Paolo Buffo
SCRIVERE E CONSERVARE
DOCUMENTI A IVREA
TRA COMUNE E SIGNORIA
IL LIBRO DEI REDDITI
DEL CAPITOLO EPOREDIESE (secoli XII-XIV)
PARTE PRIMA
A. S. A. C. ASSOCIAZIONE DI STORIA E ARTE CANAVESANA IVREA
Studi e documenti, 2
IVREA - 2012
ISSN 2281-6038
Si ringraziano l’archivio di sStato di Torino, l’Archivio Storico diocesano di
Ivrea e l’Archivio storico del Comune di Ivrea per la gentile concessione.
Tutte le immagini sono opera dell’autore.
In copertina: pagina del cartulario della confraria dello Spirito Santo di Ivrea,
dell’ultimo quarto del secolo XIII (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1,
cat. 82, n. 3755).
Presentazione
Il presente volume è il primo dei tre dedicati allo studio del «Libro dei
redditi» del capitolo di S. Maria di Ivrea: un insieme di due cartulari –
oggi rilegati entro un unico volume e custoditi presso l’Archivio storico diocesano di Ivrea – scritti da diversi notai fra il 1264 e gli anni
Venti del secolo XIV, contenenti le copie, autenticate o semplici, di
alcune centinaia di documenti relativi ai beni e ai diritti dei canonici
della cattedrale eporediese.
Questa prima parte ha lo scopo di fornire un inquadramento generale
delle vicende e dei problemi connessi con la produzione e la conservazione di documenti in ambito eporediese nel periodo in cui i cartulari
furono scritti; si favorirà, in tal modo, la comprensione delle esigenze
che motivarono la produzione delle diverse parti del Libro dei redditi,
delle tecniche secondo cui essa si svolse, della fisionomia professionale dei redattori. Questo inquadramento non riguarderà le sole prassi
documentarie, ma toccherà anche l’evoluzione delle istituzioni cittadine, laiche ed ecclesiastiche: un’evoluzione che condizionò le vicende
dei notai eporediesi e gli esiti del loro lavoro. Il secondo volume, corredato da un CD Rom contenente l’edizione digitale del Libro dei redditi, sarà costituito dai saggi di diversi specialisti nei campi della storia, della diplomatica e dell’onomastica e sarà inteso, oltre che a presentare nello specifico l’aspetto e i contenuti dei cartulari, a fornire un
generale aggiornamento delle conoscenze storiche su Ivrea a cavallo
fra i secoli XIII e XIV, alla luce dei documenti, in maggior parte inediti, copiati nei cartulari. Nel terzo volume, infine, saranno presentati
in forma cartacea l’edizione dei testi e dei relativi indici.
Il merito di aver illustrato la storia dei rapporti fra notariato e istituzioni a Ivrea fino alla prima metà del Duecento, consentendo a me di
proseguire l’indagine per i decenni successivi, appartiene principalmente a Gian Giacomo Fissore1. In questo volume ho preso in esame
alcuni testi da me già studiati in precedenti ricerche2 e altri che preG. G. FISSORE, Vescovi e notai, in Storia della chiesa di Ivrea dalle origini al secolo XV, a cura di G.
CRACCO, Roma 1998, pp. 889-924; ID., Un caso di controversa gestione delle imbreviature: notai,
vescovi e comune a Ivrea nel secolo XIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCVII/1 (1999),
pp. 67-88.
2
P. BUFFO, La cogestione di beni e diritti pubblici da parte di comune ed episcopio a ivrea: prassi, lessici, attori, Torino 2009, tesi di laurea specialistica presso il Dipartimento di Storia dell’Università di
1
sento qui per la prima volta. Il mio ringraziamento deve pertanto estendersi, oltre che a quanti mi hanno prestato aiuto nella redazione di questo breve studio, anche a chi mi ha fornito indicazioni e consigli nella
stesura dei precedenti saggi, a cominciare dai professori Giuseppe
Sergi e Patrizia Cancian. Voglio altresì ringraziare don Giovanni
Battista Giovanino, direttore dell’Archivio storico diocesano di Ivrea,
per la cordiale disponibilità con la quale ha favorito il mio accesso ai
documenti custoditi presso quell’archivio; per lo stesso motivo sono
grato alla signora Ezia Molinaro, responsabile dell’Archivio storico
del Comune di Ivrea.
Paolo Buffo
Torino, Sezione di Paleografia e Medievistica; ID., I registri notarili dell’episcopio eporediese sotto
Alberto Gonzaga (1289-1320). Proposte per una ricerca diplomatistica, in «Bollettino dell’Associazione
di storia e arte canavesana», 10 (2010), pp. 85-107; I documenti dell’archivio storico del comune di Ivrea
(1142-1313), a cura di ID., in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», CX/1 (2012), pp. 201-308 (in
particolare pp. 201-219); ID., Cronaca di una fondazione. Le origini del convento di S. Chiara di Ivrea
nelle scritture del notaio Francotto dell’Olmo (1301-1303), in corso di stampa in «Bollettino
dell’Associazione di storia e arte canavesana», 12 (2012).
INDICE
Introduzione
pag.
1
1. Il quadro istituzionale di riferimento
pag. 11
2. L’emergere del problema documentario nella dialettica
frale istituzioni urbane
pag. 21
3. Una memoria contesa: la circolazione dei registri notarili
di imbreviature
pag. 35
4. Continuità e innovazioni: le prassi della conservazione
documentaria a cavallo fra Due e Trecento
pag. 49
5. “Istituzioni e notai in un’età di crisi”
pag. 61
6. Un trait d’union: Francotto dell’Olmo, tecnico del diritto
e professionista della memoria scritta
pag. 71
Conclusione
pag. 87
Bibliografia
pag. 91
Immagini
pag. 101
Introduzione
Questo saggio ha come oggetto i rapporti fra un gruppo di professionisti
(i notai) e le due istituzioni di ascendenza pubblica esistenti in Ivrea: il
comune e l’episcopio. Lo studio di un ambito come quello documentario, a
lungo oggetto di cogestione da parte di quei due soggetti politici, presenta
maggiori difficoltà rispetto a una ricerca incentrata su situazioni di totale
conflittualità. Non solo, infatti, i documenti relativi ai rapporti fra comune
ed episcopio eporediesi furono redatti per la maggior parte, come è ovvio,
in situazioni di contrasto istituzionale: si pensi ai testi delle concordiae stipulate fra i rappresentanti delle due istituzioni, a quelli degli arbitrati celebrati per appianarne le controversie, agli atti di scomunica, alle missive
inviate dalla sede apostolica agli homines di Ivrea per diffidarli dal ledere i
diritti della chiesa. Anche i documenti redatti in situazioni di pacifica collaborazione tendono a esprimere le istanze di legittimazione proprie del
soggetto che ne dispose o che ne richiese la produzione. Per esempio, i
documenti di ambito vescovile attestanti la compartecipazione di funzionari del comune e di funzionari dell’episcopio alla gestione dei terreni comuni tenderanno a sminuire la partecipazione dei primi, ponendo in risalto il
contributo dei secondi e dell’autorità alla quale fanno capo; una situazione
speculare caratterizzerà i documenti redatti dai notai comunali. Nello studio della documentazione incontreremo molti casi simili.
Ovviamente, questo apparente inconveniente ci fornisce l’opportunità di
riflettere sugli artifici lessicali impiegati dai diversi poteri per soddisfare le
proprie necessità di autorappresentazione. Per distinguere, in seno ai testi,
le costruzioni ideologiche dalle dinamiche storiche reali occorrerà applicare alle fonti a nostra disposizione una rigorosa esegesi. Nel nostro caso, tale
esegesi non potrà prescindere da una critica e da un superamento del panorama delle fonti edite, così come ci sono giunte attraverso la corposa serie
di edizioni di documenti eporediesi pubblicata nella collana della
3
Biblioteca della Società Storica Subalpina a partire dall’anno 1900 .
3
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea fino al 1313; Le bolle pontificie dei registri vaticani relative ad Ivrea; Regesto del «Libro del comune» d’Ivrea, a cura di F. GABOTTO, Pinerolo 1900
(Biblioteca della Società storica subalpina, V-VI); Estratti dai «conti» dell’Archivio camerale di
Torino relativi ad Ivrea, a cura di ID., in Eporediensia, Pinerolo 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, IV.
1
Gli atti del IV Congresso storico subalpino, tenutosi nel 1901, forniscono
un resoconto dettagliato sullo stato a cui era pervenuta, entro l’inizio del
nuovo secolo, la riflessione circa i compiti dell’editore sviluppata dai membri della Società . La quarta seduta, in particolare, fu interamente dedicata
al dibattito «sul metodo di publicazione dei documenti storici». La riscoperta ottocentesca di un insieme eterogeneo di archivi sul territorio piemontese – eterogeneo soprattutto a causa delle grandi differenze quantitative tra i patrimoni documentari custoditi in ciascuno – poneva di fronte al
problema di stabilire criteri univoci in base a cui determinare quali documenti pubblicare, quali condensare in regesto e quali ignorare. Da subito si
concordò sull’adozione di un discrimine di natura cronologica. La Regia
deputazione di storia patria di Torino aveva in precedenza fissato come data
5
limite per l’edizione delle fonti d’archivio l’anno 1300 . Ferdinando
Gabotto promosse lo spostamento di tale limite al 1313, «data che segna
precisamente il tramonto delle due grandi potenze che in tutto il medio evo
avevano lottato fra loro: il papato e l’impero», asserendo inoltre che «per il
Piemonte … questa data ha anche una importanza speciale perché la morte
di Enrico VII è accompagnata e seguita da tutta una serie di circostanze
6
essenziali nella storia subalpina» . I membri della Società convenivano
424; Le carte dell'Archivio capitolare d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle piu notevoli dal 1231 al
1313, a cura di E. DURANDO, Le carte dell'abazia di S. Stefano d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle
piu notevoli dal 1231 al 1313, a cura di F. SAVIO, G. BARELLI, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società
storica subalpina, IX). A questo gruppo di edizioni si sarebbero affiancate, nei decenni successivi, quella
de Il Libro rosso del comune d’Ivrea, a cura di G. ASSANDRIA, Pinerolo 1914 (Biblioteca della Società
storica subalpina, LXXIV) e quella del Cartario della confraria del S. Spirito d’Ivrea (1208-1276), a cura
di G. BORGHEZIO, G. PINOLI, Torino 1929 (Biblioteca della Società storica subalpina, LXXXI/2).
4
Atti del IV congresso storico subalpino, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», VII (1902), pp.
235-268.
5
Il IV Congresso storico subalpino si collocò alla vigilia della pubblicazione delle Norme generali per la
pubblicazione dei testi storici per servire alle edizioni della Regia Deputazione di storia patria per le
Antiche Provincie e in Lombardia, in «Miscellanea di storia italiana», serie III, VII (1902), pp. XXXVIILVI. Su quel testo, dovuto principalmente a Carlo Cipolla, cfr. A. OLIVIERI, Il metodo per l’edizione
delle fonti documentarie tra Otto e Novecento in Italia. Appunti su proposte e dibattiti, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino«», CVI/2 (2008), pp. 582-585. Sui contrasti fra Cipolla e l’allievo Gabotto cfr.
op. cit., p. 585 sgg.; E.ARTIFONI, Carlo Cipolla storico del Medioevo: gli anni torinesi, in Carlo Cipolla
e la storiografia italiana fra Otto e Novecento (Atti del Congresso di sudio: Verona 23-24 novembre
1991), Verona 1994, pp. 3-31; P. CANCIAN, La medievistica, in La città, la storia, il secolo. Cento anni
di storiografia a Torino, a cura di A. D’ORSI, Bologna 2001, p. 135 sgg.; D. FRIOLI, G.M.VARANINI,
Insegnare paleografia alla fine dell'Ottocento. Alcune lezioni di Carlo Cipolla (1883 e1892), in «Scrittura
e civiltà», XX (1996), pp.367-398.
6
Atti del IV Congresso storico subalpino cit., p. 251 sg.
2
peraltro che i limiti cronologici potevano, nei singoli casi, subire variazioni in considerazione delle circostanze locali: ciò era vero specialmente per
quel limite che separava, all’interno della pubblicazione, il gruppo dei
documenti editi integralmente da quelli editi soltanto nei loro passi principali o in seguito a una scelta delle carte più significative.
Tale discrezionalità è ravvisabile nelle edizioni relative agli archivi eporediesi. Sia Edoardo Durando sia la coppia costituita da Fedele Savio e
Giuseppe Barelli – il primo editore, nel 1902, del cartario dell’archivio
capitolare di Ivrea, i secondi, nello stesso anno, di quello del monastero di
S. Stefano – scelsero di pubblicare integralmente tutte le «carte» fino al
1230, fornendo invece, per quelle risalenti agli anni 1231-1313, «una scelta delle più notevoli». Gabotto aveva optato, nel suo lavoro sull’archivio
vescovile, per una partizione cronologica più complessa: in quella pubblicazione l’edizione in forma integrale dei documenti termina con l’anno
1250, «che segna non solo la metà di un secolo, ma anche la morte di
Federico II, il quale tenne direttamente Ivrea sotto di sé fino al suo trapas7
so, o poco meno» ; fino all’anno 1300 si dà conto di tutte le «carte», ma
alcune non sono riportate integralmente; del periodo compreso tra il 1300 e
il 1313 è invece edita una scelta di documenti.
L’ossessione per la resa il più possibile completa dei testi più antichi, sino
a una data convenzionale, faceva parte di quell’"idole chronologique" che
François Simiand descriveva, proprio negli stessi anni in cui erano pubblicate quelle edizioni, come tipico degli storici del proprio periodo e consi8
stente nella «habitude de se perdre dans des études d’origines» : in effetti
Savio anteponeva all’edizione delle carte di S. Stefano uno dotto studio
intitolato proprio Le origini del monastero di S. Stefano d’Ivrea, in cui si
sforzava di verificare l’autenticità delle varie versioni superstiti del diploma di fondazione dell’abbazia, mentre Durando annoverava fra i motivi
d’interesse della propria edizione dei documenti dell’archivio capitolare la
loro importanza per lo studio di Ivrea nei secoli XI e XII, poco rappresentati dalle carte dell’archivio vescovile.
Il 1313 ebbe in effetti una notevole importanza per Ivrea, diversamente,
per esempio, dal 1230: fu in quell’anno che la città si sottomise ai conti di
7
Le carte dell’Archivio vescovile cit., I, p. 5.
F. SIMIAND, Méthode historique et science sociale, pubblicato sulla Revue de synthèse historique nel
1903 e ristampato in «Annales. Economies, sociétés, civilisations», 15/I (1960), p. 118. Come è noto, l’idea sarebbe poi stata sviluppata da Marc Bloch nella sua riflessione sull’«idolo delle origini» (M.
BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 1998, trad. it., p. 24 sgg.)
8
3
Savoia e ai principi d’Acaia. Un evento che Gabotto non poteva non considerare
come una cesura epocale, anzi come la cesura per eccellenza nella storia di un
comune piemontese, essendo la sua storiografia fortemente improntata al sabaudismo, cioè alla celebrazione dell’espansione sabauda come dipanarsi di un pro9
cesso di redenzione nazionale culminato con il Risorgimento . Ecco allora che la
data del 1313 ispirò anche la partizione del corposo contributo gabottiano al
volume degli Eporediensia (1900), dal titolo Un millennio di storia eporediese,
steso contestualmente alla sua attività presso l’archivio vescovile. In quello
scritto, molte vicende di Ivrea a partire dalla metà del secolo XIII sono interpretate, in chiave teleologica, come segni del progressivo ingresso della città
nell’orbita del principato sabaudo: a proposito della mancata efficacia di un
diploma imperiale che nel 1248 conferiva a Tommaso di Savoia il controllo su
Ivrea, Gabotto commenta che «neanche stavolta l’aquila di Savoia riusciva
10
ancora a stendere le sue ali su Ivrea e sul paese circostante» ; e, più in generale, il capitolo del saggio relativo al periodo precedente la dedizione ai Savoia
(1238-1313), presenta tale intervallo come l’epoca in cui per la città, «molto
scaduta d’importanza» rispetto ai tempi della marca postcarolingia e costretta,
sotto il regime comunale, entro un «orizzonte politico … fatalmente chiuso e
ristretto in piccol ambito, … incomincia una situazione nuova, in cui Ivrea si
11
avvia a riacquistare importanza maggiore» .
Un esempio di come le scelte editoriali di Gabotto e dei suoi epigoni impediscano di studiare i poteri insistenti sul territorio eporediese in quanto produttori e
utenti di documenti è facilmente ravvisabile nel caso del vescovo Alberto
Gonzaga, in carica fra il 1289 e il 1320. Del carattere profondamente unitario di
questo lungo periodo, il quale – lo si vedrà in maniera particolareggiata nel corso
del presente studio – coincise con importanti mutamenti nella società eporediese
e nelle forme della documentazione vescovile e comunale, Gabotto non tenne
alcun conto allorché fissò i limiti cronologici dell’edizione da lui redatta. Il trentennio fu così artificiosamente spezzato in tre sezioni cronologiche: una prima
(dal 1289 al 1300) per la quale si dava conto dell’intera documentazione dell’episcopio, una seconda (dal 1301 al 1313) della quale erano scelti soltanto alcuni
specimina e un’ultima (dal 1313 in poi) che non era in alcun modo rappresentata.
9
E. ARTIFONI, Scienza del sabaudismo. Prime ricerche su Ferdinando Gabotto storico del medioevo
(1866-1918) e la Società storica subalpina, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e
Archivio muratoriano», 100 (1995-1996), p. 171 sgg.; sul tema del sabaudismo è fondamentale il contributo di U. LEVRA, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992, p. 173 sgg.
10
GABOTTO, Un millennio di storia eporediese, in Eporediensia cit., p. 125.
11
Op. cit., p. 118 sg.
4
Questa disattenzione per la storia del documento in sé non era soltanto l’esito
dell’adozione di criteri cronologici sfavorevoli allo studio della documentazione,
ma traeva origine dalle convinzioni di quel gruppo di storici sul valore del documento nell’economia del discorso storiografico. Per Gabotto i documenti erano,
12
di per sé, null’altro che uno «strumento di studi storici, … storia giammai» : essi
dovevano fungere da materia prima del discorso storiografico e andavano considerati come fonti per la storia politica piuttosto che come documenti da studiare
in quanto tali. L’archivio si riduceva in pratica all’ambito d’azione del paleografo,
del filologo e del diplomatista, i quali dovevano preoccuparsi di fornire allo storico dati il più possibile corretti. Solo in quest’ottica può risultare chiara l’impostazione di lavori come l’edizione dei Documenti dell’archivio comunale di
Vercelli relativi ad Ivrea curata nel 1901 da Giuseppe Colombo e sollecitata dallo
stesso Gabotto nell’ambito della campagna di pubblicazioni sul medioevo epore13
diese . Si tratta di un gruppo di singoli documenti estratti dalle fonti più disparate (alcuni sono editi a partire dal mundum, altri copiati dai libri iurium comunali), talvolta pubblicati soltanto frammentariamente, tralasciando le parti di testo
non riferite a Ivrea; i singoli registri, che pure sono sommariamente descritti nell’introduzione, non sono considerati nella loro unità di documenti storici, né se
ne auspica, per il futuro, una pubblicazione integrale.
Un analogo disinteresse per il veicolo documentario dei testi storici sottende
tutta l’opera di edizione degli studiosi che operarono in quegli anni negli archivi
di Ivrea. In questi lavori il ricorso alle fonti in registro avviene non in modo sistematico, bensì prevalentemente allo scopo di colmare i vuoti della documentazione in pergamena sciolta presente negli archivi: «Gabotto, in preda a una sorta di
14
horror vacui, non ammette il silenzio documentario» . Gabotto, Durando e Savio
attingono con gran libertà ai testi riportati nei registri duecenteschi e trecenteschi:
da alcuni si estrapolano certi documenti e li si pubblica come se si trattasse di
carte sciolte, senza riguardo per il complesso documentario da cui provengono,
salvo indicarne sinteticamente la collocazione archivistica; di altri non si dà
alcun conto, ritenendo la coeva documentazione in mundum sufficiente a
‘coprire’ quel periodo dal punto di vista delle fonti; altri ancora sono igno15
rati, ma se ne auspica la pubblicazione sotto forma di regesto .
12
Relazione intorno all’opera della Società storica subalpina nel suo primo sessennio, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», VII (1902), p. 14.
13
Documenti dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea, a cura di G. COLOMBO, Pinerolo 1901
(Bibloteca della Società storica subalpina, VIII).
14
ARTIFONI, Scienza del sabaudismo cit., p. 177.
15
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 5.
5
Stiamo affrontando il tema delle fonti in registro perché proprio a tale tipo di
fonti si farà ricorso di preferenza nelle prossime pagine. Si tratta di scritture
quasi per nulla sfruttate ai fini dello studio di Ivrea medievale, malgrado le più
recenti ricerche storiche e campagne di edizione abbiano in parte invertito la
16
tendenza . Il più ovvio dei vantaggi connessi con lo studio di registri è di natura meramente quantitativa. I registri vescovili e i protocolli notarili prodotti
dalla prima metà del Duecento sino all’inizio del secolo successivo contengono
svariate centinaia di documenti che aspettano di essere letti e studiati: investiture feudali, testamenti, atti giudiziari, collazioni di benefici, nomine di funzionari, transazioni di vario tipo. Una mole di documenti ben superiore rispetto all’insieme dei testi coevi editi da Gabotto e compagni, sui quali sono state condotte, in passato, quasi tutte le ricerche medievistiche su Ivrea.
L’analisi delle fonti in registro è poi particolarmente importante ai fini delle
argomentazioni sviluppate in questa ricerca. In primo luogo, occorre notare che
i registri contengono, in grande maggioranza, documenti relativi al disbrigo corrente degli affari dell’ente che ne ha disposto la produzione. Si pensi ai registri
vescovili di «atti relativi ai beni della chiesa di Ivrea» («instrumenta de rebus
Yporiensis ecclesie»): i documenti in essi contenuti si riferiscono quasi tutti alla
gestione ordinaria dei beni ecclesiastici o delle prerogative pubbliche. Rispetto
agli atti delle concordiae o alle sentenze arbitrali, questi testi esprimono di solito un basso grado di conflittualità istituzionale e consentono – pur entro i limiti che abbiamo individuato all’inizio di questa introduzione – un approccio più
diretto alle pratiche di cogestione della res publica, in ambito documentario e
non. In secondo luogo, i registri sono la migliore testimonianza dello sforzo,
posto in atto dalle due istituzioni della civitas, di controllare e di ordinare la propria memoria scritta. Proprio alle pratiche connesse con l’esercizio dell’auctoritas pubblica sugli atti giuridici sarà dedicata la porzione più cospicua del presente lavoro: una preponderanza corrispondente alla centralità di cui tali pratiche godettero a Ivrea, fra Due e Trecento, nella costruzione degli spazi del
16
Edizioni di documenti eporediesi in registro sono in C. SERENO, Il monastero cistercense femminile di
S. Michele di Ivrea: relazioni sociali, spazi di autonomia e limiti di azione nella documentazione inedita
dei secoli XIII-XV, Torino 2009 (Biblioteca storica subalpina, CCII); Nuovi documenti sulle due dedizioni del comune di Ivrea al marchese Guglielmo VII di Monferrato (1266 e 1278), a cura di P. BUFFO, in
«Bollettino dell’Associazione di storia e arte canavesana», 11 (2011), pp. 61-91; Le pergamene trecentesche di S. Francesco di Ivrea, a cura di P. BUFFO, in C. BERTOLOTTO, P. BUFFO, S. COPPO, F.
QUACCIA, C. TOSCO, Il convento di San Francesco a Ivrea. Storia, arte e architettura, Ivrea 2011
(Studi e documenti, 1), pp. 21-40. Uno studio sul medioevo eporediese che fa un uso abbondante delle
fonti in registro è, per esempio, A. PIAZZA, In chiesa e nella vita. Luoghi istituzionali e scelte religiose
nel XIII secolo, in Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 275-318.
6
publicum. Lo studio dei registri, infine, ci consentirà di ricostruire i percorsi e i
legami professionali dei loro estensori. I notai, e in generale i professionisti del
diritto, ebbero un peso rilevante nel mantenimento dell’equilibrio dinamico fra i
due vertici istituzionali della civitas, sia come mediatori tecnici, sia – in virtù dell’elevato rango sociale e dei legami personali di alcuni di essi – come compartecipi delle scelte politiche poste in atto da comune ed episcopio. L’importanza
della mediazione di giudici e notai nella definizione dei rapporti fra istituzioni è
17
già stata posta in luce da Fissore per Asti . Limitiamoci per ora a rilevare come
il caso eporediese si discosti da quello astigiano per la più prolungata osmosi fra
il gruppo dei notai dipendenti dal comune e quello dei notai legati all’episcopio: una persistenza motivata dalla continuità della diarchia di vescovo
e comune nel governo della res publica eporediese.
I paleografi attivi fra Otto e Novecento nella redazione delle edizioni
documentarie promosse dalla Società storica subalpina credevano nell’esistenza di un «legame stretto … fra quantità dei documenti pubblicati e
quantità di verità posseduta. … L’attivismo editoriale non perveniva a complicare i problemi storici e a suggerire ipotesi alternative, ma era visto
essenzialmente come un modo per risolvere i problemi e confermare le ipo18
tesi di partenza» . I documenti da essi pubblicati non costituiscono un campione ‘neutro’ della documentazione eporediese: sono il frutto di una selezione di testimonianze scritte operata da un gruppo di storici e paleografi
19
che se ne servirono per corroborare le proprie tesi . Non parliamo, poi, dei
casi di vera mala fede. Gabotto, per esempio, non potè non accorgersi della
falsità del diploma di immunità indirizzato da Ottone III all’episcopio eporediese nel 1000, costruito tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento a
partire da un vero diploma di Federico II, edito da Gabotto stesso; ma la
ignorò, editando il privilegio senza avvertirne il lettore e in tal modo colmando il ‘vuoto’ causato dall’assenza di un diploma ottoniano di immunità
17
G. G. FISSORE, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel Comune di Asti: i modi e le
forme dell'intervento notarile nella costituzione del documento comunale, Spoleto 1977, pp. 42-57.
18
ARTIFONI, Scienza del sabaudismo cit., p. 177.
19
Le prime pubblicazioni della Biblioteca della Società storica subalpina, per esempio, contenevano un
repertorio di fonti selezionato appositamente per consentire la redazione di genealogie che confermassero
la teoria gabottiana dell’origine signorile dei comuni; ciò attirò le critiche di Gioacchino Volpe: cfr. OLIVIERI, Il metodo cit., pp. 584-586. Sulla controversia Gabotto-Volpe cfr. soprattutto N. IRICO, Il problema della presenza signorile nei primordi del comune di Biella, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXIX/2 (1971), p. 449 sgg.
7
20
per la chiesa eporediese . Uno studioso dei nostri giorni che conduca una
ricerca basandosi sui soli documenti editi per cura della Società storica
subalpina rischia di lasciarsi inavvertitamente condizionare dalla visione
del medioevo propria di Gabotto e dei suoi collaboratori. Una tra le ‘sfide’
offerte alla ricerca dal medioevo eporediese è, senza dubbio, il superamento della tradizione gabottiana e la valorizzazione di nuove forme documentarie21. Le pagine che seguono intendono fornire un modesto contributo al
conseguimento di tale scopo.
20
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 11, doc. 1. È giusto, almeno in nota, accennare al
problema della genuinità dei testi dei documenti solenni relativi a Ivrea, a cominciare dai quattro diplomi
indirizzati all’episcopio eporediese tra XI e XIII secolo: quello succitato di Ottone III, risalente al 1000, e
i tre di Federico II, datati 1219. Nessuno dei quattro ci è giunto in forma originale. Le copie più antiche
sono presenti in cartulari della curia vescovile, risalenti ai primissimi anni del secolo XIV, in particolare
in un fascicolo, contenente tra l’altro una trascrizione in copia semplice di tutti e quattro (BUFFO, I registri notarili cit., p. 99). Proprio su questo manoscritto, l’unico a riportare il testo del diploma ottoniano,
Gabotto condusse la propria edizione. Fra gli studiosi che sino a oggi si sono occupati del medioevo eporediese, coloro che recepiscono le indicazioni fornite in Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto III, a
cura di M. UHLIRZ, Graz-Köln 1957 (Regesta imperii, II/3.2), p. 769, doc. 1384; p. 836, doc. 1467, e in
MGH, Diplomata II/2: Ottonis III diplomata, p. 803 sg., doc. 376, edizioni che denunciano la falsità dell’atto ma lo ritengono ricavato da un documento autentico, accolgono il testo del diploma come comunque attendibile nella sua sostanza. Al contrario, tale testo va ritenuto del tutto inattendibile anche dal punto
di vista sostanziale, in quanto l’unico tratto che il falsario riprende da un diploma ottoniano autentico è il
nome del cancelliere Heribertus, che eseguì la recognitio (Die Regesten cit., p. 769). Tutto il resto del testo
è una copia, molto aderente, del dettato di un documento posteriore di oltre due secoli: uno dei tre diplomi rilasciati, sempre alla chiesa di Ivrea, da Federico II nel 1219 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea
cit., I, p. 120 sg., doc. 85). È impensabile che, al contrario, il testo del diploma del 1219 copi, puntualmente e per gran parte della propria estensione, quello di un diploma autentico dell’anno 1000: come spiegare, in tal caso, la totale assenza di riferimenti a diplomi precedenti? A ben vedere, il falso diploma ottoniano contiene elementi estrapolati da un ulteriore documento, quello attraverso il quale lo stesso Federico
II concedeva al vescovo di Ivrea di far scrivere in lettere d’oro il diploma concessogli (op. cit., I, p. 121
sg., doc. 86): nel testo falsificato è infatti inserito un riferimento ad «aureis litteris». Quello delle lettere
dorate è un elemento caro ai falsari eporediesi del secolo XIII: esso ricorre infatti in uno dei falsi atti di
fondazione del monastero di S. Stefano di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1 n. 1). A differenza dei diplomi federiciani, copiati numerose volte tra
la seconda metà del secolo XIII e gli inizi del successivo, quello ottoniano compare, come si è detto, una
sola volta, all’interno di una fonte senza dubbio ‘parziale’: un fascicoletto, risalente agli anni intorno al
1300, in cui un ignoto notaio della curia vescovile copiò un numero limitato di documenti relativi alla chiesa eporediese (per lo più diplomi imperiali e convenzioni con il comune di Ivrea), delineando una serie
cronologica da cui risultasse lo sviluppo storico dei privilegi detenuti da quella chiesa. Solo la valutazione del milieu attraverso il quale il testo del falso diploma ottoniano si è conservato consente di comprendere appieno il significato politico della falsificazione.
8
1. Il quadro istituzionale di riferimento
Una ‘sovrabbondanza’ di poteri connotati in senso pubblico
Fra lo spirare del secolo XII e gli anni Sessanta del XIII la frattura tra la città
di Ivrea e il territorio rurale circostante, dal bacino della Dora Baltea a quello
del Malone – consumatasi contestualmente alla dissoluzione della marca
anscarica – andò ricomponendosi. Non attraverso l’assorbimento di un contado entro la sfera di controllo della civitas, bensì con l’intreccio di legami di
interdipendenza, sostanzialmente paritari, fra i poteri urbani – le istituzioni
comunali e l’episcopo – e i principali poteri signorili radicati nelle campagne.
Tale particolare situazione indusse le istituzioni laiche eporediesi a sostanziare la propria azione sul piano del publicum con prassi differenti rispetto a
quelle osservabili, per gli stessi anni, nelle altre civitates, sfruttando al massimo l’elasticità dei lessici legittimanti che intorno all’esercizio del potere pubblico si erano nei secoli costruiti. I signori delle campagne, a propria volta,
dovettero elaborare forme di autorappresentazione adeguate a gestire i propri
rapporti con la civitas su un piano di parità: ciò si tradusse nell’adozione,
21
anche da parte di costoro, di pratiche e linguaggi di ascendenza pubblica .
