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L’“ADATTAMENTO” DEL DIRITTO
INTERNAZIONALE AI PRINCIPI COMUNI
AGLI ORDINAMENTI INTERNI E I SUOI LIMITI
DONATO GRECO · OTTOBRE 5, 2021
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Donato Greco (Università di Napoli “Federico II”)
1.Queste pagine raccolgono alcune riXessioni preliminari sui principi generali di diritto sollecitate dalla
progressiva pubblicazione dei lavori che la Commissione del diritto internazionale (CDI) ha deciso di
dedicare a tale fonte giuridica, e alle incertezze che ancora l’avvolgono. Il seminario su «Adattamento
del diritto internazionale al diritto interno?» è stato l’occasione per restringere il campo d’indagine su
di uno speci?co punto emerso, con particolare evidenza, nel secondo rapporto del Relatore speciale
Vazquez-Bermúdez. Ci si riferisce all’idea per cui la trasposizione dei principi comuni ai sistemi giuridici
interni nel diritto internazionale incontri un limite nella compatibilità con i principi fondamentali di
questo ordinamento (cfr. conclusione n. 6).
Consci della di_coltà di trattare un tema attorno al quale è ?orita una produzione scon?nata nello
spazio di un blog post, ci si limiterà qui ad oMrire alcuni spunti per una rilettura dell’art. 38, par. 1, lett.
c), dello Statuto della Corte internazionale di giustizia (CIG) in chiave di norma di «adattamento» del
diritto internazionale agli ordinamenti interni, per poi mettere in luce natura e limiti di tale relazione.
Nonostante i lavori della CDI, invero non senza di_coltà, cerchino di ricondurre nel campo di
applicazione di questa disposizione anche i principi generali sorti nell’ordinamento internazionale (cfr.
conclusione n. 3), l’analisi si incentrerà esclusivamente sui principi comuni in foro domestico, poiché in
tale categoria è implicita l’idea di un’integrazione del diritto internazionale da parte dei sistemi giuridici
interni (Bjorge, p. 534).
2. Domandarsi se esistano ipotesi in cui il diritto internazionale si “adatti” al diritto interno potrebbe
forse sembrare un interrogativo insolito, il quale, in realtà, sottende una prospettiva d’indagine
“rovesciata” sui rapporti tra i due ordinamenti in parte già percorsa in studi più risalenti. La dottrina
del primo Novecento, infatti, aveva evidenziato che il diritto internazionale, al pari degli altri sistemi
giuridici, non abbraccia una visione solipsistica, laddove, invece, variamente mostra di “riferirsi” e
“prendere in considerazione” l’esistenza degli ordinamenti statali. Per descrivere tale relazione,
tuttavia, al concetto di “adattamento” sono stati tradizionalmente preferiti, di volta in volta, quelli di
“delegazione”, “rinvio” o “presupposizione” (rispettivamente: Kelsen, General Theory of Law and State,
Harvard University Press, Cambridge, 1945, p. 348 ss.; Anzilotti, Corso di diritto internazionale (Ad uso
degli studenti dell’Università di Roma), I. Introduzione – Teorie generali [1912], Roma, Athenaeum, 19283,
pp. 56-61; Romano, Corso di diritto internazionale [1926], Cedam, Padova, 19292, p. 46). Questa scelta
terminologica, in favore di categorie diverse da quella di “adattamento”, in sé non in?cia la possibilità
di ricorrere a tale nozione, ma può essere letta come un indice della non perfetta simmetria tra il
modo in cui il diritto internazionale si rivolge agli ordinamenti interi e l’ipotesi inversa.
Pertanto, di adattamento del diritto internazionale al diritto interno crediamo possa legittimamente
parlarsi in questa sede, tenendo però conto della non piena reciprocità che caratterizza il rapporto tra
i due ordinamenti. La proposta di rileggere l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG si muoverà
entro questo preciso orizzonte.
3. La natura dell’art. 38, par. 1, lett. c), ha nel tempo alimentato un fervido dibattito. Sotto l’inXuenza
della dottrina internazional-privatistica, coltivata dalla maggioranza dei pubblicisti (in particolar modo
italiani), per la quale il coordinamento tra ordinamenti giuridici costituisce una questione identitaria, in
letteratura, talvolta, è stata avanzata la tesi secondo cui la disposizione con?guri un rinvio agli
ordinamenti interni. Non essendo possibile discutere analiticamente in questa sede le diverse
soluzioni prospettate, ci si limita a segnalare quelle più rappresentative.
