsabile con il prossimo, è in grado di assolvere la filosofia dal dovere di dimostrare l’esistenza del mondo esterno. Se c’è responsabilità morale allora dovrà esserci realismo metafisico; viceversa, non c’è realismo metafisico che in riferimento a qualcosa come la responsabilità morale. E ciò vale, naturalmente, anche per quelle relazioni umane ad alto contenuto etico quali sono l’amore e l’amicizia: Colui che ama una persona, colui che ha un rapporto di amicizia con qualcuno, non può allo stesso tempo dubitare della sua realtà. 29 Spaemann 2001a, 8. Spaemann 2001a, 8. In un’altra pagina di Glück und Wohlwollen, Spaemann fornisce un’ulteriore chiarificazione di questa tesi scrivendo: «Il fatto che noi percepiamo la realtà del reale non rappresenta soltanto una nostra faccenda, ma costituisce anche una pretesa su di noi» (Spaemann 1998, 224). 31 Spaemann 1998, 192-193. In questo senso Spaemann può dire che lo stesso «Kant ha espresso ciò affermando che solo nell’esigenza morale l’uomo fa esperienza di sé non come apparenza ma come “cosa in sé” sottratta a ogni determinismo causale» (Spaemann 1998, 119). 30 106 “We never advance one step beyond ourselves” [...]; e quando dico che costui non può dubitare, non intendo un’impossibilità fisica o logica, ma morale e perciò assoluta. Mettendo in discussione la sua realtà non solo metto tra parentesi la realtà dell’amicizia ma la distruggo del tutto. L’amicizia non permette nessuna astinenza ontologica, nessuna epochè. 32 4. Per una fondazione “non discorsiva” dell’etica Ora, la tesi di Spaemann che «non esiste etica senza metafisica» potrebbe indurre a credere che un’epochè sulla realtà dell’altro sia consentita a chi, per ragioni filosofiche, non aderisce al realismo metafisico. Per Spaemann, tuttavia, le cose non stanno così. Di fronte a chi rigetta l’idea di dignità umana, per esempio, noi non cerchiamo di dimostrargli che la dignità umana esiste, ma che lui si sta semplicemente sbagliando. Viceversa, se sto soffrendo, ogni soccorso nei miei confronti implica una tesi metafisica da parte di chi mi sta soccorrendo, e cioè la convinzione, da parte sua, che io sia una “cosa in sé” a prescindere da ciò che egli può dire di me. Ciò comporta, scrive Spaemann, «l’esigenza di assimilare i miei giudizi in prima persona ai suoi giudizi in terza persona, cioè che lui affermi “prova dolore” quando dico “provo dolore”. Questa esigenza però non si lascia fondare per via discorsiva: il discorso infatti si appoggia esso stesso sul previo riconoscimento dei soggetti che ne prendono parte». 33 Veniamo qui alla questione più specifica della fondazione dell’etica, che trova nell’assunto metafisico della realtà dell’altro il suo presupposto ma non il suo svolgimento. Questo svolgimento, lo si è appena visto, non può essere cercato nello scambio argomentativo fra due o più interlocutori. L’etica, infatti, si presenta come un discorso potenzialmente infinito, che rimane incommensurabile rispetto a ciò che, qui e ora, deve essere fatto. 34 E ciò vale, per Spaemann, non soltanto nell’aspetto negativo di chi cerca un fondamento per accettare una norma morale, ma anche nell’aspetto positivo della ricerca di una regola che di quella norma giustifichi l’applicazione. C’è infatti qualcosa come una “tartaruga logica” – Spaemann cita Lewis Carrol – in base a cui chi cerca una regola che giustifichi l’applicazione di una regola è destinato a un regressus in infinitum, come quello a cui è condannato Achille in corsa dietro 32 Spaemann 1998, 131. «Senza la certezza che l’uomo che amiamo sia reale, che il pronome “tu” si riferisca inequivocabilmente a qualcuno che esiste indipendentemente da me, così come lui mi dice “tu” senza dubitare che io esista indipendentemente da lui – senza questa certezza, dicevo, ciò che chiamiamo amore si distrugge. E si distrugge anche tutto ciò che chiamiamo gratitudine, rimprovero, colpa, sdegno ecc.» (Spaemann 2010d, 312). 33 Spaemann 1998, 130. 34 Spaemann 2001b, 28-29. 107 Luciano Sesta la tartaruga. 35 Parlare di applicazione o di sussunzione del proprio agire sotto una regola morale, tuttavia, è per Spaemann un’astrazione che avviene sempre a posteriori, dal momento che i giudizi che io formulo in coscienza, quando sono davvero morali, si riferiscono in prima battuta a me, e non a tutti gli uomini: «Abitualmente infatti noi conosciamo ciò che è retto prima ancora di conoscere la regola dalla quale esso può derivare. E spesso lo conosciamo addirittura con certezza ancora maggiore di quella inerente all’universalità della regola. Il fatto che io non possa commettere questo inganno è per me più certo del fatto che mai qualcuno possa compiere un inganno di questo tipo». 36 In questo senso la sollecitazione ad agire perché ci si trova in un caso previsto dalla norma morale non è più l’esito di un faticoso percorso di deduzione dalla teoria alla pratica, ma la scoperta di trovarsi in un ambito già da sempre pratico, rispetto a cui la teoria è un’oggettivazione imprescindibile, sì, ma secondaria e derivata. Spaemann lo illustra ricorrendo all’episodio biblico del dialogo fra il re David e il profeta Nathan, il quale inchioda il re al suo peccato raccontandogli una storia in terza persona. 37 In questo modo David è dapprima invitato a valutare imparzialmente, ponendosi in “posizione originaria”, per poi scoprire, una volta sollevato il “velo di ignoranza”, che la vicenda impersonale di cui egli era spettatore coinvolge proprio lui come principale attore. Questa scoperta, che coincide con la frase di Nathan: “tu sei quell’uomo!”, sarebbe rimasta ancora pura teoria, se David, invece di applicarla a se stesso dicendo “ho peccato”, avesse detto, per esempio, «io sono il re, il mio caso è diverso». Ora, però, visto che questo “arretramento” rispetto alla deduzione/applicazione della norma è sempre possibile, non c’è applicazione/deduzione che non sia, al tempo stesso, una libera scelta. Cercare di esorcizzare la contingenza di questa scelta facendo notare che esiste un dovere di compierla non serve a granché, rendendo anzi più evidente la sua radicalità rispetto a ogni applicazione e deduzione, visto che c’è sempre una possibile ragione per tenersi a distanza dal caso “previsto” dalla norma. In questo senso, come propone Spaemann, l’etica è un’interruzione del discorso, e si potrebbe definire la coscienza morale come ciò che pone fine a ogni “forma di sottilizzazione”. 38 In sintonia con l’affermazione del carattere originario e indeducibile della ragion pratica, l’esempio appena fatto intende mostrare che non esiste un argomento teoretico moralmente vincolante, o, più precisamente, che un argomento diviene vincolante solo a condizione che colui al quale è rivolto decida di sottomettersi alla sua forza. Nessuno può essere costretto a riconoscere 35 Spaemann 2001b, 29. Spaemann 2005, 165-166. 37 Spaemann 2001b, 29. 38 Spaemann 2005, 165. 36 108 “We never advance one step beyond ourselves” che un altro prova dolore. 39 E non soltanto perché potrebbe trattarsi di un individuo particolarmente cinico. Potrebbe essere anche un comportamentista o uno scettico, per esempio uno che, in piena buona fede, si è appunto convinto che “we never advance one step beyond ourselves”, e che dunque tutto ciò che sperimentiamo non possiede una realtà indipendente da noi, essendo nient’altro che una modificazione dei nostri organi di senso. 40 Di fronte a un simile scettico, l’unica speranza è che a un certo punto egli rinunci alla sua teoria, ritenendola meno importante del fenomeno che essa, spiegando, finisce in realtà per cancellare. Per Spaemann è questa rinuncia, e non una qualche teoria alternativa, a “fondare” propriamente la morale: la peculiarità dell’obbligazione morale sembra trovarsi proprio nel fatto che essa non consente una determinata riflessione nonostante la sua possibilità, una riflessione con la quale le persone possano svincolarsi da ogni obbligatorietà. La rinuncia a questa riflessione sembra essere l’atto genuinamente morale. [...]. La questione di una “fondazione ultima” non si pone più. La rinuncia a tale questione è la fondazione ultima e questa rinuncia è sempre già compiuta quando gli uomini si riconoscono l’un l’altro come persone o rivendicano questo riconoscimento. 41 Nel discorso in cui si svolge il tentativo di una fondazione ultima della morale, vuole dirci Spaemann, questa fondazione è già di fatto avvenuta. Fornire un’argomentazione pro o contro un’esigenza morale significa infatti essersi già sottomessi a un’esigenza morale, riconoscendo nel proprio interlocutore un soggetto libero, capace di acconsentire o meno, senza costrizioni, a ciò che gli diciamo. 42 5. Contro Callicle In base a quanto si è detto, e come ha notato anche Bernard Williams, ogni fondazione della morale che trovi degli ascoltatori interessati è sempre circolare, perché si rivolge a chi è già moralmente impegnato. Lo scopo di chi 39 Spaemann 2006, 47. Questo non significa, naturalmente, che Spaemann ritenga lo scetticismo di Hume una forma di cinismo morale, tanto più che, al contrario, l’etica humeana è invece fondata proprio sul sentimento di compassione. Com’è nel suo stile, qui Spaemann usa liberamente sentenze paradigmatiche di alcuni autori come punti di appoggio della propria argomentazione, senza particolari preoccupazioni di fedeltà testuale. 41 Spaemann 2005, 216. 42 Come si può vedere, qui Spaemann si trova in sintonia con le premesse fondamentali della Diskursethik. 40 109 Luciano Sesta cerca una giustificazione teorica della morale, in tal senso, «è non già quello di confrontarsi con qualcuno che probabilmente non lo starà neppure ad ascoltare, bensì quello di rassicurare, fortificare e rendere più consapevoli coloro che sono disposti ad ascoltarlo». 43 Ciò significa che una vera fondazione della morale è in gioco solo al cospetto di un interlocutore immorale o amorale. Di questo, ricorda Spaemann, sembra essersi accorto Callicle alla fine del Gorgia platonico, visto che egli interrompe il dialogo «quando si accorge che la propria forza sta esattamente nel non discutere». 44 Il gesto di Callicle dimostra, secondo Spaemann, che non c’è fondazione che non presupponga una meta-fondazione, e cioè una decisione di rimanere dentro la logica della fondazione, che si presenta come uno scambio di ragioni aperto a riconoscere quelle più plausibili. Con questa decisione «giunge al termine ogni fondazione, dal momento che la fondazione della fondazione finisce nel nulla se nessuno vuole realizzarla o addirittura sentirne parlare». 45 Una fondazione della morale è possibile, dunque, solo a condizione che nella stessa esperienza morale vi sia in gioco qualcosa di ultimo, che può «essere mostrato ma non spiegato». 46 Questo qualcosa è in realtà non qualcosa ma “qualcuno”, e cioè colui che, di volta in volta, in modo contingente e non deducibile da una teoria, riconosce l’altro da sé non soltanto come oggetto inserito nel proprio ambiente, ma anche come soggetto nel cui ambiente egli si trova insieme a lui. Rispetto a questo riconoscimento l’etica filosofica può assumere solo un atteggiamento socratico, e, dunque, non propriamente fondativo, ma maieutico-esortativo. Dedurre che per Spaemann il punto di vista morale sia il risultato di una mera decisione sarebbe però erroneo. Pensarlo significherebbe rimanere legati a un’idea ancora impropria di ragion pratica, la cui peculiarità non consiste nel fornire argomentazioni teoreticamente conclusive, rispetto alle quali tutto il resto sarebbe mero decisionismo. Un corretto esercizio della ragion pratica, piuttosto, consiste per Spaemann nel giusto modo di interrompere le argomentazioni tramite decisioni. L’idea, richiamata sopra, che la scelta moralmente responsabile per definitionem sia proprio quella di rinunciare alla ricerca di un fondamento, è più chiara non appena si rifletta sia sull’urgenza con cui siamo chiamati a decidere – urgenza che non può sempre attendere una riflessione compiuta sulla plausibilità delle nostre scelte –, sia sulla posizione dell’immoralista coerente, che, alla stregua di Callicle, potrebbe «tapparsi le orecchie» di fronte alle nostre argomentazioni “fondative”. Un tale coerente immoralista, nota Spaemann, non potrebbe richiedere alcun rispetto per la sua posizione, poiché una tale richiesta sarebbe già una 43 Williams 1987, 34. Spaemann 1998, 130. 45 Spaemann 1998, 129-130. 46 Spaemann 1998, 129-130. 44 110 “We never advance one step beyond ourselves” richiesta di carattere etico. 47 Una conferma, questa, del fatto che non c’è fondazione possibile della dimensione morale, che va dunque presupposta come fondamento nel quale già ci troviamo. Rimane la possibilità di indicare le conseguenze della negazione di questo fondamento, negazione che nessuno, secondo Spaemann, sarebbe disposto ad accettare. Spaemann fa notare, al riguardo, che nella Repubblica di Platone il punto di vista immoralista è sostenuto da Glaucone e Adimanto, e cioè da amici di Socrate, non da suoi nemici. A dimostrazione che l’immoralismo radicale è solo ipotetico, potendosi configurare nel quadro di una relazione già moralmente assicurata, qual è l’amicizia. 48 Dentro questa relazione non tutte le posizioni sono argomentabili, se non, appunto, in via semplicemente ipotetica. Posizioni apertamente immorali, che si collochino dunque al di fuori di relazioni già moralmente connotate, non meritano per Spaemann contro-argomentazioni, ma un insegnamento pedagogico. In una pagina di Moralische Grundbegriffe, un corso di lezioni a carattere divulgativo, si legge: Aristotele scrive: uno che dice che sarebbe lecito uccidere la propria madre non merita argomentazioni, ma botte. Forse si potrebbe anche dire che costui avrebbe bisogno di un amico. Ma la questione è se sarebbe capace di amicizia. Il fatto comunque che egli non è forse in grado di dare ascolto a delle argomentazioni non significa che non vi siano ragioni contro di lui. 49 Spaemann non fornisce ulteriori riferimenti testuali, ma la sua citazione, tratta dai Topici, richiama un’altra pagina, sempre dei Topici, che consente di paragonare colui che non comprende le argomentazioni morali a colui che non percepisce il colore della neve. 50 Quest’ultimo, come scrive Aristotele, non ha bisogno di un’argomentazione ma di una sensazione. Pensare che egli possa 47 Spaemann 2001b, 20. Quest’ultimo argomento è stato duramente criticato in Nozick 1987, 408. Secondo Nozick l’immoralista che chiede rispetto per la sua posizione potrebbe ben rinunciare alla coerenza, senza per questo sentirsi disturbato. Va precisato, tuttavia, che con l’argomento appena riportato Spaemann intende dimostrare che a essere innegabile è l’esigenza morale, non la sua realizzazione: è proprio grazie a questa esigenza, in effetti, che anche l’immoralista può sperare di veder tollerate le sue tesi e rispettata la sua incoerenza. 48 Spaemann 2001b, 20. 49 Spaemann 1991, 27. Significativamente, anche Hume sostiene qualcosa di analogo, quando, nel Trattato sulla natura umana, scrive: «Chi ha negato la realtà delle distinzioni morali può essere classificato fra chi disputa in mala fede [...] l’unico modo di convertire un avversario del genere è d’abbandonarlo a se stesso: [...] è probabile che, alla fine, passi dalla parte del senso comune e della ragione» (trad. it. in Lecaldano 1987, 179). Una forte sintonia di metodo, su questo aspetto, fra le filosofie morali di Aristotele e di Hume, è sostenuta in Baier 1996. 50 Aristotele, Topici, I, 1-4, 10-11. 111 Luciano Sesta a un certo punto vedere il colore bianco grazie alle nostre argomentazioni è un’illusione. Insomma: contra experientiam non valet argumentum. Ci sono esperienze fondamentali che non possono essere sostituite da argomentazioni, e ciò è vero a tal punto che la stessa capacità di dare il giusto peso ad argomentazioni razionali dipende dal tipo di persona che si è, dove il tipo di persona che si è dipende, a sua volta, dalle esperienze che si sono fatte. L’uomo moralmente buono è dunque colui che fa nascere la riflessione morale e, al tempo stesso, colui che, solo, può interromperla con una decisione, perché ne comprende le ragioni ultime. È ancora Aristotele a ricordarlo: «Occorre essere stati ben guidati nei costumi per ascoltare con profitto le lezioni su ciò che è moralmente bello e su ciò che è giusto [...]. Chi si trova in queste condizioni possiede i principî e può coglierli facilmente». 51 6. One step beyond ourselves A voler riprendere la questione da cui siamo partiti, e cioè il rapporto circolare fra etica e metafisica che Spaemann lascia emergere dal confronto con la sentenza humeana citata all’inizio, si può dire che l’esperienza morale è l’indizio di una trascendenza immanente: le idee di “responsabilità” e di “obbligo”, in effetti, tengono insieme il “per me” di un appello e l’“in sé” di un’esigenza. C’è tuttavia per Spaemann una sorta di primato trascendentale dell’“in sé” sul “per me”, visto che senza il primo non potremmo nemmeno concepire il secondo. La frase we never advance one step beyond ourselves, scrive infatti Spaemann, può essere pronunciata solo da chi questo “passo” lo ha già da sempre fatto: Se fossimo davvero così prigionieri di noi stessi come pensa Hume, allora non potremmo nemmeno saperlo. [...] La zecca non sa di un mondo al di là del suo ambiente, di un mondo in sé, in cui, accanto a tutte le altre cose, ci sono anche le zecche. Gli uomini, al contrario, sanno di aver fatto un passo oltre se stessi, che rende loro possibile sia di sapere del carattere prospettico del loro riferirsi al mondo, sia di trascendere questo riferimento. 52 Una soggettività razionale che fosse davvero chiusa in se stessa, insomma, non potrebbe concepire un al di là, e, qualora ciò accadesse, non potrebbe distinguerlo dal proprio pensare, sentire e immaginare. Da questo punto di vista, prosegue Spaemann, la frase di Hume si distrugge nell’atto stesso in cui viene pronunciata, e se essa appare irresistibile, ciò avviene perché ci si muove su un piano puramente teoretico: l’al di là del nostro pensare, in effetti, è esso stesso nuovamente un pensare, e il pensiero di un al di là, di un mondo 51 52 Aristotele, Etica Nicomachea I 2, 1094b, trad. it. in Zanatta 1986. Spaemann 2010d, 313. 112 “We never advance one step beyond ourselves” esterno al mio pensare, è di nuovo solo un mio pensiero. 53 Ma, appunto, come ci è venuto “all’idea” un tale pensiero? Quale genesi possiede l’idea di un al di là dell’idea? La risposta di Spaemann non è diversa da quella di Lévinas: questa genesi è il “volto dell’altro”, laddove l’altro, qui, non è però solo l’altro uomo, ma ogni essere vivente toccato dal nostro agire. Se dunque noi facciamo continuamente un passo oltre noi stessi, ciò accade perché altri ne hanno già fatto uno verso di noi. La dimensione teorica dentro cui questo passo risulta precluso è tardiva, inserendosi in un contesto morale che, in qualche modo, la rende possibile. Dimenticare questa circostanza è l’errore, secondo Spaemann, di tutte le odierne varianti a base sia scientifica sia idealistica della sentenza humeana. Talune interpretazioni evoluzionistiche e neuroscientifiche della soggettività umana, infatti, tendono a ridurre ogni manifestazione della nostra coscienza a epifenomeno di più fondamentali e insuperabili condizioni biologiche e materiali, risparmiando però questa stessa interpretazione dalle conseguenze compromettenti che essa imporrebbe: che l’affermazione di uno scienziato debba essere presa per vera piuttosto che per espressione di una funzione di adattamento appare, a ben vedere, come un privilegio ingiustificato, almeno se le cose stanno così come quell’affermazione ci invita a ritenere. Dal punto di vista idealistico le cose non sono diverse. Lo stesso cogito cartesiano, lo si ricordava all’inizio, è insuperabile solo in qualità di cosa pensante, e, dunque, solo quando è considerato realisticamente come qualcosa che esiste a prescindere da noi. Una conferma, quest’ultima, che dietro ogni realismo interno c’è sempre un realismo metafisico nascosto, o, come ci ricorda Spaemann citando Étienne Gilson, che everybody is realist of something, sia essa la coscienza trascendentale, le reti neurali o le funzioni vitali di adattamento della specie. 54 Luciano Sesta Università degli Studi di Palermo Dipartimento Fieri-Aglaia luciano.sesta@unipa.it 53 54 Spaemann 2010c, 7. Spaemann 2010d, 313. 113 Luciano Sesta Riferimenti bibliografici Baier, A. 1996, «Fare a meno della teoria morale?», in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di P. P. Donatelli e E. Lecaldano, Led, Milano, pp. 261-83. Belardinelli, S. 1994, Presentazione, In Spaemann 1994b. Giannantoni, G. (ed.) 1975, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Roma-Bari. Lecaldano, E. (ed.) 1987, Hume. Trattato sulla natura umana, In Opere filosofiche, vol. I, Laterza, Roma-Bari. Nozick, R. 1987, Spiegazioni filosofiche, a cura di G. Rigamonti, Il Saggiatore, Milano; ed. orig. Philosophical Explanations, Claredon, Oxford 1981. Putnam, H. 1985, Ragione, Verità e storia, Il Saggiatore, Milano; ed. orig. Reason, Truth and History, Cambridge University Press, Cambridge 1981. Spaemann, R. 1991, Concetti morali fondamentali, a cura di F. L. Tuninetti, Piemme, Casale Monferrato; ed. orig. Moralische Grundbegriffe, Beck, München 1987. Spaemann, R. 1994a, «Ende der Modernitaet?», in Philosophische Essays, Reclam, Stuttgart, pp. 232-60. Spaemann, R. 1994b, Per la critica dell’utopia politica, a cura di S. Belardinelli, Franco Angeli, Milano; ed. orig. Zur Kritik der politischen Utopie, Klett-Cotta, Stuttgart 1977. Spaemann, R. 1998, Felicità e benevolenza, a cura di M. Amori, Vita e Pensiero, Milano; ed. orig. 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Etica Nicomachea, Rizzoli, Milano. 115 Juan Sanchez Sedeño Uno studioso dell’intenzionalità del XVII secolo Emanuele Lacca Nel corso del periodo umanistico e rinascimentale, i grandi sistemi gnoseologici medievali attraversano un lungo periodo di difficoltà e, infine, di decadenza; tuttavia, analizzando un po’ più da vicino il quadro filosofico dei secoli XVI e XVII, si nota che, in alcune regioni europee come la Spagna, la riflessione sviluppa e attinge a piene mani dalle tradizioni precedenti. È il caso della Scuola di Salamanca, nella quale fiorirono numerosi studi di teologia, filosofia e diritto. Tra le riflessioni più importanti degli studiosi di questa scuola, si possono ricordare 1. il probabilismo teologico, nel quale il libero arbitrio dell’uomo non consiste più nel fare il bene, ma nel non scegliere il male; 2. la distinzione tra diritto pubblico nazionale e diritto internazionale, che regolava i rapporti giuridici tra le varie nazioni; 3. lo studio economico sul valore dell’oro che giungeva dalle Americhe, per tentare di definire un rapporto tra il metallo prezioso e il denaro in circolazione.1 Oltre a questi temi, alcuni esponenti di questa Scuola hanno rivolto la propria attenzione all’ambito logico: è questo il caso di Juan Sanchez Sedeño, teologo, metafisico e filosofo, vissuto a cavallo dei secoli XVI e XVII nel convento domenicano di San Esteban de Salamanca. Si vedrà, infatti, che il suo studio coniuga elementi mutuati sia dalle teorie medievali sull’intenzionalità che dalle elaborazioni dei suoi contemporanei, come Domingo Bañez, Domingo de Soto e Bartolomeo de Medina, con i quali egli dialoga criticamente lungo tutto il corso dell’opera. 1. Prima intentio e secunda intentio Juan Sanchez Sedeño (1552-1615) propone nell’Aristotelis Logica Magna (Salamanca, 1600) una teoria della conoscenza basata sull’intenzionalità, ovvero quel particolare modo di apprensione che permette all’intelletto di conoscere sia entità singolari che universali, senza per questo incorrere in possibili paradossi e contraddizioni.2 Dei sette libri che compongono l’opera, il castigliano elabora la sua teoria nel secondo libro, dove suggerisce di trattare l’intenzionalità pri1 Interessante, per la conoscenza approfondita delle tematiche della Escuela de Salamanca, è l’opera di Rodriguez 2006. Utile, a questo proposito, anche Mondin 1996, 266-83, in cui viene tracciata una breve ricostruzione del pensiero elaborato dai filosofi della Escuela de Salamanca. 2 Per un inquadramento generale della figura di Juan Sanchez Sedeño cfr. Fraile 1985, 355. In particolare sulla Logica Magna cfr. Hickman 1983. Emanuele Lacca mariamente dal punto di vista logico; nella quaestio II del liber II dell’Aristotelis Logica Magna,3 si chiede «quid sit intentio prima et secunda». 4 La questione risulta fondamentale per il tentativo di analizzare la conoscenza umana dal punto di vista logico; a differenza delle auctoritates di riferimento, egli non costruisce il suo edificio filosofico partendo dalla trattazione specifica dei vari aspetti della questione, ma si introduce in medias res, prendendo in considerazione tutte le componenti utili alla formulazione di una corretta e soddisfacente teoria dell’intenzionalità. Sanchez Sedeño, all’inizio della questione, ribadisce il quadro storico che contraddistingue le intentiones 5 e mostra come, nel corso della storia, i primi studi sull’intenzionalità hanno focalizzato i propri sforzi nella distinzione di due entità: 1. la prima intentio, che si definisce come ciò che è stato conosciuto dall’intelletto del soggetto conoscente; questo stadio conoscitivo non aggiunge nulla alle caratteristiche di ciò che è stato conosciuto; 6 2. la secunda intentio sive actus intelligendi, che si definisce come quel processo di conoscenza che permette al soggetto conoscente di poter affermare di aver conosciuto un’entità appartenente al mondo sensibile; infatti, quando l’intelletto conosce un uomo, si dirà prima intentio la conoscenza di quest’uomo, mentre secunda intentio l’aver conosciuto l’uomo, come concetto. Successivamente, Sanchez Sedeño ritiene opportuno esporre tre idee conseguenti rispetto a queste prime teorizzazioni delle intentiones, le quali si basano su una reinterpretazione dei primi tentativi in chiave epistemologica: 1. esiste un doppio livello di conoscenza della res: il primo, denominato di prima intenzione, rappresenta l’oggetto del mondo sensibile conosciuto e non modificato da alcuna operazione mentale; il secondo, quello di seconda intenzione, astrae ciò che è stato appreso dal primo livello e ne delinea gli elementi quidditativi. 3 Da ricordare che ogni libro dell’opera di Sanchez Sedeño costituisce un ambito di studio indipendente dagli altri; si può, quindi, scomporre il testo in base allo scopo che ogni studioso vuol raggiungere; qui, il mio interesse è quello di presentare la sua teoria dell’intenzionalità; per questo, ho ritenuto opportuno partire dalla trattazione di questa specifica questione del II libro. 4 Sanchez Sedeño 1600, 129. 5 Sanchez Sedeño 1600, 129: «fuit igitur quorundam logicorum de intentionibus prima opinio, quae docet primam intentionem, quam id quod primo intelligitur. Itaque prima intentio nihil addit, nec secundum rem, nec secundum rationem, supra rem, quae intelligitur: sed actus intelligendi dicitur secunda intentio, quando igitur intelligo hominem, homo intellectus est prima intentio, actus vero intelligendi quo hominem intelligo, dicitur secunda intentio». 6 Questa concezione riprende quella di Tommaso d’Aquino riguardante la conoscenza della specie in relazione a quella delle res. A questo proposito, cfr. ST, I-II, q. 12, a. 1; ST I, q. 85, a. 2; In Sent. l. II, d. 38, q. 1, a. 3. Per un inquadramento del problema dell’intenzionalità in Tommaso, con particolare attenzione alla questione dell’abstractio, cfr. Damonte 2009. 118 Juan Sanchez Sedeño La res, quindi, è come se fosse conosciuta due volte, prima come obiectum mundi e, poi, in se stessa; 2. una res può essere conosciuta dall’intelletto solo in modo absolutum, ovvero non si può dire di essa se non quello che è; ma la sua conoscenza è scandita da due momenti, definiti di prima cognitio, corrispondente al momento primo-intenzionale di conoscenza e secunda cognitio, che si lega al concetto di seconda intenzione; l’intenzionalità è tale solo dal punto di vista grammaticale, dal momento che esistono diversi tipi di nomi per esprimere le caratteristiche della res, ovvero 1. nomi che indicano la res senza alcuna intenzione, come Socrate e Platone; 2. nomi che si dicono di prima intenzione, in quanto rappresentativi di enti come ‘uomo’; 3. nomi detti di seconda intenzione, perché fanno riferimento all’universale desunto dalla res. L’argomentazione elaborata da Sanchez Sedeño tiene in considerazione le teorie sull’intenzionalità formulate da Hervaeus Natalis, ma anche da Domingo Bañez, da lui ritenuti auctoritates fondamentali ma non del tutto affidabili.7 Erveo, secondo Sanchez Sedeño, attraverso la formalizzazione delle intentiones, vuole giungere ad una loro precisa suddivisione: 1. la prima intentio formaliter è definita ex parte intellectus e si dice di tutto ciò che conduce l’intelletto alla conoscenza di qualcosa. Si istituisce, così, una habitudo tra la res intellecta e l’intelletto conoscente; 2. la prima intentio in concreto è tale ex parte rei intellectae e dice la cosa stessa, in quanto conosciuta dall’intelletto; 3. la secunda intentio in abstracto è la relatio rationis, che è tale quando la res è già stata conosciuta per mezzo della prima intentio; 4. la secunda intentio in concreto, infine, è la cosa conosciuta in ordine all’intelletto sive relazione, come ad esempio la specie che si riferisce all’intelletto facendo parte di una res che è già stata conosciuta.8 7 Cfr. Sanchez Sedeño 1600, 130. Sanchez Sedeño 1600, 130: «opinio est sapientissimi nostri ordinis Magistri Generalis, fratris Hervaei in tractuatu, quae de intentionibus acutissimum edidit q.1 et 2 ubi docet intentionem esse duplicem, alteram, quae se tenet ex parte intellectus, & est omne illud, quod per modum similitudini set repraesentationis ducit intellectus in cognitionem alicuius rei, sive sit verbum, sive quodcumque aliud. Et isto modo, inquit, posset extendi momen intentionis ad quaecumque rem, sive exemplar, ducens in rei cognitionem. Altera vero quae se tenet ex parte rei intellectae. Et hoc modo dicitur intentio res ipsa, quae intelligitur in quantum in ipsa tendit intellectus. [...] Et secunda intentio potest accipi et in abstracto et in concreto. In abstracto est relatio rationis, quae dicitur secundam intentio, ut quo, qua medias res quae secundo intelligitur, refertur ad intellectum. In concreto vero est res secundo intellecta cum ordine ad intellectum, sive relatio, qua species refertur ad 8 119 Emanuele Lacca A proposito della teoria di Bañez, invece, Sanchez Sedeño si limita a riportare una citazione del suo commentario alla prima pars della Summa Theologiae, che dimostra, pur nella sua stringatezza, il suo interesse alla logica dell’intenzionalità: pro cuius explicatione suppono abstractionem a materia aliquando esse realem, et sine operatione intellectus, sicut Angelus est substantia realiter abstracta a materia. Aliquando vero abstractio a materia est solum secunda intentio, quae consequitur operationem intellectus. v.g. homo per conceptum communem abstrahit a materia singulari, et quantitas a materia sensibili, quamvis realiter nullus sit homo sine materia singulari, nulla quantitas sine materia sensibili.9 L’idea di fondo che concerne la secunda intentio è, quindi, quella di un’entità logica che si costituisce solo nel momento in cui è stata compiuta un’attività di astrazione dalla res singolare: così tutto ciò che viene conosciuto dall’intelletto e da esso consegue viene designato come secunda intentio. Sanchez Sedeño completa questa trattazione dell’intentio in generale dividendola in formaliter ed obiective: nel primo caso l’intentio rappresenta tutto ciò che l’intelletto, attraverso il suo operato, è in grado di conoscere della res esistente nel mondo sensibile; nel secondo caso, invece, la res viene conosciuta attraverso il suo fondamento.10 2. Considerazioni generali sull’intentio Data la complessità delle argomentazioni presentate da Sanchez Sedeño ed il suo incedere dialettico-critico con i problemi e la tradizione di riferimento, è utile presentare subito le conclusioni che, nella quaestio II, portano alla definizione dello statuto delle intentiones.11 I conclusio: è falso sostenere che la prima intentio sia id quod intelligitur e che la secunda intentio sia actus intelligendi, dal momento che l’ente di ragione si dice di quelle entità che hanno la propria ratio nelle res; tuttavia, dal momento che di queste ultime si dicono anche genere e specie, che in realtà sono detti delle cose ma solo per via intellettiva, sarebbe impossibile intellectum secundo intelligentem est secunda intentio formaliter, species ipsa secundo intellecta, cum illa relatione est secunda intentio in concreto». 9 Bañez 1584, q. 64. 10 In questo modo, una secunda intentio può essere detta di una res e del suo fondamento; si dirà in abstracto quando si riferisce al genere e alla specie dell’oggetto senza però riferirsi a questo o a quell’oggetto; in concreto, invece, si dirà quando genere e specie sono predicabili di questo o quell’oggetto. 11 Sanchez Sedeño 1600, 131-42. 120 Juan Sanchez Sedeño strutturare un concetto non contraddittorio dell’intenzionalità secondo tale teoria.12 Il limite più evidente di questa teoria risiede nell’attribuire alla res caratteristiche proprie dell’ente di ragione il quale non può, in alcun modo, essere rintracciato nelle res in quanto esistenti. II conclusio: il parallelismo prima intentio in abstracto – primus actus intelligendi e secunda intentio in abstracto – secundus actus intelligendi non ha alcun valido fondamento, in quanto in tal modo non verrebbe garantita la conoscenza intellettiva della res: in questo sistema, infatti, non è possibile l’esistenza di un’intenzionalità in concreto, cioè un’intentio che possa mettere in rapporto il soggetto conoscente con il mondo sensibile. Inoltre, se la modalità delle intenzioni fosse solo astrattiva, genus e species avrebbero uno statuto di realtà all’interno delle res e non si necessiterebbe di un intelletto che li discerna o che ne evidenzi la predicabilità al reale. III conclusio: la possibilità di designare grammaticalmente le intentiones non è vincolata dall’esistenza dell’universale e la spiegazione deriva dallo stesso significato dei nomi di prima intentio e secunda intentio, poiché nomina primae intentionis sunt, quae res sunt imposita absolute, mediante conceptione qua fertur intellectus super ipsas res in se, ut homo, vel lapis. Nomina autem secundae intentionis sunt illa quae imponuntur rebus, non secundum quod in se sunt, sed secundum quod subsunt intentioni, quam intellectus de eis ut cum dicitur, homo est species, animal est genus.13 Anche dal punto di vista linguistico, quindi, la differenza tra le due intentiones sembra risiedere nel diverso ruolo che la res ricopre nei distinti momenti intenzionali. IV conclusio: asserire che la res intellecta sia prima intentio e l’actus intelligendi rappresenti la secunda intentio è un errore: se le primae intentiones fossero davvero l’oggetto conosciuto, non sussisterebbe la necessità di ricercare anche per esse un criterio logico di definizione. L’assurdità qui criticata risiede nel fatto che anche genere e specie sono entità conosciute e, quindi, pertinenti sia alla logica che all’intelletto del soggetto conoscente; ma è del tutto errato 12 A questo proposito è doveroso far notare un evidente e certamente involontario errore bibliografico di Sanchez Sedeño, che desume la confutazione di questa teoria da un opuscolo, il De natura generis, attribuito a Tommaso d’Aquino. Studi compiuti a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo sull’opera dell’Aquinate, tra cui lo studio commissionato da Papa Leone XIII e il progetto Corpus Thomisticum dell’Università della Navarra, hanno evidenziato la falsa attribuzione di questo breve scritto, il quale dovrebbe essere stato redatto da Tommaso di Sutton; questa attribuzione, però, è ancora in via di definizione. 13 Sanchez Sedeño 1600, 133. 