Una sorta di mimesi istituzionale, che alcuni fra questi domini impararono a
impiegare anche nei confronti dei poteri signorili minori. Si pensi, in particolare, ai lignaggi comitali – i Valperga e i loro rami di Masino e Rivara, i San
Martino, i Biandrate – che si legarono in svariate societates, la cui organizzazione richiamava quella delle leghe fra comuni, e impiegarono lessici documentari intesi a presentare la propria area di influenza alla stregua dei districtus comunali; un’area che proprio in quei decenni acquisiva definitivamente la
denominazione complessiva di «Canavese». È un tema che qui non tratteremo
ma che meriterà, in futuro, qualche approfondimento rispetto allo scarno
22
panorama delle ricerche sinora condotte .
Quello eporediese e canavesano fu, sino all’avvento della potenza sabau21
BUFFO, La cogestione cit., p. 45 sgg.
Cfr. soprattutto A. OREGLIA, Le famiglie signorili del Canavese nei secoli XII e XIII. Prosopografia,
genealogia, vicende patrimoniali e politiche dei «comites Canapicii» coinvolti nelle vicende della «societas Canapicii», Torino 1990, Tesi di dottorato preso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino,
Sezione di Paleografia e Medievistica; P. BUFFO, Lessico e prassi dell’affermazione signorile entro l’area d’influenza dei Valperga. Il caso di Busano, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino»,
22
11
da, un quadro politico policentrico. Un contesto caratterizzato dall’assenza
di un potere in grado di affermarsi in maniera netta sugli altri, imponendo
le proprie regole a un processo di riorganizzazione del territorio. Quel contesto si distinse anzi per la marcata ‘sovrabbondanza’ di poteri che aspiravano a presentarsi e a organizzarsi secondo il lessico e le forme legittimanti del publicum: poteri impegnati nel continuo sforzo di definire se stessi
rispetto ai propri concorrenti, di superare le contraddizioni derivanti dalla
sovrapposizione e dall’intreccio dei rispettivi ambiti giurisdizionali. In questa ricerca sono studiati i rapporti intercorsi fra due soggetti in particolare,
l’episcopio e il comune eporediesi. Quelle due istituzioni, tuttavia, non
furono i soli poteri a tentare di sfruttare a proprio vantaggio un lessico di
ascendenza pubblica: a essi devono essere accostati, come rilevato, i conti
23
di Biandrate e i lignaggi comitali canavesani .
Il quadro appena descritto fu complicato, a partire dalla seconda metà del
secolo XIII, dalla progressiva perdita di autonomia da parte delle istituzioni civiche eporediesi. Un’effimera sottomissione a Guglielmo VII di
Monferrato (1266-1267) fu seguita da un altrettanto effimero periodo di
indipendenza; negli anni Settanta, Ivrea entrò nell’orbita degli Angiò, quindi (1278) nuovamente sotto il controllo di Guglielmo VII; poco dopo la
morte di quel marchese, comune ed episcopio si sottomisero al figlio
Giovanni (1294); alla morte di quest’ultimo (1305), Ivrea riacquistò per
alcuni anni la piena autonomia. Il breve periodo intercorrente fra quella
data e il momento dell’ingresso della città nei domini sabaudi (1313) fu
caratterizzato dall’aggravarsi di una crisi sociale e istituzionale i cui presupposti sono avvertibili durante gli ultimi decenni del secolo XIII. Da un
lato, l’episcopio aveva parzialmente perso l’effettivo controllo delle proprie
funzioni di ascendenza pubblica, a causa del progressivo allentarsi del legame funzionariale con gli individui e le famiglie che esercitavano per conto
dei vescovi alcune funzioni pubbliche spettanti alla chiesa eporediese: è il
caso dei Solero, dei Taliandi e degli Stria, che ottennero in feudo, rendendola ereditaria, la carica dapprima amovibile di vicecomes ecclesiae
24
Yporiensis . Dall’altro, il comune non era in grado di imporsi né sulle reti
di solidarietà rionali e di Parte, che sullo scorcio del Duecento inquadravano la società cittadina, né su alcune famiglie signorili detentrici di giurisdi23
Cfr. per esempio oltre, nota 30.
CVI/2 (2008), pp. 399-441; BERTOTTI, La pianticella di canapa. Signori antichi e usurpazioni nel
Canavese del medioevo, Ivrea 2001.
24
Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 187 sgg.
12
zioni entro l’area d’espansione del districtus comunale, quali i signori di
25
Settimo . Per quasi tutto il periodo qui in esame, insomma, le scelte politiche delle istituzioni eporediesi furono condizionate dalla subordinazione a
dominazioni esterne o dalla debolezza politica in seno alla civitas; si vedrà
tuttavia come tale situazione non abbia impedito loro, sino almeno alla sottomissione ai Savoia, di contendersi o di gestire congiuntamente diversi
ambiti istituzionali di ascendenza pubblica, tra cui appunto quello del controllo sulle prassi documentarie.
Un esempio: il titolo comitale dei vescovi di Ivrea
Un’altra caratteristica del quadro che stiamo brevemente tratteggiando è
costituita dalla fortuna che qui godettero certe definizioni istituzionali – da
26
quella di conte a quella di «societas del Canavese» – che furono caratterizzate da una lunga persistenza, malgrado non vi fosse alcuna identità fra
i soggetti che di volta in volta se ne investirono. I vescovi di Ivrea, per
esempio, impiegarono il titolo di episcopus et comes ininterrottamente fra
gli anni Trenta del secolo XIII e gli anni Cinquanta del XX. L’attributo di
conte ascritto ai presuli era certo «in gran parte svuotato di contenuti poli27
tici» : esso non coincise mai con l’effettivo esercizio, da parte dei presuli,
di un’attività funzionariale all’interno di una circoscrizione pubblica avente come capoluogo Ivrea. Come per le altre città dell’impero, nemmeno nel
caso eporediese si può quindi immaginare l’esistenza di un «vescovo28
conte» , ancora sostenuta in alcune opere divulgative locali. Quel titolo era,
semmai, una forma suscettibile di essere riempita nel tempo con contenuti
non sempre pienamente coincidenti con quelli ascritti alla nozione di comes
25
Op. cit., p. 215 sgg.; BUFFO, Cronaca di una fondazione cit. Una sintesi degli eventi fra la seconda metà
del secolo XIII e la prima del XIV è in G. S. PENE VIDARI, Vescovi e comune nei secoli XIII e XIV, in
Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 925-971.
26
Cfr. sopra, nota 23 sg.
27
R. BORDONE, I poteri di tipo comitale dei vescovi nei secoli X-XII, in Formazione e strutture dei ceti
dominanti nel medioevo: marchesi conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII) (Atti del terzo convegno
di Pisa: 18-20 marzo 1999), a cura di A. SPICCIANI, Roma 2001, p. 122.
28
Sul mito storiografico dei vescovi-conti, riguardante soprattutto gli episcopati di età ottoniana, cfr., oltre a
BORDONE, I poteri di tipo comitale cit., soprattutto G. SERGI, Poteri temporali del vescovo: il problema
storiografico, in Vescovo e città nell’alto medioevo: quadri generali e realtà toscane (Atti del convegno
internazionale di Studi: Pistoia, 16-17 maggio 1998), Pistoia 2001, pp. 1-16; per una prospettiva d’insieme
sulla sopravvivenza di miti storiografici legati alla storia medievale, ID., La rilettura odierna della società
medievale: i miti sopravvissuti, in Medioevo reale, medioevo immaginario. Confronti e percorsi culturali
tra le regioni d’Europa (Atti del convegno; Torino, 26 e 27 maggio 2000), Torino 2002, pp. 89-98.
13
nelle età precedenti; di essere cioè diversamente connotata a seconda dell’uso
politico che si intendeva farne. Giovanni Tabacco, in un saggio intitolato
L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, fa riferimento
alle contraddizioni insite nell’uso del titolo comitale – proprio di realtà politiche differenti e cronologicamente molto distanti fra loro – segnalando «l’opportunità di non esigere, neppure nelle singole situazioni istituzionali e neppure nelle singole formulazioni di esse, un pensiero necessariamente univoco: …
anche una singola espressione può emergere nel segno dell’ambiguità ed attestare una sovrapposizione di immagini. … La nozione di comes può ancora conservare per secoli l’idea di pars publica e di una schietta delegazione di responsabilità di immediata origine regia, pur là dove abbia assunto il significato di
una potenza … autonoma, … con conseguenze notevoli nelle prospettive di
29
ulteriori sistemazioni istituzionali» .
Tra la comparsa dell’idea del vescovo come comes e il suo impiego nella
documentazione non vi fu, del resto, alcun automatismo: l’assunzione del titolo comitale da parte dei presuli fu motivata da precise scelte ideologiche, connesse con gli equilibri di potere definitisi in seno alla civitas all’inizio del
Duecento. Nei quarant’anni intercorsi fra il 1193 – anno in cui i consoli di
Ivrea confutarono in sede di arbitrato le pretese dei conti di Biandrate sulla
città, argomentando che «l’imperatore aveva in precedenza concesso il comi30
tatus al vescovo» (e quindi, per la prima volta a noi nota in ambito eporediese, accostando esplicitamente le nozioni di episcopatus e comitatus) – e il
1233, anno che segnò l’inizio dell’uso sistematico del titolo comitale nella
documentazione episcopale, il binomio episcopus et comes non fu recepito dai
31
notai operanti alle dipendenze del vescovo . Né il detentore della cattedra
approfittò immediatamente dell’occasione di fregiarsi del titolo di conte offerta da un diploma con cui, nel 1219, Federico II diffidava gli Eporediesi dall’interferire con l’esercizio, da parte del vescovo, dei diritti che gli pertineva32
no "ratione comitatus" . Così come negli altri centri piemontesi – quali
29
G. TABACCO, L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, in Forme di potere e
struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. ROSSETTI, Bologna 1987, p. 80.
30
«Prius imperator concesserat comitatum episcopo» (Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 122, doc.
137).
31
Alcuni studiosi fanno riferimento all’uso isolato di quel binomio in un documento del 1198; si tratta però,
con buona probabilità, di un’interpolazione tardiva (Le carte dell’Archivio capitolare d’Ivrea cit., I, p. 71,
doc. 60; nel documento l’espressione «episcopus et comes» compare soltanto in uno dei casi in cui è menzionato il vescovo, per giunta in soprallinea: si può quindi ragionevolmente supporre che si tratti di un’aggiunta di mano non coeva al resto del testo).
32
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 122 sg., doc. 87.
14
33
Vercelli e Tortona – nei quali è attestato per i secoli XII e XIII l’uso del titolo episcopus et comes, anche a Ivrea quell’espressione fu dapprima impiegata
per costruire un lessico dell’antagonismo, come risposta all’attacco, da parte
delle istituzioni laiche, delle prerogative di ascendenza pubblica tradizionalmente detenute dai vescovi. L’ingresso della qualifica di comes nel linguaggio
della documentazione vescovile eporediese avvenne soltanto al principio degli
anni Trenta, in una situazione di aperto scontro fra il vescovo e il comune per il
34
controllo di certi diritti di natura eminentemente pubblica .
Un secondo aspetto è utile a chiarire il carattere problematico dell’uso del
binomio episcopus et comes in quanto frutto di precise scelte politiche. Una
volta entrata a far parte del lessico dell’episcopio, l’espressione subì, nel
corso degli anni, una serie di piccoli ma significativi assestamenti intesi ad
33
A Vercelli, l’uso del titolo comes per il vescovo ebbe durata effimera, limitata in sostanza all’episcopato
di Uguccione (1151-1170), con l’eccezione di un singolo caso relativo al predecessore Gisulfo. La sua
comparsa fu contestuale a un consolidamento del potere vescovile ai danni del comune, da cui deriva addirittura una temporanea scomparsa delle istituzioni comunali dalla documentazione vercellese (F. PANERO, Istituzioni e società a Vercelli dalle origini del comune alla costituzione dello Studio (1228), in
L’università di Vercelli nel medioevo (Atti del secondo Congresso storico vercellese, 23-25 ottobre 1992),
Vercelli 1994, p. 81 sg.); un elenco delle occorrenze del titolo episcopus et comes nei documenti relativi
a Uguccione si ha in op. cit., p. 134, n.26. Nella Vercelli di inizio Duecento, fiorì la riflessione teoretica
sul publicum in quanto sfera di esercizio di diritti pertinenti al vescovo. Si pensi, in particolare, alle argomentazioni presentate da Giuliano da Sesso nel proprio Libellus quaestionum: «episcopus Vercellensis episcopus est et comes, episcopatum habet ab ecclesia, comitatum ab imperio»; «episcopus Mutinensis
castrum Baziani alii concessit in feudum; nunc queritur utrum iurisdictionem concessisse videatur» (L.
SORRENTI, Tra scuole e prassi giudiziarie. Giuliano da Sesso e il suo «Libellus Quaestionum«», Roma
1999, pp. 119, 169). Già nel 1206, del resto, Innocenzo III definiva, con la decretale Licet, i limiti dell’esercizio da parte dei vescovi di Vercelli dell’autorità giudiziaria nel territorio del districtus, circoscrivendola di fatto ai giudizi d’appello (Patrologia latina 215, c. 892, doc. 72); decretale che farebbe peraltro
riferimento ai primi tentativi, attuati dal comune di quella città, di definire in sede statutaria il confine tra
le due giurisdizioni (P. G. CARON, La legislazione ecclesiastica negli statuti medioevali del comune di
Vercelli, in Vercelli nel secolo XIII (Atti del primo Congresso storico vercellese: Vercelli, 2-3 ottobre
1982), Vercelli 1984, p. 362). L’episcopio era dunque altamente consapevole sia del significato teorico sia
del contenuto pratico dei diritti legati alla detenzione del comitatus, anche se, nella prassi documentaria,
esso prediligeva l’uso del lessico della fidelitas vassallatica (BAIETTO, Vescovi e comuni cit., p. 518 sgg.),
opponendosi all’erosione dei suoi diritti da parte del comune in virtù della fedeltà prestatagli da quest’ultimo a partire almeno dal 1208 (V. MANDELLI, Il comune di Vercelli nel Medioevo, I, Vercelli 1858, p.
46 sg). La fedeltà fu rinnovata nel 1214 (I Biscioni, I/1, a cura di G. C. FACCIO, M. RANNO, Torino 1934
(Biblioteca della Società storica subalpina, CXLV), p. 127, doc. 39). A Tortona, il titolo fu impiegato, a
partire dal 1151, in maniera non sistematica e anzi con significative variazioni di densità (cfr. R. MERLONE, Cronotassi dei vescovi di Tortona, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIX/2 (1987),
p. 533 sgg. E a M. MONTANARI, Cronotassi dei vescovi di Tortona nei secoli XIV e XV, in I vescovi
dell’Italia settentrionale nel basso medioevo. Cronotassi per le diocesi di Cremona, Pavia e Tortona nei
secoli XIV e XV, a cura di P. MAJOCCHI, M. MONTANARI, con un saggio di P. MAJOCCHI, Pavia
2002, p. 103 sgg.). In questo caso, i vescovi cercavano – pur in una situazione di buoni rapporti con il
comune – di mettere la propria autorità al riparo dalle antinomie originatesi, anzitutto sul piano giuridico
e formale, dal progressivo affiancamento delle istituzioni comunali a preesistenti reti funzionariali facenti capo all’episcopio (G. CHIURA, Origini e composizione sociale del comune di Tortona, Torino 1990,
tesi di laurea presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, Sezione di Paleografia e
Medievistica, p. 140).
34
Cfr. oltre, nota 42.
15
adeguarla al mutare della situazione politica vigente a Ivrea. Quando, nel
1233, il vescovo Oberto incominciò ad adottare sistematicamente il titolo
comitale, uno fra i più importanti notai allora alle dipendenze del presule,
Pagano – forse un chierico appartenente al capitolo cattedrale eporediese –
35
coniò per lui l’espressione «episcopus et comes Yporiensis» , in cui le due
cariche erano poste sul medesimo piano ed era forte il nesso tra potere
comitale e città; nesso che in seguito fu forse percepito come troppo problematico, dato che quella versione non fu accolta nel formulario degli altri
notai e fu rapidamente soppiantata dalla più neutra «Yporiensis episcopus
36
et comes» . Il titolo comitale restò, almeno per tutto il Duecento, legato a
quello episcopale: chi deteneva la cattedra eporediese in qualità di semplice «electus» o «procurator» non ne faceva uso; ciò determinò notevoli
discontinuità nell’uso dell’espressione. Quando, nel 1289, Alberto Gonzaga
si insediò sulla cattedra eporediese, il titolo non era usato da oltre vent’anni, perché il suo predecessore Federico di Front (1263-1289) non si era mai
fatto consacrare. Poiché in quel periodo Ivrea era soggetta alla signoria dei
Monferrato, Alberto ritenne più prudente far cadere del tutto il nesso tra
potere comitale e controllo politico della città, adottando una nuova versione del titolo: «episcopus Yporiensis et comes»; ma nei primi anni del secolo XIV, in un contesto di crisi istituzionale interna e di affievolimento del
controllo marchionale sulla civitas, ricomparve in alcuni atti vescovili il
37
vecchio titolo di «episcopus et comes Yporiensis» .
Episcopio e comune: concorrenza istituzionale e cogestione del publicum
L’aspetto fondamentale di cui tenere conto nel corso della nostra ricerca,
perché incise in maniera determinante sulla costruzione delle prassi documentarie, è il carattere strutturale e non residuale delle funzioni di ascendenza pubblica detenute, sino ai primi anni del secolo XIV, dall’episcopio
eporediese, malgrado il progressivo aumento del peso politico delle istituzioni laiche e malgrado la ripetuta sottomissione del territorio di Ivrea a
poteri esterni. Tale persistenza conferì alla vicenda eporediese caratteri di
forte specificità rispetto alla maggior parte delle civitates dell’Italia centrosettentrionale, nelle quali, entro i decenni centrali del Duecento, gli episco35
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 189, doc. 136; p. 196, doc. 140.
Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 29 sgg.
37
Cfr. oltre, nota 199 sgg.
36
16
pi avevano perso le proprie funzioni pubbliche a vantaggio dei comuni. È
un processo che Giovanni Tabacco ha descritto come «superamento nella
38
res publica comunale … della sintesi istituzionale di vescovo e città» .
A Ivrea, la partecipazione di entrambi i vertici istituzionali urbani all’esercizio delle funzioni di ascendenza pubblica continuò per tutto il
Duecento e oltre a essere considerata un elemento portante del regimen
della città. L’amministrazione dei terreni comuni, l’esazione di pedaggi e
gabelle, il presidio dei centri militari del districtus e, appunto, il controllo
sulla validità degli atti giuridici comportarono, lungo tutto quel periodo, la
compartecipazione o la concorrenza delle due istituzioni. L’assenza del
«superamento» indicato da Tabacco può certo essere imputata a una
39
«intrinseca debolezza del governo cittadino» con riferimento ai decenni a
cavallo fra i secoli XII e XIII – si pensi, per esempio, all’investitura feudale al comune, da parte del vescovo, delle sue «bone usantie», avvenuta nel
40
1210 – ma non in relazione alla seconda metà del Duecento e agli anni iniziali del Trecento, quando il comune eporediese si era ormai lasciato alle
spalle la minorità politica rispetto al proprio vescovo. Il peculiare assetto
istituzionale della civitas di Ivrea non fu, nel lungo periodo, imposto dal
predominio di uno di quei due poteri sull’altro, ma si basò sul convergere,
talvolta forzato, delle scelte politiche di entrambi.
La spiegazione della persistenza della diarchia di vescovo e comune in
Ivrea deve essere cercata anche nella continua vulnerabilità del complesso
delle istituzioni cittadine nei confronti dei soggetti politici esterni. Nella
prima metà del Duecento, per esempio, comune ed episcopio subirono la
concorrenza istituzionale dei conti di Biandrate, che si intromisero nella
41
gestione di diversi ambiti di ascendenza pubblica, quali i terreni comuni ;
nella seconda, come già ricordato, l’autonomia delle istituzioni cittadine fu
limitata dall’inquadramento di Ivrea e del suo territorio entro dominazioni
signorili. Di fronte all’impossibilità di acquisire singolarmente un efficace
38
G. TABACCO, Vescovi e comuni in Italia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e Germania nel
medioevo (Atti della Settimana di studio: Trento, 13-18 settembre 1976), a cura di C. G. MOR, H. SCHMIDINGER, Bologna 1979, p. 281 sg. (anche in ID., Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 2000).
39
A. FALOPPA, Dal vescovo al comune, in Ivrea. Ventun secoli di storia, Pavone Canavese 2001.
40
L’atto è studiato in R. BORDONE, Potenza vescovile e organismo comunale, in Storia della chiesa di
Ivrea cit., p. 817 sgg.
41
BUFFO, La cogestione cit., p. 103 sgg. Sul tema dei terreni comuni nel Piemonte medievale cfr. R. RAO,
«Comunia». Le risorse collettive nel Piemonte comunale, Milano 2008.
17
e stabile controllo delle funzioni pubbliche sulla città e sul suo contado –
qui lo chiamiamo, usando un termine allora diffuso, districtus – comune ed
episcopio eporediesi approntarono strumenti pratici utili alla cogestione di
tali funzioni. In questa sede, ne analizzeremo un gruppo soltanto: quello
delle prassi relative al controllo dei registri di imbreviature dei notai defunti.
Esprimersi in termini di «cogestione» non significa negare le periodiche
rivendicazioni dell’esclusività di certi diritti pubblici da parte di una delle
due istituzioni, né proporre una visione irenica dei rapporti fra esse intercorsi. La storia di comune ed episcopio fu del resto segnata, nel corso del
Duecento e nei primi anni del Trecento, da una fitta sequenza di eventi di
conflittualità. Per esempio, tra la fine degli anni Venti e il decennio successivo, il vescovo Oberto – sostenuto dalla sede apostolica e dai suoi legati –
mise in atto una campagna di contenimento dell’intraprendenza del comune, intesa soprattutto a inibire l’autonomia che le istituzioni laiche si stavano conquistando negli ambiti delle prassi legislative e dell’accensione di
legami politici con le signorie locali della campagna. La contesa si concluse, nel 1236, con la riaffermazione della supremazia sulla civitas del presu42
le, sia in quanto comes sia in quanto senior feudale del comune ; essa, tuttavia, non ebbe effetti significativi sugli equilibri che regolavano la cogestione della res publica da parte delle due istituzioni, che rimasero sotto
43
molti aspetti invariati . Un altro momento – ben più traumatico perché
complicato dall’elemento bellico – di forte contrapposizione fra comune ed
episcopio si registrò fra il 1266 e il 1267, allorché le istituzioni comunali,
in seno alle quali era predominante l’orientamento filomonferrino, consegnarono Ivrea a Guglielmo VII di Monferrato; la città fu occupata militarmente, i beni dell’episcopio – che invece aderiva allo schieramento sfavorevole ai Monferrato – furono confiscati e il vescovo eletto fu ridotto in pri44
gionia . Nemmeno questi eventi, conclusisi con il ritiro del marchese, sembrano avere incrinato le strutture profonde che sostanziavano le pratiche
relative alla gestione congiunta del publicum. Tali pratiche, poi, si mantennero in vita anche nei decenni finali del secolo XIII, quando svariate prero42
Su quegli eventi cfr. L. BAIETTO, Vescovi e comuni: l’influenza della politica pontificia nella prima
metà del secoo XIII a Ivrea e Vercelli, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», C/2 (2002), p. 459
sgg.; EAD. Il papa e le città: papato e comuni in Italia centro-settentrionale durante la prima metà del
secolo XIII, Spoleto 2007, p. 120 sgg.
43
BUFFO, La cogestione cit., p. 118 sgg.
44
GABOTTO, Un millennio cit., pp. 141-146.
18
gative spettanti all’episcopio erano nei fatti esercitate da lignaggi urbani
eminenti e il controllo istituzionale sulla città da parte del comune era inde45
bolito dalla concorrenza di solidarietà rionali e clientele aristocratiche .
Minacciata dagli episodi di più acceso contrasto e soggetta a continui mutamenti quanto a contenuti ed espressioni pratiche, la diarchia fra comune ed
episcopio al vertice del potere pubblico sull’area eporediese, già parzialmente messa in crisi dai profondi conflitti che interessarono la civitas nell’effimera fase di autonomia tra il 1305 e il 1313, restò efficace fino al
periodo immediatamente successivo all’avvento dei Savoia.
Concepire una diarchia urbana in positivo – non cioè come espressione di
un incompleto sviluppo del comune ma come esito, sempre riconfermato,
di una coesistenza politica percepita come comune sottomissione di
entrambe le istituzioni all’honor civico – è per noi un’impresa difficile.
Non lo era altrettanto per gli Eporediesi del medioevo, visto che ancora
all’inizio del Trecento uno di essi, il notaio comunale Francotto dell’Olmo,
descriveva serenamente Ivrea come una «città … libera, sottoposta soltan46
to all’impero», in cui tuttavia «regnat … episcopus» .
Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 214 sgg.
Cfr. oltre, nota 261.
45
46
19
2. L’emergere del problema
documentario nella dialettica fra le
istituzioni urbane
Da quanto sinora rilevato emerge come lo sviluppo del notariato eporediese –
che qui seguiremo a partire dal secondo quarto del secolo XIII, appoggiandoci per il periodo precedente alle ricerche condotte da Fissore – non possa essere studiato senza tenere conto delle tensioni fra comune ed episcopio per il
controllo della gamma dei diritti connessi con le nozioni pubbliche del potere
politico: gamma alla quale appartengono quelli relativi alle pratiche di gestione della memoria scritta. Occorrerà, da un lato, individuare i lessici e le prassi dei quali il comune e l’episcopio fecero uso per affermare ciascuno il proprio monopolio su questo settore della res publica; dall’altro, ricostruire tutti
quei meccanismi di cogestione che consentirono di superare le impasses generate occasionalmente da tale situazione di rivendicazioni contrapposte. Una
volta ricostruito questo quadro, cercheremo di tratteggiare le fisionomie professionali e i profili sociali dei tecnici del diritto che prestarono la propria
opera a vantaggio dell’una e dell’altra istituzione.
L’intreccio di queste due prospettive consente di porre in rilievo una fra le
maggiori specificità della situazione eporediese tra il secolo XIII e gli inizi del
XIV. «Nel redigere documenti comunali, il notaio si attiene alle regole del suo
mestiere; però modifica … le proprie tecniche redazionali lasciando trasparire la natura pubblica del potere esercitato dai magistrati comunali e degli atti
da essi compiuti. Con questo lavorio dal di dentro … il notariato contribuisce
alla sua maniera all’elaborazione, costruzione e legittimazione ideologica del
47
nuovo potere» . È un processo ben noto, comune a tutta l’Italia comunale, che
generazioni di diplomatisti hanno delineato con chiarezza. A Ivrea la situazione era tuttavia più complessa: qui, a un comune relativamente debole e perennemente alla ricerca di legittimazione politica faceva riscontro un episcopio in
grado di conservare, lungo tutto il Duecento, prerogative di origine pubblica
tutt’altro che residuali. Non meno dei loro colleghi contemporaneamente
impegnati alle dipendenze del comune, i notai attivi per l’episcopio furono
47
J. C. MAIRE VIGUEUR, Forme di governo e forme documentarie nella città comunale, in Francesco
d’Assisi. Documenti e archivi, codici e biblioteche, miniature, Milano 1982, p. 59.
21
impegnati, nel corso di tutto il secolo XIII e oltre, nella messa a punto di linguaggi e tecniche intesi a porre in evidenza i connotati pubblici dell’autorità
esercitata dall’istituzione per la quale operavano: un processo, continuo e vitale, di costruzione di legittimità, svoltosi sotto la pressione dei convulsi avvicendamenti politici che si verificavano su scala regionale. «Nei comportamenti e nei rapporti fra notai e vescovi eporediesi» scrive Fissore «è risultata
evidente una perfetta analogia con quanto avviene nelle grandi città comunali. Le tensioni, le sperimentazioni, i problemi di autorappresentazione tanto del
prestigio notarile quanto del potere dei vescovi assumono le forme e le carat48
teristiche analizzate altrove per quanto riguarda il rapporto notai-comune» .
Nello studiare la storia della documentazione eporediese, sviluppi abitualmente considerati appannaggio delle istituzioni comunali vanno seguiti con un
occhio rivolto all’episcopio, il quale anzi assunse spesso un ruolo trainante
rispetto all’elaborazione delle prassi documentarie della civitas. L’identica
ricerca di legittimazione in senso pubblico da parte di comune ed episcopio
determinò, tra l’altro, una lunga osmosi fra i gruppi di notai operanti per le due
istituzioni.
Come meglio vedremo nel corso di questa ricerca, i rapporti fra istituzioni
cittadine e professionisti della documentazione devono essere studiati come
un incontro fra autonomie: l’autonomia dei notai quali dispensatori di publica
fides ai documenti da essi prodotti – il notaio medievale definisce se stesso
notarius sacri palacii o notarius imperialis aule, insistendo sulla propria qualifica di ufficiale pubblico, derivante direttamente dall’impero – e dell’autonomia che comune ed episcopio aspiravano a esprimere sul piano istituzionale, anche affermando il proprio controllo sulla gestione della memoria scritta.
Un tentativo vescovile di controllo sulle scritture del comune: l’ostensio del
libro degli statuti
Come già in parte rilevato, una fase di scontro istituzionale fra il vescovo
Oberto e il comune eporediese si concluse, nel 1236, con una concordia promossa fra le due parti da una delegazione apostolica. L’atto dell’accordo ha un
carattere prevalentemente dispositivo: esso consiste, in gran parte, in un elen-
48
G. G. FISSORE, Il notaio ufficiale pubblico dei comuni italiani, in Il notariato italiano nel periodo
comunale, a cura di P. RACINE, Piacenza 1999, p. 52.
22
co di modifiche, cancellazioni e aggiunte da apportare al registro degli statuti
comunali, contenenti, secondo quanto denunciato dall’episcopio, articoli lesivi della libertas ecclesiae. Ma se si esamina nel suo complesso il dossier documentario relativo all’ultimo periodo della contesa – il solo per il quale si
disponga di fonti perspicue – si osserva come gli sforzi posti in atto dal vescovo Oberto per modificare a proprio vantaggio gli equilibri di potere interni alla
civitas andassero ben oltre le clausole della concordia: egli intendeva approfittare dei contrasti con il comune per sperimentare comportamenti non del
tutto giustificati dalle consuetudini locali, con l’intenzione di stabilire – forte
anche della sanzione pontificia assicurata dai legati apostolici – una serie di
‘precedenti’ su cui fondare rivendicazioni future.
Un atteggiamento appena avvertibile, ma segnalato da tracce certe. Una di
esse – che riguardò proprio l’ambito, qui in esame, delle scritture giuridiche –
fu il tentativo, da parte di Oberto, di coinvolgere i rappresentanti del comune
in una procedura anomala. Nel corso di una prima udienza, svoltasi a Torino
il 16 febbraio 1235, i rappresentati del comune avevano ricusato i delegati
pontifici, rifiutando di sottoporsi al loro giudizio. In quell’occasione il magister Pagano, procuratore della chiesa di Ivrea, aveva ingiunto loro di cancellare gli statuti incriminati ed eventuali «altri statuti, formulati contro la libertà
ecclesiastica, dei quali il detto Pagano … ignori l’esistenza, e che il medesimo
49
richiede siano presentati e mostrati» («que exhiberi petit et ostendi») .
Dall’atto della sentenza relativa all’udienza successiva, svoltasi il 7 marzo, si
evince che i delegati avevano nel frattempo avuto l’occasione di prendere personalmente visione del testo degli statuti in questione. Riferendosi agli articoli da cancellare, essi parlano infatti di «statuta que eis ostensa sunt». I delegati ordinarono che, una volta cancellati gli articoli contestati, il «liber statutorum comunis Yporegie» fosse fatto oggetto di un’altra ostensio, intesa a verificare l’effettivo svolgimento dell’operazione; tuttavia questa seconda ostensio non avrebbe avuto come destinatari, nuovamente, i giudici pontifici, come
sarebbe stato normale, bensi – e in ciò consiste l’anomalia – il vescovo stesso:
50
«ostendere debeant librum statutorum ipsi domino episcopo» .