In questo quadro un primo gruppo di autori ha fatto ricorso al modello del rinvio materiale (o
ricettizio): l’art. 38, par. 1, lett. c), autorizzerebbe il giudice a recepire i principi comuni in foro
domestico, di cui intendesse fare applicazione, direttamente nella sentenza internazionale, la quale,
pertanto, acquisirebbe carattere dispositivo più che dichiarativo del diritto esistente (Anzilotti, op. cit.,
p. 107; Morelli, op. cit., p. 46; Brierly, pp. 77-78; Heller, Die Souveränität. Ein Beitrag zur Theorie des
Staats- und Völkerrechts, de Gruyter, Berlin-Leipzig, 1927, p. 139; Sereni, Principî generali di diritto e
processo internazionale, GiuMrè, Milano, 1955, pp. 8-10). In alternativa, ma sempre nell’ambito dello
stesso modello, è stata avanzata l’idea per cui tali principi sarebbero stati recepiti «in blocco» nella
disposizione dello Statuto che li evoca (Salvioli, “La Corte permanente di giustizia internazionale”, in
Rivista di diritto internazionale, 1923, p. 11 ss., p. 450 ss. e 1924, p. 272 ss., p. 283, nt. 1). Se tale
accorgimento ha il merito di riconoscere i principi come fonte formale, in via generale e preventiva
rispetto all’emanazione della sentenza, è capace di far ciò al costo di assorbirli nella norma
(convenzionale) di rinvio, circoscrivendone pertanto l’e_cacia alle parti che hanno rati?cato lo Statuto
della CIG.
Più di recente vi è chi ha letto nell’art. 38, par. 1, lett. c), un rinvio formale, in virtù del quale una fonte
normativa estranea all’ordinamento acquisisce al suo interno un rilievo giuridico che altrimenti non
avrebbe (Rasi, “Lo sviluppo dei principi generali di diritto nel tempo”, in Rivista di diritto internazionale,
2020, p. 959 ss., p. 987). Nonostante, a nostro avviso, questa costruzione rappresenti la forma più
evoluta di rinvio, un duplice ordine di ragioni ci impedisce di aderirvi. In primo luogo, vale la
constatazione che un principio comune in foro domestico, per de?nizione, non è attribuibile ad un
ordinamento «nella giuridicità ad esso inerente», come il modello del rinvio formale richiederebbe, ma
al «patrimonio giuridico comune» (Weil, p. 146) ai sistemi giuridici nazionali, il quale, in sé, non
rappresenta un ordinamento giuridico, essendo invece concepibile solo per astrazione. Inoltre, non
bisogna dimenticare che il principio generale di diritto è frutto di un’analisi comparativa che seleziona
e ricombina materiale normativo proveniente dagli ordinamenti interni, ?no a plasmare un
denominatore comune anche molto diverso dal principio vigente, nella sua integrità, in ciascun
ordinamento statale separatamente considerato. Si tratta, dunque, di un’unità normativa minima che
assume la forma del valore più che quella della regola e, come tale, non si presta ad essere recepita
mediante rinvio.
4.«The law common to peoples, and the law between the peoples, the one as the reXection of the
other». Con queste parole O’Connell descriveva la relazione tra diritto internazionale e ordinamenti
interni implicita dietro la categoria dei principi comuni in foro domestico (International Law [1965],
Stevens, London, 19702, p. 10). Contro la teoria del rinvio milita infatti un’altra parte della dottrina che
considera i principi generali di diritto comuni agli ordinamenti interni come fonte del diritto
internazionale non solo autonoma, ma anche originaria: «veri principi di diritto internazionale»
(Quadri, Diritto internazionale pubblico [1949], Liguori, Napoli, 19685, p. 126; così anche Pellet, Müller,
par. 268). Tale ordinamento «non accoglie già come norme proprie quei principi […] di altri
ordinamenti, ma soltanto attribuisce al fatto che essi esistano in altri ordinamenti […] il valore di un
fatto produttivo di determinate conseguenze giuridiche internazionali» (Balladore Pallieri, I “principi
generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” nell’art. 38 dello Statuto della Corte permanente di
giustizia internazionale, Istituto giuridico della R. Università, Torino, 1931, pp. 86-87; Sperduti, Lezioni di
diritto internazionale, GiuMrè, Milano, 1958, p. 80).
