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Paolo Buffo SCRIVERE E CONSERVARE DOCUMENTI A IVREA TRA COMUNE E SIGNORIA IL LIBRO DEI REDDITI DEL CAPITOLO EPOREDIESE (secoli XII-XIV) PARTE PRIMA A. S. A. C. ASSOCIAZIONE DI STORIA E ARTE CANAVESANA IVREA Studi e documenti, 2 IVREA - 2012 ISSN 2281-6038 Si ringraziano l’archivio di sStato di Torino, l’Archivio Storico diocesano di Ivrea e l’Archivio storico del Comune di Ivrea per la gentile concessione. Tutte le immagini sono opera dell’autore. In copertina: pagina del cartulario della confraria dello Spirito Santo di Ivrea, dell’ultimo quarto del secolo XIII (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1, cat. 82, n. 3755). Presentazione Il presente volume è il primo dei tre dedicati allo studio del «Libro dei redditi» del capitolo di S. Maria di Ivrea: un insieme di due cartulari – oggi rilegati entro un unico volume e custoditi presso l’Archivio storico diocesano di Ivrea – scritti da diversi notai fra il 1264 e gli anni Venti del secolo XIV, contenenti le copie, autenticate o semplici, di alcune centinaia di documenti relativi ai beni e ai diritti dei canonici della cattedrale eporediese. Questa prima parte ha lo scopo di fornire un inquadramento generale delle vicende e dei problemi connessi con la produzione e la conservazione di documenti in ambito eporediese nel periodo in cui i cartulari furono scritti; si favorirà, in tal modo, la comprensione delle esigenze che motivarono la produzione delle diverse parti del Libro dei redditi, delle tecniche secondo cui essa si svolse, della fisionomia professionale dei redattori. Questo inquadramento non riguarderà le sole prassi documentarie, ma toccherà anche l’evoluzione delle istituzioni cittadine, laiche ed ecclesiastiche: un’evoluzione che condizionò le vicende dei notai eporediesi e gli esiti del loro lavoro. Il secondo volume, corredato da un CD Rom contenente l’edizione digitale del Libro dei redditi, sarà costituito dai saggi di diversi specialisti nei campi della storia, della diplomatica e dell’onomastica e sarà inteso, oltre che a presentare nello specifico l’aspetto e i contenuti dei cartulari, a fornire un generale aggiornamento delle conoscenze storiche su Ivrea a cavallo fra i secoli XIII e XIV, alla luce dei documenti, in maggior parte inediti, copiati nei cartulari. Nel terzo volume, infine, saranno presentati in forma cartacea l’edizione dei testi e dei relativi indici. Il merito di aver illustrato la storia dei rapporti fra notariato e istituzioni a Ivrea fino alla prima metà del Duecento, consentendo a me di proseguire l’indagine per i decenni successivi, appartiene principalmente a Gian Giacomo Fissore1. In questo volume ho preso in esame alcuni testi da me già studiati in precedenti ricerche2 e altri che preG. G. FISSORE, Vescovi e notai, in Storia della chiesa di Ivrea dalle origini al secolo XV, a cura di G. CRACCO, Roma 1998, pp. 889-924; ID., Un caso di controversa gestione delle imbreviature: notai, vescovi e comune a Ivrea nel secolo XIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCVII/1 (1999), pp. 67-88. 2 P. BUFFO, La cogestione di beni e diritti pubblici da parte di comune ed episcopio a ivrea: prassi, lessici, attori, Torino 2009, tesi di laurea specialistica presso il Dipartimento di Storia dell’Università di 1 sento qui per la prima volta. Il mio ringraziamento deve pertanto estendersi, oltre che a quanti mi hanno prestato aiuto nella redazione di questo breve studio, anche a chi mi ha fornito indicazioni e consigli nella stesura dei precedenti saggi, a cominciare dai professori Giuseppe Sergi e Patrizia Cancian. Voglio altresì ringraziare don Giovanni Battista Giovanino, direttore dell’Archivio storico diocesano di Ivrea, per la cordiale disponibilità con la quale ha favorito il mio accesso ai documenti custoditi presso quell’archivio; per lo stesso motivo sono grato alla signora Ezia Molinaro, responsabile dell’Archivio storico del Comune di Ivrea. Paolo Buffo Torino, Sezione di Paleografia e Medievistica; ID., I registri notarili dell’episcopio eporediese sotto Alberto Gonzaga (1289-1320). Proposte per una ricerca diplomatistica, in «Bollettino dell’Associazione di storia e arte canavesana», 10 (2010), pp. 85-107; I documenti dell’archivio storico del comune di Ivrea (1142-1313), a cura di ID., in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», CX/1 (2012), pp. 201-308 (in particolare pp. 201-219); ID., Cronaca di una fondazione. Le origini del convento di S. Chiara di Ivrea nelle scritture del notaio Francotto dell’Olmo (1301-1303), in corso di stampa in «Bollettino dell’Associazione di storia e arte canavesana», 12 (2012). INDICE Introduzione pag. 1 1. Il quadro istituzionale di riferimento pag. 11 2. L’emergere del problema documentario nella dialettica frale istituzioni urbane pag. 21 3. Una memoria contesa: la circolazione dei registri notarili di imbreviature pag. 35 4. Continuità e innovazioni: le prassi della conservazione documentaria a cavallo fra Due e Trecento pag. 49 5. “Istituzioni e notai in un’età di crisi” pag. 61 6. Un trait d’union: Francotto dell’Olmo, tecnico del diritto e professionista della memoria scritta pag. 71 Conclusione pag. 87 Bibliografia pag. 91 Immagini pag. 101 Introduzione Questo saggio ha come oggetto i rapporti fra un gruppo di professionisti (i notai) e le due istituzioni di ascendenza pubblica esistenti in Ivrea: il comune e l’episcopio. Lo studio di un ambito come quello documentario, a lungo oggetto di cogestione da parte di quei due soggetti politici, presenta maggiori difficoltà rispetto a una ricerca incentrata su situazioni di totale conflittualità. Non solo, infatti, i documenti relativi ai rapporti fra comune ed episcopio eporediesi furono redatti per la maggior parte, come è ovvio, in situazioni di contrasto istituzionale: si pensi ai testi delle concordiae stipulate fra i rappresentanti delle due istituzioni, a quelli degli arbitrati celebrati per appianarne le controversie, agli atti di scomunica, alle missive inviate dalla sede apostolica agli homines di Ivrea per diffidarli dal ledere i diritti della chiesa. Anche i documenti redatti in situazioni di pacifica collaborazione tendono a esprimere le istanze di legittimazione proprie del soggetto che ne dispose o che ne richiese la produzione. Per esempio, i documenti di ambito vescovile attestanti la compartecipazione di funzionari del comune e di funzionari dell’episcopio alla gestione dei terreni comuni tenderanno a sminuire la partecipazione dei primi, ponendo in risalto il contributo dei secondi e dell’autorità alla quale fanno capo; una situazione speculare caratterizzerà i documenti redatti dai notai comunali. Nello studio della documentazione incontreremo molti casi simili. Ovviamente, questo apparente inconveniente ci fornisce l’opportunità di riflettere sugli artifici lessicali impiegati dai diversi poteri per soddisfare le proprie necessità di autorappresentazione. Per distinguere, in seno ai testi, le costruzioni ideologiche dalle dinamiche storiche reali occorrerà applicare alle fonti a nostra disposizione una rigorosa esegesi. Nel nostro caso, tale esegesi non potrà prescindere da una critica e da un superamento del panorama delle fonti edite, così come ci sono giunte attraverso la corposa serie di edizioni di documenti eporediesi pubblicata nella collana della 3 Biblioteca della Società Storica Subalpina a partire dall’anno 1900 . 3 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea fino al 1313; Le bolle pontificie dei registri vaticani relative ad Ivrea; Regesto del «Libro del comune» d’Ivrea, a cura di F. GABOTTO, Pinerolo 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, V-VI); Estratti dai «conti» dell’Archivio camerale di Torino relativi ad Ivrea, a cura di ID., in Eporediensia, Pinerolo 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, IV. 1 Gli atti del IV Congresso storico subalpino, tenutosi nel 1901, forniscono un resoconto dettagliato sullo stato a cui era pervenuta, entro l’inizio del nuovo secolo, la riflessione circa i compiti dell’editore sviluppata dai membri della Società . La quarta seduta, in particolare, fu interamente dedicata al dibattito «sul metodo di publicazione dei documenti storici». La riscoperta ottocentesca di un insieme eterogeneo di