In teoria, il vincolo vassallatico gravante sull’esercizio delle consuetudines
51
comunali da parte degli Eporediesi comportava per il presule la possibilità
di esercitare un qualche controllo sul registro degli statuti, che di quelle
49
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 197, doc. 141.
Op. cit., I, p. 199, doc. 142.
51
Cfr. sopra, nota 40.
50
23
consuetudines era l’espressione scritta. Ma il gesto dell’ostensio, richiesto da
Oberto – per bocca dei legati pontifici che recepivano le sue istanze – ai rappresentanti del comune di Ivrea era, di per sé, abbastanza pregnante da caratterizzarne immediatamente il destinatario come detentore di un’autorità di
natura pubblica. Quel gesto ricorda da vicino una delle tradizionali procedure
giudiziarie dei secoli centrali del medioevo: quella, appunto, dell’ostensio
chartae, attraverso la quale l’autorità pubblica che presiedeva un placito
convalidava come autentico un atto, notarile o cancelleresco, esibito da una
52
delle parti . Per i rappresentanti del comune e dell’episcopio, l’ostensio al
vescovo del codice degli statuti non sarebbe stata un neutro meccanismo di
verifica, bensì un atto carico di significati impliciti: un gesto di subordinazione in grado di individuare, fra le due parti in causa, un soggetto postulante e
uno detentore dell’autorità pubblica nella sua pienezza. Imponendo ai vertici
del comune l’ostensio dei loro statuti di fronte al vescovo, i legati pontifici
dimostravano di guardare oltre l’occasione straordinaria della propria missione, rimettendo il diritto di controllare e legittimare le scritture normative del
comune all’autorità a cui esso avrebbe dovuto competere, in futuro, in circostanze ordinarie. Il vescovo Oberto e il suo procuratore Pagano, figura di spicco in seno all’entourage episcopale, sfruttavano l’autorevole presenza dei
legati per creare, come si è osservato, un precedente da far valere in occasio53
ne delle controversie future .
Primi segnali di un contrasto per la gestione dei protocolli di notai defunti
Osservare questo segnale di interesse, da parte dell’episcopio, per il controllo delle scritture normative comunali aiuta a interpretare meglio un famoso capitolo della concordia finale tra vescovo e comune del dicembre dell’anno successivo, in cui si tocca nuovamente il problema documentario per dare
disposizioni circa la conservazione e l’uso dei protocolli notarili dopo la morte
degli estensori. I protocolli erano i registri – sovente cartacei, ma per gli anni
52
F. BOUGARD, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle, Rome
1995, pp. 319-329; C. MANARESI, Le tre donazioni della corte di Caresana alla canonica di Vercelli e
la teoria dell’«ostensio chartae», in «Regio Istituto lombardo di scienze e lettere. Rendiconti», 74 (19401941), pp. 39-55.
53
Sul tema della creazione di nuove norme attraverso la politica dei precedenti giudiziari, cfr. GIANA,
Pratica delle istituzioni Pratica delle istituzioni: procedure e ambiti giurisdizionali a Spigno nella prima
metà del XVII secolo, in «Quaderni storici», 103 (2000), p. 14 sg.
24
Trenta del Duecento si è conservato anche un protocollo eporediese pergame54
naceo – entro cui i notai redigevano i propri atti, a partire dalle informazioni
contenute nelle minute redatte al momento della stipula dei relativi contratti. I
testi riportati nei protocolli prendono il nome di imbreviature, perché spesso
erano riportati in forma abbreviata: nei singoli documenti erano omessi alcune clausole, il signum tabellionis distintivo del notaio ed elementi di chiusura
quali la completio (la sottoscrizione finale in cui l’estensore dichiarava il proprio nome e la propria professione di notaio); tutte parti che, solitamente,
erano condensate nella pagina iniziale del registro o all’inizio dei gruppi di
imbreviature di un singolo anno, entro un incipit che conferiva validità all’intero gruppo dei documenti. Tale espediente faceva sì che gli atti contenuti nei
protocolli, malgrado la forma abbreviata, avessero pieno valore giuridico. Il
notaio poteva quindi, su richiesta dei contraenti, trascrivere (extrahere, levare)
l’atto o gli atti di loro interesse, aggiungendo il proprio signum e le opportune
formule, dal protocollo a uno o più esemplari in pergamena sciolta (i diplomatisti li chiamano munda), destinati a essere conservati dalle parti stipulanti.
In molti casi, tuttavia, i contraenti preferivano non sostenere la spesa dell’estrazione del mundum, proprio perché l’atto, pienamente valido sul piano giuridico, era conservato e facilmente reperibile presso il notaio.
Anche dopo la morte del notaio estensore, i protocolli continuavano a essere una ricchezza, sia sul piano economico sia, in certi casi, su quello politico.
Sul piano economico, perché i contraenti dei diversi atti potevano rivolgersi
agli assegnatari dei protocolli – si trattasse di eredi del defunto che esercitassero anch’essi il notariato o di commissari deputati dall’autorità pubblica –
richedendo la redazione in mundum dei relativi documenti. Sul piano politico,
perché spesso i protocolli medievali contenevano in originale, accanto alle
imbreviature di atti di interesse privato, documenti riguardanti negozi in cui
erano coinvolte istituzioni pubbliche. Si pensi che ancora a metà del secolo
XV si ha notizia dell’invio, da parte del duca di Savoia, di un messo presso
Rumilly, alla ricerca di protocolli contenenti atti relativi alla camera dei conti
55
sabauda, trasmessi privatamente dal loro primo estensore ai propri eredi . La
54
Cfr. oltre, nota 97.
P. CANCIAN, Interventi sabaudi su conservazione e trasmissione di protocolli notarili a Susa e Rumilly
(secoli XIV e XV), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXXVII/1 (1989), p. 214 sg.
55
25
gestione dei registri di imbreviature dei notai defunti era, infine, una prassi di
elevato interesse sul piano istituzionale. La trasmissione dei protocolli dal loro
primo estensore ad altro notaio era una transizione delicata, nel corso della
quale occorreva che le istituzioni pubbliche – eventualmente servendosi della
perizia di un collegio di professionisti del settore – vigilassero sulla conservazione della publica fides dei documenti ivi redatti. Affermare il proprio controllo su tale passaggio equivaleva a presentarsi come autorità garante della
validità dei negozi giuridici stipulati entro il territorio della civitas. Non stupisce pertanto che l’episcopio e il comune eporediesi, interessati – lo abbiamo
visto – da un complesso e instabile rapporto di cogestione delle funzioni di
ascendenza pubblica, si siano precocemente confrontati sulle questioni relative alla gestione dei registri di imbreviature.
Leggiamo, dunque, l’articolo della concordia del 1236 inerente il controllo
pubblico sulla trasmissione (commissio) a concessionari dei protocolli di notai
defunti. «Circa le imbreviature dei notai defunti» recita il testo «il vescovo e
il comune sono pervenuti a tale accordo: che, qualora il notaio morto non
abbia egli stesso assegnato o fatto assegnare i propri registri di imbreviature o
protocolli [ad altro notaio], questi siano deposti presso due persone, una eletta dal vescovo e l’altra dalla credenza comunale; e quando accadrà che atti
presenti nei registri debbano essere estratti [in mundum], questi due custodi si
presentino di fronte al vescovo e l’atto sia estratto per decreto del vescovo e
coscienti entrambi i custodi; e i due custodi giurino di custodire e porre al sicuro fedelmente i registri di imbreviature, secondo le proprie possibilità, in
maniera che da essi non possa sorgere alcun danno; e ugualmente facciano e
giurino quanti riceveranno [in eredità] registri di imbreviature per volontà del
56
notaio defunto» .
Gli studiosi che si sono occupati della concordia del 1236 – in particolare
Laura Baietto e Gian Giacomo Fissore – hanno avvertito una sostanziale estraneità dell’argomento di questo capitolo rispetto al resto dell’atto, incentrato
sulla modifica degli statuti iniqui e sulla spartizione delle competenze sul
56
«De abreviaturis tabellionum decedentium sive morentium in tali concordia fuerunt dictus dominus episcopus cum comuni: quod, nisi tabellio decedens alii notario comitat vel duxerit comitendum, dicta breviaria seu protocolla deponantur apud duos, quorum unus eligatur per episcopum et alius per credentiam;
et cum contingerit instrumenta que facta fuerint extrahi de dictis breviariis, representent se duo predicti
custodes coram episcopo et fiat dictum instrumentum de parabola episcopi et conscientia amborum custodum; et iurent dicti custodes dicta breviaria bona fide custodire et salvare, ita quod de dictis breviariis aliquod dampnum non contigat, pro posse suo; hoc idem iuret et servet per omnia ille qui habuerit breviaria
de voluntate notarii decedentis» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 216, doc. 157).
26
castello di Settimo, feudo vescovile indebitamente alienato dal comune alcu57
ni anni prima. Fissore, che ha esaminato questo brano in due saggi , afferma
58
che esso compare «un po’ a sorpresa» fra i capitoli dell’accordo. Un esame
dei testi relativi agli anni immediatamente precedenti mostra tuttavia come,
nella controversia fra vescovo e comune, il problema della pertinenza dei
diversi diritti attinenti alla gestione pubblica della memoria scritta dei negozi
giuridici, in tutte le sue forme, sia stato centrale, benché nell’atto conclusivo
non emerga che in un passo isolato.
Si osservi, anzitutto, la fisionomia professionale dei partecipanti alle due
prime udienze tenute dai legati pontifici, quelle in cui fu sollevato il problema
del’ostensio del libro degli statuti. Procuratore del vescovo Oberto era, lo si è
detto, il magister Pagano, canonico della cattedrale eporediese. Costui deve
probabilmente essere identificato con uno fra i notai che nei medesimi anni
redigevano atti di alto livello per l’episcopio; a meno che non si ascrivano tutti
59
i documenti sottoscritti «Paganus» o «magister Paganus notarius domini epi60
scopi» , prodotti tra gli anni Venti e Trenta del Duecento, a un omonimo, tale
61
«Paganus notarius de Albiano» . Non sarebbe l’unico caso, per quel periodo,
di un canonico attivo nella professione notarile: si vedrà più avanti il caso,
contemporaneo, del magister Viviano. Quanto al procuratore del comune,
Stefano, egli fu, nel secondo quarto del Duecento, uno di quei pochi notai che
si possano classificare con certezza come funzionari comunali: egli stesso,
62
infatti, si sarebbe definito «scriba comunis Yporegie» nel 1250 . Personaggio
di spicco in seno alla cerchia dei notai operanti per il comune, produsse tra
63
l’altro una discreta quantità di copie autenticate su mandato di quell’istituzione .
Le prime battute dello scontro che, attraverso la mediazione dei legati pontifici, avrebbe portato a una globale ridefinizione delle responsabilità pubbliche di comune ed episcopio erano insomma affidate a tecnici della documentazione. Fu proprio a partire da quegli anni che il livello più alto del notariato
eporediese si affermò come gruppo in grado, in virtù della propria consisten57
FISSORE, Vescovi e notai cit.; ID., Un caso di controversa gestione cit., pp. 67-88.
Op. cit., p. 67.
59
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, pp. 131-134, doc. 93 sg.; p. 136, doc. 95; p. 140 sg., doc.
100 sg.; p. 146, doc. 104; pp. 151-153, doc. 109 sg.; p. 170 sg., docc. 118-120; p. 174, doc. 123; p. 176
sg., doc. 126; p. 183 sg., doc. 128; pp. 189-196, docc. 136-140.
60
Op. cit., I, p. 171, doc. 123.
61
Op. cit., I, p. 183, doc. 130 (1233), in cui quest’ultimo e «magister Paganus canonicus» compaiono
entrambi come testi dell’atto.
62
I documenti dell’archivio storico cit., p. 236, doc. 16.
63
Op. cit., p. 223, doc. 7.
58
27
za e alla propria persistenza – ma anche grazie al possesso e della condivisione di un’episteme giuridica e politica – di cooperare stabilmente con i vertici
del potere, sviluppando discorsi politici di lunga durata. Prassi e lessici capaci di far valere, in seno a quella società, una propria legittimità intrinseca, svincolata rispetto alle contingenze che regolavano l’avvicendamento ai livelli più
alti delle gerarchie politiche; ritorneremo su questo tema al termine della
ricerca. L’affermazione dei notai eporediesi si svolse in condizioni del tutto
particolari, non potendo essi approfittare dell’affermazione delle istanze politiche di Popolo, che in molti dei comuni italiani furono il principale motore
della rivoluzione documentaria dei decenni centrali del Duecento e che favo64
rirono la crescita della componente notarile in seno alle istituzioni comunali .
Teoria e prassi: la concorrenza delle istituzioni comunali e il primo affacciarsi
di due distinti ambiti di responsabilità.
Se negli anni Venti e Trenta del Duecento il problema del controllo sulla produzione e sulla copia di atti giuridici si fece sentire come questione centrale in
seno alla disputa sulla pertinenza delle prerogative di natura pubblica sulla
civitas di Ivrea, ciò accadde perché proprio a partire da quel periodo le istituzioni comunali consolidarono la propria indipendenza documentaria, ponendosi in concorrenza con l’episcopio come autorità garante delle scritture giuridiche riprodotte in copia dai notai eporediesi. Il comune, anzitutto, incominciò ad adottare nuove prassi di conservazione della propria memoria scritta.
Nel 1225, vide la luce un primo liber iurium comunale – così i diplomatisti
chiamano quei codici entro i quali le istituzioni laiche disponevano la copia
65
dei documenti attestanti, appunto, i propri diritti (iura) – interrompendo
un’attività di raccolta di alcuni atti del comune in forma di regesto che aveva
64
Sul tema cfr. E. ARTIFONI, I governi di «popolo» e le istituzioni comunali nella seconda metà del secolo XIII (relazione presentata al convegno franco-italiano Le gouvernement de la cité. Modèles et pratiques
(XIIIe-XVIIIe siècles), tenutosi a Perugia nel settembre 1997), distribuito in formato digitale da «Reti
medievali», p. 15 sgg.; J.C. MAIRE VIGUEUR, Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas
de l’Italie médiévale, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», 153/1 (1995), pp. 177-185. Per alcuni casi
specifici di area subalpina, cfr. invece L. BAIETTO, Scrittura e politica. Il sistema documentario dei
comuni piemontesi nella prima metà del secolo XIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino»,
XCVIII/2 (2000), p. 487 sgg.
65
Una sintesi sui libri iurium, che dà conto dei principali studi sul tema, è in P. CAMMAROSANO, Italia
medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 144-150.
28
66
preso avvio probabilmente nel 1216 . La prassi, in sé, non era innovativa: da
secoli gli enti religiosi raccoglievano copia dei principali atti giuridici di loro
interese entro registri detti cartulari: a Ivrea è attestata la composizione, nel
67
1174, di un cartulario del monastero benedettino di S. Stefano . La produzione del liber iurium interessa qui soprattutto perché coincise con l’ottenimento
di un assetto e di una collocazione stabile da parte dell’archivio comunale: si
pensi che la prima menzione di un «palatium comunis» distinto dalle strutture del palazzo episcopale, che sino ad allora avevano ospitato le riunioni dei
68
rappresentanti del comune e l’archivio stesso, risale al 1221 . I testi delle sottoscrizioni dei tre notai comunali che eseguirono la copia degli atti riportati nel
liber iurium – è andato perduto l’incipit, che doveva contenere per esteso il
praeceptum con il quale il podestà richiedeva ai notai scriventi di autenticare
le copie così prodotte, conferendo loro la publica fides – e, indirettamente, il
fatto stesso che nel 1236 il vescovo Oberto avvertisse la necessità di includere nella concordia con il comune una clausola che ribadisse la superiorità dell’episcopio nella gestione dei protocolli dei notai defunti denunciano come,
verso il secondo quarto del secolo XIII, il comune apparisse ormai in grado di
porsi come garante autosufficiente della validità pubblica degli atti giuridici
copiati sotto il suo precetto.
L’episcopio eporediese, da tempo interessato a presentarsi come autorità
69
«superiore e garante» nei negozi giuridici fra i cittadini e nella relativa docu70
mentazione , incominciò a enfatizzare questa posizione di controllo eminente non appena le istituzioni comunali furono in grado di esprimere una seria
concorrenza nell’esercizio di tale funzione pubblica. È un comportamento che
abbiamo già incontrato, come si ricorderà, discutendo dell’adozione del titolo
episcopus et comes, provocata dalla concorrenza con il comune per il control-
66
Del codice contenente questi regesti è sopravvissuto un frammento, pubblicato insieme con il Libro rosso
del comune d’Ivrea cit., pp. 286-295, doc. 250; sulla datazione del regesto si veda F. PANERO, Il «Libro
rosso» del comune d’Ivrea: raccolta degli atti di cittadinatico e strumento giuridico per un coordinamento politico del territorio diocesano, in «Libri iurium» e organizzazione del territorio in Piemonte (secoli
XIII-XVI), a cura di P. GRILLO, F. PANERO, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici per la provincia di Cuneo»,128 (2003), p. 53.
67
Cfr. oltre, nota 173
68
Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 97, doc. 116. Sull’edilizia pubblica medievale a Ivrea: C.
TOSCO, Ricerche di storia dell’urbanistica in Piemonte: la città d’Ivrea dal X al XIV secolo, in
«Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIV/2 (1996), p. 487 sgg.
69
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 908.
70
Op. cit., p. 904 sgg.
29
lo delle funzioni pubbliche. Fu enfatizzata soprattutto l’estensione dell’autorità
di controllo a tutti gli atti giuridici stipulati entro il territorio della civitas: certe
richieste espresse dall’episcopio – l’ostensio del liber statutorum comunale, la
subordinazione dell’estrazione di munda dai protocolli dei notai defunti all’autorizzazione vescovile – erano anche intese a rendere esplicito il fatto che quelle azioni di laudum, confirmatio, praeceptum ordinariamente compiute dal
vescovo nelle diverse fasi della produzione di documenti relativi alla chiesa eporediese – azioni la cui legittimità è esplicitamente ricondotta, dai notai che le
71
registrano, all’"auctoritas" detenuta dal presule – potevano e dovevano essere
esercitate a garanzia della piena validità di tutti i documenti giuridici redatti per
la civitas, senza distinzione tra una sfera di pertinenza episcopale e una di pertinenza comunale. Si trattava di una mossa difensiva, perché nella realtà tale
distinzione di ambiti stava effettivamente prendendo piede: l’autonomia con la
quale i vertici del comune avevano autorizzato la copia degli atti da inserire nel
liber iurium ne è la dimostrazione migliore. Nondimeno, l’episcopio rimase, per
tutto il Duecento, uno dei due protagonisti principali delle vicende del controllo
pubblico sulle scritture della civitas. Ciò avvenne in primo luogo perché, sul
piano pratico, le istituzioni laiche, una volta guadagnata una certa indipendenza
nella gestione delle operazioni notarili sulle scritture di ambito comunale, non
furono subito in grado di affermare la propria auctoritas come sovrana a livello
locale – di assicurarsi insomma la supremazia sulla totalità dei documenti della
civitas, compresi quindi quelli di ambito vescovile – anche a causa della sempre
vitale concorrenza dell’episcopio, di cui sono prova le disposizioni prese in
materia nel 1236; in secondo luogo perché, sul piano dell’ideologia, l’episcopio
stesso, nel corso dell’intero Duecento e anche oltre, continuò con insistenza a
presentarsi come detentore di quell’auctoritas che conferiva legittimità alle operazioni di autenticazione, e in particolare alla delicata trasposizione del testo di
un atto giuridico dal protocollo di un notaio defunto al mundum redatto da un
nuovo notaio.
71
Si legga, ad esempio, la completio ricorrente in tre instrumenta degli anni 1215-1216, rogati da Martino
e redatti da Giacomo: «Ego Iacobus sacri palacii notarius ex precepto magistri Martini et auctoritate domini episcopi hanc cartam ab eodem magistro Martino abreviatam scripsi» (Le carte dell’Archivio vescovile
di Ivrea cit., I, p. 108, doc. 77; Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 108). Si osservi, inoltre, il praeceptum auctenticationis, scritto quasi un secolo più tardi, relativo a un instrumentum del
notaio vescovile Bartolomeo Censodo copiato nel 1309 da Giglielmo de Honore di Santhià: «Ego
Guillelmus notarius predictus predictum publicum instrumentum verbo et auctoritate dicti domini episcopi rogatus autencticavi et exemplavi et in publicam formam redegi, nichil addito vel dempto quod mutet
sensum ipsius, ipsum de verbo ad verbum fideliter exemplando, et signum meum et nomen apposui in
testimonium veritatis» (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM288/305/1, c. 92 r.).
30
Le politiche documentarie dell’episcopio: peculiarità locali e influenze del
papato
Il potenziamento dell’attività documentaria dell’episcopio a partire dagli anni
Venti e Trenta del Duecento è spiegabile solo in parte come risposta alla
concorrenza delle istituzioni laiche, né si limitò al tentativo di riportare sotto il
controllo del vescovo la documentazione comunale. Fattori interni ed esterni
alla civitas spingevano, in quel periodo, verso una poderosa opera di ristrutturazione delle prassi di produzione e conservazione di atti giuridici da parte dell’episcopio. A Ivrea, il percorso degli atti di pertinenza vescovile dalla stesura
della minuta alla conservazione del mundum – un percorso già di per sé suscet72
tibile di numerose «discontinuità e labilità» – aveva sempre avuto un punto
debole proprio nell’ultima fase, quella archivistica. Sino al tardo medioevo –
periodo in cui si sarebbe incominciato a custodirli in un locale apposito, detto
dai notai «crota seu archivium» – i documenti erano conservati all’interno
74
della «camera episcopi», nel palazzo vescovile , ed erano soggetti, al pari degli
altri beni mobili ivi custoditi, alle periodiche spoliazioni da parte dei cives, proprie del periodo intercorrente fra la morte di un vescovo e l’elezione del suc75
cessore, che si susseguirono fino ai primi decenni del Duecento . Specialmente
in fasi di conflitto tra comune ed episcopio, i milites eporediesi avrebbero potuto approfittare della situazione per far sparire le scritture che attestavano la
competenza vescovile su alcuni diritti soggetti ad aspirazioni concorrenti da
parte del comune. Benché le fonti tacciano sulla natura dei beni mobili asportati dal palazzo in occasione della morte dei vescovi, il rischio stesso che tali
asportazioni si verificassero sarebbe comunque stato sufficiente a indurre i
vescovi a prendere provvedimenti in materia. Alla minaccia umana si aggiunsero poi, intorno al 1227, i danni causati da un incendio che distrusse parte delle
76
scritture della «camera episcopi» . Rileviamo per inciso come la combinazione dei due fattori abbia fatto sì che il numero dei documenti anteriori al 1200
attualmente esistenti nell’archivio vescovile sia estremamente ridotto, soprat77
tutto in rapporto alle sopravvivenze dell’archivio capitolare .
72
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 908.
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 286, doc. 202.
74
Op. cit., I, p. 164, doc 118.
75
Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., pp. 159-163, doc. 172; BUFFO, La cogestione cit., pp. 84-88.
76
«Casu fortuito incendii [episcopus] magna parte de scripturis suis amisit in camera sua habita» (Le carte
dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, doc. 118, p. 164).
77
67 documenti contro i 30 dell’archivio vescovile.
73
31
La commissio dei protocolli dei notai defunti a responsabili pubblicamente
designati sopperiva alle pecche nella conservazione dei munda, assicurando la
sopravvivenza e la reperibilità degli atti nel tempo, in forma di imbreviatura.
Il forte vincolo che veniva a crearsi fra il concessionario dei protocolli e il
vescovo faceva sì che l’episcopio continuasse a essere il centro operativo delle
procedure di documentazione, evitando che questa estensione di responsabilità si trasformasse in dispersione archivistica.
Quanto ai fattori di cambiamento esterni, al primo posto vanno senz’altro
collocate le pressioni del papato nel senso di una più efficace gestione delle
pertinenze documentarie delle singole diocesi. Sin dal IV concilio Lateranense
78
(1215) , la sede apostolica sollecitava l’adozione, da parte dei vescovi, di
«pratiche documentarie avvertite quali efficaci … strumenti di un attento
79
governo diocesano» . Nei decenni centrali del Duecento, l’idea, incoraggiata
soprattutto dal papato, che a una buona amministrazione della res ecclesiae
dovesse corrispondere la capacità, da parte dei vescovi, di adottare «appro80
priate strategie documentarie» – consistenti eventualmente nella conservazione, presso il palatium episcopi, di registri notarili contenenti la memoria dei
negozi giuridici compiuti dall’episcopio – era «uno dei principi ispiratori dell’ufficio episcopale, sebbene nella pratica si scontrasse con la consuetudine di
81
una conservazione esterna e con la mancanza di accentramento archivistico» .
Laura Baietto ha mostrato come l’episcopato di Oberto – al pari di quello
del suo immediato predecessore, Pietro – sia coinciso con il pieno compimento del disegno pontificio, che prevedeva l’instaurazione di un serrato rapporto
fra il presule e un papato in grado di orientare secondo i propri progetti le linee
82
guida della politica vescovile . Nel corso del suo lungo episcopato (12091241), Oberto dovette recepire le sollecitazioni provenienti da Roma relativa-
78
Conciliorum Oecomenicorum decreta, a cura di G. ALBERIGO, P. IOANNON, C. LEONARDI, P.
PRODI, Bologna 1962, p. 228, constitutio 38.
79
G. GARDONI, Notai e scritture vescovili a Mantova fra XII e XIV secolo. Una ricerca in corso, in
Chiese e notai (secoli XII-XV), in «Quaderni di storia religiosa», XI (2004), p. 54.
80
L. cit.
81
M. ROSSI, I notai di curia e la nascita di una ‘burocrazia’ vescovile: il caso veronese, in Vescovi medievali, a cura di G.G. MERLO, Milano 2003, p. 84. Sul tema della corretta gestione di chartae et instrumenta come connotato del sacerdote ‘buon pastore’, cfr. M. MACCARRONE, «Cura animarum» e «parochialis sacerdos» nelle costituzioni del IV concilio Lateranense (1215). Applicazioni in Italia nel secolo
XIII, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV) (Atti del VI Convegno di storia della
Chiesa in Italia: Firenze, 21-25 settembre 1981), I, Roma 1984, p. 104 sg.
82
BAIETTO, Vescovi e comuni cit., p. 486 sgg.
32
mente alle necessità di ammodernamento della prassi documentaria delle chiese cittadine: i provvedimenti da lui presi in materia di documentazione negli
anni del contrasto con il comune vanno letti anche nell’ottica di tale nuova
83
sensibilità . Del resto, proprio sotto Oberto va collocata la redazione del
primo registro vescovile eporediese di cui si abbia memoria: il registro di
imbreviature del notaio Pagano, sul quale torneremo oltre.
83
Si veda anche, in riferimento alla sensibilità documentaria sviluppatasi in seno alla curia romana al’inizio del secolo XIII, F. DELIVRÉ, Les registres pontificaux du XIIe siècle. L’apport des «Libri de primatu Toletane ecclesie», in «Mélanges de l’Ecole française de Rome», 120/1 (2008), pp. 105-138, in particolare p. 117 sgg.
33
3. Una memoria contesa: la circolazione
dei registri notarili di imbreviature
Un limite alla definizione di ambiti documentari separati: la compattezza
del notariato eporediese
Le politiche documentarie dell’episcopio e delle istituzioni comunali eporediesi si svilupparono, nel corso del Duecento, lungo due direttrici. Da un lato,
entrambi i soggetti tentarono – sostanzialmente con successo – di approfondire la propria autonomia nella gestione delle scritture relative ai rispettivi ambiti di competenza. Nel caso del comune, lo si è visto, tale autonomia documentaria andò affermandosi di pari passo con la distinzione dei luoghi del
potere comunale dalle strutture del palazzo vescovile. Un distacco fisico non
privo, peraltro, di implicazioni di natura simbolica: si pensi che nell’estate del
1235 – nel pieno infuriare della contesa tra vescovo e istituzioni laiche intorno agli statuti comunali iniqui – il procuratore vescovile Fredenzono di
Modena esponeva al capitano imperiale di Ivrea le proprie lamentele per la
morosità del comune eporediese, il quale da molti anni rifiutava di corrispondere all’episcopio il censo dovutogli per la 84«domus comunis», appartenente,
secondo Fredenzono, alla mensa vescovile . Quanto all’episcopio, esso fu
impegnato, a partire dai decenni centrali del Duecento, in un generale ammodernamento delle pratiche legate alla documentazione, in parte come risposta
alle sollecitazioni provenienti dal papato; un processo che preludeva alla
nascita, piuttosto precoce, di una burocrazia vescovile in grado di far fronte
alle esigenze di amministrazione temporale e spirituale proprie dei presuli.
Dall’altro lato, quei due soggetti tendevano ciascuno a presentare se stesso
come detentore di una funzione di tipo pubblico – in grado di assicurare una
superiore garanzia sulla legittimità di tutte le operazioni documentarie svolte
in seno alla civitas – e viceversa a estromettere o a sminuire il peso dell’altro
nella partecipazione a tale funzione. Questo atteggiamento è riscontrabile in
positivo per l’episcopio già dai primi decenni del secolo; per il comune, come
si vedrà, soprattutto a partire da un’età più tarda.
84
«Dominus Fredençonus de Mutina iudex et vicarius et nuncius domini Oberti Dei gratia Yporiensis episcopi et comitis, vice et nomine ipsius domini episcopi, denunciavit domino Willelmo Sivolleto capitaneo
et rectori Yporegie et Bonifacio filio condam domini Ardicionis de Mercato procuratoribus comunis
Yporiensis nomine ipsius comunis ut dicto domino episcopo solverent pro comuni vel solvi facerent censum quem eidem domino episcopo dare debet comune Yporegie vel pro ipso comuni pro domo comuni in
qua tenent et reddent suas raciones, videlicet XII denarios pictavinos pro quolibet anno, vel domum predictam eidem domino episcopo dimitant et restituant, cum iamdiu cessaverint a solucione censsus» (Le
carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 207, doc. 149).
35
Parrebbe insomma che alle rivendicazioni contrapposte, sul piano delle ideologie, di una preponderanza nel ruolo di tutela delle scritture giuridiche della
civitas nel loro complesso facesse riscontro, sul piano pratico, il delinearsi di due
ambiti distinti di azione documentaria. In effetti, le forme di gestione delle scritture pubbliche indicate da un episcopio pur forte nel corso della contesa con il
comune tra gli anni Venti e Trenta del Duecento non riuscirono a imporsi come
prassi ordinarie. Il dettagliato preambolo (tecnicamente è detto narratio) che
introduce l’atto della concordia del 1236 è privo di riferimenti all’ostensio del
liber statutorum richiesta dai rappresentanti del vescovo l’anno precedente. Non
vi sono, poi, attestazioni di un’applicazione letterale della procedura di commissio dei protocolli dei notai defunti a fiduciari dell’episcopio e del comune descritta nei medesimi accordi, i quali – come si ricorderà – prevedevano tra l’altro che
fosse necessario ottenere un precetto vescovile prima di procedere all’estrazione
di munda dei protocolli così assegnati.
Il processo di definizione di due autonomie autenticatorie separate, dipanatosi
nel corso del secolo XIII, ebbe tuttavia alcuni limiti, legati a una fra le caratteristiche meglio osservabili del notariato eporediese di quel secolo: la sostanziale
identità intercorrente fra il gruppo dei notai operanti per l’episcopio e quello dei
notai operanti per il comune. Gian Giacomo Fissore ha definito il notariato un
85
trait d’union fra quei due detentori di poteri pubblici nell’Ivrea del Duecento :
un nucleo stabile e coeso di professionisti della documentazione, capace di
garantire continuità alle pratiche legate alla memoria scritta, attraverso le quali si
esercitavano le funzioni pubbliche del potere. Stiamo discutendo, come è ovvio,
di una cerchia notarile di alto livello, vicino ai soggetti detentori di potere e pertanto in grado di partecipare ai processi di elaborazione dei lessici politici propri
di quei soggetti.