La confusione sorta attorno all’interpretazione dell’art. 38 sarebbe allora da attribuirsi alla circostanza
che «la coscienza giuridica internazionale […] ha tendenza a formarsi parallelamente alla coscienza
giuridica interna» e che, semplicemente, i principi in esame hanno maggiore occasione di manifestarsi
in foro domestico (Quadri, op. cit., p. 126; nella stessa direzione Barile, Lezioni di diritto internazionale
[1977], Cedam, Padova, 19832, p. 91; Betti, Problematica del diritto internazionale, GiuMrè, Milano, 1956,
p. 46). In questa prospettiva, che a noi pare preferibile, il diritto interno verrebbe in rilievo come
indizio, o fatto-prova, dello «status conscientiae degli Stati», che, quando converge in una medesima
direzione, «è egualmente decisivo per l’ordinamento internazionale» (Betti, op. cit., p. 46).
Emerge, dunque, la funzione sussidiaria, nel senso più letterale di «sostegno» del sistema, che l’art. 38,
par. 1, lett. c), a_da agli ordinamenti statali. Riadattando una fortunata immagine, può dirsi allora che
la norma funge da «trasformatore permanente» di valori normativi riconosciuti dalla comunità degli
Stati in valori propri dell’ordinamento internazionale. Entro tali termini, essa svolge nell’ordinamento
internazionale una funzione simile, seppur specularmente inversa, a quella che l’art. 10, co. 1, Cost.
esercita in quello italiano; simile ma non identica, in quanto, al di là del rovesciamento di prospettiva,
nel caso dell’art. 38, par. 1, lett. c), il raccordo tra i due ordinamenti non si esplica attraverso un
meccanismo di rinvio per i motivi (e con le conseguenze) sopra indicati.
5.Se il ricorso ai principi comuni in foro domestico senz’altro testimonia un’apertura del diritto
internazionale nei confronti degli ordinamenti interni, tale apertura non è però incondizionata.
Quest’esigenza di coerenza è stata recentemente sintetizzata nella conclusione n. 6 del Progetto di
conclusioni presentato dal Relatore speciale Vazquez-Bermúdez, secondo cui «[a] principle common to
the principal legal systems of the world is transposed to the international legal system if: (a) it is
compatible with fundamental principles of international law». Nel caso in cui il test consegni un esito
negativo, il principio giuridico, pur generalmente riconosciuto dalla comunità degli Stati, non può
essere considerato come un principio dell’ordinamento internazionale.
Si tratta di un’idea che trova riscontro in precedenti studi di dottrina. Se alcuni autori individuano un
limite nell’aderenza allo «spirito» di questo ordinamento (Spiropoulos, Die allgemeinen
Rechtsgrundsätze im Völkerrecht. Eine Auslegung von Art. 38/3 des Statuts des Ständigen Internationalen
Gerichtshofs, Institut für Internationales Recht, Kiel, 1928, p. 35), altri considerano i principi riconosciuti
nei sistemi giuridici interni applicabili nel diritto internazionale «in so far as they are applicable to
relations of States» o, il che è lo stesso, nella misura in cui «[est] respectée […] la diMérence de
structure entre l’ordre juridique national et l’ordre juridique international» (rispettivamente
Oppenheim, pp. 36-37 e Simma, Paulus, Le rôle relatif des diYérentes sources du droit international (dont
les principes généraux de droit), in Ascensio et al. (a cura di), p. 67 ss., p. 75).
Vi sono poi autori che hanno descritto questo rapporto dialettico in termini più strettamente
normativi, rilevando che «[w]hen the Court ?nds that there is convergence in the relevant aspects of
municipal laws, an additional test should concern the compatibility of the principle emerging from
municipal laws with the framework of the principles and rules of international law within which the
principle would have to be applied» (Gaja, p. 39). Una perfetta sintesi del modo in cui opera il limite in
seno all’art. 38 è già rintracciabile nel manuale di Balladore Pallieri: «i principi di cui si tratta, per
riuscire applicabili nell’ordine internazionale, non devono essere in contrasto con i più generali criteri
che informano di sé gli istituti e le norme di cui questo è composto. Il limite, sebbene non
esplicitamente enunciato nell’art. 38, è implicito nella funzione stessa di questi principî» (Balladore
Pallieri, Diritto internazionale pubblico [1937], GiuMrè, Milano, 19628, p. 98).