archivi sul territorio piemontese – eterogeneo soprattutto a causa delle grandi differenze quantitative tra i patrimoni documentari custoditi in ciascuno – poneva di fronte al problema di stabilire criteri univoci in base a cui determinare quali documenti pubblicare, quali condensare in regesto e quali ignorare. Da subito si concordò sull’adozione di un discrimine di natura cronologica. La Regia deputazione di storia patria di Torino aveva in precedenza fissato come data 5 limite per l’edizione delle fonti d’archivio l’anno 1300 . Ferdinando Gabotto promosse lo spostamento di tale limite al 1313, «data che segna precisamente il tramonto delle due grandi potenze che in tutto il medio evo avevano lottato fra loro: il papato e l’impero», asserendo inoltre che «per il Piemonte … questa data ha anche una importanza speciale perché la morte di Enrico VII è accompagnata e seguita da tutta una serie di circostanze 6 essenziali nella storia subalpina» . I membri della Società convenivano 424; Le carte dell'Archivio capitolare d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle piu notevoli dal 1231 al 1313, a cura di E. DURANDO, Le carte dell'abazia di S. Stefano d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle piu notevoli dal 1231 al 1313, a cura di F. SAVIO, G. BARELLI, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società storica subalpina, IX). A questo gruppo di edizioni si sarebbero affiancate, nei decenni successivi, quella de Il Libro rosso del comune d’Ivrea, a cura di G. ASSANDRIA, Pinerolo 1914 (Biblioteca della Società storica subalpina, LXXIV) e quella del Cartario della confraria del S. Spirito d’Ivrea (1208-1276), a cura di G. BORGHEZIO, G. PINOLI, Torino 1929 (Biblioteca della Società storica subalpina, LXXXI/2). 4 Atti del IV congresso storico subalpino, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», VII (1902), pp. 235-268. 5 Il IV Congresso storico subalpino si collocò alla vigilia della pubblicazione delle Norme generali per la pubblicazione dei testi storici per servire alle edizioni della Regia Deputazione di storia patria per le Antiche Provincie e in Lombardia, in «Miscellanea di storia italiana», serie III, VII (1902), pp. XXXVIILVI. Su quel testo, dovuto principalmente a Carlo Cipolla, cfr. A. OLIVIERI, Il metodo per l’edizione delle fonti documentarie tra Otto e Novecento in Italia. Appunti su proposte e dibattiti, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino«», CVI/2 (2008), pp. 582-585. Sui contrasti fra Cipolla e l’allievo Gabotto cfr. op. cit., p. 585 sgg.; E.ARTIFONI, Carlo Cipolla storico del Medioevo: gli anni torinesi, in Carlo Cipolla e la storiografia italiana fra Otto e Novecento (Atti del Congresso di sudio: Verona 23-24 novembre 1991), Verona 1994, pp. 3-31; P. CANCIAN, La medievistica, in La città, la storia, il secolo. Cento anni di storiografia a Torino, a cura di A. D’ORSI, Bologna 2001, p. 135 sgg.; D. FRIOLI, G.M.VARANINI, Insegnare paleografia alla fine dell'Ottocento. Alcune lezioni di Carlo Cipolla (1883 e1892), in «Scrittura e civiltà», XX (1996), pp.367-398. 6 Atti del IV Congresso storico subalpino cit., p. 251 sg. 2 peraltro che i limiti cronologici potevano, nei singoli casi, subire variazioni in considerazione delle circostanze locali: ciò era vero specialmente per quel limite che separava, all’interno della pubblicazione, il gruppo dei documenti editi integralmente da quelli editi soltanto nei loro passi principali o in seguito a una scelta delle carte più significative. Tale discrezionalità è ravvisabile nelle edizioni relative agli archivi eporediesi. Sia Edoardo Durando sia la coppia costituita da Fedele Savio e Giuseppe Barelli – il primo editore, nel 1902, del cartario dell’archivio capitolare di Ivrea, i secondi, nello stesso anno, di quello del monastero di S. Stefano – scelsero di pubblicare integralmente tutte le «carte» fino al 1230, fornendo invece, per quelle risalenti agli anni 1231-1313, «una scelta delle più notevoli». Gabotto aveva optato, nel suo lavoro sull’archivio vescovile, per una partizione cronologica più complessa: in quella pubblicazione l’edizione in forma integrale dei