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Etica e politica:
tre lezioni su Platone
Atti del
Convivium Viterbiense 2013
Viterbo, 17 maggio 2013
a cura di Maddalena Vallozza
con una premessa di Alessandro Ruggieri
Viterbo 2014
3
4
INDICE
ALESSANDRO RUGGIERI
Premessa
...............................................................................................
7
PAOLA MOSCUCCI
Indirizzo di saluto
...................................................................................
9
MADDALENA VALLOZZA
Introduzione
..........................................................................................
15
FRANCESCO ARONADIO
Ethos individuale e comunità politica
nella Repubblica di Platone
..................................................................
21
MICHELE CORRADI
Platone al termine del Protagora:
la profezia di una paideia possibile
......................................................
33
ALDO BRANCACCI
Verità morale e sapere
nell’Apologia di Socrate di Platone
.......................................................
53
I. IL CONVIVIUM
II. IL CERTAMEN
Il testo
Platone, Politico 271d3-272b4
............................................................
67
Le scuole
..............................................................................................
69
I vincitori
.............................................................................................
71
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Premessa
Secondo una tradizione ormai consolidata, anche nel 2013 l’Università della
Tuscia ha ospitato nelle sue strutture il Convivium Viterbiense, coronamento del
Certamen, manifestazione tradizionale per il Liceo Buratti e per l’intero territorio.
Nell’Aula Magna del nostro Ateneo si sono così raccolti studenti selezionati in base
a difficili prove interne da Licei di ogni regione d’Italia per confermare la loro
eccellenza e per concorrere affrontando il faticoso, ma certo appassionante lavoro di
traduzione e interpretazione di un passo del Politico di Platone. Prima del momento
festoso della premiazione, hanno ascoltato, a fianco di numerosi docenti e studenti
del Buratti e di rappresentanti delle realtà locali, le lezioni tenute dai colleghi relatori
su Platone, sul tema antico, ma di scottante attualità del rapporto fra etica e politica a
partire dalle pagine dei dialoghi. Il sostegno del nostro Ateneo è prova della
sensibilità per gli studi classici e per iniziative che promuovono negli studenti la
serietà e il valore, come il Certamen e il Convivium, delle quali sono lieto di vedere
una concreta testimonianza nelle pagine che seguono.
Da non molto l’Università della Tuscia ha festeggiato con varie iniziative
concluse da una cerimonia di grande partecipazione i trentacinque anni di attività.
Una giornata che ha permesso di trarre un bilancio lusinghiero dei risultati
dell’impegno di chi mi ha preceduto e ha contribuito alla creazione di una realtà così
importante. Sappiamo che l’istituzione universitaria attraversa nel nostro paese un
momento difficile, collegato al quadro critico generale, che certo non agevola il
lavoro di tutti noi e limita motivazioni e aspettative. Continueremo sulla strada fin
qui battuta, operando sulla crescita dello spirito internazionale, sulla ricerca, che ci
pone ai livelli più alti, sui servizi di supporto, sulla didattica infine, che anche negli
ultimi mesi abbiamo diversificato e ampliato.
Gli studenti sono infatti al centro della nostra progettualità, l’obiettivo più
alto del programma che ho appena delineato. Sappiamo che per realizzarlo bisogna
in primo luogo arricchire degli studenti non solo il numero ma anche la qualità. In
questa direzione e con questa speranza guardiamo con favore alla piena riuscita di
iniziative come il Certamen e il Convivium, che ogni anno torna a realizzarsi sul
nostro territorio grazie alla competenza e alla passione di quanti vi prendono parte.
ALESSANDRO RUGGIERI
7
8
Indirizzo di saluto
Ci apprestiamo a celebrare insieme la conclusione di un’altra edizione, la
diciassettesima, del Certamen Viterbiense della Tuscia, una conclusione che si fregia
della realizzazione del Convivium Viterbiense, Etica e politica: tre lezioni su
Platone, con gli interventi di autorevoli studiosi di Letteratura Greca e Filosofia
antica quali il professor Francesco Aronadio, il professor Michele Corradi ed il
professor Aldo Brancacci. Li saluto e li ringrazio per la presenza così come saluto e
ringrazio la professoressa Gabriella Ciampi, coordinatrice del Convegno stesso che
tra poco avrà inizio. Un Convegno che, ormai da alcuni anni, si concretizza in virtù
di quel fervore professionale e umano messo in campo dalla professoressa
Maddalena Vallozza, la quale cura poi con precisione e rigore la pubblicazione degli
Atti del Convivium Viterbiense medesimo, dei quali siamo felici di poter continuare
a sostenere la puntuale uscita di anno in anno.
Una precisione ed un rigore scientifico dei quali vorremmo che, sempre di
più, fosse connotata questa manifestazione ideata, costruita e consolidatasi
all’interno del Liceo Buratti, ma che è cresciuta e può continuare a crescere grazie
alla sinergia con la cultura universitaria. Un saluto e un ringraziamento, quindi, al
Magnifico Rettore Marco Mancini che anche quest’anno ci onora della sua illustre
presenza. Grazie, Magnifico Rettore, non solo perché ci consente logisticamente la
realizzazione dell’evento attraverso il privilegio d’uso di questa Aula Magna, ma in
particolar modo perché continua ad affiancarci, sostenendo con convinzione
l’iniziativa e assegnando a essa quella valenza culturale che merita. Insieme al
Magnifico Rettore saluto e ringrazio l’architetto dottor Giovanni Cucullo, Direttore
Amministrativo dell’Ateneo, per la consueta disponibilità nell’aiutarci, grazie alla
sua competenza, a risolvere problemi di qualsivoglia aspetto organizzativo.
Mi sia consentita a questo punto una divagazione per esprimere, quale
dirigente scolastica, ma anche quale cittadina, il rammarico nel dover constatare
come la politica locale tutta abbia fin qui realizzato solo in apparenza sinergie
culturali e di sviluppo con una istituzione così radicata e di prestigio quale è
divenuta oggi l’Università degli Studi della Tuscia. Ricordo, non essendo più
giovanissima, quando, più di quarant’anni fa, la città lottava per avere istituita una
Università, e ricordo come apparve per tutti già un’enorme conquista veder nascere,
nel 1969, la Libera Università della Tuscia, divenuta poi, solo nel 1979, la statale
Università degli Studi della Tuscia. Ebbene, a distanza di trentaquattro anni questa
realtà universitaria è cresciuta, si è arricchita e sviluppata, si è radicata nel tessuto
scientifico e culturale cittadino, ha portato alla città anche maggiore ricchezza e
donato patrimoni artistici restaurati e ritornati a vivere. La città però, non certo
quella dei cittadini, ma quella della politica, non ha ancora imparato, forse solo per
la mancanza di opportune forme di comunicazione o peggio ancora per l’arroganza
9
istituzionale di chi pensa si possa fare bene ogni cosa da soli, questa politica non ha
mai voluto capire, dicevamo, che qualsivoglia progetto di sviluppo di civiltà voglia
Viterbo intraprendere deve poter essere condiviso e filtrato da quel sostegno
intellettuale ed inconfutabile che può dare l’Università; abbiamo le potenzialità
storiche, artistiche, naturali ed istituzionali per produrre cultura in loco, ma ci
limitiamo a ‘brillare’ solo quando si accende qualche riflettore sporadico ed a volte
occasionale. Mi auguro, perciò di vedere, nel nostro futuro prossimo, una
amministrazione cittadina scevra da pregiudizi partitocratici e orientata allo sviluppo
di cooperazioni strategiche con il mondo universitario.
Ma ritorniamo al nostro argomento principe, visto che oggi siamo qui
soprattutto per celebrare, con la cerimonia di premiazione successiva al Convegno,
l’impegno e le capacità degli studenti che si sono misurati nella prova di traduzione
dal greco e di produzione di un commento storico filologico come richiesto dal
regolamento del Certamen Viterbiense. Vi hanno partecipato quest’anno ventidue
licei italiani e gli affezionatissimi studenti provenienti dal Gymnasium Classicum
Petropolitanum di San Pietroburgo; li saluto tutti, insieme ai docenti loro
accompagnatori, li ringrazio e mi auguro tornino nei loro Istituti scolastici arricchiti
da questa ulteriore esperienza.
Il Certamen Viterbiense, infatti, non vuole essere solo una competizione,
seppure di alto livello e per studenti eccellenti e motivati, ma anche un importante
momento di riflessione intellettuale e critica. Non si ritenga perciò occasionale la
convivenza, nella giornata conclusiva, tra Convivium e cerimonia di premiazione. I
vincitori riceveranno i loro premi dopo avere partecipato ad una lettura,
sapientemente guidata, di aspetti del pensiero di Platone che riguardano un tema
costantemente attuale, il rapporto fra etica e politica appunto, un binomio che
sottintende a qualsiasi comunità organizzata, la divide o la unisce, sicuramente la
caratterizza. Il bagaglio esperienziale che gli studenti qui giunti per partecipare al
Certamen dovranno portare con loro, vorremmo, quindi, fosse, certamente, non solo
l’aver compreso che l’individuo deve sapersi costantemente misurare e mettere alla
prova se intende crescere, ma anche che non c’è cultura spendibile se essa rimane
chiusa in se stessa e non si apre al confronto nel mondo, sul mondo. Ciascuno di noi,
inoltre, è competente e capace non per quanto è in grado di produrre per se stesso,
ma per come riuscirà ad utilizzare le capacità acquisite a beneficio di altri. Sappiate
perciò comprendere, cari ragazzi, che il vostro essere eccellenti studenti oggi dovrà
tradursi nel divenire, domani, cittadini preparati, vigili e propositivi, altrimenti il
premio che vi consegneremo questa sera sarà solo fine a se stesso.
Mi corre l’obbligo a questo punto di riportare il mio intervento ad una
presentazione, nella sua globalità, della manifestazione la quale ha avuto inizio lo
scorso 15 maggio con l’arrivo dei partecipanti e l’insediamento della commissione
giudicatrice, presieduta dalla già menzionata professoressa Vallozza e composta dai
professori Armando Giucastro, Enrico Schiralli, Mario Regali e Michele
Buongiovanni; li saluto e li ringrazio per il coscienzioso ed attento lavoro svolto.
10
Ieri 16 maggio, nella mattinata, mentre gli studenti svolgevano la prova di
traduzione e commento storico e filologico del brano scelto, tratto dai dialoghi di
Platone, i docenti accompagnatori hanno visitato, pur se non favoriti dalle
condizioni meterologiche, la vicina Civita di Bagnoregio ed approfondito il
fenomeno d’erosione dei calanchi con una sosta al museo delle frane. Nel
pomeriggio, gli studenti del laboratorio teatrale del Liceo Buratti, a San Martino al
Cimino, presso la sala Botticelli del Balletti Park Hotel, gentilmente concessa dal
laboratorio teatrale sammartinese Danilo Morucci, hanno rappresentato un
adattamento dell’opera satirica di Nikolaj Vasilievich Gogol L’Ispettore Generale.
Subito dopo, una breve e doverosa visita all’abbazia cistercense ed al borgo della
piccola frazione di Viterbo. La giornata di ieri si è conclusa con un intrattenimento
musicale degli ospiti a cura del Laboratorio Musicale, sempre del Liceo Buratti, in
cui alcuni studenti hanno eseguito brani tratti dal loro repertorio concertistico.
Questa mattina è stata effettuata una passeggiata, sempre purtroppo sotto la pioggia,
nel centro storico del capoluogo, con un’escursione nella Viterbo sotterranea,
concessa dal Direttore dell’Associazione omonima dottor Sergio Cesarini, che
ringraziamo unitamente ad Associazione Archeotuscia che ci ha gentilmente fornito
le guide turistiche.
A questo punto, sia pure brevemente e prima di concludere, ritorniamo sul
Certamen Viterbiense, una manifestazione che sta continuando ad esistere, o meglio
a resistere, insieme ad altre analoghe che costituiscono una tradizione culturale
connotativa del luogo, quando tante altre, invece, hanno cessato di essere,
sicuramente in conseguenza della drammatica situazione finanziaria che stiamo
attraversando. Una situazione finanziaria che sta progressivamente e drasticamente
diminuendo la disponibilità di supporto da parte delle Istituzioni e di Enti nonché di
contributi da privati, ma che non impedisce al Certamen Viterbiense di continuare a
realizzarsi. Per questo rivolgiamo un doveroso e sentito ringraziamento
all’Amministrazione Provinciale di Viterbo e alla Fondazione Carivit, le quali
rappresentano il sostegno economico più significativo. Ma il ringraziamento va
anche a tutti gli altri sponsor come Coldiretti, Unindustria Viterbo, Banca di Viterbo
e ai numerosi privati che, tutti insieme, continuano ad assicurare la realizzazione
della manifestazione. Coldiretti, Provinciale e Nazionale, in particolare ha inteso,
anche quest’anno, offrire un omaggio di prodotti tipici locali ai nostri ospiti.
Doverosamente precisiamo inoltre che, sebbene fino a qualche giorno fa avessimo
avuto l’impressione che l’amministrazione comunale di Viterbo volesse ignorare
l’evento non dando alcun seguito alle nostre richieste, l’altro ieri lo stesso Sindaco
Giulio Marini ci comunicava telefonicamente, avendo appreso delle lamentele da
noi espresse in un comunicato stampa, la concessione di un contributo purtroppo
davvero esiguo.
Un grazie, con il cuore, mi si permetta infine di rivolgere a tutti i
componenti lo staff organizzativo scolastico, Direttore dei servizi, docenti e studenti,
assistenti amministrativi e collaboratori, i quali si sono prodigati affrontando con
slancio disinteressato il carico di lavoro aggiuntivo generato dallo svolgersi
dell’evento. Il Liceo Buratti, infatti, vive da sempre in simbiosi con il Certamen,
11
realizzando intorno ad esso un sistema di partecipazione empatica con un misto di
sentimenti che vanno dall’orgoglio di appartenenza alla sfida per riuscire.
Non possiamo né dobbiamo, perciò, lasciarci scoraggiare dalla diminuzione
del sostegno economico, se è vero che il Certamen Viterbiense della Tuscia continua
a registrare il costante consenso delle più importanti Istituzioni a livello centrale e
periferico. Quest’anno infatti ci è nuovamente giunto il riconoscimento ufficiale da
parte della Presidenza della Repubblica, con concessione di medaglia, e da parte
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Lazio e della Prefettura
con concessione di patrocinio, patrocini che si uniscono a quelli del Comune e della
Provincia di Viterbo. I suddetti riconoscimenti ci onorano e ci impongono di
perseverare. La direzione che abbiamo intrapreso, e che anche sopra abbiamo
esplicitato, è quella di anteporre gli aspetti contenutistici e scientifici dell’evento a
quelli di rappresentanza e divulgativi, eliminando dal nostro programma il superfluo
ed il sovrabbondante. Discutere di etica e politica, oggi in particolar modo, vuole
significare, soprattutto, non sprecare denaro pubblico. Questa non è retorica. E’, per
l’appunto, etica.
PAOLA MOSCUCCI
12
I
IL CONVIVIUM
13
14
Introduzione
Secondo la formula inaugurata nel 2009 e ormai consolidata, che assegna
all’Ateneo della Tuscia un ruolo attivo nell’organizzazione promossa dal Liceo
Buratti, si è svolta a Viterbo dal 15 al 18 maggio 2013 la quinta edizione del
Certamen Viterbiense della Tuscia. In particolare, l’ospitalità e il contributo
scientifico dell’Ateneo hanno permesso di organizzare anche per il 2013, presso il
Complesso Monumentale di Santa Maria in Gradi, nella splendida Aula Magna del
Rettorato, il Convivium Viterbiense, momento di riflessione a più voci, che segna la
chiusura del Certamen. Nel pubblico, come sempre folto e attento, il gruppo degli
studenti che hanno partecipato alla prova di traduzione, giunti da oltre venti Licei
classici dell’intero territorio nazionale, scelti in due al massimo per ogni Liceo in
base a impegnative prove interne. Anche per il 2013 il Certamen ha confermato i
suoi orizzonti internazionali, ospitando studenti russi provenienti dal ben noto Liceo
Classico di San Pietroburgo, il Санкт-Петербургская классическая гимназия
№610.
Il quinto numero dei «Quaderni del Certamen» presenta nella sua prima parte
il testo delle lezioni tenute per il Convivium, nella seconda i dati relativi allo
svolgimento del Certamen: il testo oggetto della prova, l’elenco dei Licei che alla
prova hanno preso parte, l’elenco dei vincitori. Il «Quaderno» segue dunque la
struttura dei precedenti, usciti con cadenza annuale, che contengono gli Atti del
Convivium 2009, dedicato a Platone1, del Convivium 2010, dedicato a Plutarco2, del
Convivium 2011, dedicato a Saffo e ad Alceo3, infine del Convivium 2012, dedicato
al nesso tra figura femminile e genere letterario in Grecia, un tema non limitato
1
Filosofia e filologia: tre contributi su Platone, Atti del Convivium Viterbiense, Viterbo, 22
maggio 2009, Viterbo 2010, con le relazioni di B. CENTRONE, Platone e la nascita della
filosofia, 15-27, di W. LAPINI, Dai sophoi ai philosophoi. Il primo libro della Repubblica di
Platone e il superamento del Tersite, 29-40, M. MIGLIORI, Cercare una vita felice con
Platone, 41-58.
2
Tradizione letteraria e filosofica nei Moralia di Plutarco, Atti del Convivium Viterbiense,
Viterbo, 21 maggio 2010, Viterbo 2011, con le relazioni di A. CASANOVA, Piccoli problemi
testuali in Plutarco, Questioni Conviviali 3, 6 (L’ora dell’amore), 17-29, W. LAPINI, I
compagni di Ulisse nel Bruta animalia ratione uti di Plutarco, 31-41, F. FERRARI, Platonismo
e religiosità delfica nel pensiero filosofico di Plutarco, 43-56.
3
Eros e simposio: riflessioni su Saffo e Alceo, Atti del Convivium Viterbiense, Viterbo, 20
maggio 2011, Viterbo 2012, con le relazioni di G. BURZACCHINI, Simposi alcaici, notturni
saffici, 21- 41, A. PORRO, Metafore alcaiche e contesto simposiale, 43-55, O. VOX, Dialoghi
in Saffo, dialoghi con Saffo, 57-73. A lato delle relazioni compare in questo numero il
contributo di M. MANCINI, La profondità di una immagine, 75-79.
15
all’autore scelto per il Certamen, Isocrate, ma ampliato alla commedia, con
Aristofane, e all’epigramma ellenistico, con Ermesianatte4.
Così, dopo Platone, Plutarco, Saffo e Alceo, Isocrate, gli autori scelti per la
prova di traduzione del Certamen nelle edizioni precedenti e come tema centrale o
caratterizzante del Convivium, nel 2013 la scelta per il Certamen è tornata su
Platone, anche per la felice coincidenza con l’interesse che verso questo autore ha
certo richiamato l’organizzazione nello stesso anno, presso l’Università di Pisa, del
X Symposium Platonicum della International Plato Society, focalizzato sul
Simposio, con il concorrere di circa centoventi studiosi provenienti da tutti i
continenti5. Il Convivium si è così articolato in tre lezioni su Platone, accomunate in
particolare dall’interesse per i non semplici problemi che nelle pagine dei dialoghi
suscita il rapporto tra etica e politica, sia sul piano della speculazione, sia su quello
della produzione letteraria. Nel pubblico, come sempre, gli studenti protagonisti del
Certamen e al loro fianco i docenti che li hanno preparati, seguiti e accompagnati.
Folta anche la presenza di personalità del mondo politico e culturale della Tuscia, a
testimonianza dell’attenzione che gli studi classici e il greco in particolare
continuano ad avere negli anni nel nostro territorio.
Nella prima delle tre lezioni, Francesco Aronadio ha affrontato i problemi
che, anche sul piano etico, emergono in Platone per il non semplice rapporto tra
individuo e collettività. Allievo di Gabriele Giannantoni all’Università degli Studi
La Sapienza di Roma, Aronadio ha conseguito il titolo di dottore di ricerca presso
l’Università di Studi di Roma Tor Vergata e la qualifica di Privatdozent in Svizzera,
presso la Universität Freiburg. Dal 2001 al 2006 ha operato nell’ambito dell’Istituto
per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, del Consiglio Nazionale delle
Ricerche. Dal 2006 insegna Storia della Filosofia antica nell’Università di Roma Tor
Vergata. Fa parte del Collegio dei docenti della Scuola Superiore di Studi in
Filosofia nella stessa Università. E’ membro della International Plato Society.
Collabora con diversi enti e istituzioni di ricerca italiani e stranieri. Gli ambiti
principali delle sue ricerche sono i filosofi presocratici6, Platone e il corpus
Platonicum7, la ricezione del pensiero greco nella filosofia dell’Ottocento e del
4
Figure femminili e generi letterari in Grecia: Aristofane, Isocrate, Ermesianatte, Atti del
Convivium Viterbiense, Viterbo, 18 maggio 2012, Viterbo 2013, con le relazioni di G.
MASTROMARCO, Commedie femminili in Aristofane, 23-36, M. TULLI, La potenza di Elena in
Isocrate, 37-46, M. DI MARCO, Poeti e donne in Ermesianatte: per una lettura poetologica
del fr. 7 Powell, 47-64.
5
The International Plato Society – Università di Pisa – Dipartimento di Filologia, Letteratura
e Linguistica, X Symposium Platonicum, The Symposium, Pisa, 15-20 July 2013.
6
A partire ad esempio dallo studio su Il Parmenide e la sintassi dell'eidos, «Elenchos» 6
(1985), 333-355, a Il senso dell'interpretazione heideggeriana di Anassimandro, «Rivista di
storia della filosofia», 4 (1990), 721-736, oppure al saggio Due fonti laerziane: Sozione e
Demetrio di Magnesia, «Elenchos», 11 (1997), 203-255, o ancora Semainein et deloun:
ontologie et langage chez Héraclite et Platon, in M. DIXSAUT-A. BRANCACCI (edd.), Platon
source des Présocratiques, Paris 2002, 47-66.
7
Dopo la monografia Procedure e verità in Platone (Menone, Cratilo, Repubblica), Napoli
2002, si possono ricordare studi recenti, come Psicologia e politica nella «Repubblica» di
16
Novecento8. Dall’interesse per l’Epinomide9 nasce l’impegno nella recente opera di
traduzione e commento del dialogo10.
Nella lezione, Ethos individuale e comunità politica nella Repubblica di
Platone, Aronadio è partito dall’osservazione che individuo e comunità sono termini
di una polarità che, nella riflessione di Platone su forma dell’anima e configurazione
della polis, assume un profilo di grande rilievo e interesse anche negli sviluppi
successivi. Certo la riflessione sull’articolazione dello stato e sulla sua funzione
educativa haano talora condotto a interpretazioni, se non a fraintendimenti, che ne
hanno messo in luce le possibili implicazioni negative. Ma ne sono derivati anche un
acuto sguardo sui conflitti propri sia dell’individuo sia della comunità politica
nonché l’esigenza di individuare sul piano teorico possibili vie per il superamento di
tali conflitti. In particolare, Aronadio si è soffermato sulla nozione di ethos nei
dialoghi e ne ha individuato la pluralità di valenze semantiche e concettuali, da
indole a costume, modulo comportamentale, stile di vita. Ne ha potuto così
enucleare il ruolo essenziale, in particolare nella Repubblica, dove l’ethos giunge a
configurarsi come una cerniera fra vicende individuali e fenomeni collettivi. E’ su
questa base che appare praticabile un’azione politica volta alla promozione
dell’individuo e insieme alla crescita morale della collettività.