Sul punto i lavori della CDI appaiono in linea con una prassi piuttosto consolidata. Nell’aYare delle
concessioni Mavrommatis a Gerusalemme (1924), ad esempio, la CPGI è stata chiamata a valutare
l’ammissibilità di un’eccezione sulla giurisdizione presentata in limine litis. Riscontrando un vuoto
normativo tanto nello Statuto quanto nel Regolamento, la stessa ha espressamente rivendicato il
potere di ricorrere ai principi generali di diritto «which it considers […] in conformity with the
fundamental principles of international law» (p. 16). Nel caso Dickson Car Wheel Company (1931) gli
Stati Uniti hanno sostenuto che il Messico avesse tratto un indebito vantaggio a spese della società di
propria nazionalità. SoMermandosi sull’applicabilità del principio dell’ingiusto arricchimento, la
Commissione dei ricorsi generali, investita della questione, ha preliminarmente rilevato che «[t]here is
no doubt that at the present time that theory is accepted and applied generally by the countries of the
world», giungendo tuttavia a concludere che «[it] has not yet been transplanted to the ?eld of
international law as this is of a juridical order distinct from local or private law» (p. 676). Nel parere
sulle riserve alla Convenzione sul genocidio (1951) la CIG ha dovuto chiarire se le stesse potessero
mantenere la propria validità anche in presenza delle obiezioni avanzate da alcune soltanto delle altre
parti contraenti. Nel rispondere al quesito, i giudici hanno preso in esame il principio – «generally
ricognized» – di integrità dell’accordo, «directly inspired by the notion of contract». Postulando la
necessità che l’accordo si formi in modo identico tra tutte le parti contraenti, questo avrebbe senz’altro
condotto a dichiarare l’invalidità delle riserve sub iudice, ma la Corte ne ha escluso l’applicabilità
nell’ordinamento internazionale (pp. 21-22), rilevando come esso contrasti con la fondamentale
esigenza di Xessibilità che permea il diritto dei trattati, che proprio l’istituto della riserva mira a
soddisfare, e che in ultima istanza tende a conservare il consenso anche solo parzialmente raggiunto.
Nel caso relativo al Tempio di Preah Vihear (1961) la Thailandia ha tentato di negare che la propria
dichiarazione del maggio 1950 costituisse una valida accettazione della giurisdizione obbligatoria della
Corte, ai sensi dell’art. 36, par. 2, dello Statuto. Ad avviso del Governo thailandese, infatti, la mancanza
di speci?ci requisiti di forma avrebbe messo il Paese in una posizione «similar to that of a man who
desires to make certain testamentary dispositions, and fully intends them; nevertheless, he will not
achieve his object, as a matter of law, if he fails to observe the forms and requirements prescribed by
the applicable law» (p. 27). In questo contesto la CIG ha rilevato come la possibilità di ricorrere a
principi comuni agli ordinamenti interni in materia di requisiti di forma incontrasse un ostacolo
insuperabile nel principio sostanzialistico di libertà delle forme a cui si ispira l’ordinamento
internazionale (p. 31).
Nel contenzioso relativo alla piattaforma continentale del Mare del Nord (1969) la Repubblica Federale
Tedesca (RFT) ha cercato di dimostrare che la delimitazione territoriale potesse essere risolta
attraverso il criterio della «quota giusta ed equa», inquadrabile, a suo avviso, come principio
generalmente riconosciuto negli ordinamenti interni (memoria del 21 agosto 1967, «ICJ Pleadings»,
par. 30). Danimarca e Paesi Bassi, dal canto loro, obiettavano che un tale principio non fosse
applicabile nell’ordinamento internazionale, poiché «incompatible with the principles on which, in the
international legal system, the positive law regulating the matter is based» (controreplica comune del
30 agosto 1968, «ICJ Pleadings», par. 117). In conclusione, la CIG ha fatto propria la tesi prospettata dai
due paesi, rilevando che eMettivamente il principio invocato dalla RFT fosse incompatibile con il
concetto stesso di piattaforma continentale, a sua volta intimamente connesso al principio di
sovranità territoriale («ICJ Reports», par. 19-20).