121 Emanuele Lacca sostenere che genere e specie siano parte del mondo sensibile, luogo d’esistenza delle res: essi, infatti, sono tali per l’operato dell’intelletto. V conclusio: sostenere l’idea herveiana in base alla quale la prima intentio in abstracto esiste realmente vuol dire asserire la realtà sensibile delle entità presenti nell’intelletto del soggetto senziente. Per Sanchez Sedeño questa affermazione è inammissibile dal momento che la prima intentio esprime solo una relazione di ragione, basata sull’aver già appreso la res sensibile ed inoltre, dal momento che Duns Scoto, giustamente, sostiene che la relazione intenzionale può essere tale solo secundum dici, allora si concluderà che le intentiones esprimono formaliter ciò che è stato appreso per mezzo dell’operato dell’intelletto. VI conclusio: Ciò che viene astratto dalla materia, così come teorizzato da Domingo Bañez, è ens rationis, ma non è secunda intentio: conoscere la natura dell’universale, infatti, non rappresenta per Sanchez Sedeño il momento secondo intenzionale, ma è il suo fondamento. VII conclusio: per una corretta definizione del processo intenzionale, è fondamentale la comprensione del ruolo che genere e specie vi ricoprono. Sanchez Sedeño focalizza la sua attenzione su queste entità perché deve provare a sciogliere le intricate argomentazioni qui presentate, per giungere infine alla conclusione secondo la quale la conoscenza della quidditas rerum non è un’operazione dell’intelletto, ma qualcosa che consegue da questa stessa conoscenza: ciò è necessario poiché nell’intelletto avviene il processo di conoscenza del mondo sensibile e l’operazione che consegue da questo atto è la possibilità di esprimere la predicabilità; se si ammettesse l’inverso si genererebbe una contraddizione e la conoscenza intenzionale non sarebbe più esprimibile. VIII conclusio: in questa conclusione Sanchez Sedeño non arriva alla confutazione di una precisa teoria ma ritiene opportuno sottolineare che, per ben comprendere il significato di secunda intentio, bisogna tenere presente l’indipendenza che l’intelletto del soggetto conoscente ha nei confronti del mondo sensibile; solamente attraverso questa indipendenza ciò che viene conosciuto può essere studiato in quanto astratto. IX conclusio: nello studio della secunda intentio, non bisogna solamente prendere in considerazione il suo rapporto con l’intelletto che conosce, ma bisogna anche analizzare la relazione che essa intrattiene con le res, in modo tale da chiarire il perché essa sussista se e solo se esiste l’oggetto sensibile. Così, si può anche determinare il rapporto esistente tra intentio, genus e species. X conlcusio: il conceptus, che in prima approssimazione è possibile definire come ciò che viene astratto dalla conoscenza della res, è necessario per l’esistenza della secunda intentio, in quanto funge da collegamento tra la cosa stessa e l’operazione di astrazione compiuta dall’intelletto. La relazione secunda intentio – conceptus può essere intesa in un duplice modo: 1. la secunda intentio formalis è necessaria affinchè esista la secunda intentio in generale, dal momento che il concetto si dà all’intelletto formaliter; 2. la secunda intentio 122 Juan Sanchez Sedeño formalis è quell’intenzione per cui il conceptus è necessario affinchè possa esistere una secunda intentio in abstracto. Sanchez Sedeño propende per la seconda ipotesi. L’aspetto che, però, qui bisogna rimarcare è il rapporto tra il conceptus e l’attività di astrazione. XI conclusio: ciò che viene conosciuto dall’intelletto del soggetto, in prima istanza non può essere la secunda intentio, che ne può conoscere l’esse della res; per questo, Sanchez Sedeño sostiene la necessità di approfondire il significato della prima intentio, spesso trascurata dalla scienza della logica. XII conclusio: la prima intentio, dal punto di vista oggettivo, non dice in modo formale l’ente di ragione, ma esprime solo una relazione con l’intelletto. Bisogna ricordare, infatti, che la prima intentio fa riferimento solo all’apprendimento di questo e di quell’oggetto hic et nunc, cioè come si presenta a livello sensibile. Se, la prima intenzione, invece, esprimesse la relazione formale, si identificherebbe con la secunda intentio; è evidente che questo comprometterebbe lo statuto stesso delle intentiones. 3. Fondamento e statuto delle secundae intentiones Il processo di definizione della prima intentio e della secunda intentio ha mostrato la necessità di legare insieme entità come genere e specie all’apprensione intellettuale e alle res che l’intelletto conosce: dato che la predicabilità di quelle entità è da ascrivere all’esistenza reale degli oggetti, Sanchez Sedeño ha l’esigenza di trovare un fondamento alle intenzioni; infatti, se nella seconda questione egli ne aveva dato solo una definizione logica, esprimendone la quidditas, adesso bisogna comprendere su cosa esse abbiano la loro fondazione.14 Riguardo alla prima intentio, è possibile sostenere che il suo fondamento sia la res, ad esempio uomo, dalla quale l’intentio deriva la propria esistenza. Tuttavia, non bisogna dimenticare che prima intentio e res differiscono per il fatto che la prima si trova nell’intelletto, mentre la seconda nel mondo sensibile. La secunda intentio, invece, sembrerebbe priva di fondamento, dato che non è possibile rintracciarlo né nel mondo sensibile, né nel linguaggio: per il mondo sensibile vale il medesimo ragionamento utilizzato per dimostrare la non esistenza del fondamento della prima intentio. Il linguaggio, invece, si fonda sull’arbitrio umano, che sceglie le voces significativae per indicare i termini in relazione alle res conosciute, cosicchè la decisione linguistica è tale solo per la libera volontà umana, dal momento che Sanchez Sedeño sostiene che «vox homo significat ex beneplacito hominem»: 15 l’unica via di risoluzione 14 15 Sanchez Sedeño 1600, 143. Sanchez Sedeño 1600, 143. 123 Emanuele Lacca è rappresentata dal considerare la volontà umana come secunda intentio; ma ciò è absurdissimum, per Sanchez Sedeño, poiché «esse volitum in volitione fundatur». 16 Infine, non sembra potersi dare fondamento nemmeno per i figmenta, poiché essi, non essendo predicati univocamente in realis, sono appresi in parte dalla prima intentio, ma in nessun modo dalla secunda intentio, che ha esistenza grazie all’esse cognitum primae intentioni. Questo status quaestionis renderebbe inutile qualsiasi ricerca approfondita sull’intenzionalità, dal momento che le intentiones sarebbero solo delle entità logiche applicate allo studio della conoscenza umana del sensibile, che non spiegano nulla né di essa né riguardo le sue implicazioni. 17 Questa prospettiva spinge Sanchez Sedeño ad elaborare una buona via d’uscita, per restituire alla prima e alla secunda intentio un ruolo centrale nella teoria della conoscenza. Prima di dimostrare i suoi intenti, il filosofo castigliano fa alcuni preambula: 1. gli argomenti precedenti hanno generato una grave confusione sui concetti di negatio, privatio e relatio: questi termini sono indipendenti l’uno dall’altro e posseggono un fondamento diverso per ciascuno e, quindi, vanno distinti a livello di entia rationis. 2. non bisogna dimenticare la differenziazione tra secunda intentio in concreto e secunda intentio in abstracto, dal momento che una indica una relazione, mentre l’altra indica la forma della relazione; 3. secondo la corretta interpretazione delle parole di Erveo, la prima intentio deve connotarsi come una relazione quaedam. Per dimostrare l’esistenza del fondamento delle secundae intentiones, Sanchez Sedeño sostiene che semper secunda intentio fundatur in ente rationis, et in cognitione passiva intellectus, quod vocatur esse cognitum. 18 Questo passaggio è piuttosto importante, poiché mette in relazione secunda intentio, ens rationis ed esse cognitum. Quando si afferma che il fondamento dell’intenzione in questione si ritrova nell’ente di ragione, si vuol far intendere che l’intenzione non è generata dal rapporto diretto tra intelletto e res, ma è derivata da quella relatio rationis che, ricavata dalla relatio realis, permette all’intelletto del soggetto conoscente di poter affermare la corretta conoscenza del mondo sensibile: Sanchez Sedeño supporta questa tesi scrivendo che il rapporto tra il soggetto conoscente e le res si attua per mezzo delle primae 16 Sanchez Sedeño 1600, 143. Il problema della conoscenza secondo-intenzionale si lega alla conoscenza dell’universale, come entità astratta dalla molteplicità degli enti particolari che esistono nel mondo sensibile. Per un quadro completo sul problema degli universali, cfr. De Libera 1999. 18 Sanchez Sedeño 1600, 147. 17 124 Juan Sanchez Sedeño intentiones.19 L’esse cognitum, ovvero ciò che è conosciuto del mondo sensibile da parte dell’uomo, è un’entità generata dal processo di conoscenza da parte dell’intelletto, ed è contraddistinto dal suo essere passivo. Quest’ultima affermazione risulta fondamentale per la definizione del rapporto intentio – res, in quanto dà la possibilità di definire il modo in cui l’uomo arriva alla conoscenza del mondo che lo circonda; fino ad ora, il ruolo dell’uomo era limitato a quello di soggetto conoscente poiché non era chiaro il ruolo assegnato da Sanchez Sedeño all’individuo all’interno della sua teoria della conoscenza. Il processo di apprensione della res, così definito permette, da adesso in poi, la definizione dell’uomo come soggetto senziente: attraverso il rapporto con il mondo sensibile, allora, l’uomo conosce il mondo perché è una realtà in cui egli è immerso e, non potendosi sottrarre alla sua conoscenza, lo apprende per cognitio passiva. 20 Ciò viene anche confermato dal significato dei nomi che esprimono la secunda intentio; essi, infatti, esprimono una relazione di convenientia tra l’intelletto e alcune proprietà delle res, sottolineando, ancora una volta, la loro imprescindibilità per l’apprensione sensibile. Quanto detto può essere riassunto attraverso la seguente successione: Res → proprietà delle res → cognitio passiva → prima intentio → esse cognitum → ens rationis → secunda intentio Questo schema mostra come dalla res sensibile si passi, attraverso una serie di processi mentali, alla determinazione della secunda intentio. 19 Cfr. Sanchez Sedeño 1600, 147: «relationes vero, quae sunt primae intentiones, non fundantur in esse cognito, sed in aliquo reali». 20 Qui è necessario precisare alcuni aspetti della questione: 1. Affermare l’esistenza di una cognitio passiva non significa togliere ogni ruolo all’uomo nel processo di conoscenza; infatti, esso non potrà dirsi correttamente avvenuto se, in chi conosce, sono presenti alcune menomazioni, sia fisiche che mentali: per esempio, nel caso di un uomo cieco, non è possibile conoscere per mezzo della vista, la cognitio sarà inevitabilmente compromessa dall’indisponibilità dell’organo di senso ex parte subiecti. 2. Nel caso dei figmenta non sarà possibile affermare che la loro conoscenza avvenga del tutto in relazione ad una cognitio passiva; quest’aspetto, però, eccede gli intenti di questo contributo. Allora non è proficuo ascrivere alla pura sensibilità la cognitio passiva ed è, invece, più interessante provare a collegare la questione all’ambito teologico; l’uomo, in quanto creatura di Dio, viene creata per vivere all’interno di un mondo che il Creatore ha già predisposto prima della nascita stessa delle prime creature, le quali, trovandosi a vivere in un ambiente già esistente rispetto alla loro stessa nascita, non possono far altro che interagire con esso, sia modificandolo sia conoscendolo; in quest’ultimo caso, il processo di conoscenza assume una connotazione passiva, dal momento che sono i sensi che apprendono qualcosa che, però, è già esistente in modo indipendente da quell’apprendere. 125 Emanuele Lacca Una volta assegnato lo spazio di ricerca per il fondamento delle secundae intentiones, ovvero l’intelletto del soggetto senziente che apprende, Sanchez Sedeño si chiede se secundae intentiones, vel fundantur in rebus immediate secundum suum esse reale, aut ut habent praeterea aliquam denominationem rationis. 21 Riguardo alla fondazione delle secundae intentiones, quindi, egli rintraccia due possibili vie risolutive: 1. suddette intenzioni si fondano sulle cose stesse, secondo il loro statuto di realtà; 2. le intenzioni si fondano su ciò che si trova nell’intelletto in quanto esse rationis, che deriva dall’esse realis rei; questa possibilità si dice per denominationem, in quanto non esiste, nella relatio rationis, possibilità predicativa simile a quella realis: una res, una volta conosciuta, è tale per il suo esse in intellectu. La prima possibilità è da scartare per via del fondamento stesso delle intentiones; il fondamento, considerato sia come prossimo che come remoto, non può essere costituito dalle cose stesse, ma solo da ciò che viene conosciuto di esse. Ancora una volta, quindi Sanchez Sedeño ribadisce la necessità di mostrare l’indipendenza reciproca di res ed intellectus. Resta da analizzare la possibilità secondo la quale le res si strutturino nella mente del soggetto senziente dopo la loro conoscenza, tenendo in considerazione che la secunda intentio si fonda su un ente di ragione. Sanchez Sedeño, allora, introduce la problematica provando la propria teoria riguardo al fondamento delle secundae intentiones in due passi. 22 Il primo passo della dimostrazione introduce il ruolo della res all’interno dell’intelletto: le res, una volta conosciute diventano entità di ragione. Il tipo di conoscenza che si viene a determinare permetterebbe, in linea di principio, l’esistenza di un fondamento secondo-intenzionale nelle cose, dal momento che le primae intentiones, le quali si edificano sull’intellezione della res singularis, sono a loro volta fondate e non sono fondamento delle secundae intentiones. In prima istanza è possibile, comunque, concludere che la loro quidditas si ritrova proprio nell’intelletto; bisogna ricordare, infatti, che questo tipo di intentiones, derivate da res sive entia rationis, sono tali per il processo di abstractio di cui si fanno portatrici; per questo, non si deve dimenticare che 21 Sanchez Sedeño 1600, 147. Sanchez Sedeño 1600, 148: «fundantur [= secundae intentiones] in rebus prout habent esse in intellectu: sed res habent esse in intellectu, prout sunt cognitae, saltim in actu primo, quod est aliquid rationis: ergo fundamentum secundarum intentionum est aliquid rationis [...]; esse visum sunt relationes, quae sunt primae intentiones: at fundatur in cognitione active intellectus, et in visione [...]. Nam non potest illarum fundamentum esse aliquid rationis: nam vel est relatio, vel negatio, vel privatio. Sed non negatio, nec itidem privatio, ut de se patet: ergo est relatio». 22 126 Juan Sanchez Sedeño le stesse primae intentiones non possiedono esse reale, poiché sono il risultato di un actus intelligendi, come ad esempio l’apprensione per visione. Tuttavia, il filosofo castigliano ricorda che, proprio perché la conoscenza deriva da un esse reale, il fondamento della prima intentio è da ritrovarsi nel rapporto tra intelletto e mondo sensibile. 23 Allora, per comprendere meglio l’oggetto della ricerca in questione, Sanchez Sedeño sottolinea la triplice possibilità che una intentio possiede nel predicarsi della res del mondo sensibile: 1. relatio. La relazione tra intenzione ed oggetto entra in gioco nel momento in cui è riconosciuta l’esistenza di un rapporto tra l’intelletto del soggetto conoscente e la res: in base alle argomentazioni desunte sullo studio della relatio, Sanchez Sedeño introduce questo modo predicativo per indagare sulla possibilità di conoscere ciò che non è in subiecto; 2. negatio. Questa possibilità predicativa deriva dal rapporto esistente tra esse realis ed esse rationis: tra i due esse si instaura una relazione di negazione reciproca, in quanto ciò che si dice di qualcosa che possiede statuto di realtà, non si può affermare di entità esistenti nell’intelletto del soggetto senziente. Ciò è teoricamente possibile, ma di fatto irrealizzabile, dal momento che è stato dimostrato che l’esse rationis deriva le proprie caratteristiche dall’esse realis; 3. privatio. Anche questa opzione deriva dal rapporto tra gli esse intentionum; in questo caso, però, si indagano le loro caratteristiche proprie: se l’esse realis è derivato da un oggetto che possiede sia materia sia forma in quanto esistente nel mondo sensibile, l’esse rationis possiederà solamente forma, dal momento che il suo statuto deriva dall’astrazione di proprietà comuni a più res sensibili. Sanchez Sedeño afferma che anche questa possibilità è da scartare, poiché definire l’esse rationis privative significa relegare in un piano inferiore l’importanza della conoscenza e, quindi, dell’intenzionalità. Dati i modi suddetti, il filosofo castigliano sostiene che la strada da percorrere per riuscire a definire il fondamento delle secundae intentiones è quello della relazione. La teorizzazione dell’intenzionalità così come è stata qui presentata, può indurre chi la studia a pensare che essa si connoti come una delle molteplici realtà metafisiche che costellano le possibilità conoscitive dell’essere umano. In effetti, la secunda intentio, che esprime entità astratte dalle res per mezzo di prima intentio ed actus intelligendi, potrebbe senza problemi esser considerata come una deriva metafisica di un più semplice processo pragmatico di conoscenza. Invece, se si introduce tra le entità presentate il concetto di relatio, la ricerca del significato dell’intenzionalità rinvia ad ambiti epistemologici e 23 Ciò si lega alla concezione di Erveo riguardo la prima intentio. 127 Emanuele Lacca psicologici: difatti, «erit ratio de omni relatione rationis, quod debet fundari, non in aliquo rationis, sed in aliquo reali». 24 Considerare una fundatio in aliquo rationis implicherebbe un regressus ad infinitum, tenendo conto del fatto che ogni ente presente nell’intelletto presupporrebbe un altro suo simile su cui fondarsi e così via all’infinito. Non rimarrebbe altra possibilità che affermare la fondazione della secunda intentio sull’esse realis proprio della relazione. Altrimenti, infatti, oltre al già citato regressus, si concluderebbe che la cognitio stessa sia al di fuori dell’individuo. 25 Sarebbe contraddittorio affermare che colui che conosce ha il corrispondente processo cognitivo come esistente al di fuori della sua stessa facoltà conoscitiva. Tuttavia, Sanchez Sedeño, nel secondo passo della dimostrazione della sua teoria sostiene che natura hominis verbi gratia est species formalissime, sine hac relatione esse cogniti: ergo non est fundamentum eius [...]. Consequentia videtur bona: nam si competit illi relatio absque illo esse cogniti, non est fundamentum: nam fundamentum praexigitur, ut conveniat relatio. Sed antecedens probatur; quando cognosco natura in multis individuis esse, attribuo illi intentionem speciei, et est formaliter species logica; sed tunc non est relatio esse cogniti. 26 La natura dell’uomo, qui studiata da un punto di vista logico, sarebbe contraddistinta dalla species formalissime; essa si riconduce a quella species specialissima porfiriana, al di sotto della quale non può predicarsi altra specie. Questa configurazione della specie autorizza Sanchez Sedeño a considerare l’uomo sia nel suo essere particolare, ovvero l’uomo singolare, sia come specie infima, cioè uomo come ciò che si predica di più individui con le medesime caratteristiche. Risulta chiaro, quindi, che sembra poco probabile attribuire solo ed esclusivamente all’oggetto reale lo statuto di fondamento delle secundae intentiones, anche perché in questo modo non sarebbe possibile determinare alcun esse in communi derivato dalle res stesse. Affinché si possa esplicare la relazione tra il mondo sensibile ed il soggetto senziente, è necessario che 24 Sanchez Sedeño 1600, 148. Sanchez Sedeño 1600, 148: «unum autem illorum est, ut fundamentum sit intrinsecu(m) relationi, & rei, quae refertur per illa(m): cognitio vero extrinseca obiecto cognito, & ita relatio est rationis. Sed contra; nam sequitur saltem quod dum alquis cognoscit se ipsum, quod illa sit relatio realis. Respondetur, negando sequelam: quia ad relationem realem debent esse extrema realia realiter distincta, quod hic non habet verum. Secundo respondetur, quod sicut haec cognitio extrinseca alijs obiectis cognitis; ita est estrinseca seipsum cognoscenti, quatenus cognitum est: quia eo modo terminat cognitionem, sicut alia, quanvis sit sibi intrinseca, ut cognoscens». 26 Sanchez Sedeño 1600, 148. 25 128 Juan Sanchez Sedeño questo rapporto preesista alla formazione delle intentiones; l’actus intelligendi, quindi, ha il ruolo di far conoscere al soggetto senziente il mondo sensibile, cosicché egli possa avere una conoscenza di tipo intenzionale. Se si volesse semplificare l’argomentazione, si potrebbe dire che non è possibile per l’uomo comprendere ed astrarre, ovvero avere prima intentio e secunda intentio, se prima non si instaura una relazione senso – sensibile per mezzo dell’actus intelligendi. Quando, poi, è stato conosciuto l’esse in communi, sarà possibile attribuire ad esso lo statuto di intentio logica speciei: risulta chiaro, quindi, che l’attività di astrazione che genera la specie non lascia spazio alla relazione tra secunda intentio ed esse cognitum, dal momento che Sanchez Sedeño non rende possibile il rapporto tra id quod intelligitur ed intentiones. Ciò potrebbe sembrare contraddittorio per le seguenti motivazioni: 1. la secunda intentio, per essere tale, ha bisogno di un oggetto conosciuto dall’intelletto, dal momento che l’attività di astrazione non può essere compiuta direttamente sulle res; 2. la prima intentio non avrebbe alcun motivo di sussistere per come è stata definita; non sarebbe necessaria, visto che la secunda intentio avrebbe a fondamento la res stessa; 3. tutta la discussione concernente la differenza tra relatio realis e relatio rationis sarebbe inutile e, per lo più, errata, dal momento che qui verrebbe teorizzato un collegamento diretto tra res e intentio. Sanchez Sedeño, probabilmente conscio delle conseguenze del precedente ragionamento, ritiene necessario addurre alcune precisazioni che possano, quanto meno, dimostrare l’infondatezza delle possibili contraddizioni: probatur minor. Quia haec relatio cum sit ens rationis, non habet esse usque dum cognoscitur actualiter: sed non cognoscitur actualiter per illam cognitionem, qua cognosco naturam, quia illa cognitio solum terminatur ad naturam, et non ad ens rationis. 27 Una relazione basata sulla sussistenza dell’ente di ragione non può in alcun modo occuparsi di ciò che esiste in atto, ovvero le res: la cognitio intellectualis, infatti, si riferisce solo ai rapporti di ragione che si instaurano e si creano nell’istante immediatamente successivo alla conoscenza degli oggetti esistenti nel mondo sensibile. La cognitio rei actualiter, invece, non permette alcuna conoscenza di tipo intellettuale del mondo sensibile, dal momento che la sua peculiarità è quella di riferirsi solo ad naturam, e non all’ente di ragione. La conoscenza intenzionale, quindi, richiede una mediazione che spieghi in che modo nell’intelletto una res possa essere conosciuta sia sive res sensibilis sia sive res in quantum intellecta; ma, per le conclusioni determinate nei paragrafi sulla relazione, non è possibile determinare una metarelazione che metta in comunicazione la relazione tra 27 Sanchez Sedeño 1600, 148. 129 Emanuele Lacca intelletto – oggetto nel mondo e la relazione intelletto – oggetto del mondo in quando appreso. Il punto di partenza per la risoluzione di questa problematica deve, allora, consistere nel prendere coscienza del fatto che la conoscenza intenzionale è fundamentum existentiae di qualunque tipo di atto di conoscenza. Difatti, l’apprensione di un oggetto X pone due questioni: a) la possibilità di una sua conoscenza intellettuale; b) il suo ri-conoscimento all’interno di un contesto psico-linguistico.28 In base a ciò, le uniche entità mentali che permettono il soddisfacimento della conoscenza di X sono la prima intentio e la secunda intentio, poiché hanno il compito di conoscere la res in base alle sue proprietà e, successivamente, astrarne le caratteristiche peculiari, cosicché è spogliata della sua singolarità. Sanchez Sedeño, a questo punto, si limita solamente ad esplicitare il ruolo del secondo tipo di intentio, poiché bisogna ricordare che l’obiettivo della questione analizzata è la ricerca del fondamento di quest’intentio; allora, respondetur, quod cum cognosco naturam in communi, illa relatio esse cogniti censetur esse non quidam secundum propriam existentiam, quae sibi convenit ex conosci, sed censetur esse ratione sui fondamenti proximi, quod est cognitio. 29 La risposta del filosofo castigliano prende avvio dalla distinzione tra natura singolare e natura in communi: in base a questa ripartizione, le secundae intentiones sono tali perché si occupano dell’ultimo tipo di conoscenza, dal momento che una delle potenze da esse possedute è l’abstractio, che è l’attività compiuta dall’intelletto per riuscire a comprendere in un solo concetto la diversità delle res esistenti nel mondo sensibile, in modo tale da evidenziarne ed isolarne le caratteristiche comuni. Tra queste, le più importanti sono genere e specie. Una volta determinata questa suddivisione, Sanchez Sedeño presenta una duplice possibilità riguardo allo statuto dell’esse cognitum: 1. ciò che viene conosciuto deriva dallo stesso processo di conoscenza attraverso l’esistenza di 28 Il ragionamento di Sanchez Sedeño dà l’avvio ad un tentativo risolutivo del problema degli universali come oggetti di una conoscenza possibile; il ragionamento introdotto dal filosofo castigliano, infatti, non solo chiede la ragione delle modalità di conoscenza di un oggetto sensibile, ma cerca anche di capire in che modo questo oggetto possa essere dicibile al di là della sua apprensione singolare. In altre parole, la questione deve rispondere a due domande: a) come si può conoscere un albero che esiste nel mondo che circonda l’uomo? b) una volta conclusasi la conoscenza di quell’albero, come si fa a riconoscere i restanti alberi e a far capire agli altri ciò di cui si sta discutendo? Come si vede, la risposta a queste due domande rende possibile una discussione sul problema degli universali, che Sanchez Sedeño porterà avanti in altri luoghi della sua Logica. 29 Sanchez Sedeño 1600, 148. 130 Juan Sanchez Sedeño una relazione che mette in comunicazione ciò che è conosciuto con il modo di conoscerlo; 2. ciò che viene conosciuto, in quanto proprio dell’intelletto che ha avuto atto di apprensione, è tale per il rapporto che intercorre tra l’esse rationis e la cognitio, quest’ultima definita come fondamento prossimo del primo.30 Tra le due alternative il filosofo castigliano ritiene che sia valida l’ultima, dal momento che inerisce solo a componenti presenti ed apprezzabili all’interno dell’intelletto del soggetto senziente: l’atto di conoscenza, infatti, diviene il fondamento della secunda intentio, dal momento che quest’ultima è interessata dal processo di abstractio. Dall’analisi qui proposta emerge che l’individuazione della fondazione della conoscenza umana sulla cognitio permette l’apprensione degli aspetti particolari e comuni delle res per mezzo di primae e secundae intentiones. Ne risulta che la res è fondamento prossimo della prima intentio e fondamento remoto della secunda intentio. In questo modo, la conoscenza, strutturata in un processo che dal sensibile arriva all’intelligibile, è strutturata logicamente secondo un processo di tipo intenzionale, che permette all’uomo – anzi gli si rivela indispensabile – di conoscere il mondo sensibile che lo circonda. Emanuele Lacca Università di Cagliari Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia emanuele.lacca@gmail.com 30 Questa modalità della relazione, intesa come rapporto esse rationis-cognitio sembrerebbe trovare un punto di appoggio sulla questione 47 delle Disputationes Metaphysicae di Francisco Suarez, nella quale si tenta di comprendere in che modo la relazione reale possa dirsi in communi; cfr. Suarez 1861: circa tertium punctum occurrebat hoc loco quaestio de individuatione relationum; certum est enim quod, sicut in caeteris praedicamentis constitutio lineae praedicamentalis descendit a supremo genere usque ad individua, ita etiam in hoc; controversum autem est an, sicut ad essentialem constitutionem et specificationem relationum concurrit suo modo terminus, ita etiam ad individuationem. Ex quo pendet etiam decisio illius vulgaris quaestionis, an idem subjectum sub eadem ratione specifica referatur ad plures terminos eadem numero relatione, vel diversis. Questo tipo di relazione costruisce una connessione nella quale i termini differiscono tra di loro solo per differenza numerica; in una relazione del tipo padre (X) – figli (Y, Z), il fatto che ad X ineriscano Y, Z è una questione puramente numerica; ossia, l’essenza del padre in quanto uomo non viene messa in discussione dall’inerenza ai figli, cosa che riveste un ruolo puramente accidentale. 131 Emanuele Lacca Bibliografia Fonti Bañez, D. 1584, Scholastica Commentaria in Primam Partem Angelici doctoris D. Thomae ad sexagesimam quartam quaestionem complectentia, Typis Haerederum Mathiae Gastii, Salmanticae. Hervaeus, N. 1489, Tractatus de secundis intentionibus, apud Georgium Mitthelus, Parisii. Sanchez Sedeño, J. 1600, Aristotelis Logica Magna variis et multiplicibus quaestionibus septem libris comprehensis elucidata, in quibus praecepta Logicalia ad D. Thomae Aquinatis et doctoris Ecclesiae sententiam revocantur, et eiusdem Angelici Magistri doctrina contra adversarios illius acerrime defenditur, apud Ioannes Ferdinandus et Andreas Renaut, Salamanca. Suarez, F. 1861, Disputationes Metaphysicae, in R.P. Francisci Suarez e societate Jesu Opera omnia, editio nova a Carolo Berton, apud Ludovicum Vivès, Bibliopolam editorem, Parisii. Studi Damonte, M. 2009, Wittgenstein, Tommaso e la cura dell’intenzionalità, Athenaeum, Firenze. De Libera, A. 1999, Il problema degli universali, La Nuova Italia, Firenze. Fraile, G. O. 1985, Historia de la filosofia española, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid. Giacon, C. 1944, La Seconda Scolastica, Fratelli Bocca Editori, Milano. Gozzano, S. 1997, Storia e teorie dell’intenzionalità, Laterza, Roma-Bari. Hickman, L. 1983, «The Logica Magna of Juan Sanchez Sedeño. A sixteenth century addition to the aristotelian categories», in Simposio de Historia de la Lógica, 14-15 de Mayo de 1981, vol. 16, Anuario Filosofico de la Universidad de Navarra, Pamplona, pp. 265-272. Mondin, B. 1996, Storia della teologia, ESD, Bologna. Rodriguez, E. L. 2006, Historia de la Universidad de Salamanca, Ed. Universidad de Salamanca, Salamanca. 132 Hermeneutical and Phenomenological Ontology Passivity and Time On Merleau-Ponty’s Lectures on Passivity Luca Vanzago Merleau-Ponty’s conception of Nature relies on a peculiar understanding of passivity: something which is there without being present, something, furthermore, which is both lost forever and forever present without passing. The particularity of this temporal account of passivity deservers therefore a deepening, as I will show here. I will follow therefore a double direction, or rather I will consider the double relationship between the two proper objects, or elements, of the inquiry, which are temporality and passivity. Indeed, the proper subject-matter of this paper might be considered duality itself. It is a duality, however, which is neither ambivalence nor ambiguity: that is, it is neither a sharp distinction or opposition, nor the more familiar notion of non-exclusion, or confusion. Rather I would say that the duality implicit in the relationship between temporality and passivity points to a different, more elaborated form of duplicity that Merleau-Ponty was probably trying to uncover when working on The Visible and the Invisible. The lecture course on passivity constitutes a decisive step in his ontological project. 1 It might also be convenient to declare, right at the outset, that this duplicity reflects the relationship between the two sides or folds of the flesh, that is, the flesh of the world and the flesh of the incarnated subject. In this respect, while it is common and absolutely right to follow Merleau-Ponty’s reiterated attempt at weakening the weight of subjectivity in the direction of a renovated interrogation of Being, I must make clear from the very beginning that here I will rather follow the other path. I will, in other words, try to investigate what place, or status, or even meaning, can the notion of subjectivity still have in Merleau-Ponty’s later thinking, and what light can this lecture course shed on this problem. Thus, I will investigate the peculiar temporality involved in the process of self-manifestation of subjectivity, such as it can be ascertained in this new form, different from the one worked out in the Phenomenology of Perception, but still present as a problem and as a task in Merleau-Ponty’s mind. In the first place, I will analyze the several reasons to read passivity in its 1 The text I am referring to is M. Merleau-Ponty, L’institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France, 1954-55, Paris: Belin 2002. English translation Institution and Passivity: Course Notes from the Collège de France (1954-55), trans. by L. Lawlor and H. Massey, Evanston (Ill): Northwestern University Press, 2010. Hereafter referred to as Merleau-Ponty 2002 followed by the French original and then the English translation pages. Luca Vanzago temporal structure. Throughout the whole bulk of notes taken for his course, Merleau-Ponty describes the various phenomena related to passivity in terms that can be articulated in a temporal fashion. He often mentions the need to avoid interpreting passivity as the presence of a hidden subject behind the conscious one, by introducing the role of the past as sedimentation, as promiscuity and generality. The present, too, is de-structured in its traditional understanding of a dimensionless point and shown to be built upon “déchirures” that provide it with a temporal dimensionality without this being due to the action of consciousness. The future in turn is investigated in particular in its complex articulation with the past and the present, and described in terms that remind the reader of Freud’s notion of Nachträglichkeit. This temporal understanding of passivity is all the more interesting since it is not openly programmed, but seems to emerge, as it were, in the course of the analysis, and as such shows Merleau-Ponty’s deepening of his notion of temporality with respect to what is to be found in the Phenomenology of perception. Already at work in his Sorbonne courses on the psychological development of children, this process of revision can be traced with further clarity in these lectures, and grasped in all its relevance for the picture drawn in The visible and the invisible. Thus the role of temporal metaphors in Merleau-Ponty’s understanding of passivity brings to light his way of conceiving of temporality in general, but more particularly his peculiar way of relating temporalization and selfmanifestation of the subject. This deepening and radicalization of this relationship constitute one of the most interesting outcomes of these lectures. In the Phenomenology of perception Merleau-Ponty reads Husserl’s notion of self-temporalisation of consciousness in the light of Heidegger’s existential analytic of Dasein, thus putting forward a conception of subjectivity as coincident with temporality, that is, neither “within” nor “outside” of time. Already in this early understanding of temporality Merleau-Ponty emphasises the aspect of self-constitution of time as the structure that brings subjectivity to emerge. Yet this account seems somewhat flawed by its residual description in terms of something that possesses an identity to be realized through its outcomes. It is as if a «not yet passive enough» conception of subjectivity undermines the perspective that nevertheless is put forward as the goal of the whole work. Thus it is not by chance that passivity receives a temporal metaphorization in the lectures under scrutiny. Here Merleau-Ponty acknowledges that it is temporality itself that possesses the aspect of passivity that must be regarded as the essence of subjectivity. Hence his repeated efforts to use his conception of perception as a model to describe this “passive consciousness”, or better, this passivity of consciousness, which seems to lead to a substantial integration of Freud’s primary process into the phenomenological category of the flesh. While this integration fully takes place in the later writings, in these 136 Passivity and Time lectures we can witness one of the most relevant passages to leading to such an achievement. In this respect the lectures allow the reader to integrate a whole lot of working notes of The visible and the invisible with the “subplot” that was in Merleau-Ponty’s mind when writing them. Therefore I will consider now the temporale metaphors of passivity. Already in the introduction of the twin course on institution, to which Merleau-Ponty refers the audience in his lectures on passivity as well, there is an important indication concerning temporality in its functioning as a model or metaphor. As Claude Lefort remarks in his preface, this introduction must be regarded as common to both courses. Here, we find a precious statement concerning temporality as the model for the relationship between activity and passivity. Merleau-Ponty writes: Time is the very model of institution: passivity-activity, it continues, because it has been instituted, it fuses, it cannot stop being, it is total because it is partial, it is a field. 