La seconda lezione su Platone è stata affidata a Michele Corradi, che si è
soffermato in particolare sul Protagora. Dopo gli studi all’Università di Pisa e il
Dottorato di Ricerca in Filologia Greca e Latina all’Università di Firenze, Corradi è
stato borsista presso l’Institut d’Archéologie et des Sciences de l’Antiquité
dell’Università di Losanna e, grazie al sostegno del Deutscher Akademischer
Austauschdienst e della Deutsche Forschungsgemeinschaft, presso l’Institut für
Klassische Philologie dell’Università di Würzburg. Collabora con la sezione italiana
dell’Année philologique e con il Lessico dei Grammatici Greci Antichi presso
l’Università di Genova. Ha insegnato all’Université de Savoie - Chambéry e ora
insegna Langue et civilisation grecque al Département de Philosophie
dell’Università di Aix-Marseille. E’ membro della International Plato Society e ha
Platone: il ruolo dell’«ethos», «Giornale critico della filosofia italiana», 89 (2010) 491-516,
nonché i volumi Dialoghi spuri di Platone, Torino 2008, e ora I fondamenti della riflessione
di Platone sul linguaggio: il Cratilo, Roma 2011.
8
Dopo la cura del volume Johann Friedrich Herbart. Dissertazione sul fondamento del
sistema platonico, Firenze 2007, su questo tema ha pubblicato numerosi contributi su volumi
e su riviste in Italia e all’estero, ad esempio, tra i più vicini nel tempo, The Construction of
Herbart’s Thought through the Hermeneutics of Plato’s Theory of Ideas, in A. NESCHKEHENTSCHKE (ed.), Argumenta in dialogos Platonis, I, Platoninterpretation und ihre
Hermeneutik von der Antike bis zum Beginn des 19. Jahrhunderts, Basel 2010, 341-391, e Il
concetto di esperienza e il pluralismo ontologico di Herbart, in A. BRANCACCI (ed.), Herbart
e Platone, Napoli 2011, 99-138.
9
Testimoniato dal saggio Das Göttliche und die Götter in der pseudoplatonischen Schrift
Epinomis, in D. KOCH-I. MÄNNLEIN-ROBERT-N. WEIDTMANN (edd.), Platon und das
Göttliche, Tübingen 2010, 8-29.
10
[Plato] Epinomis, Introduzione, traduzione e commento di F. ARONADIO, edizione di M.
TULLI, note critiche di F. M. PETRUCCI, Roma 2013.
17
fatto parte del Comitato organizzatore del X Symposium Platonicum a Pisa. Ha
tenuto relazioni in Italia, in vari paesi europei, in Giappone e in Brasile. Fra i suoi
interessi di ricerca si segnalano l’epica11, la tradizione dei testi nonché il rapporto fra
letteratura e filosofia, soprattutto in relazione a Protagora e a Platone. Numerosi gli
studi in questo ambito, pubblicati sia in Italia12, sia in volumi e riviste di respiro
internazionale13. Frutto di questi interessi è anche il volume da poco uscito su
Protagora14.
Nella sua lezione, Platone al termine del Protagora: la profezia di una
paideia possibile, Corradi ricorda che il Protagora è il dialogo nel quale la critica ha
finora colto, non senza ragioni, la volontà da parte di Platone di tracciare una netta
linea di demarcazione fra Socrate e alcune figure di maggior rilievo tra i sofisti, tra i
quali certo è in primo piano Protagora. La situazione è però più complessa: nel
dialogo elementi che tendono a separare Socrate da Protagora si mescolano con
elementi che segnalano inaspettate convergenze. Particolarmente interessante risulta
in questa prospettiva la conclusione del dialogo (360e-363a). Qui l’ἔξοδος τῶν
λόγων, l’esito dei discorsi, si rivolge infatti ai due protagonisti per rilevare che al
termine della discussione hanno mutato le posizioni di partenza. Socrate, dopo aver
sostenuto che l’ἀρετή non può essere insegnata, giunge a dimostrare il contrario:
riconducendo tutte le ἀρεταί all’ἐπιστήμη prova infatti che, proprio in quanto
ἐπιστήμη, possono essere insegnate. Protagora invece, dopo aver sostenuto che
l’ἀρετή può essere insegnata, cercando di negarle il carattere di ἐπιστήμη, ha
ottenuto il risultato opposto: ne ha reso impossibile la trasmissione. Protagora
replica con un elogio di Socrate: più volte ha dichiarato a molti la propria stima nei
confronti di Socrate, che apprezza più di chiunque altro abbia incontrato, e non si
11
Con Apollonio Rodio e il ‘comando burbanzoso’ di Omero alla dea, in R. PRETAGOSTINI-E.
DETTORI (edd.), La cultura letteraria ellenistica. Persistenza, innovazione, trasmissione,
Roma 2007, 71-86.
12
Si possono ad esempio ricordare Protagora facchino e l’invenzione del cercine, «Rivista di
Filologia e Istruzione Classica», 134 (2005), 392-412, Protagora e l’orthoepeia nel Cratilo di
Platone, in G. ARRIGHETTI-M. TULLI (edd.), Esegesi letteraria e riflessione sulla lingua nella
cultura greca, Pisa 2006, 47-63, Protagora e la forza del discorso: la tradizione
sull’epanghelma, «Seminari Romani di cultura greca», 10 (2007), 277-291, Un poeta senza
Musa: la Verità di Protagora, in M. TULLI (ed.), L’autore pensoso. Un seminario per
Graziano Arrighetti sulla coscienza letteraria dei Greci, Pisa-Roma 2011, 71-108.
13
Ad esempio L’origine della tradizione sul processo di Protagora, in M. ERLER-S. SCHORN
(edd.), Die griechische Biographie in hellenistischer Zeit, Berlin-New York 2007, 285-301, e
Protagoras dans son contexte. L’homme mesure et la tradition archaïque de l’incipit,
«Métis», n.s. 5 (2007), 185-204, nonché Aristote et l’orthoepeia de Protagoras, in A.
HOURCADE-R. LEFEBVRE (edd.), Aristote: rationalités, Rouen 2011, 109-134, infine
Thucydides adoxos and Praxiphanes, in A. MARTANO-E. MATELLI-D. MIRHADY (edd.),
Praxiphanes of Mytilene and Chamaeleon of Heraclea. Text, Translation, and Discussion,
New Brunswick 2012, 495-523, e da ultimo Dal Protagora alla Repubblica: Platone e la
riflessione di Protagora su letteratura e paideia, in N. NOTOMI-L. BRISSON (edd.), Dialogues
on Plato’s Politeia (Republic). Selected Papers fron the Ninth Symposium Platonicum, Keio
University, Tokyo, 2-7 August 2010, Sankt Augustin 2013, 82-86.
14
Protagora tra filologia e filosofia. Le testimonianze di Aristotele, Pisa 2012.
18
stupirebbe se diventasse famoso per sapienza. In base al confronto con altre celebri
pagine del Teeteto (142c-d) e del Fedro (279a-b), Corradi a ragione dimostra poi che
questo elogio assume i toni della profezia. Protagora individua dunque in Socrate un
suo erede nell’ambito di un comune impegno di paideia. Ed è in effetti nel confronto
con Protagora che Socrate, superando lo scetticismo iniziale (319a-320c), riesce a
comprendere che l’ἀρετή può essere insegnata e a conquistare dunque, nella
prospettiva di Platone, il ruolo di maestro di una nuova paideia, forse superiore a
quella del pur grande sofista.
La lezione di Aldo Brancacci si è concentrata su altri due dialoghi di Platone,
Apologia di Socrate e Critone. Allievo di Guido Calogero e di Gabriele Giannantoni
presso l’Università degli Studi La Sapienza di Roma, Brancacci è stato ricercatore
del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha insegnato Storia del pensiero politico
classico nell’Università di Bari e oggi insegna Storia della filosofia antica
nell’Università di Roma Tor Vergata, dove è stato Coordinatore del Dottorato di
ricerca in Filosofia e Direttore della Scuola Superiore di Studi in Filosofia. Per
alcuni anni Professore distaccato presso il Centro Linceo Interdisciplinare
Beniamino Segre dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Premio Marcello Gigante
2002 per la Storia della filosofia antica, è nella Direzione del «Giornale Critico della
Filosofia Italiana», fa parte del Comitato Direttivo della rivista «Elenchos» nonché
del Comitato Scientifico dell’omonima collana e ha fondato e condirige la collana
«Quaderni di filosofia». Ha tenuto lezioni e seminari presso Università e centri di
studio in Italia e all’estero, partecipando come relatore a numerosi Convegni e
organizzando vari Seminari e Colloqui nazionali e internazionali. Vasta la sua
produzione di saggi e libri dedicati a vari aspetti della letteratura e della filosofia
greca, sempre apparsi in prestigiose sedi editoriali in Italia e all’estero15. Alle
numerose monografie16, affianca la cura degli Atti di Convegno17 nonché la cura di
15
Si può ricordare qualche saggio dell’ultimo decennio, ad esempio Zwei verlorene Schriften
des Antisthenes, «Rheinisches Museum», 146 (2003), 259-278, Il contributo dei papiri alla
gnomica di tradizione cinica, in M.S. FUNGHI (ed.), Aspetti di letteratura gnomica nel mondo
antico, II, Firenze 2004, 221-248, Episteme and Phronesis in Antisthenes, «Méthexis», 18
(2005), 7-28, Le concezioni di Socrate nei capitoli teologici dei Memorabili, «Elenchos», 29
(2008), 226-246, Dialettica e orthoepeia in Protagora, «Méthexis», 23 (2010), 53-71,
Musica, mimesis e paideia nella Repubblica di Platone, «Giornale Critico della Filosofia
Italiana», 89 (2010), 48-71, L’elogio di Isocrate nel Fedro, la chiusa dell’Eutidemo, e la
polemica isocrateo-antistenico-platonica, in G. CASERTANO (ed.), Il Fedro di Platone:
struttura e problematiche, Napoli 2011, 7-38, La pensée politique de Protagoras, «Revue de
Philosophie Ancienne» 30 (2012), 59-85, Mimesis, poésie et musique, in M. DIXSAUT-A.
CASTEL BOUCHOUCHI-G. KÉVORKIAN (edd.), Lectures de Platon, Paris 2013, 201-214.
16
Da Rhetorike philosophousa. Dione Crisostomo nella cultura antica e bizantina, Napoli
1986, a Musica e filosofia da Damone a Filodemo, Firenze 2008, e Studi di storiografia
filosofica antica, Firenze 2008.
17
Ad esempio Democritus: Science, The Arts, and the Care of the Soul. International
Colloquium on Democritus, Paris, 18-20 september 2003 (con P.-M. MOREL), Leiden-Boston
2007, o Philosophy and Doxography in the Imperial Age. Third International Colloquium on
Philosophy in the Imperial Age, Rome, 20-22 June 2002, Firenze 2005.
19
volumi collettivi18.
Nel suo intervento, Verità morale e sapere nell’Apologia di Socrate,
Brancacci è partito dall’osservazione che l’Apologia di Socrate è con il Critone testo
fondativo della filosofia di Platone: racchiude infatti molti temi di genesi quasi
certamente socratica, che Platone ha assunto in proprio e ha considerato, fin dagli
inizi della sua produzione letteraria, costitutivi del proprio pensiero. In particolare,
Brancacci si è soffermato sul nesso tra verità morale e sapere, che è alla base della
riflessione di Socrate, ma è centrale anche in Platone: proprio questo nesso spiega
come la rielaborazione del pensiero di Socrate in Platone non può essere riassunta
nella comoda ma sbrigativa e per certi versi ingannevole formula «sapere di non
sapere». Brancacci osserva che si tratta in realtà di «coscienza di non sapere»:
nell’Apologia Platone scopre la dimensione della coscienza. A partire da questa
dimensione è possibile anche comprendere il carattere positivo e dogmatico, opposto
cioè ad aporetico, delle importanti proposizioni teoriche attribuite a Socrate, le quali
sono presentate come oggetto di un sapere saldo e sicuro. Brancacci può così
sostenere che il tema gnoseologico, per Socrate assente o solo tardivamente
emergente, si è costituito proprio sul terreno della riflessione morale: il conoscere
avrebbe pertanto assunto per così dire una curvatura diversa da quella che avrebbe
potuto ricevere o ha effettivamente ricevuto quando si sia invece sviluppato a partire
dalla sede ontologica.
La seconda parte del «Quaderno» riporta i dati relativi al Certamen
nell’edizione del 2013. In primo luogo, naturalmente, il passo oggetto della
traduzione e del commento, Platone, Politico 271d3-271b4, presentato nell’edizione
critica a cura di Robinson19. Il passo è stato proposto dalla commissione formata da
Michele Buongiovanni, Armando Giucastro, Mario Regali, Enrico Schiralli. In
chiusura, l’elenco delle scuole che hanno preso parte al Certamen e l’elenco dei
vincitori della prova. Ma di tutti i ragazzi presenti vanno ricordati l’impegno e la
dedizione per l’intera durata di una esperienza non semplice, tradurre e interpretare
Platone.
MADDALENA VALLOZZA
18
Da Platon, source des Présocratiques. Exploration (con M. DIXSAUT), Paris 2002, ai recenti
Aglaia. Autour de Platon, Mélanges offerts à Monique Dixsaut (con D. EL MURR-D.
TAORMINA), Paris 2010, o La Repubblica di Platone, numero monografico del «Giornale
Critico della Filosofia Italiana», 89 (2010), e Herbart e Platone, Napoli 2011.
19
D.B. ROBINSON, in E.A. DUKE-W.F. HICKEN, W.S.M. NICOLL-D.B. ROBINSON- J.C.G.
STRACHAN, Platonis Opera, I, Oxford 1995. Cfr. A. CARLINI, Il nuovo Platone di Oxford,
«Rivista di Filologia e di Istruzione Classica» 124 (1996), 366-375.
20
FRANCESCO ARONADIO
Ethos individuale e comunità politica
nella Repubblica di Platone
Il rapporto fra l’ethos individuale e la comunità politica costituisce uno dei
nodi cruciali della riflessione di Platone, e dunque uno dei tratti caratterizzanti non
solo della sua filosofia ma più generalmente del suo profilo di intellettuale, calato in
un determinato spazio storico-culturale ma al tempo stesso capace di parlare anche
al di là degli stretti confini temporali segnati dalle contingenze. In effetti, anche la
tematica che sarà qui presa in considerazione, seppure interna all’elaborazione
filosofica di Platone, gode comunque di un respiro più ampio, com’è facile intuire se
si considera che il rapporto dialettico fra individuo e società è per ogni cultura, da
quelle cosiddette ‘etnologiche’ alle società complesse della nostra contemporaneità,
un momento costitutivo e fondativo, un banco di prova, per così dire, della tenuta
degli assetti che di volta in volta sono dati alla trama dei rapporti intersoggettivi. Le
particolari soluzioni che a questa tensione dialettica hanno fornito la cultura classica,
dapprima, europea, poi, e, infine, occidentale rappresentano, rispetto alle forme di
vita di altri mondi culturali, la specificità di quella tradizione, per la peculiare
maniera in cui essa ha tentato di raccogliere la sfida di un equilibrio tale da non
comprimere o dissolvere del tutto nelle pur legittime esigenze della coesione le
prerogative della sfera individuale. In questo quadro, ritengo, la riflessione platonica
assume un valore esemplare.
Già il parlare in chiave di rapporto e tensione dialettici è un frutto
dell’appartenenza a una visione del mondo, che riconosce la relativa alterità fra i due
domini dell’individuale e del comunitario, che riconosce, per meglio dire, la
conflittualità che li divide ma anche la necessità di un nesso fra i due e di una
reciprocità da risolvere in qualche modo. Ebbene, la prima cosa che vorrei
sottolineare è che Platone è stato, a mio avviso, il primo filosofo ad aver posto con
chiarezza e lucidità intellettuale i termini di questo nodo problematico,
prospettandolo già sotto la luce di questa relazione dinamica e non pacifica di cui sto
dicendo. In effetti, dalle pagine delle sue opere, e in particolare da quelle della
Repubblica, emerge in modo evidente che la struttura di una comunità politica
pienamente compiuta e il profilo psicologico individuale sono elementi che
facilmente confliggono fra loro, ma al contempo si implicano reciprocamente.
1. È appena il caso di ricordare che nel riferirsi a Platone l’uso dell’aggettivo
‘psicologico’ richiama la nozione di psyche, concetto complesso, e più ampio della
nostra categoria di ‘mentale’, poiché indica ciò che costituisce l’essenza dell’uomo
nella sua integralità, e, semplificando, abbraccia in una sola dimensione ciò che lo
qualifica al tempo stesso come essere vivente, come soggetto conoscente e come
21
soggetto morale. È questo l’orizzonte entro cui prende forma nella riflessione di
Platone l’intreccio dialettico fra individuo e comunità, ed è questo l’orizzonte di
senso del celebre parallelismo che il filosofo istituisce nella Repubblica fra psyche e
polis: queste ultime, com’è noto, sono intese come strutture isomorfe, sulla base
della convinzione che le dinamiche proprie della psyche, a livello microscopico, si
ripropongono, a livello macroscopico, nella polis. Ma, se ci si fermasse a una simile
semplice schematizzazione, si potrebbe essere indotti a supporre che l’intreccio
individuo-società sia concepito e rappresentato da Platone in termini puramente
analogici, laddove, come cercherò di mostrare, il nesso è pensato dal filosofo in
modo più raffinato e profondo. Certamente, dal modo in cui il parallelismo psychepolis è stato inteso dagli studiosi discendono varie chiavi di lettura interpretative, da
quelle che tendono a neutralizzare la portata politica di questa riflessione, come, ad
esempio, la lettura offerta da Julia Annas1, la quale assegna alla dimensione politica
una funzione esclusivamente metaforica e ritiene pertanto centrale esclusivamente
l’aspetto morale del riferimento alla psyche, fino a quelle interpretazioni che, al
contrario, accentuano e radicalizzano gli esiti politici cui Platone perviene e fanno di
lui il campione del totalitarismo, se non addirittura l’antesignano di un’eugenetica
razzista2. Ma si tratta in questi casi dell’effetto di un abito intellettuale che è dal
punto di vista storico-filosofico fuorviante, ancorché da altri punti di vista forse
suggestivo: l’abito, cioè, di rapportarsi a testi antichi sotto la pressione di urgenze
storiche contemporanee; quando non si tratti della semplice tendenza a sovrapporre
inavvertitamente categorie concettuali moderne o comunque posteriori nella lettura
di un testo filosofico d’altra epoca.
Sarà opportuno, dunque, tratteggiare preliminarmente il retroterra culturale
nel quale le elaborazioni concettuali di Platone hanno preso forma, e, in particolare,
delineare rapidamente il quadro concettuale scaturito dalle riflessioni morali ed
etiche dei predecessori, specificando quale sia la collocazione assunta in esso da
Platone. Va subito detto che egli raccoglie le istanze di quel processo di
superamento della morale omerica che ha visto come protagonisti i grandi poeti
tragici, da un lato, e i filosofi, dall’altro, con i sofisti e Socrate in posizione
preminente.
È invalso l’uso di etichettare quell’insieme di valori che costituisce, in linea
generale, il sistema di riferimento etico tipico della società greca arcaica come
‘morale omerica’. Essa, come regolarmente accade nelle società arcaiche, era
incentrata sulla figura esemplare dell’eroe: esemplare perché costituiva appunto un
exemplum, una concreta espressione del valore, nel duplice significato di questo
termine. ‘Valore’, infatti, è per il mondo omerico la valentia militare, la capacità
1
J. ANNAS, Politics and Ethics in Plato’s Republic, in O. HÖFFE (ed.), Platon, Berlin 1997,
141-160; EAD., Platonic Ethics, Old and New, Ithaca 1999, in particolare il cap. IV: The Inner
City: Ethics without Politics in the Republic, 72-95.
2
Cfr. K.R. POPPER, The Open Society and its Enemies, I, The Spell of Plato, London 1944,
trad. it. Roma 1973; per un approfondimento critico di questi temi si vedano M. VEGETTI,
Come, e perché, la Repubblica è diventata impolitica?, «Giornale critico della filosofia
italiana» 89 (91) 2010, 12-33; L. BERTELLI, Platone contro la democrazia (e l’oligarchia), in
M. VEGETTI (ed.), Platone. Repubblica, VI, Napoli 2005, 295-396.
22
dimostrata nel campo di battaglia, ma anche quella dimostrata nel guidare i propri
uomini, in guerra come in pace, e, di conseguenza, fonti di ‘valore’ sono anche
l’abilità e la saggezza del capo. Si tratta dunque di una morale imperniata non su
nozioni assiologiche concettualizzate ma su modelli di comportamento concreti e
necessariamente stereotipati. La forza normativa di tali modelli si interseca poi con
la struttura sociale nella quale gli uomini, gli agenti morali, si trovavano inseriti,
cosicché nella permanenza del modello di riferimento il comportamento moralmente
buono variava a seconda dello status dell’agente, e variamente si traduceva in atti
concreti: nell’imitazione del modello, cioè dell’eroe, per coloro che appartenevano
ai ranghi superiori della piramide sociale, o nell’obbedienza a esso, per coloro che
erano anche socialmente sottoposti.
È evidente che questa concezione del valore è commisurata alla semplicità
della vita individuale e collettiva delle poleis arcaiche, atomiche città-stato rette
ciascuna da un basileus, una sorta di signore-padrone-condottiero. La caratteristica
di queste realtà socio-politiche è la loro struttura gerarchica, per la quale i rapporti
intersoggettivi sono rigidamente verticali e si fondano sull’onore di chi è situato al
vertice di questa scala, e sul riconoscimento e il rispetto che lo splendore stesso
dell’eroe suscita.
Ma questa funzionale integrazione fra sistema valoriale, struttura politica ed
esigenze di difesa della collettività e degli individui è adatta a piccole comunità,
chiuse e isolate. E’ lo stesso Platone nella Repubblica a rilevare che, non appena una
comunità politica si apre a stimoli esterni, come accadde gradualmente alle antiche
città-stato, alla dinamica puramente verticale delle relazioni gerarchiche si affianca
l’esigenza di moltiplicare gli scambi e di dar forma a una serie di rapporti fra pari,
orizzontali. Il ‘valore’ dell’eroe non è più in grado di riassumere in sé tutte le istanze
che la complessità sociale, derivante, ad esempio, dal diffondersi del commercio,
porta con sé; i rapporti orizzontali delineano nuovi modelli di comportamento e
nuove forme di interazione, e con esse nuove occasioni di conflitto, che richiedono
una modalità di disciplinamento diversa da quella dell’autorità patriarcale del
basileus.
E’ a partire da questo quadro che si determina il processo di superamento
della morale omerica, a cui facevo poc’anzi riferimento. Riprendendo le tesi
avanzate da Vegetti nel suo bel libro sull’Etica degli antichi 3, si può affermare che
tale superamento ha luogo secondo due direzioni, apparentemente contrastanti:
l’interiorizzazione della morale e la sua politicizzazione. La prima di queste
direzioni, l’interiorizzazione, conduce a individuare nella natura umana un organo
cui sia deputato il compito di dirigere le scelte comportamentali e risolvere la
conflittualità. Si forgia in tal modo la nozione di psyche, ed ha così luogo una
significativa trasformazione sul piano dell’autoconsiderazione dell’agente morale,
poiché ad uno stereotipo di agente esemplare, quale era l’eroe, si sostituisce come
sede delle scelte pratiche l’ ‘io’ di ciascun uomo.
La seconda direzione porta, come dicevo, a politicizzare la morale: è una
linea di sviluppo che risponde all’esigenza di pervenire a una normatività garantita
3
M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Roma-Bari 1989.