Da ultimo, nel caso relativo a sequestro e detenzione di certi documenti e dati (2014) Timor-Est
lamentava l’illegittimità della sottrazione compiuta ai suoi danni da parte dell’Australia ed è
interessante constatare come, nel tentativo di dimostrare che il diritto alla riservatezza della
professione legale costituisse un principio comune in foro domestico, lo Stato abbia sentito l’esigenza
di speci?care che esso fosse non solo compatibile, ma anche legato da un rapporto di stretta
strumentalità con il principio fondamentale della risoluzione paci?ca delle controversie (memoria del
28 aprile 2014, par. 6.4).
Come è stato opportunamente sottolineato in dottrina, anche la giurisprudenza del Tribunale penale
internazionale per l’ex Iugoslavia conferma che «les principes généraux du droit international […]
devraient s’analyser comme limite à la transposition des principes d’origine interne au plan
international» (Gradoni, “L’exploitation des principes généraux de droit dans la jurisprudence des
Tribunaux pénaux internationaux”, in Fronza, Manacorda (a cura di), p. 10 ss., pp. 34-35; così anche
Caligiuri, pp. 1093-1094).
In Blaškić (1997), infatti, la Camera d’appello ha esplicitato le ragioni per cui le diMerenze strutturali tra
l’ordinamento internazionale e quello interno sono in grado di limitare l’applicabilità, nel primo, di
principi generalmente riconosciuti nei secondi. In relazione all’istituto domestico della «ripeness
doctrine», con cui la Camera di primo grado aveva giusti?cato il potere di non pronunciarsi su
questioni ritenute non ancora «mature», i giudici d’appello hanno concluso che fosse «inapposite to
transpose it into international criminal proceedings», precisando che «domestic judicial views or
approaches should be handled with the greatest caution at the international level, lest one should fail
to make due allowance for the unique characteristics of international criminal proceedings» (par. 22-23;
corsivo aggiunto). Un secondo aspetto oggetto del giudizio di gravame riguardava poi il ricorso alla
«domestic analogy», con cui la Camera di primo grado aveva legittimato il proprio potere di indirizzare
ordini vincolanti nei confronti di u_ciali di Stato, come negli ordinamenti interni sono autorizzate a
fare le corti nazionali. In termini piuttosto eloquenti, la Camera d’appello ha rilevato come quella tesi
?nisse irrimediabilmente per collidere con i principi di sovranità, eguaglianza sovrana e dominio
riservato, e pertanto dovesse essere respinta (par. 40-41). Non sorprende, allora, che nell’opinione
dissenziente alla sentenza d’appello resa in Erdemović (1997, par. 5) il Presidente Cassese abbia sentito
l’esigenza di reiterare in termini più generali un invito alla cautela nel ricorso ai principi comuni in foro
domestico, inXuenzando in tal modo la successiva giurisprudenza del Tribunale (Furundžija, par. 177178; Delalić et al., par. 402-405).
6.Con riguardo ai principi fondamentali del diritto internazionale, capaci di operare come limiti,
bisogna innanzitutto precisare che la categoria ricomprende quei principi giuridici che riXettono
l’intrinseca «struttura» dell’ordinamento giuridico internazionale (Schwarzenberger, p. 207; Mosler, p.
148 ss.). In essi, sulla dimensione strettamente prescrittivo-valutativa, prevale quella descrittiva: non
fungono direttamente da schemi quali?cativi, ma sanciscono valori che esprimono l’identità
assiologica dell’ordinamento giuridico, al quale, pertanto, conferiscono unità (Sperduti, op. cit., p. 83
ss.; Viñuales, p. 9; opinione separata del giudice Cançado Trindade in cartiere sul Fiume Uruguay, par.
201).
In letteratura sussiste attualmente un diMuso consenso sul fatto che in tale categoria vadano
ricondotti il principio di sovranità, la nozione di sovranità territoriale, la piattaforma continentale come
titolo giuridico acquisitivo della sovranità sulla relativa area marina, il fondamento consensualistico
della giurisdizione internazionale, nonché alcuni principi enunciati nella Carta delle Nazioni Uniti, in
particolare i sette solennemente riaMermati nella Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli e la
cooperazione tra Stati (Luzzatto, Il diritto internazionale generale e le sue fonti, in Carbone et al., pp. 7376; Viñuales, passim; M. Vázquez-Bermúdez, par. 83). Altri autori vi aggiungono anche i principi del
diritto internazionale umanitario e quelli corrispondenti a diritti umani fondamentali (Strozzi, “I
‘principi’ dell’ordinamento internazionale”, in La Comunità Internazionale, 1992, p. 162 ss., pp. 183-184).