2 Now, here we find a number of elements that deserve all our attention, and will be discussed in due course. But in the first place I would like to draw our attention on the notion of model. Time here is playing a modeling function that should not be underestimated. Time, in other words, is used as a means to «make passivity become visible», to be seen. This means, perhaps, that passivity in itself might be invisible. The statement regarding time as a model, with which the lectures on institution begin, is echoed by a statement at the end of the course on passivity, in which Merleau-Ponty, reflecting on Freud’s unconscious, says that his spatial model should be replaced by a dynamical one. Dynamism, it seems possible to suggest, means that the unconscious, or passivity, has to do, not so much with “being” as something which always is and never changes, but rather with “becoming”, with that which changes and in the first place with that which happens or occurs. Merleau-Ponty writes: Passivity can be understood only on the basis of event-based thought. What is constitutive of it is that the signification is here, not by Sinngebung, [...] but welcoming to an event in a situation, situation and event themselves not known, but grasped through commitment, perceptually, as configuration, proof of reality, relief on... i.e., by existentialia and not categories. 3 The intersection of these two passages gives us some clues as to the issue Merleau-Ponty seems to be confronting: passivity needs to be brought to light, 2 3 Merleau-Ponty 2002, 36 (7). Merleau-Ponty 2002, 280 (217). 137 Luca Vanzago for it is not visible as such. And this opaqueness of passivity is related to the wrong assumption that consciousness consists in casting a light on the object as something that, in itself, that is inert and dark in itself. Thus if we are able to abandon such model (the Sinngebung) we will become aware of the fact that activity is never without its own passivity, the two are never actually separated. In order to “see”, we need to substitute an understanding based on spatial models (the unconscious as the bottom layer that is never attainable and yet is there), with one based on the notion of event. The event itself, furthermore, is not simply that which happens, empirically and casually, to the subject, but is rather the index of a structure that is being instituted (gestiftet), thus realizing a dimension, an existential difference, a step in the subject’s history. The evenementiality of the event is thus, and perhaps most of all, a way of conceiving of the transcendental itself in terms of time. A transcendental that becomes, in fact, is truly what phenomenology (already with Husserl) discovers and thus what makes the whole difference with Kant. Time, thus, clearly plays a truly fundamental role. Again with an implicit reference to Kant, we might say that time is a scheme, the scheme being a hybrid being that shares with sensibility as well as with forms and thus permits the two to enter into contact, sharing what they cannot in themselves never share. Already in Kant it is this impossibility that must itself be made possible, and time is the means to bring together what cannot have connection with its “other”. For this reason time is at once the form for every event, the mediating element that composes a subject split into two irreconcilable sides, and thus the “secret” of subjectivity itself, its model. The difference between Kant and phenomenology, at least in its MerleauPontyan version, seems to me, in this respect, to reside in the structure of time itself. While in Kant time is basically thought of according to the image of the line, Merleau-Ponty’s account of time is right from the start (in the Structure of Behaviour) related with an absence that is more present than presence, for it is the very heart of time, understood as that which passes and moves on. This means that Merleau-Ponty has a dialectical conception of time. In the Phenomenology of Perception time becomes the emblem of subjectivity itself, and this for several reasons. In the first place, time is subjectivity itself. Caught in the usual dilemma between an empiricist-realist conception of time as something existing in itself, and an idealist conception of time as that which the subject possesses without being possessed by it, Merleau-Ponty brings together Husserl and Heidegger and thus, as Ricoeur once said, overcomes them by identifying temporality and subjectivity. This solution however would not suffice, were Merleau-Ponty not able to show in details what its true meaning is. Developing Heidegger’s conception of the ek-static nature of time as that which temporalizes itself in each ekstasis, (Merleau-Ponty goes as far as to say, unlike Heidegger, that time is one ekstasis), 138 Passivity and Time and translating this conception into Husserl’s notion of temporality as the unfolding of consciousness that affects itself, Merleau-Ponty then can say that temporality is the process by which the (incarnated) subject can become itself, that is, temporality is the process of self-manifestation of subjectivity. This process of self-manifestation therefore is at once a model and yet not simply a formal tool, for in the process of temporalizing itself, the subject is rather subjected to time than being its author, and this allows Merleau-Ponty to say that this is why the subject is finite: the emergence of subjectivity from its own temporal process makes indeed the fecundity of time, but not as something opposite to the basic mortality that is the mark of (human) time. It is for this reason that time truly affects the subject, and is not just a formal feature, no matter how important this might be. The subject finds itself only by confronting itself with its constitutive otherness, for time is always the being-different of the self with itself. But this extraneousness is also at once the subject’s secret life, for only in this way can a subject properly be, and be what it is, namely, a subject, and not a thing. A subject is a subject insofar as it recollects itself in a personal history that, no matter how coherent it can become, will always have been exposed to dispersion, and in the last analysis, to a looming end that comes nearer by the day. There is no way to subtract the subject from this situation and make it become “true”. Subjectivity is this passage that is always trying to recollect itself with no hope to ever really succeed. There is clearly no room for the robust Subject (capital S) of Idealism here! It is important to stress that this picture is never contested by MerleauPonty in his successive writings. Yet it is deepened. A deepening here means that we must go below what is being displayed by this model, under this process that, despite being a constant subtraction of the subject’s self-coincidence, and its constant postponement, nevertheless, in this very self-spacing realizes the subject, that is, succeeds, is successful. Fecundity in the last analysis wins over opacity and deafness, although only for a while. Absence is still productive, negativity does not negate itself in a synthesis unless it is, Merleau-Ponty says, a transitional synthesis: but this also means that a transition is realized, something changes into something else; in other words, there is no stasis, no arrest. Before trying to see in what sense and to what extent is Merleau-Ponty able to deepen this question, which is clearly related to a “darker” notion of passivity, another feature of time must however be briefly investigated: its non-linearity. Even in this respect some interesting differences should emerge between the earlier and the later picture. Already in the analysis of time that we find in Phenomenology of Perception there are several reasons to say that, according to Merleau-Ponty, time is not a linear process. Without entering into details, I will just mention two crucial aspects. One proceeds from Merleau-Ponty’s own appropriation of 139 Luca Vanzago Heidegger’s conception. If the three dimensions of time are not three places mutually separated, and indeed if one should not even talk of past, present and future, but rather of a unique process of temporalization that constantly “explodes” in the three directions 4 it makes no sense to say that one moment “is” before or after another. This conception of time is rather a derivative one with respect to the existential temporality of Dasein which in Merleau-Ponty becomes the openness of the incarnated subject with respect to its past, its present, and its future. This first aspect of the non-linearity of time is basically repeated in the lectures on institution and on passivity when Merleau-Ponty remarks that it is strictly not possible to say that one event causes another, for the caused is in a way bringing to light its cause as cause, so that we can determine the cause only if the effect is in a way in turn “causing” it by taking place. And conversely, the effect is one possible outcome of a whole array of possibilities, most of which might remain never actualized, so that to be an effect is not to be the necessary outcome of a metaphysical cause, and is not its final end either. Après coup and indetermination are thus two features that Merleau-Ponty assigns to time already in Phenomenology of Perception (and in The Structure of Behaviour) and can be found in these lectures as well. The second aspect pertains to the peculiar temporal structure of perception. When it occurs, a perception is neither mere copy nor pure creation, but always something that re-arranges the scene, a “vibration” of the whole perceptual field. What is perceived then is prepared but not univocally determined, and while it expresses something, there can be no way to talk of an original already there that the perception simply reproduces. The typical example is the picture used in the perceptive experiments in order to make the Gestalt-switch appear. But Merleau-Ponty generalizes this structure in order to say that the perceptum is, in a sense, a copy without original, a present realization of something that appears “now” as having been “before”. This means that this something is a past that was never present. Even in this case, which constitutes a true paradigm for the relationship with raw being as it is described in The Visible and the Invisible, we cannot say that the process under description is the linear unfolding from a before to an after, from the object there to be perceived to the perception, for the perception does more than perceiving the object: it re-arranges the whole field so as to make it appear as organized in a certain way; which is one important feature of the notion of institution. Needless to say, if perception is the model adopted to understand the temporal field of experience, and thus if the gestaltic model functions as a general metaphor 4 Heidegger says that the past is not preceding the present, and this in turn is not prior to the future, but they are one unique configuration that articulates itself, and can do it only by being constantly and reciprocally co-determining the three ek-stases themselves. 140 Passivity and Time for consciousness, there is no room for any atomistic conception of time as a series of unrelated moments. As it was easily imaginable, perception plays the role of the general structure of (bodily) intentionality which characterizes Merleau-Ponty’s phenomenology. In this respect, there is no real difference between Phenomenology of Perception and the lecture courses. Perception, as we know, is contact-ata-distance, it is not the performance of a disembodied Cogito, but rather the carnal bond between the body and the world. As such it takes place before and even despite conscious intentions, and thus in a way dispossesses the subject from its Cartesian role of form- and norm-giver of the world. The subject rather emerges from its network of contacts with the world, and its “self” is a process of never accomplished and always recommencing contacts with itself through the world (and the other subjects). But is this form of passivity, or rather this form of the passivity of activity (for Merleau-Ponty says that we are no stones) passive enough? One reason to doubt about it is represented by an important though rather subtle shift that occurs in the mutual relationship between perception and the unconscious. To put it quickly, while in Phenomenology of Perception MerleauPonty reads the unconscious in terms of perceptive consciousness, here in the lectures he moves towards an inversion of the terms: as one working note in VI will state bluntly, now it appears that it is perception that must be seen in terms of the unconscious. Or better, in the lectures Merleau-Ponty is re-articulating the relations and connections between perceptive and “oneiric” consciousness, often explaining each one with the other, but never indicating univocally which one is the model and the other is the copy as we read for example in the following passage: The unconscious as perceptual consciousness is the solution sought by Freud, for it is necessary that the truth is there for us, and that it is not possessed. Perceptual consciousness, while offering a seed of truth, an «idea of the truth» (Pascal), offers it only on the horizon, and hides the truth because it shows it. In the perceived, there can be duality of signification which is not the positing of a duality (ambiguous figures, Leonardo’s vulture), which is impossible in the pure signified. The perceived saves and it alone saves our duality, the duality to which Freud holds and which he thinks is saved by the idea of the unconscious. 5 While, on the one hand, here Merleau-Ponty repeats his well-known notion of perception, just evoked, on the other he also uses a term that deserves to be retained: duality. Duality is not (simply) ambiguity, as it is usually understood in relation to Merleau-Ponty’s philosophy. It seems to contain a grain of 5 Merleau-Ponty 2002, 212-213 (160). 141 Luca Vanzago novelty. In a passage to be found some pages earlier in the notes for the lectures, 6 Merleau-Ponty says that there is an originary symbolism in dreams that is neither identical with, nor however totally different from, the perceptive one. Thus we have a first indication connecting, but not identifying, the dreaming and the perceiving subject. In order to grasp the “unconventional” meaning of dreams, Merleau-Ponty here invents the very happy expression “hermeneutical reverie”. 7 This implies that dreams have to do with the imaginary, not so much in terms of what Husserl calls Bildbewusstsein, as in the terms of Phantasie. Merleau-Ponty credits Freud with this important discovery: as he writes, Freud discovered this positive symbolism: this meaning beyond the meaning has a double sense. One usually retains only the two separate meanings from it: manifest meaning and latent meaning. The latter [would be] reinstitution of an original meaning which was then repressed, buried in memory, by censorship. [...] However, that is not his discovery. If the latent content were truly buried, dreams would not provide any relief from the desire. It is necessary that the latent content be accessible to him in some manner; that the one who dreams and the one who sees to the bottom of the dream are the same, and that there are not truly two persons (the unconscious and the censor, the id and the ego) but communication between them. The censor presupposes a pre-notion of what is censored. But this pre-notion is not a notion. 8 Merleau-Ponty then goes on to say that, in this doing, Freud touches upon the structure of “oneiric thought”, which is symbolism. This symbolism is neither coming from repression as such (even though it retains an important connection with repression), nor does it explain repression, for these two errors suppose the priority of conventional thinking, based on identity, which characterizes Sartre and Politzer. 9 The problem is, however, how to understand, in Merleau-Ponty’s own terms, this primordial symbolism, whose analysis Freud had initiated, but which must be brought forward. One clue is provided by a remark in which Merleau-Ponty says that the «problem of the imaginary and the real» is to find out how to, at once, avoid distinguishing them absolutely, and identifying them. Awake life and oneiric life, as he also defines the two registers, are not one the foundation of the other. Neither one should be subordinated to the other. Then Merleau-Ponty writes that what can link them together is 6 Merleau-Ponty 2002, 201 (151-2). Merleau-Ponty 2002, 204 (154). 8 Merleau-Ponty 2002, 201-201 (152). 9 Merleau-Ponty 2002, 202-3 (153). 7 142 Passivity and Time desire. Desire is a relation, and what is more, it is what presides over waking life as well as over the dream, although perhaps not in the same way. It seems possible to say, for the moment, that the two registers run parallel to one another, which means not excluding their possible, indeed their constant exchange. But if consciousness and what can still be provisionally called the unconscious parallel each other, and even communicate without being confused nor coincident, and if on the other hand neither one explains the other, then the process of self-manifestation which is dealt with in Phenomenology of Perception should be revised, to say the least. For it does not seem to be able to account for this duplicity. On the contrary, it seems to imply that one layer, the anonymous unfolding of the corporeal life, brings about the other, the conscious life of the ego, while undermining the latter’s traditional claim to constitute the truth of subjectivity. In these lectures, instead, Merleau-Ponty is probably suggesting that there is not so much emergence of subjectivity, the self-manifestation, as rather another kind of relationship. What kind of relationship? In order to account for it, Merleau-Ponty must solve the problem of negation. Negation might mean separation, but in this case one would either fall back into Sartre’s dualism or into that bad reading of Freud which ascribes to the founder of psychoanalysis the notion of a subject below the subject, both subjects being however fully determined. Negation, furthermore, might serve a dialectical purpose, and already in these lectures Merleau-Ponty clearly wants to avoid such solution as delusional. Where to look at, then? It seems useful to develop a suggestion articulated into three layers,10 according to which the distinction between the imaginary and the real is: • First, to think the imaginary in terms of an absence of the “real” (between brackets in the text); • Second, to think of the dream in terms of a regression to “mythical consciousness”; • Third, the idea that symbolism is the imaginary, that the unconscious, now equated to mythical consciousness, consists in a relationship to the world and the others not in terms of objects (this term seemingly meaning the outcomes of “normal” consciousness), but as “instances”. The rule, adds then Merleau-Ponty, is in this case the indistinction, and differentiation is the exception. 11 We know that in The Visible and the Invisible there is a similar assertion. If we compose the three layers, we can suggest the possibility that the unconscious as imaginary (what in Husserlian terms is Phantasia, not Bildbewusstsein) 10 11 Merleau-Ponty 2002, 204 (154). Merleau-Ponty 2002, 205 (155). 143 Luca Vanzago consists in the absence of a relationship with the real, which then provokes a “regression” (which is a temporal expression) into mythical consciousness, in turn understood in terms of greater indistinction. 12 Distinctions are the outcome of progressive institutions. The institutions are in their turn the effect of events that inscribe themselves on the subject’s process and thus generate existential dimensionalities. The regression taking place in (for example) sleep, then, seems to undo what the encounter with the world has produced on the subject, the world loses its grip over the subject, and thus another subject, maybe still to be called anonymous, but for different reasons, becomes free, at least for a while, to run its life based on “unconventional thinking”. The problem is that this unconventional subject, if I am permitted to use this expression, permeates conscious life as well. It is and at the same time it is not there. In turn, conscious life, as Merleau-Ponty explains at a certain length, permeates the world of the unconscious as well, for dreams are never pure fantasies deprived of any relation whatsoever with reality. Freud himself gives a great number of examples illustrating this point. Thus the relationship between the two registers is neither total separation nor total communication. They can communicate, although they speak different, but then again not totally different, languages. One seems to be a parody of the other. One resembles the other without coinciding with it, but certainly also without being truly different. They seem to entertain that kind of relationship that one has with one’s own mirror double. At this stage of Merleau-Ponty’s meditation, therefore, one can no longer say that he explains the unconscious with perceptive consciousness, although a number of examples and reflections still go in that direction. Nor, however, is one entitled to state that it is perceptive consciousness to be seen in terms of the unconscious. Perception still presides over the process of progressive (in a neutral meaning of the term) institutions that build up a subject’s life-history. It is important to stress that this process has to do with the real, that is, it is not illusory. Life is no dream, according to Merleau-Ponty, and this has important, not only ontological, but also ethical and political implications. At the same time, however, perception can never totally overcome this oneiric aura that surrounds it because it resembles it, because it seems to work in a similar way, adopting similar means, at times cooperating, other times conflicting. This is perhaps what Merleau-Ponty actually means when speaking of the productivity of the unconscious. This position in my opinion is still in progress 12 A similar account of a progressive disarticulation of acquired structures, which can be called dis-evolutive, can be found in Freud’s study On aphasia (English translation International Universities Press, 1953; the essay was originally published in 1891). According to this essay, in case of aphasia the linguistic structures that are lost at first are the most complex and therefore most recently acquired ones, which shows that the mind has different layers and a history. 144 Passivity and Time at this stage. It can be found in later analyses as well, and here I would like to mention at least the very important, detailed reading of Claude Simon’s work given by Merleau-Ponty in the lectures on Cartesian and contemporary ontology. What is, then, the temporality proper to this double, mythical and imaginary life that is not present without being absent? The answer to this question can perhaps be attained by reflecting on a very important passage, where Merleau-Ponty writes: The description of the oneiric structure (impossibility of expressing, dictatorship of figuration, condensation as sole means of expression) would attribute the disguise of latent thoughts as much to the condition of the dream as to [the] censor-repressed struggle – Consequently, latent content not to be represented as thought in the depth of ourselves in the mode of conventional thought, as an absolute observer would represent it. The unconsciousness of the unconscious [is the] unknown; but not known by someone in the depth of ourselves. The unconscious [is the] abandonment of the norms of wakeful expression, i.e., of the symbolic as symbolic of self, direct language, which presupposes distance and participation in the category. But this unconscious is not distant, it is quite near, as ambivalence. The “affective content” is not even unconscious or repressed, i.e., the unconscious as pulsation of desire is not behind our back – [...] [The] unconscious [is] the implex, [the] animal, not only of words, but of events, of symbolic emblems. [The] unconscious [is] unknown acting and organizing dream and life, principle of crystallization [...] not behind us, [but] fully within our field, but pre-objective, like the principle of segregation of “things”. 13 To which Merleau-Ponty adds in a note: This makes truth transcendent to the I think (desiring, seeing is not the thought of desiring [or] of seeing) without our being transformed into objects of an absolute thinker. 14 To avoid assuming the place of the absolute spectator is clearly crucial in order to grasp the specificity of this analysis. Merleau-Ponty is charging Freud, 13 Merleau-Ponty 2002, 210-211 (158-159). Merleau-Ponty 2002, 211 (241). I slightly changed the English translation in order to accord it with the original French, which reads as follows: «Ceci fait vérité transcendante au je pense (désirer, voir n’est pas pensée de désirer [ou de] voir) sans nous transformer en objets d’un penseur absolu». 14 145 Luca Vanzago in his more official position regarding the relationship between consciousness and the unconscious, for adopting such a standpoint. This means, it seems to me, that the split between the two sides of the mind can be maintained only as long as one adopts a “static” rather than a dynamic perspective. The adoption of a point of view in which temporality (in its broadest sense, from the process of development of the Ego to phylogenesis) plays its true role, shows that this split is not the contrary of communication. In passing, I mention the fact that this means that Freud’s Spaltung comes closer to Husserl’s Zwiespältigkeit than one might think at first sight. At any rate, the question remains of understanding Merleau-Ponty’s own proposal. Obviously, this problem has far wider implications than those present, implicitly or explicitly, in these lectures just evoking the problem of nature and of animality which can only be glimpsed at in these dense lines. A possible step to take is to develop the indications given by Merleau-Ponty just before writing the notes reported above. In this connection he poses the problem of the temporality of the dream. 15 The dream is ubiquitous, we read, thanks to the symbolic matrices. Thus the dream is also trans-temporal. The oneiric consciousness is at all times at once, since it does not imply a splitting (clivage). The dream begins in wakeful consciousness, and is present in filigree throughout it. As such it is called a “shadow”, a germinative production, active sedimentation of the acts of consciousness, and represents the unconscious itself in its triple aspect: 1 the underlying implication of psychical life not entirely engaged in the present act, 2 the imaginary foyer, and 3 the lyrical knot of humanity (Merleau-Ponty here quotes Henri Ey). Thus, there is an “I dream”, which is not the origin of the “I live” and the “I think” for the latter is produced by segregation and even rupture, but at the same time must be accounted for. With the expression “I dream” and its correlative “oneiric intentionality” we touch, I believe, the real core of passivity. Clearly, this is not a total passivity, for we already know that Merleau-Ponty explicitly excludes this hypothesis as meaningless in relation to living, not to mention thinking, beings. But at the same time, this kind of intentionality is not under the control of consciousness, for it hollows out consciousness itself, it interacts with it, both in the sense of nourishing it and interfering with it (to the point of hallucination). There is no possibility to fully integrate this kind of passivity in the process of selfmanifestation of subjectivity adopted in the Phenomenology of Perception. For at least two reasons: oneiric intentionality “blurs” conscious intentionality (bougé), and its process is not progressive. On the contrary, the temporality of the unconscious, if it is omnipervasive, at the same time is stubborn. The monumental past mentioned several times in VI is one example. The most relevant one, however, is the time of the repressed, which brings about the 15 Merleau-Ponty 2002, 208-9 (157-158). 146 Passivity and Time problem of memory and oblivion. Merleau-Ponty states in the passage quoted above that, in dreams, there is no splitting. Whence, then, does the splitting derive? And how to conceive of it? I believe that this is the question Merleau-Ponty does not really answer. But there are reasons for this lack. One is his refusal of Hegelian dialectic and (which is crucial) his parallel search for a different form of dialectical thinking, a hyper-dialectical perspective. In other words, Merleau-Ponty is afraid of adopting a notion of negation that then imposes itself and distorts the whole picture. The alternative can be found in a term that, despite its Hegelian halo, in my opinion possesses a different meaning in Merleau-Ponty’s view: Erinnerung. This term appears once in the lectures on passivity, but it is crucial. In that text we can read, in relation to Proust’s novel: The reference of the surroundings to the body which inhabits them and of the past body to the present: they are variations of one another and the surroundings are an explication of each. But of course, the body is substituted here for consciousness only as the place of our eruption into the world. As empirical body, it is no less determined than determining (it “turns” in the course of the search) – We consider it as a vinculum of the temporal and spatial distance, and transformer of space into time: Erinnerung. 16 As Merleau-Ponty shows in another text, and as it is clear from this one, here Erinnerung means, literally, not memory, as it usually means in German, but interiorization. That is, it means that something external and exterior turns itself into interiority. We can thus suppose that the body, the flesh, is an exteriority that is able to interiorize itself, folding back onto itself without becoming other than what it constantly is and remains. This exteriority remaining such, while at the same time interiorizing itself means that neither is exteriority dialectically overcome and thus cancelled, nor however can it be thought of as a mere opacity. The two sides remain separated while entering into contact with each other. The form of negativity that exteriority represents with respect to interiority (but the reciprocal holds as well, we might add) then is neither pure opposition nor direct passage. It rather seems a form of communication, but distorted and reversed. Once again it is the mirror image that comes to mind. Per speculum et in aenigmate. Indeed, the enigma is the symbol of symbolism. Symbolism means something, but it is not clear what. It conceals but shows this concealment. It alludes without either remaining silent or speaking clearly enough. Which is why this symbolism has to do with desire. 16 Merleau-Ponty 2002, 254 (195). 147 Luca Vanzago Desire clearly points to the relationship between subjects. According to Merleau-Ponty, the system I-the others is a network, a structure where the relations are in a certain sense prior to the relata. It is within this “field”, which can also be called intercorporeity, that the unconscious must be properly placed in order to be correctly accounted for. In this perspective, it becomes possible to understand the psychological phenomenon of projection. This means that negation can be explained as a form of position: the position of the other, as a translation of the self into a mask. This masked self perceives itself as “other” thus enacting the censorship which apparently is directed to otherness but in fact it is still related to itself. In this way Merleau-Ponty thinks it possible to explain the unconscious; as he writes, See in these cases what the unconscious consists of, if our notion is enough – and [the] passive-active relationship. Here we will truly see that oneirism is not non-being of the imagining consciousness, but just beneath the surface of perceptual consciousness; that is it is not lie, but truly a struggle of oneself against oneself, repression, censorship consisting in the refusal of our passivity and its great supplier: sexuality. The body as metaphysical being. 17 From these lines it seems possible to draw the, obviously provisional, conclusion, according to which passivity characterizes the structure of intercorporeity in which each bodily subject is always already placed. Consciousness is in this sense the refusal of this passivity and the reversion of it into an independent subject that, however, cannot really undo the knots that tie it to the intercorporeal world from which it emerges. The emergence of consciousness has to do with a break which consists, no so much in a cancellation of what precedes it, and even less in a process of becoming-true of the subject, as in a process of institution of dimensions which is at the same time a process of “reduction” of the ambivalence proper to intercorporeity. Differentiation is in Merleau-Ponty’s perspective the realization of a coherent story which, however, can never really overcome the incoherence of that fecund excess which characterizes the perceptive life of intercorporeity. An excess that can come back in various forms, some of which are more disturbing and unexpected than others. This passivity that underlies active consciousness is thus affecting the temporal process of self-manifestation itself. Be it the return of the repressed, the presence of the others in the form of negative hallucination, or the projection of one’s own fears and desires into other selves, this process does not lend itself to be peacefully accounted for in the model suggested in Phenomenology of Perception. It displays a deeper form of passivity, affecting temporality itself, 17 Merleau-Ponty 2002, 213 (161). 