23
da un assetto istituzionale della comunità, del quale l’intera comunità si senta autrice
e partecipe. Ne consegue la valorizzazione della nozione di nomos, di ‘legge’, che dà
luogo all’affermarsi, accanto all’ ‘io’ del soggetto agente, di un ‘noi’ collaborativo.
La morale di Socrate, incentrata appunto sulla nozione di anima, può essere
considerata come la sintesi di queste due tendenze. Nella dinamica storico-culturale
che si sta qui molto sinteticamente ripercorrendo, Socrate rappresenta un momento
alto, exemplum egli stesso – ancorché tragico – di una piena corrispondenza dell’
‘io’ e del ‘noi’, che ha dato spunto a quelle forme di vagheggiamento della ‘bella
totalità’ che, ad esempio, Hegel intravedeva nell’assetto politico della polis, ove le
istanze degli individui erano raccolte e potenziate. Ma, pur ammesso che si sia mai
storicamente data, se non una tale piena corrispondenza della dimensione
individuale con la dimensione politica, almeno una certa adesione ed osmosi fra
queste due dimensioni (fatte salve, ovviamente, le differenziazioni sociali e i loro
riflessi sulle regole di accesso alle leve del potere o di esclusione dalla vita politica
attiva), in ogni caso Platone, diversamente da Socrate, vive l’esperienza della polis
post-periclea, vive il deteriorarsi dei fragili equilibri su cui si era sperimentato un
assetto politico largamente inclusivo in Atene ed è testimone ravvicinato
dell’esperienza drammatica dei Trenta Tiranni e poi del processo e della condanna
dell’exemplum Socrate. Non poteva non farsi sentire in lui l’attrito intrinseco alle
due linee di trasformazione della moralità prima richiamate: l’interiorizzazione della
morale comporta la scoperta di una profondità dell’ ‘io’ che assume anche i tratti
dell’abisso, nella misura in cui nell’io stesso si rinvengono le radici pulsionali dei
mali che minano gli equilibri personali e collettivi; la politicizzazione della morale,
dal canto suo, mette invece a nudo i profondi contrasti che ineludibilmente
caratterizzano le relazioni intersoggettive.
2. Alla luce e sulla scorta dell’esperienza storica vissuta, il compito che
Platone si propone con grande consapevolezza, come emerge chiaramente dalle
pagine della Repubblica, è rendere conto della stasis, dello stato di guerra civile, non
come un dato occasionale, ma come un fattore strutturale, della dimensione politica
così come della dimensione individuale4. Renderne conto significa innanzi tutto
individuarne i fattori genetici, e dunque fornirne una spiegazione, ma anche, in
seconda battuta, delineare le ragioni e i modi del superamento di queste
conflittualità. E’ ben noto quali siano stati i primi esiti teorici di queste esigenze:
innanzi tutto, Platone è venuto elaborando una concezione della psyche – e, dunque,
per il significato ampio di tale termine di cui si diceva, una concezione dell’uomo –
assai sofisticata e pregnante. Abbandonando il modello bipolare soma/psyche, per il
quale si addensavano sul versante del soma, del corpo, tutte le componenti deteriori
della vita e del comportamento dell’uomo e su quello dell’anima le sue funzioni
superiori, Platone introduce nei dialoghi della maturità un modello tripartito, vale a
dire un modello che prevede un’articolazione tutta interna alla psyche. Platone infatti
distingue, come si sa, tre diverse componenti motivazionali, quella del desiderio,
4
Sulla conflittualità interna alla psyche si può vedere, ad esempio, A.W. PRICE, Mental
Conflict, London-New York 1995, in particolare i capp. 1-2.
24
quella dell’aggressività e quella dell’intelligenza razionale: tre componenti che
costituiscono i fattori del comportamento dell’uomo in ogni suo aspetto, poiché in
tal modo all’attività della psyche sono ricondotte anche le funzioni e le affezioni del
corpo5. Tale operazione filosofica comporta, infatti, l’interiorizzazione di tendenze
(irrazionali, arazionali o prerazionali) che, nel precedente modello, erano di
pertinenza del corpo6. Alla scissione, in un certo senso irrimediabile, fra una
dimensione corporea e terrena, da un lato, e una dimensione mentale e ideale,
dall’altro, Platone sostituisce una concezione per la quale l’inevitabile conflittualità
che caratterizza la vita dell’uomo è portata all’interno di quella sua dimensione
essenziale che è la psyche; ma questa riconduzione del conflitto all’unico terreno
psichico è anche la premessa teorica per una prospettiva di un suo superamento,
laddove il modello precedente descriveva la conflittualità nei termini di una sterile
frattura. Il corrispettivo di questo quadro psicologico sul piano politico nient’altro
era per Platone che lo stato perennemente conflittuale della polis, dalle conseguenze
particolarmente deleterie nel momento storico in cui Platone visse e a cui facevo
poc’anzi riferimento. Già dal libro I della Repubblica, dedicato alla discussione del
tema della giustizia, risalta chiara la consapevolezza dello stato di emergenza in cui
versavano le istituzioni politiche di Atene, ma altrettanto chiara è la consapevolezza
del fatto che, al di qua dell’emergenza storica situata, la conflittualità è un dato
5
Il dibattito sulla natura e sull’articolazione delle componenti della psyche secondo Platone è
ancora aperto. Fra i numerosissimi studi dedicati all’argomento mi limito a richiamare alcuni
fra i più recenti contributi, che esemplificano tendenze esegetiche che vanno delineandosi
negli studi attuali: C. ROWE, Plato and the Art of Philosophical Writing, Cambridge-New
York 2007, ritiene, diversamente da quanto qui sostenuto, che il reale modello platonico di
psyche sia quello unitario di matrice socratica e che, pertanto, le descrizioni in termini di una
sua articolazione siano versioni parziali che Platone fornisce per mostrarne i limiti e per
sottolineare la necessità di un mantenimento della prospettiva socratica; C. GILL, What is the
Point of the Tripartite Psyche in Plato’s Republic?, in N. NOTOMI-L. BRISSON (edd.),
Dialogues on Plato’s Politeia (Republic). Selected Papers from the Ninth Symposium
Platonicum, Sankt Augustin 2013, 161-167, molto radicalmente ritiene che non sia corretto
parlare di una dottrina della psyche per la Repubblica di Platone, dal momento che le diverse
esposizioni della struttura dell’anima in essa contenute sono in realtà inscindibili dal tessuto
narrativo e argomentativo del dialogo e funzionali esclusivamente a esso; F. FRONTEROTTA,
La concezione dell’anima nella Repubblica di Platone, «Giornale critico della filosofia
italiana» 89 (91) 2010, 98-133, afferma invece che le oscillazioni fra la versione tripartita e
quella duplice o unitaria della psyche nella Repubblica discendono dalla prospettiva di volta
in volta adottata da Platone, che nel corso della trattazione guarda alla psyche in relazione alla
sua natura ontologica oppure in rapporto alle funzioni che essa svolge nella sua azione di
governo del corpo.
6
La complicata coesistenza delle componenti razionale e irrazionale dell’anima è oggetto di
continua attenzione negli studi e luogo di divergenze interpretative. Per le tendenze più
recenti cfr. H. LORENZ, Desire and Reason in Plato’s Republic, «Oxford Studies in Ancient
Philosophy» 27 (2004), 83-116; R.F. STALLEY, Persuasion and the Tripartite Soul in Plato’s
Republic, «Oxford Studies in Ancient Philosophy» 32 (2007), 63-89; J. MOSS, Appearances
and Calculations: Plato’s Division of the Soul, «Oxford Studies in Ancient Philosophy» 34
(2008), 35-68; T.S. GANSON, The Rational/Non-Rational Distinction in Plato’s Republic,
«Oxford Studies in Ancient Philosophy» 36 (2009), 179-197.
25
strutturale di una compagine politica che non sia la semplice e naturale
consociazione di uomini spinti a unirsi in gruppo per soddisfare semplici bisogni
naturali. In una società basata su un più complesso sistema di bisogni ha luogo il
differenziarsi di centri di interesse che inevitabilmente entrano in competizione fra
loro: ciò può produrre uno stato di conflittualità anche soltanto latente, che tuttavia
può facilmente sfociare nella stasis, vale a dire in una contrapposizione forte fra le
componenti dello stato. Ma, come già visto a proposito della psyche, anche per la
polis vale l’orientamento secondo cui la possibilità stessa di prospettare un modello
politico in cui si affermi la giustizia muove, nella prospettiva teorica assunta da
Platone, dalla presa d’atto della strutturale conflittualità delle società complesse.
Come l’equilibrio dell’uomo, così anche la giustizia nella polis non è qualcosa di
dato in natura, qualcosa da cui muovere, ma è un obiettivo da perseguire e un
compito da assolvere7.
Sappiamo quale fosse la soluzione tratteggiata da Platone nella Repubblica: il
disegno di una kallipolis, di una città bella, che fosse tripartita, articolata appunto in
tre corpi, distinti per funzioni – i produttori, i difensori della città e i reggitorifilosofi – e armonicamente integrati fra loro, in quanto si attengano a modelli
comportamentali specifici per ciascuna funzione e ispirati a quell’unico criterio di
convivenza, che è la giustizia intesa come rispetto degli impegni derivanti dalle
proprie funzioni e come rinuncia alla tendenza a prevaricare invadendo ambiti di
competenza altrui: ne deriverebbe una coesistenza collaborativa fra soggetti politici
diversi e corpi sociali differenziati. Ma non è qui mio intento soffermarmi su questa
soluzione, sul suo carattere più o meno utopistico, sulla sua valenza prevalentemente
etica o squisitamente politica, sulla sua connotazione rivoluzionaria o reazionaria.
L’aspetto che mi preme sottolineare non è quello relativo ai contenuti e agli esiti
della proposta platonica: più rilevante, e forse anche più fecondo e attuale, mi
sembra invece portare alla luce il gioco di relazioni concettuali attraverso cui
Platone fa interagire le conflittualità della psyche e della polis, ed evidenziare così la
ragione del nesso che egli intravede fra individuo e comunità, nesso rispetto al quale
la conclusione cui egli perviene è solo uno dei possibili sviluppi8.
3. Dicevo che il rapporto che Platone istituisce fra il livello macroscopico
della polis e quello microscopico della psyche non è il frutto di un semplice
parallelismo. L’avere preso atto della strutturale conflittualità inerente a ciascuna di
queste due dimensioni è il primo passo verso l’elaborazione di un quadro
problematico ad esse comune, la cui unitarietà non discenda da una semplice
7
Su questo punto si vedano le efficaci considerazioni di F. ZUOLO, Platone e l’efficacia.
Realizzabilità della teoria normativa, Sankt Augustin 2009, 29-32.
8
Per un punto di vista interpretativo differente sulla relazione fra psyche e polis si rinvia
all’ormai classico studio di B. WILLIAMS, The Analogy of City and Soul in Plato’s Republic,
in E.N. LEE-A.P.D. MOURELATOS (edd.), Exegesis and Argument. Studies in Greek
Philosophy presented to Gregory Vlastos, Assen 1973, 196-206, ora in G. FINE, Plato, II,
Ethics, Politics, Religion, and the Soul, New York 1999, 255-64, il quale ritiene che
l’isomorfismo non rende adeguatamente conto della necessaria comunicazione che deve
sussistere fra le due dimensioni.
26
analogia, ma dalla convinzione che il dispiegarsi dei conflitti su uno dei due versanti
sia un segnale della presenza di un conflitto irrisolto nell’altro. L’impostazione
problematica che Platone inaugura riguardo a questi temi impone che la via per il
superamento della conflittualità passi attraverso entrambe le dimensioni in gioco,
giacché non v’è superamento della conflittualità politica senza il superamento delle
lacerazioni che affliggono gli individui, e viceversa. Una tale impostazione
problematica, come si vedrà, nasce da un orizzonte di comprensione delle dinamiche
psicologiche e sociali che non è più il nostro, ma che dalla sua lontananza ha forse
qualcosa da dirci. Uno degli elementi che aiuta a comprendere la particolare sinergia
e interazione fra la sfera dell’individualità e quella della collettività è il concetto di
ethos (h\qo"): si tratta infatti di una nozione di grande rilievo in entrambe queste
sfere, poiché presenta una fisionomia del tutto particolare che le consente di fungere
da autentico snodo fra l’ambito psicologico e l’ambito politico. L’ampiezza
semantica del termine ethos non ha esatti corrispettivi nella lingua italiana: lo sforzo
che occorre compiere nel considerarne l’uso che ne fa Platone è, allora, cercare di
comprendere come quelli che a noi, nella nostra lingua, appaiono essere differenti
significati di ethos siano invece da tenere insieme come elementi di un unico campo
semantico. Se si riuscirà a entrare in questa prospettiva, allora si guadagnerà una
visuale tale da farci comprendere anche su quali basi per Platone si debba pensare
che i domini dell’individuale e del politico siano legati fra loro, come dicevo, in una
sorta di processo osmotico.
Nel prendere rapidamente in esame la nozione di ethos sarà allora necessario,
dapprima, procedere analiticamente, individuando le diverse accezioni con cui
Platone impiega il termine nella Repubblica, e, in seconda battuta, tentare una
sintesi, volta a mettere in risalto il carattere di snodo che tale nozione assume nel
lessico e nella riflessione del filosofo. E’ tuttavia opportuno fornire preliminarmente
una precisazione: sebbene il nome ethos faccia risuonare subito in noi assonanze con
termini come ‘etica’ e i suoi derivati, nella lingua greca e nell’uso platonico il
sostantivo in quanto tale non indica un carattere determinato in senso morale e non
comporta una connotazione valoriale positiva. Negli scritti di Platone l’ethos è
qualificato ora come buono ora come cattivo, ora come giusto ora come infido,
cosicché si può affermare che la nozione di ethos è per Platone moralmente neutra.
La prima accezione fondamentale con cui tale nozione è utilizzata nella
Repubblica è quella per cui essa designa una conformazione dell’anima, una sua
propria qualità d’essere. Significativamente, ad esempio, in un passo volto a
formulare una descrizione di un uomo – nel caso specifico: di un uomo buono –
Platone fa riferimento all’accordarsi in esso di un aspetto esteriore armonico e di
kala ethe, di una bella indole9. Questa distinzione fra l’aspetto esteriore e l’ethos
mostra come quest’ultimo sia collocato nella sfera dell’interiorità della psyche.
Si tratta di una dimensione dell’anima che presenta una sua complessità.
Quando nel corso del dialogo ci si propone di individuare uomini adatti a ricoprire il
ruolo di phylakes, cioè di guardiani-difensori dello stato, si sottolinea come essi
debbano avere un «ethos mite e insieme capace di grande collera», cosa
9
Plat. Resp. 402d1-4.
27
problematica perché «la natura mite è in effetti opposta a quella collerica»10. Ma –
continua il personaggio del dialogo – si trovano anche fra gli animali esempi di una
simile commistione di nature: «l’ethos per natura [l’indole naturale] dei cani di
buona razza è proprio questo, di essere miti come più non si potrebbe verso le
persone note e familiari, e il contrario verso gli sconosciuti»11. L’ethos è qui
presentato come quell’assetto complessivo della psyche in sé unitario, pur se
attraversato da tendenze contrastanti, pensato come una dotazione naturale
dell’individuo, come una parte del corredo del suo essere o, più precisamente, del
suo esistere empirico.
Due considerazioni sono ancora da svolgere al riguardo. In primo luogo, c’è
da sottolineare come la nozione di ethos abbia un valore puramente descrittivo
quando viene impiegata per designare la conformazione della psyche, l’indole di un
individuo: non indica di per sé una disposizione ad agire, ma per così dire, fotografa
una foggia propria dell’anima. In secondo luogo, però, non si deve credere che
l’accezione dell’ethos come una qualità della psyche, come una sua dotazione
originaria, escluda che esso possa subire delle modificazioni. Fra gli aggettivi che
sono attribuiti all’ethos, infatti, troviamo in Platone malakon «morbido», skleron
«duro», stereon «rigido», «fermo»12: si tratta di aggettivi che descrivono la
consistenza dell’ethos sotto una metafora fisica, quasi fosse materia, e che mettono
in risalto il fatto che si tratta di una realtà più o meno malleabile, ma comunque tale
da poter essere plasmata. Accanto all’accezione di ethos come indole, un’altra
valenza semantica si riscontra di frequente nell’uso platonico del termine. Nei suoi
scritti, come del resto in generale nella lingua greca, ethos significa «uso»,
«costume». Gli impieghi del termine secondo questa accezione sono dunque volti a
designare moduli di comportamento assunti dagli uomini e socialmente condivisi:
dell’ethos in questa accezione si rimarca dunque la visibilità e il suo tradursi in
effetti pratici, con un riferimento forte alla dimensione dell’empirico e alle
dinamiche che riguardano la vita dell’uomo nel suo essere calato in rapporti con altri
uomini.
Secondo questa valenza la nozione di ethos viene allora a concernere la
forma dei comportamenti, vale a dire gli stili di vita propri di gruppi di uomini, che
sono caratterizzati da affinità culturali o politiche. Quando elabora il suo progetto di
kallipolis, ad esempio, Platone è perfettamente consapevole che esso andrebbe
calato in un contesto già dato, poiché i cittadini vivono di volta in volta secondo ta
vyn ethe, secondo i costumi del momento13. Analogamente, nelle Leggi, allorché si
pone il problema delle nuove norme giuridiche che si rendono necessarie quando si
dà luogo a forme di convivenza con altri gruppi etnici, emerge chiara la
consapevolezza del contrasto che può insorgere con gli ethe originari, con i costumi
10
Plat. Resp. 375 c 6-8.
Cfr. Plat. Resp. 375d7-e 4.
12
Cfr., per esempio, Plat. Resp. 309b4 (per stereon), Leg. 666c1 (per malakon e skleron).
13
Cfr. Plat. Resp. 540e5-541a4.
11
28
tradizionali14. Ma, come già si è visto a livello di indole individuale, il fatto che i
costumi e l’ethos di un gruppo si caratterizzino per un forte radicamento nella
tradizione non esclude la possibilità della trasformazione e del progresso verso
forme di vita più consone alle diverse configurazioni che nel tempo le società
vengono via via ad assumere. Non a caso in molte occasioni il termine ethos
compare in luoghi ove si illustrano o si raccomandano processi di vera e propria
formazione dei costumi: l’ethos in tali occasioni è presentato come il prodotto
dell’azione politica dei governanti15, oppure come il frutto del controllo esercitato
dagli adulti e dalla comunità politica sui processi di crescita e di formazione dei
giovani, la trophe16 e la paideia17.
4. L’analisi della semantica del termine ethos potrebbe essere portata più a
fondo, fino a individuare ulteriori sfumature di significato e una più ricca
articolazione dell’area semantica18. Ma non è possibile qui spingere oltre l’analisi; e,
del resto, già l’individuazione delle due accezioni segnalate, quella più ‘psicologica’
di indole e quella più ‘sociologica’ di costume, è base sufficiente per alcune
osservazioni. Innanzi tutto, è significativo che la nozione di ethos risulti pertinente e
rilevante tanto in riferimento alla psyche quanto in riferimento alla polis. È proprio
questo uno dei motivi per cui inseguire la semantica di questa parola mi è sembrata
strategia corretta e feconda: è opportuno ricordare che non si tratta di un termine
tecnico del lessico filosofico platonico, il che fa sì che, a maggior ragione, il suo
impiego sia luogo di manifestazione di una visione del mondo che Platone condivide
con la cultura del suo tempo e che egli, simultaneamente, da filosofo, elabora e
chiarisce concettualmente. Ora, quello che il lungo giro di argomentazioni della
Repubblica dispiega in termini di mero parallelismo, di semplice giustapposizione
fra la sfera privata della psyche e quella pubblica della polis, si rivela come
l’esplicitazione e l’elaborazione concettuale di un abito mentale che trova la sua
sintetica espressione nel termine ethos e per il quale quelle due dimensioni si
trovano congiunte in uno stretto intreccio.
Dalle brevi considerazioni svolte sulle due valenze semantiche emerge in
modo, credo, evidente che, se è fuor di dubbio che quella di ethos è nozione che
14
Cfr. l’occorrenza in Plat. Leg. 708c7, che cade in un passo ove Platone mette in luce la
possibilità di un contrasto fra i costumi (ethe) di un gruppo, derivanti da un’originaria
comunanza di stirpe e di lingua, e le nuove leggi che si renderebbero necessarie in caso di
convivenza di quel gruppo con altri gruppi. Per altri esempi di ethe che esprimono la
condivisione di determinati tratti culturali, cfr. ancora le occorrenze in Leg. 832b6, 679b8,
922b8, 949e8.
15
Cfr. le occorrenze in Plat. Resp. 500d5, 501c1 (da leggersi in relazione a quanto affermato
in 501b), Leg. 711b5, 718e3.
16
Cfr. Plat. Resp. 558d2, 572d6, Leg. 695e1.
17
Cfr. Plat. Resp. 308e7, 311b9, Leg. 670e1.
18
Per un più ampio ventaglio di riferimenti testuali e una più dettagliata analisi delle valenze
semantiche del termine ethos, mi permetto di rinviare al mio Psicologia e politica nella
Repubblica di Platone: il ruolo dell’ethos, «Giornale Critico della Filosofia Italiana» 89 (91)
(2010), 491-516.
29
concerne primariamente l’individuo, vuoi in riferimento alla qualità della sua vita
interiore vuoi in relazione ai comportamenti esteriori e ai rapporti con altri individui,
è altrettanto chiaro che esso è la risultante di fattori sia endogeni sia esogeni. Già s’è
notato come Platone affermi che la physis dei diversi individui, la loro dotazione
naturale, comporti una determinata conformazione delle rispettive anime, e non è il
caso di insistere oltre su questo versante della semantica del termine; al tempo
stesso, è del tutto evidente che i progetti educativi esposti nella Repubblica hanno
come mira precisamente la trasformazione dell’ethos dell’individuo cui sono mirati.
A sostegno di quest’ultima considerazione si potrebbe fare riferimento a quanto si
ricava anche da dialoghi più tardi della Repubblica, appartenenti a una fase della
produzione platonica nella quale, a detta di alcuni, il filosofo avrebbe assunto una
prospettiva meno progettuale e più ‘realistica’, con un taglio, per così dire, meno
‘statalista’, una prospettiva nella quale, nondimeno, trova ancora chiara espressione,
anche a livello di costumi individuali, l’idea che la formazione delle coscienze e
degli abiti comportamentali è per il filosofo uno, e forse il più importante, degli
obiettivi dell’arte politica: rinvio soltanto, senza soffermarmi, a un gruppo di
occorrenze di ethos nel Politico19, dove con tale termine si continua a indicare il
prodotto dell’educazione o dell’azione formativa dello stato.
Il fatto che l’ethos sia il crocevia di interventi di modificazione provenienti
tanto dall’interno dell’individuo quanto dall’esterno mostra, una volta di più, come
non basti porre la questione della relazione fra la sfera individuale e quella collettiva
in termini di estrinseco parallelismo, di mera ubiquità. Al contrario, si tratta di
un’intima sinergia fra interno ed esterno, il cui senso va recuperato se si vuole
tentare di porsi dalla prospettiva di un parlante greco nell’Atene del IV sec. a.C., e
da questa prospettiva rendere ragione della compattezza della semantica di ethos,
così poco sovrapponibile a quella dei lessemi appartenenti ai nostri linguaggi
contemporanei. Per comprendere questa sinergia sono illuminanti alcuni luoghi della
Repubblica. Emblematici dell’intimo intreccio individuo-collettività sono i casi in
cui il termine è impiegato per indicare un tipo d’uomo corrispondente a un
determinato assetto istituzionale, occorrenze che mostrano come Platone supponga
un’inestricabile correlazione fra le forme che assumono storicamente le poleis e i
modelli comportamentali di differenti tipologie di psyche 20.