Tale partecipazione, come vedremo dettagliatamente esaminando il caso di
Francotto dell’Olmo, andava ben oltre la semplice e strumentale messa a disposizione di un sapere pratico. Nella trasposizione degli atti giuridici compiuti dai
poteri cittadini nella forma scritta del documento notarile, il notaio svolgeva
un’opera al contempo ermeneutica e creativa: «egli partecipava (ed era parte)
dell’oggetto stesso della sua attività: … il sistema … lo coinvolgeva proprio nella
misura in cui egli si trovava al suo interno, come elaboratore, interprete, operatore pratico» . Nel concorrere alla legittimazione ideologica di un potere, egli era
partecipe della sua costruzione. Ciò è vero in particolar modo nel caso di Ivrea,
ove la prossimità di questo notariato eminente ai vertici del potere non si limitava ai legami di tipo professionale, ma aveva un’accentuata corrispondenza sul
piano sociale: le famiglie di molti fra i notai attivi per il comune o nell’entourage episcopale fino alla seconda metà del Duecento appartenevano all’aristocrazia dei milites, alla cerchia dei vassalli del vescovo o al gruppo di lignaggi che
esprimeva i membri del capitolo cattedrale. Non solo, pertanto, una élite in seno
al gruppo dei notai, ma una componente a tutti gli effetti dell’élite urbana, e quindi doppiamente partecipe dell’elaborazione dei linguaggi della politica.
85
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917.
36
Un esempio di quanto fossero
poliedrici i legami professionali dei maggio87
ri notai eporediesi del tempo è 88dato da Giovanni «de domino Aymone» – attivo come scriba per il comune e membro
della credenza che approvò la
89
concordia del 1236 con il vescovo Oberto – il90quale, nel secondo quarto del
Duecento,
redigeva atti per il capitolo cattedrale e figurava come teste in atti
91
vescovili . Grande, un suo contemporaneo, operava anch’egli alle dipendenze
del comune, ma92al contempo produceva 93atti per l’episcopio e per il monastero di S. Stefano . Il «notarius episcopi» Giovanni Caldera lavorò – insieme
con il collega Giramo de Vetignato – dapprima, tra il 1250 e il 1258, a un
imponente registro vescovile di investiture e consegnamenti feudali, quindi,
nel 1264, all’autenticazione degli atti copiati in un nuovo liber iurium comunale; autenticazione alla quale partecipò anche Ottino
de Guatacio, notaio del
94
quale si conservano altresì atti rogati per il vescovo . Nel frattempo Giovanni
Cane di Castellamonte, “publicus notarius et iuratus", aveva contemporaneamente il compito di redigere gli atti delle 95sentenze emanate dai vicari
del vescovo e di quelle del giudice comunale . L’elenco potrebbe proseguire.
Certo non mancavano carriere eccentriche, 96come quella del magister
Viviano, notaio e forse canonico della cattedrale . A costui appartiene il più
antico fra i protocolli conservati nell’archivio
diocesano di Ivrea. Ne
97
sopravvivono per la verità soltanto due bifogli – usati come copertine di
volumi più tardi – uno dei quali doveva essere il primo in ordine di impa-
86
M. SBRICCOLI, L’interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano 1969, p. 9.
87
Il più interessante studio sui molteplici legami professionali dei notai operanti in una singola civitas è,
almeno per l’area piemontese, P. CANCIAN, G. G. FISSORE, Mobilità e spazio nell’esercizio della professione notarile: l’esempio dei notai torinesi (secc. XII-XIII), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XC/1 (1992), pp. 81-136.
88
I documenti dell’archivio storico cit., pp. 226-230, doc. 12 (1234).
89
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 218, doc. 152.
90
Op. cit., p. 161 sg., doc. 151 (1226); Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, c. non
numerata (1250).
91
Le carte dell’Archivio vescovile cit., I, p. 376, doc. 273 (1257).
92
Op. cit., pp. 157-159, doc. 114; p. 168 sg., doc. 122; p. 171 sg., doc. 124; p 186 sg., doc. 133; p. 220 sg.,
doc. 160; p. 225 sg., doc. 165.
93
Archivio storico diocesano di Ivrea, XI-1-EM 250/258/1, passim.
94
PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., p. 298 sg.
95
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXLVI-3-AaM 268/269/1 (si tratta di un volume contenente due
protocolli di questo notaio, relativi rispettivamente al 1268 e al 1269); Archivio di Stato di Torino, Corte,
Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato (1277).
96
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 183, doc. 130; p. 189 sg., doc. 136.
97
Che si tratti del protocollo del notaio, e non di un altro tipo di registro, è denunciato dalla frase con cui
si apre il fascicolo: «Hoc est liber abreviarii Viviani notarii». Il bifoglio contenente le cc. 1 e 10 (Archivio
storico diocesano di Ivrea, CXLI-2-IM 419/459/1) funge tuttora da copertina di un «Liber debitus» quattrocentesco; l’altro bifoglio (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 239-241/1) contiene le cc.
3 e 8.
37
ginazione: dalla numerazione in esso riportata scopriamo che il fascicolo
era composto da appena dieci fogli pergamenacei, con documenti relativi a
un periodo piuttosto ampio (dal 1238 al 1240), e che pertanto l’attività
notarile di Viviano si limitò alla produzione occasionale di atti di rilievo:
tutti, del resto, hanno come protagonista il vescovo Oberto.
Nonostante l’esistenza di casi come quello appena
citato – il quale peral98
tro non fu probabilmente unico nel suo genere – appare chiaro come la
maggior parte dei notai attestati come attivi in incarichi di alto livello fino
ai decenni finali del Duecento abbia operato, contemporaneamente o in
tempi diversi, alle dipendenze sia delle istituzioni comunali sia dell’episcopio. Tale comportamento fu reso possibile da due ordini di circostanze. In
primo luogo – lo si è già ricordato – i membri dell’élite notarile eporediese
facevano in genere parte anche dell’élite dei cives. Provenienti da famiglie
eminenti, l’ampiezza dei loro legami professionali rispecchiava quella dei
loro legami personali. Sarà sufficiente, per ora, citare il caso di Giovanni
Caldera,
la cui famiglia, appartenente all’antica aristocrazia consolare epo99
rediese , esprimeva
contemporaneamente uomini della credenza e canoni100
ci della cattedrale . In secondo luogo, molti professionisti d’alto livello
lavorarono per entrambe le istituzioni perché il comune e l’episcopio avvertivano il bisogno di prestazioni di tipo analogo. Quei due poteri furono interessati, sino almeno al termine del secolo, a presentarsi come detentori di
responsabilità di natura pubblica nell’ambito della documentazione e fecero ricorso a quella ristretta élite professionale in grado di fornire a tale
ambizione il necessario supporto tecnico.
L’esercizio congiunto dell’auctoritas documentaria: uno strumento di risoluzione dei conflitti tra i vertici istituzionali della civitas.
Secondo Fissore, le ambizioni vescovili di controllo sul notariato eporediese si estinsero nel giro di pochi decenni dalla concordia del 1236. Lo studioso sottolinea come il meccanismo di commissio dei protocolli dei notai defunti a un rappresentante del comune e a uno dell’episcopio, descritto nel testo
101
quell’accordo, risulti essere stato usato in un numero assai limitato di casi ;
sarebbe invece prevalso, su entrambi i fronti, l’impegno a costruire un’egemonia sui rispettivi ambiti documentari, il cui risultato fu il definitivo
svilup102
po di due «aree di giurisdizione volutamente separate e distinte» . Nel corso
98
Cfr. sopra, nota 35.
Un Caldera, Oberto, fu console di Ivrea nel primo decennio del Duecento: Il libro rosso cit., p. 2 sg., doc.
2 sg.; p. 20 sg., doc. 23 sg.; p. 46, doc. 52; p. 48 sg., doc. 55 sg.; p. 55, doc. 63; p. 57, doc. 69; p. 73, doc.
89; p. 86, doc. 105; p. 163, doc. 172; Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 49, doc. 33; p. 76,
doc. 55.
100
PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., p. 291.
101
FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 76 sgg.
102
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917.
99
38
della seconda metà del Duecento, poi, il notariato eporediese avrebbe raggiunto la massima autonomia nel conferimento della pubblica validità ai documenti da esso prodotti e si sarebbe legato in maniera sempre più univoca alle
istituzioni comunali, le quali, in virtù di tale legame esclusivo, si sarebbero
guadagnate il monopolio dell’autorità pubblica sulla documentazione.
Il confronto dei dati studiati da Fissore, relativi al corpus delle fonti edite, e
le fonti documentarie inedite, se da un lato conferma la progressiva acquisizione di autonomia da parte del notariato e il rafforzarsi del suo legame con il
comune, dall’altro induce a ritenere che sino agli inizi del Trecento l’episcopio abbia seguitato a porre in atto comportamenti intesi a ribadire il suo diritto a porsi, eventualmente in concomitanza con le istituzioni laiche, come pubblico garante del corretto funzionamento della documentazione della civitas.
Fissore indica la partecipazione dei presuli alla procedura di commissio dei
protocolli dei notai defunti a individui di fiducia come misura del coinvolgimento dell’episcopio nel controllo della documentazione. Dopo il 1236, la
partecipazione delle istituzioni ecclesiastiche ai meccanismi della commissio
sarebbe rapidamente venuta meno e «nel corso della seconda metà del secolo
XIII le procedure di affidamento delle imbreviature dei notai defunti" sarebbero "diventate
un affare esclusivo dei rapporti tra notariato eporediese e
103
comune» . Da un lato, lo spoglio dei documenti inediti conferma quanto
osservato da Fissore: la soluzione proposta nel 1236, troppo favorevole all’episcopio, non trovò applicazione nei decenni successivi; in un solo caso (posteriore al 1263) è attestata l’osservanza della disposizione, formulata in quella
concordia, secondo cui anche l’estrazione di copie da protocolli
ricevuti per
104
legato testamentario doveva essere autorizzata dal vescovo . Dall’altro, l’allargamento del campo di indagine pone in luce l’esistenza, lungo tutto il
Duecento, di altre prassi di affidamento congiunto dei protocolli da parte delle
due istituzioni cittadine. Per esempio, in un periodo posteriore al 1273 il
notaio Giacomo Faber estraeva atti
da un protocollo di Bernardo di Carnario,
105
affidatogli da vescovo e comune . Si arricchisce anche il panorama delle attestazioni di copie redatte, a partire da protocolli di notai defunti, sotto comune
precetto del vescovo e del comune, senza però menzione della commissio dei
protocolli stessi: verso il 1270, per esempio, il magister Pietro riceveva dal
103
FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 82.
L’attestazione si riferisce alla copia di un atto del notaio Grande, del 1241, da parte di Bernardo di
Carnario: «Ego Bernardus de Carnario Yporiensis notarius, de precepto condam Grandis notarii qui hanc
cartam abreviaverat, que abreviaria michi Bernardo fuerunt commissa per ipsum Grandem et per dominum Iohannem condam Dei gratia episcopum Yporiensis et comitem, de quodam breviario ipsius Grandis
hanc carta scripsi et extraxi sicut in ipso breviario continetur» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie
ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato).
105
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 3, doc. non
numerato (1273): «Ego Iacobus notarius filius condam Raymondi Fabri Yporiensis hanc cartam scripsi et
eam extraxi de quodam abreviario Bernardi de Carnario condam notarii, abreviaria cuius fuerunt michi
predicto Iacobo notario comissa per ecclesiam et comune Yporiense ad fatiendum et extrahendum instrumenta omnibus quibus fuerint fatienda».
104
39
vescovo e dal podestà eporediesi
il mandato di copiare alcuni atti da un proto106
collo di Giovanni Caldera ; poco dopo il 1300 il doppio mandato interessò in
più occasioni il notaio vescovile Giovanni
da Bergamo, che se ne servì
per
107
108
copiare atti imbreviati da Giacomo Faber e da Bernardo di Carnario .
Nonostante i nuovi dati portati alla luce nell’analisi delle fonti inedite, resta
evidente che, rispetto alla totalità dei documenti in copia autenticata, quelli
contenenti riferimenti alle modalità di affidamento e conservazione dei protocolli da cui la copia ha avuto origine sono largamente minoritari; ciò specialmente per il periodo precedente il 1287, anno in cui compare la prima, peraltro isolata, menzione di commissio di protocolli effettuata esclusivamente dal
comune. Eppure i pochi dati di cui disponiamo consentono di affermare che,
ancora nell’ultimo quarto del Duecento, i meccanismi della commissio vescovile o della doppia commissio, vescovile e comunale, erano avvertiti come praticabili e di fatto praticati, anche se non costituivano la prassi più usuale.
Il tormentato percorso delle imbreviature di Giovanni Caldera: nuovi documenti
In effetti, i protocolli oggetto di cogestione da parte di comune ed episcopio
non erano del tutto simili al resto dei registri di imbreviature prodotti dai notai
di Ivrea. I loro estensori, infatti, erano stati in diversi tempi fra i maggiori professionisti eporediesi nell’ambito della documentazione; tutti, inoltre, avevano
svolto incarichi di alto livello sia presso le istituzioni laiche sia presso quelle
ecclesiastiche. La questione dei protocolli era il più evidente limite pratico al
delinearsi di una doppia autonomia autenticatoria, vescovile e comunale, e
creava occasioni di tensione, sfruttate da ciascuno dei due poteri per rivendicare una preponderanza rispetto all’altro o almeno un diritto a partecipare alle
pratiche di affidamento e autenticazione che l’altro cercava di porre in atto
106
«Ego magister Petrus Yporiensis notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de abreviariis condam
Iohannis Caudere notarii Yporiensis qui eam abreviaverat sicut in eius abreviario continetur, de precepto
domini Frederici electi Yporiensis et precepto domini Acursi Lançavege potestas Yporiensis et comitum
de Sancto Martino» (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 106).
107
«Ego Iohannes de Pergamo Yporegie habitans publicus notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de
protocollo condam Iacobi Fabri notarii Yporiensis ex auctoritate michi concessa a domino fratre Alberto
episcopo Yporiensi et comite necnon a domino Petro de Episcopo iudice et assessore domini Odonis de
Rivalba potestatis Yporiensis, nichil addens vel minuens quod mutet sensum vel intellectum, sed sicut in
ipso protocollo inveni contineri sic in isto instrumento continetur» (Archivio storico diocesano di Ivrea,
CXX-I-IM 109/317/1, pp. 132, 142).
108
«Ego Iohannes de Pergamo Yporegie habitans publicus notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de
protocollo condam dicti Bernardi Carnarii notarii Yporiensis ex auctoritate michi concessa a venerabili patre domino fratre Alberto episcopo Yporiensi et comite, necnon a domino Petro de Episcopo iudice et assessore domini Oddonis de Rivalba potestatis Yporiensis, nichil addens vel minuens quod mutet
sensum vel intellectum, sed sicut in ipso protocollo inveni contineri sic in isto instrumento continetur»
(Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non
numerato del 1239).
40
autonomamente. I più qualificati fra i notai eporediesi, come si è visto, erano
soliti mettere le proprie competenze tecniche, contemporaneamente o in tempi
diversi, a disposizione di entrambi i soggetti e ciò rendeva altamente problematica la gestione delle loro imbreviature dopo la morte. Era impossibile,
infatti, che l’autenticazione e la conservazione di certi protocolli, contenenti in
proporzioni simili atti di alto rilievo redatti per i vescovi e per il comune, fossero sottoposte al monopolio di una di queste due istituzioni senza che l’altra
si sentisse sminuita nella propria autonomia documentaria. La possibilità di
ricorrere a pratiche di cogestione come la duplice commissio o il duplice praeceptum auctenticationis – l’ordine, cioè, attraverso il quale un’autorità pubblica disponeva che un notaio producesse una copia di un atto, provvista della
stessa validità giuridica dell’originale – forniva uno sbocco a situazioni di tensione e rivendicazioni contrapposte. Situazioni che non ci è possibile seguire
agevolmente a causa della dispersione dei documenti comunali di quei decenni, dai quali probabilmente emergerebbe un intento di controllo sui protocolli
dei principali notai del passato equipollente rispetto a quello di cui è rimasta
traccia negli atti vescovili. Ci è noto un solo caso di contesa: quella relativa
alle imbreviature di Giovanni
Caldera. La vicenda è già in parte nota grazie
109
alle ricerche di Fissore ; l’uso di alcuni documenti inediti aiuta a completarne e a chiarirne il quadro.
Giovanni Caldera apparteneva a quel gruppo ristretto di notai eporediesi dei
decenni centrali del Duecento individuabili
senza dubbio come funzionari
110
(officiales) delle istituzioni urbane . Generalmente non è facile, soprattutto
per la prima metà del Duecento, studiare i rapporti professionali intercorrenti
fra i singoli notai e i poteri politici, poiché i primi – gelosi della propria autonomia e dell’ascendenza imperiale della propria funzione autenticatoria –
amavano presentarsi come liberi professionisti piuttosto che come dipendenti
dei secondi. Giovanni Caldera non faceva eccezione a tale andamento: è infatti soltanto un altro notaio, Giramo di Vestignè – che redasse in mundum diversi documenti imbreviati da111Giovanni – a definirlo, nelle formule di autenticazione, «notarius episcopi» . I protocolli di Giovanni Caldera contenevano le
imbreviature di numerosi atti relativi a investiture consegnamenti feudali da
lui redatti durante l’episcopato di Giovanni di Barone (1250-1263), molti dei
quali erano confluiti in un sontuoso cartulario compilato
da Giovanni stesso e
112
tuttora conservato presso l’archivio diocesano di Ivrea . Quei protocolli contenevano insomma la memoria dei più importanti negozi giuridici stipulati fra
la chiesa eporediese e i suoi vassalli nell’arco di diversi decenni: una memoria dotata di publica fides da far valere in situazioni di contenzioso. Giovanni
operò anche alle dipendenze del comune: egli fu tra i notai che parteciparono
109
FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 80.
Sul problema dei notai-funzionari eporediesi si veda ancora FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917 sgg.
111
La definizione compare ripetutamente, ma non sistematicamente, nel grande registro vescovile di investiture e consegnamenti feudali compilato da Giovanni e Giramo (Archivio storico diocesano di Ivrea, XI1-EM250/258/1).
112
Archivio storico diocesano di Ivrea, XI-1-EM 250/258/1.
110
41
all’autenticazione
dei documenti copiati, nel 1264, in un liber iurium comu113
nale .
114
Giovanni Caldera, il cui ultimo atto conservato risale al 1269 , dovette morire poco dopo questa data; negli anni immediatamente successivi, infatti, ben due
notai posero mano ai suoi registri di imbreviature. Il primo fu un non meglio
identificato magister Pietro, il quale ne estrasse una serie di munda, apparentemente non in quanto beneficiario di una commissio dei protocolli, bensì soltanto come destinatario di un precetto congiunto del vescovo eletto, Federico di
Front, e del 115podestà di Ivrea e dei conti di San Martino, Accursio
Lanciavecchia116 . Si conservano117due atti di Caldera estratti da Pietro; risalenti
l’uno al 1268 e l’altro al 1269 , essi furono tra gli ultimi rogati da quel notaio:
si trattava probabilmente di atti che Caldera non aveva fatto in tempo a redigere
in mundum. Abbiamo 118
notizia di tre praecepta auctenticationis rilasciati da
Accursio Lanciavecchia ; quello riguardante i protocolli di Giovanni Caldera è
tuttavia l’unico nel quale l’autorità del podestà sia affiancata da quella del vescovo, segno del convergere su quelle imbreviature di interessi diversi e probabilmente in conflitto. Poco più tardi, infatti, fra il 1271 e il 1276, la "curia regia"
eporediese – Ivrea era in quel periodo soggetta a re Carlo d’Angiò –119procedette
alla vera e propria trasmissione dei protocolli a un commissario : la scelta
cadde su un notaio di indiscussa fama professionale, Giacomo Faber . La soluzione dettata dai funzionari regi non riuscì tuttavia a120imporsi come definitiva.
Alcuni anni più tardi, infatti – quando Giacomo Faber era ancora in piena atti-
113
Sull’organizzazione dei libri iurium eporediesi nei decenni centrali del Duecento cfr. PANERO, Il "Libro rosso" cit.
Cartario della confraria del S. Spirito cit., doc. 31.
115
A causa della dispersione documentaria che ha colpito le scritture del comune eporediese relative agli anni
Settanta e Ottanta del Duecento, non è possibile determinare con esattezza l’anno in cui Accursio
Lanciavecchia fu podestà di Ivrea. Si sa però che egli fu podestà a Genova nel 1271 e a Bologna nel 1273 (E.
ARTIFONI, I podestà itineranti e l’area comunale piemontese. Nota su uno scambio ineguale, in I podestà
dell’Italia comunale. Parte I: reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.),
a cura di J.C. MAIRE VIGUEUR, Roma 2000, I, p. 44 sg.; Statuti delle società del Popolo di Bologna, I:
Società delle armi, a cura di A. GAUDENZI, Roma 1889, p. 231); tale dato, insieme con la definizione di
Lanciavecchia come "potestas Yporegie et comitum de Sancto Martino", induce a collocare il suo mandato
intorno al 1270.
116
In verità di questo primo documento non si conserva che una parziale trascrizione, alquanto sbiadita, esistente
sulla copertina pergamenacea di un protocollo di Giovanni Cane di Castellamonte (Archivio storico diocesano
di Ivrea, CLVI-3-AaM268/269/1), della quale si leggono le parole «[Ego m]agister P(etrus) Yp[oriensi]s notarius de pre[cept]o domini F(rederici) Yporiensis episcopi electi et domini [Acursi Lançevegle] potestatis
Yporegie et comitum de Sancto Martino hanc cartam scripsi et extraxi de abreviaria [con]dam Iohannis
Calderie notarii infrascripti» e la data dell’instrumentum, «millesimo duecentesimo LX[VIII], indicione XI».
117
Cartario della confraria del S. Spirito cit., doc. 31.
118
Oltre a quello già menzionato, si segnalano due precepta rivolti al notaio Oberto de Atayno, l’uno riguardante
le imbreviature di Alberto Michelano (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 132), l’altro quelle di Ataino (Archivio storico diocesano di Ivrea, p. 153).
119
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. non numerata.
120
Su questo notaio cfr. A. BONINO, Attività professionale e contesto sociale di un notaio eporediese del
secolo XIII: Giacomo Fabbri, Torino 1994, tesi di laurea presso il Dipartimento di Storia dell’Università
di Torino, sezione di Paleografia e Medievistica.
114
42
vità – i protocolli di Giovanni erano oggetto di una nuova commissio, il cui
beneficiario era un notaio altrettanto stimato: il «notarius comunis»
Francotto dell’Olmo, il quale ne estraeva un atto nel 1287. Nella completio
si legge: «io, Francotto dell’Olmo, cittadino eporediese, notaio del comune di Ivrea, ho scritto questo atto (cartam) estraendolo dal protocollo delle
imbreviature del fu notaio Giovanni Caldera, che da tempo mi è stato assegnato (michi 121
diu fuerat comissa) … pertanto l’ho sottoscritto e ho apposto
i miei signa» . In quel «diu», osserva Fissore, è presente una velata polemica: evidentemente l’episcopio contestava il monopolio comunale su
quelle imbreviature, acquisito in pregiudizio dei precedenti accordi e delle
prerogative vescovili in materia di controllo
sulla documentazione. E infat122
ti poco più tardi, tra il 1290 e il 1291 , i protocolli di Giovanni Caldera
erano nuovamente a disposizione del vescovo, Alberto Gonzaga, il quale
impartiva a Rufino di Mazzè, un notaio anziano che aveva lavorato per
l’episcopio negli 123
stessi anni di Caldera, il precetto di estrarne un grande
numero di munda .
A prima vista, la decisione di far stendere una tale quantità di munda pergamenacei parrebbe configurarsi come una risposta alla precarietà del possesso di quei protocolli da parte dell’episcopio, motivata da concorrenti
rivendicazioni da parte del comune. Ma la campagna documentaria avente
come oggetto le imbreviature di Giovanni Caldera va confrontata con il
resto delle attività svolte contemporaneamente dall’entourage notarile del
vescovo Alberto.
I primi registri ‘vescovili’
Risulta infatti che, mentre Rufino di Mazzè operava dietro precetto vescovi121
"Ego Francotus de Ulmo civis Yporiensis notarius comunis Yporegie hanc cartam scripsi et eam
exstraxi de protocollo seu abreviariis condam Iohannis Calderie notarii, et que abreviatura michi diu fuerant comissa, et quod eciam instrumentum alias factum fuerat per dictum Iohannem notarium, ut aparebat per quodam instrumentum gamolatum seu roxiglatum, unde me subscripsi et signa mea aposui rogatus" (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 324, doc. 223).
122
Nel novembre 1290 quelle imbreviature non erano ancora a disposizione dell’episcopio: a tale data
risale infatti la copia di un atto di Caldera effettuata su precetto del vescovo dal notaio vescovile Pietro
Picalotto di Alatri, copia che usa come testo base non quello contenuto nei protocolli, bensì un mundum
precedentemente estratto dagli stessi, su precetto comunale, a opera di Francotto dell’Olmo (Le carte
dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., pp. 322-324, doc. 223). Al 31 maggio 1291 risale invece un precetto vescovile relativo all’estrazione di un atto dalle imbreviature di Caldera da parte di Rufino di Mazzè
(op. cit., I, p. 332, doc. 230).
123
Op. cit., I, p. 251 sg., doc. 181; pp. 253-258, doc. 183 sg.; p. 262 sg., docc. 186, 188; pp. 277-279, doc.
200; pp. 284-300, doc. 207 sg.; p. 317 sg., doc. 217; p. 320, doc. 220; p. 324, doc. 224; p. 326, doc. 227;
pp. 330-332, doc. 230; p. 338, doc. 235; p. 340 sg., doc. 238; p. 343 sg., doc. 240; p. 346, doc. 243; pp.
355-357, docc. 252, 254; p. 359, doc. 260; p. 361, doc. 263; p. 364 sg., doc. 265; pp. 366-372, doc. 267
sg.; p. 376 sg., doc. 273; p. 378 sg., doc. 276; p. 381 sg., doc. 278; p. 389, doc. 283; II, pp. 13-19, docc.
229, 303, 305-307; pp. 23-25, doc. 313 sg.
43
le sui protocolli di Caldera, un altro notaio, Rufino di Mantova, estraesse una
notevole quantità di munda dai protocolli di un altro notaio defunto, Giacomo
di Caluso. Giacomo aveva lavorato per l’episcopio ai tempi del vescovo
Giovanni di Barone, in particolare a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta
del Duecento. La redazione di questa seconda serie di copie non può essere
agevolmente spiegata con la precarietà del controllo dei protocolli di Giacomo
da parte dell’episcopio: molte delle sue imbreviature non erano infatti contenute in protocolli comuni, bensì in uno o più registri destinati a raccogliere
esclusivamente atti rogati per la chiesa eporediese, i quali presumibilmente
erano rimasti, nel corso dei decenni, a piena disposizione dell’episcopio.
L’incipit di un quaderno conservato presso l’Archivio diocesano di Ivrea lo
designa infatti come «libro delle imbreviature degli atti della chiesa di Ivrea al
tempo di Giovanni di Barone, per grazia di Dio vescovo di Ivrea e conte» e
prosegue: «io notaio, che sono detto magister Giacomo di Caluso, l’ho scritto» («liber abreviarii instrumentorum Yporiensis ecclesie tempore domini
Iohannis de Barono, Dei gratia Yporiensis episcopi et124comitis. Ego notarius
qui dicor magister Iacobus de Caluxio predicta scripsi» ). I documenti contenuti nel registro risalgono a un periodo compreso fra il 1258 e il 1263.
Vedremo più avanti altri casi di registri simili.
Appena entrato in carica – la sua nomina risale al 1289 – Alberto
Gonzaga aveva intrapreso una politica di ripristino della rete di proprietà e
rapporti vassallatici incentrata sull’episcopio, rete in parte sfaldatasi negli
anni precedenti a causa delle convulsioni politiche – l’occupazione di Ivrea
da parte di Guglielmo di Monferrato, l’effimera sottomissione agli Angiò e
il ritorno nell’orbita dei125Monferrato – e delle lunghe assenze del predecessore, Federico di Front . Uno dei punti chiave di tale politica consisteva
nel recupero e nella riproduzione dei documenti attestanti le fedeltà e i
censi spettanti alla chiesa eporediese: ecco il motivo per cui Alberto si
impegnò a riportare le imbreviature di Giovanni Caldera sotto il controllo
dell’episcopio. La campagna documentaria del 1291 esprime, più che la
precarietà del controllo vescovile su quelle imbreviature – come abbiamo
visto, quelle di Giacomo di Caluso erano già in possesso della chiesa eporediese – il successo di un progetto di recupero documentario da parte
dell’episcopio eporediese, oltre alla persistente vitalità di quest’ultimo
nel coordinamento di attività notarili legate all’uso di protocolli di notai
defunti.
Del resto, per quanto ne sappiamo, le imbreviature di Caldera rimasero,
negli anni successivi, in possesso del vescovo: ancora nel 1311, il «notarius
episcopi» Giovanni da Bergamo ne estraeva un atto su precetto del vicario
vescovile Savino Solero, senza interventi autenticatori da parte del comu-
124
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM 272/298/1.
F. PANERO, La grande proprietà fondiaria della chiesa di Ivrea, in Storia della chiesa di Ivrea cit., p.
864 sg; BUFFO, Nuovi documenti cit.; Nuovi documenti su Alberto Gonzaga, vescovo d’Ivrea, a cura di
V. ANSALDI, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino» XIX/1 (1914), p. 1 sgg.
125
44
126
ne . Riprendendo l’accenno testé fatto al registro di Giacomo di Caluso, è
interessante notare come un analogo disinteresse, da parte dei notai legati
all’episcopio, per la specificazione delle pratiche di affidamento dei protocolli di notai defunti al momento della stesura della completio si fosse già manifestato, negli anni intorno al 1260 (al tempo, cioè, in cui si registra il massimo
numero di menzioni della doppia commissio comunale e vescovile), di fronte
alle imbreviature del notaio Pagano, redatte negli anni Venti e Trenta del
Duecento. Il protocollo di Pagano aveva seguito, dopo la morte dell’estensore, un percorso particolare: anziché entrare in possesso di un erede o di un affidatario, esso era rimasto all’interno della camera episcopi, a disposizione di
altri notai dipendenti dall’episcopio. Nel 1258, infatti, il notaio Ottino, incaricato dal vescovo Giovanni di estrarre un mundum da imbreviature attribuite
a Pagano, asseriva di trascrivere l’esemplare da un’imbreviatura contenuta in
protocollo in possesso del vescovo: «abreviaturam que
erat scripta in quodam
127
abreviario quod dictus dominus episcopus habebat» .
Pagano – del quale già si è supposta l’identità con il procuratore della chiesa eporediese che aveva difeso le ragioni dell’episcopio in occasione dell’arbitrato del 1235 – è detto da
un collaboratore «magister Paganus notarius
128
domini episcopi Yporiensis» ; gli atti estratti dalle sue imbreviature si riferiscono tutti a fedeltà prestate da particolari al vescovo di Ivrea. Probabilmente
le imbreviature di Pagano erano state concepite come destinate a restare stabilmente sotto il controllo diretto dei presuli, senza nemmeno allontanarsi fisicamente dal «palatium episcopi». Sarebbe pertanto un errore attendersi di trovare nelle formule di autenticazione dei numerosi munda che Giramo di
Vestignè – il notaio che ne129estrasse su mandato del vescovo, in un periodo
antecedente il marzo 1254 , numerose copie pergamenacee – riferimenti a
un’ asegnazione pubblica di quei protocolli. Giramo si limita in effetti a
dichiarare di agire «de precepto et 130
mandato domini Iohannis de Barrono, Dei
gratia Yporiensis electi et comitis» .