148 Passivity and Time which points to the substitution of a splitting subject with a plurality of poles never totally controllable. The separation (which is never an unsurpassable wall but always something more porous) between consciousness and Merleau-Ponty’s version of the unconscious seems then to be granted by perceptive consciousness, which shares something with both. But what is important to notice is that the fracture between the two comes from below and not from above. It is not consciousness that represses something and then pushes it down, but it is rather the very carnal self that works out the transformation. This poses perhaps a final problem to Merleau-Ponty’s model? Why does this happen, and how to explain it within this framework? There is not final answer, it seems to me, to this problem, but a possible solution should be found in the direction of the question of the network of relationships instituted in the realm of intercorporeity, along the lines of a conflict suggested by Merleau-Ponty himself, but not fully developed, neither in these lectures, nor actually anywhere else. Luca Vanzago Università degli Studi di Pavia Dipartimento di Studi Umanistici luca.vanzago@unipv.it References Merleau-Ponty, M. 2002, L’institution, la passivité. Notes de cours au Collège de France, 1954-55, English translation Institution and Passivity: Course Notes from the Collège de France (1954-55), trans. by L. Lawlor and H. Massey, Evanston (Ill): Northwestern University Press, 2010, Belin, Paris. 149 Ontology and Deconstruction L’ospitalità dello straniero Leonardo Samonà 1. Ritorno all’intreccio hospes/hostis Il mondo in cui viviamo ci restituisce in modo inquietante la memoria dell’intreccio etimologico originario tra i due sensi opposti e apparentemente incompatibili che si riferiscono all’esperienza dello «straniero», quello di ospitalità e quello di ostilità (hospes/hostis). La storia etimologica registra una differenziazione dei due vocaboli che corrisponde a due opposte percezioni dello straniero.1 Il primo vocabolo designa lo straniero in riferimento a luoghi distinti e definiti di uno spazio comune, all’interno del quale le identità diverse si possono riconoscere tra loro sullo sfondo di una familiarità: lo straniero è colui che appartiene a un’altra comunità e possiede un’altra cittadinanza, che lo rende ospite nella nostra comunità, ma coinvolge ad un tempo quest’ultima in un patto fondato sul riconoscimento di un’identità comune al fondo dell’alterità. Il secondo vocabolo guarda invece alla provenienza dell’estraneità da un «fuori» indeterminato e incontenibile, e coglie così il tratto impenetrabile, imprevedibile, perturbante e «ostile» dello straniero, dal quale ci si sente separati da uno spazio vuoto e abissale. La divisione netta tra questi due significati, l’oblio della loro comune origine nell’uso successivo, coprono l’assillante bisogno di differenziazione, sempre acceso e mai del tutto soddisfatto, tra inclusione ed esclusione. Dal fondo di un inesausto lavoro di distinzione risale infatti ogni volta alla superficie l’intreccio inesorabile e inquietante dei termini che si tenta di mantenere divisi – e che continuano in particolare a convivere enigmaticamente in un vocabolo riconducibile alla stessa radice, cioè in hostia, la vittima sacrificale. Nel mondo greco, la distinzione tra ospite e nemico ha una sua espressione paradigmatica nella contrapposizione tra elleni e barbari: il primo tipo di straniero resta, come dice Platone nel V libro della Repubblica, familiare e congenere (oikeîon kai syngenés) (470 b), mentre l’altro è invece estraneo e straniero (allotrion kai othneîon), nemico per natura (polémios physei). A quest’ultimo si può e si deve talora portare la guerra (polemos), perché in 1 Quando l’antica società romana si trasforma in nazione, ricorda Galli, avviene quella che Benveniste ha chiamato una chiarificatrice catastrofe concettuale: «ospite» viene distinto da «nemico» e diviene hostipot(i)s, hospes, cioè «ospite in senso eminente» (cfr. Galli 1998, 234). Leonardo Samonà fondo con lui si è per natura in guerra. Se invece viene rivolta ai greci, ai «fratelli», la guerra diventa lotta intestina, disordine e malattia (stasis), fonte di rovina, perché spezza una familiarità naturale e lascia una ferità sempre pericolosamente pronta a riaprirsi nei rapporti con coloro con i quali si deve poi tornare alla pace. Se il greco, pur straniero nella mia polis, è tuttavia come me cittadino di un’altra comunità ellenica, per cui è l’ospite, il barbaro è di contro l’estraneo in senso culturale, colui che non ha nulla in comune con me, colui a cui manca il terreno comune necessario a qualunque processo di assimilazione. Il suo ingresso nella sfera della prossimità è innaturale e perturbante. La distinzione tuttavia permette di caricare di valore positivo lo straniero e di aprire lo spazio universalizzante dell’ospitalità. In essa affiora nel mondo greco, come poi in quello romano, un’antichissima cultura dell’ospitalità «incondizionata», nella quale appunto la stranierità resta per così dire la misura dell’ospitalità, in nome di una humanitas in grado di sostenere la commistione dell’estraneo in quanto tale con l’ospite. L’estensione universale dell’ospitalità emerge come connaturata all’essere umano, per il quale nessuna manifestazione dell’umano può risultare «aliena»: homo sum, humani nihil a me alienum puto. A noi peraltro questa cultura dell’ospitalità incondizionata giunge anche da radici non greche. Noi siamo anche eredi della cultura ebraica, eredi cioè di un popolo senza terra, straniero in terra d’Egitto, straniero nella sua origine e perciò portato a identificarsi con questa condizione. Una tale eredità porta in certo modo la radicalizzazione dell’ospitalità incondizionata, suggerendo un possibile rovesciamento del rapporto tra identità ed estraneità. L’eredità ebraica ci arriva oltretutto prevalentemente attraverso il suo esito evangelico, quello che non solo nell’accoglimento dello straniero riconosce l’accoglimento del divino, ma vede perfino il divino stesso raccogliersi interamente nello straniero: «ero straniero (xenos) e mi avete accolto (synegagete)» (Mt, 25, 35: la parabola dell’«ultimo giudizio»). La stranierità è messa in questo caso al centro della synagogé: essa diviene in certo modo il fondamento e la misura della comunità. Così giunge a compimento il ribaltamento drastico dell’assetto concettuale che sembrerebbe dapprima subordinare, anche nella tradizione ebraica, l’accoglienza dello straniero alla distinzione pregiudiziale tra due accezioni della parola «straniero»: nekar o nakrì, lo straniero culturale, spesso oggetto di rifiuto, e ger, il senza terra e povero nella mia casa. Una distinzione che, pur con tratti diversi, dà voce da una parte alla percezione negativa della stranierità quale minaccia del non familiare, e dall’altra alla percezione positiva della stranierità quale annuncio di un segreto avvento di Dio stesso nello spazio della convivenza, di fatto inevitabile, con lo «straniero interno», lo «straniero fra noi», quando riusciamo a trasformarla nell’accoglimento del povero e ultimo.2 2 Vanno considerate comunque, in proposito, le puntualizzazioni di Rizzi 1998, 154 L’ospitalità dello straniero La commistione di ospite e nemico dice qualcosa di importante sul modo in cui si costituisce la comunità, che comincia dal proprio e termina nel tutto, secondo un’efficace formula di B. Waldenfels.3 Se volgiamo lo sguardo al passato, osserviamo che un tale percorso verso il «tutto» intreccia l’inclusione dell’estraneo, il superamento della semplice estraneità, con la discriminazione e l’espulsione, giocando la somiglianza contro la diversità, la fratellanza contro l’inimicizia «di natura». La comunità si costituisce così attraverso la separazione dell’ospite inquietante dall’ospite «come me», per cui tende antinomicamente a sottomettere l’unità e la totalità al principio della proprietà «pura» e della «pura» identità. All’interno di un tale processo si consolida la nozione normalizzata di straniero, nel significato neutro di colui che è cittadino di un’altra terra e ospite nella mia. Lo straniero è ospite nella mia terra e nativo nella sua così come io sono il nativo che diviene ospite nella sua terra. Abbiamo in questo caso l’altro dotato in principio dei miei stessi diritti, con la medesima condizione di alterità che caratterizza potenzialmente me, ospite a mia volta nella terra dello straniero. La separazione degli spazi e delle identità è posta a garanzia di una tale eguaglianza, sulla quale sempre incombe l’esplosione di rivalità. Protetta dalla distanza geografica, la diversità non mostra il suo lato inquietante, perché è fondata da una parte sull’eguaglianza, sulla reciprocità, e dall’altra sulla separazione delle sfere di proprietà. Quanto di problematico la relazione con l’estraneo presenta, viene respinto – almeno nello stato di pace – sullo sfondo di una separazione spaziale che tiene a bada gli antagonismi, e in tal modo rende compatibili i diversi. Da entrambe le parti si riconosce la reciproca estraneità, che riposa però sull’identica relazione di appartenenza a comunità identitarie. Tuttavia solo apparentemente questa diversità è riscattata dall’ostilità e accolta interamente nello spazio dell’ospitalità. Ci si trova in un certo senso nella stessa dinamica irrequieta, alle prese con conflitti pronti sempre ad insorgere, che è propria della tolleranza, con il suo presupposto strutturale di un dislivello tra colui che tollera da una posizione di sovranità, e colui che è tollerato nella posizione di chi non è immediatamente legittimato a esercitare diritti, in quanto straniero ospitato in una terra che non gli appartiene. Il diritto si costituisce però proprio su questa base. Lo straniero, cui appartiene un’altra terra, ritrova elementi di eguaglianza con sé in chi lo «tollera»: il diritto divide cioè in diverse appartenenze uno stesso territorio, distribuisce in qualche modo la sovranità senza intaccarne il principio. L’ospitalità si presenta in questo caso nella forma apparentemente pacifica di una restrizione dello spazio dell’intolleranza, che continua a colpire solo chi pretendesse, da ospite, di far valere gli stessi diritti del nativo, ovvero chi mettesse in crisi la gerarchia tra l’ospitante e l’ospitato, rifiutando così la partizione giuridica dell’identità, del 244-253. 3 Waldenfels 2007, 15. 155 Leonardo Samonà «territorio comune», in estraneità che tuttavia restano compatibili con il principio sovrano dell’identità indivisibile. I limiti del riconoscimento reciproco, ridotto al bilanciamento di rapporti di forza che si possono rovesciare, riescono in questo caso prevalentemente a contenere il loro retroterra di ostilità, protetti come sono dalla separazione geografica, sociale, culturale, economica. Fino a quando una simile cornice tiene, la tolleranza dello straniero mette in comune la reciproca estraneità, toglie ad essa il carattere minaccioso dell’assolutamente altro e la trasforma in una diversità compatibile con il riferimento a principi comuni. Non va mai dimenticato tuttavia che la tolleranza, così configurata, coltiva parimenti un rigetto di ogni altra estraneità, di ogni diversità che possa creare disturbo alla sostanziale eguaglianza: un rigetto pronto a manifestarsi di fronte alla diversità che si introduca nel terreno saldamente presidiato dall’affinità. Così Locke, il grande filosofo della tolleranza, negava il diritto ad essa non solo a quei culti religiosi che minacciano principi umani fondamentali (come quello alla vita), ma anche per esempio ai cattolici e agli atei, che in modo diverso a suo giudizio minavano il fondamento stesso della comunità. Pur sotto il governo della tolleranza, ogni processo di familiarizzazione continua in questo modo a risultare compromesso con un rigetto dell’estraneità, e così ogni pace con la guerra, ogni accoglimento del divino a principio della comunità con l’espulsione di una vittima sacrificale, l’hostia. 2. Rovesciamento dei rapporti tra proprio ed estraneo Oggi però siamo costretti dalle circostanze, e forse siamo ad un tempo chiamati a rovesciare il rapporto tra identità e alterità, finora governato dal predominio apparentemente rassicurante ma in realtà irrequieto dell’identità, e a provare ad affrontare l’ospitalità alla luce di quella che abbiamo chiamato «stranierità», cioè alla luce della presenza «invadente» del lontano. Urge infatti, nell’ambito più intimo della nostra «proprietà», uno straniero che sta al di fuori dei limiti della familiarità e dell’insieme dei simili con cui potenzialmente si è già familiari. Questa pressione non è dovuta però solo all’arrivo di individui caratterizzati da distanza geografica, fisica, culturale, religiosa. Il vissuto dell’«invasione» è determinato innanzitutto da un fattore ancora più generale: in un’epoca che «annulla» le distanze e crea il «villaggio globale», si fa esperienza di una prossimità non voluta, costrittiva, cioè l’esperienza dell’altro che sconfina senza regole nella sfera della nostra identità e proprietà. Abbiamo la radicalizzazione dello «straniero interno», non confinabile nella lontananza dell’esotico e del separato. Quest’esperienza, che ha indubbiamente un impatto drammatico, può far emergere però aspetti della relazione interumana che ci appellano segretamente da tanto tempo (o persino, con un’espressione biblica usata da Girard, ci attendono nascostamente «sin dalla fondazione del mondo»). Essa ci può aiutare a scoprire che il «prossimo» (anche quando si tratti del familiare) 156 L’ospitalità dello straniero è sempre lo straniero, l’ultimo e il senza terra nel mio territorio, il povero nella mia casa, il che significa però anche che egli è qualcuno che occupa il mio territorio e la mia casa senza esserne proprietario. La «prossimità» per natura, apparentemente contenuta in modo pieno nella familiarità (la syngéneia di Platone), dai tempi di Caino e Abele si rivela sotto la costante minaccia di conflitti e di intolleranza, ed è anzi incessantemente intorbidata da sentimenti di estraneità. La «congenericità» sta sotto il dominio di una relazione negativa con l’estraneità, e perciò nasconde al suo interno l’insorgere indomabile di processi di espulsione di essa. Se questa è la condizione aporetica nella quale precipita fatalmente la pretesa di una familiarità naturale, lo «straniero fra noi» è invece il messaggero di un legame d’origine dell’identità con l’alterità, il testimone del passaggio costitutivo dell’identità attraverso un distacco dal proprio e una familiarizzazione con l’estraneo. Con l’esperienza dello straniero si entra anzi in un percorso all’interno del quale il «proprio» non risulta più per natura il principio della relazione con l’estraneo. Emerge piuttosto che la fissazione di una proprietà originaria nasconde nella sua stessa origine l’espulsione della diversità. Allo «straniero fra noi», se queste sono le condizioni, mi scopro «chiamato» ad essere prossimo, nel senso che la prossimità trasforma in senso positivo l’irruzione dell’estraneo nella costituzione della mia stessa identità e mi immette per la prima volta in modo autentico nella mia «proprietà». La posizione di una dimensione «pura» della familiarità, non contaminata dall’estraneo, si mostra per contro come il risultato di un’astrazione violenta dalla diversità all’interno stesso dell’affinità socio-culturale o della parentela. In ultima istanza risulta addirittura che in una società che pretenda di prescindere dall’accoglienza dello «straniero interno» nessuno è alla fine riconosciuto: ogni individuo è indifferente all’essere dell’altro, e non può mai determinarsi in quanto altro, così come secondo la Arendt (Le origini del totalitarismo) accade negli stati totalitari. Dove, infatti, ogni diversità è compressa e rigettata, l’altro non è riconosciuto neanche come uomo: ma se nessuno è ospite, nessuno è nemmeno cittadino, perché nessuno è in una posizione diversa dall’altro, o viceversa tutti sono, in quanto diversi, nemici, in base a un’identità chiusa a ogni alterità.4 Un tale sistema totalitario distrugge alla fine il carattere sociale dell’unità e distrugge dunque se stesso. Ma se una comunità senza ospitalità verso lo straniero è nemica di se stessa, allora una comunità è vitale solo se ospitante e ospitato sono possibili, ovvero solo se ognuno è l’altro dell’altro e riceve in quanto altro l’identità. Con queste premesse, l’ospitante non può essere nemmeno colui che semplicemente «tollera» da una posizione di superiorità e di irrelatività, ma rientra anch’egli interamente dentro la logica dell’ospitalità, dalla quale germina il nucleo più profondo dell’identità e della «proprietà», così come esso risuona nel comando del Levitico, con la sua specialissima rivi4 Cfr. quanto ne dice Galli 1998, 240. 157 Leonardo Samonà sitazione della «regola aurea»: «Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu amerai lo straniero come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri nella terra d’Egitto» (Lev 19, 34).5 Qui il prossimo è già lo straniero: e soltanto nell’amore con cui ci approssimiamo, ci facciamo prossimi allo straniero, attingiamo la nostra stessa identità. Nell’«epoca planetaria» nella quale viviamo, un vertiginoso avvicinamento del lontano fa venire inesorabilmente in primo piano il nemico in ogni estraneo, mentre la figura dell’ospite sembra perdere la sua forza d’appello di fronte all’erosione incessante dei margini di tollerabilità del diverso. L’avvicinamento è infatti innanzitutto solo il frutto dell’imporsi della comunità globale nella forma di un’omologazione fattuale e irresistibile, che travolge nell’eguaglianza ogni confine geografico e culturale. L’eguaglianza ha però in questo caso solo la figura, cieca alle differenze, di un’identità anonima, senza «proprietà» (senza privacy), cioè senza riconoscimento di diversità, le quali al contrario vengono espulse occultamente sotto l’abbagliante trionfo dell’eguale: si tratti della condivisione del mercato, del progresso tecnico, o invece dell’inquinamento ambientale se non addirittura delle armi tecnologiche come simbolo paradossale nel quale si riconosce un’identità posta da tutti, senza discussioni, al di là delle differenze culturali. In questa catastrofe dell’ospitalità tramontano anche – e questo è forse il tratto più inquietante e indecifrabile – le regole consolidate che in passato hanno distinto l’ospite dal nemico da combattere, proteggendo a loro modo il costituirsi delle società nella storia che abbiamo alle spalle. Ormai la comunità globale governa in modo del tutto inedito. Essa appare sovranamente indifferente all’ospitalità, in quanto portatrice di un ordine pervasivo, senza residui di proprietà e di privatezza: «un ordine», per dirla con Levinas, «nei confronti del quale nessuno può prendere le distanze».6 Dove è bene ricordare che un tale ordine descrive per Levinas la logica specifica della guerra, cioè di un comportamento umano preso nell’incantesimo del desiderio di un’identità esonerata definitivamente dalla diversità, e per questo risucchiato nel vortice di una tendenza alla distruzione e all’autodistruzione. 3. Dalla salvaguardia delle differenze all’unità come prossimità e somiglianza Una tale «logica» della guerra è stata interpretata recentemente da Girard come una «tendenza all’estremo»,7 nel senso di un’inarrestabile distruzione della diversità causata in realtà paradossalmente dal desiderio di una diversifi5 Cfr. Rizzi 1998, 248, dove viene detto che quello biblico è «un Dio di stranieri». Levinas 1980, 20. 7 Cfr. Girard 2008. 6 158 L’ospitalità dello straniero cazione radicale, ossia dal rifiuto dell’eguaglianza. In questa situazione, l’ospite scompare cedendo per intero il suo posto al nemico «invasore». In un mondo dominato da un potere apparentemente inarrestabile di omologazione, ogni diversità viene radicalmente «da fuori». Essa non viene più riconosciuta, e acquista un tratto «apocalittico», che qui vale come semplicemente distruttivo. Anzi, nella lettura di Girard, qui si presenta un tratto «diabolico». Perché l’omologazione è il rifiuto della contaminazione dell’identità con la diversità, e pertanto è inconsapevolmente l’aspirazione a una diversificazione radicale, sottratta all’essere «come l’altro». È una tale aspirazione quella che fa esplodere il «conflitto di civiltà», a partire dalla percezione di essere, senza possibile alternativa, meramente «invasi» dall’altro (il non «occidentale»), il quale a sua volta, trovandosi anch’egli sempre più coinvolto nel processo di omologazione, si sente «invaso» dalla nostra estraneità (dall’«occidentale»). In base a questo quadro girardiano, la questione che diviene decisiva nel nostro tempo non è tanto la salvaguardia delle diversità, quanto l’accoglimento della somiglianza. Il mero rispetto della diversità, ricollocando incessantemente l’altro in un altrove, non risponde più alle urgenze del tempo presente, in quanto oggi non riesce a fissare lo sguardo sull’inevitabile contiguità dell’estraneo, e si ritrae inavvertitamente dalla sua minacciosa prossimità. La scoperta della somiglianza inscrive invece l’uguaglianza in un processo di ritorno all’identità, nel quale la diversità non resta esclusa ma è anzi elemento costitutivo. Del resto, a ben vedere, anche il rispetto della diversità, ovvero la tolleranza quale la ereditiamo dalla modernità, merita il proprio, problematico nome a causa del fatto che essa non può che rivolgersi verso ciò che è ritenuto diverso, estraneo, non condivisibile, insomma potenzialmente tale da suscitare una tendenza all’ostilità e da venir percepito come una minaccia in certo modo intollerabile. Lo «straniero interno» esalta in fondo una tale, strutturale antinomia della tolleranza, che viene chiamata oggi come non mai a sopportare, a tener conto dell’intolleranza, e dunque (a partire dal suo ambivalente significato letterale) in qualche modo a sfidare il nocciolo duro dell’intolleranza, accogliendone il peso e sostenendone perfino, in certo modo, l’esistenza in sé altrimenti contraddittoria. L’ospitalità, secondo la sua vocazione in realtà più autentica, si può dire descritta nel modo migliore dell’invito paolino (Gal 6, 2): «portate i pesi gli uni degli altri». Essa è in se stessa la capacità di accogliere perfino l’intolleranza (altrui e propria), senza lasciarsene disintegrare. Lo «straniero tra noi» rovescia fino in fondo una nozione di ospitalità legata all’affinità naturale (la syngeneia platonica), che la condiziona a un’esclusione preliminare, ed evoca al suo posto l’essenza più profonda dell’ospitalità stessa, in un percorso che prende inizio dall’accoglienza incondizionata dell’estraneo. Una tale incondizionatezza peraltro, come Derrida ha efficacemente mostrato, non può sottrarsi al lavoro di negoziazione con le condizioni dettate dall’asimmetria, costitutiva dell’ospitalità, tra chi è «a 159 Leonardo Samonà casa propria» e chi viene «da fuori» 8 : l’accoglienza incondizionata irrompe come un appello che ha senso rivolgere solo a chi è «a casa propria», e dunque sta a sua volta sotto questa condizione. Mi sembra però che non ci si possa fermare a questo momento antinomico dell’ospitalità, sempre messo in pericolo dalla rottura dei confini e dall’esperienza dell’inversione dei ruoli, cioè dall’irruzione della «proprietà» dell’altro. Il tratto antinomico, lungi dal distruggere l’ospitalità, rinvia a un legame che si colloca al di là dell’interminabile rovesciamento di posizioni tra loro diverse e opposte. Rinvia in altri termini a un ritorno dell’eguaglianza, ma nella figura rinnovata dell’ospitalità quale accoglienza della somiglianza, cioè di un modo di essere eguali che non esclude differenza e pluralità. In questo modo, l’ospitalità torna alla fine ad essere accoglienza degli «altri come noi»: ma qui non è più l’affinità di natura a sostenere la somiglianza attraverso la sistematica emarginazione della diversità con il suo sempre risorgente attrito, quanto piuttosto è la somiglianza a fondare l’identità nel recupero e nella valorizzazione costruttiva della diversità. Se si assume che oggi non è tanto la differenza a essere diventata oggetto di timore, quanto la somiglianza (che non è il suo contrario, perché appunto non è la mera in-differenza), si può guardare in modo nuovo all’attuale processo di globalizzazione, con la sua approssimazione forzata di tutti i popoli più diversi per cultura, tradizioni e ordinamenti sociali. La confusione delle identità – dietro la quale per un verso occorre leggere l’effetto di un predominio e di un’invasione, a loro volta messe di fronte alla potenza incalcolabile di una reazione simmetrica e appunto al rischio di una «tendenza all’estremo» – può essere per altro verso anche l’occasione di una riscoperta radicalizzata della somiglianza, cui oggi è affidata la possibilità di fondare nell’unico modo realistico la comunità umana. L’uguaglianza, subìta dapprima nella forma intimamente antagonistica dell’omologazione, cioè di un’identità che rifiuta la diversità, può trasformarsi in un valore oscuramente ricercato in ogni incontro interumano, perché in grado di fondare e di sostenere entro una convivenza possibile il venire incontro dell’estraneo. Certo qui la comunità si apre innanzitutto a uno squilibrio, nel momento in cui rinuncia al carattere meramente naturale o meramente immediato di una base comune di valori e di intenti, e – partendo in questo modo dalla rinuncia iniziale a una presunta, perfetta reciprocità – investe sul legame tra diversi, affidando a questa relazione l’attuazione della propria identità. Si potrebbe forse leggere in questi termini l’avventura dell’identità descritta nella parabola del «buon samaritano» (Lc 10, 25 ss.). In essa Gesù rovescia la prospettiva di chi interroga, facendo nascere la stessa identità di chi cerca il suo prossimo dall’esperienza dell’incontro con l’estraneo. Così, alla domanda: «chi è il prossimo per me (mou)?», il dottore della legge si sente rispondere che il prossimo è colui cui egli 8 Cfr. Derrida 2000. 160 L’ospitalità dello straniero si faccia prossimo, abbandonando la propria identità per approssimarsi a chi è lontano (come sono tra loro giudei e samaritani). Qui lo straniero raccoglie interamente in sé il volto del divino perché evoca il fondamento essenziale dell’accoglienza. Il divino è riconosciuto nel tratto del raccoglimento del più lontano. In questa luce la condizione attuale ci fa vivere un momento storico decisivo, proprio quando siamo in qualche modo costretti dall’avvicinarsi pressante del lontano. A causa di questa invasione (che stentiamo a leggere nella forma reattiva di una risposta a una nostra – di noi «occidentali» – invasione, scivolando così pericolosamente nella china della «tendenza all’estremo» descritta da Girard) ci accade come mai prima di sperimentare l’insufficienza di un rapporto alla «stranierità» fondato su un’identità naturale, territoriale, statica e irrelativa, perché questo riferimento ormai produce subito in noi l’intolleranza, ingovernabile a differenza di quanto ancora accadeva in un recente passato, nel quale, protetti entro confini stabili e rassicurati da distanze invalicabili, potevamo continuare a distribuire lo straniero tra ospite e nemico. Proprio questo momento storico ci pressa però, d’altra parte, verso una politica in grado di riscoprire la somiglianza, e dentro di essa di nuovo la diversità, là dove c’è solo quella confusione delle identità, sotto il cui processo di omologazione si avverte sempre più il ribollire dei conflitti, da quello sociale a quello di «civiltà». L’ospitalità dello straniero, con il suo interno sbilanciamento oltre il terreno rassicurante della reciprocità, può divenire la pietra angolare sulla quale edificare questa politica, l’unica in grado di fermare la spasmodica ricerca della diversità irriducibile, della supremazia, della vittoria, con la sua corsa verso la catastrofe. Per sbilanciamento intendo la capacità di partire dall’ospite inquietante, dall’estraneità del prossimo, e cioè anche la capacità di sostenere il peso dell’intolleranza e di approssimare attivamente il lontano, accogliendolo nella sua lontananza e riscoprendone la prossimità. Oggi la relazione con lo straniero, al di qua di ogni scelta, deve in qualche modo partire dalla sopportazione del peso dell’estraneità, mentre si vede ad ogni passo sbarrata la scorciatoia verso una comunità utopica nella quale la familiarità sarebbe liberata definitivamente dall’estraneo. Ma quella che all’inizio è percepita semplicemente come una costrizione porta al suo interno un appello e una risposta, che la trasforma intimamente in un’urgenza etica e in una prospettiva di futuro positivo. Mai come oggi ritorna attuale, e caricato di un sorprendente realismo (inteso come radicazione di un ideale in un fatto), il comando evangelico dell’amore per il nemico. L’accoglienza sperimenta sempre, anche quando ne sembra lontanissima, questa trasformazione del nemico nell’ospite, dell’estraneo nel prossimo. È questa trasformazione che istituisce la familiarità, di cui si andrebbe vanamente in cerca trasformando l’altro nell’identico, cioè rigettando la sua diversità. Si tratta di un processo che esplicita innanzitutto la paura, che scopre innanzitutto l’hostis, che riprende il cammino dalle antinomie dell’ospitalità 161 Leonardo Samonà «incondizionata»: ma questo primo passo sta appunto dentro un cammino che raccoglie pazientemente l’opposizione iniziale in una relazione capace di integrarla e in ciò stesso di superarla, giungendo a una familiarità che si può attingere solo da ultimo e nell’ultimo, e mai semplicemente rivendicare alla sua base naturale. Leonardo Samonà Università degli Studi di Palermo Dipartimento Fieri-Aglaia leonardo.samona@unipa.it Riferimenti bibliografici Derrida, J. 2000, L’ospitalità, tr. it. a cura di I. Landolfi, Baldini & Castoldi, Milano. Galli, C. 1998, «Cittadino/straniero/ospite», in Filosofia e Teologia, XII, 2, pp. 223-243. Girard, R. 2008, Portando Clausewitz all’estremo, tr. it. a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano. Levinas, E. 1980, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dall’Asta, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano. Rizzi, A. 1998, «“Ama lo straniero...” La paradossale identità ebraica», in Filosofia e Teologia, XII, 2, pp. 244-254. Waldenfels, B. 2007, Estraniazione della modernità, a cura di F. G. Menga, Città aperta, Troina. 162 Derrida e il pensiero del vivente Carmine Di Martino 1. La strana logica dell’autoimmunità Negli ultimi anni della produzione derridiana fa la sua insistente, continua apparizione la nozione – di matrice biologica e medica – di autoimmunità. La sua prima occorrenza testuale si trova in Spettri di Marx, pubblicato nel 1993, ma la sua emergenza è indubbiamente preparata da tutta l’opera precedente; essa si annuncia, in questo senso, come un altro nome di qualcosa, una legge, che ha accompagnato fin dall’inizio il pensiero di Jacques Derrida e ne rappresenta forse il tratto caratteristico, la firma: la legge della différance. L’affiorare e l’imporsi di questo termine, autoimmunità, segna tuttavia anche uno spostamento, una diversa distribuzione di primi piani e di sfondi. Il fatto che, a partire da Spettri di Marx, Derrida inizi a utilizzare massicciamente la categoria di autoimmunità ha a che vedere con la centralità sempre più esplicitamente assunta dalla questione della vita e da un pensiero del vivente all’interno del lavoro decostruttivo. «Perché parlare così di autoimmunità?», si chiede Derrida in Stati canaglia, dieci anni dopo la prima comparsa del nome: «È per poter collocare al centro del mio discorso la questione della vita e del vivente, della vita e della morte, la vita la morte». 1 Attraverso la nozione di autoimmunità è dunque la questione della vita, l’istanza di un altro pensiero della vita e del vivente – altro almeno rispetto a quello tradizionale, ma anche a quello biopolitico di matrice foucaultiana e al vitalismo di ispirazione bergsoniana, per esempio nella sua versione deleuziana – guadagna il centro della scena decostruttiva, avendo in ogni caso sempre occupato in essa una posizione di assoluto rilievo. È difficile immaginare, oggi, sia per quello che ancora potremmo convenzionalmente chiamare un pensiero filosofico sia per la ricerca scientifica, un punto più incandescente, più carico di urgenza e di implicazioni, anche politiche e perfino ideologiche: la vita, il vivente, i viventi animali e umani, la proprietà e improprietà della vita, il suo rapporto con la tecnica, la manipolazione dei viventi eccetera. Lo documentano sui diversi versanti, scientifico e filosofico, gli sviluppi della biologia, della genetica, dell’ingegneria genetica, da una parte, e della biopolitica e della bioetica, dall’altra, comunque li si vogliano considerare. A ciò si deve poi aggiungere la portata politica della nozione di autoimmunità, che fa di quest’ultima una 1 Derrida 2003b, 177-8. Carmine Di Martino leva strategica della meditazione derridiana sulla condizione e il destino della democrazia. In questa sede vorremmo compiere una prima, rapida ricognizione del pensiero del vivente in Derrida attraverso la lente d’ingrandimento, la prospettiva, dell’autoimmunità, per poi allargare e complicare il discorso affidandolo a ulteriori sviluppi. Entriamo nel vivo del tema. Nell’ottica biologico-medica con malattia autoimmune s’intende una patologia del sistema immunitario per cui un organismo reagisce contro i propri elementi costituenti. In condizioni normali, vi è infatti uno stato di tolleranza immunitaria: le strutture del proprio organismo vengono riconosciute come “proprie” dalle cellule del sistema immunitario e come tali non vengono rigettate. Nella patologia autoimmune, l’organismo considera invece come estranee cellule che sono sue, attivando conseguentemente contro di esse una risposta immunitaria, che diviene perciò auto-immune, danneggiando o distruggendo i propri stessi componenti (tessuti, organi ecc.). La reazione auto-immune consiste nella produzione di auto-anticorpi contro auto-antigeni, vale a dire contro cellule che, pur essendo parte del proprio organismo, vengono “erroneamente” individuate come antigeni, ossia come quegli agenti “estranei” e potenzialmente “dannosi” al proprio organismo che normalmente scatenano la risposta immunitaria. Sull’altro lato, ma sempre nell’ambito degli squilibri del sistema immunitario, si colloca com’è noto l’immunodepressione, cioè l’insufficiente reazione immunitaria dovuta al mancato riconoscimento di un antigene (come nella sindrome da immunodeficienza acquisita, l’AIDS, che nel suo sviluppo ha come effetto di esporre l’organismo a tutte le aggressioni esterne, le malattie, fino alla sua distruzione). Derrida è particolarmente interessato al processo autoimmunitario e a una generalizzazione della “logica” a esso immanente, che è – nella sua lettura – una logica doppia. Egli rilegge infatti la nozione di autoimmunità secondo due diverse direzioni, come si coglie dal seguente passaggio dell’intervista condotta da Giovanna Borradori sull’11 settembre. Nel contesto di una discussione sul carattere di evento dell’attentato dell’11 settembre, su cui torneremo più avanti, Derrida propone una formulazione del concetto di autoimmunità: «Un processo autoimmunitario è, lo si sa, quello strano comportamento del vivente per il quale, in maniera quasi suicida, esso si impegna a distruggere “se stesso”, le proprie protezioni, ad immunizzarsi contro la “propria” immunità». 2 L’autoimmunità è dunque intesa sia come auto-distruzione, in linea con il significato medico, sia come distruzione delle proprie protezioni, come immunizzazione dall’immunità. In questo secondo caso la nozione di autoimmunità si orienta piuttosto verso quella di immunodepressione o immunodeficienza. È a partire da questa seconda accezione che Derrida lavora a una generalizzazione o a una estensione senza limiti del concetto. È ciò che si evince 2 Derrida 2003a, 102. 164 Derrida e il pensiero del vivente con chiarezza quando egli si impegna per la prima volta, in Fede e sapere, nella definizione dell’autoimmunità. «È soprattutto nel campo della biologia che il lessico dell’immunità ha sviluppato la sua autorità. La reazione immunitaria protegge l’indennità del corpo proprio producendo degli anticorpi contro gli antigeni estranei. Quanto al processo di autoimmunizzzazione che qui ci interessa in particolare, com’è noto esso consiste, per un organismo vivente, nel proteggersi dalla propria auto-protezione distruggendo le proprie difese immunitarie. Dal momento che il fenomeno di questi anticorpi si estende a una zona molto più larga della patologia e visto che si ricorre sempre più spesso a virtù positive di immunodepressori destinati a limitare i meccanismi di rigetto e a facilitare la tolleranza di certi trapianti d’organo, ci avvarremo di questo allargamento e parleremo di una sorta di logica generale della autoimmunizzazione». 