documenti termina con l’anno 1250, «che segna non solo la metà di un secolo, ma anche la morte di Federico II, il quale tenne direttamente Ivrea sotto di sé fino al suo trapas7 so, o poco meno» ; fino all’anno 1300 si dà conto di tutte le «carte», ma alcune non sono riportate integralmente; del periodo compreso tra il 1300 e il 1313 è invece edita una scelta di documenti. L’ossessione per la resa il più possibile completa dei testi più antichi, sino a una data convenzionale, faceva parte di quell’"idole chronologique" che François Simiand descriveva, proprio negli stessi anni in cui erano pubblicate quelle edizioni, come tipico degli storici del proprio periodo e consi8 stente nella «habitude de se perdre dans des études d’origines» : in effetti Savio anteponeva all’edizione delle carte di S. Stefano uno dotto studio intitolato proprio Le origini del monastero di S. Stefano d’Ivrea, in cui si sforzava di verificare l’autenticità delle varie versioni superstiti del diploma di fondazione dell’abbazia, mentre Durando annoverava fra i motivi d’interesse della propria edizione dei documenti dell’archivio capitolare la loro importanza per lo studio di Ivrea nei secoli XI e XII, poco rappresentati dalle carte dell’archivio vescovile. Il 1313 ebbe in effetti una notevole importanza per Ivrea, diversamente, per esempio, dal 1230: fu in quell’anno che la città si sottomise ai conti di 7 Le carte dell’Archivio vescovile cit., I, p. 5. F. SIMIAND, Méthode historique et science sociale, pubblicato sulla Revue de synthèse historique nel 1903 e ristampato in «Annales. Economies, sociétés, civilisations», 15/I (1960), p. 118. Come è noto, l’idea sarebbe poi stata sviluppata da Marc Bloch nella sua riflessione sull’«idolo delle origini» (M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 1998, trad. it., p. 24 sgg.) 8 3 Savoia e ai principi d’Acaia. Un evento che Gabotto non poteva non considerare come una cesura epocale, anzi come la cesura per eccellenza nella storia di un comune piemontese, essendo la sua storiografia fortemente improntata al sabaudismo, cioè alla celebrazione dell’espansione sabauda come dipanarsi di un pro9 cesso di redenzione nazionale culminato con il Risorgimento . Ecco allora che la data del 1313 ispirò anche la partizione del corposo contributo gabottiano al volume degli Eporediensia (1900), dal titolo Un millennio di storia eporediese, steso contestualmente alla sua attività presso l’archivio vescovile. In quello scritto, molte vicende di Ivrea a partire dalla metà del secolo XIII sono interpretate, in chiave teleologica, come segni del progressivo ingresso della città nell’orbita del principato sabaudo: a proposito della mancata efficacia di un diploma imperiale che nel 1248 conferiva a Tommaso di Savoia il controllo su Ivrea, Gabotto commenta che «neanche stavolta l’aquila di Savoia riusciva 10 ancora a stendere le sue ali su Ivrea e sul paese circostante» ; e, più in generale, il capitolo del saggio relativo al periodo precedente la dedizione ai Savoia (1238-1313), presenta tale intervallo come l’epoca in cui per la città, «molto scaduta d’importanza» rispetto ai tempi della marca postcarolingia e costretta, sotto il regime comunale, entro un «orizzonte politico … fatalmente chiuso e ristretto in piccol ambito, … incomincia una situazione nuova, in cui Ivrea si 11 avvia a riacquistare importanza maggiore» . Un esempio di come le scelte editoriali di Gabotto e dei suoi epigoni impediscano di studiare i poteri insistenti sul territorio eporediese in quanto produttori e utenti di documenti è facilmente ravvisabile nel caso del vescovo Alberto Gonzaga, in carica fra il 1289 e il 1320. Del carattere profondamente unitario di questo lungo periodo, il quale – lo si vedrà in maniera particolareggiata nel corso del presente studio – coincise con importanti mutamenti nella società eporediese e nelle forme della documentazione vescovile e comunale, Gabotto non tenne alcun conto allorché fissò i limiti cronologici dell’edizione da lui redatta. Il trentennio fu così artificiosamente spezzato in tre sezioni cronologiche: una prima (dal 1289 al 1300) per la quale si dava conto dell’intera documentazione dell’episcopio, una seconda (dal 1301 al 1313) della quale erano scelti soltanto alcuni specimina e un’ultima (dal 1313 in poi) che non era in alcun modo rappresentata. 