Sono le medesime parole che Rufino da Mantova posponeva, trent’anni più
tardi, ai munda estratti dai protocolli di Giacomo di Caluso, anch’essi probabil-
126
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 178. L’incipit recita: «In nomine Domini,
amen. Anno millesimo CCCXI, indicione VIIII, die XVIII mensis marcii, in claustro ecclesie Yporiensis,
presentibus testibus domino Antonio de Solerio et Petro de Solerio canonicis dicte ecclesie. Dominus
Savinus de Solerio, archidiaconus et vicarius domini Alberti episcopi Yporiensis precepit michi notario
infrascripto quatenus infrascriptum instrumentum extraherem de protocollo condam Iohannis Caudere
notarii et in publicam formam redigerem»; la completio: «Et ego Iohannes de Pergamo notarius Yporegie
habitans suprascriptum instrumentum scripsi et extraxi de protocollo Iohannis Caudere notarii, de precepto dicti vicarii, nichil addens vel minuens quod sensum mutet».
127
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 183, doc. 131.
128
Op. cit., I, p. 171, doc. 123.
129
Nei praecepta auctenticationis redatti da Giramo Giovanni di Barone è designato come eletto. La sua
consacrazione avvenne tra l’8 febbraio e il 3 marzo 1254 (op. cit., I, p. 336 sg., docc. 233, 234).
130
Op. cit., I, p. 174, doc. 126.
45
mente rimasti, nel tempo, pacificamente a disposizione dell’episcopio. Quando
– lo si vedrà fra poco – tale tipo di registri soppianterà, in seno all’archivio
vescovile, i protocolli tradizionali, di uso ‘privato’, i riferimenti alla commissio
pubblica dei registri di imbreviature, ormai non più necessari, scompariranno del
tutto dai documenti vescovili.
La prassi della commissio dei protocolli nel formulario dei notai intorno
al 1300
Si noti, poi, la persistente analogia tra le formule in uso presso i notai attivi per
il comune e quelle proprie dei notai vescovili – i quali, lo si vedrà, a partire dall’episcopato di Alberto Gonzaga tendono a distaccarsi dai primi formando un
gruppo separato. Analizziamo tre esempi di formule di autenticazione non datate, risalenti agli anni a cavallo fra Due e Trecento. Nella prima, Bertolino di
Morisseto dichiara di aver estratto un atto dal protocollo del fu magister Pietro
Ottolini, notaio eporediese, a tenore della «comissio et auctoritas»
rilasciategli
131
da Corrado Trosello, un tempo («olim») giudice di Ivrea .
Nella seconda, Giacomo, figlio di Giovanni Cane di Castellamonte, dichiara
di trascrivere un documento dalle imbreviature del132padre morto in virtù della
«comissio» ricevuta dal vescovo eporediese Alberto .
Infine, in un anno successivo al 1300, il «notarius episcopi» Bonaventurino di
Mantova copiava un atto dalle imbreviature di un altro notaio vescovile, il concittadino Rufino, dichiarando di autenticare la copia su ordine
del vescovo, in
133
virtù dell’auctoritas e della commissio da questi attribuitegli .
Di là dalla varietà sintattica, il lessico usato per esprimere i gesti compiuti
dalle autorità aventi competenze di garanzia sulla gestione delle imbreviature –
131
«Ego Bertolinus de Morixeto converssus civis Yporiensis imperialli auctoritate notarius publicus predictam abreviaturam extraxssi et in publicam formam instrumenti pressentis scripsi et exemplavi, ex
comissione et auctoritate michi concessa per discreptum virum dominum Conradum Trosellum olim iudicem … Yporegie, et sicut in dicto abreviario continebatur sic et in isto continetur exemplo» (Archivio di
Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 7). La medesima completio, con piccole variazioni, si ripresenta in altri atti estratti da Bertolino dai protocolli di Pietro Ottolini
(ibidem, n. 4 sg.).
132
«Ego Iacobus filius quondam Iohannis Canis notarii ex comissione michi facta a venerabili in Christo
patre domino fratre Alberto Yporiensi episcopo et comite hanc cartam ex imbreviariis quondam dicti
Iohannis patris mei scripsi et extrasi sicut in ipsis continebatur»: Archivio storico diocesano di Ivrea,
CXX-I-IM 109/317/1, p. 185 (1289). Giovanni Cane era ancora in vita nel 1293 (Le carte dell’Archivio
vescovile di Ivrea cit., II, p. 186 sg., doc. 441).
133
«Ego Bonaventurinus de Mantua notarius predicti domini episcopi predictam abreviaturam vidi et legi,
et prout in prothocollo quondam dicti Ruffini continebatur ita hic fideliter transcripsi, autenticavi et
exemplavi, de mandato et auctoritate domini episcopi supradicti, et ex comissione michi facta per eundem» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 194, doc. 445). Rufino da Mantova era ancora
attivo nel 1300, anno al quale risale un suo registro di imbreviature conservato in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-2-AM 299/300/1.
46
un funzionario comunale nel primo caso, il vescovo negli altri due – è, nei tre
esempi, identico: segno, questo, ancora una volta, dell’identità fra le
necessità autorappresentative di comune ed episcopio in quanto auctoritates documentarie.
Osserviamo ora, nei tre casi citati, l’uso del termine commissio. Nel
primo caso, si ha: «ex comissione … michi concessa per discreptum
virum dominum Conradum Trosellum olim iudicem … Yporegie».
L’espressione si riferisce, a quanto pare, a una commissio integrale dei
protocolli, effettuata in un momento anteriore e nettamente separato
rispetto a quello dell’estrazione del mundum: Corrado Trosello, infatti,
aveva operato la commissio al notaio in quanto «iudex» – cioè in quanto
funzionario comunale – ma alla data della trascrizione dell’atto egli non
esercitava più tale carica (si spiega così l’uso di «olim»). Nemmeno la
seconda formula di autenticazione contiene un vero e proprio praeceptum
auctenticationis, ma fa uno stringato riferimento a una commissio ricevuta dal vescovo: che si intenda esprimere, usando questo termine, un affidamento originario delle abbreviature anziché un mandato circoscritto
all’estrazione di un singolo documento? Tale impressione è ancora più
forte di fronte alla terza completio, in cui i due momenti sono ricordati
separatamente: «autenticavi et exemplavi de mandato et auctoritate domini episcopi supradicti et ex comissione michi facta per eundem».
Occorre insomma spiegare la presenza, alle soglie del secolo XIV, di
tali apparenti accenni a persistenti responsabilità del presule nell’affidamento di imbreviature di alcuni notai defunti ad altri tecnici della documentazione; e domandarsi perché, se a cavallo dei due secoli il vescovo
conservava responsabilità di questo genere – almeno limitatamente alle
imbreviature dei professionisti più legati all’episcopio – i riferimenti fatti
dai notai vescovili alle pratiche della commissio siano tanto ellittici, mentre quelli inseriti dai notai comunali nelle formule di autenticazione sono
espliciti e più circostanziati. La risposta a tali problemi deve essere ricercata, come vedremo fra poche pagine, nello sviluppo delle pratiche di
documentazione e di archiviazione in uso presso l’episcopio eporediese,
che a partire dall’insediamento del vescovo Alberto Gonzaga nel 1289
incominciarono a differenziarsi nettamente rispetto a quelle comunali.
47
4. Continuità e innovazioni: le prassi
della conservazione documentaria a
cavallo fra Due e Trecento
Autonomie documentarie sullo scorcio del Duecento
Negli ultimi decenni del Duecento, il comune di Ivrea formalizzò e
approfondì il proprio legame con il notariato eporediese. Nel 1289, la credenza cittadina emanava diversi provvedimenti relativi al rapporto fra il
134
comune e un «collegium notariorum» della cui formazione sono ravvisa135
bili alcuni indizi già nei decenni precedenti . Una norma in particolare,
136
relativa agli «atti da estrarre dai protocolli dei notai» , presenta una «rigida e minuziosa regolamentazione dell’iter burocratico e dei gradi successi137
vi di controllo dei registri notarili dopo la morte dell’autore» e colpisce
per la propria distanza rispetto al testo della concordia del 1236: manca,
infatti, ogni riferimento al vescovo quale detentore di un’auctoritas autenticatoria rispetto agli atti imbreviati. Auctoritas che è invece ascritta integralmente al comune e ai professionisti del settore, i notai. Come sottolinea
Fissore, tale situazione era l’esito dell’avvicinamento del notariato eporediese alle istituzioni laiche; un avvicinamento «da leggersi come punto culminante di un reciproco rafforzamento sulla base di esigenze solo parzialmente coincidenti, ma per il momento magnificamente cointeressate ad uno
138
sviluppo comune» . In quegli stessi anni aumentano le attestazioni esplicite di episodi di commissio dei protocolli di notai defunti esercitata dal
139
solo comune .
La mancata menzione, negli statuti comunali, del vescovo quale autorità
documentaria era anche espressione di una scelta politica. Al comune interessava presentarsi come istituzione garante dell’autenticità di tutte le scrit134
Statuti del comune di Ivrea, a cura di G. S. PENE VIDARI, Torino 1974 (Biblioteca della Società storica subalpina, CLXXXVIII), I, p. 50 sgg.
135
FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 87 sg.
136
Statuti del comune di Ivrea cit., I, p. 52 sg.
137
FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 83.
138
Op. cit., p. 88.
139
Op. cit., p. 83 sgg.
49
ture prodotte in seno alla civitas: nelle sue leggi, riferimenti a una persistente autonomia autenticatoria dei vescovi non potevano trovare posto.
D’altro canto, come si è visto, i praecepta auctenticationis con cui il vescovo Alberto Gonzaga disponeva, intorno al 1300, l’estrazione di munda da
protocolli di un notaio defunto non differivano di molto da quelli dei decenni centrali del secolo XIII: le espressioni usate dai notai per descrivere il
gesto d’autorità compiuto dai vescovi rimanevano sostanzialmente invariate. È vero che i notai attivi, fra il 1291 e il 1293, nella campagna di estrazione di munda dai protocolli di Giovanni Caldera, di Giacomo di Caluso
di altri notai, promossa dal vescovo Alberto, non inserirono in alcuno dei
relativi praecepta auctenticationis riferimenti all’assegnazione pubblica
delle imbreviature. Tuttavia, quell’insieme di praecepta privo di accenni a
interventi delle autorità laiche trasmette un’immagine del presule come
auctoritas autenticatoria autosufficiente, salva la prestazione tecnica dei
redattori delle copie. Ciascuna delle due istituzioni ambiva insomma a presentarsi quale detentrice esclusiva di una funzione autenticatoria che l’altra,
nella pratica, esercitava in sostanziale autonomia.
Osserviamo incidentalmente come anche altri soggetti, di minor rilievo,
abbiano saputo sfruttare la possibilità di presentarsi come compartecipi dell’autorità autenticatoria in occasione dell’estrazione di munda da protocolli di notai defunti. Intorno al 1260, il notaio Ardicione estraeva un documento dalle imbreviature di Bertolotto di Mazzè dietro precetto del vesco140
vo Giovanni e del conte di Mazzè, Ranieri di Valperga . Nel corso degli
anni Novanta, poi, Rufino di Mazzè raccoglieva in un’unica pergamena
141
quattro atti estratti dal protocollo del compaesano Bonifacio , relativi a beni
siti in Mazzè di proprietà del monastero di S. Stefano di Ivrea, in esecuzione
di un praeceptum ricevuto dal vescovo Alberto e dal conte Bonifacio, figlio di
142
Ranieri . A S. Stefano era parso utile che i negozi giuridici di cui facevano
memoria gli atti trascritti da Ruffino ottenessero un avallo plateale da parte dei
vertici del potere locale, in grado di proteggere i diritti del monastero nel terri-
140
Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Provincia di Ivrea, m. 14, doc. 7 (1257).
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non
numerato (1216, 1220, 1224): singoli documenti editi in Cartario dell’abazia di Santo Stefano cit., pp.
347-349, doc. 57 sg.; p. 353 sg.,doc. 63; p. 358 sg., doc. 68.
142
Fissore presenta Bonifacio di Mazzè come podestà di Ivrea, integrando nel testo del praeceptum le parole «potestatis Yporegie» (FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 77 sg., n. 33). In realtà, se
anche Bonifacio avesse effettivamente detenuto tale carica allorché emise il praeceptum, sarebbe ancor più
significativo il rifiuto di fare uso del proprio titolo, agendo esclusivamente come conte di Mazzè.
141
50
143
torio di Mazzè, espressi in quei documenti ; il conte sfruttò tale circostanza
per porsi al medesimo livello del vescovo quale garante dell’autenticità dei
documenti estratti dalle imbreviature del notaio defunto.
I notai vescovili e i loro protocolli sotto Alberto Gonzaga
Nel 1289, anno in cui compare la prima attestazione del «collegium notariorum» costituitosi sotto l’egida delle istituzioni comunali, Alberto Gonzaga si
insediò a Ivrea in qualità di vescovo. L’episcopato di Alberto coincise con la definitiva formalizzazione dei rapporti tra la chiesa eporediese e i notai attivi alle sue
dipendenze, consistente nella piena strutturazione di tale entourage notarile entro
144
i quadri di una ‘burocrazia’ vescovile , frutto di un’evoluzione le cui tracce sono
individuabili lungo tutto l’arco del Duecento. Un segnale di questa maturazione è
143
Sulla fragilità del patrimonio di S. Stefano di Ivrea nella seconda metà del secolo XIII, si veda A. FALOPPA, Un
insediamento monastico cittadino: S. Stefano d’Ivrea e le sue carte (secoli XI-XIII), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCII/1 (1995), p. 18 sgg.
144
Nel presente studio non possono trovare spazio – fatta eccezione per alcune puntuali digressioni – riflessioni
approfondite sui temi dei rapporti fra presuli e notai nella prima metà del secolo XIV (epoca durante la quale, un
po’ ovunque nell’Italia settentrionale, si assiste alla stabilizzazione delle strutture ‘di curia’) e delle responsabilità e
della strutturazione interna della curia vescovile eporediese durante gli episcopati di Alberto Gonzaga e dei suoi successori. I notai attivi per l’episcopio eporediese menzionati nelle prossime pagine non saranno caratterizzati, laddove possibile, se non attraverso le denominazioni professionali fornite da essi stessi o da colleghi contemporanei. Il
merito di avere avviato, in Italia, un dibattito di ampia portata sui notai di curia spetta a G. CHITTOLINI,
«Episcopalis curie notarius». Cenni sui notai di curie vescovili nell’Italia centro-settentrionale alla fine del medioevo, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, I, pp. 207-220, saggio che a
sua volta raccoglieva gli spunti offerti da BRENTANO, Due chiese: Italia e Inghilterra nel XIII secolo, Bologna
1972 (trad. it.). Tra gli studi dedicati a singole realtà locali, è da segnalare in particolar modo, perché dedicato in
parte ai meccanismi di formazione delle strutture di curia, ROSSI, I notai di curia cit., pp. 73-164. Altri saggi notevoli, relativi invece al periodo di maturo funzionamento delle curie vescovili, tra XIV e XV secolo, sono: E. PEVERADA, La «familia» del vescovo e la curia a Ferrara nel secolo XV, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà
del XVI secolo (Atti del VII Convegno di storia della Chiesa in Italia: Brescia, 21-25 settembre 1987), a cura di G.
DE SANDRE GASPARINI, A. RIGON, F. TROLESE, G. M. VARANINI, Roma 1990, pp. 630-659; M. LUNARI, «De mandato domini archiepiscopi in hanc publicam formam redigi, tradidi et scripsi». Notai di curia e organizzazione notarile nella diocesi di Milano (sec. XV), in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 49 (1995), pp. 486508; M. CAMELI, I notai con duplice nomina in una Chiesa ‘di frontiera’ nel XIII secolo: il caso ascolano, in
Chiese e notai cit., pp. 117-148; G. CAGNIN, «Scriba et notarius domini episcopi et sue curie». Appunti sui notai
della curia vescovile (Treviso, secolo XIV), in Chiese e notai cit., pp. 149-180. Riferimenti puntuali alle curie di varie
diocesi dell’Italia settentrionale sono presenti nei diversi contributi riportati in I registri vescovili dell’Italia settentrionale (secoli XIII-XV) (Atti del Convegno di studi: Monselice, 24-25 novembre 2000), a cura di A. BARTOLI
LANGELI, A. RIGON, Roma 2003, in particolare in G. BRUNETTIN, M. ZABBIA, Cancellieri e documentazione in registro nel Patriarcato d’Aquileia. Prime ricerche (XIII-XIV), pp. 327-372. Un pionieristico lavoro prosopografico, che dà conto delle fisionomie professionali dei notai operanti per una singola sede vescovile nel corso dei
secoli tardomedievali, è costituito dagli Atti della cancelleria dei patriarchi di Aquileia (1265-1420), a cura di I.
ZENAROLA PASTORE, Udine 1983, in cui i documenti, presentati in regesto, sono catalogati in base al notaio
estensore.
51
costituito dal moltiplicarsi dei registri correnti di documenti relativi all’episcopio.
Come abbiamo visto, già tra il 1258 e il 1263 un «Libro delle imbreviature dei
documenti della chiesa di Ivrea», cartaceo, era compilato dal notaio Giacomo di
145
Caluso : esso si distingueva dai normali registri notarili di imbreviature per via
dello specifico riferimento all’ente al quale gli atti ivi inseriti erano pertinenti.
Quello di Giacomo di Caluso è il solo registro superstite avente tali caratteristiche
e compilato prima dell’episcopato di Alberto Gonzaga; accanto a registri di questo
tipo persistevano i protocolli tradizionali, contenenti la totalità degli atti rogati dai
rispettivi proprietari, come liberi professionisti, in un certo lasso di tempo. Fu il
vescovo Alberto a dare impulso alla redazione di registri dedicati agli atti concernenti la chiesa eporediese, conferendo a tale prassi un carattere di sistematicità. Già
nei primi anni Novanta il mantovano Rufino produceva, con cadenza annuale,
fascicoli cartacei definiti ciascuno come «Libro delle imbreviature contenente gli
atti relativi ai beni della chiesa di Ivrea accensati dal venerabile padre frate Alberto,
per misericordia divina vescovo di Ivea e conte, scritto da Rufino di Mantova,
notaio pubblico» («liber prothocollorum continens instrumenta de rebus ecclesie
Yporiensis ad censum datis per venerabilem patrem dominum fratrem Albertum
miseratione divina episcopum Yporiensem et comitem, scriptusque per Roffinum
146
publicum notarium de Mantua») ; ne sono sopravvissuti tre, relativi rispettivamente agli anni 1291, 1293 e 1294. I tre libri hanno natura tematica e i loro incipit
esprimono una preponderanza del vescovo quale attore giuridico degli atti registrati: il notaio non indica i fascicoli come propri registri di imbreviature, ma presenta se stesso come semplice redattore anziché come proprietario dei protocolli. La produzione di registri tematici, riferiti a singoli ambiti dell’azione vescovile, si raffinò nel corso dell’episcopato di Alberto: nei primi due
decenni del Trecento furono redatti diversi libri collacionum, registri di con147
148
149
cessioni feudali , di accensamenti , di lettere rilasciate dal vescovo , di
145
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM272/298/1.
L. cit.
147
Per esempio, Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1: «Liber prothocollorum seu imbreviaturarum continens fidelitates et homagia et consignamenta prestita per vassallos Yporiensis ecclesie venerabili patri domino fratri Alberto, permissione divina episcopo Yporiensi et comiti, ac investituras factas eisdem vassallis per eundem
dominum episcopum de pheudis que tenent ab ecclesia supradicta, et scriptus per me Opeçinum dictum de Copavinis
de Mutina publicum imperiali auctoritate notarium et nunc domini episcopi supradicti et inceptus sub anno Domini
millesimo ducentesimo nonagesimo secundo, indictione quinta, apostolica sede vacante».
148
Per esempio, Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1: «Liber continens prothocolla seu instrumenta facta de rebus ecclesie Yporiensis ad censum datis, scriptus per me Opeçinum dictum de Copavinis de Mutina
imperiali auctoritate notarium et nunc venerabilis patris domini fratris Alberti miseratione divina episcopi Yporiensis
et comitis, inceptus sub ano Domini millesimo ducentesimo nonagesimo secundo, indictione quinta».
149
Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AM 308/311/2.
146
52
150
sentenze emesse dai vicari vescovili . Per il solo periodo di Alberto, ne
151
sopravvivono ben trentadue . Le origini mantovane di Alberto ebbero un
peso non secondario nell’adozione di tali pratiche documentarie: l’episcopio mantovano era da decenni all’avanguardia nella gestione degli atti
vescovili tramite registri .
Il cambiamento maggiore rispetto agli episcopati precedenti coinvolse la
base di reclutamento del notariato operante alle dipendenze del vescovo.
Alberto Gonzaga, il primo vescovo estraneo alla diocesi a occupare la cattedra eporediese dopo oltre ottant’anni, assegnò molti fra i principali incarichi funzionariali a individui provenienti da Mantova o appartenenti alla
153
propria familia . In seno all’entourage notarile dell’episcopio, il ricambio
fu massiccio. L’élite notarile eporediese – la cerchia, cioè, dei notai operanti per le istituzioni pubbliche della civitas – perdeva la propria unità: i
notai reclutati da Alberto erano quasi tutti forestieri e spesso gli erano legati da rapporti di dipendenza personali. Si trattava di notarii episcopi a tutti
gli effetti, privi di legami professionali con altri soggetti della civitas e attivi in
154
maniera tendenzialmente esclusiva al servizio dell’episcopio . I loro protocolli
erano considerati alla stregua di registri vescovili, contenenti esclusivamente
scritture relative all’amministrazione della diocesi e concepiti per restare, dopo
l’uscita di scena del loro primo estensore, a disposizione dei successivi notai di
curia.
Ciò spiega, tra l’altro, l’alto numero dei protocolli di notai vescovili, risalenti
all’episcopato di Alberto Gonzaga, conservatisi fino ai nostri giorni. I loro auto155
ri, se si escludono alcuni registri risalenti ai primi anni Novanta del Duecento ,
150
Archivio storico diocesano di Ivrea, VII-2-YM 316/318/1: «Liber scriptum per me Bonaventurinum de
Mantua notarium coram discreto viro domino Guillelmo de Strambino vicario domini episcopi Yporiensis et
comitis sub anno Domini millesimo CCCXVI, indictione VIIII».
151
Ciascuno è presentato analiticamente in BUFFO, I registri notarili cit., pp. 93-100.
152
Sulla documentazione in registro mantovana si vedano: G. GARDONI, I registri della chiesa vescovile di
Mantova nel secolo XIII, in I registri vescovili cit., pp. 141-187; ID., Notai e scritture vescovili a Mantova cit.,
pp. 51-86. Una panoramica della documentazione vescovile in registro nelle diverse diocesi piemontesi si ha
in A. OLIVIERI, I registri vescovili nel Piemonte medievale (secoli XIII-XIV). Tipologia e confronto, in I registri vescovili cit., pp. 1-42.
153
Il resoconto più esauriente di tale ristrutturazione dell’apparato funzionariale diocesano è in G. G. MERLO,
I vescovi del Duecento, in Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 271-273.
154
Può darsi che inizialmente essi non appartenessero nemmeno alla matricola dei notai cittadini (cfr. I documenti dell’archivio storico cit., p. 213, nota 38).
155
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 293/295/1 (protocollo personale di Giacomo Faber, con atti
compresi fra il 1292 e il 1295), VIII-1-AaM 288/305/1 (volume contenente un registro compilato, intorno agli
anni Novanta del Duecento, da Guglielmo di Santhià), CXCI-7-FM 272/298/1 (volume contenente imbreviature di Giovanni Cane di Castellamonte, datate fino al 1292).
53
facevano appunto parte di questo gruppo di notai forestieri, interessati, sotto gli
aspetti professionale e personale, da legami forti ed esclusivi con il vescovo
Alberto: Bonaventurino di Brunamonte da Mantova, «scriba domini episco156
pi» ; il suo concittadino Rufino di ser Airoldo, che si definisce notaio del vica157
158
rio diocesano Federico Gonzaga e familiaris del vescovo ; il «notarius …
159
domini episcopi» Opizzino dei Coppavini , originario di Modena; Giovanni
160
da Bergamo , il quale tra l’altro completò, aggiungendovi nuovi documenti
datati sino al 1317, l’imponente cartulario capitolare iniziato nel 1264 da
161
Giacomo Faber (il nostro Libro dei redditi). Trascurata e mal conosciuta da
Gabotto e dagli altri editori, poco nota anche agli studiosi di oggi, questa massa
di registri, molti dei quali sono anonimi o frammentari, attende uno studio e una
catalogazione generali che non possono trovare spazio nel presente lavoro.
Con il separarsi della burocrazia notarile incentrata sui vescovi dal resto dei
notai della civitas, le prassi della commissio dei protocolli di notai defunti non
costituivano più, dal punto di vista dell’episcopio, un terreno di concorrenza
con altre istituzioni pubbliche intese a presentarsi come garanti dell’autenticità
delle scritture giuridiche. Come abbiamo visto, i registri di imbreviature dei
nuovi notai di curia non erano prodotti per uscire dal palazzo vescovile; la loro
156
Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AM 308/11/2, f. 33 r. Di Bonaventurino resta una grande mole
di registri cartacei. Gli si possono attribuire con certezza, in quanto corredati dalla sua sottoscrizione, i quaterni compresi in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM 000/308/1 («Hec sunt imbreviature facte
[per] me Bonaventurino [de Mantua notarium]»), XII-4-AM 303/304/1; VIII-2-AM 308/311/1 («Liber prothocollorum continens strumenta Yporiensis ecclesie scriptus per me Bonaventurinus de Mantua imperiali auctoritate notarium»), VIII-3-AM 308/311/2 («Liber collacionum primum … scriptum per Bonaventurinum de
Mantua scribam»), VIII-3-AM 310/320/1, XII-4-AM 312/315/1, XII-5-AM 313/317/1 («Liber nonus
Bonaventurini de Mantua»), VIII-3-AM 315/316/1; VII-2-YM 316/318/1 («Liber scriptus per me
Bonaventurinum de Mantua notarium coram discreto viro domino Guillelmo de Strambino vicario domini episcopi Yporiensis et comitis»). Cfr. oltre, fig. 7.
157
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM 272/298/1, c. 1 r.
158
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 369, doc. 265. I registri sicuramente redatti da Rufino da
Mantova sono collocati in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM 000/308/1 («L[iber
prothoc]ollo[rum in quo] collatio[nes] et alia[…] instrumenta contin[entur… scriptus per me Rofinum] notari[um] de M[antua]»), CXCI-7-FM 272/298/1 (si tratta dei tre registri «de rebus ecclesies Yporiensis ad censum datis», risalenti agli anni 1291, 1293 e 1294, di cui si è detto sopra), VIII-1-AM 296/297/1, VIII-2-AM
299/300/1.
159
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 7, doc. 297. Due registri da lui compilati sono presenti in
Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1.
160
Fascicoli di imbreviature di Giovanni da Bergamo sono conservati in Archivio storico diocesano di Ivrea,
CXX-5-IM 310/312/1, CXX-6-IM 318/319/1, CXX-7-IM 321/322/1, CXX-8-IM 324/338/1.
161
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 55: «In nomine Domini amen. Liber sive registrum in quo continentur multa instrumenta donorum sive censuum ecclesie Sancte Marie Yporiensi pertinentium, scriptus per me Iohannem de Pergamo notarium infrascriptum».
54
circolazione dopo la morte degli estensori restava limitata al ristretto entourage dei tecnici dipendenti dall’episcopio. La commissio vescovile dei protocolli
di curia era ormai uno dei molteplici meccanismi che regolavano l’ordinario
funzionamento interno dell’amministrazione diocesana.
Altri soggetti conservatori di documentazione: comune e capitolo cattedrale
Sul fronte delle istituzioni laiche, il rafforzarsi del legame tra comune e notariato eporediesi non produsse, nell’ambito delle prassi di conservazione dei documenti, esiti paragonabili a quelli della riforma della burocrazia vescovile promossa da Alberto Gonzaga. È certo possibile che anche i notai attivi in ambito
comunale abbiano incominciato a produrre registri destinati sin dall’inizio a
restare a disposizione dei funzionari attivi, negli anni successivi, presso i diversi
uffici del comune; per esempio, elenchi di diritti fiscali del comune, redatti probabilmente come «promemoria per la riscossione di fitti e per l’imposizione del
162
fodro», sono attestati sin dagli anni Sessanta del secolo XIII . Tuttavia, a Ivrea
– così come nella maggior parte dei comuni e delle signorie italiani fra Due e
163
Trecento – la circolazione dei protocolli contenenti imbreviature di atti di pertinenza comunale continuò a seguire percorsi ben più tortuosi di quella dei registri vescovili, perché i notai comunali, diversamente da quelli reclutati per l’episcopio da Alberto Gonzaga, erano ancora anzitutto dei liberi professionisti. I loro
protocolli contenevano, senza particolari soluzioni di continuità, tanto atti di interesse pubblico quanto rogiti privati. Si pensi che un analogo problema interessava anche i Savoia, i quali avrebbero faticosamente ottenuto, qualche decennio più
tardi, che i propri notai redigessero protocolli separati per i due gruppi di docu164
menti . Dopo la morte del redattore, i protocolli dei notai comunali continuavano a circolare come una proprietà privata fra gli eredi, che li usavano per estrar-
162
PANERO, Il "Libro rosso" cit., p. 55 sg.
Per una sintesi sull’argomento cfr. A. BARTOLI LANGELI, La documentazione negli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle
città dei secoli XII e XIII, a cura di G. ALBINI, Torino 1998, p. 161, nota 25; O. BANTI, Ricerche sul notariato a Pisa tra il secolo XIII e il secolo XIV. Note in margine al «Breve collegii notariorum» (1305), in ID.,
Scritti di storia, diplomatica ed epigrafia, a cura di S. P. P. SCALFATI, Ospedaletto 1995, I, p. 416 sg.; M.
BERENGO, Lo studio degli atti notarili dal XIV al XVI secolo, in Fonti medievali e problematica storiografica (Atti del Congresso internazionale per il 90° anniversario dell’Istituto storico italiano per il medioevo:
Roma 1973), I, Roma 1976, pp. 152-154.
164
Cfr. A. BARBAGLIA, Antoine Beczon. Un notaio comitale nella Savoia del Trecento, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIII/1 (1995), p. 61 sgg.
163
55
ne a pagamento munda a beneficio dei soggetti che avevano stipulato gli atti:
poteri laici, enti religiosi, istituzioni pubbliche e persone private. Probabilmente
anche a Ivrea – come è attestato, nel medesimo periodo, per il caso bolognese –
molti di quei registri si concentravano, col tempo, in un numero limitato di studi
notarili, i quali «sembra agissero quali punti di raccolta delle scritture dei colle165
ghi defunti» .
I correttivi impiegati dalle istituzioni comunali per impedire la perdita delle
scritture di proprio interesse erano di due tipi. Da un lato, il comune di Ivrea continuò a fare un ampio ricorso alla copia dei propri atti entro libri iurium, soprattutto prima della sottomissione ai Savoia (1313). Come abbiamo visto, si trattava
di una prassi ‘tradizionale’ di conservazione della memoria documentaria, atte166
stata per il comune eporediese sin dall’inizio del Duecento . Per quanto ne sappiamo – il tasso di dispersione documentaria è altissimo – una prima fase di produzione di codici contenenti copie di documenti riguardanti il comune di Ivrea
167
coincise con i primi tre decenni di quel secolo . Una seconda fase deve essere
invece collocata negli anni a cavallo fra Due e Trecento; anni in cui furono prodotti almeno tre libri iurium a carattere tematico, ciascuno dedicato ai rapporti fra
il comune di Ivrea e un diverso soggetto politico. Nessuno fra questi codici è
sopravvissuto, ma se ne conserva notizia nell’inventario dell’archivio comunale
168
redatto nel 1477 . Apprendiamo così che nel 1296 il notaio Francotto dell’Olmo
produsse per il comune un piccolo registro di otto fogli, contenente le copie
autenticate degli atti stipulati in diversi tempi fra le istituzioni comunali eporediesi e i signori di Settimo (oggi Settimo Vittone), in perenne contrasto giurisdi169
zionale con il comune ; nel 1300 era invece redatto un «liber dequaternatus»
170
contenente copie dei patti con i conti di San Martino e di Castellamonte ; nel
1308, alcuni accordi fra il comune di Ivrea, il marchese Bonifacio II di
Monferrato e diversi signori del Canavese erano copiati in forma autentica dal
165
Commissioni notarili. Registro (1235-1289), a cura di G. TAMBA, in Studio bolognese e formazione del notariato (Atti del convegno: Bologna, 6 maggio 1989), Milano 1992, p. 202.