3 In Fede e sapere, Derrida interpreta dunque decisamente l’autoimmunità come immunizzazione dall’immunizzazione, come protezione dalla propria protezione immunitaria attraverso una distruzione delle proprie difese, discostandosi dal concetto biologico-medico, rielaborandolo cioè in direzione dell’immunodeficienza, con un riferimento all’AIDS che si fa esplicito nella edizione francese del testo (pubblicato un anno dopo l’edizione italiana del 1995). Vi sono d’altra parte teorie – non importa qui fino a che punto fondate – che considerano la sindrome da immunodeficienza acquisita come malattia autoimmune. Recenti studi, infatti, sostengono che il virus dell’HIV provocherebbe l’apoptosi (una sorta di suicidio o di morte programmata) dei linfociti preposti alla risposta immunitaria e perciò una autodistruzione del sistema immunitario – in termini derridiani, una immunizzazione dalla propria immunità –, dando luogo allo sviluppo dell’AIDS. 4 Il senso che Derrida intende attribuire alla «logica generale della autoimmunizzazione» è quindi predelineato, da una parte, dal riferimento alle «virtù positive» degli immunodepressori nei casi di trapianti d’organo e, dall’altra, dalla interpretazione della sindrome da immunodeficienza acquisita come malattia autoimmune, in cui cioè il sistema immunitario attacca se stesso, si autodistrugge. L’autoimmunità è pertanto, scrive Derrida in Stati canaglia, quella «strana logica illogica attraverso cui un vivente può spontaneamente distruggere, in modo autonomo, ciò stesso che, in lui, è destinato a proteggerlo contro l’altro, a immunizzarlo contro l’intrusione aggressiva dell’altro». 5 3 Derrida 1995, 48, n. 23. Rimandiamo in proposito alla puntuale ricostruzione di Simone Regazzoni, compiuta in due riprese. Cfr. Regazzoni 2012, 70-2 e la voce Autoimmunità a cura di S. Regazzoni in Facioni et al. 2012, 40-9. 5 Derrida 2003b, 177. 4 165 Carmine Di Martino 2. Différance e vita Ma in che senso questa «strana logica illogica», questa difesa dalle proprie difese, avrebbe a che fare con un altro pensiero della vita e del vivente? Se Derrida si interessa allo schema autoimmunitario non è certo per un gusto del patologico o per una perversa e nichilistica predilezione per ciò che è mortifero; al contrario, è perché nel patologico, il processo di autoimmunizzazione, si rende visibile una legge, quella della différance, come condizione di possibilità, o meglio, come condizione di «im-possibilità» della vita del vivente nella sua singolarità, che al tempo stesso e indisgiungibilmente la rende possibile e impossibile, la consente e la minaccia, e regola l’organizzazione della vita in generale (si tratti dell’individuo vivente o della comunità, quindi del politico). È in Spettri di Marx che l’autoimmunità si annuncia come “costitutiva” della vita del vivente e come un altro nome della legge della différance. Qui per la prima volta il rapporto tra différance e vita si presenta in termini di autoimmunità. Indicando il luogo della somiglianza inquietante dei due nemici giurati, Marx e Stirner, Derrida afferma: «Entrambi amano la vita, il che va bene ma non va da sé per degli esseri finiti: sanno che la vita non va senza la morte, e che la morte non è al di là, fuori della vita, a meno che non si inscriva l’al di là all’interno, nell’essenza del vivente. Essi condividono entrambi, manifestamente come voi e me, una preferenza incondizionata per il corpo vivente. Ma proprio per questo conducono una guerra senza fine contro tutto quel che lo rappresenta, che non è corpo vivente, ma che gli spetta (revient): la protesi e la delega, la ripetizione, la différance. Essi non vogliono sapere che l’io vivente è auto-immune. Per difendere la sua vita, per costituirsi in io vivente unico, per rapportarsi, come il medesimo, a se stesso, l’io-vivente è necessariamente portato ad accogliere l’altro all’interno (la différance del dispositivo tecnico, l’iterabilità, la non-unicità, la protesi, l’immagine di sintesi, di simulacro – e ciò comincia con il linguaggio, prima di lui –, altrettante figure della morte); deve dunque dirigere allo stesso tempo a suo favore e contro di sé le difese immunitarie apparentemente destinate al non-io, al nemico, all’opposto, all’avversario». 6 Quando Marx e Stirner – e con essi tutta quella tradizione che ha voluto pensare la vita in un rapporto di pura e semplice opposizione alla morte, e viceversa – conducono la loro guerra per la difesa del corpo vivente contro tutto ciò che lo minaccerebbe (l’altro, il non-vivente, la morte nelle sue varie figure: protesi, ripetizione, simulacro ecc.), che sarebbe ad esso estraneo, essi dimenticano, misconoscono, non vogliono sapere che «l’io vivente è auto-immune». Ma che cosa significa che l’io vivente “è” autoimmune? Che cosa vuol dire che, per proteggere se stesso, deve volgere al tempo stesso, come dice Derrida, «a suo favore e contro di sé» le difese immunitarie apparentemente destinate 6 Derrida 1994, 178. 166 Derrida e il pensiero del vivente (solo) al non-io? Occorre rispondere in due modi diversi, intrecciati fra loro. Da un lato, l’io vivente è autoimmune in quanto deve esserlo, è chiamato a esserlo, cioè deve abbassare le proprie difese, mantenersi in una certa vulnerabilità, difendersi dalla propria difesa dall’altro, esponendosi così al rischio del peggio, della contaminazione e della morte, proprio per non morire, per continuare a vivere (o sopra-vivere, come vedremo più avanti): per costituirsi l’io vivente è necessitato ad accogliere l’altro in sé. Una perfetta immunità, allora, non sarebbe che una morte anticipata. Lo afferma in questi termini Derrida, parlando del corpo sociale-nazionale e delle politiche dell’ospitalità (problema che assilla oggi un certo numero di paesi occidentali) in Ecografie della televisione. A chi, in nome della sicurezza, sostiene che il corpo nazionale dovrebbe dotarsi di una membrana selettiva, che lasciasse passare soltanto l’omogeneo o comunque l’omogeneizzabile, l’assimilabile o al limite l’eterogeneo supposto favorevole, egli obietta: «Se fosse capace in anticipo di calcolare questa filtrazione, un vivente raggiungerebbe forse l’immortalità ma dovrebbe per questo morire in anticipo, lasciarsi o farsi morire in anticipo, per paura di vedersi alterare da ciò che viene dall’esterno, dall’altro tout court. Di qui questo teatro di morte col quale si accordano così spesso i razzismi, i biologismi, gli organicismi, le eugenetiche, talvolta le filosofie della vita». 7 Dall’altro lato, l’io vivente è autoimmune poiché, portando l’altro, l’estraneo, costitutivamente dentro di sé, ogni sua difesa dall’altro, dal nemico, si rivolgerà sempre, al tempo stesso, anche contro se stesso. Se l’altro, il nemico, è inscritto al cuore dell’io, l’attacco all’altro da sé sarà al tempo stesso un attacco all’io in quanto ospita l’altro. Dunque, riunendo i due sensi detti, l’autoprotettivo sarà contemporaneamente autodistruttivo, l’immunizzazione autoimmunizzazione: tutti gli sforzi immunitari saranno anche movimenti autoimmunitari. Non si può scegliere tra un termine e l’altro, tra difesa e autodistruzione, non si può disfare il loro double bind. Ogni difesa, ogni movimento immunitario diretto a proteggere l’io dal non-io, il vivente dal suo altro, avrà sempre al contempo la forma di un boomerang, «del ritorno a sé contro di sé, ossia verso di sé e in opposizione a sé» 8 o, in altri termini, di un pharmakon, contemporaneamente rimedio e veleno: ciò che protegge dalla morte al tempo stesso minaccia di morte ciò che protegge. «Il pharmakon è un altro nome, un vecchio nome per la logica dell’autoimmunitario». 9 La logica autoimmunitaria è costitutivamente autodecostruttrice e si trova all’opera a ogni livello di organizzazione del vivente, situandosi al di qua di qualunque valutazione: essa ha il senso di una legge, «questa implacabile legge della conservazione autodistruttrice del “soggetto” o dell’ipseità egologica». 10 7 Derrida 1997, 20. Derrida 2003b, 158. 9 Derrida 2003a, 133. 10 Derrida 2003b, 88. 8 167 Carmine Di Martino 3. Democrazia autoimmunitaria L’ambito in cui forse essa si rende oggi più leggibile è quello del politico, ovverosia del democratico, poiché nella tradizione cosiddetta europea, che domina il concetto mondiale del politico, «il democratico è ormai sinonimo del politico». 11 La democrazia, «nella sua autoimmunità costitutiva, nella sua vocazione all’ospitalità», 12 nella sua «essenza iperbolica e più autoimmunitaria che mai», 13 è uno spazio esemplare per sorprendere questa «perversione normale e normativa», 14 che va «ben al di là dei semplici processi biologici attraverso i quali un organismo tende a distruggere, in modo quasi spontaneo e più che suicida, tale o talaltro organo, tale o talaltra delle sue proprie protezioni immunitarie». 15 La democrazia è fin dall’inizio esposta al rischio della propria autodistruzione e, in un certo senso, intrinsecamente suicida; lo deve essere: essa non può conservarsi che mantenendo aperta la possibilità del proprio sovvertimento, assicurando le condizioni della propria distruzione. Vi è una fatalità autoimmunitaria inscritta direttamente nel cuore della democrazia. Per esempio, ma è solo una delle forme possibili, per essere se stessa essa si trova esposta alla possibilità di una alternanza che può sempre assumere il volto di una alternativa, come quando essa «rischia di dare il potere, modo democratico, alla forza di un partito eletto dal popolo (quindi democratico) ma presumibilmente non democratico»; 16 e se, per difendersi da questo rischio, interrompesse il processo democratico, questa difesa sarebbe al tempo stesso e fatalmente un attacco della democrazia a se stessa. La forma generale della aporia che ne consegue è espressa da questo interrogativo: «Una democrazia deve forse lasciare in libertà e nella posizione di esercitare il potere coloro che potrebbero attentare alle libertà democratiche e mettere fine alla libertà democratica in nome della democrazia e della maggioranza di consensi che potrebbero in effetti raccogliere?». 17 Tra gli esempi più evidenti e più attuali di processo autoimmunitario all’interno di una democrazia vi è, secondo Derrida, quello che riguarda «gli effetti» dell’11 settembre e, ancora prima, l’accadere stesso dell’attentato terroristico. 18 Si stratificano e interagiscono qui diversi aspetti autoimmunitari, dei quali, in Stati canaglia, Derrida ci fornisce una visione sintetica. La riportiamo per intero. 11 Derrida 2003b, 53. Derrida 2003b, 99. 13 Derrida 2003b, 69. 14 Derrida 2003b, 159. 15 Derrida 2003b, 179. 16 Derrida 2003b, 56. 17 Derrida 2003b, 60. 18 Cfr. in proposito Marchente 2011. 12 168 Derrida e il pensiero del vivente Assistiamo allo spettacolo di un’amministrazione americana, potenzialmente sostenuta da altre amministrazioni in Europa e nel resto del mondo, che, pretendendo di fare la guerra contro l’«asse del male», contro i nemici della libertà e contro gli assassini della democrazia nel mondo, deve inevitabilmente e innegabilmente restringere, all’interno del suo stesso paese, le libertà cosiddette democratiche o l’esercizio del diritto, rinforzando i poteri inquisitori della polizia ecc., senza che nessuno, nessun democratico, possa seriamente opporvisi, e non limitarsi a lamentare questo o quell’abuso nell’uso a priori abusivo della forza con cui una democrazia si difende contro i propri nemici, difende se stessa, da sé, contro i proprio nemici potenziali. Essa deve somigliare loro, corrompersi e minacciare se stessa per proteggersi dalle proprie minacce. Al contrario, forse è proprio perché vivono in una cultura e secondo un diritto largamente democratici che gli Stati Uniti hanno potuto aprirsi e mostrare la loro grande vulnerabilità a immigrati, per esempio ad apprendisti piloti, “terroristi” esperti ed essi stessi suicidi, che, prima di rivolgere contro gli altri, ma anche contro di sé, le bombe aeree che erano diventati, e di lanciarle, insieme lanciandosi contro le due torri del World Trade Center, si sono esercitati sul territorio sovrano degli Stati Uniti, in barba alla CIA e all’FBI, forse non senza un certo consenso autoimmunitario di un’amministrazione a un tempo più e meno imprevidente di quanto non si creda davanti a un evento supposto imprevedibile e grave. I “terroristi” possono essere cittadini americani, e alcuni tra quelli dell’11 settembre forse lo sono stati; in ogni caso, sono stati aiutati da cittadini americani, hanno rubato aerei americani, hanno volato con aerei americani, sono decollati da aeroporti americani. 19 La democrazia è nella fattispecie autoimmunitaria anzitutto in quanto, rispondendo all’attacco terroristico, aggredisce se stessa, il proprio sistema di diritti. Per difendersi dall’altro, dai nemici della libertà e della democrazia, essa si difende da sé, restringendo libertà democratiche ed esercizio del diritto; per salvare se stessa si attacca e si minaccia, si oppone a se stessa, rischiando l’autodistruzione e finendo così per assimilarsi alla minaccia che vorrebbe scongiurare. Ma la dinamica dell’11 settembre è sintomatica di una logica autoimmunitaria e suicida anche perché l’aggressione è venuta dall’interno: la democrazia americana si è per così dire attaccata da se stessa, attraverso quegli «altri» che essa, onorando quanto basta la vocazione all’ospitalità consustanziale a ogni spazio democratico, ha accolto e reso parte di sé, addestrato e armato, 19 Derrida 2003b, 67-68. 169 Carmine Di Martino abbassando le proprie difese, non filtrandoli, rendendosi perciò vulnerabile ed esponendosi al rischio della minaccia. E se quest’ultima si è avverata, ciò è forse avvenuto, osserva Derrida, «non senza un certo consenso autoimmunitario» di un’amministrazione che avrebbe potuto essere meno «imprevidente» davanti a un evento che si annuncia non del tutto «imprevedibile». Alla autoimmunità della democrazia, che si volge contro se stessa nei modi descritti, si aggiunge l’autoimmunità dell’attacco terroristico, che si scaglia contro la democrazia suicidandosi. I dirottatori, scrive Derrida, «incorporano, se si può dire, due suicidi in uno: il loro (e rimarremo sempre disarmati davanti a una aggressione suicida, autoimmunitaria, perché è ciò che terrorizza di più), ma anche il suicidio di coloro che li hanno accolti, armati, e addestrati». 20 E, sotto lo stesso profilo, prosegue Derrida, «non dimentichiamoci che gli Stati Uniti hanno prima preparato il terreno e consolidato le forze dell’“avversario”: addestrando delle persone il cui tipo esemplare è proprio “Bin Laden”...» 21 : ecco un ulteriore esempio di logica suicida. Ancora, la legge autoimmunitaria è all’opera nei tentativi di rimuovere o arginare gli effetti del trauma dell’11 settembre, di cui non si può elaborare il lutto poiché esso si presenta come qualcosa che non solo è avvenuto una volta per tutte, bensì può ancora avvenire, per di più in peggio. Aleggia lo spettro di un attacco che riveste il senso di un male assoluto, «poiché ne va della globalizzazione del mondo, della vita sulla terra e altrove, niente di più e niente di meno». 22 Ma tutti gli sforzi «per attenuare o neutralizzare gli effetti del trauma» obbediscono di nuovo a uno schema autoimmunitario, non fanno cioè che alimentare e riprodurre «la stessa mostruosità che pretendono di superare». 23 Vi è infine l’autoimmunità che caratterizza la reazione messa in atto contro il terrorismo sul piano militare (ma anche su quello economico). Se non si può dire che l’umanità sia senza difese contro la minaccia del terrorismo, bisogna tuttavia sapere che «le difese, in tutte le forme di quella che viene chiamata, con due parole entrambe problematiche, “war on terrorism”, operano al fine di rigenerare, a breve o a lungo termine, le cause del male che pretendono di sterminare». 24 Riappare l’effetto boomerang. 4. La chanche (è) la minaccia Beninteso, quanto esemplificativamente richiamato sin qui non implica in nessun modo né una presa di distanza dall’idea di democrazia da parte di Derrida né una interpretazione semplicemente negativa o nichilistica della logica gene20 Derrida 2003a, 103. Derrida 2003a, 103. 22 Derrida 2003a, 107. 23 Derrida 2003a, 107. 24 Derrida 2003a, 107. 21 170 Derrida e il pensiero del vivente rale della autoimmunizzazione. Al contrario, la costituzione autoimmunitaria della democrazia è la condizione del suo avvenire e della sua sopravvivenza. Detto più radicalmente: la logica autoimmunitaria e autodecostruttrice che abbiamo visto all’opera nello spazio democratico è l’originaria condizione di possibilità della vita del vivente in generale. Secondo i due significati a suo tempo messi in luce, infatti, la logica autoimmunitaria implica da un lato la distruzione di sé e dall’altro la distruzione delle proprie protezioni, l’abbassamento delle proprie difese: vale a dire una vulnerabilità che è ospitalità all’altro, apertura di sé all’altro – all’alterità dell’altro, a chi o a ciò che può venire, che può essere anche il peggio, può essere anche la morte –, senza cui non vi può essere vita. Un vivente non autoimmune, cioè non esposto alla intrusione dell’altro, capace di una filtrazione assoluta, è infatti assolutamente morto. La relazione all’alterità è ad un tempo ciò che rende possibile e impossibile la vita: è l’irriducibile condizione di possibilità della vita del vivente nella sua singolarità ed è anche ciò che la espone irriducibilmente alla morte. Ma bisogna sapere che rifiutare l’una possibilità, la morte, significa rinunciare anche all’altra, la vita. L’io vivente può auto-affettarsi solo auto-infettandosi, come dice Derrida, portando in sé l’altro. Vi è ipseità se e finché vi è alterazione, vi è vita solo dove vi è vulnerabilità, permeabilità, ossia apertura all’altro e alla morte. Perciò Derrida parla di una implacabile legge della conservazione autodistruttrice della ipseità egologica: conservarsi è sempre alterarsi. Vivere, secondo il pensiero del vivente implicato dalla categoria di autoimmunità, significa aprirsi all’altro, in cui si annunciano al tempo stesso la possibilità del rischio mortale e la chance dell’avvenire. Non si può avere la chance senza la minaccia. «La minaccia è la chance, la chance è la minaccia: tale legge è assolutamente innegabile e irriducibile. Se non la si accetta, non c’è rischio e, senza rischio, c’è solo morte. Se ci rifiutiamo di correre un rischio, non ci resta nulla, se non la morte». 25 È a motivo di ciò che sarebbe fuorviante intendere la logica generale della autoimmunizzazione nel segno dell’annichilimento, come il sigillo di un discorso mortifero. L’autoimmunità autodecostruttiva è ciò che mantiene il vivente aperto al suo avvenire: alla venuta di qualcosa d’altro, all’evento. L’autoimmunità è un altro nome di quella attesa dell’altro – una attesa spoglia, desertica, senza orizzonte di attesa, come altrove dice Derrida – che struttura il vivente in generale. «Se un evento degno di questo nome deve arrivare, è necessario, al di là di qualsiasi controllo, che agisca su una passività. Esso deve colpire una vulnerabilità esposta, senza immunità assoluta, senza indennità, nella sua finitudine e in modo non orizzontale, laddove non è ancora o non è già più possibile affrontare, e fronteggiare, l’imprevedibilità dell’altro. Da questo punto di vista l’autoimmunità non è un male assoluto. Essa permette l’esposizione all’altro, a ciò che viene e a chi viene – e deve 25 Derrida 2010, 67. 171 Carmine Di Martino dunque restare incalcolabile. Senza autoimmunità, con l’immunità assoluta, più nulla capiterebbe. Non ci si aspetterebbe più, l’un l’altro, né ci si aspetterebbe più alcun evento». 26 Senza autoimmunità, più nulla capiterebbe, nessun evento arriverebbe (è il legame tra autoimmunità ed evento che meriterebbe qui di essere approfondito). L’autoimmunità si rivela come un’altra leva per la decostruzione di una concezione, che Derrida chiama «metafisica», in cui la vita è semplicemente opposta alla morte, collocata in una indipendenza ed estraneità rispetto ad essa. La vita metafisicamente intesa sarebbe cioè originariamente piena e presente a se stessa, senza alterazione e senza rinvii, una auto-affezione pura: l’io vivente sarebbe se stesso a partire da sé, e dunque padrone di sé; l’alterità lo raggiungerebbe solo in un secondo momento e dall’esterno, ed esso vi si rapporterebbe da una auto-posizione sovrana. La metafisica sarebbe insomma il sogno di una autonomia e di una immunità assoluta del vivente, dell’io. Ora, contribuendo alla decostruzione di un tale modo – questo sì, mortifero – di concepire la vita del vivente come assoluta immunità, indennità, autonomia, purezza, la logica autoimmunitaria, questa «terrificante ma fatale logica dell’autoimmunità», 27 richiama all’evidenza che la coimplicazione, la contaminazione – della vita e della morte, del sé e dell’altro – sono all’origine, che il rinvio all’altro e la deviazione per l’altro da sé non si aggiungono a un vivente che sarebbe già pienamente se stesso. Il differire da sé, l’essere altro da sé, la ripetizione, tutto ciò che Derrida ha chiamato (a partire da una celebre conferenza del ’68) la différance è insomma la condizione originaria e irriducibile della vita del vivente. Negare la différance – che, differendole/differenziandole, rinvia l’una all’altra la vita e la morte – per affermare una pienezza della vita contro la morte significherebbe dunque negare la vita. L’assolutamente vivo è l’assolutamente morto. Il vivente è sempre un vivente morente. 5. La-vita-la-morte La logica della autoimmunità fa pertanto segno verso un pensiero della vita e del vivente attraverso cui, decostruendo la logica binaria dell’aut-aut che caratterizzerebbe la metafisica, Derrida cerca di pensare la vita al di qua della opposizione tra la vita e la morte. È precisamente per segnalare la coimplicazione essenziale della vita e della morte, per marcare l’irriducibile dinamica differenziale che lega l’un termine all’altro e li fa essere l’uno nell’altro, che egli conia, nell’ambito di una notevole analisi di Al di là del principio di piacere di Freud, l’espressione «la vita la morte» 28 : non la vita e la morte, né 26 Derrida 2003b, 216. Derrida 1995, 48. 28 Derrida 2000. Qui compare per la prima volta l’espressione: “la vita la morte”. 27 172 Derrida e il pensiero del vivente la vita o la morte, ma la vita la morte. Dopo aver decostruito l’opposizione tra il principio di piacere e il principio di realtà, mostrando che essi sono in un rapporto differenziale (l’uno è l’altro differito), Derrida si sofferma sulla soluzione proposta da Freud alla apparente contraddizione tra le pulsioni di vita (le pulsioni di auto-conservazione) e la pulsione di morte, introdotta da quest’ultimo come pulsione fondamentale. Le pulsioni di autoconservazione sono esse stesse al servizio della pulsione di morte, poiché assolverebbero, sì, l’ufficio di preservare l’organismo dalle minacce provenienti dall’esterno, ma allo scopo di garantire ad esso la possibilità di morire la propria morte, la morte “propria”. Lasciando in sospeso la necessità di decostruire questa logica del proprio, della morte propria, qui risiederebbe secondo Derrida la più grande scoperta freudiana: nella impossibilità di stabilire una distinzione netta, una opposizione, tra la pulsione di morte e le pulsioni di vita, si rivela infatti la legge che regola l’economia più generale delle pulsioni, la legge fondamentale della vita, la legge della différance, la legge de la vita la morte. Sebbene al tempo di Speculare – su Freud l’autoimmunità non fosse ancora entrata a far parte del lessico derridiano, le analisi del rapporto tra pulsione di morte e pulsioni conservatrici ne anticipano la logica generale. Le pulsioni conservatrici, per come emergono nel testo di Freud, afferma Derrida, «sono i guardiani della vita ma per ciò stesso le sentinelle o i satelliti della morte. Le sentinelle della vita (Lebenswaechter) vegliano sulla vita, la sorvegliano, guardano e hanno riguardo, montano la guardia presso di essa. Assistono. Ma queste stesse pulsioni sono “originariamente” “guardie” o “satelliti” (Trabanten) della morte. E lo sono originariamente, come dire che esse lo sono state e non possono, sotto questa inversione di segno, non rimanere fedeli alla loro prima destinazione. Satelliti di la vita la morte (...) Ciò che conserva la vita resta nella sfera di ciò che riserva la morte». 29 La legge de la-vita-la-morte, la vita intesa come différance, apre tanto al discorso sulla autoimmunità quanto a quello sulla sopravvivenza. 30 «Una tale questione sarebbe una questione di vita o di morte, la questione di la-vie-lamort, prima di essere una questione dell’essere, dell’essenza o dell’esistenza. Aprirebbe su una dimensione del sopra-vivere o della sopravvivenza irriducibile tanto all’essere quanto a una qualche opposizione del vivere e del morire». 31 Né la vita, né la morte, ma la sopravvivenza, dunque; non un vivere in opposizione al morire, ma un sopra-vivere. La vita non è più concepita come presenza piena, assoluta identità con se stessa, auto-affezione pura, in un supposto originario presente vivente, vale a dire come una vita presente e piena a cui capiterebbe poi di uscire da sé, di alterarsi, di tracciarsi, di differir29 Derrida 2000, 119-20. Cfr. al riguardo la voce Sopravvivenza, curata da F. Vitale in Facioni et al. 2012, 174-86. 31 Derrida 1994, 186. 30 173 Carmine Di Martino si, di ritenersi e protendersi. La vita è concepita come sopravvivenza, ossia nella dimensione della traccia, del testamento, dell’attestazione, fin dall’inizio marcata dall’esposizione alla morte, sbilanciata sul suo a-venire. Vivere è sopra-vivere, vale a dire uscire da sé, protendersi oltre sé, esporsi all’altro, alla morte, tracciandosi, alterandosi, distaccandosi da sé, rinunciando alla (illusione della) purezza. Vivere sarà essersi già sempre protesi oltre sé e alterati. Noi siamo costitutivamente dei “sopravviventi”. Non si tratta di una scelta. Vivere è sopravvivere poiché fin dalla nascita ogni vivente è abitato dalla possibilità incancellabile della morte, alla quale dunque sarà già sempre sopravvissuto. E vivere è sopravvivere perché la vita comincia con la sopra-vivenza, cioè non con una pienezza, con una identità a sé, supposta originaria e pura, che poi verrebbe intaccata dal suo altro, dalla ripetizione, dalla morte, ma con la ripetizione, con la traccia, con una ricaduta fuori di sé. L’io vivente, l’autos, l’ipse, non è mai assolutamente vivo e presente, ma fin dall’inizio contaminato, espropriato, strutturato dall’alterità, rinviato: cioè sopra-vivente e autoimmunitario. Come il senso, che si costituisce solo attraverso la mediazione di un segno, di una scrittura, e perciò è strutturalmente esposto alla morte. La scrittura non coglie di sorpresa e dall’esterno il senso vivo, poiché questo non ha mai potuto accadere e manifestarsi che grazie a essa, cioè ricorrendo al suo altro, al segno, alla scrittura (che assomma in sé tutti i valori di mediazione, di esteriorizzazione). La presunta purezza o interiorità del senso è una illusione (che Derrida definisce, riecheggiando Kant, quasi-trascendentale) che sorge come effetto retroattivo del movimento della différance (perciò del differire e del divenire altro del senso). Non vi è, insomma, da qualche parte, un senso puro, una vita presente a sé del senso, che poi si esteriorizzerebbe o si incorporerebbe nel segno; l’incorporazione-alterazione del senso nel segno, quello che potremmo chiamare, nei termini del Derrida, il movimento dell’archi-scrittura, che lega il senso al segno e lo consegna alla possibilità della distruzione e della scomparsa assoluta, non è preceduto da nulla. È questo il significato della lettura derridiana della Appendice III a La Crisi delle scienze europee di Husserl, pubblicata come una lunga Introduzione nel 1962, a cui non possiamo fare altro che rimandare. 32 Il discorso su la vita la morte, sulla sopra-vivenza, ha il carattere di un filo conduttore: Derrida non ha mai parlato d’altro, si potrebbe legittimamente affermare. Significativo è in proposito un altro passaggio, tratto dal primo saggio dedicato a Freud, pubblicato nel 1966. Che tutto cominci con la traccia e la sopra-vivenza è già qui esplicitamente affermato, pur in assenza del nome. «Indubbiamente la vita si difende attraverso la ripetizione, la traccia, la differanza. Ma bisogna intendersi su questa formulazione; non c’è una vita presente in primo luogo, che in seguito arriva a proteggersi, a rinviarsi, a riservarsi nella differanza. Quest’ultima costituisce l’essenza della vita. O 32 Derrida 1987. Ci permettiamo di rinviare al riguardo a Di Martino 2001, cap. II.. 174 Derrida e il pensiero del vivente meglio: la differanza, non essendo una essenza, non essendo nulla, non è la vita se l’essere è determinato come ousia, presenza, essenza/esistenza, sostanza o oggetto. Bisogna pensare la vita come traccia prima di determinare l’essere come presenza. È la sola condizione per poter dire che la vita è la morte, che la ripetizione e l’al di là del principio di piacere sono originari e congeniti a quello stesso che essi trasgrediscono». 33 Il pensiero del vivente che si rende esplicito nell’ultima fase della riflessione di Derrida, radicandosi tuttavia fin dall’inizio nel suo percorso, come abbiamo visto, si colloca a una decisa distanza da un vitalismo trionfante e costruttivo, da una concezione vitalistica e biologistica della vita, che ne enfatizza la forza e la potenza, perfino nei suoi risvolti tanatologici. Nella «sopra-vivenza» si fa largo una vita che ospita fin dall’inizio in se stessa la morte, una vita come originaria coimplicazione, contaminazione, come différance: la vita la morte. Se quest’ultima nomina una “struttura” del vivente in generale, essa non dà luogo tuttavia in nessun senso a un pensiero dell’impersonale. Al contrario, l’uso dell’espressione «la vita la morte» ha di mira la salvaguardia della singolarità e dell’evento, la «sopra-vivenza» è inseparabile dalla unicità insostituibile dell’ogni volta unico (come si documenta nel testo che raccoglie tutte le orazioni funebri scritte e pronunciate da Derrida, 34 ) come la ripetizione dall’evento. Il vivente è pura singolarità. Ma qui il discorso si fa di nuovo complesso e chiede di essere affrontato in una ulteriore scrittura. Carmine Di Martino Università degli Studi di Milano Dipartimento di Filosofia carmine.dimartino@unimi.it Riferimenti bibliografici Derrida, J. 1971, La scrittura e la differenza, a cura di G. 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Se è vero, infatti, che tutti concordano sugli ideali che nel 1945 hanno ispirato l’idea di una comunità europea – assicurare la pace, la stabilità e la prosperità allo scopo di mettere fine alle frequenti guerre tra paesi vicini, e scongiurare la possibilità che si verifichino eventi che possano degenerare in una nuova guerra mondiale –, è altrettanto vero che numerose sono però le difficoltà incontrate nell’attuazione di questo lungimirante progetto. Spesso, infatti, le decisioni prese a Bruxelles vengono vissute dagli Stati membri come delle imposizioni, le cosiddette direttive europee sembrano “scavalcare” la sovranità dei singoli Stati, e i cittadini hanno la sensazione di essere privati di qualsiasi potere decisionale. Frequenti sono quindi i dissensi, le perplessità, le polemiche. Estremamente problematico, in particolare, risulta il processo di allargamento dell’Unione: perché un paese venga ammesso deve attenersi a degli standard, rispettare determinate condizioni, accettare dei compromessi. Misura di questa difficoltà è l’esempio della Turchia, la quale, avendo presentato domanda di adesione all’Unione Europea nel lontano 1987, attende ancora la conclusione dei negoziati, che sono stati avviati solo nel 2005. Ed è proprio con una riflessione sulle ragioni avanzate da coloro che si oppongono all’entrata della Turchia nell’Unione europea – con una messa in discussione di tali ragioni – che si apre Alterités de l’Europe, 1 testo in cui il filosofo francese Marc Crépon si interroga sul significato e sulla possibilità di un’identità europea, ricordando le radici profondamente eterogenee dell’Europa stessa, e interrogando la pluralità di lingue e memorie che, intrecciandosi e contaminandosi nei secoli, hanno fatto dell’Europa ciò che è. Attraverso un confronto con Herder, Mandelstam, Patocka e Derrida, emergono, in questo testo del 2007, le tematiche più care al filosofo francese, che ricorrono, a più riprese, nei lavori precedenti, come in quelli successivi: la guerra delle civilizzazioni, la cultura della paura, la violenza della politica, la questione della lingua e della traduzione, le identità nazionali e i rischi del nazionalismo. Ora, l’attenzione a questi temi, l’ostinazione ad interrogarsi sulla questione delle identità e delle differenze culturali, Marc Crépon, come da lui stesso dichiarato nel corso di un’intervista, la riconduce ad un’esperienza di gioventù: 1 Crépon 2006. Patrizia Cecala Nel 1987, sono stato inviato a fare il mio servizio militare a titolo della cooperazione in URSS. Ho dunque passato due anni nella Repubblica di Moldavia, nel momento in cui risorgeva intensamente, nell’impero sovietico, il problema dei nazionalismi. In Georgia, i carri erano nella strada e l’esercito sparava sulla folla. In Moldavia, ho assistito ad una grande manifestazione popolare: le persone esigevano che la lingua moldava fosse riconosciuta lingua di Stato, e anche lì sono usciti i carri armati. Dopo questa manifestazione, io ho avuto una lunga discussione con i miei amici moldavi. Ho spiegato loro quanto comprendevo la loro rivolta contro la dominazione russa, ma anche quanto io ricusavo i loro propositi contro i Russi in generale, quanto disapprovavo totalmente la loro maniera di caratterizzare una volta per tutte il popolo russo e i suoi pretesi modi di essere, di agire o di pensare. Uno di loro mi ha risposto: «Come puoi dire questo? I filosofi che tu ami e che tu invochi non smettono di operare delle caratterizzazioni di questo genere». Questa frase mi ha profondamente segnato. Io avevo appena trovato il mio soggetto di tesi....2 Crépon esordisce quindi, in Alterités de l’Europe, riproponendo l’interrogativo cui aveva già tentato di rispondere Paul Valery nel 1922: «Ma chi è dunque Europeo?». 3 Europeo, secondo Valery, sarebbe «ogni popolo che abbia ereditato da Roma la maestà delle istituzioni e delle leggi, dal cristianesimo l’esame di se stesso e dalla Grecia la disciplina dello spirito». 4 Così dicendo Valery, pur preoccupandosi di avanzare le dovute riserve nei confronti di una tale definizione che, per forza di cose, risulta essere una semplificazione, 5 si faceva portavoce di quel luogo comune che riconosce come tratto distintivo della cultura europea l’influenza della Grecia, quella dell’Impero romano e quella del cristianesimo. Ed è proprio questa stessa convinzione ad essere portata avanti da coloro che si oppongono all’entrata della Turchia nell’Unione europea, adducendo come motivazione una presunta «monogenealogia culturale»,6 secondo la quale il cristianesimo sarebbe «la religione che ha dato agli Europei la loro identità».7 Ora, una tale affermazione, spiega Marc Crépon, comporta un triplo diniego. Si tratta, in primo luogo, di negare che da secoli l’Europa si ritrova a «fare i 2 Crépon 2012a. Ove non ulteriormente indicato, le traduzioni dai testi francesi sono a mia cura. 3 Valéry 1957, 1007. 4 Crépon 2006, 9. 5 Cfr. Crépon 2006, 9. 6 Crépon 2006, 19. 7 Crépon 2006, 19. 