Ma un esempio particolarmente significativo è la pagina 500b-501b; Platone
vi descrive l’azione che può essere esercitata sulla polis dal filosofo, ma che è
soggetta a una condizione: che le circostanze in cui opera gli diano la possibilità di
«trasporre negli ethe pubblici e privati degli uomini quell’ordine che egli vede lassù
[cioè nella sfera delle idee]»21: quella che viene qui prospettata è un’opera di
autentica plasmazione che tiene conto tanto di criteri normativo-ideali quanto di
componenti empiriche facenti capo alle nature intrinseche degli uomini e che
suppone comunque una capacità modificatrice dell’assetto istituzionale e politico
19
Plat. Resp. 308e7, e9, 311b9; cfr. anche Ep. VII 335 D 7.
Cfr. le occorrenze del termine in Plat. Resp. 549a8, 557c6, 561e4, 572d6.
21
Plat. Resp. 500d5.
20
30
sulle forme di vita.22. In riferimento all’attività del filosofo, il personaggio Socrate
formula poi la domanda retorica: «Se […] si trova talvolta costretto a tentare di
tradurre in ethe umani gli oggetti delle sue sublimi visioni, sia nell’ambito privato
sia in quello pubblico, senza limitarsi a plasmare soltanto se stesso, credi che sarà
cattivo artefice di temperanza, di giustizia e di ogni virtù popolare?»23. L’intervento
che il filosofo, deputato a governare nello stato, opera sugli ethe dei cittadini è
descritto negli stessi termini dell’attività manipolativa di un artigiano; ma,
soprattutto, ancora una volta si può notare come l’attività educativa del filosofo si
dispieghi indifferentemente, anzi direi, simultaneamente sul piano privato e su
quello pubblico, sul piano della formazione delle coscienze individuali e su quello
della costituzione degli assetti politici. Ed è sempre la nozione di ethos che consente
di comprendere come per Platone questi due domini possano e debbano essere tenuti
assieme: al punto che in un altro passo della Repubblica, alla pagina 545b, Platone ci
ricorda che è possibile osservare gli ethe nelle costituzioni allo stesso modo che nei
singoli individui24. Se questo è vero, se l’ethos è un qualcosa che funge da cerniera
fra fenomeni individuali e collettivi, allora esso, dal punto di vista di Platone, si
profila come il terreno sul quale tentare di dare luogo tanto alla promozione morale
dell’individuo quanto all’ordine e al benessere della collettività; ma a questo punto,
in virtù del rapporto sinergico fin qui delineato, possiamo anche invertire i fattori e
dire che la cura dell’ethos costituisce la strategia vincente per promuovere tanto la
moralità della collettività quanto lo sviluppo della sfera degli interessi individuali,
senza timore che un aspetto prevalga e comprima l’altro, poiché si tratta di processi
che, una volta innescato il circolo virtuoso del buon ethos, procedono
armonicamente di pari passo e in modo interdipendente.
Una latente conflittualità è all’origine della ricchezza della vita dell’individuo
così come è all’origine della ricchezza della polis; ma il dispiegarsi di tale strutturale
e fisiologica conflittualità in una forma di squilibrio è una dinamica che coinvolge
sempre entrambe le dimensioni: se assume i connotati di una dinamica patologica
sul piano della convivenza politica è anche perché i cittadini sono affetti da una
patologia della loro coscienza civica; e simmetricamente, se assume i connotati di
una disarmonia dell’individuo è anche perché il contesto politico in cui questo è
cresciuto non è stato armonico, è stato corrotto. Su quanto queste considerazioni
22
Se ho fatto poc’anzi ricorso al sostantivo ‘plasmazione’, è per rendere il platonico plattein
(500d6), che, come M. VEGETTI (ed), Platone. La Repubblica, V, Napoli 2003, 70 n. 88,
giustamente rileva, è verbo che «esprime bene la concezione platonica di una ‘plasticità’
dell’io e della società, che possono venire modellati dall’azione etico-politica conforme al
paradigma ideale».
23
Plat. Resp. 500 d4-8. In F. FERRARI (ed.), Platone. Il governo dei filosofi, Venezia 2014, p.
177 n. 97, interessanti osservazioni su questo passo, da leggersi come uno dei luoghi in cui è
più evidente l’impraticabilità di quelle interpretazioni (di cui, ad es., supra, n. 1) che tendono
a sottovalutare la portata non solo morale, ma anche politica della trattazione platonica.
24
Plat. Resp. 545b3-4. Per una discussione in chiave problematica del nesso posto da Platone
fra la sfera dei fenomeni sociali e quella della psicologia individuale cfr. W. KÜHN,
Caractères collectifs et individuels. Platon, ‘République’ IV, 434d2-436b3, «Revue de
Philosophie Ancienne» 12 (1994), 45-64.
31
platoniche possano essere un giovevole spunto di riflessione per la comprensione e
l’azione nei difficili tempi che stiamo vivendo, il giudizio è al lettore. Di certo, non
renderemmo giustizia a Platone se cercassimo di attualizzarlo saltando a piè pari le
dovute mediazioni; ma è altrettanto certo che attraverso la restituzione al proprio
tempo del testo di un filosofo se ne può comunque cogliere una trasversale portata
storica, che lo emancipa dal suo tempo e lo rende capace di parlarci ancora oggi.
Elenco delle opere citate
J. ANNAS, Platonic Ethics, Old and New, Ithaca 1999.
J. ANNAS, Politics and Ethics in Plato’s Republic, in O. HÖFFE (ed.), Platon, Berlin 1997.
F. ARONADIO, Psicologia e politica nella Repubblica di Platone: il ruolo dell’ethos, «Giornale
Critico della Filosofia Italiana» 89 (91) 2010, 491-516.
L. BERTELLI, Platone contro la democrazia (e l’oligarchia), in M. VEGETTI (ed.), Platone.
Repubblica, VI, Napoli 2005, 295-396.
F. FERRARI, Platone. Il governo dei filosofi, Venezia 2014.
F. FRONTEROTTA, La concezione dell’anima nella Repubblica di Platone, «Giornale Critico
della Filosofia Italiana» 89 (91) 2010, 98-133.
T.S. GANSON, The Rational/Non-Rational Distinction in Plato’s Republic, «Oxford Studies in
Ancient Philosophy» 36 (2009), 179-197.
C. GILL, What is the Point of the Tripartite Psyche in Plato’s Republic?, in N. NOTOMI-L.
BRISSON (edd.), Dialogues on Plato’s Politeia (Republic). Selected Papers from the
Ninth Symposium Platonicum, Sankt Augustin 2013, 161-167.
W. KÜHN, Caractères collectifs et individuels. Platon, ‘République’ IV, 434d2-436b3, «Revue
de Philosophie Ancienne» 12 (1994), 45-64.
H. LORENZ, Desire and Reason in Plato’s Republic, «Oxford Studies in Ancient Philosophy»
27 (2004), 83-116.
J. MOSS, Appearances and Calculations: Plato’s Division of the Soul, «Oxford Studies in
Ancient Philosophy» 34 (2008), 35-68.
K.R. POPPER, The Open Society and its Enemies, I, The Spell of Plato, London 1944, trad. it.
Roma 1973.
A.W. PRICE, Mental Conflict, London-New York 1995.
C. ROWE, Plato and the Art of Philosophical Writing, Cambridge-New York 2007.
R.F. STALLEY, Persuasion and the Tripartite Soul in Plato’s Republic, «Oxford Studies in
Ancient Philosophy» 32 (2007), 63-89.
B. WILLIAMS, The Analogy of City and Soul in Plato’s Republic, in E.N. LEE-A.P.D.
MOURELATOS (edd.), Exegesis and Argument. Studies in Greek Philosophy presented
to Gregory Vlastos, Assen 1973, 196-206, ora in G. FINE, Plato, II, Ethics, Politics,
Religion, and the Soul, New York 1999, 255-264.
F. ZUOLO, Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa, Sankt Augustin 2009,
29-32.
M. VEGETTI (ed.), Platone. La Repubblica, V, Napoli 2003.
M. VEGETTI, L’etica degli antichi, Roma-Bari 1989.
M. VEGETTI, Come, e perché, la Repubblica è diventata impolitica?, «Giornale Critico della
Filosofia Italiana» 89 (91) 2010, 12-33.
32
MICHELE CORRADI
Platone al termine del Protagora:
la profezia di una παιδεία possibile
Il Protagora è probabilmente uno dei capolavori della produzione giovanile
di Platone. E’ un dialogo particolarmente raffinato dal punto di vista letterario,
sorretto da una complessa e ben strutturata architettura narrativa, tessuto su una fitta
trama di riferimenti e di allusioni alla tradizione letteraria precedente, attento alla
caratterizzazione dei personaggi e alla descrizione della scena. Da un punto di vista
prettamente filosofico, sembra concludere l’indagine sulle singole ἀρεταί, le singole
virtù, sviluppata nei precedenti dialoghi aporetici affrontando il tema della natura
stessa dell’ἀρετή, della possibilità di una sua trasmissione1. Come era stato colto già
dalla tradizione antica, che attribuiva al dialogo il sottotitolo σοφισταί2, asse
centrale del Protagora è più in particolare la riflessione di Platone sul rapporto tra
Socrate e gli altri protagonisti del dialogo, Protagora, Ippia e Prodico, che, a lato di
Gorgia e di Antifonte, sono comunemente considerati i massimi esponenti del
cosiddetto ‘movimento sofistico’3.
Certo, chiarire il rapporto fra Socrate e i sofisti è stato uno degli obiettivi
della produzione di Platone, forse da mettere in relazione con un intento apologetico
nei confronti del maestro4. Per Platone, il disprezzo popolare che avrebbe causato la
tragica fine di Socrate si basava anche sulla confusione fra la παιδεία di Socrate e
quella di altri intellettuali coevi: la loro παιδεία e non quella di Socrate aveva una
responsabilità non marginale nella crisi politica e morale in cui era precipitata Atene
alla fine del V secolo. Come mostrano le pagine dell’Apologia, tale confusione per
Platone trae origine dalla commedia e più in particolare dal ritratto di Socrate che
offre Aristofane nelle Nuvole (18c-19c). Com’è noto, in questa commedia
Aristofane mette in scena un personaggio di Socrate molto lontano dal Socrate di
1
Sulla cronologia del Protagora e il suo rapporto con altri dialoghi, recente è il bilancio di
ILDEFONSE, Platon.
2
All’origine dei sottotitoli prima di Trasillo individua nell’Accademia di mezzo un momento
cruciale CARLINI, Studi, 28-29. Cfr. in proposito ora ERLER, Platon, 19.
3
La definizione ‘movimento sofistico’ è qui usata per semplici ragioni di comodità
espositiva: è operazione di per sé difficile ricondurre ad unità personalità intellettuali così
diverse quali si rivelano essere le varie figure di sofisti note dalla tradizione. Discute
attentamente il problema BONAZZI, Sofisti, 12-16. Tende a considerare specificamente
platonica la contrapposizione fra Socrate e i sofisti NOTOMI, Socrates.
4
La memoria di Socrate era ancora oggetto di discussioni diversi anni dopo il processo: ne
offrono una prova le testimonianze relative alla postuma κατηγορία di Policrate e alla
reazione degli allievi di Socrate. Cfr. ora WATERFIELD, Quest, 17-18, e RALKOWSKY, Politics,
311-314.
33
Platone o da quello di Senofonte. Il Socrate delle Nuvole, prototipo della maschera
comica dell’intellettuale, sembra piuttosto incarnare in sé le due principali tendenze
della cultura contemporanea: la riflessione sulla φύσις di pensatori quali Anassagora
o Diogene di Apollonia e gli insegnamenti retorici e linguistici dei sofisti5.
Colpiscono in particolare i tratti protagorei. Nella scuola di Socrate, il
φροντιστήριον, dietro pagamento di denaro, s’insegnano due tipi di discorso, il
discorso più forte e il discorso più debole, εἶναι παρ’ αὐτοῖς φασὶν ἄμφω τὼ
λόγω, / τὸν κρείττον’, ὅστις ἐστί, καὶ τὸν ἥττονα (112-113 = 80 C 2 DK). Il
discorso più debole permette di prevalere anche contro giustizia. Introdotti sulla
scena da Socrate per istruire il giovane Fidippide, gli stessi due λόγοι, personificati,
si sfidano nell’agone sul tema della παιδεία (889-1104)6. Non si può non cogliere
dietro alla dottrina qui attribuita a Socrate un riferimento a quanto Aristotele nella
Retorica assegna a Protagora (1402a24-28 = 80 A 21 DK): τὸ τὸν ἥττω ... λόγον
κρείττω ποιεῖν. E un legame forse ancora più evidente con dottrine di Protagora è
da cogliere nella lezione di grammatica che nelle Nuvole Socrate impartisce a
Strepsiade (659-691 = 80 C 4 DK), certo da mettere in rapporto con le ricerche di
Protagora sull’ὀρθοέπεια (80 A 26-30 DK)7. Dunque Aristofane attinge
cospicuamente alle dottrine di Protagora per creare il suo Socrate. Certo
l’operazione poteva essere favorita da alcune analogie fra le due figure, almeno nella
percezione che ne avevano gli Ateniesi dell’epoca, ma risponde probabilmente ad
un’esigenza del teatro comico di Aristofane, quella appunto di condensare in un solo
personaggio, comunque chiaramente riconoscibile, tutte le tendenze culturali ‘alla
moda’ nell’Atene degli anni Venti del V secolo.
Come abbiamo già notato, Platone attribuisce in ogni caso all’operazione
messa in atto da Aristofane conseguenze serie. Nell’Apologia, ricostruendo la genesi
dell’attitudine ostile degli Ateniesi nei propri confronti, Socrate risale, per
confutarle, proprio alle accuse che Aristofane aveva formulato contro di lui nelle
Nuvole: la ricerca sui fenomeni naturali, celesti e sotterranei, ζητῶν τά τε ὑπὸ γῆς
καὶ οὐράνια, rendere più forte il discorso più debole, τὸν ἥττω λόγον κρείττω
ποιῶν, impartire insegnamenti su tali questioni, ἄλλους ταὐτὰ ταῦτα διδάσκων
(19b-c). Spicca qui il riferimento alla capacità di rendere più forte il discorso più
debole, che, come abbiamo visto, corrisponde alla dottrina che Aristotele assegna a
5
Cfr. IMPERIO, Maschera, 99-122. Coglie una forte influenza di Archelao nelle dottrine, non
solo cosmologiche, propugnate da Socrate nella commedia BETEGH, Socrate. Tende a
ridimensionare i riferimenti a Diogene d’Apollonia FAZZO, Cresson.
6
Come rileva GUIDORIZZI, Nuvole, 294, anche se la tradizione manoscritta e gli scolî
attribuiscono ai due λόγοι i nomi Δίκαιος e Ἄδικος, l’evidenza interna suggerisce che i due
λόγοι avessero proprio i nomi Κρείττων e Ἥττων. Cfr. anche FREYDBERG, Philosophy, 4041.
7
Sulla presenza di elementi ascrivibili a Protagora nel Socrate delle Nuvole, cfr. CORRADI,
Socrate, 8-12.
34
Protagora. Alle origini dunque della condanna di Socrate Platone scopre la maschera
di Socrate nelle Nuvole, la maschera di un Socrate sofista, di un Socrate protagoreo8.
Come abbiamo notato, il Protagora è il dialogo in cui è più evidente la
volontà da parte di Platone di riflettere sul problema del rapporto fra Socrate e i
sofisti, fra Socrate e Protagora per l’appunto. Se, da un lato, come la critica ha
spesso sottolineato, nel dialogo emerge la chiara volontà di tracciare una netta linea
di demarcazione, dall’altro, elementi che tendono a separare Socrate da Protagora
convivono con elementi che segnalano inaspettate convergenze. Nel rapporto di
Socrate con Protagora Platone sembra individuare una funzione positiva.
Particolarmente interessante risulta in questa prospettiva la conclusione del dialogo
(360e-362a). Socrate immagina che l’ἔξοδος τῶν λόγων, l’esito dei discorsi,
prenda vita proprio come i due λόγοι nel finale delle Nuvole e si rivolga ai due
protagonisti per rilevare che al termine della discussione hanno mutato le posizioni
di partenza. Avendo sostenuto inizialmente che l’ἀρετή non può essere insegnata,
Socrate giunge a dimostrare il contrario: riconducendo tutte le ἀρεταί all’ἐπιστήμη,
la scienza, prova infatti che, proprio in quanto ἐπιστήμη, possono essere insegnate.
Protagora invece, che all’inizio sosteneva che l’ἀρετή può essere insegnata,
cercando di negarle il carattere di ἐπιστήμη, ha ottenuto il risultato opposto, ne ha
reso impossibile la trasmissione. Protagora replica allora tessendo un elogio di
Socrate, che apprezza più di tutte le altre persone che ha incontrato, e profetizza per
lui un futuro illustre, nel novero degli intellettuali più famosi.
Se con il rovesciamento delle posizioni Platone sembra suggerire lo spazio di
una possibile convergenza fra due intellettuali apparentemente diversi l’uno
dall’altro, l’elogio/profezia di Socrate pronunciato da Protagora può addirittura far
pensare ad una clamorosa traditio lampadis. Nel convergere, pur nelle differenze, di
Socrate e Protagora si trova il fondamento stesso della profezia. L’analisi di questa
sezione finale può aiutarci dunque a comprendere meglio il significato di un dialogo,
per molti versi enigmatico, quale il Protagora e più in particolare a capire quale
rapporto Platone intenda qui stabilire fra le figure di Socrate e di Protagora. Prima
però di concentrarci sul finale del Protagora, è forse opportuno richiamare nelle
linee generali la struttura del dialogo, soffermandoci maggiormente su elementi che
potranno aiutarci nel prosieguo della nostra analisi. Più in particolare cercheremo di
mettere in luce il raffinato intreccio di riferimenti a modelli epici e comici, con cui
Platone, in qualche modo, sembra preparare la clamorosa conclusione del dialogo.
1. La νέκυια di Socrate. Il Protagora si apre con un primo prologo che
coinvolge Socrate e un anonimo ἑταῖρος (309a-310a). L’ἑταῖρος chiede a Socrate
se sia reduce dalla consueta caccia all’avvenente Alcibiade, ἀπὸ κυνηγεσίου τοῦ
περὶ τὴν Ἀλκιβιάδου ὥραν. Egli stesso si è imbattuto in Alcibiade il giorno prima:
certo, anche secondo l’ἑταῖρος, Alcibiade è davvero un bell’uomo, ma per
l’appunto un uomo, ἀνὴρ μέντοι, come mostra chiaramente la barba che ne ricopre
8
Per la presenza del celebre assunto di Protagora fra le più antiche κατηγορίαι contro
Socrate nell’Apologia, cfr. CORRADI, Τὸν ἥττω, 75-76. Sul rapporto tra le Nuvole e il dialogo
di Platone offre un recente contributo SANTORO, Citation.
35
ormai il volto, καὶ πώγωνος ἤδη ὑποπιμπλάμενος. Socrate allora replica al
malevolo riferimento all’età matura di Alcibiade, che ormai dovrebbe frenare la
passione di Socrate, con un’esplicita allusione ad Omero. Tale allusione ha
probabilmente la funzione di segnalare al lettore, fin dalle prime battute del dialogo,
la precisa volontà di Platone di misurarsi con il modello omerico. Secondo Socrate,
l’amico non sarebbe un ἐπαινέτης di Omero perché il poeta sostiene che l’età più
ricca di grazia è quella di colui al quale è appena spuntata la barba, χαριεστάτην
ἥβην εἶναι τοῦ <πρῶτον> ὑπηνήτου, ossia proprio quella di Alcibiade9.
L’allusione è a due versi omerici, uno dell’Iliade (XXIV 348) e uno dell’Odissea (X
279). In entrambi i casi si fa riferimento ad Ermes, caratterizzato da Omero per
l’aspetto giovanile. Com’è stato mostrato in modo persuasivo da Heda Segvic,
particolarmente significativo è il riferimento al X dell’Odissea: si tratta infatti della
prima di una serie di allusioni ai libri X e XI del poema che caratterizzano la parte
iniziale del dialogo10. Odisseo si trova nell’isola di Circe e si sta recando da solo
presso la dea per tentare di salvare alcuni suoi compagni trasformati da Circe in
maiali. Ermes gli si fa allora incontro, simile a un giovane a cui è appena spuntata la
barba: si trova dunque nell’età più ricca di grazia, νεηνίῃ ἀνδρὶ ἐοικώς / πρῶτον
ὑπηνήτῃ, τοῦ περ χαριεστάτη ἥβη (278-279). Com’è noto, il dio offre a Odisseo
un φάρμακον, un’erba nota agli dei con il nome di μῶλυ, che gli permetterà di
affrontare senza pericoli gli incantesimi di Circe e, dopo essersi unito in amore con
lei, liberare i propri compagni (287-306)11. L’evocazione dell’isola di Circe, dei suoi
incantesimi, dell’intervento di Ermes permette a Platone di iniziare a tessere un
sottile gioco intertestuale che avrà il suo culmine proprio nel finale del dialogo.
Probabilmente non a caso, Socrate dopo aver ammesso di aver incontrato
Alcibiade evoca un altro personaggio, che si rivelerà essere protagonista del dialogo,
capace di far passare Alcibiade in secondo piano: uno straniero sapientissimo e per
questo ancora più bello di Alcibiade, il sofista Protagora12. Con Protagora Socrate ha
9
L’integrazione <πρῶτον> di Cobet accolta da Burnet, fondata indirettamente sul testo di uno
scolio (in Prt. 309a4-5, p. 194 Cufalo), che permette di restituire in modo più letterale la
citazione omerica, non è necessaria. Cfr. SERRANO CANTARÍN-DÍAZ DE CERIO DÍEZ,
Protágoras, 121-122, n. 3. Come sottolinea LABARBE, Homère, 260-262, per rendere più
plausibile la propria giustificazione, Socrate modificherebbe volontariamente il verso
eliminando πρῶτον «adverbe qui présenterait Alcibiade comme un tout jeune adolescent aux
joues et au menton nouvellement duvetés». Come giustamente rileva CALOGERO, Protagora,
4, poco pertinente è il rinvio a quanto riportato da Clemente Alessandrino (Protr. 4, 53, 6),
per cui gli scultori ateniesi si sarebbero ispirati alla bellezza di Alcibiade per raffigurare il dio
nelle Erme. Certo, come Ermes nell’Odissea offre un aiuto fondamentale a Odisseo, Alcibiade
è giunto in soccorso di Socrate, βοηθῶν ἐμοί (309b). Sui rapporti fra Socrate e Alcibiade,
con particolare riferimento alla problematica platonica dell’eros, recente è la miscellanea
JOHNSON-TARRANT, Alcibiades.
10
SEGVIC, Homer, 247-251 (= 28-32).
11
Sulla specificità dell’incontro tra Odisseo e Ermes nel libro XI dell’Odissea, cfr. DANEK,
Epos, 207-208. Ne sottolinea però il ruolo ‘tipico’ nella struttura dell’intero episodio LOUDEN,
Odyssey, 4. Dedica al μῶλυ un’ampia nota HEUBECK, Odissea, 241.
12
Per il rapporto tra bellezza intellettuale e bellezza fisica in relazione al rapporto tra Socrate
e Alcibiade, rinvia correttamente al Simposio (204b-223a) DENYER, Protagoras, 67.