166
PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 53 sgg.
167
Op. cit., p. 55.
168
Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1, cat. 47, n. 2805. Cfr. oltre, fig. 1
169
«Item quinternum unum bergameni in quo sunt octo folia continentie de pactis et conventionibus ac obligationibus in quibus suberant nobiles Septimi Vitoni erga comune et homines civitatis Ypporegie in castro dicti loci
Septimi, subscriptum ad formam auctentici per multos notarios, in capite vero et in fine est subsciptum et tabellionatum manu Franchoti de Ulmo, sub die secunda septembris MCCLXXXXVI» (ibidem, c. non numerata).
170
«Item librum unum dequaternatum sine assidibus in quo sunt trigintaquatuor folia continentie de pactis celebratis inter comune et homines Ypporegie ac comites Sancti Martini, in quo libro etiam sunt multa instrumenta et
consignamenta facta per ipsos nobiles de Sancto Martino et etiam nobilium de Castromonte, subscripta [manu]
diversorum notariorum, inceptum videlicet sub die veneris prima iulii MIIIC» (ibidem, c. non numerata).
171
«Item quinternum unum bergameni in quo sunt duodecim folea continentie de pactis et conventionibus celebra-
56
171
notaio Uberto Grassi entro un registro di dodici fogli . Tale campagna documentaria coincise, tra l’altro, con una fase di potenziamento del controllo
172
sul districtus cittadino da parte delle istituzioni comunali .
L’altra prassi utile a garantire il controllo del comune sulla memoria scritta dei
propri negozi giuridici era l’affermazione di un’autorità sulla gestione dei protocolli di imbreviature; tale prassi fu perseguita, come si è visto, attraverso il perfezionamento dei meccanismi della commissio comunale dei protocolli, che
esprimevano la subordinazione dell’uso delle imbreviature di notai morti all’auctoritas delle istituzioni laiche. Pertanto, mentre in seno alla burocrazia vescovile
la commissio era ormai una mera formalità, per i notai dipendenti dal comune
continuava a essere importante, sia sul piano ideologico sia su quello pratico,
enfatizzare gli accenni a quella procedura: ciò spiega le diverse scelte lessicali
tis inter illustrem dominum Bonifatium marchionem Montisferrati nobilesque Canepitii ex una parte ac comune
Ypporegie ex altera, subscriptum per multos notarios in fine quinterni et subscriptum manu Uberti Grassi, receptum sub die IIII decembris MIIICVIII» (ibidem, c. non numerata).
172
BUFFO, La cogestione cit., pp. 220-228, 242-248.
173
Mi limito a citare due casi, benché non del tutto pertinenti, di praecepta auctenticationis nei quali le azioni che
il comune compie come auctoritas autenticatoria sono descritte nel dettaglio. Il primo, del 1292, è relativo a un
antico cartulario del monastero di S. Stefano, ed è indirizzato al notaio Vercellino Barale, il quale potrà estrarne
munda su istanza dell’abate: «Anno Domini millesimo CCLXXXXII, … in palacio comunis Yporegie, …
Coçonus Peluchus iudex et assessor domini potestatis Yporegie et Canapicii precepit michi Vercellino Barali notario infrascripto quatenus condam librum scriptum per Perrotum Ottolinum notarium et subscriptum et attestatum
per Franchotum de Ulmo notarium et per Perrotum de Pagano notarium, quod liber incipit sic “In nomine Domini
nostri Iesu Christi amen et cetera” et finit sic “ego Perrotus Ottolinus notarius publicus et filius Ermençone civis
Yporegie auctenticum huius exempli seu predictum librum antiquum vidi et legi et cetera”, auctenticarem in toto
et in parte, semel et pluries et quolibet capitulo per se et quamlibet aliam petiam terre per se ad voluntatem domini Iacobi abbatis monasterii Sancti Stephani Yporiensis seu ceter[orum monachorum] dicti monasterii si fuerit
opportunum et in formam publici instrumenti redigerem; et de quo precepto constat instrumentum scriptum per
Benedictum de Rucha notarium communis Yporegie sub eadem incarnatione, indictione et die et loco et testibus
et cetera»; l’escatocollo recita: «Ego Vercellinus Baralis notarius comunis Yporegie exemplum huius novi exempli vidi et legi, et sicut in ipso continetur sic in isto novo continetur exemplo, et hanc cartam scripsi de precepto
dicti domini potestatis, nichil addito vel diminuto quod mutet sensum. Incarnatio cuius libri veteri est millesimo
CLXXIIII, indictione secunda, et cetera» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie,
Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 26). Il secondo caso fornisce un esempio assai chiaro della traduzione, sul piano pratico, dell’incontro fra autonomia del collegio notarile e autorità documentaria comunale espresso in forma teorica
negli statuti del 1289. Si tratta del praeceptum auctenticationis rilasciato nel 1338 dal comune al notaio Martinus
de Ulmo, figlio di Franchotus, per l’estrazione in mundum di un atto dai protocolli del padre: «in palacio comunis civitatis Yporegie et presentibus testibus Iacobo de Monte de Padono, Georgio Grasso et Henrieto Bonardo
notario civibus Yporegie et aliorum, ibique dominus Iohannes de Platis de Blandrate iudex et assessor nobilis viri
domini Petri Vituli de Rubeomonte militis et vicarii civitatis Yporegie et districtus precepit et comissit michi
Martino de Ulmo notario infrascripto quatenus ad instanciam et requisitionem Stephani filii condam Peroti
Batagle de Claveirano civis Yporiensis […] Ysabelle filie condam Philippi Fornerii civis Yporegie et nomine
ipsius Ysabelle tamquam coniuncta persona requirentis infrascriptum instrumentum censarie reperto in protocollis Franchoti de Ulmo condam patris mei et scriptum per manum suam extraherem et in publicam formam reddigerem, vissa prius et examinata literam ipsius protocolli et instrumenti per plures notarios de collegio notariorum
civitatis Yporegie dicentum et protestantum coram dicto domino iudice quod dictum protocollum et instrumentum vere est de litera dicti patris mei, et predicta comissio facta fuit in presentia et de licentia Henrioti de Sylono
57
173
adottate dai due gruppi di notai nelle formule di autenticazione delle copie .
Precocemente legate a quelle delle scritture comunali furono le vicende
archivistiche della confraria eporediese dello Spirito Santo, che già nel
174
Quattrocento risultavano riversate entro l’archivio del comune . Questa
società pia, che già nella seconda metà del secolo XIII aveva disposto la
copia dei documenti attestanti i propri diritti patrimoniali entro un piccolo
175
cartulario pergamenaceo , incominciò, almeno dal 1306, a tenere serie di
registri correnti cartacei, oggi scomparsi, contenenti liste di canoni dovuti
176
alla confraria .
È ora necessario dedicare qualche parola alle prassi di conservazione
della memoria adottate da un altro importante soggetto politico della civitas, il capitolo della cattedrale: il gruppo dei chierici officianti presso la
chiesa cattedrale, dotato di un patrimonio proprio – frutto, in prevalenza,
177
dell’accumularsi di legati pii – e pertanto anche di un proprio archivio .
Nei decenni centrali del Duecento, il capitolo si servì di un gruppo di notai
‘di fiducia’, appartenenti a quell’élite notarile che, come già abbiamo osservato, operava allora indistintamente alle dipendenze di episcopio e comune.
Il principale professionista attivo per il capitolo nella seconda metà del
178
duecento fu Giacomo Faber . Giacomo, che morì intorno al 1300, ebbe
179
una lunga carriera, che siamo in grado di seguire per un cinquantennio ;
durante questo periodo fu attivo, oltre che per il capitolo, anche per i vescovi e per il comune di Ivrea. Nel 1264, Giacomo riceveva dal vescovo eletto
Federico di Front il compito di stendere un cartulario attestante le rendite e
gli altri diritti spettanti al capitolo. Si tratta della parte più antica del Libro
sindici monasterii et cobventus Sancti Stephani Yporiensis» (Archivio di Stato di Torino, Corte ,
Materie Ecclesiastiche, Abazie, Ivrea S. Stefano, m.5, doc.).
174
In un inventario dell’archivio comunale redatto nel 1491 è presente una sezione dedicata alle scritture
della confraria (Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1, cat. 47, n. 2807, cc. non numerate).
175
Edito in Cartario della confraria del S. Spirito cit. Cfr. oltre, fig. 2.
176
Se ne conserva notizia negli inventari quattrocenteschi dell’archivio comunale: «Item librum unum confrarie, compillatum sub anno domini MCCCVI, cum aliis pluribus simul annexis, in quibus continentur
debitores dicte confrarie usque ad annum MIIICLXXXIX, indicione XII, cum instrumentis XXVII in bergameno insertis per modum quinterneti in principio dicti libri» (Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1,
cat. 47, n. 2807, cc. non numerate)
177
Sul tema cfr. CAMMAROSANO, Italia medievale cit., pp. 55-61.
178
Cfr. sopra, nota 120.
179
Oltre alle numerose pergamene, edite e inedite, di Giacomo sopravvivono protocolli di imbreviature relativi agli anni 1256-1263 (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 256/263/1) e 1292-1295
(Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 293/295/1).
58
dei redditi, al quale saranno dedicati i prossimi due volumi della presente
opera; limitiamoci qui ad anticipare che Giacomo produsse, in quell’occasione, un registro di altissimo livello, sia per il suo aspetto grafico sia per la raffinatezza delle tecniche autenticatorie: il testo di ogni atto è corredato da un’imitazione del signum tabellionis dell’autore dell’originale ed é seguito da un
rimando sintetico al praeceptum auctenticationis ricevuto dall’eletto (praecep180
tum illustrato, in forma più ampia, all’inizio del cartulario) . Giacomo era uno
specialista dell’autenticazione di documenti in copia e come tale fu riconosciuto
sia dall’episcopio sia dal comune. Gli furono infatti affidati, in tempi diversi, i
protocolli di ben tre notai defunti: tra il 1271 e il 1276, la «curia regia» di Ivrea
181
gli assegnava, come si è detto, le imbreviature di Giovanni Caldera ; verso la
seconda metà dello stesso decennio riceveva congiuntamente da «ecclesia et
182
commune Yporegie» le imbreviature di Bernardo di Carnario ; nel 1300, infine,
risultava in possesso dei protocolli di Guglielmo Caldera, in virtù di una com183
missio il cui autore, non precisato nel testo, dovette essere il comune .
Inizialmente, il capitolo non risentì delle novità introdotte in ambito vescovile
da Alberto Gonzaga e continuò a servirsi di notai eporediesi – quali, appunto, lo
stesso Giacomo Faber – attivi come liberi professionisti anche per altri soggetti.
A questo gruppo si unirono, a inizio Trecento, notai forestieri, quali Giovanni da
Bergamo, privi di un vero rapporto funzionariale con il capitolo – paragonabile
a quello proprio dei notai di Alberto Gonzaga con l’episcopio – ma caratterizzati da un legame professionale quasi esclusivo con i canonici della cattedrale. A
motivo della tarda ricezione delle innovazioni provenienti dall’entourage notarile dell’episcopio, il capitolo continuò a lungo a servirsi, al pari del comune, di
prassi più tradizionali di salvaguardia della memoria scritta, quali la copia di atti
entro cartulari. Del codice del 1264 si è già detto; intorno al 1320, poi, i canonici commissionarono a Giovanni da Bergamo la copia entro un nuovo registro –
quello che costituisce ora la seconda parte del Libro dei redditi – di un numero
180
«(ST) Anno dominice nativitatis millesimo ducenteximo sexagessimo quarto, inditione septima, die mercurii, XIIII intrantis mensis madii, in palatio ecclesie Sancte Marie Yporiensis, presentibus testibus domino
Andrea capellano et Rothefreydo de Pertuxio et magistro Iacobo notario de Caluxio et pluribus aliis.
Dominus Fredericus de Fronte, Dei gratia ecclesie Yporiensis electus, precepit michi Iacobino notario infrascripto ut infrascripta instrumenta pertinentia ad ecclesiam et capitulum Yporiensem in presenti libro autenticarem et exemplarem et in publicam formam reddigerem» (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-IIM 109/317/1). Cfr. oltre, fig. 4.
181
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. non numerata (1268).
182
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato (1273).
183
Le carte dell’Archivio capitolare d’Ivrea cit., p. 218, doc. 191.
184
Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1. Cfr. oltre, fig. 5.
59
184
piuttosto elevato di documenti . Contestuale alla produzione dei cartulari
fu la redazione di obituari, nei quali erano riportati i giorni della morte dei
donatori di legati pii al capitolo, giorni in cui i canonici erano ritenuti a
185
celebrarne una messa di suffragio . Nel 1357, infine, l’intero patrimonio di
186
pergamene sciolte dell’archivio capitolare fu riordinato e inventariato .
185
I necrologi del capitolo di Ivrea, a cura di G. BORGHEZIO, Torino 1925 (Biblioteca della Società storica subalpina, LXXXI/1).
186
Di quell’impresa è testimonianza un grande inventario cartaceo, mutilo, di 380 pagine (Archivio storico
diocesano di Ivrea, LXI-1-IM200/350/1).
60
5. Istituzioni e notai in un’età di crisi
Le prassi legate all’affidamento delle imbreviature di notai defunti a tecnici pubblicamente designati sono menzionate, nei munda da esse ricavati, per
lo più in situazioni di difficile controllo sulle imbreviature stesse da parte dell’istituzione alla quale gli estensori dei munda fanno capo: episodi di rivendicazioni contrapposte da parte di comune ed episcopio o dispersioni documentarie dovute a interferenze tra gli incarichi funzionariali e l’attività privata dei notai roganti. Si trattava di una gamma di strumenti estremamente flessibili, adatti a far fronte alle evenienze più disparate ma, come si è visto, perfettamente padroneggiati dai professionisti che ne fanno uso.
Il comune vide nella formalizzazione delle procedure di commissio una
efficace garanzia contro la persistente fragilità del vincolo professionale tra
l’istituzione e i suoi funzionari: uno strumento indispensabile per «interrompere gli automatismi della totalizzante prassi notarile» – che avrebbe
altrimenti coinvolto le imbreviature degli atti di interesse comunale nei tortuosi circuiti dell’uso privato da parte di liberi professionisti – «modifican187
dola a favore degli interessi amministrativi del comune» . Come si è già
rilevato, si trattava di necessità proprie della maggior parte dei comuni ita188
liani , che a Ivrea emersero in epoca avanzata, in concomitanza con la
relativamente tarda stabilizzazione delle strutture corporative dei notai.
Il fatto che i notai di ambito vescovile cessino, a partire dalla fine del
Duecento, di fare esplicito riferimento alle modalità della commissio dei
protocolli da parte dell’episcopio non rivela, di per sé, un disinteresse per
questa fase della documentazione, posta ormai sotto la responsabilità delle
istituzioni laiche. Tale situazione sarebbe, del resto, in contrasto con il
generale orientamento ideologico dell’episcopio a cavallo fra Due e
Trecento, inteso, come vedremo, a riportare in primo piano le prerogative
di natura pubblica spettanti alla cattedra eporediese. Le menzioni della
commissio dei registri scomparvero dai documenti dei notai vescovili sem-
187
G. G. FISSORE, Alle origini del documento comunale: i rapporti fra i notai e l’istituzione, in Civiltà
comunale: libro, scrittura, documento (Atti del Convegno dell'Associazione Italiana dei Paleografi e
Diplomatisti: Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989, p. 128.
188
Ben più precoci, tra quelli che hanno ricevuto studi approfonditi, i casi di Bologna (G. TAMBA, Teoria
e pratica della ‘commissione notarile’ a Bologna nell’età comunale, Bologna 1991) e di Asti (FISSORE,
Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca cit., p. 159 sgg.).
61
plicemente perché i presuli, a cominciare da Alberto Gonzaga, scelsero di
adottare un diverso strumento per vincolare a sé la produzione notarile in
registro. Tale strumento consistette nella graduale sostituzione del tradizionale apparato di notai eporediesi legati professionalmente ai vescovi con un
nuovo gruppo di professionisti, il cui legame con i presuli era di natura personale. I vescovi si creavano, in un certo senso, un ‘proprio’ notariato, separato dal resto dei professionisti operanti in seno alla civitas e incapace di contrapporre all’istituzione di riferimento un’autonomia paragonabile a quella di
cui il collegium notariorum eporediese godeva rispetto al comune. Questa
politica non era del tutto nuova: già dall’inizio del Duecento l’episcopio, interessato a indirizzare in senso funzionariale i rapporti con i maggiori notai attivi alle proprie dipendenze, aveva cercato di istituire con essi legami persona189
li, attraverso la concessione di benefici di vario genere ; possiamo semmai
affermare che l’insediamento del mantovano Alberto Gonzaga abbia radicalizzato e accelerato il processo, rendendolo irreversibile.
Soltanto al compiersi di tale avvicendamento fra cerchie notarili si può
affermare che i due ambiti documentari che sono stati al centro della nostra
trattazione, quello ‘comunale’ e quello ‘vescovile’ (ma la dicotomia è riduttiva), in forte osmosi per tutto il Duecento, si siano separati del tutto, perché affidati a due gruppi distinti di notai. Non si può invece sostenere che,
contestualmente a tale trasformazione, sia venuto meno l’interesse dell’episcopio a presentarsi come auctoritas pubblica superiore in grado di
surrogare l’auctoritas degli estensori defunti dei documenti, garantendo il
corretto tramandarsi, nel tempo, della memoria delle azioni giuridiche da
essi registrate; semmai tale aspirazione fu circoscritta alle scritture redatte
dai notai vescovili.
Lessico documentario e prerogative ‘comitali’ dell’episcopio
L’evoluzione dei rapporti fra notariato e istituzioni pubbliche intorno al
1300 risulterà più comprensibile se posta in rapporto con i paralleli sviluppi politici e istituzionali del contesto eporediese. Come si ricorderà, dagli
anni Settanta del secolo XIII Ivrea e il suo districtus erano stati sottoposti
190
al dominio dei marchesi di Monferrato ; dopo la morte in prigionia del
marchese Guglielmo VII (1292), il comune e l’episcopio eporediesi aveva189
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 886 sg.
Cfr. sopra, nota 25.
190
62
191
no rinnovato (1294) i patti di dedizione con il figlio Giovanni . Morto
anche quest’ultimo, senza eredi diretti, nel 1305, la città si svincolò dalla soggezione ai Monferrato e, malgrado una breve fase di riavvicinamento ai marchesi, conservò una piena autonomia sino al 1313, anno della dedizione ai
192
Savoia . Il periodo 1292-1313 coincise con una fase di accentuata conflittualità politica e di forte crisi dei rapporti istituzionali fra comune ed episcopio. Nel 1307, le due istituzioni erano in contrasto a motivo delle diverse politiche adottate nei confronti del nuovo marchese, Teodoro Paleologo: da un
193
lato, il comune aveva allacciato con Teodoro rapporti di prossimità politica ;
dall’altro, Alberto Gonzaga era su posizioni nettamente antimonferrine,
soprattutto per via di alcune giurisdizioni signorili che Teodoro contendeva
194
alla mensa vescovile nel Chivassese e in altri luoghi . Nel 1310, poi, il comune – il quale, in virtù di un accordo risalente addirittura al 1200, deteneva tre
195
quarti dei terreni comuni della civitas in feudo dal vescovo – rifiutò di prestare ad Alberto Gonzaga il dovuto omaggio e tentò di cedere parte delle pro196
prie porzioni di communia a concessionari privati . La questione si risolse
nello stesso anno con un arbitrato che, abolendo le norme del 1200, riconobbe il carattere allodiale dei tre quarti dei terreni comuni spettanti alle istitu197
zione laiche e impose al comune di rilasciare al presule il restante quarto .
191
I Biscioni cit., II/3, p. 191 sgg., doc. 598/i.
Una sintesi di quegli eventi è in BUFFO, La cogestione cit., pp. 232-239.
193
Nel 1306 era insediato, presso il castello urbano di San Maurizio, un podestà monferrino, Aichino di Rivoli
(Le carte dell’Archivio capitolare di Ivrea cit., p. 219, doc. 193); nel 1307 si insediava come podestà in Ivrea
Oliviero della Torre, appartenente a una famiglia alleata di Teodoro Paleologo (Le carte dell’abbazia di S.
Stefano cit., p. 385, doc. 92; Le carte dell’Archivio capitolare di Ivrea cit., p. 220 sg., doc. 195; cfr. PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 957).
194
Almeno a partire dal 1227 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 164, doc. 118), i Monferrato tenevano in feudo dall’episcopio eporediese la giurisdizione su diversi luoghi appartenenti all’area meridionale della
diocesi di Ivrea, a cavallo del Po, tra i quali Chivasso, Castagneto, Verolengo, San Giorgio. L’investitura fu confermata a Bonifacio II nel 1228, a Margherita, madre del minorenne Guglielmo VII, nel 1254 e a Guglielmo VII
stesso nel 1257 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Ivrea, m. 1, n. 1). Una volta acquisito il controllo del
marchesato, Teodoro non prestò ad Alberto Gonzaga la fedeltà dovutagli per le giurisdizioni in questione, come
risulta dall’atto con quale Alberto, nel 1318, ne investiva l’eporediese Andrea «de domino Andrea», in cui si
specifica che il «feudum tenetur adhuc occupatum contra Deum et iusticiam per dominum Theodorum filium
domini imperatoris Grecorum, qui se appellat marchionem Montisferrati, qui numquam voluit cum predicto
domino episcopo de investitura predicti feudi in aliquo concordare» (ANSALDI, Nuovi documenti cit., p. 14 sg.,
doc. 4).
195
Cfr. PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 925 sgg.
196
Sul tema cfr. M. GAJ, Un’assegnazione di terre comuni all’inizio del Trecento, in «Bollettino
dell’Associazione di storia e arte canavesana», 8 (2008), pp. 71-134.
197
Gli atti relativi alla contesa, editi in BUFFO, La cogestione cit., pp. 293-299, sono conservati in Archivio stob
rico diocesano di Ivrea, LXXXII-2-I M 312090.
192
63
Tanto l’affievolirsi (sotto Giovanni I di Monferrato) o addirittura l’assenza (dopo
il 1305) del controllo sulla città da parte di poteri esterni quanto il parallelo inasprirsi del contrasto, appena descritto, fra le due istituzioni urbane indussero
comune ed episcopio a enfatizzare, nei testi prodotti dai rispettivi notai, i riferimenti alla propria funzione di autorità pubblica superiore in seno alla civitas. Per
esempio, nei testi comunali relativi alla cessione dei terreni comuni a privati si
pose in rilievo come proprio il fatto di poter alienare i communia fosse indice del
198
totale controllo comunale su quei beni pubblici . Alberto Gonzaga, invece, insistè sulla connotazione comitale dei diritti dell’episcopio; rivendicazione che si
espresse con maggiore efficacia proprio nell’ambito delle prassi documentarie.
Come abbiamo visto, nelle formule di autenticazione di testi copiati dai notarii
episcopi a partire da protocolli di notai defunti all’inizio del XIV secolo persistevano riferimenti all’auctoritas autenticatoria vescovile assimilabili a quelli presenti nei documenti prodotti per l’episcopio nel corso del Duecento. In quegli anni,
i più interessanti tentativi di affermazione di un’auctoritas documentaria autonoma da parte dei vescovi riguardarono tuttavia altre prassi. Osserviamo, in particolare, tre contratti stipulati fra il chierico Ugonino Solero e il convento, recentemente fondato, di S. Chiara di Ivrea; gli atti risalgono al biennio 1302-1303 e furono redatti dal notaio Francotto dell’Olmo. Nel primo documento, del 10 dicembre
1302, Ugonino promette di corrispondere al convento una somma di 375 lire di
imperiali. La narratio iniziale contiene un riferimento ad Alberto Gonzaga, presentato con la titolatura consueta di «episcopus Yporiensis et comes»; come si è
visto, sotto Alberto – in un contesto di soggezione del territorio eporediese ai marchesi di Monferrato – l’aggettivo «Yporiensis» era stato posposto a «episcopus»,
eliminando ogni nesso fra il titolo comitale e la città di Ivrea. Al termine dell’atto,
la funzione del vescovo cresce improvvisamente di importanza: Ugonino, «per la
maggiore utilità e certezza di questa donazione … e per maggiore sicurezza delle
sorelle e del convento di S. Chiara», richiede ad Alberto, che ora è detto «episcopus et comes Yporiensis» e «iudex ordinarius», di «insinuare et confirmare» l’atto appena stipulato; il presule, intervenendo con «suam auctoritatem et suum
199
decretum», ratifica quanto stipulato fra le due parti . Negli altri due atti – sono
198
BUFFO, La cogestione cit., pp. 252-255.
«Et item ipse dominus Ugoninus clericus Yporiensis, ad maiorem cautelam, utilitatem et firmitatem presentis
donacionis facte inter vivos et ad maiorem securitatem dictarum sororum et conventus Sancte Clare de Yporegia,
dictum dominum fratrem Albertum, Dei gratia episcopum et comitem Yporegie et iudicem ordinarum, cum
instancia requisivit quatenus dictam donacionem et contractum dignaretur insinuare et confirmare et hiis omnibus suam auctoritatem et suum decretum et ecclesie Yporiensis interponere. Unde ipse dominus episcopus,
cognoxens hec omnia esse Deo accepta et in salutem animarum redundare, ad requisicionem dicti domini
Hugonini … ut melius et solepnius potuit dictam donacionem et donaciones insinuavit et suam auctoritatem et
199
64
pervenuti in copia tarda ma il testo è da ritenersi attendibile sia sul piano formale sia su quello contenutistico – la prassi si ripete, ma Ugonino, infermo, richiede e ottiene l’«insinuatio» dell’atto tramite un proprio procuratore. In uno dei due
documenti Alberto, designato come vescovo nelle altre parti del testo, procede
alla conferma nella semplice qualità di «comes Iporegiensis» e «iudex ordinarius
200
ipsius … Hugonini» .Questi tre atti, relativi a una fondazione religiosa promossa e finanziata da Alberto nel quadro dell’affermazione della presenza mino201
ritica in Ivrea , sono fra le massime espressioni documentarie dell’ideologia
‘comitale’ affermata da Alberto Gonzaga nel primo decennio del secolo XIV. Il
notaio Francotto, che abbiamo già incontrato e del quale parleremo meglio in
seguito, sfruttò le proprie raffinate competenze giuridiche per presentare il vescovo come detentore esclusivo dei diritti di ascendenza pubblica sulla civitas, della
quale era «conte» e «giudice ordinario». Funzioni che gli garantivano il potere di
«insinuare», «confirmare», «roborare» – tutti termini, questi, provenienti dal lessico del diritto pubblico e della prassi cancelleresca – gli atti stipulati entro la
propria giurisdizione, sommando la propria auctoritas a quella, non posta in
discussione, del notaio e garantendo al negozio una più sicura validità, nel presente e nei tempi futuri. Peraltro, l’immagine estremamente artificiosa delle prerogative vescovili contenuta nei testi di Francotto era troppo ardita e troppo
distante dagli effettivi assetti istituzionali della civitas per poter trovare seguito
presso altri notai.
Autonomie autenticatorie contrapposte
Lo stesso intento di legittimazione che pervadeva le sperimentazioni di
Francotto quale notaio al servizio del vescovo è avvertibile nella ripresa, da parte
dell’episcopio, di alcune prassi documentarie, inusuali per il XIV, che implicavano una forte connotazione in senso pubblico dell’autorità emanante. Si pensi
alla rinnovata produzione di documenti solenni – i diplomatisti li chiamano
«documenti ibridi», perché, pur essendo prodotti da notai, la loro struttura si ispi202
rava a quella dei diplomi cancellereschi – simili per alcuni versi ai diplomi
suo decretum et ecclesie Yporiensis interposuit et ea omnia et singula laudavit et confirmavit et coroboravit et
aprobavit et ratificavit et hiis omnibus et singulis consensit» (BUFFO, Cronaca di una fondazione cit., doc. 10)
200
Op. cit., doc. 11.
201
BUFFO, Cronaca di una fondazione cit.; F. QUACCIA, I Francescani a Ivrea: dalle origini al secolo XVI, in
C. BERTOLOTTO, P. BUFFO, S. COPPO, F. QUACCIA, C. TOSCO, Il convento di San Francesco a Ivrea.
Storia, arte e architettura, Ivrea 2011, pp. 1-8.
202
Un testo di riferimento sui documenti ibridi è P. CANCIAN, La memoria delle chiese. Cancellerie vescovili
e culture notarili nell’Italia settentrionale (secoli X-XIII), a cura di P. CANCIAN, Torino 1995.
65
emanati dai vescovi eporediesi sino al secolo XII. Nell’aprile 1296, Alberto
Gonzaga aveva pronunciato un arbitrato fra il comune di Ivrea e i signori di
Settimo, nel contesto di una lite per la giurisdizione sui territori di Settimo e di
alcuni abitati vicini. La sentenza aveva accordato la giurisdizione al comune,
interessato a costruire in quella zona un borgo nuovo, facendo però salvi molti
203
dei diritti di banno già spettanti ai domini . L’anno successivo, sempre nel quadro di tale passaggio di poteri, sia il vescovo sia il comune, a distanza di poco più
di un mese l’uno dall’altro, fecero redigere ai rispettivi funzionari una copia
autenticata di un atto di Giovanni «de domino Aymone», risalente al 1234 e
contenente il giuramento di cittadinatico dei signori di Settimo al comune di
Ivrea e l’investitura, indirizzata al comune da parte dei signori, del castello di
204
Settimo .
L’originale dell’atto si trovava in un protocollo di imbreviature del notaio
Giovanni. Fu direttamente da quel registro che il 30 ottobre Francotto dell’Olmo
eseguì, per conto del comune, l’estrazione di una copia in forma di mundum;
nella formula di autenticazione, Francotto spiega di aver ricevuto l’ordine di
redigere una copia autenticata (come abbiamo visto, tale ordine è chiamato dai
diplomatisti praeceptum auctenticationis) dal podestà di Ivrea, Guido Valperga
di Masino, su richiesta di un procuratore giudiziario del comune, e che il podestà si atteneva «al testo dello statuto del comune di Ivrea relativo ai protocolli dei
notai defunti» («de mandato nobilis viri domini Guidoni de Maxino comitis de
Gualperga potestatis Yporegie, qui, fermata prius forma statuti comunis Yporegie
facientis mencionem de abreviatura notarii mortui … precepit michi iandicto
Franchoto notario ut dictum instrumentum de dicto abreviario fideliter extrahe205
rem et publice scriberem») . La copia eseguita per il vescovo, opera del notaio
vescovile Rufino da Mantova, risale ad alcune settimane prima (4 settembre);
essa non si basa direttamente sul testo contenuto nel protocollo di Giovanni, ma
su una copia autenticata redatta da un precedente notaio affidatario, Giacomo. La
prassi autenticatoria descritta da Rufino è ben diversa da quella impiegata da
Francotto dell’Olmo nella copia da lui redatta. Il documento si apre infatti con la
forma di un atto vescovile solenne, in cui il vescovo Alberto comunica di aver
preso visione dell’esemplare di partenza, redatto da Giacomo: «Universis personis infrascriptum publicum instrumentum inspecturis, frater Albertus permissio203
I documenti dell’archivio storico cit., pp. 275-281, doc. 41.