9 E. ARTIFONI, Scienza del sabaudismo. Prime ricerche su Ferdinando Gabotto storico del medioevo (1866-1918) e la Società storica subalpina, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», 100 (1995-1996), p. 171 sgg.; sul tema del sabaudismo è fondamentale il contributo di U. LEVRA, Fare gli Italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino 1992, p. 173 sgg. 10 GABOTTO, Un millennio di storia eporediese, in Eporediensia cit., p. 125. 11 Op. cit., p. 118 sg. 4 Questa disattenzione per la storia del documento in sé non era soltanto l’esito dell’adozione di criteri cronologici sfavorevoli allo studio della documentazione, ma traeva origine dalle convinzioni di quel gruppo di storici sul valore del documento nell’economia del discorso storiografico. Per Gabotto i documenti erano, 12 di per sé, null’altro che uno «strumento di studi storici, … storia giammai» : essi dovevano fungere da materia prima del discorso storiografico e andavano considerati come fonti per la storia politica piuttosto che come documenti da studiare in quanto tali. L’archivio si riduceva in pratica all’ambito d’azione del paleografo, del filologo e del diplomatista, i quali dovevano preoccuparsi di fornire allo storico dati il più possibile corretti. Solo in quest’ottica può risultare chiara l’impostazione di lavori come l’edizione dei Documenti dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea curata nel 1901 da Giuseppe Colombo e sollecitata dallo stesso Gabotto nell’ambito della campagna di pubblicazioni sul medioevo epore13 diese . Si tratta di un gruppo di singoli documenti estratti dalle fonti più disparate (alcuni sono editi a partire dal mundum, altri copiati dai libri iurium comunali), talvolta pubblicati soltanto frammentariamente, tralasciando le parti di testo non riferite a Ivrea; i singoli registri, che pure sono sommariamente descritti nell’introduzione, non sono considerati nella loro unità di documenti storici, né se ne auspica, per il futuro, una pubblicazione integrale. Un analogo disinteresse per il veicolo documentario dei testi storici sottende tutta l’opera di edizione degli studiosi che operarono in quegli anni negli archivi di Ivrea. In questi lavori il ricorso alle fonti in registro avviene non in modo sistematico, bensì prevalentemente allo scopo di colmare i vuoti della documentazione in pergamena sciolta presente negli archivi: «Gabotto, in preda a una sorta di 14 horror vacui, non ammette il silenzio documentario» . Gabotto, Durando e Savio attingono con gran libertà ai testi riportati nei registri duecenteschi e trecenteschi: da alcuni si estrapolano certi documenti e li si pubblica come se si trattasse di carte sciolte, senza riguardo per il complesso documentario da cui provengono, salvo indicarne sinteticamente la collocazione archivistica; di altri non si dà alcun conto, ritenendo la coeva documentazione in mundum sufficiente a ‘coprire’ quel periodo dal punto di vista delle fonti; altri ancora sono igno15 rati, ma se ne auspica la pubblicazione sotto forma di regesto . 12 Relazione intorno all’opera della Società storica subalpina nel suo primo sessennio, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», VII (1902), p. 14. 13 Documenti dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea, a cura di G. COLOMBO, Pinerolo 1901 (Bibloteca della Società storica subalpina, VIII). 14 ARTIFONI, Scienza del sabaudismo cit., p. 177. 15 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 5. 