36
avuto occasione di discorrere a lungo. L’ἑταῖρος chiede allora a Socrate di
raccontargli della loro conversazione. Socrate non si nega e, come accade in altri
dialoghi (si pensi ad esempio all’Eutidemo o alla stessa Repubblica), veste i panni
del narratore13. Non inizia subito con il resoconto del dialogo con Protagora, ma
trasporta il suo interlocutore, e con lui noi lettori, a casa sua, ai primi albori. Inizia
così il cosiddetto secondo prologo (310a-314c), anch’esso non privo di echi
omerici14. Il giovane Ippocrate, figlio di Apollodoro, di cui sappiamo con certezza
solo quanto Platone ci dice nel Protagora15, irrompe sulla scena battendo con forza
alla porta di Socrate. Vuole sapere se Socrate è sveglio. Deve dargli una notizia
straordinaria: Protagora è in città, ospite del ricco Callia. Socrate non è stupito: sono
già due giorni che Protagora è arrivato. Ippocrate vuole che Socrate lo accompagni
dal sofista perché lo convinca ad accoglierlo fra i suoi allievi: è pronto a spendere
tutto il suo denaro e anche quello degli amici, perché sa che Protagora è in grado di
renderlo σοφός. Nell’attesa che si faccia giorno, Socrate decide di mettere alla
prova Ippocrate interrogandolo con le brevi domande tipiche del suo metodo. Vuole
capire se Ippocrate sa chi sia Protagora e che cosa insegni. La παιδεία di Protagora
è diversa da quella di medici come l’Ippocrate omonimo del giovane interlocutore di
Socrate o di scultori come Policleto e Fidia. Non si va da Protagora per apprendere
una professione, per diventare sofisti. Allora perché? Secondo Ippocrate, per
diventare abili nei discorsi. Protagora insegnerebbe dunque un’abilità di tipo retorico
(l’immagine dei sofisti come maestri di retorica è del resto ben testimoniata nei testi
antichi e ripresa, forse con troppa enfasi, dalla critica moderna)16. Ma il problema
rimane: a proposito di cosa Protagora rende abili a parlare? In quali campi si esercita
il sapere di Protagora? Per Socrate, Ippocrate è imprudente: vuole affidare a cuor
leggero la sua anima, la cosa più preziosa che ha, a qualcuno di cui non sa nulla.
Socrate sviluppa allora, attraverso un paragone molto celebre tra μαθήματα,
insegnamenti, e cibi, rispettivamente nutrimento dell’anima e del corpo,
considerazoni spesso interpretate come un manifesto dell’attitudine di Socrate e di
Platone nei confronti dei sofisti. I sofisti sono presentati, in modo molto simile a
quanto avverrà nelle pagine del Sofista (224c-d), come commercianti al dettaglio e
all’ingrosso di μαθήματα che ricoprono di lodi, ἐπαινοῦσιν, per poterli vendere.
Alcuni di loro probabilmente non sanno, ἀγνοοῖεν, che cosa di quanto vendono sia
utile o dannoso, χρηστὸν ἢ πονηρόν, per la ψυχή di chi lo acquista. E nella stessa
condizione si troverà anche il cliente, a meno che questi per sorte non sia un uomo
ἰατρικός, esperto di una forma particolare di medicina, quella dell’anima. Un uomo
13
Sui modi della narrazione nei dialoghi di Platone, cfr. MORGAN, Plato.
Li evidenzia SEGVIC Homer, 251-255 (= 32-38): in particolare, in στὰς παρ’ ἐμοί (310b)
sarebbe da cogliere un’eco del verso formulare ἡ δέ μευ ἄγχι στᾶσα προσηύδα δῖα θεάων,
che compare due volte nel libro X dell’Odissea (400 e 455). Ma non mancano richiami
comici: sembrano rinviare alle Nuvole, ad esempio, l’ambientazione domestica e la
conversazione all’alba sul problema della παιδεία dei sofisti. Cfr. CAPRA, Ἀγών, 66.
15
Si tratterebbe di un nipote di Pericle, per NAILS, People, 169-170.
16
Riduceva la sofistica alla ricerca sull’εὐ λέγειν GOMPERZ, Sophistik, 35-49. Giunge,
eccedendo forse in direzione opposta, a parlare di sofisti «without rhetoric» FORD, Sophists.
Per un’analisi equilibrata del problema, cfr. BONAZZI¸ Sofisti, 72-80.
14
37
ἰατρικός che conosca dunque quali fra queste dottrine siano buone e quali siano
cattive, ἐπιστήμων τούτων τί χρηστὸν καὶ πονηρόν. Costui potrà acquistarle con
sicurezza sia da Protagora sia da chiunque altro, ὠνεῖσθαι μαθήματα καὶ παρὰ
Πρωταγόρου καὶ παρ’ ἄλλου ὁτουοῦν. Come già rilevava Michael Gagarin17, le
parole di Socrate non vanno solo nella direzione della polemica: per Socrate le
dottrine di Protagora possono presentare tanto aspetti dannosi quanto aspetti utili. Si
può imparare anche da Protagora. Riprendendo il parallelismo con la compravendita
dei cibi, Socrate rileva come nel caso degli insegnamenti la situazione sia comunque
molto più rischiosa rispetto a quanto si verifica per i cibi18. Su una questione così
importante Socrate e Ippocrate potranno però avvalersi dell’aiuto di uomini esperti:
a casa di Callia, accanto a Protagora, sono presenti anche altri illustri sofisti quali
Ippia e Prodico19.
Socrate e Ippocrate s’incamminano e giungono finalmente alla casa di Callia:
qui incontrano uno scorbutico portiere eunuco che si rifiuta in un primo tempo di
farli entrare. Dopo aver capito che Socrate e Ippocrate non sono dei sofisti,
acconsente, pur a malincuore, al loro ingresso. La scena (314c-e) dipende con buona
probabilità da un modello comico. Platone nel Protagora si rifà quasi certamente
agli Adulatori di Eupoli. Da Ateneo (V 218b) sappiamo che la messa in scena della
commedia era molto simile a quella del Protagora. Come gran parte del Protagora,
gli Adulatori si svolgevano infatti nella casa del ricco Callia, generoso mecenate dei
sofisti. Uno dei protagonisti della commedia era molto probabilmente lo stesso
Protagora20. Anche la vivace descrizione dello spettacolo dei sofisti nella casa di
Callia è probabilmente ispirata dalla Musa della commedia (314e-316a). Protagora
tiene lezione passeggiando nel portico ossequiosamente seguito tra gli altri dallo
stesso Callia, dai figli di Pericle, Paralo e Santippo, da Carmide, lo zio di Platone,
tutti ammaliati dalla voce di Protagora come dal canto del mitico Orfeo. Ippia tiene
lezione assiso in trono su questioni di fisica e di astronomia: fra i suoi allievi ci sono
anche i protagonisti del Simposio, Fedro ed Erissimaco. Prodico fa lezione
trovandosi ancora a letto, avvolto nelle coperte: anche in questo caso fra i suoi
discepoli ci sono due personaggi ben noti a tutti i lettori del Simposio, Pausania e un
giovanissimo Agatone. Come ha ben mostrato Andrea Capra21, nella presentazione
dei sofisti, al modello comico si sovrappone quello epico, più in particolare quello
17
GAGARIN, Purpose, 135-139.
Secondo Socrate, chi acquista del cibo da un commerciante all’ingrosso o al dettaglio può
infatti riporlo ἐν ἄλλοις ἀγγείοις, in altri recipienti, prima di accoglierlo nel proprio corpo.
Può così rivolgersi ad un esperto, τὸν ἐπαΐοντα, e domandargli se possa consumarlo e in
quale quantità e quando, καὶ ὁπόσον καὶ ὁπότε. Per questo non c’è grande pericolo
nell’acquisto. Gli insegnamenti, una volta acquistati, non possono, come i cibi, essere
collocati ἐν ἄλλῳ ἀγγείῳ per essere vagliati con l’aiuto di un esperto, ma penetrano subito
nell’anima di chi li assume migliorandola o danneggiandola. Cfr. CORRADI, Platone, 151-154.
19
È nel λόγος iniziato κατὰ τὴν ὁδόν e concluso ἐν τῷ προθύρῳ, del cui contenuto non
siamo informati da Platone, che, per PALUMBO, Socrate, 98-103, Socrate organizza un sistema
per accostarsi senza pericolo alle dottrine di Protagora (314c).
20
Per l’insieme dei frammenti della commedia con ampia discussione esegetica, cfr. ora
NAPOLITANO, Kolakes.
21
CAPRA, Ἀγών, 67-71, e CAPRA, Achilles, 275-276.
18
38
dell’Odissea. Per introdurre Prodico e Ippia, Platone riprende i versi dell’XI canto,
la νέκυια. Com’è noto, in questo libro Odisseo racconta ai Feaci del proprio
incontro con le anime dell’aldilà, quando, su indicazione di Circe, evocata, come
abbiamo visto, proprio all’inizio del dialogo con il riferimento ad Ermes, si reca
nella regione dei Cimmeri, alle dimore di Ade, per conoscere dall’anima di Tiresia il
proprio destino. Ippia è introdotto da Platone con i versi con i quali Omero presenta
l’εἴδωλον di Eracle (XI 601): “τὸν δὲ μετ’ εἰσενόησα”, ἔφη Ὅμηρος, Ἱππίαν
τὸν Ἠλεῖον. Prodico con quelli che il poeta usa per Tantalo (XI 583): καὶ μὲν δὴ
“καὶ Τάνταλόν” γε “εἰσεῖδον” – ἐπεδήμει γὰρ ἄρα καὶ Πρόδικος ὁ Κεῖος22.
Le allusioni omeriche, il riferimento ad Orfeo, la stessa immagine della
porta23 situano l’incontro di Socrate con i sofisti in un’atmosfera che richiama il
mondo dell’oltretomba. Forse, nel dialogo con Protagora, come Odisseo nella
νέκυια, anche Socrate conoscerà qualcosa d’importante sul proprio destino.
Continuiamo a scorrere le pagine del dialogo. Dopo che sono giunti a casa di
Callia anche Alcibiade e Crizia, Socrate presenta a Protagora Ippocrate chiedendogli
quali vantaggi avrà nel frequentarlo e in che cosa consisterà il suo insegnamento.
Protagora, che vuole ricollegarsi a una lunga tradizione di esperti di παιδεία che
avevano dissimulato la propria arte sofistica dietro alla maschera di altre τέχναι
quali poesia, ginnastica, musica24, offre ai suoi alunni un μάθημα particolare: una
εὐβουλία, capacità di ben deliberare nelle questioni pubbliche e private, garanzia di
eccellenza tanto nell’ambito dell’azione quanto nell’ambito della parola. Si tratta in
sostanza della πολιτικὴ τέχνη, dell’arte della politica, del buon cittadino (316a319a). Socrate avanza però alcuni dubbi sulla possibilità di un insegnamento di
questo tipo: sviluppa in proposito due argomenti (319a-320c). Nella città
democratica, mentre su questioni specifiche relative alle singole τέχναι soltanto gli
specialisti hanno diritto di parola (ad esempio, se si deve deliberare riguardo alla
costruzione di un edificio saranno interpellati soltanto gli architetti), qualora si
debba deliberare sull’amministrazione della città tutti hanno uguale diritto di parola,
un architetto quanto un fabbro, un povero quanto un ricco, un γενναῖος quanto un
ἀγεννής. Inoltre, se l’ἀρετή politica potesse davvero essere insegnata, non si
capisce come mai molti uomini politici non l’abbiano trasmessa ai propri figli.
Protagora risponde ai due quesiti di Socrate con quello che, a partire da Gregory
22
Per SEGVIC, Homer, 255-262 (= 38-46), nel sapiente gioco costruito da Platone, non è forse
necessario identificare Protagora con Sisifo, al quale rinvia in Omero il τόν che introduce la
presentazione di Eracle. Nel contesto del dialogo sembra prevalere la ben giustificata
equiparazione Protagora/Orfeo. Ricostruisce un intreccio di paralleli forse troppo fitto
DENYER, Protagoras, 82-84. Sulla struttura catalogica della νέκυια, qui ripresa da Platone,
cfr. SAMMONS, Catalogue, 74-102.
23
L’immagine delle porte dell’Ade è omerica (ad es. Il. 5, 646). Quelle del Tartaro sono
descritte da Esiodo (Th. 736-757), cui forse allude Parmenide (28 B 1, 11-14 DK). Cfr. TULLI,
Esiodo, 70-71. Per la commedia celebre è l’esempio delle Rane, dove una figura, da
identificare probabilmente con Eaco, svolge la funzione di θυρωρός dell’Ade (460-478). Si
veda in proposito MASTROMARCO-TOTARO, Aristofane, 90-91.
24
Il passo (316d-317c) è analizzato in modo approfondito da BRANCACCI, Techne.
39
Vlastos25, è comunemente chiamato il ‘Grande Discorso’ (320c-328d). Questa
celebre e discussa sezione del dialogo si articola in due parti: un racconto, il μῦθος
su Prometeo (320c-324d = 80 C 1 DK), e un λόγος (324d-328d). Il μῦθος su
Prometeo ripercorre le prime fasi della storia umana: dalla creazione delle specie
viventi ad opera di Epimeteo al furto del fuoco da parte di Prometeo, dallo sviluppo
delle τέχναι da parte dei primi uomini al dono di αἰδώς e δίκη, pudore e giustizia,
da parte di Zeus. Con questo racconto, Protagora vuole rispondere al primo
argomento di Socrate mostrando, da un lato, l’insufficienza delle singole τέχναι per
la sopravvivenza degli esseri umani, dall’altro, la necessità della presenza dei
fondamenti dell’ἀρετή, della virtù politica, ossia αἰδώς e δίκη, in tutti gli uomini
affinché le comunità umane e, più in particolare, la πόλις, possano sussistere (si noti
il progressivo slittamento, molto importante per il prosieguo del dialogo, dalla
πολιτικὴ τέχνη alla πολιτικὴ ἀρετή)26. Un’impresa che poggerebbe su basi ben
deboli se non fosse salda la fiducia nella possibilità d’insegnare l’ἀρετή politica.
Non deve inoltre stupire per Protagora il fatto che da padri eccellenti nascano figli di
minor valore: il fatto che tutti i cittadini si giovino dell’impresa collettiva di παιδεία
rende determinanti le doti naturali. Anche il cittadino meno virtuoso sarà del resto
eccellente rispetto a chi non può usufruire di una παιδεία di questo tipo. In un
contesto in cui tutti sono in una certa misura maestri di virtù, Protagora emerge per
la capacità di formare cittadini di valore e di successo ed è per questo degno di
essere onorato e ricompensato27.
Socrate è ammaliato, κεκηλημένος, dal discorso di Protagora, per un po’ di
tempo resta a bocca aperta, senza parole. Il suo iniziale scetticismo è vinto dalle
argomentazioni di Protagora (328d-e). Ribadendo però la superiorità del metodo
dialettico rispetto alla μακρολογία di Protagora, non rinuncia a mettere alla prova il
sofista con gli strumenti dell’ἔλεγχος. Socrate si sofferma su una questione
apparentemente marginale: l’ἀρετή cui Protagora fa più volte allusione è una sola e
le singole ἀρεταί sono solo nomi diversi attribuiti a questa sola ἀρετή oppure le
singole ἀρεταί sono parti dell’ἀρετή? E, in questo caso, sono parti di natura diversa
come occhi e orecchie rispetto al volto o di natura simile come le parti dell’oro, che
non differiscono le une dalle altre se non per dimensione (328e-329d)? Inizia qui
una lunga e complessa discussione nella quale Socrate cerca di dimostrare la
sostanziale identità delle varie ἀρεταί (329d-335c). La discussione non è priva di
asprezze. Socrate usa argomenti chiaramente fallaci che in più di un caso lo stesso
Protagora riesce a smascherare28. Protagora per sfuggire all’incalzare delle domande
25
VLASTOS, Protagoras. Una discussione della bibliografia più recente è in CORRADI,
Platone, 143-146.
26
La strategia è ben messa in luce da SERRANO CANTARÍN-DÍAZ DE CERIO DÍEZ, Protágoras,
LXXX-LXXXIII.
27
Inserisce in modo lucido le dottrine qui esposte da Protagora nell’ambito più generale del
pensiero politico del sofista BRANCACCI, Pensée, 73-85. Per il loro rapporto con la riflessione
paideutica della Repubblica, cfr. CORRADI, Protagora, con ulteriore bibliografia.
28
Un’ampia disamina sul problema dell’unità della virtù offre O’BRIEN, Socrate. Il problema
dell’uso di argomenti fallaci da parte di Socrate è molto dibattuto. Per una visione d’insieme,
cfr. CAPRA, Ἀγών, 180-204. Ulteriore bibliografia in CORRADI, Socrate, 14, n. 26.
40
di Socrate si rifugia nella μακρολογία. Socrate minaccia allora di andarsene. Ma il
pubblico del dibattito si è troppo appassionato alla discussione, non permette che sia
interrotta. Intervengono Callia, Alcibiade, Crizia, Prodico e Ippia, si stabiliscono
nuove regole (335c-338e)29. In un primo momento sarà Protagora ad interrogare
Socrate, in un secondo momento succederà il contrario. Protagora porta la
discussione su un terreno a lui più favorevole: si continuerà a parlare di ἀρετή, ma
nell’ambito dell’esegesi di testi poetici (338e-348a). Subito il sofista mette in
difficoltà Socrate su una presunta aporia di un carme di Simonide: non essere
competenti nell’ambito della poesia significa per Protagora avere una formazione
non solida. Socrate accusa il colpo, cerca l’aiuto di Prodico per mostrare che
Protagora sul carme di Simonide ha torto. Ma sono tentativi vani. A questo punto
però Socrate riesce a superare l’impasse giungendo ad un’ampia esegesi
complessiva del carme, un’esegesi di grande fascino, per quanto, almeno
apparentemente, non priva di forzature30. Il pubblico approva entusiasta la
performance di Socrate. Ma secondo Socrate, per affrontare questioni di tale
importanza, uomini del valore di Socrate e Protagora non devono servirsi
dell’esegesi dei poeti, ma procedere in modo autonomo mettendo alla prova la verità
e se stessi. La discussione può finalmente riprendere: ora spetta a Socrate
interrogare, a Protagora rispondere (348b-360e). Protagora ammette una sostanziale
identità di σοφία, σωφροσύνη, δικαιοσύνη, ὁσιότης, ma non concede a Socrate
che con esse possa identificarsi anche il coraggio, l’ἀνδρεία. Molti sono per
Protagora gli esempi di uomini oltremodo ingiusti, empi, intemperanti e ignoranti
ma, ad un tempo, coraggiosissimi. Socrate tenta allora di confutare Protagora
cercando di mostrare che anche il coraggio può essere ricondotto al sapere. Anche in
questo caso gli argomenti di Socrate non convincono31. Socrate allora prova a
sviluppare un dialogo fittizio con i πολλοί, la massa, secondo la quale molti uomini,
pur conoscendo ciò che è meglio e pur avendo la possibilità di metterlo in atto, non
lo realizzano perché sono vinti dal piacere, dal dolore o da qualche altra passione.
Socrate giunge a stabilire la necessità di una μετρητική, tecnica in grado di
garantire, attraverso un calcolo dei piaceri e dei dolori, la σωτηρία ... τοῦ βίου.
Anche se poniamo come scopo della nostra vita il piacere, la ἡδονή, sarà ancora una
volta la scienza, l’ἐπιστήμη, a garantirci una vita felice. Su queste basi Socrate può
ora ritornare sulla questione del coraggio per ricondurre anche questa ἀρετή al
sapere: il coraggio è il sapere relativo alle cose temibili e non temibili32.
Siamo giunti finalmente al termine della discussione: Socrate e Protagora
hanno duellato su un tema di fondamentale importanza impiegando tutto il
repertorio dialettico a loro disposizione. Certo, Socrate sembra essersi trovato a
29
Mette in luce l’importanza del passo DIXSAUT, Parlare.
L’analisi più approfondita della sezione è quella di GIULIANO, Esegesi, che evidenzia la
sostanziale serietà dell’impegno di Socrate. Cfr. ora, per una prospettiva non dissimile,
SCHLICK, Interpretieren.
31
Sulla sezione particolarmente illuminante è l’analisi di CENTRONE, Coraggio.
32
Non pochi problemi ha posto agli interpreti del dialogo la tesi edonistica qui avanzata da
Socrate: per una rapida ma precisa rassegna delle principali posizioni cfr. MANUWALD,
Protagoras, 173, n. 135.
30
41
proprio agio con strumenti dialettici di stampo tipicamente sofistico, aver indossato
la maschera del sofista: pur dichiarando la sua avversione alla μακρολογία (328d329b, 334c-d, 335b-c, 335d-336b), ha pronunciato nel corso del dialogo ampie ed
efficaci tirate (ad es. 319a-320c, 342a-347a, 354e-356c, 357a-358a); pur svalutando
la portata filosofica dell’esegesi dei poeti (347c-348a), è riuscito a risolvere con
un’interpretazione complessiva del carme di Simonide la presunta aporia evidenziata
da Protagora (338e-347a); pur affermando di discutere per spirito di ricerca e non
per il gusto di prevalere (360e), ha proposto argomentazioni fallaci in alcuni casi
smascherate dallo stesso Protagora (331a-333b, 349e-351e). Protagora e Socrate
sono più vicini di quanto poteva apparire. Platone sembra voler sottolineare, pur
nella distinzione, il convergere delle due figure. Emblematica è in questo senso,
soprattutto, la conclusione del dialogo su cui è giunto il momento di soffermarsi
(360e-362a).
2. La profezia di Protagora. Socrate trae innanzitutto un bilancio della
discussione: all’inizio Socrate e Protagora sostenevano rispettivamente l’opinione
secondo la quale l’ἀρετή non può essere insegnata, οὐ διδακτόν, e quella secondo
la quale può essere insegnata, διδακτόν (360e-361a). Se l’esito dei discorsi
sviluppati nel corso del dialogo, l’ἔξοδος τῶν λόγων, potesse prendere la parola
come un uomo e rivolgersi ai due protagonisti per accusarli e prenderli in giro,
esprimerebbe considerazioni di questo tipo: Socrate e Protagora sono ben strani,
ἄτοποι. Socrate, dopo aver sostenuto che l’ἀρετή non può essere insegnata, giunge
a dimostrare il contrario, riconducendo tutte le ἀρεταί alla scienza33 – infatti,
proprio in quanto scienza, le ἀρεταί possono essere oggetto d’insegnamento;
Protagora, che invece all’inizio sosteneva che l’ἀρετή può essere insegnata, ottiene,
cercando di negare all’ἀρετή il carattere di ἐπιστήμη, il risultato opposto, ossia di
renderne impossibile la trasmissione (361a-c):
καί μοι δοκεῖ ἡμῶν ἡ ἄρτι ἔξοδος τῶν λόγων ὥσπερ ἄνθρωπος
κατηγορεῖν τε καὶ καταγελᾶν, καὶ εἰ φωνὴν λάβοι, εἰπεῖν ἂν ὅτι “ἄτοποί
γ’ ἐστέ, ὦ Σώκρατές τε καὶ Πρωταγόρα· σὺ μὲν λέγων ὅτι οὐ διδακτόν
ἐστιν ἀρετὴ ἐν τοῖς ἔμπροσθεν, νῦν σεαυτῷ τἀναντία σπεύδεις,
ἐπιχειρῶν ἀποδεῖξαι ὡς πάντα χρήματά ἐστιν ἐπιστήμη, καὶ ἡ
δικαιοσύνη καὶ σωφροσύνη καὶ ἡ ἀνδρεία, ᾧ τρόπῳ μάλιστ’ ἂν
διδακτὸν φανείη ἡ ἀρετή. εἰ μὲν γὰρ ἄλλο τι ἦν ἢ ἐπιστήμη ἡ ἀρετή,
ὥσπερ Πρωταγόρας ἐπεχείρει λέγειν, σαφῶς οὐκ ἂν ἦν διδακτόν· νῦν
δὲ εἰ φανήσεται ἐπιστήμη ὅλον, ὡς σὺ σπεύδεις, ὦ Σώκρατες,
θαυμάσιον ἔσται μὴ διδακτὸν ὄν. Πρωταγόρας δ’ αὖ διδακτὸν τότε
ὑποθέμενος, νῦν τοὐναντίον ἔοικεν σπεύδοντι ὀλίγου πάντα μᾶλλον
φανῆναι αὐτὸ ἢ ἐπιστήμην· καὶ οὕτως ἂν ἥκιστα εἴη διδακτόν.”