Op. cit., pp. 226-230, doc. 12.
205
Op. cit., p. 227, doc. 12.
206
«(ST) Et ego Roffinus de Mantua imperiali auctoritate notarius publicus prenominatum instrumentum non
mutatum ut predictum est vidi ipsumque in presencia infrascriptorum testium exemplavi de verbo ad verbum,
204
66
ne divina episcopus Yporegie et comes, salutem in Domino sempiternam.
Noveritis nos vidisse instrumentum scriptum manu Iacobi notarii extractum de
imbreviario magistri Iohannis de domino Aymone non cançellatum, non abrasum, non abolitum nec viciatum in aliqua sua [parte …]». Segue la copia dell’atto del 1234, al termine della quale Alberto riprende la parola, affermando di
confermare il contenuto del documento e di corroborarlo, in virtù della propria
«auctoritas», con l’apposizione del proprio sigillo: «In cuius rei testimonium presens transcriptum, per infrascriptum notarium publicatum, laudavimus ipsumque nostra auctoritate nostri sigilli munimine iussimus roborari». La copia
è chiusa dalla sottoscrizione del notaio Rufino, estensore materiale della
copia, che vi appone il proprio signum tabellionis «su ordine del vesco206
vo» .
Due prassi autenticatorie diverse, che rimandano a due differenti modelli di legittimità, entrambi promananti da istituzioni interessate a presentarsi come detentrici di un’auctoritas sufficiente a garantire pubblica validità
ai testi copiati. I due notai, che non per nulla sono personaggi di spicco
delle rispettive cerchie funzionariali, recepiscono perfettamente le istanze
di autorappresentazione proprie delle istituzioni di riferimento. Francotto
dell’Olmo le esprime attraverso un richiamo, estremamente dettagliato, ai
diversi passaggi, segno dell’auctoritas documentaria del comune, che
hanno condotto all’estrazione del mundum (quali il praeceptum del podestà
comunale) e li giustifica facendo riferimento alle disposizioni statutarie
riguardanti i protocolli di notai defunti. Anche la completio di Rufino da
Mantova celebra l’auctoritas del vescovo come garante dell’autenticità del
testo copiato. Essa, già contenente un richiamo al mandato vescovile, è
come incorniciata da formule di ascendenza cancelleresca, che fanno del
presule l’attore principale della procedura autenticatoria.
207
Al documento vescovile, poi, è applicato il sigillo del presule : un elemento che compare molto di rado negli atti dell’episcopio eporediese nel
208
corso del Duecento e che pare tornare in uso proprio al tempo della ripre-
nichil addendo vel minuendo, ipsumque cum ipsius auctentico ascultavi. Posthec de mandato dicti domini
episcopi ipsum meo signo et nomine roboravi. Sub anno Domini MCCLXXXXVII, indicione X, die III mensis septembris, in episcopali palacio Yporegie, presentibus testibus dominis Iohanne de Emblavato, Facio de
Stria, Petro de Berlenda et Francoto de Ullmo civibus Yporiensibus (SP)».
207
Cfr. Tav. 1. «oltre, fig. 6»
208
L’unico documento con sigillo a noi noto risalente all’episcopato del predecessore di Alberto, Federico di
Front, risale al 1268 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 82 sg., doc. 353).
67
209
sa della tradizione comitale da parte di Alberto Gonzaga . Si noti, a tale
proposito, che sotto Alberto la struttura dei sigilli vescovili cambiò di
molto rispetto al predecessore, il vescovo eletto Federico di Front
Membro di un ramo dei conti di San Martino, Federico aveva trascorso gran parte del proprio episcopato nel tentativo di consolidare l’in210
fluenza della propria famiglia sulla città di Ivrea ; nel suo sigillo – così
come ci è descritto dal testimoniale di presentazione di un atto da lui emanato – «compariva l’immagine di san Martino che taglia in due il proprio
mantello per il povero nudo» («apparebat ymago sancti Martini dividen211
tis clamidem pauperi nudo») .
Nel sigillo a mandorla che Alberto usò nel 1297 per corroborare la copia
del trattato fra il comune di Ivrea e i signori di Settimo compare invece la
tradizionale figura di vescovo stante, con mitra e pastorale: un’immagine
analoga a quelle presenti nei falsi sigilli di vescovi del secolo XI, prodotti nel corso del Duecento, prima dell’insediamento di Alberto sulla cattedra eporediese. Quei falsi, insieme con altri privilegi di S. Stefano, erano
stati autenticati, solennemente e in più copie, da una commissione di tre
209
Il solo documento dotato di sigillo conservato è quello al quale si è testé fatto riferimento. Ulteriori attestazioni di diplomi vescovili con sigillo sono reperibili nei registri di imbreviature dei diversi notarii episcopi. Una ricognizione sistematica dei protocolli alla ricerca di simili attestazioni è ancora da compiere.
Limitatamente ai fascicoli contenenti lettere indirizzate dal vescovo Alberto ad altri soggetti – nei quali i
documenti sono registrati per intero, escatocolli compresi, riuniti posteriormente in un unico volume, custodito nell’archivio diocesano di Ivrea (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AaM 308/311/2) – è stato
possibile individuare le seguenti attestazioni. Nell’atto di donazione di locali dell’ospedale dei Ventuno, da
parte del vescovo, ai canonici di S. Orso di Aosta (1310): «Universis Christi fidelibus presentem paginam
inspecturis frater Albertus imspiratione divina episcopus Yporiensis et comes salutem in Domino sempiternam. … In cuius rei testimonium de premissis mandavimus per Bonaventurinum notarium nostrum scribi et
tradi publicum instrumentum, nostri etiam sigilli munimine roborari. Datum et actum in episcopali palatio
Yporegie. Presentibus testibus reverendo viro domino Hugucione Dei gratia abbate Sancti Andree
Vercellensi, Henrico de Septimo canonico Yporegie et Petro de Lafimatana iuris perito ad hoc specialiter convocatis. Sub anno Domini millesimo CCCX, indicione VIII, die lune, XXIII mensis februarii» (c. 26 bis r.).
In un atto solenne di concessione a Martino, rettore della chiesa di S. Maurizio di Biò (1311): «In cuius rei
testimonium presentes literas nostro sigillo mandavimus comuniri. Datum in episcopali palacio Yporegie,
anno Domini millesimo CCCXI, indicione VIIII, die III februarii, presentibus testibus Guidone de Gonçaga
canonico Mantuanensi presbitero, Iacobino castellano Romani et Iohanne Brolino de Burgo Novo valle
Montisalti, ad hoc specialiter convocatis» (c. 31 v.).
210
Sul tema cfr. G. S. PENE VIDARI, Un memoriale del vescovo d’Ivrea a Carlo d’Angiò, in «Bollettino della
Società accademica di storia ed arte canavesana», 19 (1993), pp. 147-162.
211
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 82, doc. 353.
68
212
notai nel 1278, su ordine di Federico di Front . Anche in campo sfragistico, come negli altri aspetti formali del transunto del 1297, Alberto
promuoveva un ritorno alla produzione documentaria solenne espressa
dai vescovi del passato.
Nelle due copie autenticate appena esaminate, comune ed episcopio
parrebbero costituire altrettante auctoritates documentarie indipendenti e sovrane, in grado di conferire legittimità alle pratiche autenticatorie più svariate. Eppure i due esemplari, così distanti quanto alla
scelta dei dispositivi autenticatori, sono accomunati da una presenza
defilata ma costante. Alla copia dell’atto da parte di Rufino da
Mantova, nel palazzo vescovile, era presente anche Francotto
dell’Olmo, che nel mese successivo avrebbe estratto il medesimo
documento dalle imbreviature del notaio rogante, così come era presente il giurisperito Pietro di Berlenda – personaggio di spicco in
seno al collegium cittadino dei giudici, formatosi parallelamente al
213
collegio dei notai , e attivo con diversi incarichi diplomatici per conto
214
del comune – il quale avrebbe fatto da teste anche alla redazione della
copia comunale. Segno, questo, dell’interesse del comune a sorvegliare
212
In un solo caso – quello del falso diploma del 1075, attribuito al vescovo di Ivrea Ogerio – si sono
conservate le due copie autenticate, redatte l’una per S. Stefano e l’altra per l’episcopio (Archivio di
Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1, n. 7; Archivio storico
diocesano di Ivrea, LXXX-2-IM 0750000). L’incipit degli atti recita: «(ST) In nomine Domini nostri
Iesu Christi, amen. Anno nativitatis eiusdem millesimo duecentessimo septuagessimo octavo, indictione sexta, die martis quinta intrantis mensis iulii, in claustro ecclesie Yporiensis, coram testibus presentibus vocatis et rogatis Rainerio archipresbitero, Iuvene de Montecuco et Rainerio de Tohenengo
canonicis Yporiensibus et domino Nicolao de Leçulo in dicta Yporiensi ecclesia capellano, dominus
Willelmus Tronellus Yporiensis archidiaconus et domini Frederici Yporiensis ecclesie procuratoris seu
electi iudex et vicarius precepit michi Yvorino Baçano infrascripto notario quatinus infrascriptum privilegium proprio sigillo cereo episcopali sigillatum auctenticarem et in formam publici instrumenti
redigerem, cuius privilegi tenor et forma talis est». I privilegi furono autenticati, oltre che da Ivorino,
anche dai notai Giovanni Cane e Pietro de Herbis.
213
Cfr. oltre, nota 272.
214
Le vicende del dominus Pietro di Berlenda, «utriusque iuris peritus», esemplificano adeguatamente
questo tipo di carriera professionale. Pietro non era un homo novus. Suo padre Giacomo, aveva avuto,
intorno agli anni Sessanta, un certo rilievo in seno al funzionariato comunale (Il libro rosso del comune d’Ivrea cit., pp. 109-112, docc. 127-130; p. 208, doc. 207; p. 220, doc. 223); nel 1267 egli aveva
inoltre presenziato alla pronuncia della scomunica contro Guglielmo VII di Monferrato, colpevole di
avere occupato i beni della mensa vescovile e di avere imprigionato l’eletto Federico di Front (Le carte
dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 75, doc. 347).
69
un’operazione documentaria svolta nel quadro di una controversia che lo
coinvolgeva direttamente; ma anche e soprattutto della persistente e anzi
accresciuta capacità di mediazione – a livello politico e ideologico, oltre
che tecnico – fra i vari ambiti istituzionali interni alla civitas detenuta da un
ceto colto di notai e giurisperiti. Proprio nel periodo in cui sembra essersi
finalmente consumata la separazione fra gli ambiti documentari episcopale
e comunale, ecco emergere, ancora una volta, un gruppo di mediatori fra i
diversi poteri urbani. Di questa componente, proprio uno dei notai coinvolti nelle prassi appena descritte, Francotto dell’Olmo, fu un esponente altamente rappresentativo. Sarà utile concludere questo saggio presentandone
in maniera particolareggiata il percorso professionale, i legami sociali e le
aspettative politiche.
Pietro mise a frutto, nella propria carriera di giurisperito, la familiarità con le istituzioni comunali e la
prossimità all’episcopio ereditate dal padre. Egli operò al servizio del comune eporediese in importanti
missioni diplomatiche: nel 1294, presente il vescovo Alberto, rinnovò a nome del comune, di cui era
sindicus, la dedizione di Ivrea ai Monferrato (BUFFO, La cogestione cit., p. 215); nel 1311, insieme
con Andrea «de domino Andrea» e Giacomotto Solero, fu inviato presso Amedeo V di Savoia, vicario
imperiale in Lombardia, a promettere il contributo della città al pagamento degli ufficiali imperiali
(Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Provincia di Ivrea, m. 1, n. 4). Pietro svolse parimenti in più
occasioni l’incarico di procuratore vescovile: nel 1309, insieme con il visconte Pietro Solero e Pietro
Fontana, rappresentò il vescovo nella vertenza tra comune ed episcopio per la fissazione delle tariffe
della curaya presso la porta di Ponte (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 203 sg., doc.
456); nel 1319 faceva parte – insieme con il vicario sabaudo di Ivrea, Giacomotto Solero e altri – del
collegio di sapientes deputati a dettare le condizioni del passaggio della giurisdizione temporale spettante alla chiesa di Ivrea ai conti di Savoia (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 000/308/1,
c. 1r). La fiducia di cui godeva presso comune ed episcopio e la sua posizione di rilievo in seno al collegium iudicum gli valsero nel 1312 la nomina ad arbitro, insieme con altri esponenti di quel collegio,
nella complessa causa riguardante la spartizione dei communia tra istituzioni laiche ed istituzioni
ecclesiastiche, causa celebratasi in un clima di aspra tensione a causa della scomunica pendente sui
vertici del comune (Archivio storico diocesano di Ivrea, LXXXII-2-EaM 312090). Pietro esercitò
anche la professione notarile (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie,
Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 131v).
70
6. Un trait d’union: Francotto dell’Olmo,
tecnico del diritto e professionista della
memoria scritta
Funzionario comunale e vescovile, notaio, falsario e cronista: le notizie biografiche pervenuteci a proposito dell’eporediese Francotto dell’Olmo e la
sopravvivenza di una parte delle sue scritture consentono di studiare in maniera puntuale il percorso professionale di un rappresentante di quella cerchia di
tecnici giuridici che tanto contribuì, attraverso la propria opera di mediazione
pratica, alla definizione dei rapporti fra i due vertici istituzionali della civitas.
Il caso di Francotto è ancor più interessante se si considera che egli fu un personaggio sì eminente, ma non al pari di altri professionisti – quali Pietro di
Berlenda o Andrea «de domino Andrea» – che giunsero a detenere giurisdizio215
ni signorili nel contado eporediese , e continuò, nel corso di tutta la propria
carriera, a esercitare la professione notarile sia in privato sia entro i ranghi del
funzionariato comunale e di quello vescovile. Una carriera media e pertanto
rappresentativa di quelle percorse da gran parte dei suoi colleghi.
Le scelte professionali di Francotto furono certo dettate dal prestigio
216
conseguito nella generazione precedente da Alberto, un suo zio paterno ,
entro i quadri del funzionariato comunale. Tra gli anni Cinquanta e
Sessanta del Duecento Alberto, al quale è talvolta ascritto il titolo di
«dominus», aveva infatti svolto l’ufficio di pubblico inquisitore.
Occupazione grazie alla quale era riuscito a guadagnarsi, oltre al malevo217
lo appellativo di «cercamaculas» , una posizione di eminenza tale da
essere nominato dal comune esattore della curaya vescovile allorché, nel
1263, le istituzioni comunali si assunsero la responsabilità della custodia
218
dei beni e dei diritti dell’episcopio vacante . Se da un lato Alberto, forte
della propria posizione in seno al funzionariato comunale, dovette favorire Francotto agli esordi della sua carriera, dall’altro toccò poi a
Francotto stesso, dopo la morte dello zio, dare soddisfazione ai suoi creditori, fatto che peggiorò la sua situazione economica impedendogli forse
215
Cfr. nota precedente e BUFFO, La cogestione cit., pp. 206-212.
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 5r;
Archivio storico diocesano di Ivrea, LXI-1-IM200/350/1, p. 97.
217
Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 109, doc. 127 (1258).
218
Op. cit., p. 214 sg., doc. 215.
216
71
219
di ambire a maggiori fortune . Anche all’interno della famiglia di
Francotto – come in diverse altre famiglie eporediesi – è possibile individuare più generazioni di tecnici del diritto: si sa per esempio che Martino, figlio
di Francotto e pronipote di Alberto, esercitò la medesima funzione di «nota220
rius communis» detenuta dal padre e ne ereditò i registri di imbreviature .
221
Di Francotto – che morì tra il 1309 e il 1310 – si sono conservati un
discreto numero di documenti, redatti fra il 1275 e il primo decennio del
Trecento, quasi tutti per il monastero di S. Stefano di Ivrea; sempre nell’archivio di quell’ente religioso – oggi custodito presso l’Archivio di Stato
di Torino – è sopravvissuto un protocollo contenente le imbreviature di
Francotto per gli anni dal 1300 al 1303, con sporadiche aggiunte relative ad
222
anni successivi . Proprio dalle pagine di quel protocollo giungono le sorprese maggiori. Gli spazi non occupati dalla registrazione delle imbreviature, infatti, sono fitti di annotazioni di diversa natura: ricordi di date significative per le vicende familiari di Francotto, osservazioni relative alla vita
politica e alla storia della città, brani tratti dalle Scritture o da testi scolastici e canonistici, frammenti di carmi religiosi. Un patrimonio di difficile
lettura – soprattutto a causa del deterioramento dei margini del registro –
ma di grande valore per chi intenda ricostruire l’orizzonte sociale, culturale e politico entro il quale si muoveva un professionista del diritto e della
memoria scritta quale Francotto.
Tratti caratterizzanti della produzione documentaria di Francotto
Sin dalle prime fasi della propria carriera, Francotto fu attivo alle dipendenze del monastero di S. Stefano di Ivrea. Il fatto non stupisce, perché
nella seconda metà del Duecento diversi notai legati più o meno formalmente al comune operarono anche per quel cenobio: fra i contemporanei di
Francotto si ricordano per esempio Vercellino Barale, Ivorino Bazano e il
219
Nel 1304 Francotto dovette vendere alcuni suoi terreni «cum ipse Franchotus indigeret [causa] persolvendi
plura debita domini Alberti de Ulmo condam patrui sui et Facieti filii sui, quibus successerit»(Archivio di Stato
di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 5 r).
220
Cfr. sopra, p. 162.
221
Nell’aprile 1309 Franchotus è attestato come procuratore della chiesa di Ivrea (Le carte dell’Archivio
vescovile di Ivrea cit., II, pp. 200-202, doc. 455), mentre è già detto «condam notarius» in un atto del settembre 1310 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Monache diverse, Ivrea,
Monastero di S. Chiara, m. 1, doc. non numerato).
222
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2.
Cfr. oltre, fig. 10.
72
223
224
«converssus» Bertolino de Morixeto . In quel periodo, S. Stefano attraversava una crisi economica e di prestigio: non più punto di riferimento delle
famiglie dell’aristocrazia urbana, esso era stato spinto ai margini della vita politica della civitas e non era nemmeno del tutto in grado di contrastare l’erosione
del proprio patrimonio da parte dei concessionari enfiteutici. Da alcuni decenni,
inoltre, il cenobio tentava di svincolarsi dall’onerosa protezione dei vescovi eporediesi, negando loro il diritto di visita e proclamandosi dipendente in maniera
225
diretta dalla sede apostolica .
Non si sa in quale contesto sia avvenuta la prima formazione di Francotto: è
probabile, tuttavia, che essa si sia svolta in parte al di fuori dei circuiti abitualmente praticati dai suoi colleghi eporediesi. Non solo, infatti, Francotto padroneggiava senza difficoltà stili grafici differenti; egli era anche in grado di produrre documenti simili, per apparato grafico e aspetti formali, ai diplomi cancellereschi. I documenti redatti da Francotto abbondano, specialmente nel protocollo e nell’escatocollo, di imponenti caratteri capitali; non di rado egli fa uso
di caratteri particolarmente allungati, ricchi di nessi e giochi grafici, a imitazione delle litterae elongatae o, più semplicemente, della svolazzante grafia cancelleresca. La sua perizia grafica lo porta a una continua ricerca della varietas:
nei documenti più solenni, la stessa lettera compare scritta in modi differenti e
la congiunzione et è resa attraverso una grande varietà di soluzioni grafiche.
Molti degli escatocolli sono corredati da complessi segni a graticcio, a imitazione dei signa recognitionis cancellereschi.
Le scelte testuali adottate da Francotto nella redazione dei propri atti rispecchiano quelle grafiche. Molti fra quei documenti sono introdotti o chiusi da invocazioni solenni. Si legga l’incipit di un documento del 1304: «In nomine sancte
et individue Trinitatis, patris, filii, Spiritus Sancti, amen. Virgo Maria cum filio
adsit nostro principio, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum, curente anno a nativitate eiusdem domini nostri Yesu Christi filii Dei patris et beate
virginis Marie domine nostre millesimo CCCIIII, indicione secunda, die iovis
226
XVII mensis decembris, videlicet sextodecimo kalendas ianuarii» ; o quest’altro, risalente al 1302: «Virgo mater cum filio et cum sancta Clara virgo adsint
223
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 1, p. 27.
F. SAVIO, Le origini del monastero di S. Stefano d’Ivrea, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società storica subalpina, IX), p. 248.
225
Per un’esposizione dettagliata di questa situazione si rimanda a FALOPPA, Un insediamento cit., pp. 36-44.
226
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 12r.
224
73
nostro principio, amen. (ST) In nomine sancte et individue Trinitatis, silicet patris
et filii et Spiritus Sancti, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum anno a
nativitate eiusdem domini nostri Yesu Christi curenti milleximo CCC secundo,
indicione quartadecima, die lune, que fuit decima die intrante mense decembris
et quarto idus decembris, in festo sancti Melciadis pape et martiris et pontificatus
227
domini Bonifacii pape octavi anno octavo» . Alcuni incipit, come quello di un
documento del novembre 1300, consistono in veri e propri carmi in rima: «Post
incarnatum verbum de virgine natum, annus centenus Rome semper est iubileus;
crimina laxantur, quem penitet ista donantur; hoc confirmavit Bonifacius et robo228
ravit pastor octanus et verus papa Romanus» .
Al servizio di S. Stefano: Francotto notaio e falsario
Queste scelte grafiche e testuali non erano certo frutto dell’estro dello scriba,
ma rispondevano a una precisa domanda di legittimazione proveniente da S.
Stefano. Al monastero – che tentava di affermare la propria autonomia rispetto ai
presuli – interessava ostentare una produzione documentaria di alto livello, propria di un ente indipendente e degna di competere con quella dell’episcopio, il
quale in quel periodo – come abbiamo visto – considerava la propria auctoritas
documentaria come una fra le più importanti delle proprie prerogative di ascen229
denza comitale . Le qualità grafiche e la cultura notarile non comuni di
Francotto ne facevano l’esecutore perfetto delle politiche documentarie del cenobio. Proprio a Francotto, con ogni probabilità, gli abati di S. Stefano commissio230
narono un incarico fra i più delicati: la stesura di falsi diplomi vescovili , utili a
difendere, in sede giudiziaria, le rivendicazioni dell’ente religioso a scapito
227
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 121r.
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non numerato. I versi appartengono a un componimento divenuto piuttosto popolare nel corso del giubileo del 1300 (E.
MORI, M. MORI, Un documento cortonese sul giubileo del ‘300: la lettera di Silvestro «scriptor» pontificio,
Cortona 2001, pp. 1-19); Francotto li apprese di certo in occasione del proprio pellegrinaggio a Roma (cfr.
oltre, pagina 179). Nei protocolli di Francotto è presente anche una versione più lunga del carme: «Annis centenus Rome semper est iubileus / crimina laxantur quem pe[ni]tet ista donantur / hoc declaravit Bonifacius et roboravit / pastor octanus et verus papa Romanus / oriundus tamen de Aranie partibus; amen» (Archivio di Stato di
Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 103v). Cfr. oltre, fig. 8.
229
La scelta, attuata da Antonella Faloppa, di presentare una comparazione delle vicende di S. Stefano e dell’episcopio eporediese nei termini di un «confronto di istituzioni» (FALOPPA, Un insediamento cit., p. 36)
pare insomma del tutto appropriata, specialmente in riferimento alle politiche documentarie poste in atto dai
due enti.
230
Sul falso documentario medievale cfr. anzitutto E. CAU, Il falso nel documento privato fra XII e XIII secolo, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento (Atti del Convegno: Genova, 8-11 novembre 1988),
Genova 1989, pp. 215-277.
228
74
dell’episcopio. A tale scopo furono prodotte, a pochi anni di distanza, due versioni false del diploma di fondazione del monastero, datate l’una al 1001 e l’altra al 1042; un terzo diploma, datato al 1044 e considerato autentico da Savio,
231
è invece ritenuto un falso, pur vicino all’originale, da Fissore .
232
Per motivi che in questa sede sarebbe superfluo esporre , il falso del 1042
(in forma di copia sincrona) è fatto risalire alla prima metà degli anni Settanta
del Duecento, mentre quello del 1001 (un falso originale) andrebbe ascritto agli
anni intorno al 1290. L’attribuzione dei due falsi a Francotto dell’Olmo risale
al 1902, allorché Fedele Savio e Carlo Cipolla, dopo un’accurata analisi delle
scritture di S. Stefano, concordarono nell’affermare che nessun altro fra i notai
attivi per il monastero noti per quel periodo disponeva delle capacità grafiche
233
e della cultura giuridica necessarie alla realizzazione dei due diplomi . Uno
studio più approfondito della figura di Francotto, dei suoi rapporti professionali con S. Stefano e con altri enti, delle sue competenze tecniche e della sua cultura giuridica pare confermare l’intuizione dei due studiosi. Aggiungerei peraltro che, mentre è più facile legare il falso del 1001 al nome di Francotto, l’identificazione dell’autore dell’altro diploma pare incerta, perché la sua datazione entro la prima metà degli anni Settanta lo colloca appena ai margini del
234
periodo di maggiore collaborazione tra Francotto e il monastero .
Nell’artificio del falso, nuovi contenuti sono comunicati attraverso il lin235
guaggio, tanto inattuale quanto autorevole e legittimante, dell’antico .
Quando, negli anni Settanta del Duecento, Francotto – o un suo collega – costruì
il falso diploma del 1042, non si limitò a inserirvi solenni richiami al diritto di
S. Stefano di riscuotere decime sul territorio di Ivrea; quel diritto, cioè, in vista
del cui riconoscimento gli era stato commissionato il falso. Egli si premurò
231
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 876 sg. Sulle due falsificazioni, cfr. poi sia SAVIO, Le origini cit., p.
229 sgg., sia FALOPPA, Un insediamento cit., p. 40 sg. Cfr. oltre, fig. 9.
232
Ma si rimanda a SAVIO, Le origini cit., pp. 240-246.
233
Op. cit., p. 247 sg.
234
In FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 877 si rende conto di altre due falsificazioni commissionate dagli
abati di S. Stefano e risalenti, secondo l’autore, all’inizio del Duecento: si tratta di due diplomi vescovili
a favore del cenobio, relativi agli anni 1075 e 1162 (Cartario dell’Abazia di S. Stefano cit., pp. 283-287,
doc. 4; pp. 290-292; doc. 7).
235
Sembra utile introdurre a questo punto un confronto tra la figura del falsario medievale e quella del falsario moderno, studiata da Anthony Grafton. Secondo Grafton (A. GRAFTON, Falsari e critici. Creatività
e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Torino 1996, trad. it.), lo scopo del falsario moderno è
semplicemente quello di creare falsi che possano essere scambiati per originali; tuttavia anche il migliore
dei falsi contiene inevitabilmente alcuni elementi che consentono di ricondurlo al contesto storico entro il
quale è stato prodotto. Anche il falsario medievale, ovviamente, persegue l’obiettivo di produrre falsi che
possano essere ritenuti originali. Egli tuttavia non è mosso dal puro desiderio di imitare l’antico: egli desidera anzitutto intervenire sulla realtà contemporanea.
75
anche di fornire una descrizione dei rapporti giuridici tra i vari soggetti partecipanti alla stipula dell’atto: il monastero, il presule con il clero diocesano, gli
homines di Ivrea. Si legge infatti: «nos autem firmantes que concessimus ac
dedimus … sigilli nostri impressione firmamus, confratrum etiam et canonicum
nostrorum atestatione et anotatione roboramus; nostrorum quoque honestorum
civium legitimos caracteres et designatos apices ad robur firmandum admisimus». Un’espressione identica sarebbe ricomparsa nel falso diploma del 1001
236
redatto con buona probabilità da Francotto circa quindici anni più tardi . Il
riferimento da parte del vescovo all’ammissione alla decisione dei vertici cittadini legittimamente designati è, come osserva anche Fissore, fortemente ana237
cronistico : esso è inserito nei falsi allo scopo di suggerire al pubblico di fine
Duecento, attraverso la voce autorevole del passato, un’immagine ideale di collaborazione virtuosa fra le diverse componenti politiche della civitas. In un
periodo di progressiva emarginazione di S. Stefano rispetto alla vita politica cittadina, il monastero è presentato come punto di riferimento per l’aristocrazia
eporediese, che partecipa compatta all’atto della sua fondazione.
Oltre che con la produzione di uno o più falsi, Francotto partecipò alla costruzione della memoria di S. Stefano di Ivrea anche autenticando, insieme con
Perrotto di Pagano, la copia di un cartulario del cenobio – compilato originariamente nel 1174 e detto «Liber antiquus» o «Liber vetus» – redatta dal notaio
238
Perrotto Ottolino .
Fides documentaria e memoria storica
Nel corso della propria carriera, Francotto ricoprì diversi incarichi di
responsabilità per conto dei principali enti religiosi e istituzioni eporediesi,
sia come esperto nelle prassi di autenticazione dei documenti sia come tecnico del diritto. Si è già riferito del suo coinvolgimento, come «notarius
communis», nelle tormentate vicende relative alla conservazione delle
imbreviature del notaio Giovanni Caldera e nella produzione di un liber
Gli anacronismi, che il falsario moderno considera una tara inevitabile e cerca di ridurre al minimo, sono
invece un elemento portante del falso medievale: essi costituiscono il cuore del messaggio che il falsario
intende comunicare ai propri contemporanei, presentandolo attraverso il lessico e i segni legittimanti dell’antico.
236
SAVIO, Le origini cit., p. 266 sg.
237
FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 875 sg.
238
L’informazione giunge dalla formula di autenticazione di un atto che il notaio Vercellino Barale estrasse nel 1292 dalla copia del «Liber antiquus» (cfr. sopra, nota 173).
76
239
iurium ; si è parimenti accennato al suo coinvolgimento nell’autenticazione delle due copie, comunale e vescovile, dei patti con i signori di Settimo
del 1234 e alla sua sperimentazione di formule intese a enfatizzare la con240
notazione pubblica degli interventi del vescovo nei processi documentari .
Francotto svolse anche incarichi funzionariali di diversa natura. A partire
dal 1301 e almeno sino al 1307 egli fu procuratore di S. Stefano per tutte le
241
liti relative al cenobio ; nel 1302 svolgeva il medesimo incarico per conto
242
del monastero cistercense di S. Michele . Un’analoga fiducia gli fu accordata dal vescovo Alberto Gonzaga, il quale lo nominò procuratore dell’epi243
scopio in una complessa causa che lo opponeva al comune di Vercelli .
Francotto, poi, intrecciò un legame privilegiato con il convento di S.
Chiara, fondato intorno al 1300 con il sostegno del vescovo. Egli redasse la
maggior parte degli atti stipulati dal convento entro il 1310, lo rappresentò
in alcune importanti transazioni, produsse un fascicolo di copie dei documenti relativi alla fondazione dell’ente e alla sua aggregazione all’ordine
delle Clarisse (destinato evidentemente a essere usato per difendere i diritti di S. Chiara in caso di contestazione) e annotò fra le proprie imbreviatu244
re svariate notizie relative ai primi anni di vita del convento . In una fase
in cui il notariato eporediese aveva ormai perso la propria tradizionale unità,
con la costruzione di una burocrazia notarile dell’episcopio, Francotto si prestava
insomma quale versatile trait d’union fra i principali soggetti della civitas, interpretando le esigenze di ciascuno sia sul piano pratico sia su quello ideologico.
Tutti gli incarichi sin qui elencati presupponevano una diffusa fiducia personale
nei confronti di Francotto e un generale consenso circa la sua episteme giuridica.
Francotto stesso si mostra perfettamente consapevole dell’alto valore pubblico
della propria professione di notaio. L’incipit di un suo atto del 1304 recita:
«Questo documento è stato scritto per i tempi futuri, per conservare la memoria
del negozio fra i presenti e i posteri e per esibire legittimamente quanto è stato stipulato» («hoc publicum fuit factum instrumentum pro futuris temporibus ad
memoriam retinendam inter posteros ac modernos ad prolacionem geste rey legi239
Cfr. sopra, nota 205.