Un ulteriore aspetto che merita particolare attenzione riguarda il titolo di prevalenza in virtù del quale,
in caso di contrasto, i principi fondamentali sono in grado di impedire ai principi comuni in foro
domestico di diventare fonte dell’ordinamento internazionale. Occorre subito precisare che non si
tratta di un contrasto tra norme giuridiche contemporaneamente esistenti nel medesimo
ordinamento, per la cui soluzione non si potrebbe che ricorrere ai consueti criteri di soluzione delle
antinomie. Tale constatazione, a fortiori, esclude che possa venire in rilievo un criterio di prevalenza
gerarchica, anche perché solo alcuni principi fondamentali costituiscono anche norme imperative.
Piuttosto, quello che viene a con?gurarsi è un conXitto assiologico che non consente all’ordinamento
internazionale di considerare come proprio il principio generalmente riconosciuto negli ordinamenti
interni. L’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG, infatti, codi?ca un processo di produzione su
base analogica, in virtù del quale un principio comune ai principali sistemi giuridici del mondo
costituisce fonte del diritto internazionale esclusivamente nella misura in cui sussiste un’analogia tra la
situazione giuridica che regola in foro domestico e quella che esso aspira a disciplinare
nell’ordinamento internazionale (Barberis, pp. 36-38). L’antinomia con un principio fondamentale
rompe immediatamente questo rapporto analogico, arrestando così il processo produttivo (Balladore
Pallieri 1931, op. cit., p. 74; Bothe, p. 294; Lauterpacht, Private Law Sources and Analogies of International
Law (with Special Reference to International Arbitration), Longmans, London, 1927, pp. 84-87; Verdross,
Simma, p. 384; Cheng, General Principles of Law as applied by International Courts and Tribunals, Grotius,
Cambridge, 1987, pp. 265-266; Thirlway, p. 405).
Ad ogni modo, in un ordinamento giuridico, come quello internazionale, frammentato in una pluralità
di settori di diritto materiale, tanto l’individuazione dei principi fondamentali quanto il sindacato di
compatibilità di cui sono oggetto quelli comuni agli ordinamenti interni non può che avvenire in modo
diMuso. A tale funzione, infatti, concorre una pluralità di attori, ciascuno dei quali fornisce un apporto
ermeneutico certamente radicato nel quadro normativo e valoriale in cui opera. Tra questi la Corte
dell’Aia, in ragione della propria autorevolezza, senza dubbio svolge una funzione interpretativa
eminente.
Prima di dedurre l’eMettiva sussistenza di un’antinomia assiologica incomponibile con l’ordinamento
internazionale, l’operatore giuridico deve adempiere a un «obbligo di interpretazione conforme»,
cercando di dare al principio comune in foro domestico, nei limiti di quanto gli consente la base
normativa consegnata dall’analisi comparativa, un signi?cato che lo renda compatibile con i principi
fondamentali di questo ordinamento, «per completare e coordinare fra loro le varie norme positive
internazionali […], non già per introdurvi un elemento eterogeneo e discordante» (Balladore Pallieri
1962, op. cit., p. 98. In tal senso Shahabuddeen, pp. 101-102).
7.Dall’analisi svolta sin qui emerge che il ricorso ai principi comuni in foro domestico può essere
inquadrato come una forma di «adattamento» del diritto internazionale al diritto interno, nel senso
che da questo il primo mutua forme e schemi quali?cativi, che poi annette al proprio apparato
normativo: «what results is a body of international law that is inXuenced by domestic law but which
remains its own creation» (Bjorge, p. 539). Anche all’infuori di un modello di rinvio in senso tecnico,
non vi è dubbio che l’art. 38, par. 1, lett. c), dello Statuto della CIG funga da «trasformatore
permanente», nella misura in cui crea un ponte capace di consentire una circolazione di valori giuridici
tra i due ordinamenti. Allo stesso tempo, però, si è avuto modo di evidenziare come l’apertura del
diritto internazionale nei confronti dei sistemi giuridici statali non sia incondizionata, ma incontri dei
limiti; né potrebbe essere altrimenti per un ordinamento superiorem non recognoscens. Questa
continua imitazione e, insieme, rivendicazione di autonomia riXette il dato che le coscienze giuridiche
del diritto internazionale e del diritto interno si compenetrino, e dell’uno e dell’altro, ancora oggi, lo
Stato resti la colonna portante (Quadri, op. cit., p. 126; Betti, op. cit., p. 49).
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