Dunque un chiaro rovesciamento delle posizioni: alla fine del dialogo, la
prospettiva iniziale di Socrate diviene quella di Protagora, la prospettiva iniziale di
TAYLOR, Protagoras, 214, evidenzia l’allusione al principio dell’uomo-misura, πάντων
χρημάτων μέτρον ἐστὶν ἄνθρωπος (80 B 1 DK), nella sequenza πάντα χρήματά ἐστιν
ἐπιστήμη.
33
42
Protagora quella di Socrate. Non stupisce in questo contesto l’aggettivo ἄτοπος,
‘strano’, con cui l’ἔξοδος τῶν λόγων apostrofa i due protagonisti. Quell’ἀτοπία in
tante pagine di Platone caratteristica del personaggio di Socrate accomuna ora
Socrate e Protagora: un raffinato gioco di specchi permette, almeno per un
momento, all’immagine di Socrate di riflettersi in quella del sofista e all’immagine
di Protagora di riflettersi in quella del filosofo34.
Socrate non si accontenta però di sottolineare il sorprendente esito del
dialogo, è desideroso di continuare la ricerca: solo dopo aver compreso la natura
dell’ἀρετή si potrà risolvere la questione relativa alla sua trasmissione. Rifacendosi
chiaramente al mito narrato da Protagora all’inizio del dialogo (320c-322d = 80 C 1
DK), Socrate si augura che Epimeteo non lo tragga in errore, σφήλῃ, nella ricerca:
ha preferito infatti il personaggio di Prometeo, ispirandosi al quale, ᾧ χρώμενος, è
previdente, προμηθούμενος, in relazione alla propria vita e si occupa di tali
questioni – si noti il gioco etimologico tra il verbo προμηθέομαι e il nome del
titano Προμηθεύς35. Se Protagora volesse, Socrate affronterebbe molto volentieri
tali questioni con lui.
Protagora replica allora con un elogio di Socrate. Loda infatti l’impegno di
Socrate e l’esito del dialogo. Dopo aver rilevato di non considerarsi una persona
malvagia e di non essere affatto invidioso, evidenzia di aver più volte dichiarato a
molti la propria stima nei confronti di Socrate, che certo apprezza di gran lunga più
di tutte le persone che gli capita d’incontrare, specialmente di quanti appartengono
alla generazione di Socrate. Protagora non si stupirebbe se Socrate diventasse
famoso per sapienza (361d-e):
ἐγὼ μέν, ἔφη, ὦ Σώκρατες, ἐπαινῶ σου τὴν προθυμίαν καὶ τὴν διέξοδον
τῶν λόγων. καὶ γὰρ οὔτε τἆλλα οἶμαι κακὸς εἶναι ἄνθρωπος, φθονερός
τε ἥκιστ’ ἀνθρώπων, ἐπεὶ καὶ περὶ σοῦ πρὸς πολλοὺς δὴ εἴρηκα ὅτι ὧν
ἐντυγχάνω πολὺ μάλιστα ἄγαμαι σέ, τῶν μὲν τηλικούτων καὶ πάνυ· καὶ
λέγω γε ὅτι οὐκ ἂν θαυμάζοιμι εἰ τῶν ἐλλογίμων γένοιο ἀνδρῶν ἐπὶ
σοφίᾳ.
La lode che Protagora rivolge a Socrate si fa dunque profezia, profezia di un
Socrate pronto a far parte della cerchia degli uomini illustri per σοφία, nella quale,
com’è già emerso nel corso dialogo (ad es. 316c-317c), certo spicca lo stesso
Protagora. Come Ulisse nella νέκυια, evocata esplicitamente, come abbiamo visto,
nella sezione iniziale del dialogo, ottiene dal μάντις ἀμύμων Tiresia la profezia
relativa al ritorno ad Itaca e al successivo e necessario ‘ultimo viaggio’ (XI 92-137),
Socrate ottiene da Protagora la profezia relativa ad un futuro glorioso nell’ambito
34
Cfr. ILDEFONSE, Protagoras, 220, n. 361. Sull’ἀτοπία quale carattere peculiare del
personaggio di Socrate nella letteratura socratica restano ricche di suggestioni le riflessioni di
HADOT, Exercices, 87-117.
35
Ιl verbo προμηθέομαι, raro in Platone, compare anche all’inizio del dialogo con Protagora
(316c): BERTAGNA, Costruzione, 91-92, coglie nella duplice attestazione un segnale della
volontà da parte di Platone di incastonare il mito narrato dal sofista in una peculiare struttura
ad anello.
43
del sapere. Del resto quale profezia devono essere intese le parole di Protagora,
almeno nella misura in cui è possibile riconoscervi elementi che si ritrovano in altre
celebri profezie post eventum dei dialoghi di Platone. Celebre è ad esempio la
profezia su Isocrate che conclude il Fedro (279a-b). Com’è noto, nel Fedro Platone
affronta il problema della retorica giungendo a teorizzare una retorica filosofica
fondata sui principi della dialettica. Il dialogo, che si era aperto con l’analisi di un
discorso erotico di Lisia, si chiude, in una sorta di Ringkomposition, con un
confronto fra Lisia e un altro dei grandi protagonisti dell’oratoria attica coeva:
Isocrate36. Socrate, sottolineando la superiorità di doti naturali che caratterizza il pur
giovane Isocrate rispetto alla produzione di Lisia, superiorità dovuta ad un carattere
più nobile, non si stupirebbe se il giovane già promettente, con la maturità, sullo
slancio di un impulso più divino, raggiungesse un livello superiore, in linea con
quella certa attitudine filosofica che ne connota il pensiero:
ΣΩ. νέος ἔτι, ὦ Φαῖδρε, Ἰσοκράτης· ὃ μέντοι μαντεύομαι κατ’ αὐτοῦ,
λέγειν ἐθέλω. ΦΑΙ. τὸ ποῖον δή; ΣΩ. δοκεῖ μοι ἀμείνων ἢ κατὰ τοὺς
περὶ Λυσίαν εἶναι λόγους τὰ τῆς φύσεως, ἔτι τε ἤθει γεννικωτέρῳ
κεκρᾶσθαι· ὥστε οὐδὲν ἂν γένοιτο θαυμαστὸν προϊούσης τῆς ἡλικίας εἰ
περὶ αὐτούς τε τοὺς λόγους, οἷς νῦν ἐπιχειρεῖ, πλέον ἢ παίδων διενέγκοι
τῶν πώποτε ἁψαμένων λόγων, ἔτι τε εἰ αὐτῷ μὴ ἀποχρήσαι ταῦτα, ἐπὶ
μείζω δέ τις αὐτὸν ἄγοι ὁρμὴ θειοτέρα· φύσει γάρ, ὦ φίλε, ἔνεστί τις
φιλοσοφία τῇ τοῦ ἀνδρὸς διανοίᾳ. ταῦτα δὴ οὖν ἐγὼ μὲν παρὰ τῶνδε
τῶν θεῶν ὡς ἐμοῖς παιδικοῖς Ἰσοκράτει ἐξαγγέλλω, σὺ δ’ ἐκεῖνα ὡς
σοῖς Λυσίᾳ.
Molti hanno visto in questa profezia un intento ironico da parte di Platone,
desideroso di polemizzare con il maestro di una scuola rivale. Ma, come ha
dimostrato Mauro Tulli37, Platone vuole in realtà rendere omaggio ad un lungo
cammino intellettuale di cui riconosce appieno la serietà. In questa direzione va
certo il confronto con un passo del Parmenide (135d) in cui Parmenide coglie in
Socrate una καλή ... καὶ θεία ... ὁρμή che lo muove verso i λόγοι, ma lo esorta ad
esercitarsi, finché è giovane, ἕως ἔτι νέος εἶ, in quello sforzo dialettico che ai più
può apparire sterile ἀδολεσχία, in modo tale da non lasciarsi sfuggire la verità38.
Simile a quella del Fedro è la profezia ricordata da Euclide nel proemio del
Teeteto (142c-d): Euclide racconta a Terpsione delle drammatiche condizioni in cui
versa Teeteto, ferito eroicamente nella battaglia di Corinto. Euclide rivela di essersi
stupito delle capacità mantiche di Socrate che, come in altre circostanze, anche in
relazione a Teeteto avevano colto nel segno. Socrate, infatti, poco prima di morire,
36
Per una chiara analisi dell’articolazione del Fedro, cfr. FERRARI, Cicadas, 1-232. Sul
controverso problema dell’unità del dialogo, un recente contributo giunge da WERNER, Myth,
236-257.
37
TULLI, Rapporto. Ritorna però alla consueta interpretazione ironica YUNIS, Phaedrus, 244246.
38
Come giustamente sottolinea MANSFELD, Aristotle, 41-45 (= 64-68), Platone nel Parmenide
tende a stabilire un nesso maestro/allievo fra Parmenide e Socrate, rimuovendo Socrate dalla
successione ionica, dove lo aveva collocato nel Fedone, per inserirlo in quella eleatica.
44
incontrò Teeteto che era ancora un ragazzo e, discutendo con lui, ne apprezzò molto
la natura. Socrate stesso aveva raccontato ad Euclide il contenuto delle discussioni
svolte col giovane, certo degne di attenzione, e aveva sostenuto che questi sarebbe
senza dubbio diventato famoso, se fosse diventato adulto39:
ΕΥ. ἠπείγετο οἴκαδε· ἐπεὶ ἔγωγ’ ἐδεόμην καὶ συν εβούλευον, ἀλλ’ οὐκ
ἤθελεν. καὶ δῆτα προπέμψας αὐτόν, ἀπιὼν πάλιν ἀνεμνήσθην καὶ
ἐθαύμασα Σωκράτους ὡς μαντικῶς ἄλλα τε δὴ εἶπε καὶ περὶ τούτου.
δοκεῖ γάρ μοι ὀλίγον πρὸ τοῦ θανάτου ἐντυχεῖν αὐτῷ μειρακίῳ ὄντι,
καὶ συγγενόμενός τε καὶ διαλεχθεὶς πάνυ ἀγασθῆναι αὐτοῦ τὴν φύσιν.
καί μοι ἐλθόντι Ἀθήναζε τούς τε λόγους οὓς διελέχθη αὐτῷ διηγήσατο
καὶ μάλα ἀξίους ἀκοῆς, εἶπέ τε ὅτι πᾶσα ἀνάγκη εἴη τοῦτον ἐλλόγιμον
γενέσθαι, εἴπερ εἰς ἡλικίαν ἔλθοι.
Fra i tre testi è possibile segnalare notevoli punti di contatto. La profezia di
Protagora su Socrate converge con quella di Socrate su Isocrate nel sottolineare la
superiorità dei destinatari rispetto ad altre personalità della stessa generazione (τῶν
μὲν τηλικούτων ed ἢ κατὰ τοὺς περὶ Λυσίαν ... λόγους) nell’ambito del sapere
(ἐπὶ σοφίᾳ e τις φιλοσοφία). Converge invece con quella di Socrate su Teeteto nel
mostrare uno straordinario apprezzamento per i destinatari (πολὺ μάλιστα ἄγαμαι
σέ e πάνυ ἀγασθῆναι). Nel Protagora come nel Teeteto la profezia riguarda la
fama (τῶν ἐλλογίμων e ἐλλόγιμον) ed è basata sui risultati di uno scambio
dialettico (τὴν διέξοδον τῶν λόγων e συγγενόμενός τε καὶ διαλεχθείς). I tre
passi tendono poi a collocare i destinatari nell’ambito di una classe di età più o meno
determinata per quanto chiaramente distinta da quella di chi formula la profezia
(τῶν μὲν τηλικούτων, νέος ἔτι e αὐτῷ μειρακίῳ ὄντι) e, come si può ben
comprendere, proiettano in un futuro dai contorni sfumati il compimento del
vaticinio (γένοιο, προϊούσης τῆς ἡλικίας ed εἴπερ εἰς ἡλικίαν ἔλθοι). Si noti tra
l’altro che, nel corso del Protagora, Protagora insiste più volte sul fatto di essere più
anziano dei suoi interlocutori: ad esempio, a 317c sostiene che potrebbe essere padre
di tutti i presenti, a 320c giustifica la scelta di rispondere a Socrate con un μῦθος
sostenendo che si tratta di una forma appropriata per un anziano che si rivolge a
persone più giovani. Una serie di sottolineature volte a rafforzare l’autorevolezza del
personaggio.
Infine, credo sia significativo il fatto che nel Protagora, come nel Fedro e nel
Teeteto, compaia, pur in prospettive diverse, il θαυμάζειν, la meraviglia, lo stupore
(οὐκ ἂν θαυμάζοιμι, ἐθαύμασα e θαυμαστόν)40.
39
Non convince l’interpretazione ironica della profezia che propone NARCY, Théétète, 30-69.
Certo, come evidenzia BLONDELL, Play, 281-282, in linea con la profezia, il dialogo rivela
tanto la straordinaria φύσις di Teeteto quanto la sua capacità di apprendere. Cfr. in proposito
ora anche FERRARI, Teeteto, 19-30. Del resto, come emerge dall’Apologia (40a) e dal Fedone
(85b), proprio in relazione alla mantica di Socrate, la vicinanza alla morte favorisce le
capacità profetiche: lo sottolinea MOST, Cock, 108-109.
40
Riconosce nella nozione di étonnement espressa dal verbo θαυμάζειν uno strumento
concettuale caratteristico delle argomentazioni che Platone attribuisce a Protagora nel
Protagora BODIN, Protagoras, 56-57.
45
Come mostra il confronto con gli altri due dialoghi, in conclusione del
Protagora, il sofista assume nei confronti di Socrate lo stesso ruolo che Socrate
assume in altri dialoghi nei confronti di amici più giovani per i quali vaticina un
futuro illustre. La profezia di Protagora rivela persino i tratti di una vera e propria
investitura, di una cooptazione di Socrate nella cerchia di quei celebri maestri di
παιδεία di cui il sofista sente di far parte41.
Dopo la profezia, il dialogo si avvia dunque alla conclusione. Protagora è
pronto a riprendere la discussione in un’altra occasione: è infatti il momento di
dedicarsi ad altro. D’accordo con Protagora, Socrate, alludendo, forse un po’
maliziosamente, allo scontro avvenuto con il sofista nella fase centrale del dialogo
(334c-336b), pensa che sia l’ora di andare: era infatti rimasto più a lungo solo per
compiacere il padrone di casa, Callia (361e-362a).
La sezione finale del dialogo ci offre dunque un significativo scambio di
posizioni fra gli interlocutori sottolineato, come abbiamo visto, in modo molto
chiaro da Socrate. Protagora giunge addirittura a tessere le lodi di Socrate, a
profetizzarne un illustre futuro. Molti interpreti hanno letto questo sorprendente
finale in prospettiva ironica: Platone non vorrebbe far altro che evidenziare la
vittoria di Socrate su Protagora42. Il rinvio all’ironia non mi sembra però sufficiente
a mettere in luce appieno il significato della scena. Innanzitutto, Socrate lascia
aperta la possibilità di un ulteriore cammino di ricerca, di un approfondimento
sull’ἀρετή da sviluppare in comune. Rivelando il carattere del vero filosofo nel suo
essere privo di φθόνος43, Protagora, invece, è capace di riconoscere il valore di
Socrate, designandolo con la profezia in qualche modo proprio erede nella cerchia
degli uomini ἐλλόγιμοι per σοφία. Emerge, dunque, al di là delle divergenze, uno
spazio comune fra i due intellettuali. Platone sembra in qualche modo riprendere con
finalità completamente diverse quanto Aristofane aveva messo in atto nelle Nuvole
portando in scena un Socrate con la maschera del sofista protagoreo. Certo
suggerisce un rapporto fra il finale del Protagora e le Nuvole l’immagine
dell’ἔξοδος τῶν λόγων che prende la parola per rivolgersi a Socrate e Protagora.
L’immagine sembra richiamare infatti nel dialogo, come non è sfuggito a Nestle44,
l’agone fra il Discorso più forte e il Discorso più debole della commedia.
Per quanto Platone fosse consapevole dell’irriducibile diversità di Socrate e
Protagora, da cogliere soprattutto nella polarità fra la speranza di Socrate in un
ordine oggettivo della realtà e la prospettiva relativistica di Protagora45, non poteva
41
Legge nel senso di un’investitura la profezia di Protagora KARFÍK, Seele, 35-38, che rinvia
in modo persuasivo al progetto iniziale di Ippocrate, desideroso di divenire ἐλλόγιμος … ἐν
τῇ πόλει grazie a Protagora. Sospetta una mancanza di sincerità da parte di Protagora
TAYLOR, Protagoras, 215. Cfr. però LAMPERT, Philosophy, 122-123.
42
Cfr. MANUWALD, Platon, 442-444. Colgono nel finale del dialogo i meccanismi della
περιπέτεια comica ARIETI-BARRUS, Protagoras, 12-13.
43
Dunque dotato di una delle caratteristiche che per Platone contraddistinguono il vero
filosofo: lo sottolinea CASERTANO, Struttura, 766, rinviando correttamente alla VII lettera
(344b), in cui un dialogo ἄνευ φθόνων è condizione necessaria per la ricerca della verità.
44
NESTLE, Protagoras, 168.
45
Cfr. ad esempio VEGETTI, Protagora, 157, o WOODRUFF, Socrates, 91-110.
46
essere ignaro delle affinità fra i due pensatori, che probabilmente riguardavano
soprattutto l’ambito metodologico. In questo senso può forse essere interpretata la
notizia di Diogene Laerzio (IX 53) secondo la quale Protagora diede per primo
impulso, πρῶτος ἐκίνησε, al genere socratico di discussione, τὸ Σωκρατικὸν
εἶδος τῶν λόγων46. Le raffinate strategie narrative di Platone e la sua sapiente
ripresa di modelli poetici tendono però a stabilire il nesso tra le due figure
soprattutto sul piano della παιδεία. Aristofane, assimilando le figure di Socrate e di
Protagora, aveva costruito l’immagine di un Socrate paradigma di quella corrotta
παιδεία degli intellettuali ‘moderni’, così ben esposta, non a caso, dal Discorso più
debole nell’agone delle Nuvole. Platone, in qualche modo, recupera l’operazione
messa in atto da Aristofane capovolgendone il segno. E’ infatti attraverso il
confronto-scontro con la figura di Protagora che, come segnalano le parole del
sofista alla fine del dialogo, Socrate acquista la consapevolezza del proprio ruolo di
educatore. Ovviamente – è opportuno precisarlo – educatore nella particolare
prospettiva di Platone che, come è noto, faceva sostenere al Socrate dell’Apologia di
non essere mai stato διδάσκαλος di nessuno (33a-b)47. Non a caso, solo dopo il
grande discorso di Protagora (328d-e), di cui riconosce lo straordinario valore,
πολλοῦ γὰρ ποιοῦμαι ἀκηκοέναι ἃ ἀκήκοα Πρωταγόρου, Socrate supera lo
scetticismo nei confronti della possibilità di trasmettere l’ἀρετή. Se in precedenza
non riteneva un impegno alla portata di un uomo quello grazie al quale gli ἀγαθοί
diventano tali, ora, ossia dopo le parole di Protagora, ne è persuaso: ἐγὼ γὰρ ἐν μὲν
τῷ ἔμπροσθεν χρόνῳ ἡγούμην οὐκ εἶναι ἀνθρωπίνην ἐπιμέλειαν ᾗ ἀγαθοὶ οἱ
ἀγαθοὶ γίγνονται· νῦν δὲ πέπεισμαι48.
Nella stessa direzione dell’interpretazione del finale del dialogo qui proposta
mi sembra vada anche il rapporto con il modello omerico che Platone tende a
stabilire fin dalle prime battute del Protagora. Nell’Odissea, giunto su indicazione
di Circe presso le dimore di Ade, Odisseo deve incontrare nella νέκυια l’ombra di
Tiresia dalla quale apprende il proprio destino, un destino di viaggi, di prove e di
sofferenza ma coronato dal successo di una vecchiaia splendida, un γῆρας λιπαρός.
Nel Protagora Socrate, in compagnia del giovane Ippocrate, deve varcare la soglia
‘infernale’ della casa di Callia per conoscere da Protagora, dopo aver mostrato le
proprie capacità dialettiche, quale sarà il proprio futuro: diventerà famoso per il suo
sapere e, avendo finalmente compreso che l’ἀρετή può essere un μάθημα, entrerà
nel novero dei grandi maestri della παιδεία greca. Dalla νέκυια del Protagora
emerge dunque l’immagine di un Socrate educatore, e in questo forse sofista, ma,
come Platone non mancherà di rilevare nel Sofista, nobile (226b-231b), in quanto
46
Riconoscono una sostanziale continuità di metodo, fra gli altri, BERTI, Dialectic, 353-358, e
ROBINSON, Socrates.
47
Sul complesso problema della presentazione di Socrate quale educatore in Platone, anche in
relazione al passo dell’Apologia (33a-b), cfr. almeno SCOTT, Socrates, 13-49.
48
Sottolinea l’importanza che assume qui l’aggettivo ἀνθρωπίνη in vista degli sviluppi della
riflessione pedagogica di Platone FRIEDLÄNDER, Platon, 425-426. Ma nella possibilità di una
ἀνθρωπίνη ἐπιμέλεια che consente agli uomini di divenire ἀγαθοί non è forse possibile
scorgere una traccia dell’ἀνθρωπίνη σοφία con cui Socrate identifica il proprio sapere
nell’Apologia (20d-e, 23a-b)? Sull’ἀνθρωπίνη σοφία di Socrate, cfr. BRANCACCI, Sapere.
47
campione di una nuova παιδεία, che, grazie ad un nuovo sistema di valori, può
provare a superare i limiti del pur grande Protagora. Non a caso, alla fine del
dialogo, come indica il plurale ἀπῇμεν, «ce ne andammo», il giovane Ippocrate non
rimane con Protagora, se ne va con Socrate, pronto – possiamo immaginare – a
seguirne la παιδεία49.
49
Cfr. DENYER, Protagoras, 204. Il finale del dialogo lascia aperta la prospettiva di una nuova
ricerca in comune sul tema analizzato assieme a Protagora, da svolgere forse con Ippocrate o
con l’anonimo ἑταῖρος cui Socrate racconta il contenuto del dialogo. Nella prospettiva di
Socrate, come abbiamo potuto notare (361c), anche il risultato della discussione, ossia la
possibilità d’insegnare l’ἀρετή, dovrà essere oggetto di ulteriore indagine, una volta chiarita
l’essenza stessa dell’ἀρετή. Lo sottolinea giustamente FREDE, Introduction, XXXII.