Cfr. sopra, nota 169.
241
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non
numerato (1301); Cartario dell’Abbazia di S. Stefano cit., p. 385, doc. 92.
242
C. SERENO, Il monastero cistercense femminile di S. Michele d’Ivrea: Relazioni sociali, spazi di autonomia e limiti di azione nella documentazione inedita dei secoli XIII-XV, doc. 17.
243
Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 201, doc. 455.
244
Tutti questi aspetti sono trattati più approfonditamente in BUFFO, Cronaca di una fondazione cit.
Cfr. oltre, fig. 3, 11
240
77
245
timam faciendam») . Nei documenti da lui redatti, poi, egli si presenta ora sem246
247
plicemente come «notarius Yporiensis» , ora invece come «scriba publicus» o
248
«aule regie et sacri palacii Romani publicus notarius» , ora addirittura come
«civis Yporiensis, publica seu imperiali auctoritate notarius et scriba iuratus in
249
ipso officio in toto Romano imperio» . Spesso, poi, la memoria degli eventi di
rilievo sia civico sia familiare annotati da Francotto in margine alle proprie imbreviature è accompagnata da un richiamo alla sua trascrizione documentaria:
«Mercoledì 17 aprile il notaio Rufino di Mantova ha scritto l’atto con il quale il
vescovo ha conferito a mio figlio Rufino l’ordinazione sacerdotale» («Die mercurii, XVII aprilis, magister Rofinus de Mantua recepit cartam sicut dominus epi250
scopus Rofinum filium meum clericali karatere insignivit») ; «Il comune di
Vercelli ha rilasciato al comune di Ivrea metà [della giurisdizione sul] borgo di
Piverone e Giovanni Grimaldi ha scritto il documento dei patti» («Comune
Vercellarum relaxavit comuni Yporegie medietatem burgi Piveroni et Iohannes de
Grimaldis recepit cartam pactorum») . Egli addirittura riporta, in una bella grafia
posata, il testo dell’atto di proclamazione del giubileo del 1300, seguito da un
breve racconto del viaggio a Roma da lui compiuto in quella occasione insieme
252
con la moglie Imeldina .
Francotto fu in grado di sfruttare in modo originale i supporti materiali
del proprio lavoro: è il caso dei suoi registri di imbreviature. Il registro di
imbreviature era un oggetto ‘vivo’. Dopo la morte del primo estensore, esso
si tramandava fra i suoi eredi e a ogni passaggio era esibito alle autorità
comunali e autenticato da membri della corporazione dei notai: un percorso di riuso che lo conduceva fra le mani di una gamma eterogenea di fruitori. Il protocollo, inoltre, era un veicolo della memoria fededegna. Gli
incipit più o meno solenni che l’estensore ogni anno anteponeva alla regi-
245
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 12r.
Per esempio, in Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m.
4, n. 15 (1288).
247
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non
numerato (1307).
248
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 9 (1286).
249
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 148r.
250
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 90v.
251
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c.54r.
252
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 108rv: «Die sabati, ultima aprilis, ego Franchotus de Ulmo et Ymeldina uxor mea … visitavimus limina ipsorum principum apostolorum in urbe Roma; et die sabati, XIIII madii, in sancto Bonifacio martire, recesimus cum spe divine miseracionis ab urbe sancta predicta et prospere venimus Yporegie civitate».
246
78
strazione delle scritture, corredandoli con il proprio signum tabellionis,
garantivano la validità pubblica della memoria dei negozi riportati nel registro; un’attestazione di publica fides che periodicamente – in occasione di
un passaggio ereditario o dell’estrazione di documenti da parte di notai
diversi dal titolare della commissio – era rinnovata dal collegio dei notai e
dalle autorità della civitas. I notai-cronisti del Trecento attribuivano un particolare valore di veridicità alle proprie opere storiche per il solo fatto che
253
erano state scritte da professionisti della publica fides . Nel caso di
Francotto, se vogliamo, il processo è inverso: non sono gli attributi professionali del notaio a riverberarsi anche sulle sue fatiche storiografiche, ma è
la narrazione degli eventi storici che si infiltra, letteralmente, tra le pagine
del registro notarile per godere di una fides paragonabile a quella – di volta
in volta riconfermata – delle imbreviature.
Si pensi, per esempio, al rapporto intercorrente, nel manoscritto, fra le
imbreviature di documenti relativi al convento di S. Chiara e le due pagine in cui Francotto, servendosi della propria memoria e dei documenti da
lui stesso precedentemente redatti, si diffonde in un elenco di fatti note254
voli relativi all’ente religioso . Estensore di molti fra i documenti attestanti i primi negozi giuridici compiuti dal cenobio ed egli stesso padre di
255
una delle suore , Francotto affidò la propria elementare cronaca di S.
Chiara al registro delle imbreviature, facendone un autentico veicolo della
memoria storica dell’ente.
Un discorso analogo potrebbe riguardare le poche scritture marginali
253
M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Nuovi studi storici,
49), p. 14 sg; ID., Notariato e memoria storica. Le scritture storiografiche notarili nelle città dell’Italia
settentrionale (secc.XII-XIV), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano e Archivio muratoriano», 97
(1991), pp. 111-113; ID., Tra istituzioni di governo ed opinione pubblica. Forme ed echi di comunicazione politica nella cronachistica notarile italiana (secc.XII-XIV), in «Rivista storica italiana», CX/1 (1998),
p. 102 sgg.; ID., Il contributo dei notai alla codificazione della memoria storica nelle città italiane (secoli XII-XIV), in «Nuova rivista storica», LXXXII/1 (1998), p. 8. Si veda anche il discorso simile condotto,
a proposito dei testi epigrafici dettati da notai, in O. BANTI, Epigrafi ‘documentarie’, «chartae lapidariae» e documenti in senso proprio, in «Studi medievali», serie III, 33 (1992) pp.229-242.
254
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154rv. Il testo è edito in BUFFO, Cronaca di una fondazione cit., doc. 13.
255
«Hodie ad instar beate Virginis et sancti Iosephi qui ad sanctum templum Dei Yesum Christum obtulerunt, Ymeldina et Francotus de Ulmo iugales eorum filiam Benevegnutam obtulerunt ad sanctum templum
sancte Clare de Yporegia et ibidem in dicto festo sancte Marie ipsa soror primo intravit ordine, et ibi erant
domina Richadona filia condam prepositi de Dianis de Samarate plebis de Galerate et eius soror Girarda
et soror Donina sorores condam filie Lantelmi de Magi de Samarate, que antea intraverant» (Archivio di
Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 107v).
79
relative al monastero di S. Stefano, che consistono in accenni a fatti di rilie256
vo per la storia del cenobio .
Francotto interprete di una ‘coscienza civica’ eporediese
Francotto fu un uomo dalla vorace curiosità e dietro la gran copia di
annotazioni disparate che costellano i margini delle sue pagine non vi è
alcun programma unitario. Non è possibile in questa sede rendere conto
della totalità delle scritture che Francotto riversò in quello che riteneva il
veicolo della memoria per eccellenza; da quelle relative agli eventi più
importanti – come alcuni fatti bellici o a un terremoto che colpì
257
l’Eporediese – ai ricordi minuti di vita familiare – come la nascita del
258
figlio Secondo Martino o l’uccisione in battaglia di un parente . Si osservi che questa commistione di eventi riguardanti l’intera comunità civica e
ricordanze domestiche, estranea alla nostra sensibilità, è presente anche
260
nell’articolazione delle cronache notarili propriamente dette .
Circoscriviamo la nostra attenzione alle scritture relative a eventi di rilievo per la civitas. Francotto autentica un fascicolo contenente le proprie
imbreviature con un solenne incipit, che tra l’altro designa quegli atti come
relativi all’anno 1303, «regnante il sommo pontefice papa Bonifacio VIII,
regnante nella città di Ivrea frate Alberto Gonzaga di Mantova, già dell’ordine dei Minori, vescovo e conte di Ivrea, e trovandosi nella carica di pode-
256
Per esempio: «In Christi nomine, amen. MCCC, indicione XIII … dominus abbas Bonifacius […] tam
honeri quam onori abbacie et electus et confirmatus et factus est abbas dominus Iohannes … prior sancti
Daniellis de Veneciis monacus fructuariensis filius condam domini Alberti de Riparolio de Sancto Martino ;
et pulsatis campanis positus fuit in sede abbacie. Deo gratias. Amen» (c. 106v).
257
«In sero ramis palmarum fuit terremotus et de muro castri Burolii per terremotum dirutus IIII texias vel
circa» (c. 66r).
258
«MCCC secundo, indicione XV … die martis … secunda die octobris, sexto nonas octobris, luna septima, ora prima, quando corpus Christi levabatur ad Sanctum Franciscum, natus est Secundus Martinus
filius meus, in festo sancti Leodegarii episcopi et martiris et sancti Primi et aliorum; et fuit batiçatus in
festo sancti Luce, qui fuit die iovis XVIII dicti mensis» (c. 139v).
259
«MCCCII, indicione XV, die sabati, primo setembris, luna sexta et ora tertia, in prelio de Corgnato
Rofinotus Guatarellus meus consanguineus fuit vulneratus, captus, ductus apud Corgnatum, ubi ipsa die
in ocasu decesit, capta penitencia, et sepultus fuit ad Sanctum Dalmaçium; et die mercurii sequenti, in
serio, Ymeldina de Guarnerio peperit filium qui dicit filium esse Rofini filii mei» (c. 142v).
260
M. ZABBIA, La memoria domestica nella cronachistica notarile del Trecento, in «Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 78 (1998), pp. 123-140; ID., I notai e la cronachistica cittadina cit., p. 113 sgg.
80
stà di Ivrea Abbone di Rivalba»:
(ST) In nomine sancte et individue Trinitatis, silicet patris et filii et
Spiritus Sancti, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum curente anno a nativitate eiusdem domini nostri dei Yesu Christi millesimo tricentesimo tercio, indicione prima, die martis vicessimo quinto mensis
decembris, seu septimo exeunte ipso mense decembris, in die ipsius
nativitatis et ad ipsius laudem et honorem et gloriose virginis Marie
matris eius et tocius curie celestis. Ego Franchotus de Ulmo civis
Yporiensis, publica seu imperiali auctoritate notarius et scriba iuratus in
ipso officio in toto Romano imperio, filius condam Rofini de Ulmo de
civitate dicta Yporiensi, has rogationes cepi fideliter inchoare, regnante
summo pontifice domino Bonifacio papa octavo et anno octavo sui pontificatus ac regnante in ipsa Yporiensi civitate domino fratre Alberto de
Gonçagia de Mantua, olim de ordine Minorum, episcopo et comite
261
Yporiensi, et existente potestate Yporegie domino Abbone de Rivalba .
Ciò che interessa in questo caso sono la descrizione dei rapporti fra i due
vertici istituzionali della civitas e il lessico usato per esprimerla. Francotto
designa l’attività del vescovo – nuovamente definito con il titolo inusuale
di «episcopus et comes Yporiensis» – come «regnum», collocandola su un
livello ben più alto rispetto a quella del podestà, il quale si limita a «existere» all’apice delle cariche cittadine laiche. Tale situazione ricorda quella indicata – probabilmente da Francotto stesso – nei due falsi diplomi di
fondazione di S. Stefano del 1001 e del 1042, nei quali il presule era
descritto come garante della stabilità della legge di fronte agli homines eporediesi, a lui subordinati. Secondo la concezione della politica cittadina
espressa da Francotto, insomma, alla rassicurante stabilità dell’autorità episcopale fa riscontro la labilità dei vertici delle istituzioni laiche della civitas. Tale labilità dipendeva, nella contingenza, dall’instabilità che aveva
caratterizzato la politica eporediese negli ultimi decenni. Tuttavia, più in generale, la natura stessa dell’ufficio podestarile, caratterizzato da un costante ricambio ai vertici, comportava il rischio che la res publica fosse di volta in volta esposta agli umori contrastanti dei magistrati che si avvicendavano alla sua guida.
Francotto, in effetti, non risparmia critiche nei confronti di chi, a suo avviso,
261
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 148r.
81
non ha dimostrato sufficiente perizia nella direzione del comune; ed è significativo come proprio in questa occasione ricompaia, ma stavolta con una connota262
zione negativa, un termine appartenente alla sfera semantica del regnum : «Nel
1302, quindicesima indizione, … la Pasqua si celebrò il 22 aprile e fino al giorno di san Bartolomeo fu podestà di Ivrea Giovanni, figlio di Francesco di Ceretto,
conte palatino di Lomello, uomo giovane e stolto: »Guai alla terra il cui re è un
bambino, eccetera» («MCCC secundo, indicione XV, … fuit … festum pascatis
resurecionis die XXII aprilis; et usque ad sanctum Bartolomeum erat potestas
Yporegie Iohannes f[ilius] Francesci de Cereto comes palatinus de Lomello,
263
homo iuvenis et stultus, unde: “Ve terre cuius rex puer est” et cetera») . La cita264
zione è tratta dal libro biblico dell’Ecclesiaste .
La svalutazione dell’operato dei podestà monferrini va anche interpretata, con
ogni probabilità, come conseguenza dell’orientamento politico personale di
Francotto: un precoce orientamento antimonferrino che gli sarebbe valso, negli
anni successivi, la fiducia di Alberto Gonzaga, il quale gli avrebbe conferito incarichi di rilievo. Nel 1305, infatti, Francotto salutava la fine dell’egemonia monferrina su Ivrea con le seguenti parole: «Sabato 20 marzo, Ludovico Gonzaga,
figlio di Corrado Gonzaga di Mantova, ebbe il governo di Ivrea ed è ora podestà
di Ivrea; città libera, sottoposta soltanto all’impero, pur vacante, che era rimasta
serva e sottoposta a trattati, patti di soggezione e servitù sin dal 1266 circa; e giorno dopo giorno il castello di San Maurizio è diroccato, distrutto e abbattuto»
(«Die sabati, XX martii, dominus Ludovicus de Gonçaga filius domini Conradi
de Gonçaga de Mantua adivit ad regimen Yporegie et est potestas Yporegie, que
civitas est libera, solum sub imperio tamen vacante, que serva et sub condicionibus et pactis et servitutibus stetit ab anno Domini curente MCCLXVI circa; et
265
castrum Sancti Mauricii cotidie diruytur et destruytur et disipatur») . Esiste, in
questa scrittura, un termine – «regimen» – semanticamente vicino a quelli di
«rex» e «regnare», che abbiamo appena incontrato. Ludovico Gonzaga non
è più un emissario inviato da un potere esterno a «existere» passivamente ai
vertici della città, bensì un rector, chiamato da una comunità civica indipendente al «regimen» della res publica. Francotto percepiva la fine della
dominazione monferrina su Ivrea come una cesura storica, individuando
262
Sull’uso del lessico della regalità in un singolo attore medievale, si veda G. GANDINO, Il vocabolario
politico e sociale di Liutprando di Cremona, Roma 1995 (Nuovi studi storici, 27), pp. 15-80.
263
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 54r.
264
Eccl. 10, 16.
265
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 24r.
82
nella soggezione della civitas a poteri signorili esterni la caratteristica
saliente del periodo compreso fra il 1266 – anno della prima effimera dedizione del comune ai Monferrato – e il 1305. In effetti, egli insiste anche sui
gesti di sfregio «cotidie» inferti al castello, già marchionale, di San
Maurizio; struttura che il comune, subito dopo la morte di Giovanni I, si era
affrettato a vendere a un privato, per esprimerne il pieno controllo e sottolineare la parallela riappropriazione di tutte le prerogative giurisdizionali
266
sulla civitas, spettanti prima di allora ai Monferrato .
Non si può fare a meno di osservare l’alta considerazione per valori civici, come la libertas, che pervade queste frasi. Quello appena citato non è il
solo punto in cui Francotto manifesti un’adesione a tale genere di valori: si
può anzi affermare che nei protocolli di Francotto siano presenti le prime
attestazioni esplicite di una ‘coscienza civica’ eporediese. Si leggano, per
esempio, le parole usate per riportare la notizia di un evento bellico in cui
fu coinvolto il comune di Ivrea: «Nel 1303, prima indizione, martedì 22
gennaio … il comune di Ivrea sconfisse quelli di Cuorgnè, il giorno di san
Vincenzo martire, e ricevette compensazione dell’ingiuria fattagli nel giorno di sant’Egidio: gli stessi rustici [sconfitti] dagli stessi cittadini» («comune Yporegie devincit illos de Corgnato in festo sancti Vincentii martiris et
accepit emendam iniurie facte in festo sancti Egidii: ipsos rusticos ipsis
267
civibus») . In quest’ultima espressione il termine «rustici» compare in
un’accezione totalmente stravolta rispetto a quella riscontrabile in documenti precedenti. È sufficiente confrontare queste parole con il testo dell’accordo stipulato tra il comune di Ivrea, alcuni conti canavesani e i marchesi
di Monferrato nel 1229: «illi de Canapicio possint venire ad habitandum
266
A circa due settimane dalla morte di Giovanni I – il 31 gennaio 1305 – la credenza stabiliva che i «mura
quondam domini marchionis» e tutte le strutture a essi pertinenti fossero venduti a una società privata
facente capo al notaio comunale Perino di Frassineto (cfr. Statuti di Ivrea cit., I, p. 349: «De venditione
murorum quondam domini marchionis observanda Perino de Fraxeneto et sociis. Item statuerunt et ordinaverunt in plena credencia comunis Yporegie quod venditio murorum, edifficiorum, castrorum, turrium
et domzonorum et materia ipsorum facta per credenciam Perino de Fraxeneto et sociis suis, de qua constat publicum instrumentum receptum per Iohanne de Loge notario in anno Domini MCCCV, indicione
III, die dominico, ultimo mensis ianuarii, cum pactis et convencionibus, promissionibus et omnibus aliis
que in ipsa vendicione continentur attendantur et inviolabiliter observentur eidem Perino et sociis per potestatem sive vicarium, iudices et rectores Yporegie qui pro temporibus fuerint, et hoc statutum sit precissum et trunchum»). I patti di soggezione stipulati fra il comune di Ivrea e Giovanni nel 1294 prevedevano in effetti che, in assenza di eredi legittimi, alla morte del marchese il castello di San Maurizio ritornasse
sotto il controllo del comune «et eidem domino marchionis commune in predictis … succedat» (I Biscioni
II/3, a cura di R. ORDANO, Torino 1994 (Biblioteca storica subalpina, CXI), p. 193, doc. 600/i).
83
Yporegie ubicumque et quandocumque voluerint, rustici cum mobilia tantum,
268
seguacerii cum sua mobilia et rebus mobilibus tantum» . Mentre nel testo del
1229 il termine indicava una categoria ben precisa in seno alla popolazione rurale canavesana, in quello del 1303 sono considerati «rustici» tutti
coloro che non siano «cives». Il termine, inoltre, è connotato in senso
dispregiativo, facendo risaltare specularmente l’orgoglio di Francotto per la
propria appartenenza alla civitas. Nelle scritture marginali di Francotto,
poi, il toponimo Yporegia è quasi sempre accompagnato dall’apposizione
civitas: segno dell’importanza che assumeva, per il nostro, la sfera seman269
tica dell’adesione alla comunità civica .
Altro segnale dell’attaccamento di Francotto alla dimensione della civitas
fu la sua devozione a san Besso, santo che proprio in quegli anni andava
affermandosi, accanto alla Vergine, come patrono della città; si pensi alla
comparsa del suo nome nella legenda di diverse monete coniate a Ivrea a
270
partire dalla fine del Duecento . Proprio fra le annotazioni marginali di
Francotto compare un frammento di carme a san Besso, purtroppo leggibi271
le solo in minima parte .
Non è un caso che un’ideologia dell’appartenenza alla comunità eporediese dei cives sia attestata in seno alla cerchia dei tecnici del diritto proprio a cavallo fra Due e Trecento. In quel periodo, gli studi giuridici godettero in Ivrea di una notevole fortuna, in concomitanza con la crescita dell’influenza di un gruppo colto di professionisti del diritto, in grado di esercitare una funzione mediatrice tra i due vertici istituzionali della civitas. Da
un lato, il collegio dei giudici di Ivrea – attestato nel 1307 ma formatosi
272
probabilmente alcuni decenni prima, parallelamente a quello dei notai –
aveva acquisito un discreto peso politico in seno all’élite urbana eporediese, in virtù sia della tendenza a impiegare figure eminenti di giurisperiti
nella gestione dei rapporti diplomatici fra il comune e i suoi interlocutori
267
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. non
numerata.
268
Corpus statutorum Canavisii, a cura di G. FROLA, II, Torino 1918, (Biblioteca della Società storica
subalpina, XCIII), p. 35.
269
Per esempio, nel racconto del pellegrinaggio a Roma di Francotto e Ymeldina: cfr. sopra, nota 252.
270
Corpus nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medievali e moderne coniate in Italia o da italiani in altri paesi, II: Piemonte-Sardegna, Roma 1911, p. 295, tav. XLVIII; E.
BIAGGI, Le antiche monete piemontesi, Borgone di Susa 1978, p. 261.
271
Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154r.
84
273
sia delle brillanti carriere personali di alcuni suoi aderenti . Dall’altro, la
promozione dello studio delle discipline giuridiche era, in quei decenni, un
problema centrale: si pensi che, poco dopo la sottomissione ai Savoia, il
comune di Ivrea incaricò alcuni emissari di concordare con Amedeo V e
Filippo d’Acaia l’istituzione in città di uno «studium generale … sic privilegiatum per summum pontificem quemadmodum est privilegiatum stu274
dium Bononie» .
Per la propria attività professionale – che li portava a operare al contempo per diversi soggetti politici della civitas – e per la propria appartenenza
sociale alta, questa cerchia di notai e giudici era particolarmente sensibile
ai problemi connessi con la gestione della res publica. Era pertanto normale che i suoi esponenti, di fronte alla labilità che caratterizzò gli assetti istituzionali della civitas a partire dagli ultimi decenni del secolo XIII, si
interrogassero sui fondamenti pubblici del diritto, sforzandosi di individuare un punto di riferimento istituzionale solido, in grado di tutelare ciascuno
nel godimento dei propri diritti. Francotto ravvisò tale punto di riferimento
nell’autorità dei vescovi, priva ormai di una vera preponderanza sul piano
politico ma ancora fortemente connotata in senso pubblico. E collaborò con
l’episcopio, desideroso di legittimarsi enfatizzando l’ascendenza ‘comitale’
delle funzioni che esercitava, nell’esprimere, attraverso l’elaborazione
degli opportuni artifici documentari, le alte responsabilità di rappresentanza della collettività cittadina spettanti al presule quale «episcopus et comes
Yporiensis».
272
Cartario dell’abazia di S. Stefano cit., p. 211, doc. 186; BUFFO, La cogestione cit., p. 207.
Cfr. sopra, nota 214; BUFFO, La cogestione cit., p. 206 sgg.
274
Statuti del comue di Ivrea cit., I, p. 98.
273
85
Conclusioni
A cavallo fra Due e Trecento Ivrea, malgrado l’alternanza di periodi di
autonomia limitata e periodi di indipendenza caratterizzati da una forte
conflittualità sociale e istituzionale, era un fiorente centro culturale. La fortuna di cui godettero gli studi giuridici in quei decenni andò di pari passo
con lo svilupparsi di un gruppo di alto livello di professionisti del diritto,
impegnati in un’opera di mediazione tra i due vertici istituzionali della civitas – malgrado lo svilupparsi, intorno a questi due vertici, di gruppi distinti di notai – e partecipi delle scelte politiche da essi espresse. Una cerchia
colta che – di fronte all’indebolimento politico dell’episcopio e all’incapacità, da parte del comune, di imporsi sulle solidarietà di fazione – si
domandava quali dovessero essere i fondamenti di un potere pubblico stabile, in grado di tutelare i diritti di ciascuno e di porsi come solido baricentro istituzionale rispetto alla vasta pluralità di soggetti politici attivi in
seno alla civitas. Questa ricerca di fondamenti sicuri del diritto, che già trapela dalle parole di Francotto dell’Olmo, avrebbe trovato uno sbocco nelle
275
molteplici redazioni statutarie dei primi decenni del Trecento .
L’enfatizzazione, sotto Alberto Gonzaga, dell’ascendenza comitale delle
prerogative dell’episcopio – certo motivata anche dall’esigenza di contenere i tentativi comunali di assorbimento di parte delle funzioni esercitate dai
vescovi – sembra proporre uno sbocco a tali istanze. Più stabile rispetto a
quella di un comune scarsamente autonomo e promanante direttamente dal
potere imperiale, l’autorità comitale dei presuli sarebbe stata la sola in
grado di garantire a ciascuno il mantenimento dei propri diritti e di sottoporre a una tutela eminente i negozi giuridici interni ed esterni alla civitas,
come nel caso dei trattati fra il comune e i signori di Settimo. Le scritture
di Francotto, tanto quelle documentarie prodotte per conto dell’episcopio
quanto quelle personali riportate sui margini del suo protocollo, sono
espressione di questa maniera di concepire i rapporti istituzionali entro la
comunità dei cives.
Nel novembre del 1313, la città di Ivrea si sottometteva ad Amedeo V di
Savoia e a Filippo di Savoia-Acaia. L’inizio della dominazione sabauda, più
275
A tal proposito cfr. PENE VIDARI, Introduzione, in Statuti di Ivrea cit., p. VII sgg. Cfr. anche oltre, fig. 12.
87
duratura e con un più forte impatto sulle strutture del governo cittadino
rispetto a quelle duecentesche dei Monferrato e degli Angiò, segnò la conclusione della diarchia fra comune ed episcopio sulla quale, prima di allora, si reggeva l’equilibrio istituzionale del districtus eporediese. La funzione di baricentro politico e di coordinamento istituzionale fra i diversi soggetti della civitas – quella funzione della quale il comune non era riuscito
ad appropriarsi completamente e che Alberto Gonzaga tentava di ascrivere
alla chiesa eporediese in quanto detentrice di funzioni pubbliche – fu assunta dai nuovi signori e dai loro vicari.
L’affermazione del principe come vertice unico delle gerarchie istituzionali, tuttavia, ebbe connotati di gradualità e non cancellò del tutto gli esiti
degli sviluppi politici e sociali duecenteschi. Per esempio, l’eco dell’idea di
un’ascendenza pubblica delle prerogative dei vescovi sopravvisse nell’uso
del titolo comes accanto a quello di episcopus. L’episcopio, del resto, continuò a esibire la natura comitale delle proprie funzioni anche negli anni
successivi alla soggezione di Ivrea ai Savoia, ancora caratterizzati da forti
276
conflittualità di Parte : nei primi decenni del Trecento, per esempio, si
continuò a produrre copie del diploma con il quale, nel 1219, Feredico II
confermava la «publica functio» dei vescovi di Ivrea, una delle quali si
trova nel Libro dei redditi.
Soprattutto, la dedizione ai Savoia non alterò il quadro dei rapporti fra il
notariato e le istituzioni civiche, così come si era delineato nel secolo precedente. Il comune seguitò ad approfondire il proprio legame con il collegio dei notai, l’episcopio seguitò a costruire una burocrazia notarile propria. In seno alla curia e alla clavaria sabaude la funzione dei notai conservò
quella centralità di cui godeva presso i diversi uffici del comune autonomo.
I professionisti della documentazione continuarono a operare in seno alla
civitas ponendo la propria episteme tecnica a disposizione dei diversi soggetti che la componevano, ma anche esprimendone le esigenze di legittimazione, di autorappresentazione, di promozione politica.
Nel secondo volume di quest’opera osserveremo nei dettagli l’aspetto e il
contenuto di una testimonianza notevole del lavoro dei notai attivi in Ivrea.
Le due parti di cui si compone il Libro dei redditi furono redatte ai due
estremi del periodo di riorganizzazione politica del contesto eporediese che
276
Estratti dai «conti» cit., p. 273, sg., docc. 50-52.
88
è stato qui descritto. La prima parte fu scritta nel 1264, alla vigilia della
prima affermazione della signoria dei Monferrato su Ivrea, nel 1266: si
ricordi il valore di profonda cesura storica che Francotto dell’Olmo attribuiva a quella data. La seconda parte, redatta intorno al 1320, è di poco successiva alla sottomissione della città ai Savoia. Malgrado l’estrema distanza – non tanto cronologica quanto politica – fra i due cartulari, le due sezioni che compongono il codice sono accomunate da un forte elemento di persistenza: la natura di incontro fra autonomie che caratterizzò il rapporto fra
i committenti e i redattori delle diverse parti. Da un lato, l’autonomia dei
presuli: uno di essi ordinò al notaio Giacomo di autenticare i documenti
copiati nel primo cartulario, un altro dispose la copia, fra gli atti del capitolo cattedrale, del diploma con il quale Federico II confermava le prerogative comitali dell’episcopio. Dall’altro lato, l’autonomia dei notai, che non
posero al servizio dei canonici e dei vescovi soltanto un sapere tecnico, ma
anche quella publica fides, da essi trasmessa ai documenti prodotti ex novo
o autenticati, di cui ciascuno di essi era portatore.
89
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99
IMMAGINI
101
Fig. 1 - I primi inventari dell’archivio comunale di Ivrea, risalenti alla seconda metà del secolo XV, contengono riferimenti a un elevato numero di documenti (anche in registro) relativi al
periodo comunale, oggi perduti. Nell’immagine, una pagina dell’inventario del 1477 (Archivio
storico del Comune di Ivrea, s.1, cat. 47, n. 2805, c. non numerata).
103
Fig. 2 - Una pagina del cartulario della confraria dello Spirito Santo di Ivrea, redatto nella metà
del secolo XII (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1, cat. 82, n. 3755, c. 11v).
104
Fig. 3 - Particolare della lapide commemorativa della fondazione del convento di S. Chiara di
Ivrea da parte del vescovo Alberto Gonzaga, già murata nel cortile del palazzo vescovile di
Ivrea (primo decennio del secolo XIV)
105
Fig. 4 - Copie autenticate nel primo cartulario componente il Libro dei redditi del capitolo eporediese, redatto nel 1264 (Archivio storico diocesano di Ivrea, cxx-1-IbM 109/317/1, c. 10v).
Per gentile concessione dell’Archivio).
106
Fig. 5 - Copie semplici nel cartulario trecentesco rilegato entro il libro dei redditi (Archivio
storico diocesano di Ivrea, cxx-1-IbM 109/317/1, c. 64v). Per gentile concessione
dell’Archivio.
107
Fig. 6 - Sigillo del vescovo di Ivrea Alberto Gonzaga, del 1297 (Archivio storico del Comune
di Ivrea, s.1, cat. 1, n. 44).
108
Fig. 7 - Protocollo del notaio vescovile Bonaventurino di Mantova, dei primi anni del secolo
XIV (Archivio storico diocesano di Ivrea, XII-4-AM 303/304/1, cc. 14 v-15r). Per gentile concessione dell’Archivio.
109
Fig. 8 - Incipit e completio di un atto scritto da Francotto dell’Olmo (Archivio di Stato di
Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 9).
110
Fig. 9 - Particolari estrinseci (litterae aureae e sigillo) dei falsi diplomi di fondazione del
monastero di S. Stefano di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche,
Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1/1, n. 1 sg.).
111
Fig. 10 - Una pagina del protocollo di Francotto dell’Olmo, degli anni 1302-1303 (Archivio di
Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 58 v ).
112
Fig. 11 - Particolare delle memorie di Francotto dell’Olmo relative ai primi anni del convento
di S. Chiara di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea
S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154 r).
113
Fig. 12 - Il codice trecentesco degli statuti del comune di Ivrea (Archivio storico del Comune
di Ivrea, s.1, cat. 86, n. 3798, cc. 64v-65r).
114
Fig. 13 - Disegno di una campana (suonata per convocare la credenza comunale) sulla coperta del registro degli ordinati di Ivrea dell’anno 1334 (Archivio storico del Comune di Ivrea,
s.1, n. 3233).
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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012
Tipografia Paolo Bardessono snc - Ivrea (TO)