178 Tra identità e alterità conti» 8 con l’islam e che le culture islamiche fanno ormai parte della sua cultura. Queste culture, chiarisce infatti Crépon, «appartengono alla storia del sogno europeo – all’uscita dell’Europa fuori di sé – nello stesso modo in cui l’Europa appartiene, da molto tempo, al «sogno turco».9 Inoltre, si parte dal presupposto – evidentemente errato – che il cristianesimo costituisca un’identità nella quale tutti gli Europei si riconoscono, facendo così, dell’Europa, «un’identità nella quale niente delle sue alterità sia mai stato importato né tradotto. Identica a se stessa, l’Europa sarebbe rimasta (e dovrebbe restare) ripiegata sulle sue eredità esclusive (Roma, il cristianesimo, la Grecia). Dei cittadini venuti da altrove, dei suoi scambi con il resto del mondo, dei viaggi d’Oriente e di tante altre esperienze, fauste e infauste, lei non avrebbe imparato nulla, conservato nulla, che l’abbia trasformata».10 Da ultimo, si pretende di riassumere la Turchia nell’Islam, di identificarla integralmente in esso, come se non avesse niente a che fare con la Grecia antica e il cristianesimo, che resterebbero, invece, eredità esclusiva dell’Europa. Si dimentica, ad esempio, che è proprio dall’Anatolia che il cristianesimo ha dato avvio alla sua diffusione, è proprio lì che San Paolo ha scritto le sue epistole.11 Ma c’è di più. Non solo, infatti, questo ragionamento fallisce nella misura in cui tralascia dei dati di fatto inconfutabili, ma, più radicalmente, si dimostra errato già nelle sue premesse. Coloro che si oppongono all’ingresso della Turchia nell’Unione europea tentano, infatti, di dimostrare l’“inammissibilità” della Turchia facendo leva su una presunta incompatibilità di quest’ultima – della sua cultura e della sua storia – con i tratti caratteristici della cultura europea. Ma sono proprio questi tratti caratteristici che vanno rimessi in questione, o, più precisamente, la possibilità stessa di individuare dei tratti caratteristici che identifichino in maniera univoca e definitiva una cultura. In effetti, questo principio dell’identificazione, questa logica dell’appartenenza, non tiene conto del fatto che, in realtà, nessuna di queste eredità – della Grecia, dell’Impero Romano, del Cristianesimo – può essere considerata “proprietà” dell’Europa, nella misura in cui l’influenza di queste si è estesa ben al di là delle frontiere europee. Inoltre, in maniera uguale e contraria, non si può pretendere di riassumere l’identità dell’Europa e degli Europei in questa tripla eredità. «Da un lato dunque», chiarisce Crépon, «il «proprio» dell’Europa – ciò che è stato tante volte invocato e convocato, costruito e finto come tale – non le appartiene in proprio. Dall’altro, tali eredità, considerate come proprietà delle «identità» che le si oppongono sono, allo stesso tempo, 8 Crépon 2006, 20. Crépon 2006, 20. 10 Crépon 2006, 21. 11 Crépon 2006, 22. 9 179 Patrizia Cecala parte in causa nell’«identità europea». 12 Ogni qualvolta ci si interroghi sull’identità dell’Europa tentandone una definizione, bisognerà quindi tenere presente il doppio assioma: «ciò che non «appartiene» all’Europa è anche, in un modo o nell’altro, «giunto» a lei – e dunque le «appartiene», almeno in parte; ciò che si ritiene il proprio dell’Europa esiste anche fuori di lei – e quindi non le appartiene (o non le appartiene più) in proprio». 13 Trascurare questo assioma, in cui ci sembra di individuare il Leitmotiv dell’intero testo di Crépon, significa esporsi al rischio di incorrere in due tipi differenti di violenza: da una parte denunciare, se non persino emarginare, all’interno dell’Europa ciò che non va considerato propriamente europeo, e che quindi risulta altro, estraneo, straniero; d’altra parte riservare all’Europa dei tratti – la ragione, il progresso, la scienza, i diritti dell’uomo 14 – che si presumono esclusivi della sua identità e che, quindi, si negano agli altri, con tutti i rischi che questo può comportare. Questa doppia violenza, a ben vedere, si impone ogni qualvolta si pretende di individuare un’identità pura, un identità, quindi, indipendente da quelle che vengono comunemente considerate le sue alterità. «Più esattamente», precisa Marc Crépon, «la violenza comincia non appena, in un modo o in un altro, si omette di considerare, quali che siano le forme e le attese di questa omissione, che l’identità europea è in primo luogo costituita dall’insieme delle relazioni complesse che ha intrattenuto (e che intrattiene ancora, sotto forme differenti) con ciò che ha scoperto, sperimentato, pensato e talvolta persino costruito come «alterità». 15 D’altra parte, che non esiste cultura identica a se stessa – così come non esiste lingua pura – ce lo diceva già Derrida, con cui, evidentemente, Crépon condivide temi e sensibilità, distinguendosi, però, per il suo tratto più marcatamente – e dichiaratamente – politico, che emerge nella sua perseveranza nell’analizzare dettagliatamente le dinamiche politiche contemporanee e non. Tanto la lingua, quanto la cultura, sono infatti il risultato di una serie di contaminazioni e di un intreccio di differenti origini, ed è solo a partire da una lingua e da una cultura spettralmente abitate dall’alterità che può esserci identità – un’identità non più trasparente e ripiegata su se stessa – e rapporto a sé. Estremamente chiaro, a tal proposito, è quanto affermato da Derrida in L’altro capo, dove è proprio questione di «conferire l’identità a partire dall’alterità», 16 o quanto meno, di provare a «inventare» 17 un tale gesto: 12 Crépon 2006, 10. Crépon 2006, 10-1. 14 Cfr. Crépon 2006, 11. 15 Crépon 2006, 11. 16 Derrida 1991, 33 (25). 17 Derrida 1991, 33 (25). 13 180 Tra identità e alterità [...] il proprio di una cultura è di non essere identica a se stessa. Non di non avere identità, ma di non potersi identificare, dire «io» o «noi», di poter prendere la forma del soggetto solo nella non-identità a sé o, se preferite, nella differenza con sé. Non c’è cultura o identità culturale senza questa differenza con sé. Sintassi strana e un po’ violenta: («avec soi» vuole anche dire «chez soi» (avec è «chez», apud hoc). In questo caso, la differenza da sé, ciò che differisce e si scarta da sé, sarebbe anche differenza (da) con sé, differenza insieme interna e irriducibile al «chez soi». Che raccoglierebbe e anche, irriducibilmente, dividerebbe il fuoco semantico e domestico del «chez soi». In realtà, non lo raccoglierebbe, rapportandolo a sé, se non aprendolo a questo scarto. Lo stesso vale, inversamente o reciprocamente, per qualunque identità o identificazione: non c’è rapporto a sé, identificazione a sé, senza cultura, ma cultura di sé come cultura dell’altro, cultura del doppio genitivo e della differenza rispetto a sé. La grammatica del doppio genitivo notifica altresì che una cultura non ha mai una sola origine. La monogenealogia sarebbe sempre una mistificazione nella storia della cultura. 18 Ed è proprio trattando e contrattando con ciò che è altro da sé, quindi differendo da sé e allontanandosi dalle sue presunte origini per abbracciarne altre e uscire fuori da sé, che l’Europa è divenuta ciò che è. La storia dell’Europa, secondo Crépon, si caratterizza per la sua attitudine a “comporre”, e questo vale tanto al suo interno, quanto nel suo rapporto con ciò che si trova al di là delle frontiere. Storicamente, infatti, l’Europa non ha fatto altro – e tutt’ora non fa altro – che mettere in atto una «doppia composizione: quella di queste parti costitutive (i popoli, le nazioni) le une con le altre, e quella di ciascuna di esse (e dell’insieme che esse costituiscono) con gli altri continenti».19 In altre parole l’Europa, «non più di ogni altra “identità”, non si è fatta nello sviluppo e nella cultura di un’“essenza”, di un “fondo” o di una “sostanza” propri. Lei non si distingue per un’“origine” o delle “radici” alle quali dovrebbe il posto che ha preso nel mondo, qualsiasi nome e qualsiasi forma si dia a queste ipotetiche radici e origine. È diventata ciò che è attraverso un doppio movimento, da una parte di scambi e di circolazione tra queste parti costitutive, d’altra parte di uscita fuori da se stessa. 20 Ora, davanti a questa attitudine alla composizione, davanti ai continui scambi, alle importazioni e alle traduzioni – tanto linguistiche quanto culturali – che avvengono sia all’interno dell’Europa sia tra il continente e il resto del 18 Derrida 1991, 16-17 (14). Crépon 2006, 13. 20 Crépon 2006, 13. 19 181 Patrizia Cecala mondo, e che ci dicono, in maniera inequivocabile, che l’Europa si è fatta attraverso un processo continuo di trasformazione, due, spiega Crépon, sono gli atteggiamenti possibili. Il primo atteggiamento è quello di coloro i quali, temendo la «confusione delle «identità»,21 tentano di opporsi a questa composizione esasperando – a volte strumentalizzando – le differenze culturali con l’intenzione di radicarsi saldamente in una cultura conosciuta e rassicurante, nell’«illusione che le culture restino vive solo proteggendosi le une dalle altre». 22 Questo atteggiamento, lo sappiamo bene, si rivela assai pericoloso in quanto si trova a fondamento di ogni rivendicazione nazionalistica, e, in primo luogo, di quello che può essere definito nazionalismo linguistico. Intesa come una proprietà naturale, la lingua è infatti considerata il principale marchio distintivo di una cultura. È a partire da essa che una cultura viene immediatamente identificata e distinta dalle altre. Ogni appartenenza si fonda, in effetti, sulla condivisione di una stessa lingua, condivisione che fa segno verso un’omogeneità – di credenze, usi e costumi – e nella quale si può rintracciare il fondamento di qualsiasi comunità, che finisce il più delle volte per essere una comunità politica. Non a caso l’unità nazionale passa necessariamente per l’unità linguistica. La lingua è quindi generalmente presentata come unica e comune, e questa «unidentità [unidentité] della lingua» 23 – così la definisce Marc Crépon – viene proposta come preziosa; da preservare al fine di preservare la propria cultura e la propria identità: La lingua è un bene proprio che bisogna difendere, come tutti coloro che condividono questo possesso. Ed è perché questo bene e questo possesso sono comuni che la loro condivisione rende possibile l’identificazione a una comunità che è al minimo una comunità di lingua, ma che esige anche, troppo spesso, di essere allo stesso tempo una comunità politica. L’appropriazione comune della lingua si trova così alla base della costituzione di un’identità comune che permette di rispondere alla domanda eminentemente politica: chi siamo? In tal modo, tutto ciò che fa di questo dominio un dominio imposto si trova occultato. La lingua si trova eretta a criterio supremo d’identificazione e la sua appropriazione a segno d’appartenenza, senza che il carattere coercitivo (istituzionale, scolastico, statale) di questa appartenenza e di questa identificazione si trovi messo in questione. Ora questa coercizione è tanto più ammortizzata in quanto la lingua è presentata come una e comune, identica a se stessa e identica per tutti [...]. Ma ciò che, più di tutto, fa della lingua l’oggetto doppio 21 Crépon 2006, 30. Crépon 2006, 18. 23 Crépon 2001, 29. 22 182 Tra identità e alterità di un’appropriazione e di un’identificazione, è il fatto che essa è il supporto originario di una cultura (ancora una e identica a se stessa) omogenea. Essa costituisce persino il crogiolo di questa omogeneità. Intaccare la lingua, è minacciare la cultura nella sua integrità, a tal punto che il fantasma del suo assorbimento, della sua assimilazione, della sua sparizione è ciò che nutre le forme più estreme di rivendicazione politica concernente le lingue. Per dirlo in altro modo, con il riconoscimento, la difesa, la promozione di tale o tale lingua, ne va sempre della sopravvivenza di una cultura, identificabile nella sua unicità e nella sua differenza, nella sua purezza e nella sua omogeneità.24 Coloro i quali portano avanti un tale ragionamento dimenticano però che è proprio nella diversità delle lingue, nel modo in cui queste ultime si sono incontrate e contaminate, che va rintracciata la «prima forma di composizione»,25 la quale è poi diventata il paradigma per tutte le composizioni che hanno successivamente avuto luogo in Europa. «L’Europa», afferma infatti Crépon, «si è fatta (si è composta) traducendosi. Eppure, questo non significa che tutto è confuso e che le culture europee sono indistinte. Questo indica solamente che ciascuna di esse, all’interno dell’Europa, esiste singolarmente per il modo che ha avuto di rapportarsi alle altre, di «tradurle» o di non «tradurle» (o non tradurle più), di essere (o di non essere) essa stessa tradotta, vale a dire di perseguire e di condividere (a dispetto di tante interruzioni, di tanti conflitti mortali, di rivalità incessanti, ma anche grazie a questi), a tale e tal altra epoca della sua storia, il sogno destato da questa prima forma di uscita fuori di sé che è l’esperienza delle alterità europee». 26 Il secondo atteggiamento è, invece, quello di coloro che si rendono conto che l’Europa «è il prodotto di un sogno che non è mai stato quello di un’identità a sé o di un ripiegarsi su sé, ma di un’autodifferenziazione». 27 Questi comprendono bene che la fortuna dell’Europa è stata proprio quella di riuscire a moltiplicare le possibilità di scambio, tanto al suo interno quanto al suo esterno. Suggestiva, a tal proposito, risulta l’immagine che Crépon prende in prestito da Valery, in cui lo scrittore paragona l’Europa ad un mercato e ad una fabbrica: Questa Europa trionfante che è nata dallo scambio di ogni cosa spirituale e materiale, dalla cooperazione volontaria e involontaria delle razze, dalla concorrenza delle religioni, dei sistemi, degli interessi, su un territorio molto limitato, mi appare animata come un mercato in cui tutte le cose buone e preziose sono 24 Crépon 2001, 28-9. Crépon 2006, 17. 26 Crépon 2006, 17. 27 Crépon 2006, 15. 25 183 Patrizia Cecala portate, confrontate, discusse e vanno di mano in mano. [...] La nostra Europa, che inizia con un mercato mediterraneo, diviene così una vasta fabbrica; fabbrica in senso proprio, macchina da trasformazione, ma ancora fabbrica intellettuale incomparabile. Questa fabbrica intellettuale riceve da ogni parte ogni cosa dello spirito; le distribuisce ai suoi innumerevoli organi. 28 Se è vero, però, che la ricchezza dell’Europa sta nella memoria di questi scambi e di queste relazioni, di questi transfert e traduzioni, è altrettanto vero che da questa memoria dipende anche la sua complessità. La memoria del sogno europeo, dell’uscita dell’Europa fuori da sé, è infatti, al contempo, la memoria «del senso che questo sogno ha potuto prendere, su altre rive, per coloro che ne subirono la realizzazione forzata»,29 è la memoria «di un’appropriazione, di uno sfruttamento e di una dominazione»,30 e delle sofferenze che ne seguirono. Risulta pertanto evidente, alla luce di quanto finora detto, che riflettere sulle alterità dell’Europa nel tentativo di dimostrare l’impossibilità, per l’Europa stessa – come anche per ciascuna delle nazioni europee –, di definirsi dal proprio interno, significa, in primo luogo, interrogarsi al contempo sul pluralismo linguistico e sulla pluralità di memorie che spesso divergono e si oppongono. 1. Per un’invenzione “idiomatica” dell’appartenenza Coloro che vivono l’Unione europea come una minaccia, coloro che temono la confusione tra i popoli, e quindi la sparizione delle singole identità culturali, tentano di rifugiarsi – l’abbiamo già anticipato – dietro la «barriera delle lingue». 31 Questi, infatti, partono dal presupposto che l’Europa si componga di una pluralità di popoli – al loro interno omogenei – la cui identità dipende, almeno in parte, dalla «loro lingua».32 La lingua costituirebbe dunque, per dirlo con le parole di Derrida, una «marca d’appartenenza»,33 una «manifestazione dell’alleanza» 34 ; la lingua definirebbe la nostra identità, definirebbe il «noi» 35 al quale apparteniamo. Le lingue diventano, così, la barriera invalicabile oltre la quale l’unione non può spingersi, ed è per tale ragione che esse vanno difese 28 Valéry 1957, 1005-6. Crépon 2006, 24. 30 Crépon 2006, 23. 31 Crépon 2006, 29. 32 Crépon 2006, 30. 33 Derrida 1986, 39 (32). 34 Derrida 1986, 39 (32). 35 Crépon 2006, 30. 29 184 Tra identità e alterità «gelosamente». 36 «Proteggere, preservare, mantenere la pluralità linguistica dell’Europa (mantenere le barriere) costituirebbe allora», come chiarisce Marc Crépon, «la garanzia che la costruzione europea non nuoce all’identità e all’integrità dei popoli che l’hanno intrapresa». 37 Questa preoccupazione nasce, evidentemente, dalla persuasione che il rapporto alla lingua sia da intendersi nei termini della proprietà e dell’appropriazione, che si possa affermare di essere proprietari di una lingua piuttosto che di un’altra, convinzione, questa, che già Derrida aveva inteso mettere in discussione attraverso l’enunciazione dell’aporia: «Non ho che una lingua, e non è la mia». 38 In effetti, insiste Crépon, «ogni volta che si parla della lingua o, ancor di più, delle lingue, ci si espone ad un’inflazione di pronomi possessivi: la mia, la tua, la sua, la nostra, la vostra, la loro». 39 La preoccupazione maggiore, quindi, sembra essere che, con l’unificazione dell’Europa, questo rapporto esclusivo a quello che è ritenuto un «bene proprio» 40 possa essere messo in pericolo a causa dell’imporsi di una lingua comune che possiamo, ormai da tempo, identificare nella lingua inglese. Il timore, più precisamente, è che l’imposizione di questo «inglese universale che sarebbe proprietà di tutti e di nessuno»,41 giunga a scalfire la coincidenza tra proprio e familiare, tra ciò che è proprio e ciò che è più usuale, più usato. Ci si troverebbe, così, divisi tra la “propria” lingua e un’altra lingua, diversa dalla propria, che diventerebbe paradossalmente la più familiare in quanto la più usata, mentre la “propria” sembrerebbe sempre più distante fino ad apparirci «strana e straniera [étrange et étrangère]».42 La situazione degli Europei quanto alla lingua, però, non si riduce, come ci tiene a chiarire Crépon,43 a questo bilinguismo imposto, in cui convivono la lingua materna e l’inglese. Alla coesistenza di queste due lingue si affianca, infatti, la presenza di un’infinità di lingue possibili: «gli idiomi che ogni lingua europea contiene virtualmente e che appartiene a ciascuno di inventare». 44 Se questi idiomi sono preziosi, ciò dipende dal fatto che, proprio in ragione della loro molteplicità e della loro continua moltiplicazione, essi, come ci suggeriva già Derrida, sono inappropriabili, sfuggono ad ogni possesso, rompendo, così, ogni equazione tra lingua e proprietà, e rendendoci indietro un rapporto più 36 Crépon 2006, 30. Crépon 2006, 30. 38 Derrida 1996, 13 (5). 39 Crépon 2006, 33. 40 Crépon 2006, 33. 41 Crépon 2006, 34. 42 Crépon 2006, 34. 43 Cfr. Crépon 2006, 40. 44 Crépon 2006, 40. 37 185 Patrizia Cecala libero alla lingua: Ciò che io tento di suggerire è che, paradossalmente, il più idiomatico, vale a dire il più proprio di una lingua, non si lascia appropriare. Bisogna tentare di pensare che là dove si ricerca [...] il più idiomatico di una lingua, ci si avvicina a ciò che, palpitante nella lingua, non si lascia prendere. E dunque io tenterei di dissociare, per quanto paradossale questo appaia, l’idioma dalla proprietà. L’idioma è ciò che resiste alla traduzione, dunque ciò che apparentemente è legato alla singolarità del corpo significante della lingua o del corpo tout court ma che, a causa di questa singolarità, si sottrae ad ogni possesso, ad ogni rivendicazione d’appartenenza. 45 Ma ciò che è più importante, secondo Crépon, è il fatto che, in quanto inappropriabili, questi idiomi – potenzialmente infiniti – sfuggono ad ogni strumentalizzazione, ad ogni controllo politico ed economico della comunicazione, si oppongono alla riduzione della lingua alla mera funzione comunicativa. Ciò che dovrebbe più preoccupare, infatti, non è semplicemente la dominazione di una determinata lingua – proprio quella e non un’altra – a discapito delle altre, ma, più radicalmente, il fatto che l’intenzione stessa di individuare una lingua comune, che tutti dovrebbero essere tenuti ad imparare, rivela che l’apprendimento delle lingue è ormai esclusivamente sottomesso ad un imperativo utilitaristico. Si dimentica, così, che ogni rapporto ad una lingua straniera è sempre «un rapporto affettivo»,46 che può essere, secondo le circostanze, di ostilità o di attaccamento. Preservare l’esistenza degli idiomi, assicurare cioè le condizioni affinché gli idiomi continuino a moltiplicarsi, significa, quindi, assicurarsi uno spazio di libertà in cui inventare un rapporto diverso alla propria lingua, scevro da ogni utilitarismo o strumentalizzazione, e al contempo lontano da ogni rivendicazione di possesso. Ed è proprio attraverso la contaminazione, attraverso l’incontro con altre lingue, che è possibile questa invenzione, che necessita quindi, in primo luogo, che si superi la diffidenza verso le lingue straniere. «Ciò che la diversità delle lingue europee moltiplica all’infinito», afferma infatti Crépon, «è il numero degli idiomi che è possibile inventare, come altrettanti ricorsi contro la dominazione di una lingua unica, votata agli imperativi economici, ideologici e politici della comunicazione».47 Solo amando un’altra lingua, spiega Crépon, sarà possibile «amare la propria lingua altrimenti»,48 dove l’avverbio di eco levinassiana riassume la portata di questo cambiamento: 45 Derrida 2001a, 86. Crépon 2006, 42. 47 Crépon 2006, 46. 48 Crépon 2006, 46. 46 186 Tra identità e alterità Non è legarsi ad essa per un ipotetico sentimento di conforto, di sicurezza e anche di familiarità, ancor meno con l’idea di un’eredità da assumere o di un debito da pagare, è amare in lei l’esperienza dello straniero e della stranezza alla quale lei si presta in ogni idioma. È amare, nelle parole della lingua, le possibilità inaudite che esse offrono, grazie soprattutto alla traduzione, di resistere alla loro strumentalizzazione. È trovare nella propria lingua, aperta a quella degli altri – in più di una lingua dunque –, lo spazio della propria libertà».49 Ma «amare la propria lingua altrimenti» significa anche, allo stesso tempo – ed è questo il nodo cruciale della questione, ai fini del nostro discorso sull’Europa oggi – «slegare il proprio attaccamento ad una lingua da tutte queste attese politiche».50 Riletta sotto questa luce l’eventualità dell’imporsi di una lingua comune potrebbe persino rivelarsi, per certi aspetti, vantaggiosa. La lingua inglese, infatti, ponendosi al contempo come la lingua di tutti e di nessuno, non sarebbe in alcun modo oggetto di rivendicazioni politiche, o di quella rabbia appropriatrice che è all’origine di ogni nazionalismo. L’adozione di una lingua comune, e in un certo senso ufficiale, che però non è mai sentita come «la propria lingua», comporterebbe, quindi, «la dissociazione dell’appartenenza politica (essere cittadino europeo, disporre dei numerosi e nuovi diritti che questa appartenenza conferisce) e dell’appartenenza linguistica»,51 segnando, così, una novità assoluta nel rapporto tra appartenenza linguistica e politica, la cui coincidenza viene comunemente data per scontata, al punto da essere spesso sancita giuridicamente: Le lingue furono designate, perlopiù, come lingue di Stato attraverso un atto giuridico. «Il nostro» monolinguismo, per dirlo altrimenti, fece l’oggetto di più di un calcolo e di un investimento politico. Si trattava sempre di rinforzare, di confortare il «noi», nel senso politico del termine, con un’appartenenza linguistica, a tal punto che l’acquisizione della cittadinanza esigeva il più delle volte che si fosse fatta «propria» la lingua della «nazione» – e che questa stessa appropriazione, ogni volta che era giudicata fragile o insufficiente, potesse fare l’oggetto di ogni sorta d’ingiunzione politica.52 Ecco spiegato in che modo l’equivalenza tra identità linguistica e politica stia alla base di ogni nazionalismo, come ci testimoniano «le violenze e le 49 Crépon 2006, 46-6. Crépon 2006, 47. 51 Crépon 2006, 48. 52 Crépon 2006, 48-9. 50 187 Patrizia Cecala violazioni che sono state commesse (ancora recentemente) in nome della difesa e della promozione delle identità»,53 le quali spesso si pretendono elette e investite di una missione universale,54 e di cui le lingue vengono «invocate come il primo segno di riconoscimento».55 Alla luce di quanto appena detto si chiarisce in che senso la dissociazione dell’appartenenza politica e di quella linguistica apre ad una speranza. Essa, infatti, pone le condizioni di quella che Crépon definisce un’«invenzione più idiomatica dell’appartenenza»,56 secondo la quale le lingue, o meglio gli idiomi, mantenendo le loro differenze irriducibili e restando al contempo disponibili a tutti, si unirebbero per opporsi ad ogni oppressione, ad ogni nuova tentazione nazionalista: La mia lingua (la lingua che io faccio «mia») – che non si lascia recuperare e strumentalizzare da nessuno – non rinvia ad alcun «noi» storicamente e politicamente predeterminato. Essa non suppone né esige alcuna fedeltà né alcun debito. È una lingua tra altre in uno spazio politico di cui lei non è la lingua comune, ancor meno la lingua ufficiale, ma che resta nondimeno disponibile per tutti, aperta a tutti – una lingua che, con tutte le altre, dispone più che mai, per queste stesse ragioni, delle condizioni politiche richieste per ricoprire questa funzione che già Kant 57 riconosceva alla diversità delle lingue, in quanto diversità: opporsi [faire barrage] all’oppressione.58 Hanno in un certo senso ragione, quindi, coloro che sostengono che bisogna preservare la barriera delle lingue – o meglio, tenendo conte di quanto finora detto, la «barriera degli idiomi» –, a condizione, però, di assicurarsi che nessuna lingua venga ridotta a semplice strumento di comunicazione o a vessillo di un’identità.59 Ogni lingua, quindi, deve mantenere una certa debolezza, grazie alla quale essa si trova costantemente esposta all’alterità, al contempo divenendo la lingua di tutti e accogliendo in sé le lingue degli altri. E allo stesso modo, poiché, come sempre, la riflessione sulla lingua si lega a quella sulla cultura, possiamo sostenere che «la cultura è sinonimo di libertà, dal momento in cui permette di varcare le sue frontiere diventando, attraverso un gioco di traduzioni, di transferts e di scambi, la cultura di tutti – 53 Crépon 2006, 49. Cfr. Crépon 2006, 102. 55 Crépon 2006, 49. 56 Crépon 2006, 49. 57 Il riferimento è all’opera Per la pace perpetua. 58 Crépon 2006, 49-50. 59 Cfr. Crépon 2006, 52-3. 54 188 Tra identità e alterità e dal momento in cui inversamente la cultura degli «altri», diventando la mia, cessa di essere esclusivamente la loro».60 È quindi la strada di un pluralismo che è al contempo linguistico e culturale l’unica che, pur esponendoci all’altro, e quindi mettendo in discussione la nostra identità, può assicurarci la libertà necessaria affinché si aprano infinite possibilità e, tra tutte, la possibilità di «inventare uno spazio politico inaudito, scisso da ogni appartenenza linguistica e quindi anche accogliente nei confronti degli idiomi presenti e a venire». 61 2. Per una memoria senza ombre La diffidenza nei confronti delle altre lingue, delle altre culture e degli altri popoli, nasce, l’abbiamo già detto, dall’illusione che esistano – o siano mai esistite – in Europa culture omogenee, e che a sua volta l’Europa, se rapportata al resto del mondo, costituisca un’identità compiuta e ben distinta da ciò che è oltre frontiera. Ora questo pregiudizio, chiarisce Crépon, riposa sul tramandarsi di una memoria identitaria che troppo spesso omette la realtà dei fatti. È per tale ragione che risulta necessario interrogarsi su questa memoria al fine di mostrare che «le identità culturali sono sempre più eterogenee e composite di quanto vorrebbe la loro strumentalizzazione».62 Da qui il tentativo di opporre, a questa memoria ritenuta insufficiente, «un’altra memoria delle identità (meno conforme alle costruzioni nazionali fantasmatiche degli storici del XIX secolo), una memoria che renda noto il loro carattere originariamente eterogeneo, vale a dire il fatto che esse si sono costituite in un processo ininterrotto di differenziazione, la quale non si realizza attraverso una trasformazione autonoma o l’evoluzione di un fondo proprio, ma attraverso l’incontro con le altre».63 E quando si parla di incontro con altre culture ci si riferisce – è bene ribadirlo – non solo all’incontro e allo scambio delle differenti culture europee tra loro, ma anche, a fortiori, alle relazioni che il continente ha stabilito «con ciò che ha costruito come la sua o le sue alterità».64 Se proprio si vuole determinare un’unità all’interno dell’Europa, se davvero si vuole individuare un tratto comune ai paesi europei, questo, a ben vedere, è da ricercarsi non solo e non tanto nell’attitudine delle varie culture europee ad intrecciarsi e contaminarsi tra loro, ma, soprattutto, nel modo in cui i vari paesi europei si sono rapportati al resto del mondo. 60 Crépon 2006, 124. Crépon 2006, 53. 62 Crépon 2006, 22. 63 Crépon 2006, 57. 64 Crépon 2006, 58. 61 189 Patrizia Cecala Resta ora da comprendere in che modo sono stati realizzati questi incontri e questi scambi, i quali, secondo Crépon, hanno storicamente assunto la forma dello sfruttamento, dell’importazione e della traduzione. Lo sfruttamento, in particolare, merita qualche parola in più in quanto è il primo modo in cui l’uomo europeo si è confrontato con il resto del mondo. Ma quello che caratterizza lo sfruttamento è che «ciò che è incontrato e appropriato si trova immediatamente inscritto in un altro sistema di valori che non vuole conoscere nulla di colui che sfrutta».65 Lo sfruttamento, quindi, non può essere considerato propriamente uno scambio; esso non è supportato dal rispetto per ciò che si incontra, ma al contrario si accompagna, spesso, non solo ad una negazione della cultura altrui, ma persino ad un intento distruttivo. «Dalla colonizzazione alla civilizzazione», diceva Aimé Césaire, «la distanza è infinita».66 La colonizzazione, infatti, non comporta alcuno scambio di culture né di valori. In nessun modo si può parlare, qui, di incontro di civiltà; una cultura può infatti essere incontrata come tale solo se «il soggetto di questa cultura è lui stesso riconosciuto come un «essere umano dotato di cultura»,67 cosa che, suscitando un certo rispetto, renderebbe impossibile ogni sfruttamento. L’Europa, invece, pur di proseguire nel suo sogno di espansione, negò l’umanità a coloro che intendeva sfruttare, il che non differisce troppo dal sistema che ancora oggi viene messo in atto da un imperialismo che, «agendo in nome dei diritti dell’uomo e dell’umanità dell’uomo, esclude alcuni dall’umanità e impone ad alcuni trattamenti inumani. Li tratta come bestie». 68 Quando ci si interroga sull’identità culturale dell’Europa bisogna, quindi, fare i conti con questa attitudine alla conquista. Se è vero infatti che, come affermava Derrida, «ogni cultura è originariamente coloniale» 69 – dove la parola coloniale, come chiarisce Crépon, non allude solo alla situazione delle antiche colonie, ma al fatto che ogni cultura cerca di imporre la propria legge contro le altre 70 –, è altrettanto vero che nei paesi europei questa inclinazione emergeva in maniera particolarmente marcata. E tuttavia, anche in tal caso, occorre operare le dovute distinzioni. Una linea di frattura, infatti, come spiega Crépon, attraversa l’Europa separando gli Stati in due grandi insiemi. Da una parte quegli Stati che si distinguono per la peculiarità del loro rapporto col resto del mondo, che ha assunto, tipicamente, «la forma di una dominazione coloniale» 71 le cui 65 Crépon 2006, 60. Césaire 1955, 9-10. 67 Crépon 2006, 62. 68 Derrida 2008, 111 (105). 69 Derrida 1996, 68 (47). 70 Schmit 2006, 18. 71 Crépon 2006, 72. 66 190 Tra identità e alterità tracce sono ancora oggi facilmente reperibili – si tratta di paesi quali Francia, Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Belgio, Paesi Bassi, Austria –, dall’altra parte quegli Stati, più recentemente integrati nell’Unione europea (Polonia, Repubblica Ceca, Bulgaria, Romania) che non hanno mai avuto la pretesa – né i mezzi – di esercitare una dominazione coloniale. Le culture di questi ultimi sono sempre state considerate come minoritarie al punto che, se per gli Stati del primo gruppo fu sempre facile e persino naturale tentare di imporre la propria identità, il proprio «noi»,72 sulla scena della storia europea, per gli altri il riconoscimento di un’«identità culturale e linguistica» 73 e persino, talvolta, del diritto stesso di esistere come comunità all’interno dell’impero, fu spesso conquistato con fatica. A ben vedere, però, l’eterogeneità è radicata in maniera ancora più profonda al cuore stesso dell’Europa, essa abita spettralmente i singoli Stati in ragione di una memoria che si rivela essere estremamente «composita» 74 persino al di qua delle frontiere. La maggior parte dei paesi europei, infatti – che si tratti di Stati membri o non ancora ammessi all’Unione –, conta, tra i suoi abitanti, comunità di origini non europee le quali conservano, naturalmente, una memoria diversa della storia europea: «la schiavitù in primo luogo, in seguito lo sfruttamento coloniale, i massacri [...], le umiliazioni, il disprezzo che riappaiono, sul suolo europeo, sotto tutte le forme di esclusione».75 Ma ciò che è più grave è che, ancora oggi, le umiliazioni e il disprezzo per queste comunità sembrano riproporsi costantemente seppur sotto forme differenti, e in particolare attraverso un doppio diniego. In primo luogo, a queste comunità, viene negata la propria memoria dell’Impero. In effetti, insegnando nelle scuole la lingua “ufficiale” come unica e identica a se stessa, e tramandando attraverso i libri di storia una memoria “di comodo”, anch’essa omogenea, non si fa che riproporre la violenza del gesto coloniale: «non appena la cultura è presentata come qualcosa di omogeneo, di unico e di identico a se stesso, il fatto di un popolo, la sua proprietà, ciò stesso di cui si esige l’appropriazione, il dominio e il possesso, essa «colonizza».76 Inoltre, i componenti di queste comunità si vedono negata la cittadinanza, attraverso un gesto che, perseverando nel confermare la loro esclusione ed emarginazione, va di pari passo con quell’atteggiamento di sufficienza – se non di diffidenza – assunto nei confronti di quelli che vengono determinati come «paesi membri di second’ordine»,77 riaffermandone, così, lo statuto minoritario. Bisogna quindi sforzarsi di recuperare – e tramandare – una memoria più 72 Crépon 2006, 73. Crépon 2006, 7373. 74 Crépon 2006, 75. 75 Crépon 2006, 76. 76 Crépon 2006, 76. 77 Crépon 2006, 78. 73 191 Patrizia Cecala fedele alla storia europea, che è stata una storia di scambi, sì, di incontri e condivisione, ma anche, in egual modo, una storia di violenze, abusi e sfruttamento. E non si tratta, esclusivamente, di doverosa onestà intellettuale ed elementare rispetto per tutti coloro che hanno subito il colonialismo oltremare. Se l’Europa è chiamata a fare i conti con la memoria della sua storia – una memoria «appesantita dal ricordo di svariate guerre»,78 è soprattutto nella speranza che, con questa memoria, essa conservi la consapevolezza dell’impossibilità di incarnare da sola tutta l’umanità, e del prezzo che una tale pretesa può avere.79 Una memoria senza ombre come monito, quindi, allo scopo di scongiurare la tentazione – per l’Europa o per i singoli Stati che la compongono – di ergersi fortezza contro tutto ciò che si trova oltreconfine. 3. L’identità dell’Europa come possibilità impossibile L’identità dell’Europa, è ormai chiaro, non ha nulla di puro o uniforme. La sua eterogeneità, ci sembra altrettanto chiaro, va custodita, e le vie di questa custodia sono rintracciabili, come abbiamo visto, nel tentativo di salvaguardare la pluralità di idiomi e nella sfida di recuperare una memoria più “onesta”. Questa operazione coinvolge le nostre speranze e le nostre responsabilità, sulle quali, in conclusione, riteniamo opportuno interrogarci. Cosa, infatti, si può e si deve sperare dall’Europa oggi? E cosa, ugualmente, non siamo più autorizzati ad aspettarci dall’idea di Europa? E ancora, chi è il soggetto di questa speranza e di questa responsabilità? «Ciò che non si può più sperare dall’Europa», spiega Crépon, «è una qualsiasi risposta alla domanda «chi siamo noi?» che costruirebbe [...] tale o tal altra monogenealogia».80 Ogni definizione stabile di un preteso «noi», ogni invocazione d’appartenenza, è infatti, come Crépon spiega altrove, «potenzialmente assassina», 81 ed è per tale ragione che il motivo conduttore della riflessione del filosofo è individuabile proprio in quella che lui stesso definisce «decostruzione del noi». 