48
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52
ALDO BRANCACCI
Verità morale e sapere
nell’Apologia di Socrate di Platone
Nel suo libro del 1913, Sokrates. Sein Werk und seine geschichtliche
Stellung, che resta ancora oggi il libro più ricco e forse più bello che sia stato scritto
su Socrate, malgrado esso possa essere superato su una serie di questioni particolari,
relative soprattutto all’interpretazione dei Socratici, sui quali la ricerca successiva ha
gettato nuova luce, Heinrich Maier battezzava come personalia Socratica di Platone
due scritti, l’Apologia di Socrate e il Critone, pur avvertendo contestualmente come
quell’espressione non dovesse affatto essere intesa come se essa significasse che i
due scritti in questione fossero una pura e semplice esposizione delle concezioni di
Socrate, bensì solo nel senso che essi trasmettevano la più intima visione ed
esperienza da parte di Platone della figura e della filosofia del maestro1. La paternità
socratica delle concezioni di Socrate qui delineate da Platone rimaneva e doveva
rimanere per Maier qualcosa da argomentare e dimostrare, e lo studioso tedesco
affidava questo compito alla ‘questione socratica’, di cui egli stesso è stato uno dei
più illustri rappresentanti, e che egli raccoglieva e trasmetteva nei termini della più
alta e complessa formulazione che ne sia stata offerta nella storia degli studi, quella
di Schleiermacher2:
Che cosa può essere stato ancora Socrate accanto a quel che di lui ci fa
sapere Senofonte, senza tuttavia contraddire i tratti del carattere e le
massime di vita, che Senofonte presenta determinatamente come socratici?
E che cosa egli deve essere stato per aver dato a Platone la spinta e il diritto
di presentarlo come egli fa nei dialoghi?
Rispetto all’impostazione metodica di Maier, la pura e semplice assunzione
di quei due testi, o eventualmente solo del primo di essi, come fedele testimonianza
del pensiero di Socrate, prodottasi in seguito in quella che chiamerò per semplicità
‘impostazione tradizionale’ del problema, segna indubbiamente un grave
1
H. MAIER, Sokrates. Sein Werk und seine geschichtliche Stellung, Tübingen 1913, trad. it.,
Socrate. La sua opera e il suo posto nella storia, Firenze 1978, 107 ss., 150-159.
2
F.E.D. SCHLEIERMACHER, Über den Werth des Sokrates als Philosophen, in «Abhand.
Berlin. Akad. Philos. Kl.», 1818, poi in Sämmtliche Werke, III 2, Zur Philosophie, Berlin
1838, 287-308, ora in A. PATZER (ed.), Der historische Sokrates, Darmstadt 1987, 41-58, in
part. 49: «Was kann Sokrates noch gewesen sein neben dem, was Xenophon von ihm meldet,
ohne jedoch den Charakterzügen und Lebensmaximen zu widersprechen, welche Xenophon
bestimmt als sokratisch aufstellt, und was muß er gewesen sein, um dem Platon Veranlassung
und Recht gegeben zu haben ihn so wie er thut, in seinen Gesprächen aufzuführen» (trad. it.
di Gabriele Giannantoni).
53
impoverimento. L’impoverimento diventa però ancora maggiore, e segno di vera e
propria imperizia, in quegli studiosi che, rovesciando a loro volta, puramente e
semplicemente, tale impostazione, affermano, senza peraltro recar prove, che la
questione socratica sarebbe morta, o da chiudere. Prescindendo dal fatto che sono,
queste, in realtà, due cose ben diverse, ognuna delle quali solleciterebbe
considerazioni diverse, e un discorso approfondito, di cui non si trovano tracce in
questi autori, è evidente in ogni caso che, così facendo, costoro dimostrano di non
saper distinguere due ordini di questioni.
1. Esistono questioni o problemi storiografici che sono, per così dire, figli
della ricerca, che sono generati e si producono cioè in ogni momento o fase di essa,
e che in tal senso possiamo dire a posteriori: si tratta della stragrande maggioranza
dei problemi sui quali si affatica la ricerca, i quali sorgono, ricevono risposta,
decadono e cedono il passo ad altri interrogativi e problemi determinati, una volta
che essi siano stati risolti, o risolti in altri più approfonditi e ulteriori. Ma esistono
anche questioni che non sono figlie della ricerca, bensì sono costitutive della ricerca,
costitutive nel senso kantiano del termine, e sono quindi esse stesse all’origine di
una storiografia: in questo senso, esse possono esser dette a priori. Tali sono, per
limitarci alla sola storia politica e intellettuale del mondo antico, la questione
omerica, la questione socratica, la questione dell’esistenza storica della figura di
Gesù Cristo, la grande e certo anch’essa inesauribile questione delle cause della
caduta dell’Impero romano, ognuna delle quali ha generato essa stessa una
storiografia e anzi un episodio della cultura europea, per non dire che costituiscono
un tema perenne della cultura europea. In ognuna di esse, i documenti e i termini
della questione stessa sono tali, e sono messi in modo tale, da determinare il sorgere
di un problema determinato, razionale e storiograficamente strutturato; ma in
ognuna di esse, quegli stessi documenti e termini sono, allo stato attuale delle
conoscenze, ma probabilmente destinati a rimanere per sempre, tali da non poter mai
consentire una risoluzione completa e tanto meno una risoluzione definitiva
dell’interrogativo stesso. Abbandonare tali questioni è certo possibile, ma questo
rileva solo della soggettiva e unilaterale decisione di questo o quello studioso, che
non abbia le forze per perseguirla, o l’interesse di coltivarla, oppure proclami un suo
personale scetticismo: ciò non riguarda la ricerca, per quanto faticosa o al limite
inesaudibile, della verità storica, ricerca che resta nelle mani di chi intenda
proseguirla. Resta, sarei tentato di aggiungere, la questione essa stessa.
D’altra parte, se si rimedita oggi la tesi di Maier, e si decide di assumerla
nella sua formulazione più rigorosa, pare a me che si debba in certo modo
capovolgere l’impostazione tradizionale, più semplificata, che, dopo lo studioso
tedesco, è prevalsa nella visione del rapporto di Platone con Socrate. Intendo dire
che, a mio vedere, i due scritti in questione, l’Apologia e il Critone, sono e vanno
considerati innanzitutto espressione del pensiero di Platone, e solo in seconda
istanza un documento del pensiero socratico. Che essi siano un documento del
pensiero socratico, è cosa ovvia, che peraltro va riaffermata contro recenti
semplificazioni e scetticismi. Si potrebbe anzi dire molto di più, ovvero che si tratta
di documenti di particolare valore: nessuno vorrà negare che testi scritti da Platone
in merito alla vicenda di Socrate e riferendosi al suo pensiero non valgano o valgano
54
meno delle conversazioni senofontee, o meno delle testimonianze aristoteliche, le
quali, è stato dimostrato, si fondano proprio sull’interpretazione platonica di Socrate,
e in parte su Senofonte, o meno di tale o tal’altra massima tramandata dalla
posteriore letteratura aneddotica. Ma essi sono innanzitutto espressione della
reinterpretazione personale che Platone ha offerto di quel pensiero, una
reinterpretazione che è già filosofia platonica, e sulla quale Platone ha edificato tutta
la fase iniziale della propria speculazione. Essa è, inoltre, densa di connessioni
anche con il percorso filosofico ancora successivo ad essa. Un esame approfondito
delle tesi esposte nell’Apologia di Socrate, e in parte anche nel Critone, rivela come
soprattutto nel primo di questi due scritti Platone annunci una serie di tematiche che
sono costitutive del suo pensiero: e poiché di questo mi sono occupato recentemente
in modo circostanziato, vorrei almeno citare il nesso tra coscienza di non sapere e
reminiscenza3, che lega l’Apologia al Menone, e la visione del rapporto tra dialettica
e retorica4, che la lega al Fedro. In linea generale, ritengo che l’Apologia, il cui
terminus ante quem è dato dall’Accusa di Policrate, e fu quindi composta prima del
393 a.C., sia il testo nel quale Platone ha raccolto in maniera organica la propria
personale esperienza ed eredità del socratismo, riassumendola in un plesso di
questioni cui questo testo offre una prima risposta, suscettibile di futuri sviluppi. E
tra questi problemi è anche quello del nesso tra verità morale e sapere, che dà il
titolo alla mia relazione.
Questo titolo non è scelto a caso, e ha essenzialmente due ragioni. La prima
è che quei due termini sono alla base di tutta la riflessione morale e anche politica di
Platone, che dirigono e animano dai primi dialoghi fino alle opere più tarde, e che
trova una composizione teorica esemplare nel dettato della Repubblica. La seconda
ragione è più complessa, e trascende il riferimento al solo Platone, o ai soli Socrate e
Platone, anche se in questi due filosofi si esprime con particolare potenza ed
evidenza: essa riguarda proprio la genesi del problema della conoscenza nella
filosofia antica. Quando nasce, in effetti, il problema del conoscere nel pensiero
greco? A rigore, pur potendo noi senza difficoltà individuarne la genesi nel
naturalismo presocratico, soprattutto nell’ambito del pluralismo, non possiamo
sopravvalutare la portata di questo inizio, perché, come ben vide Calogero, in questa
fase della storia del pensiero prevalgono ancora l’ingenua fiducia nell’identità del
conosciuto al suo oggetto e la convinzione che in ogni forma o fase del processo
conoscitivo l’adeguazione del conoscente al conosciuto sia meno un problema da
3
Cfr. A. BRANCACCI, Consciousness and Recollection. From the Apology to Meno, in M.
MIGLIORI-L.M. NAPOLITANO VALDITARA-A. FERMANI (edd.), Inner Life and Soul. Psyche in
Plato, Sankt Augustin 2011, 41-48. Devo avvertire che in questa sede non mi propongo altro
che argomentare il personale punto di vista, che ho maturato nell’ultimo quindicennio di
lavoro, all’incirca, sui dialoghi cosiddetti socratici di Platone: non mi propongo qui di
esaminare la letteratura secondaria, che non sarebbe stato in ogni caso possibile discutere, e
che citerò solo per eccezione, mentre dovrò permettermi di rinviare ad alcuni miei precedenti
scritti, i quali segnano le tappe più significative del percorso interpretativo complessivo che
sono venuto svolgendo.
4
Cfr. A. BRANCACCI, Platone, Senofonte e Antistene e il nesso tra dialettica e retorica in
Socrate, «Philosophia. Yearbook of the Research Centre for Greek Philosophy at the
Academy of Athens», 43 (2013), 113-132.
55
tematizzare che un fatto da constatare, o, anche, un necessario evento naturale, per
cui l’accadere conoscitivo non è che l’accadere reale5. Con maggiore legittimità si
può individuare tale genesi nella sofistica, nella misura in cui essa opera una prima
forma di critica della ragione, quand’anche tale critica si presenti come soprattutto,
anche se non esclusivamente, negativa. E’ il caso di Gorgia, che, come scrisse
Hegel, va considerato, per il suo trattato Sul non ente, il primo filosofo che sia
andato oltre il «sano intelletto umano», cioè oltre i limiti di quel buon senso che «è
solo l’insieme delle massime d’una certa epoca»6. Protagora, dal canto suo, procede
ancora oltre, in quanto elabora la nozione di soggetto conoscente, che non a caso si
costituisce in contrapposizione all’ontologia di Parmenide. In effetti, la prima chiara
formulazione di un criterio gnoseologico nella filosofia greca, cioè la proposizione
protagorea dell’homo mensura, altro non è che un radicale rovesciamento della
krisis tra è e non è di Parmenide, alla quale sostituisce la funzione giudicante
dell’uomo, di ogni singolo uomo: è lui, il soggetto empirico percipiente, che è
criterio e misura della realtà o dell’irrealtà di ciò che giunge a espressione
fenomenica; non è l’essere a costituire la misura di tutto, della verità come
dell’opinione, della validità del pensiero razionale come dello sviamento e delle
illusioni dei mortali.
2. Ritengo tuttavia che al sorgere del problema del conoscere abbia
contribuito grandemente, forse decisamente, anche la sfera della riflessione e del
conoscere morale, perché è nella determinazione di quel mondo di problemi variati,
sfuggenti, ardui da fissare, eppure vitali e inevitabili, è nella riflessione sulle azioni e
sull’azione morale, nel tentativo di identificare il valore e il disvalore, che il
conoscere trova una ulteriore motivazione e spinta a determinarsi, e si configura più
liberamente nella sua effettività, nella sua potenza come nei suoi limiti. Finché il
pensiero è ancorato all’ontologia, come in Parmenide, esso ha l’unico scopo di
raccontare la storia dell’essere, di dire e commemorare l’essere: per questo in
Parmenide, e nell’eleatismo, non c’è gnoseologia, e non c’è neppure – la sua sola
presenza sarebbe inconcepibile - etica. E invece non è un caso, io credo, che
entrambe le sfere, non una sola, affiorino in modo deciso, e congiuntamente, in
Democrito, l’ultimo dei presocratici, cronologicamente vicino a Socrate e che godé
di una vita più lunga di lui. In Democrito c’è innanzitutto una riforma dell’ontologia,
riforma possibile per il deciso intervento e per la quasi acquisita supremazia del
pensare sull’essere; c’è inoltre, conseguentemente, una gnoseologia, della quale
peraltro troppo poco sappiamo: e c’è infine anche un’etica, che invece ci è
largamente attestata.
Non è facile stabilire con certezza, per la mancanza, strutturale, di
documenti autoriali scritti, quali siano state le precise e puntuali determinazioni
recate da Socrate a questo nuovo quadro, anche se siamo perfettamente in grado di
farci un’idea del posto che egli occupa, e che tutta l’antichità gli ha riconosciuto, in
questa nuova vicenda: egli è all’origine della nascita dell’etica. Ma Socrate è anche,
5
G. CALOGERO, Storia della logica antica, I, L’età arcaica, Bari 1967, 41-42.
G.F.W. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, trad. it. (a cura di R.
Bordoli), Lezioni sulla storia della filosofia, Roma-Bari 2009, 193.
6
56
più precisamente, alle origini del nesso tra etica e gnoseologia, per esprimerci
secondo un lessico seriore che forse non è perfettamente adeguato a rendere l’esatta
posizione storico-teoretica di Socrate, e che tuttavia non la falsa, anzi la indica con
sufficiente chiarezza. Non è il caso di avanzare qui delle supposizioni riguardo alle
precise proposizioni teoriche sostenute al riguardo dal Socrate della storia, tanto più
a inizio di una relazione che vuole essere, su questo punto, problematica. Certo, non
c’è dubbio che, se qualcuno può illuminarci in proposito questi è Platone, il quale ha
contratto un debito con Socrate che non è estrinseco, come implicherebbe il trattarlo
quale una fonte, sia pur privilegiata, oppure, al contrario, inattendibile, del pensiero
del maestro, ma è un debito intrinseco, tale cioè da avere informato e segnato il suo
stesso filosofare. Per questa ragione lascerò da parte, in questa sede, il problema di
appurare in quale relazione storica precisa stia il dettato dell’Apologia con il Socrate
della storia, che è in ogni caso problema ulteriore, e più complesso, per concentrarmi
solo sulla fisionomia teorica del pensiero che a lui riferisce Platone nel momento in
cui compone questo scritto.
Se Protagora è il primo a formulare una nozione di soggetto conoscente,
Platone nell’Apologia è il primo a elaborare, riferendola all’esperienza filosofica di
Socrate, la nozione di soggetto teorico. E per caratterizzare subito questi due
concetti, basti dire che l’anthropos-metron protagoreo è, essenzialmente, e senza
dubbio esclusivamente, un soggetto percipiente, mentre in Socrate Platone delinea e
lungamente giustifica la nascita della coscienza come fondamento della riflessione.
L’espressione greca con la quale si designa quello che viene per lo più chiamato
sapere di non sapere di Socrate è in realtà syneidenai heauto. Come ho altrove
dimostrato7, questa espressione vale ‘essere conscio’, ‘essere cosciente’, che è
qualche cosa di diverso e di più complesso dal semplice sapere: il testo platonico è
inequivoco al riguardo, e la comprensione di ciò che vuole esattamente dire Platone,
come lo scioglimento di alcune difficoltà teoriche ed esegetiche che sono insorte a
proposito della posizione socratica, dipendono da una esatta traduzione e
delibazione di quella formula. Con essa il greco indica quella situazione mentale
caratterizzata dal fatto che, chi vi si trovi, è tale da conoscere solo con se stesso,
nella solitudine cioè della propria coscienza, qualcosa di non conosciuto da altri, in
modo tale che, rispetto a un determinato contenuto di sapere, viene a determinarsi
una situazione di personale e privata esclusività del suo possesso. In Platone il
sostantivo syneidesis non compare, sostantivo che è del resto di uso raro in greco,
prevalendo invece l’uso dell’espressione verbale, la quale rileva e sottolinea la
funzione piuttosto che il concetto generale astratto. Ma proprio l’Apologia usa, in un
contesto assai significativo, che ho già altrove esaminato, il termine psyche8, che
costituisce una tra le prime occorrenze di quella che è una nozione chiave del
socratismo come filosofia, la nozione di «anima». A dimostrazione di questa genesi
socratica del nuovo concetto che questo termine esprime, è da ricordare che esso è
7
Mi sia consentito rinviare per questo al mio saggio Socrate e il tema semantico della
coscienza, in G. GIANNANTONI-M. NARCY (edd.), Lezioni Socratiche, Napoli 1997, 279-301.
8
In serie con phronesis e aletheia: cfr. Apol. 29e1.
57
attestato ugualmente, e con grande rilievo teorico, in Antistene9, mentre sarà poi
destinato ad acquisire in Platone l’importanza che tutti sanno. E’ nella dimensione
della sua coscienza, una coscienza che trova la sua istanza nell’anima, che Socrate
vive tutta l’avventura teorica suscitata dal ricevimento del responso dell’oracolo, e
che si struttura sull’interpretazione che egli ne offre. Si può dire anzi che Socrate
nasce, come filosofo, nell’interpretazione che egli elabora del responso dell’oracolo:
e tale nascita è, parallelamente, la nascita della coscienza.
3. Ho insistito sul fatto che quella di Socrate è una coscienza di non sapere,
piuttosto che un semplice sapere di non sapere, non solo per scrupolo filologico, ma
anche perché quest’ultima concettualizzazione o traduzione impoverisce
notevolmente il contenuto teorico e l’ampiezza di quella situazione mentale, e la
rende fondamentalmente sterile: non sembra poterci essere alcuno scarto ulteriore
rispetto a un puro sapere di non sapere, che appare come un’ultima parola, piuttosto
che, come è nel testo platonico la coscienza di non sapere, una premessa. Anche la
parallela affermazione di Socrate, espressa fin dall’inizio dell’Apologia, di non
essere un sophos, un sapiente, rischia di essere fraintesa o, se non fraintesa,
impoverita e disincarnata, se non la si esamina attentamente inserendola nel contesto
in cui il motivo appare. Socrate, in effetti, nega di essere un sophos in riferimento
alle antiche accuse, quelle relative cioè ai suoi presunti ambiti di indagine, accuse
terribili «perché quelli che prestano ad esse ascolto pensano che chi si dedica a tali
indagini neanche riconosce gli dèi»10. Più specificamente, e più chiaramente, il
contesto mostra che il termine sophos è utilizzato in riferimento a due ambiti
d’indagine, speculare sulle cose del cielo e su quelle di sotterra, e rendere più forte il
discorso più debole. Il che è perfettamente d’accordo con il fatto che il termine in
questione è termine storicamente determinato e connotato: sophos è vocabolo antico,
designante un tipo di sapiente storicamente incarnatosi già nella più alta età arcaica,
ove sophia e sophos designano, tra le altre cose, rispettivamente la poesia e la figura
del poeta, cioè il depositario della sapienza nella sua prima configurazione storica in
Grecia, e, più tardi, ciò che noi oggi chiamiamo il filosofo, e, specificamente, il
filosofo presocratico, nonché, per estensione, attestata anche dalle fonti antiche, il
sofista. Alla luce di queste precisazioni, si comprende perfettamente che, negando di
essere un sophos, Socrate mira, innanzitutto, a negare di essere un filosofo della
natura e un sofista, e, inoltre, a negare di ritenersi in possesso di quel sapere di cui
filosofi della natura e sofisti affermano di essere in possesso. Socrate mira anche,
contestualmente, a far sorgere gradualmente il senso di quel sapere di cui egli,
invece, pur con mille limitazioni e sfumature, ritiene pur di essere portatore, o,
almeno, di avere intravisto. Tutto ciò risulta chiaramente dalla pagina platonica in
cui, per spiegare perché mai siano nate quelle antiche accuse, Socrate introduce il
tema dell’oracolo di Delfi e il conseguente exetazein che egli ha condotto con i
grandi presunti sapienti della sua epoca onde comprendere il significato dell’oracolo
stesso e farne emergere la sua interpretazione.
9
Cfr. A. BRANCACCI, Sull’etica di Antistene, in L. ROSSETTI-A. STAVRU (edd.), Socratica
2008. Studies in Ancient Socratic Literature, Bari 2010, 89-117.
10
Cfr. Plat. Apol. 18c2-3.
58
E’ noto che l’exetazein si svolge con tre categorie di presunti sophoi, gli
uomini politici, i poeti appunto, e gli artigiani (anch’essi designabili, in antico,
stando alla nostra documentazione, con quel termine). Di ognuna di queste tre
categorie, Platone offre una connotazione che è relativa sempre, con perfetta
simmetria, a tre punti: l’abilità di cui i rappresentanti di ciascuna di esse sono in
possesso; la condizione psicologica oggettiva in cui essi si trovano; la condizione
psicologica soggettiva in cui essi versano.
Alla prima categoria, gi uomini politici, non corrisponde nessuna abilità
determinata: il testo è muto, al riguardo, e in esso risalta semmai solo l’impiego del
termine doxa, quasi Platone volesse dire che essi sono per statuto installati nella
doxa e in null’altro. A tale mancanza di abilità determinata corrisponde, nella
seconda casella, quella dello stato oggettivo, il loro non sapere, che si disvela essere,
al seguito dell’esame critico condotto da Socrate, mera presunzione di non sapere.
Nell’ambito della seconda categoria troviamo i poeti: qui, nella prima casella, quella
dell’abilità che Platone riconosce loro, dobbiamo collocare un termine positivo, cioè
il talento naturale e l’entusiasmo poetico, che caratterizzano e informano il loro fare
poetico; mentre nella seconda e nella terza dobbiamo ancora una volta ritrovare il
non sapere, che si converte in soggettiva presunzione di non sapere. Con la terza
categoria, compare una nuova abilità, non di tipo irrazionale, come quella dei poeti,
ma di tipo schiettamente razionale, il sapere tecnico, apprezzabile quindi dal punto
di vista filosofico, ma, inesorabilmente, nelle due successive caselle ritornano
ancora una volte l’oggettivo non sapere e la soggettiva presunzione di sapere. Se
però esaminiamo attentamente il testo, ci accorgeremo di qualcosa che, mi sembra, è
finora sfuggito, ovvero che, nell’ambito della seconda casella, quella della obbiettiva
determinazione psicologica o mentale di tali presunti sophoi, il non sapere non ha
sempre identico significato, pur determinando sempre l’identica conseguenza di
rivelarsi essere presunzione di sapere, e non ha identico significato proprio perché
diverso, in ciascuno dei tre casi, è l’oggetto di tale non sapere, e quindi diversa la
giustificazione che di esso vien data.