82 «Quando diciamo «noi Francesi», infatti, «oppure «noi che siamo Europei», lasciamo sempre altri all’esterno». 83 Rispondiamo indirettamente, così, anche alla domanda che verte sul soggetto di questa responsabilità: si tratta di un noi che si apre alla possibilità di tutti gli altri che 78 Crépon 2006, 94. Cfr. Crépon 2006, 94-5. 80 Crépon 2006, 191-2. 81 Crépon 2012a. 82 Crépon 2012a. 83 Crépon 2012a. È opportuno ricordare che la riflessione del filosofo si spingerà negli ultimi anni fino a quello che egli considera l’ultimo “noi”, del quale si potrebbe dire, ugualmente, che è il primo: «noi mortali». Cfr. Crépon 2012b. 79 192 Tra identità e alterità finora erano stati lasciati fuori, un noi, quindi, i cui confini si sono indeboliti fino ad impedirne la definizione. Ma cosa ci resta allora da sperare dall’Europa oggi? Quali responsabilità possiamo attribuire all’Europa e agli Europei? E ancora, «come l’Europa può e deve rispondere di e rispondere a questa «nuova esperienza delle frontiere e dell’identità» 84 ? L’oggetto delle nostre speranze e delle nostre responsabilità, chiarisce Crépon, è precisamente – e il rimando, qui, è ancora una volta al Derrida de L’altro capo – «l’identità dell’Europa come identità impossibile». Si tratta di un’identità come «autodifferenziazione»,85 un’identità che lungi dall’essere identificata in una natura o in un’essenza è il prodotto di un «fare» 86 e di un «divenire»,87 e si costruisce, di conseguenza, attraverso l’incontro e la perdita. L’invenzione impossibile di questa identità riposa sull’aporia per la quale, seppur continuamente sottoposta alla contaminazione, tale identità sfugge ad ogni fusione e confusione: Questa invenzione sarebbe in primo luogo l’esperienza di un’identità che la sua apertura radicale, incondizionale, all’alterità non cesserebbe di «disappropriare» e che, tuttavia, non si troverebbe confusa o dissolta, assorbita o dispersa, distrutta – un’identità preparata al fatto che nessuna delle sue identificazioni possa «tenere», e che tuttavia continuerebbe, essa stessa, a «tenere». Tuttavia [Pour autant], eppure [pourtant]: queste parole non sono proposte a caso. Esse designano il luogo stesso dell’aporia, come possibilità dell’impossibile.88 Un’identità siffatta, com’è evidente, non può più essere un rifugio rassicurante. Essa infatti verte nell’incertezza: continuamente esposta a tutto ciò che aveva finora relegato lontano da sé, in quanto «altro da sé», essa perde qualsiasi certezza e sicurezza su ciò che aveva finora con naturalezza considerato “proprio”. «Essa», chiarisce Crépon, «custodisce la decostruzione di questa stessa sicurezza».89 E malgrado questa incertezza possa, a prima vista, farci paura, essa si rivela invece una chance per l’Europa, la sola possibilità affinché qualcosa accada, affinché resti aperta la possibilità che in Europa, e all’Europa, accada qualcosa di nuovo: Affinché, con l’Europa o attraverso l’Europa, qualcosa «ci» accada, bisogna, come si è visto, che l’Europa non sia più l’Europa, 84 Crépon 2006, 84. Crépon 2006, 87. 86 Crépon 2006, 87. 87 Crépon 2006, 87. 88 Crépon 2006, 193. 89 Crépon 2006, 186-7. 85 193 Patrizia Cecala bisogna che l’identità spirituale (o ancora culturale) che le era riconosciuta cessi di essere considerata un’evidenza. L’Europa che viene, è necessariamente un’Europa il cui proprio non si lascia più delimitare, circoscrivere, appropriare, ricondurre ad una qualsiasi appartenenza, non più che ad un’origine, una tradizione, un’eredità determinate. Ogni riconduzione a qualsiasi cosa di questo genere sarebbe soprattutto un tentativo affinché niente arrivi a, con e attraverso l’Europa. Questa farebbe di ciò che dovrebbe accadere il prolungamento prevedibile di ciò a cui questa fu identificata, a titolo di tale o tal altra teleologia. Non ci sarebbe allora niente di nuovo in Europa, niente che non sia programmabile e calcolabile.90 Ma se finora è stato messo l’accento sui rischi che comporta la ricerca e la custodia di un’identità, dobbiamo in conclusione ammettere che, con le dovute cautele, una certa idea di Europa va mantenuta, che bisogna ancora, malgrado tutto, «azzardarsi a pensare qualcosa come l’identità dell’Europa».91 A condizione, però, che questa identità riposi sull’aporia e sull’incertezza, a condizione cioè che l’Europa di cui si cerca l’identità sia travagliata dal «forse». Un’Europa «che non è né data né definita in anticipo, che non si lascia rinchiudere né trattenere in alcuna «possibilità» territoriale, culturale, economica o politica circoscritta o decisa in anticipo, a titolo della storia, della geografia, dello spirito, d’interessi strategici, geopolitici o economici».92 L’«Europa forse» 93 è un’Europa in cui tutto è possibile, in cui tutto può accadere, ma in cui è al contempo sempre mantenuta la possibilità che nulla accada. Un’Europa in cui l’altro, se arriva, arriva sempre inaspettato, con una forza che irrompe interrompendo ogni performativo, secondo quel «pensiero del forse» cui già Derrida aveva aperto la strada. 94 Patrizia Cecala Università degli Studi di Palermo Dipartimento Fieri-Aglaia patriziace82@hotmail.it 90 Crépon 2006, 189. Crépon 2006, 189. 92 Crépon 2006, 184-5. 93 Crépon 2006, 184. 94 Cfr., ad esempio, Derrida 2001b, 73-76 (60-62). 91 194 Tra identità e alterità Riferimenti bibliografici Césaire, A. 1955, Discours sur le colonialisme, Présence africaine, Paris. Crépon, M. 2001, «Ce qu’on demande aux langues (autour du Monolinguisme de l’autre)», in Raisons politique, 2, pp. 27-40. Crépon, M. 2006, Altérités de l’Europe, Galilée, Paris. Crépon, M. 2012a, «Ce qui m’intéresse, c’est la déconstruction du nous», in Le Monde, http://www.rpdroit.com/index.php?option= com_content&view=article&id=286:rencontre-avec-marccrepon&catid=68:le-monde&Itemid=94. (entretien réalisé par Roger-Pol Droit, 23 Février 2012). Crépon, M. 2012b, Le consentement meurtrier, Cerf, Paris. Derrida, J. 1986, Schibboleth. Pour Paul Celan, Galilée, Paris; trad. it. Scibboleth. Per Paul Celan, a cura di G. Scibilia, Gallio, Ferrara 1999. Derrida, J. 1991, L’autre cap, suivi de La démocratie ajournée, Éditions de Minuit, Paris; trad. it. Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, a cura di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991. Derrida, J. 1996, Le monolinguisme de l’autre, ou la prothèse d’origine, Galilée, Paris; trad. it. Il monolinguismo dell’altro, o la protesi d’origine, a cura di G. Berto, Raffaello Cortina, Milano 2004. Derrida, J. 2001a, «La langue n’appartient pas», in Europe, 861-862, pp. 81-91. Derrida, J. 2001b, L’université sans condition, Galilée, Paris; trad. it. L’università senza condizione, a cura di G. Berto, in Derrida, J. e Rovatti, P. A., L’università senza condizione, Raffaello Cortina, Milano 2002. Derrida, J. 2008, Séminaire La bête et le souverain Volume I (2001-2002), Galilée, Paris; trad. it. La bestia e il sovrano Volume I (2001-2002), a cura di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009. Kant, I. 2007, Per la pace perpetua. La pace come destinazione etica e politica della storia dell’umanità, a cura di M. Pancaldi, Armando editore, Roma. Schmit, P. E. 2006, «Entretien avec Marc Crépon», in Le philosophoire, 27, pp. 11-27. Valéry, P. 1957, «Mais qui est donc Européen», in Œuvres, Gallimard, Paris. 195 Notes, Reports & Interviews The 10th ISNS International Conference Cagliari 20-24/06/2012 Emanuele Lacca La Società Internazionale per gli Studi Neoplatonici (ISNS) ha organizzato a Cagliari, per la prima volta in Italia, il suo decimo Convegno Internazionale, svoltosi presso la Cittadella dei Musei dal 20 al 24 giugno 2012. Il Convegno, coordinato scientificamente dai professori Francesca Maria Crasta, John Finamore, Suzanne Stern-Gillet e dalla dottoressa Anna Corrias, ha visto la presenza di circa centocinquanta studiosi che, alternandosi nelle varie sale della Cittadella, hanno discusso sui diversi aspetti delle dottrine platoniche e neoplatoniche, sia dal punto di vista storico che interpretativo. Nel Convegno di quest’anno, introdotto dai saluti di Gary Gurtler S.J. (Boston College), le molteplici tematiche attinenti il platonismo e il neoplatonismo sono state organizzate in differenti panels di discussione, nei quali i convegnisti hanno trovato modo di confrontarsi su vari livelli, dal pensiero logico e matematico ai problemi posti dalla morale e dalla religione, dalle dottrine psicologiche alle teorie estetiche, dai sistemi metafisici all’ermeneutica. I relatori hanno preso in considerazione non solo la filosofia antica, ma anche quella medievale e quelle moderna e contemporanea, evidenziando così l’inesauribilità del dibattito sul platonismo e sulla sua ricezione, sia nel pensiero occidentale che in quello orientale ed arabo. Numerosi e diversi i temi affrontati quest’anno; tra di essi figurano la connessione tra la logica platonica e quella aristotelica, che si mostra chiaramente nei rapporti esistenti tra la filosofia neoplatonica e l’Organon aristotelico riguardo al principio di non contraddizione (Aristotle imitating the Parmenides’ method? Proclus and Prior Analytics) e al concetto di sostanza (Problems with substantial form in Alexander of Aphrodisias). Presente anche una serie di studi sulla morale platonica e neoplatonica, condotti attraverso l’approfondimento del concetto di vita rettamente vissuta (Virtue and disposition in Plotinus, The Plotinian concept of stillness), dell’importanza della memoria (Memory and the perception of change in Plato’s Philebus), del ruolo della libertà (Justin Martyr’s sources on prayer and providence), dell’esistenza della provvidenza e del fato nella vita dell’uomo (Grégoire de Nisse plotinien? A propos de la providence, Destin et liberté chez Plotin). Importante è stata, inoltre, la presentazione dei rapporti esistenti tra il platonismo e lo gnosticismo, studiati nella prospettiva di un corretto inquadramento della filosofia plotiniana in epoca tardo-antica (Plato’s Sophist in platonizing sethian gnostic interpretatio, Plotinus and the Gnostics: the peculiar impact of the tripartite tractate and later works); in questo senso, è stato dato rilievo al collegamento tra Plotino e Porfirio, in particolare al suo De antro nympharum (‘Who have no knowledge of the sea’. Soul and purification in Porphyry’s De antro nympharum, Porphyry and black magic, Emanuele Lacca Porphyry and His Sources: The Cave of the Nymphs and Elsewhere). Particolare cura anche per la concezione platonica della matematica e per lo studio della trasmissione delle questioni neoplatoniche in epoca rinascimentale, moderna e contemporanea. Rilevanti risultano le tematiche dedicate alla diffusione della filosofia neoplatonica nel Medioevo e il significato dell’Uno nelle Enneadi di Plotino. Infatti, il periodo medievale è di grande importanza per l’elaborazione di temi e concetti provenienti dal platonismo e rintracciabili nelle epoche successive; d’altra parte, il significato di Uno permette di mettere a fuoco il valore del trascendente all’interno della filosofia neoplatonica. Tra gli interventi, spicca la ricchezza argomentativa dei panels dedicati al tema della ricezione del Neoplatonismo nel Medioevo e all’interpretazione dell’Uno nelle Enneadi di Plotino. Relativamente al primo tema, da segnalare gli interventi di Rafael Ramón Guerrero (Universidad Complutense de Madrid), Michael Chase (CNRS), e Claudia D’Amico (Universidad Nacional de La Plata-Universidad de Buenos Aires). Ramón Guerrero ha mostrato l’importanza che la filosofia di Plotino ha avuto nella trasmissione della filosofia aristotelica nel mondo arabo. Esempio di ciò è lo scritto pseudo-aristotelico Sirr al-Asrâr (Secretum secretorum) del 1160, nel quale la filosofia di Aristotele è mescolata con istanze neoplatoniche, quali la concezione di Dio come sostanza semplice e spirituale e la concezione del divino come unificatore di tutte le sostanze create. Michael Chase, con il suo Orpheus Arabicus, or myths of weaving in Greco-Arabic philosophy, ha proposto l’analisi dei concetti arabi di nisab ta’lı̄fiyya (relazioni composizionali musicali) e san‘a al-dı̄bāj (arte della tessitura/broccato), introdotti da Ibn Abı̄ Usaybi‘a (1194-1270) nel suo commentario alla vita di Platone. Nella prima parte del suo intervento, Chase ha affermato che le cinque relazioni composizionali utilizzate da Platone non sarebbero altro che le cinque relazioni di consonanza presenti nella musica greca. Questo accostamento sarebbe possibile attraverso l’analisi della creazione dell’anima del mondo esposta da Platone nel Timeo. Nella seconda parte è stata presentata l’importanza filosofica dell’arte della tessitura nel mondo arabo, a partire dalle influenze platoniche, ma facendo anche riferimento ai miti orfici. L’arte del dı̄bāj, infatti, è molto simile all’arte della tessitura greca, poiché esprimerebbe una sorta di guida per la comprensione della creazione del mondo. Il contributo di Claudia D’Amico, invece, ha focalizzato l’attenzione sulle figure di Dionigi Aeropagita e di Proclo e la loro interpretazione da parte di Bertoldo di Mosburgo e di Nicolò Cusano. Prendendo in considerazione le tematiche fondamentali dell’Elementatio theologica emerge, secondo Bertoldo, l’appartenenza di Dionigi e Proclo alla medesima tradizione filosofica e la loro reciproca assimilabilità; secondo Cusano, d’altra parte, esiste una dipendenza tra i due autori che sovverte la cronologia storica attestata. Le opinioni di questi due autori, inoltre, sono funzionali alla sistemazione storica del periodo 200 The 10th ISNS International Conference tardo-antico che avverrà, poi, con Lorenzo Valla. La riflessione sulle istanze filosofiche fondamentali del Neoplatonismo, relativamente all’Uno e ai suoi rapporti con Intelletto e Bene ha avuto come asse portante gli interventi di Luc Brisson (CNRS) e Francesco Fronterotta (Università del Salento). Il primo, con un intervento dal titolo Les rapports de l’Intellect avec l’Un chez Plotin: l’Intellect sensé et l’Intellect ivre, d’après le Traité 38 [VI 7], 35, 19-27, ha mostrato che l’Intelletto, in Plotino, può essere considerato in due maniere: quando genera, ha la percezione del fatto che tutte le realtà intelligibili sono contenute in esso tutte in una volta; quando pensa a se stesso, invece, è come ‘inebriato’ dal fatto di portare l’Uno a sé come atto di amore appassionato. Sulla scia dell’intervento di Brisson, il contributo di Fronterotta, En quel sens l’Un est-il le Bien? Plotin critique d’Aristote dans le traité 38 [VI 7], 25 et 27, ha analizzato la critica che Plotino opera nei confronti di Aristotele a proposito del Bene. Muovendo dall’interpretazione dei significati aristotelici di causa finale, potenza ed atto, si dimostrerebbe che, per Plotino, il Principio Primo non sarebbe bene in sé ma sarebbe legato ai suoi prodotti, dal momento che essi tendono al Bene. In stretto rapporto con quest’ultimo intervento è quello di John Dillon (Trinity College of Dublin) che, nel suo Plutarch, Plotinus and the Zoroastrian Concept of the Fravashi, ha analizzato il rapporto esistente tra la parte più nobile e superiore dell’anima umana, così come intesa da Plutarco e Plotino, e il fravashi, ossia la preesistente ed esterna anima superiore di una persona che guida l’anima incarnata; a ciò si connette lo spirito guardiano che, facendo discendere l’anima nel mondo, la invia a combattere il bene contro il male. Gli interventi qui presentati non intendono esaurire la totalità delle discussioni che sono state affrontate all’interno del Convegno, ma segnalano due tra i temi di maggior interesse in relazione alla ricezione neoplatonica medievale e all’interpretazione dell’Uno plotiniano; inoltre, essi risultano fondamentali per le argomentazioni connesse con il platonismo rinascimentale, moderno e contemporaneo. Esse sono decisive per una comprensione più profonda dei temi relativi al Neoplatonismo. Emanuele Lacca Università di Cagliari Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia emanuele.lacca@gmail.com 201 X International Ontology Congress San Sebastian/Barcelona 1-9/10/2012 Physis. From elementary particles to human nature Laura Candiotto The root was black, while the flower was as white as milk; the gods call it Moly, Dangerous for a mortal man to pluck from the soil, but not for the deathless gods. Homer, Odyssey X 304-306. “Physyn autou edeixe” The word “physis” first appeared in the Odyssey of Homer relating to a white flowered plant with a black root which was hidden under the surface of the ground. The process, known as the process to light everything that is hidden, marks the beginning of the philosophy of nature. Since getting to know the nature of things is the process needed to light everything that is hidden. Barbara Cassin and Francesc Casadesús highlighted this particular issue stressing the connection between nature and knowledge. Alberto Bernabé analysed the recurring adjective “physikos” and was capable of pointing out the connection between the studies of medicine and nature. The dialogue about ‘physis’ between philosophers and physics, main objective of the congress, allowed us to return to the pre-Socratic origin of our culture. The purpose of this dialogue was to explore which approaches can offer a theory of contemporaneous physics and its experimentation within quantum mechanics. The theoretical physicist Carlo Rovelli provides an excellent expression of this possibility of dialogue. He introduced us to the great scientific significance of Anaximander’s philosophy, with particular emphasis on a naturalistic prospective. This prospective constitutes a valuable addition to the physical and philosophical investigations. Rovelli also proposed a method of philosophy borrowed from science, where reliability and effectiveness are the substitutes of certainty. A radical uncertainty leads to an endless questioning of premises and thus permits a constant growth of knowledge and also confers reliability. But, of course, ontologically speaking, the desertion of a solid truth does not lead to a nihilistic form of relativism. On the contrary, the results of the research of ‘what it is’ are positive and provide an answer to the question: ‘What is the world made of?’ The same question has been answered by Frank Wilczek (physics noble prize 2004), by identifying the bonds between a research based on theoretical Laura Candiotto ideas and another one based on the observation of the phenomena. A glance at history, from the Pythagorean philosophy to quantum mechanics, is enough to remind us that due to the concept of symmetry it is possible to observe the beauty of the cosmos. Francis Wollf, who also answered the question, was in favour of a realistic prospective which states that the real exist regardless of the mind. On the contrary, Daniel Dennet (honorary president of the Congress), claimed that the human mind is a social construction which was built thanks to the assimilation of the memes. This construction assess the extent to which cultural evolution shapes human nature. Dennett also embodies the underlying spirit that gave structure to the conference and that could be called analytical. The philosophy of mind rests in neuroscience and in observation. The neuroscience is based on the use of experiments that might lead to the development of philosophical theories whereas the observation is based on a method founded on examples (i.e Aristotle and Wittgenstein). However, Dennet wanted to emphasize that this mind conception does not lead us to an uncontrolled will. Does this kind of remark lead us to a conception of the human nature different from the traditional one based on anthropocentrism? The contribution of José Ignacio Galparsoro was essential to find an answer to this question. While describing the schools of thought: transhumanism, hyper humanism or post humanism, he stressed the necessity to find a new definition for the ‘human nature interpretation’ along with its ethical and politic implications. According to Galparsoro, who supports the thesis of Roberto Marchesini, it is necessary to overcome technophobia and to find a dialogue (that lies between techne and bios) capable of providing a non-antropocentric vision. Regarding human biology, Francisco J. Ayala emphasized the importance of evolution in the constitution of human nature. The studies recommended: Anaximander (Tomás Calvo), Parmenides (Luis Andrés Bredlow and Fernando Santoro), Plato (Andrea Le Moli and Laura Candiotto) and Aristotle (Carla Francalanci and Pietro Giuffrida) [to name a few] have masterly proved the conception of physics within Greek philosophy. The scholars tried to individualize the strategies used by philosophers in order to justify the physical world. These included a reassessment of doxa (thinking of Parmenides), the construction of order (thinking of Anaximander and Plato) and the definition of movement (thinking of Aristotle). Besides, we were given the opportunity to attend to an interesting dialogue about teleportation between Anton Zeilinger (experimental physicist), and Simon Kochen (mathematician) which took place in Barcelona. The moderator Ulises Moulines led the dialogue towards an ontological plane. He posed a strong question: What’s the meaning of being teleported if we cannot talk about substances anymore? A possible answer to the question: ‘What is the world made of?’ would 204 Physis. From elementary particles to human nature. be that the dialogue between philosophy and physics it is quite prolific. The famous article signed in 1935 by Einstein, Podolky and Rosen was quoted as an illustration of this necessary cooperation: “Can quantum mechanical description of physical reality be considered complete?”. Over the last decade, this article has become a favourite subject of study among philosophers. The congress came to an end with a closing ceremony held in the city of San Sebastian where we enjoyed an splendid performance of the Parmeniada, designed by Fernando Santoro and based on Parmenides’ fragments. From my personal point of view, it was a marvellous expression of the role played by the beauty of the cosmos, as an object of dialogue between philosophy and physics. It was also an illustrative example of the interaction among intellectual emotions and a research about the nature of humans and the universe; both physical and philosophical. I reckon, the languages chosen to represent the dramatic performance of the poem (i.e. ancient Greek, French, Portuguese, Spanish, German and Vasco) are a clearly image of a plurivocal manifestation of the Cosmos that stimulates humankind to undertake new causes. And so, here we are again, back to the beginning: facing the Cosmos with awe and being driven to seek the origin of everything that it is, that is to say, his physis. Laura Candiotto Università Cà Foscari di Venezia candiottolaura@gmail.com 205 Ohnmacht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit Internationale Konferenz der Nietzsche-Gesellschaft e.V. Naumburg (Saale) 11-14/10/2012 Raffaele Mirelli A Naumburg, nell’autunnale ex Germania dell’Est, dove Friedrich Nietzsche e la sua famiglia trascorsero parte della propria esistenza, è attivo da ormai due anni il Nietzsche-Dokumentationszentrum. La madre di Friedrich Nietzsche, Franziska, vi si trasferì con i figli ad un anno dalla morte del marito nel 1850. A Naumburg Nietzsche frequentò le scuole elementari ed il ginnasio di Schulpforta fino al 1858. Vi ritornerà poi in seguito negli ultimi anni di vita, dove fu accudito dalla madre durante la malattia. Il Centro Nietzscheano è stato costruito nel 2008, ma è attivo dal 2010. Esso accoglie ogni anno diverse manifestazioni legate alla vita culturale filosofica alimentata dalla passione per il filosofo tedesco. Annualmente vengono organizzati due congressi: questi sono volti all’analisi e al confronto dell’opera nietzscheana e inoltre alla considerazione della ricezione accademica di questo autore tra studiosi ed esperti del settore. Il titolo del congresso svoltosi quest’anno Ohnmacht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit aveva come oggetto uno dei temi più discussi dalla comunità filosofica occidentale: il soggetto. Cinquantasei i filosofi coinvolti nella discussione; cinque le sessioni tematiche: A) Ad hominem: La polemica letteraria e filosofica di Nietzsche; B) Morte dell’autore? Persona e maschera, paternità e stile; C) Persona e corpo: Dividuum e individuum visti dalla prospettiva della Volontà di potenza, del Prospettivismo e della filosofia dei segni; D) Psicologia nietzscheana attraverso Dottrina, dossografia, biografia e genealogia; E) Nietzsche attraverso autorappresentazione e autofinzione. Quest’anno, oltre al normale svolgimento delle conferenze e delle discussioni, è stata presentata una mostra fotografica «In cammino con Friedrich Nietzsche, immagini da un libro mai pubblicato» (scatti di Thomas Steinhart) e celebrata la premiazione del filosofo svizzero Andreas Urs Sommer, designato dalla regione Sachsen-Anhalt come vincitore del Premio-Nietzsche. Il premio, di 15.000 euro, è stato consegnato dal Ministro alla Cultura Stephan Dorgeloh, la laudatio, invece, proferita dal filosofo friburghese Ludger Luetkehaus. Andreas Urs Sommer ha devoluto un terzo della somma ricevuta al Centro Nietzscheano. Le conferenze si sono svolte non solo all’interno del centro, ma anche nell’abitazione della famiglia Nietzsche ad esso adiacente. L’intervento d‘apertura è stato tenuto dal prof. Werner Stegmaier, una autorità nella scena tedesca nietzscheana. L’intervento, dal titolo Rango e Raffaele Mirelli reputazione: sulla possibilità di teorizzazione della personalità, ha rappresentato un perfetto preambolo tematico, offerente tanti spunti di riflessione, forte di tutte le “figure pedagogiche” create da Nietzsche come lo Zaratustra e il viandante. Come chiave di lettura di tali figure è stata presentata e descritta, attraverso un taglio ermeneutico, la relazione-rapporto di Nietzsche con il mito e con il suo maestro e precursore Schopenhauer. Il tema “soggetto” ha rappresentato in questa cornice filosofica una valida proposta di riflessione, sia in quanto atto filosofico decostruttivo che costruttivo. La trasvalutazione nietzscheana di tale elemento si contrappone, infatti, alla tendenza moderna proposta a partire da Descartes, volta invece ad una piena consacrazione del soggetto a punto cardinale di certezza e consapevolezza. Importante a riguardo sono stati i numerosi interventi che miravano all’analisi del concetto della soggettività in relazione a quelli di personalità e individuo, di figura e maschera che nella lettura nietzscheana appaiono come poli dialettici. La tendenza speculativa degli interventi si concentrava nell’ultimo periodo di produzione nietzscheano. Pochi sono stati coloro i quali si sono si riferiti al Nietzsche della «Nascita della tragedia» e ancor meno ci si è occupato del punto di svolta riflessivo e stilistico rappresentati in Umano troppo umano, Al di là del bene e del male, La gaia scienza. Com’è noto, la filosofia nietzscheana offre uno spunto di riflessione autocritica del filosofo-rispetto-al-filosofo. La parola chiave del congresso, e in generale portante della filosofia di Friedrich Nietzsche, “Selbst” (se-stesso) riempiva le sale dell’edificio, anche quando con essa non si evocava l’“iniziativa nietzscheana” di individuazione di un soggetto e di una relazione tipica del filosofo con se stesso, dell’intellettuale con se stesso. Rilevante e degno di nota è stata senza dubbio la vastità tematica che il convegno ha offerto: da Omero alla cultura mediorientale in riferimento allo spazio religioso, fino alla sfera giuridica con l’intervento dell’avvocato Henry Kerger, dal titolo I fondamenti personali dell’agire sociale in Nietzsche. Non poteva mancare lo spazio dedicato alla letteratura, vista la forte tendenza letteraria della filosofia nietzscheana. Lo scrittore tedesco Martin Mosebach ha deliziato il pubblico leggendo uno dei suoi manoscritti inediti attraverso un modo di lettura sui generis, che ha coinvolto e avvolto l’ascoltatore con tantissime immagini, dense di sensazione e veloci d’aggettivi. Tra le personalità da menzionare emerge sicuramente quella del filosofo americano James Conant (Università di Chicago), il quale ha illuminato la popolazione nietzscheana esplicando il rapporto filosofico tra Emerson e Nietzsche. L’intervento l’esemplarità in Emerson e Nietzsche ha suscitato notevole interesse non solo a causa della tematica ma anche per la personalità carismatica di questo oratore, dalle capacità espressive ricche e dirette. Il tentativo di costruzione, ricostruzione e distruzione del concetto di “soggettività” da parte della società scientifica nietzscheana ha portato, attraverso questo congresso organizzato da Ralph Eichberg (in qualità di direttore del 208 Ohnmacht des Subjekts – Macht der Persönlichkeit centro), Chistian Benne ed Enrico Mueller, ad una consapevolezza rilevante: la filosofia di F. Nietzsche rappresenta un “modo filosofico” tipico di autocritica culturale che assurge a mezzo d’azzardo critico verso le nuove tensioni morali della nostra società, filosofica e non. Significativo in tal senso l’intervento di Andreas Urs Sommer dopo la consegna del premio: «Cosa si aspetta la comunità filosofica da me? Che continui a produrre una quantità di scritti tale da rendere giustizia alle aspettative culturali della nostra società scientifica?». La filosofia come azzardo, titolo dell’intervento del filosofo svizzero, esprime a pieno l’intento e la motivazione che sostengono il compito della filosofia nietzscheana all’interno dell’università tedesca, ossia l’autocritica e la capacità di rimodellare se stessi in tempi di cambiamento e di crisi. Raffaele Mirelli mirelliraffaele@gmail.com 209 Book Reviews Jessica Moss, Aristotle on the Apparent Good Perception, Phantasia, Thought, & Desire, Oxford University Press, Oxford 2012 Pietro Giuffrida Quattordicesimo volume della Oxford Aristotle Studies Series, il libro di Jessica Moss si propone come una estesa trattazione della nozione di bene apparente, ovvero del phainomenon agathon - tema questo che comporta un confronto serrato con la nozione aristotelica di phantasia. L’obiettivo teorico dell’autrice consiste nel rileggere l’etica aristotelica nei termini di un “empiricismo pratico” (Practical Empiricism). Tale prospettiva, connettendo le cosiddette opere biologiche, la Retorica e le etiche, mira a mostrare come la motivazione all’azione, per gli uomini come per gli animali, dipenda sempre da una cognizione di un oggetto in quanto piacevole o doloroso, ovvero in quanto esso appare come un bene da perseguire o un male da cui allontanarsi. L’autrice quindi, a partire dal De anima e dal De motu animalium, indaga il modo in cui le tre funzioni discriminative - sensazione, phantasia ed intelletto - facendo apparire un oggetto desiderabile, determinano il movimento animale ed umano. Il primo passo in questo senso è costituito dall’analisi degli aspetti somatici della sensazione, con particolare riguardo al De motu animalium. Stando a tale testo, ed in particolare a 700b15 ss., ogni sensazione risulterà infatti di per sé accompagnata da piacere e dolore, il che costituisce, già al livello della più semplice aisthēsis, una prima forma di giudizio circa un bene da perseguire o un male da evitare. Tale aspetto della sensazione è legato all’interazione tra i singoli organi di senso e la regione pericardica. La sensazione risulta infatti essere un’alterazione del calore interno del corpo, che, causata da uno stimolo esterno, attraverso la mediazione del sangue e delle vene, raggiunge il sensorio primo, ovvero il cuore. Tale alterazione sarà quindi sempre piacevole o dolorosa, proprio in quanto comporta un raffreddamento o un surriscaldamento della zona pericardica. La ricostruzione di questa sorta di meccanismo corporeo permette anche di comprendere come, secondo Aristotele, una percezione possa determinare il movimento animale. È infatti in quanto piacevoli o dolorose, ovvero in quanto capaci di alterare la temperatura della zona pericardica, che le sensazioni muovono un individuo: rompendone l’equilibrio termico, gli stimoli sensoriali attivano una sorta di dinamica compensativa, provocando a catena contrazioni e dilatazioni organiche e muscolari, che a livello macroscopico determineranno il movimento del dato essere vivente. Questa ricostruzione del modo in cui ha inizio il movimento animale, di per sé adatta ai viventi privi di più complesse funzioni cognitive, fungerà, nel corso dell’intero volume, da modello generale, sotteso ad ogni movimento animale ed umano, per quanto esso sia diversamente realizzato nelle singole specie viventi, a seconda del tipo di cognizione volta per volta responsabile Pietro Giuffrida dell’identificazione di un oggetto come un bene o un male. Tale dinamica ha infatti il vantaggio di indicare l’oggetto che determina il movimento come il risultato di una “cognizione pratica” (practical cognition), in cui il giudizio circa la bontà di un oggetto coincide con quello circa la sua piacevolezza. Nelle parole dell’autrice: «what Aristotle has in mind is a form of cognition that is itself pleasurable or painful» (p. 26). Stando a tale ricostruzione, anche forme di cognizione più complesse, per poter determinare un movimento, dovranno essere in grado di presentare un oggetto suscitando piacere o dolore, ovvero produrre un’alterazione somatica della regione pericardica. Condizione questa che dovrà essere soddisfatta anche nel caso in cui intervengano a determinare il fine dell’azione l’intelletto pratico e la phronesis. Avendo stabilito i caratteri generali dell’empiricismo pratico, l’autrice procede ad innestare su questo primo livello funzioni cognitive sempre più complesse, bilanciando e superando il carattere prevalentemente ricettivo implicato nella reazione corporea ad uno stimolo sensoriale. Proprio in questo senso risulterà di cruciale importanza la phantasia, cui è attribuito il ruolo di condizione generale per la determinazione di movimenti orientati ad un fine, che vadano cioè oltre la semplice reazione ad uno stimolo. Stando alla ricostruzione della Moss la phantasia permette infatti di ampliare il range di oggetti in relazione a cui gli animali possono orientare il proprio comportamento, permettendo loro di rivolgersi, oltre che ai sensibili presenti nel dato momento, ad “oggetti assenti” (abstent objects o non-present objects). Essa è infatti in grado non solo di riprodurre il contenuto rappresentativo di una percezione evocata nella memoria o proiettata nel futuro, ma anche di associare a tale contenuto una sensazione di piacere o dolore, ovvero di determinare un’alterazione della regione pericardica che dia inizio al movimento anche in assenza di un oggetto sensibile. Il riferimento della Moss si estende in questo senso oltre i capitoli del De anima e del De motu animalium generalmente indicati come i principali testimoni della teoria aristotelica della phantasia, focalizzandosi sul ruolo che essa gioca nella Retorica, a partire da I.11, per l’esame delle passioni. Se infatti la percezione di un oggetto presente deve la propria piacevolezza al fatto di poter determinare immediatamente un’alterazione somatica, altre affezioni, quali l’ira o la vergogna, non sono determinate da un oggetto presente. Esse dipendono piuttosto dalla capacità di suscitare una determinata rappresentazione - letteralmente una phantasia - di una circostanza desiderabile o vergognosa. La funzione evocativa o