Nel caso degli uomini politici, il loro non sapere è nient’altro che la
proiezione, la risultante, in breve un altro nome, del loro non possedere alcuna
competenza determinata: pertanto, non sanno. Nel caso dei poeti, il loro non sapere è
invece la risultante del loro possedere solo una facoltà di tipo irrazionale: per questo
non sanno le cose che pur dicono e su cui poetano, e infatti, interrogati, non sanno
dire niente riguardo ad esse; in questo senso, non sanno. Ancora diverso è il caso
degli artigiani: il loro non sapere non è affatto dedotto dall’ambito delle cose su cui
hanno un certo sapere tecnico: Platone introduce qui la nozione capitale di τὰ
μέγιστα, «le cose di massimo valore»: è riguardo a queste che i poveri artigiani non
sanno dire nulla, talchè di esse, e solo di esse, si può dire che non sanno. In ognuno
dei tre casi vale però, per quanto diversamente connotata e argomentata sia
l’obbiettiva condizione mentale o psicologica corrispondente, la deludente,
insoddisfacente e senza dubbio biasimata risoluzione di tale oggettivo non sapere in
una soggettiva presunzione di sapere.
Socrate trae da questo exetazein la ben nota conclusione, che costituisce
anche la sua personale, conquistata interpretazione dell’oracolo di Apollo, che egli
sarà allora superiore in sapienza a tutti costoro in una cosa: né lui né gli altri
59
conoscono niente di buono e di bello, ma Socrate, quel che non sa, neppure crede di
saperlo. Che in questa conclusione non ci sia nulla di scettico, ma anche solo nulla
di definitivo, di statico, basta a dimostrarlo l’elementare considerazione, che però
non mi sembra sia stata fatta, che questa in cui viene a trovarsi Socrate non è altro
che la normale situazione nella quale si trova chiunque si appresti ad apprendere
alcunché. Detto in termini filosofici: è la situazione relativa all’inizio del conoscere
per l’appunto filosofico, dell’inizio del filosofare. Socrate è il primo rappresentante
di una tradizione di pensiero il cui corrispettivo moderno è rappresentato da
Cartesio, Locke, Kant, per quanto più sofisticate e approfondite possano essere poi
le elaborazioni di tale esperienza filosofica primaria in questa serie di pensatori: e
dico esperienza filosofica, perché quella che Platone ci offre nell’Apologia,
riferendola a Socrate, non è una mera constatazione fattuale, non è neppure un
postulato dogmatico, è al contrario una conquista teorica, qualcosa che, con molte
cautele e con molti distinguo, potremmo paragonare al ruolo che il cogito ha nella
filosofia moderna. Sottolineare che, essendo cosciente di non sapere, Socrate non
perviene ad alcun esito tautologico, sterile o scettico, è importante, così come è
importante far notare come, già in questa fase della critica del conoscere, Socrate sia
in grado di concettualizzare l’ambito delle verità morali o almeno delle questioni
morali in quanto tali: lo mostra l’uso dell’espressione, già rilevata, τὰ μέγιστα,
avvalendosi della quale Socrate può dimostrare il non sapere degli artigiani. Socrate
sa almeno questo, che esistono questioni della massima importanza, ed è proprio
perché lo sa che può porsi il problema di pervenire a conoscerle, ad avere su di esse
una qualche contezza. Ecco il nodo tra verità morale e conoscenza, stabilito con
nuda essenzialità e perfetta consapevolezza teoretica all’inizio dell’Apologia11.
4. Alla luce di questa impostazione del problema morale e del conoscere
morale si apprezza in tutta la sua importanza, ma anche con la necessaria precisione,
il concetto di ἀνθρωπίνη σοφία che Socrate distillerà alla fine di tutta questa prima
sezione dell’Apologia. La ἀνθρωπίνη σοφία è per l’appunto la prima formula o tra
le prime formule indicanti il dominio dell’etica, probabilmente intesa da Socrate, se
l’espressione risale a lui, come sono incline a credere, in senso non ancora
predeterminato, come lo sarà invece a partire da Aristotele e poi a partire dalla
filosofia ellenistica. Questo concetto nasce, come si è visto, dalla sostituzione della
coscienza di non sapere alla presunzione di sapere, e ha quindi due connotazioni
fondamentali. Innanzitutto, esso ha una funzione dinamica, dialettica e costruttiva:
infatti, mentre il non sapere si converte in presunzione di sapere, e in tal senso
chiude lo spazio della ricerca, dell’approfondimento e dello scavo conoscitivo, il
binomio non sapere e coscienza di non sapere apre lo spazio per la ricerca e
l’apprendimento; la prima condizione chiude il cerchio, la seconda lo apre. Questa
condizione di apertura e di promozione del conoscere affiora e anzi è chiara già nel
tour de force dialettico: Socrate comprende una serie di cose circa i suoi
11
Sui positivi contenuti del sapere di Socrate attestati dall’Apologia e sul concetto di
ἀνθρωπίνη σοφία rinvio al mio saggio Il sapere di Socrate nell’Apologia, in G.
GIANNANTONI-M. NARCY (edd.), Lezioni Socratiche, cit., 303-327.
60
interlocutori nel corso dell’exetazein, e quindi arriva a delle conoscenze, le quali
vanno oltre il puro sapere di non sapere, sono effettive conoscenze: ad esempio che
la poesia è determinata da una molla irrazionale, oppure che gli uomini politici non
possiedono competenza alcuna, per non parlare del punto d’arrivo di tutto
l’exetazein, ovvero del fatto che Socrate giunge a capire il significato dell’oracolo di
Delfi, che prima non comprendeva. Il fatto poi che la comprensione dell’oracolo sia
tutt’uno con l’interpretazione che Socrate ne produce, è la migliore riprova del
carattere produttivo di conoscenza della ἀνθρωπίνη σοφία. Ma contenuti della
ἀνθρωπίνη σοφία sono anche le convinzioni e le conoscenze, ben ulteriori, che
Socrate enuncerà nella parte successiva dell’Apologia.
Calogero è stato il primo ad accorgersi, forse, che qualcosa non funzionava
nella tradizionale visione di Socrate come di quel filosofo che solo sa di non sapere.
Il grande studioso non approfondì il significato di questa formula, che abbiamo visto
essere più complesso, ma notò tuttavia che questo Socrate, «maestro del dubbio,
della domanda e della ricerca», alcune cose mostra di saperle, nell’Apologia, e in
particolare quella per la quale supremo valore dell’esistenza risiede «non già in una
qualsiasi verità raggiunta o da raggiungere attraverso l’exetazein, ma in questo
stesso exetazein»12. Su questa strada, il problema è presto degradato nella più
comune e anche inesatta contrapposizione che si è voluto porre tra affermazioni di
conoscenza da parte di Socrate e la sua reiterata professione di ignoranza. Non ci si è
per lo più resi conto che queste ultime vanno esaminate di volta in volta nei singoli
contesti ove appaiono, e dove sono giustificate dai fini ironici o maieutici che
Socrate si propone, risultando, in linea generale, funzioni della strategia
dissimulativa propria del filosofo. Tuttavia, una volta che lo si formuli
adeguatamente, il problema c’è, e, in tempi più recenti, Vlastos ha ripreso daccapo la
questione, al lume dell’impostazione linguistica propria di quei settori della ricerca
che sono influenzati dalla filosofia analitica. Egli ha sostenuto che Socrate può
sostenere coerentemente entrambe le posizioni, l’affermazione della sua ignoranza e
la pretesa di conoscere alcune cose, alla luce di un presunto, duplice uso, che egli
farebbe, del verbo ‘conoscere’. In un significato forte, che Socrate applicherebbe,
secondo Vlastos, alla scienza, il fllosofo negherebbe di possedere conoscenze; in un
significato debole, proprio dell’elenchos, e riferito all’ambito delle verità morali,
egli potrebbe sostenere di possedere alcune conoscenze: si tratterebbe, nello
specifico, di conoscenze che non sono state mai confutate13. Ma questa spiegazione
è insostenibile per due ragioni: innanzitutto, essa non è fondata nei testi, non è mai
enunciata da Socrate, ed è semplicemente sovrapposta dallo studioso al problema in
questione; inoltre, non è vero che in Socrate c’è una distinzione tra scienza e ambito
delle verità morali, la prima conoscenza in senso forte e la seconda conoscenza in
senso debole. Né l’elenchos costituisce per Socrate una forma separata di
conoscenza, che egli applicherebbe alle verità morali: al contrario, l’elenchos è il
criterio con cui Socrate mette alla prova la conoscenza, ma non costituisce esso
12
G. CALOGERO, Scritti minori di filosofia antica, Napoli 1984, rispettivamente 111 e 113.
Cfr. G. VLASTOS, Socrates’ Disavowal of Knowledge, «Philosophical Quarterly», 35
(1985), 1-31; ID., Socrates, Ironist and Moral Philosopher, Cambridge 1991, trad. fr.,
Socrate. Ironie et philosophe morale, Paris 1994, 367-370.
13
61
stesso il modello di conoscenza. Il modello di conoscenza a cui il Socrate platonico
si riferisce costantemente è uno e uno solo ed è quello fornito dalla scienza, che si
applica all’ambito delle verità morali e delle «questioni di massimo conto».
Si esce invece da questa presunta contraddizione comprendendo il carattere
complesso delle dichiarazioni fondative di Socrate circa il sapere. La negazione di
essere sophos è negazione di essere filosofo della natura e sofista, e, inoltre,
negazione che la filosofia della natura e la sofistica siano un sapere: se esse non
sono un sapere, è matematico concludere che non può esservi un sophos nel loro
ambito, e che, comunque, Socrate non lo è. Il non sapere di Socrate non è asserito
universalmente, ma specificamente: ha cioè un complemento oggetto; così, Socrate
non sa questo o quello, sia perché, come accennavo, dubita della qualità di sapere
della filosofia della natura o di altri saperi, la retorica ad esempio, anzi francamente
non lo riconosce, sia perché una tale sua affermazione rivolta ai detentori di quei
presunti saperi è finalizzata a smascherare il loro presumere di sapere senza sapere,
sia infine perché serve in generale gli scopi della sua ironia. La coscienza di non
sapere, a sua volta, è un concetto non statico e chiuso, ma aperto e dinamico,
produttore di conoscenze, come già avviene, lo si è appena visto, nel corso del tour
de force dialettico, e più in generale avvio al modo retto di impostare l’acquisizione
di conoscenze, impostazione che richiede innanzitutto il ripudio e la purificazione
dalle conoscenze assunte senza previo esame critico che, come noterà il Protagora,
ingombrano l’anima impedendole di crescere. Tutte le conoscenze sono poi per
principio sottoposte alla possibilità dell’elenchos e al dovere dell’exetazein, ma, se
resistono ad esso, sono valide, e, come luminosamente dimostra il Critone,
permangono14.
5. Quali sono i contenuti positivi della ἀνθρωπίνη σοφία di Socrate? Si
tratta di almeno tre massime e di un principio, che l’Apologia enuncia con grande
chiarezza e anche con una certa enfasi, segno che in esse erano riassunti, agli occhi
di Platone, i capisaldi della filosofia di Socrate.
La prima è la massima dell’azione morale, e asserisce che l’unica cosa di
cui l’uomo deve curarsi, quando agisce, è se le sue azioni sono giuste o ingiuste e se
le sue opere sono degne di uomo onesto o malvagio: «Non dici bene, amico, se
ritieni che un uomo, che sia capace di qualche bene anche piccolo, debba far calcolo
del pericolo di vita o di morte, e non debba invece, quando agisce, guardare soltanto
a questo, se faccia cose giuste o ingiuste, e se le sue azioni sono azioni di un uomo
buono o di un uomo cattivo» (28b 5-9).
La seconda è la massima della responsabilità, e così suona: «Così stanno le
cose, cittadini Ateniesi, secondo la verità: dove uno abbia collocato se stesso,
reputando che quello fosse il suo luogo più onorevole, o vi sia stato collocato da chi
comanda; qui, io credo, deve rimanere, e qui affrontare i pericoli, e non fare calcolo
della morte, né di nessun altro male, più che della viltà e della vergogna» (28 d 5-9).
14
Cfr. Plat. Crito 46b-47a.
62
La terza massima è quella dell’obbedienza: «Ma commettere ingiustizia, e
non obbedire a chi è migliore di noi, sia dio sia uomo, questo so bene che è cosa
vergognosa e turpe» (29b6-8)15.
Si deve notare come queste tre massime contengano, nel loro insieme, le
antitesi etiche fondamentali, cioè i concetti che definiscono e delimitano il campo
dell’etica, ovvero i concetti di bene (ἀγαθόν) e male (κακόν), che rappresentano il
valore e il disvalore sul piano intrinseco e oggettivo, di bello (καλόν) e turpe
(αἰσχρόν), che rappresentano il valore e il disvalore in quanto si manifestano e si
offrono allo sguardo, sul piano soggettivo, e infine di giusto (δίκαιον) e ingiusto
(ἄδικον), che sono sovrapponibili alla coppia fondamentale ἀγαθόν e κακόν
specificamente sul piano dell’azione. E’ da notare inoltre come questi concetti
abbiano una proiezione non solo etico-individuale, ma anche, com’è del resto
naturale, politica e pubblica, e, infine, come le massime che li contengono siano
introdotte dall’inequivoca asserzione che esse sono oggetto del sapere di Socrate: il
che conferma quanto si era precedentemente detto circa il fatto che il modello di
sapere e di conoscenza che ha presente il Socrate platonico è quello dell’episteme
che si applica elettivamente ai concetti e alle verità morali. Al riguardo è bene
sottolineare l’evidentissimo oida che introduce l’esposizione della terza massima e
l’altrettanto inequivoca espressione «secondo verità», aletheia, che introduce
l’enunciazione della seconda.
Se si tiene conto di tutto ciò, del fatto che il Socrate di Platone dichiara di
essere conscio di non sapere, e tuttavia di possedere una sophia, dalla quale, secondo
la mia interpretazione, dipendono le inequivoche affermazioni di sapere che egli fa,
e che sono anche numerose, in questo testo fondamentale; se si tiene conto, inoltre,
del fatto che questo positivo sapere si esprime a vari livelli dell’exetazein iniziale, e
si manifesta inequivocabilmente nelle tre massime morali che egli enuncia con
grande evidenza in seguito, non stupisce più in alcun modo il grande passo sul
meghiston agathon che proprio Calogero aveva avuto il merito di rilevare, passo in
cui è espresso a chiare lettere quello che possiamo denominare il principio etico
fondamentale che Platone attribuisce a Socrate: principio etico fondamentale perché
esprime il valore supremo quale lo definisce Socrate. E poiché il passo è
straordinariamente bello e denso, mi sia consentito di citarlo16:
Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se vi
dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile che
io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo con ironia. Se poi vi
dico che proprio questo è per l’uomo il massimo bene, ragionare ogni giorno
sulla virtù e sugli altri argomenti sui quali m’avete udito discutere
(διαλεγομένου) esaminando (ἐξετάζοντος) me stesso e gli altri, e che una
vita che non faccia tale esame non è degna di essere vissuta, per un uomo,
crederete ancor meno a queste mie parole. Eppure, cittadini, è così come vi
dico, anche se non è facile persuadervi.
15
16
Le traduzioni riportate sono di Manara Valgimigli.
Plat. Apol. 37e4-38a8 (trad. di Manara Valgimigli, lievemente modificata).
63
Studiosi illustri quali Calogero e Giannantoni hanno commentato questo
passo, presentandolo come l’opzione fondamentale di civiltà della filosofia, e, su
questo punto, io non posso far di meglio che rimandare alle loro parole. Vorrei
invece cercare di dire a mia volta qualche cosa di nuovo riguardo a questo testo così
alto, ponendo l’accento su due aspetti trascurati. Il primo riguarda il versante per
così dire negativo dell’impegnativa asserzione di Socrate, ovvero che la vita, di per
sé, non è un valore, tanto che essa non è biotos, vivibile, o degna di essere vissuta, se
è anexetastos. Socrate, nell’apprestarsi a enunciare la sua prima massima etica,
quella dell’azione morale, si era riferito a Omero, ad Achille, e aveva interpretato la
nota vicenda che lo riguarda nell’Iliade come prova e sostegno del suo proprio
convincimento, dacché l’eroe aveva preferito morire piuttosto che vivere da
malvagio e da codardo non vendicando il suo compagno, Patroclo17. Anche nel
passo in esame è presente, questa volta in forma celata, tanto che è finora sfuggito,
un riferimento, ancor più fondo e impegnativo, a Omero. Socrate infatti qui non fa
nulla di meno che negare e rovesciare l’appassionata dichiarazione di Achille, il
quale, nel canto nono dell’Iliade, aveva proclamato, con appassionata veemenza,
esattamente il contrario: «Niente, per me, vale la vita!» (9, 401). Anche nei versi
seguenti, l’eroe aveva ribadito il medesimo concetto, giungendo ad affermare:
«perirà la nobile gloria, ma a lungo la vita / godrò, non verrà subito a me destino di
morte» (9, 415-416)18.
Nietzsche avrebbe valorizzato la tesi di Achille, e biasimato Socrate per la
nota di rinuncia, per il ripudio dell’ardore, e per il gelo, che la sua morale introduce
nella concezione greca della vita. Il secondo punto da rilevare, con il quale mi
sembra di poter chiudere coerentemente questa relazione, è, che se questo passo
esprime senza dubbio, come spesso è stato detto, il valore laico del dialogo con
l’altro, dell’indagine incessante e inesauribile, del dubbio stesso come molla e
motore della ricerca, esso esprime anche, più profondamente, l’ideale del metodo
scientifico trasformato in norma valevole per tutti gli uomini, perché quella qui
delineata è davvero la regola del metodo scientifico sublimato in imperativo etico,
che è un modo diverso e forse più nobile di dire: trasformato in vita. In questo esito,
verità morale e sapere si trovano ancora una volta congiunti e saldamente articolati
tra loro.
17
18
Plat. Apol. 28c-d.
Le traduzioni sono di Rosa Calzecchi Onesti.
64
II
IL CERTAMEN
65
IL TESTO
66
Platone, Politico 271d3-272b4 (ed. Robinson)
τότε γὰρ αὐτῆς πρῶτον τῆς κυκλήσεως
ἦρχεν ἐπιμελούμενος ὅλης ὁ θεός, ὣς δ’ αὖ κατὰ τόπους
ταὐτὸν τοῦτο, ὑπὸ θεῶν ἀρχόντων πάντῇ ἦν τὰ τοῦ κόσμου
μέρη διειλημμένα· καὶ δὴ καὶ τὰ ζῷα κατὰ γένη καὶ
ἀγέλας οἷον νομῆς θεῖοι διειλήφεσαν δαίμονες, αὐτάρκης
εἰς πάντα ἕκαστος ἑκάστοις ὢν οἷς αὐτὸς ἔνεμεν, ὥστε οὔτ’
ἄγριον ἦν οὐδὲν οὔτε ἀλλήλων ἐδωδαί, πόλεμός τε οὐκ
ἐνῆν οὐδὲ στάσις τὸ παράπαν· ἄλλα θ’ ὅσα τῆς τοιαύτης
ἐστὶ κατακοσμήσεως ἑπόμενα, μυρία ἂν εἴη λέγειν. τὸ δ’
οὖν τῶν ἀνθρώπων λεχθὲν αὐτομάτου πέρι βίου διὰ τὸ
τοιόνδε εἴρηται. θεὸς ἔνεμεν αὐτοὺς αὐτὸς ἐπιστατῶν,
καθάπερ νῦν ἄνθρωποι, ζῷον ὂν ἕτερον θειότερον, ἄλλα
γένη φαυλότερα αὑτῶν νομεύουσι· νέμοντος δὲ ἐκείνου
πολιτεῖαί τε οὐκ ἦσαν οὐδὲ κτήσεις γυναικῶν καὶ παίδων·
ἐκ γῆς γὰρ ἀνεβιώσκοντο πάντες, οὐδὲν μεμνημένοι τῶν
πρόσθεν· ἀλλὰ τὰ μὲν τοιαῦτα ἀπῆν πάντα, καρποὺς δὲ
ἀφθόνους εἶχον ἀπό τε δένδρων καὶ πολλῆς ὕλης ἄλλης,
οὐχ ὑπὸ γεωργίας φυομένους, ἀλλ’ αὐτομάτης ἀναδιδούσης τῆς γῆς. γυμνοὶ δὲ καὶ ἄστρωτοι θυραυλοῦντες
τὰ πολλὰ ἐνέμοντο· τὸ γὰρ τῶν ὡρῶν αὐτοῖς ἄλυπον ἐκέκρατο, μαλακὰς δὲ εὐνὰς εἶχον ἀναφυομένης ἐκ γῆς πόας
ἀφθόνου. τὸν δὴ βίον, ὦ Σώκρατες, ἀκούεις μὲν τὸν τῶν
ἐπὶ Κρόνου· τόνδε δ’ ὃν λόγος ἐπὶ Διὸς εἶναι, τὸν νυνί,
παρὼν αὐτὸς ᾔσθησαι· κρῖναι δ’ αὐτοῖν τὸν εὐδαιμονέστερον ἆρ’ ἂν δύναιό τε καὶ ἐθελήσειας;
67
68
LE SCUOLE CHE HANNO PARTECIPATO
1
LICEO CLASSICO CESARE BECCARIA
MILANO
2
LICEO CLASSICO CAVOUR
TORINO
3
LICEO CLASSICO PILO ALBERTELLI
ROMA
4
LICEO GINNASIO IMMANUEL KANT
ROMA
5
LICEO GINNASIO TORQUATO TASSO
ROMA
6
LICEO GINNASIO ANCO MARZIO
LIDO DI OSTIA
7
LICEO CLASSICO DANTE ALIGHIERI
LATINA
8
LICEO CLASSICO PIERO GOBETTI
FONDI
9
LICEO CLASSICO GIOSUE’ CARDUCCI
CASSINO
10 I.I.S. RAFFAELLO
URBINO
11 LICEO CLASSICO MELCHIORRE DELFICO
TERAMO
12 I.I.S. FRANCESCO DE SANCTIS
SANT’ANGELO DEI
LOMBARDI
13 LICEO CLASSICO GIOSUE’ CARDUCCI
NOLA
14 LICEO CLASSICO VINCENZO LANZA
FOGGIA
15 LICEO CLASSICO FRANCESCA CAPECE
MAGLIE
16 LICEO CLASSICO VITTORIO EMANUELE II
PALERMO
17 GYMNASIUM CLASSICUM PETROPOLITANUM
SAN PIETROBURGO
18 LICEO GINNASIO MARIANO BURATTI
VITERBO
19 I.I.S. VINCENZO CARDARELLI
TARQUINIA
20 I.S.I.S. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA
MONTEFIASCONE
21 I.I.S. DI VIA DELL’IMMACOLATA
CIVITAVECCHIA
22 LICEO CLASSICO PARIFICATO GESU’-MARIA
ROMA
69
70
I VINCITORI
1
ALBERTO SOGARI
LICEO CLASSICO CAVOUR - TORINO
2
FRANCESCA SANSEVERINO
LICEO GINNASIO IMMANUEL KANT - ROMA
3
GINEVRA BURATTI
LICEO GINNASIO TORQUATO TASSO - ROMA
4
ELOISA TROISI
IIS VIA DELL’IMMACOLATA 47 - CIVITAVECCHIA
5
CARLO PROSPERO
LICEO GINNASIO TORQUATO TASSO - ROMA
6
LUIGI DI MARTINO
LICEO CLASSICO VINCENZO LANZA - FOGGIA
7
UMBERTO COSTANTINO
LICEO CLASSICO VINCENZO LANZA - FOGGIA
8
FEDERICA SCARPELLINI
LICEO CLASSICO PARIFICATO GESU’-MARIA - ROMA
9
MARTA FEULA
LICEO CLASSICO PIERO GOBETTI - FONDI
10
GIULIA GAZZELLONI
LICEO CLASSICO PILO ALBERTELLI - ROMA
71
72