presentificatrice della phantasia permette così di rivolgere l’attenzione ad “oggetti non presenti”, di porre innanzi agli occhi una scena o una circostanza, causando le corrispondenti affezioni somatiche. Il ricorso alla phantasia costituisce quindi l’elemento teorico fondamentale per spiegare come eventi non direttamente ed effettivamente esperiti nel dato momento, ed eventualmente solo evocati da un oratore, possano determinare delle affezioni piacevoli o spiacevoli, e spingere conseguentemente all’azione. Su questa scia la phantasia viene vista dalla Moss come la responsabile ultima del phainome- 214 Jessica Moss, Aristotle on the Apparent Good non agathon, ovvero dell’unico modo in cui esseri dotati di facoltà cognitive altre dalla semplice sensibilità possono esperire e riconoscere qualcosa come un bene ed un fine da perseguire. Su questo schema, l’autrice innesta anche la propria analisi del nous praktikos. Circa la facoltà tipica dell’anima umana, la tesi dell’autrice consiste in primo luogo nel sottolinearne la dipendenza dalla phantasia, e quindi nel ribadire che ogni forma di cognizione, per essere capace di determinare un movimento o un’attività, nel determinare un dato oggetto come un bene da perseguire deve anche essere intrinsecamente piacevole o dolorosa. Nel caso dell’intelletto si tratterà quindi di illustrare il modo in cui esso possa per così dire retroagire sulla phantasia, determinando delle rappresentazioni che orientino il comportamento umano. L’esame dell’intelletto deve però anche far fronte ad altri problemi teorici, legati in particolare alla possibilità che il giudizio delle diverse facoltà cognitive circa un determinato oggetto possa divergere. Se infatti è vero che anche il nous per muovere l’uomo deve produrre tramite la phantasia una determinata affezione della zona pericardica, come potrà allora differire la sensazione di un oggetto in quanto piacevole ed il giudizio del medesimo oggetto come un male da evitare? Per affrontare tale problema l’autrice propone di procedere mediante un confronto tra le due forme di intelletto - quello teoretico e quello pratico - con particolare riguardo al decorso che conduce dalla sensazione all’emersione dei primi universali. I passaggi necessari perché abbia luogo l’intelletto teoretico, desunti dal confronto tra Analitici secondi II.1 e Metafisica I.1, sono infatti 1) la percezione ripetuta di un determinato oggetto o di una classe di oggetti; 2) la conservazione di tali percezioni nella memoria, che è una funzione cognitiva strettamente connessa alla phantasia; 3) l’emersione dell’esperienza (empeiria), che già contiene implicitamente gli universali; 4) un procedimento induttivo (epagogē) che colga gli universali e che li utilizzi come punto di inizio delle dimostrazioni (153). La strategia della Moss consiste quindi nel mostrare come questi quattro momenti trovino piena corrispondenza anche nel caso dell’intelletto pratico. Ciò sarà facilmente confermato nel caso della sensazione, incaricata del primo approccio, tipicamente ricettivo, agli oggetti circostanti. Richiederà invece maggior perizia il caso della memoria, ovvero della phantasia, al cui riguardo la Moss si appella alla distinzione tra la phantasia logistikē e quella aisthētikē o bouletikē. La phantasia in questo caso, proseguendo l’opera della sensazione, è incaricata di fornire la materia necessaria alle successive elaborazioni. Nel caso della cognizione pratica, ciò implica che venga preservato, oltre al contenuto rappresentativo, anche l’aspetto emozionale, ovvero la caratterizzazione del dato oggetto come qualcosa di piacevole o di doloroso. L’aspetto cruciale è però qui costituito dall’equivalenza, ipotizzata dalla Moss, tra l’epagogē e l’hexis, ovvero tra i momenti ancora precedenti la prestazione intellettuale vera e propria, ma che pure la caratterizzeranno profondamente. Su tale base infatti la Moss spiega 215 Pietro Giuffrida come solo un individuo ben educato, ovvero predisposto dalla pratica assidua di azioni onorevoli, dispone per ciò stesso di una sensibilità tendenzialmente o prevalentemente in accordo con la determinazione intellettuale del fine delle azioni. La phantasia viene così chiamata a giocare un ruolo duplice: come sensazione residuale, ovvero come memoria, essa costituisce la materia su cui agisce l’intelletto. Intelletto che, in quanto finalizzato all’azione pratica, opera una sorta di sintesi o combinazione di tale materia, il cui risultato è ancora una volta una phantasia, una determinazione del phainomenon agathon come di un fine piacevole. Al termine di questo percorso si trovano quindi delineate tre modalità in cui il movimento può essere suscitato negli animali e negli uomini, distinte a seconda della cognizione da cui scaturiscono, seguendo in questo senso ancora una volta il De motu animalium. Il primo caso, tipico degli animali più semplici e privi di phantasia, ma anche dei comportamenti immediatamente realizzati in reazione a degli stimoli improvvisi, è quello in cui il movimento viene determinato semplicemente da una percezione sensibile. In questo caso «practical (pleasurable, evaluative) perception directly conditions desire» (p. 151). La modalità successiva è quella degli animali dotati di phantasia. In questo caso la percezione resta il punto di partenza nella cognizione del bene, ma la realizzazione dell’orekton è opera della phantasia. L’ultima modalità è quella tipica dell’uomo, che pure partecipa di quelle precedenti, ma nel cui caso il desiderio è tipicamente determinato da una phantasia concepita in seguito ad una deliberazione. L’obiettivo teorico della Moss, ovvero quello di caratterizzare l’etica aristotelica come un empiricismo pratico, in cui ogni motivazione all’azione determina efficacemente il movimento solo se capace di presentare l’oggetto del desiderio come qualcosa di piacevole, sembra così conseguito. Non si tratta solo della dipendenza, di ordine materiale, del nous dalla sensibilità e dalla memoria circa i contenuti da sottoporre ad astrazione. Ma anche e più radicalmente del modo, dell’unico modo possibile, in cui una qualsivoglia forma di conoscenza può determinare un movimento orientato ad un fine, attivando sensatamente il complesso psicosomatico a partire da una piacevole rappresentazione di tale fine. L’esito, stando all’autrice, sarà un ridimensionamento del ruolo svolto dall’intelletto pratico nella determinazione del comportamento umano: la determinazione del bene da perseguire dipende dalle funzioni non razionali dell’anima, che forniscono il contenuto di ogni riflessione intellettuale, e su cui il nous deve retroagire per determinare effettivamente l’attività dell’uomo. In conclusione, il libro presenta una grande varietà di argomenti, manifesta un’indubbia padronanza del corpus aristotelico, e presenta alcune posizioni interpretative indubbiamente originali. Oltre ad inaugurare il tema dell’empiricismo pratico, l’autrice si inserisce energicamente nel contesto delle interpretazioni recenti della phantasia aristotelica, confrontandosi esplicitamente con alcune di esse, e giungendo ad indicare la peculiarità di tale funzione 216 Jessica Moss, Aristotle on the Apparent Good nel riferimento, che essa rende possibile, ad “oggetti assenti”. Formulazione questa che sembra per certi aspetti riprendere, in modo originale, la definizione di Malcolm Schofield, che faceva della phantasia una «non-paradigmatic sensory experience». Rispetto a numerose tentativi recenti di approcciare il tema della phantasia, la Moss ha l’indubbio vantaggio di esaminare, pur seguendo il filo conduttore del phainomenon agathon, la quasi totalità delle occorrenze di phantasia, evitando così di produrre un’interpretazione esclusivamente basata sulle opere biologiche. Inoltre, l’autrice sembra aver ottenuto una convincente ricostruzione del modo in cui Aristotele potrebbe aver inteso la connessione tra attività somatica e psicologica, prendendo in questo senso spunto da una lettura di De anima III.6 e ss. e di De motu animalium 6 e ss. Ricostruendo nei tesi aristotelici un modello cardiocentrico, e descrivendo le affezioni come alterazioni della temperatura della zona pericardica, l’autrice rifiuta di separare la fisiologia aristotelica dalle etiche, accettando esplicitamente la sfida di ricostruire un modello fisiologico diverso da quello correntemente accertato, ma che comunque funge da sfondo teorico comune sia alla disciplina delle passioni implicata nell’etica che alla gnoseologia dell’intelletto teoretico. Le parti del volume dedicate a questi aspetti si avvantaggiano certamente di un confronto serrato con il corpus aristotelico, a cui si è forse troppo sacrificato quello con il dibattito recente. Infatti, con la sua dettagliata ricostruzione degli aspetti somatici della percezione, la Moss di fatto si colloca all’interno del dibattito tra spiritualismo e letteralismo, ponendosi, verosimilmente, a favore di quest’ultima corrente. Nel far ciò l’autrice però ha preferito non discutere esplicitamente il tipo di alterazione (alloiōsis) richiesto ed implicato nella percezione sensibile e nell’intelletto - questione oggi centrale nel dibattito sul De anima. Pietro Giuffrida Università di Palermo Dipartimento FIERI-AGLAIA pietro.giuffrida@unipa.it 217 Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza Per un nuovo realismo ontologico, Carocci, Roma 2012 Filippo Di Trapani Il volume di Markus Gabriel, edito a cura di Simone L. Maestrone e arricchito da una presentazione di Maurizio Ferraris, preso nel suo insieme costituisce un corpo testuale complesso nel quale convergono materiali di diversa estrazione. Si tratta, invero, di materiali redatti in differenti contesti situazionali, ora in funzione didattica (come nel caso del corpo centrale del volume, composto in lingua inglese e concepito per finalità propriamente didattiche), ora in funzione specificamente pubblicistica (con riferimento ad un saggio in lingua tedesca inserito dall’autore a completamento del volume). Tuttavia, a fronte del carattere composito che, sotto il profilo puramente redazionale, definisce il lavoro di Gabriel, sotto l’aspetto prettamente tematico, invece, il libro presenta un profilo piuttosto lineare, e si caratterizza per la sua essenziale omogeneità in rapporto alla proposta teorica in esso contenuta. Sin dall’Introduzione, infatti, appare piuttosto chiaro come l’intento fondamentale del lavoro consista nel tentativo di aprire lo spazio per una svolta ontologica che si configuri, nello specifico, come un cambiamento di direzione rispetto alla matrice logicista (Frege) e logico-trascendentale (Husserl) che ha preformato il modello contemporaneo di ontologia e che ha prospettato, nel contempo, gli sviluppi del Linguistic turn. La svolta ontologica, secondo l’intento programmatico di Gabriel, dovrà dunque assumere le fattezze di una Ontologia iperrealista che, in aperta opposizione agli orientamenti riduzionistici del Linguistic turn, sia capace di disancorare il concetto di essere da ogni tendenziale riduzione e/o risoluzione al piano di consistenza del linguaggio. Rimarcando il profilo costitutivamente universalistico di ogni discorso che voglia presentarsi come ontologico - dunque come considerazione universale sull’esistenza in quanto tale, a prescindere dalle sue molteplici ed indefinite specificazioni - Gabriel si fa portatore di un’istanza di superamento del limitato/limitante orizzonte di riflessione aperto dai pensatori del Linguistic turn. Secondo Gabriel, infatti, un’ontologia, e nella fattispecie un’ontologia iperrealista, può costituirsi come tale se e solo se è definita dal riferimento strutturale all’interezza dell’esistente. Ciò significa che il problema fondamentale dell’ontologia non sta nel rilevamento delle condizioni che mediano il nostro accesso all’essere (siano esse condizioni linguistiche, strutture a a priori, caratteri funzionali della sfera noetica, ecc...), quanto nella definizione dell’esistenza in quanto tale, considerata a partire della sua originaria e costitutiva intellegibilità. In questo senso, infatti, il programma ontologico-realistico sviluppato nel presente volume assume i caratteri di quello che l’autore definisce nei termini Filippo Di Trapani di un Idealismo minimale di matrice parmenidea, dal momento che «l’idealismo sostiene soltanto, in modo minimale, che l’esistenza sia intellegibile. Questo è l’idealismo minimale che troviamo nella tradizione parmenidea, tradizione che anche Badiou sottoscrive esplicitamente» (pag. 93). Il nuovo realismo ontologico, dunque, pone al centro del proprio discorso l’esistente di per sé, mirando allo sviluppo di una nozione di essere/esistenza sufficientemente potente da qualificare in termini di esistenza reale ogni oggetto come tale. Riagganciandosi al repertorio problematico fregeano, Gabriel sostiene infatti che l’esistenza non può essere intesa come una proprietà propria, vale a dire come un carattere di specie che qualifica alcune classi di oggetti escludendone altre. L’esistenza, cioè, non è concepibile come una proprietà tra le tante, né come una proprietà collocata in posizione privilegiata rispetto alle altre proprietà, perché anche così potrebbe figurare come proprietà propria e/o come nota caratteristica discriminante, infatti: «Chiamiamo proprietà propria una proprietà in riferimento alla quale ci viene permesso di distinguere l’oggetto a cui la proprietà è attribuita da altri oggetti del mondo» (pag. 41). All’interno di questo piano di considerazione, la nozione di esistenza si presenta come la differenza specifica che definisce la regione dell’estensione spazio-temporale e la differenzia dalle altre regioni ontologiche. Tuttavia, un dispositivo ontologico entro il quale gli unici oggetti realmente esistenti sono quelli che si estendono nella dimensione spazio-temporalmente configurata, presenta una limitatezza strutturale in ragione del fatto che contempla come esistenti solamente gli oggetti fisici, escludendo dal dominio dell’esistenza reale tutti gli enti non riducibili alle modalità di organizzazione spazio-temporali. Un’ontologia declinata in senso fisicalista, perciò, non risponde a quell’istanza universalistica che deve definire qualsivoglia programma ontologico. Del resto, qualora l’ontologia sviluppasse una reductio dell’esistenza reale ai soli oggetti dello spazio-tempo, essa si qualificherebbe automaticamente come un’ontologia regionale, e perciò, come tale, sarebbe strutturalmente impedita nel riferimento all’interezza dell’esistente. In rapporto a questa specifica nozione di esistenza, l’ontologia iperrealista si costituisce secondo la regola della despaziotemporalizzazione ontologica, una norma secondo la quale «il concetto di oggetto non è identico al concetto di oggetto spazio-temporale» (pag. 75). Del resto, sostiene Gabriel, la nozione di Esistenza può essere intesa in senso forte nella misura in cui, non figurando come proprietà propria, presenta una universalità tale da essere applicabile a tutti gli oggetti, a prescindere dalla loro specifica collocazione regionale: «Di conseguenza l’esistenza non può diventare pienamente simile ad una proprietà propria» (pag. 43). Ora, se l’esistenza si configura come la proprietà costituente dell’oggetto tolta la quale si toglie l’oggetto stesso - in questo preciso frangente non può 220 Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza che emergere la necessità di un concetto revisionario di esistenza, «intendendo per revisionario un concetto di esistenza che, come minimo, non afferma né che l’esistenza sia una proprietà propria, né che essa sia una proprietà che si trovi nello spazio-tempo o che possa essere percepibile» (pag. 43). Il primo capitolo del volume, Significato ed esistenza, intende con ciò rispondere alla domanda fondamentale che tradizionalmente ha delineato lo spazio operativo dell’ontologia, cioè: «Che cos’è, allora, l’esistenza?» (pag 47). Ribaltando la matrice logico-trascendentale dell’ontologia contemporanea, e prendendo le distanze dall’ontologia dualistica di Frege, Markus Gabriel propone espressamente di «definire l’esistenza come l’apparizione in un mondo» (pag. 47) aggiungendo che l’esistenza «non è la relazione di rientrare sotto un concetto o di soddisfare una funzione» (pag. 47), come sosteneva Frege, «ma il fatto che qualcosa appaia all’interno di un campo di senso, che sia all’interno di un mondo» (ibidem). E rispondendo alla domanda su che cos’è il senso, a pag. 77 aggiunge: «Il senso è una modalità di organizzazione tale per cui qualcosa viene ad essere presentato in modo particolare». L’esistenza, dunque, è apparizione relativa ad un campo, o apparizione in un mondo. In base a tale definizione fondamentale, Gabriel formula il concetto di esistenza campo relativa, modulando la questione ontologica a partire da quello che, a pag. 26 dell’Introduzione, l’autore definisce come il condizionale di base attorno a cui è costruito il concetto revisionario dell’esistenza: «Se c’è qualcosa piuttosto che niente, allora ci sono dei fatti che rendono possibile l’esistenza delle cose che esistono. Chiamiamo questo il condizionale di base» (pag. 26). Ogni oggetto, dunque, esiste nella misura in cui soddisfa il condizionale di base, cioè l’apparizione all’interno di un campo di senso. Inoltre, l’esistenza di un oggetto all’interno di un campo di senso è a sua volta condizionata dalle modalità di organizzazione dello specifico campo di pertinenza. Appropriandosi espressamente di alcune intuizioni contenute nella teoria formale dell’oggetto di Alexius Meinong, e prospettandone nel contempo un superamento, Gabriel rifiuta la distinzione tra esistenza reale ed esistenza possibile (Meinong distingue ancora tra mondo reale e mondi possibili), argomentando a sostegno della tesi secondo la quale la condizione necessaria d’esistenza è data dalla conformità alle regole costitutive di un campo di senso, motivo per il quale anche il possibile esiste realmente/attualmente nel campo di senso del possibile. Da ciò segue l’insensatezza di qualsivoglia distinzione tra esistenza possibile ed esistenza reale, poiché, afferma l’autore, «Tutto ciò che esiste è attuale. Anche il possibile, come ciò che esiste nel campo di senso del possibile, è attuale in un ordine superiore: è attualmente possibile» (pag. 111). Ma l’iperrealismo di Gabriel non si limita a fare cadere la tradizionale distinzione tra oggetti reali ed oggetti possibili, ma si spinge fino al punto da considerare come possibile, dunque come realmente esistente, anche lo stesso impossibile, dato che «anche nel campo di senso dell’impossibile, l’impossibile è possibile» (pag. 107). Se l’impossibile è allora possibile, ne consegue di ne- 221 Filippo Di Trapani cessità che l’impossibile esiste realmente come tutti gli oggetti che soddisfano le condizioni definite dell’organizzazione di un campo. Riconfigurando il concetto di esistenza, inoltre, l’ontologia iperrealista sviluppata nel volume in questione perviene alla conclusione secondo la quale, poiché tutto esiste, le affermazioni d’esistenza negative non esprimono affatto la negazione assoluta ed incondizionata dell’esistenza di un oggetto, infatti: «Ogni affermazione d’esistenza negativa esclude un oggetto da alcuni campi di senso, includendolo in altri» (pag. 48). E riproponendo la modulazione platonica del problema dell’essere, Gabriel aggiunge: «Del resto, la tesi secondo cui tutte le affermazioni d’esistenza negative sono in questo senso relative è una tesi che si trova già in Platone. Egli intendeva proprio questo quando nel Sofista affermava che il non-essere è essere diversamente» (pag. 48). Le affermazioni d’esistenza negative, in ultima analisi, esprimono il concetto di esistenza campo relativa, un concetto che implica l’esistenza di transfinitamente molteplici campi di senso e che rende ancora più esplicito quello che Gabriel definisce come «fatto ontologico dell’appartenenza multipla», ovvero il fatto secondo cui l’Essere si presenta in una pluralità indefinita di modi/campi di senso: «Eppure, non esiste qualcosa come l’essere in senso eminentemente singolare. Esso è disponibile esclusivamente nella transfinita moltiplicazione dei campi di senso» (pag. 93). L’Essere, in tal senso, non solo è intellegibile originariamente, dal momento che «L’intellegibilità è sufficiente ed è garantita dall’identificazione dell’esistenza con l’apparizione in un campo di senso» (pag. 94), ma l’essere/esistenza, sulla scorta della dottrina aristotelica delle categorie, si dice in molti modi, poiché «questa pluralità di campi implica la plurivocità dell’essere» (pag. 94). Ogni singolo oggetto, perciò, può apparire in una molteplicità di campi, senza con ciò perdere la propria identità, dal momento che «l’identità di qualsiasi oggetto si realizza solo attraverso la molteplicità delle sue manifestazioni» (pag. 115). Riportando uno degli esempi offerti da Gabriel, possiamo ben comprendere cosa vuol dire che un oggetto può esistere in transfinitamente molteplici campi di senso: «Osservate una bottiglia d’acqua. Questa bottiglia d’acqua potrebbe apparire in un campo di senso strutturato in maniera economica [...]. Allo stesso tempo potrebbe apparire nel campo di senso della mia sete [...]. Inoltre la bottiglia può apparire nel campo di senso della fisica [...]. Ora, qual è la bottiglia, o più precisamente: che cos’è? Beh, non è altro che questa pluralità di apparenze» (pp. 53, 54). Dunque tutto esiste, e l’esistenza è l’apparire in un campo (Eleatismo della pluralità dei campi). Tuttavia, per salvaguardare il principio fondamentale che innerva l’ontologia iperrealistica - cioè che tutto esiste - Gabriel si vede costretto, in forza della cogenza della sua stessa argomentazione, a negare l’esistenza di un mondo inteso come insieme onnicomprensivo. 222 Markus Gabriel, Il senso dell’esistenza Per potere sostenere che tutto esiste, e che le affermazioni di esistenza negative esprimo l’essere diversamente piuttosto che il non essere assoluto, l’autore sostiene a più riprese che è necessario negare assolutamente l’esistenza del mondo come intero onnicomprensivo. La necessità di questa negazione di senso assoluta si rende necessaria per due ordini di ragioni: 1. Se esistesse un mondo come totalità onnicomprensiva, questo intero assoluto conterrebbe la totalità dell’essere ed estrometterebbe da sé il non essere. Ma se tutto esiste, ed esiste in un campo, l’intero onnicomprensivo non può essere distinto da un insieme vuoto, perché anche il concetto di insieme vuoto figurerebbe/esisterebbe in un mondo/campo, ed in quanto esistente in un mondo non può essere concepito affatto come ciò che sta fuori dal mondo. Perché tutto esista, quindi, il mondo come insieme onnicomprendente non può esistere. 2. Se tutto ciò che esiste appare in un campo, allora anche la totalità intesa appunto come campo di senso dei campi di senso - dovrebbe a sua volta apparire in un campo di senso ancor più originario. In questo modo si verificherebbe un regressus ad fundamentum che non può approdare a nessuna struttura di senso ultima comprendente tutte le province ontologiche, quindi afferma Gabriel: «Certamente il mondo non può apparire in nessun altro dominio, se questo si concepisce come il dominio di tutti i domini. Di conseguenza il mondo non esiste» (pag. 132). In definitiva, se ogni modalità/possibilità di organizzazione è contenuta in un campo di senso, in assenza di un campo di senso ultimo dei campi di senso non può esistere una metaregola che contiene tutti i modi possibili di organizzazione di transfiniti campi di senso. Sostenendo ciò, e ribadendo che esistono solo transfinite province ontologiche e transfiniti modi di organizzare gli oggetti, l’ontologia iperrealista decostruisce la pretesa - propria dell’ontologia husserliana - di rilevare una struttura ontologica prestabilita ed onnicomprensiva (ontologia formale), che innerva aprioristicamente ogni singola regione ontologica. Proprio quella struttura di senso ultima, che per Husserl era espressa dal linguaggio logico-ideale, secondo Gabriel non ha ragion d’esistere per il semplice fatto che, qualora esistesse, dovrebbe a sua volta essere contenuta in un altro dominio contenente. L’altro significativo bersaglio del programma presentato in questo volume è costituito, come accennato in apertura, dal Linguistic turn, con particolare riferimento all’ermeneutica contemporanea. Come è evidente si tratta di un referente polemico piuttosto impegnativo, se si tiene presente che la svolta linguistica ha condizionato parte cospicua della ricerca filosofica del novecento sia in area analitica che continentale. Tuttavia, gli argomenti di Gabriel determinano una vera e propria contro-versione dei 223 Filippo Di Trapani principi fondamentali dell’ermeneutica di Gadamer, scalzandola a partire dalle sue radici heideggeriane. Secondo Gabriel, infatti, costituendo il linguaggio una tra le tante cose esistenti, esso non può, per struttura, fagocitare ed esaurire nel proprio dominio la nozione di essere/esistenza. Se il linguaggio è un esistente tra gli esistenti, ne consegue che il fatto linguistico esiste nella misura in cui è inserito in un campo di senso organizzato secondo regole proprie. Il linguaggio, dunque, si manifesta in un campo di senso tra campi di senso, e come tale non figura né come l’unico canale possibile di accesso all’essere/esistenza (visto che l’esistenza campo relativa si definisce per la sua originaria intellegibilità e, come tale, non necessita di canali d’accesso), né come struttura di senso ultima (dominio dei domini) che definisce una volta e per tutte la nozione di essere/esistenza. Nelle sue Conclusioni, del resto, Gabriel afferma icasticamente che «l’accesso all’esistente esiste di per sé. Per questo non siamo intrappolati nel linguaggio, ma grazie ad esso siamo nel mondo stesso. Dunque dobbiamo correggere Heidegger: non la casa dell’Essere è il linguaggio, ma l’Essere (l’esistente) è la casa del linguaggio. Per quanto il linguaggio abbia interessanti proprietà, esso esiste a fianco a molte altre cose, ad esempio i pruriti» (pag. 145). Filippo Di Trapani filippoditrapani@live.it 224 Laura Candiotto, Le vie della confutazione I dialoghi socratici di Platone, Mimesis, Milano 2012 Omar Di Paola Il volume consta di cinque capitoli, preceduti da un’introduzione e da una prefazione, quest’ultima a cura di Luc Brisson, a cui seguono una conclusione, un’appendice sul ruolo del dialogo socratico nel contemporaneo, ed una postfazione redatta dal Luigi Vero Tarca. Come dichiarato dall’autrice fin dalle prime battute dell’opera, questa verte sul ruolo e sulle finalità insite nella metodologia elenctica propria dei dialoghi socratici. In tal senso la Candiotto apre il suo lavoro con un’analisi dello stile letterario dei dialoghi platonici, al cui riguardo nota come gli aspetti letterari siano intimamente connessi alla comprensione del testo filosofico e, rifacendosi ad un recente studio di Gill, riporta le principali correnti che hanno caratterizzato l’approccio contemporaneo ai testi platonici, distinguendo essenzialmente tre prospettive di lettura “classiche” a cui va aggiunta una quarta, verso la quale la stessa autrice sembra propendere. Vi è un approccio “tradizionale” che presta principalmente attenzione alle dottrine espresse dai testi, non ponendo attenzione allo stile, interpretando i dialoghi come espressione della filosofia socratica, individuando nell’interlocutore principale il portavoce delle dottrine platoniche. Teorici di tale indirizzo sono individuati in: Shorey, Cherniss, Brisson, Pradeau. Altro tipo di approccio è rappresentato dalla via “analitica”, che pone l’attenzione sul metodo dell’argomentazione platonica. Esponenti principali di tale corrente sono Owen e Vlastos. La terza è quella “esoterica”, sostenente che le principali dottrine platoniche non siano contenute nei dialoghi, ma da rintracciare nelle cosiddette dottrine “non scritte”, accessibili solo a pochi eletti e di cui i dialoghi porterebbero i segni. Sostenitori di tale indirizzo sono Gaiser, Krämer, Slezak, Reale. Quarta modalità di approccio è quella di cui si fa portavoce Gill, definita come “maieutica”, secondo la quale Platone ha scelto la forma dialogica per stimolare il lettore e l’uditore alla ricerca. In tal senso «Socrate (e così Platone) non indirizza le sue domande solo agli interlocutori presenti all’interno del dialogo, ma anche al lettore antico e contemporaneo». All’interno di questo contesto l’autrice si fa portavoce di una posizione che chiama “maieutica ristretta”, in quanto, pur accettando le proposte di fondo fatte da Gill, rifiuta di ritenere che il dialogo nell’ottica e nelle intenzioni platoniche fosse inteso come modo per influenzare il lettore (p. 35). In quest’ambito la Candiotto sviluppa la sua tesi principale e più interessante, ritenendo sulla scorta di Ryle che i dialoghi non fossero solamente letti, sia in privato che in pubblico, ma che fossero anche messi in scena pubblicamente a mo’ di tragedia, e di conseguenza concepisce la funzione dell’elenchos come rivolta non solamente all’interlocutore diretto a cui “Socrate” si rivolge, ma all’intero pubblico osservante (p. 31). In tal Omar Di Paola senso attraverso questa dinamica, che l’autrice chiama «elenchos retroattivo», la Candiotto ipotizza, opponendosi alla lettura esoterica, che i primi dialoghi non abbiano solo una funzione apologetica della memoria socratica rivolti a pochi amici, ma rivestano una portata più ampia, proponendosi di incidere sull’intero pubblico. Infatti essendo l’elenchos una sorta di “purificazione”dalle idee erronee, l’“elenchos retroattivo” si pone come presa di coscienza pubblica degli errori dell’interlocutore di Socrate, rendendo il pubblico consapevole dell’inadeguatezza politica dei propri rappresentanti, ponendo in tal modo le basi per un cambiamento etico-politico (p. 33). L’elenchos retroattivo diventa quindi una sorta di “purificazione collettiva” dalla coscienza della comunità. L’analisi continua con la differenziazione tra metodo dialogico, metodo retorico e metodo dialettico. Come punto di partenza per la definizione del metodo dialogico la Candiotto prende le mosse dalla descrizione fatta da Diogene Laerzio dei “logoi sokratikoi”, che evidenzia come questi siano caratterizzati dalla presenza della dinamica di domanda e risposta su questioni di genere filosofico o politico. Altro tratto caratteristico dei dialoghi socratici rilevati dall’autrice è, come detto, la presenza del metodo elenctico, che tuttavia non presenta un carattere esclusivamente negativo, in quanto connesso al tema etico del miglioramento del sé è visto in chiave pedagogica come purificazione dagli errori. In tal senso la Candiotto precisa come sebbene esista un’asimmetria evidente tra il ruolo di Socrate e quello dei suoi interlocutori, tuttavia il discorso “socratico” si caratterizzi sia per il suo carattere di ricerca cooperativa della verità, sia per le sue precise finalità etiche miranti alla “cura dell’altro” attraverso la prospettiva dialogica di messa in discussione del sé (p. 65). Prendendo come filo conduttore la dimensione retorica, invece, si nota come nei testi platonici siano distinte due tipologie di retorica: una per così dire “volgare”, tipica dei sofisti, ed una detta “vera retorica”. Il discrimine che contraddistingue queste due tipologie di retorica è “l’uso” che se né fa. La retorica utilizzata per la mera persuasione è quella “volgare” dei sofisti, mentre quella platonica, operante anch’essa attraverso la persuasione ma mirante al miglioramento dell’anima, piuttosto che ad un tornaconto personale è detta “vera retorica”(p. 69). In tal senso si mette in evidenza, sulla scorta di Foucault, come la differenza principale che intercorre tra retorica e filosofia sia che la prima risulta incapace di usare un logos veritiero (p. 70). Dopo tale disamina viene evidenziato l’uso della retorica fatto da Socrate. Quantunque questi, attraverso di essa inganni più volte i suoi interlocutori portandoli a conclusioni contraddittorie, il suo utilizzo nasconde, a detta della Candiotto, la volontà platonico-socratica di fare emergere gli errori dei modelli negativi rappresentati dagli interlocutori che di volta in volta Socrate si trova di fronte, innescando negli uditori quel processo educativo già designato come “elenchos retroattivo”. In tal senso emerge- 226 Laura Candiotto, Le vie della confutazione rebbe chiaramente la portata etico-politica del discorso platonico, alla luce del miglioramento a cui vanno incontro sia interlocutore che uditorio, per l’abbandono di concezioni errate (p. 76). Il discorso dialettico invece segna per certi versi una rottura con il discorso socratico, in quanto a differenza di quest’ultimo assume un ruolo più positivo rispondendo «alla necessità di apprendere ed esporre la realtà vera (l’ousia)»(p. 85). Tuttavia, a detta della Candiotto, la dialettica non rappresenta un reale punto di rottura con il discorso socratico, in quanto si pone in una relazione di continuità rappresentando il discorso dialettico, lo stadio di apprendimento successivo a quello dialogico. Proprio l’elenchos rappresenta la continuità del metodo essendo presente anche nel discorso dialettico, pur agendo in maniera differente. Se nel dialogo socratico esso è diretto all’interlocutore andando ad analizzare le sue tesi ma anche il suo modo di vivere, nella dialettica la confutazione è per certi aspetti “disincarnata” e operante essenzialmente a livello concettuale. A ciò segue una minuziosa catalogazione delle strutture fondamentali del dialogo platonico (p. 91) ed un’analisi dettagliata di tre dialoghi “socratici”(Lachete, Carmide, Gorgia). In tal senso si rileva come ogni dialogo platonico si stagli nell’orizzonte di un preciso background storico-temporale (ad esempio la festività che introduce il primo libro della Repubblica) che funge da cornice per lo stesso, inquadrando, in un certo senso, implicitamente la tematica stessa del dialogo. Ciò si collegherebbe inestricabilmente con il ruolo e la caratterizzazione assunta dai personaggi nei dialoghi, che nel loro essere figure storiche incarnerebbero l’essenza stessa dell’uomo in cui la virtù si dovrebbe instillare. Inoltre viene messo in luce il ruolo della vergogna all’interno del metodo elenctico, sentimento generato dall’essere confutati. In tal senso l’autrice mette in rilevo come il sentimento di vergogna agisca da stimolo al cambiamento senza tuttavia condurre necessariamente al riconoscimento dell’errore, in quanto solo la disposizione dell’interlocutore può portare a ciò. Emblematico al riguardo appare l’atteggiamento di Gorgia che secondo il suo allievo Polo non voleva fare certe asserzioni per la “vergogna” a cui la contraddizione lo avrebbe portato (p. 172). Ciò mostra, a detta della Candiotto, come l’approccio socratico muti in base all’atteggiamento dell’interlocutore che Socrate si trova ad affrontare (p. 135). In tal senso viene rilevato come la disposizione d’animo dell’interlocutore risulti centrale nell’attuazione del miglioramento sottolineando come la confutazione di Socrate non si muova solamente su un piano concettuale ma si configuri come critica all’intero stile di vita che l’interlocutore ha e rappresenta. Così, secondo l’autrice, la confutazione non sarebbe e non potrebbe mai essere confinata al mero interlocutore socratico ma si estenderebbe all’intero uditorio, rendendo possibile quel fenomeno di “purificazione di massa“ capace di veicolare, nelle intenzioni platoniche, il cambiamento etico-politico della società. Nell’identificazione del fenomeno denominato “elenchos retroattivo” con- 227 Omar Di Paola siste il contributo più rilevante che quest’opera offre al lettore. Esso configurerebbe in ultimo, a detta dell’autrice, la filosofia platonica su un orizzonte prevalentemente pratico, riportando in un certo qual modo nel mondo sensibile un iperuranio la cui conoscenza al di fuori di questo mondo e al di fuori della dinamica comunitaria io-tu di cui il dialogo si fa portavoce risulterebbe priva di senso. Omar Di Paola Università degli Studi di Palermo Dipartimento Fieri-Aglaia omar.dipaola@unipa.it 228