5 Stiamo affrontando il tema delle fonti in registro perché proprio a tale tipo di fonti si farà ricorso di preferenza nelle prossime pagine. Si tratta di scritture quasi per nulla sfruttate ai fini dello studio di Ivrea medievale, malgrado le più recenti ricerche storiche e campagne di edizione abbiano in parte invertito la 16 tendenza . Il più ovvio dei vantaggi connessi con lo studio di registri è di natura meramente quantitativa. I registri vescovili e i protocolli notarili prodotti dalla prima metà del Duecento sino all’inizio del secolo successivo contengono svariate centinaia di documenti che aspettano di essere letti e studiati: investiture feudali, testamenti, atti giudiziari, collazioni di benefici, nomine di funzionari, transazioni di vario tipo. Una mole di documenti ben superiore rispetto all’insieme dei testi coevi editi da Gabotto e compagni, sui quali sono state condotte, in passato, quasi tutte le ricerche medievistiche su Ivrea. L’analisi delle fonti in registro è poi particolarmente importante ai fini delle argomentazioni sviluppate in questa ricerca. In primo luogo, occorre notare che i registri contengono, in grande maggioranza, documenti relativi al disbrigo corrente degli affari dell’ente che ne ha disposto la produzione. Si pensi ai registri vescovili di «atti relativi ai beni della chiesa di Ivrea» («instrumenta de rebus Yporiensis ecclesie»): i documenti in essi contenuti si riferiscono quasi tutti alla gestione ordinaria dei beni ecclesiastici o delle prerogative pubbliche. Rispetto agli atti delle concordiae o alle sentenze arbitrali, questi testi esprimono di solito un basso grado di conflittualità istituzionale e consentono – pur entro i limiti che abbiamo individuato all’inizio di questa introduzione – un approccio più diretto alle pratiche di cogestione della res publica, in ambito documentario e non. In secondo luogo, i registri sono la migliore testimonianza dello sforzo, posto in atto dalle due istituzioni della civitas, di controllare e di ordinare la propria memoria scritta. Proprio alle pratiche connesse con l’esercizio dell’auctoritas pubblica sugli atti giuridici sarà dedicata la porzione più cospicua del presente lavoro: una preponderanza corrispondente alla centralità di cui tali pratiche godettero a Ivrea, fra Due e Trecento, nella costruzione degli spazi del 16 Edizioni di documenti eporediesi in registro sono in C. SERENO, Il monastero cistercense femminile di S. Michele di Ivrea: relazioni sociali, spazi di autonomia e limiti di azione nella documentazione inedita dei secoli XIII-XV, Torino 2009 (Biblioteca storica subalpina, CCII); Nuovi documenti sulle due dedizioni del comune di Ivrea al marchese Guglielmo VII di Monferrato (1266 e 1278), a cura di P. BUFFO, in «Bollettino dell’Associazione di storia e arte canavesana», 11 (2011), pp. 61-91; Le pergamene trecentesche di S. Francesco di Ivrea, a cura di P. BUFFO, in C. BERTOLOTTO, P. BUFFO, S. COPPO, F. QUACCIA, C. TOSCO, Il convento di San Francesco a Ivrea. Storia, arte e architettura, Ivrea 2011 (Studi e documenti, 1), pp. 21-40. Uno studio sul medioevo eporediese che fa un uso abbondante delle fonti in registro è, per esempio, A. PIAZZA, In chiesa e nella vita. Luoghi istituzionali e scelte religiose nel XIII secolo, in Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 275-318. 6 publicum. Lo studio dei registri, infine, ci consentirà di ricostruire i percorsi e i legami professionali dei loro estensori. I notai, e in generale i professionisti del diritto, ebbero un peso rilevante nel mantenimento dell’equilibrio dinamico fra i due vertici istituzionali della civitas, sia come mediatori tecnici, sia – in virtù dell’elevato rango sociale e dei legami personali di alcuni di essi – come compartecipi delle scelte politiche poste in atto da comune ed episcopio. L’importanza della mediazione di giudici e notai nella definizione dei rapporti fra istituzioni è 17 già stata posta in luce da Fissore per Asti . Limitiamoci per ora a rilevare come il caso eporediese si discosti da quello astigiano per la più prolungata osmosi fra il gruppo dei notai dipendenti dal comune e quello dei notai legati all’episcopio: una persistenza motivata dalla continuità della diarchia di vescovo e comune nel governo della res publica eporediese. I paleografi attivi fra Otto e Novecento nella redazione delle edizioni documentarie promosse dalla Società storica subalpina credevano nell’esistenza di un «legame stretto … fra quantità dei documenti pubblicati e quantità di verità posseduta. … L’attivismo editoriale non perveniva a complicare i problemi storici e a suggerire ipotesi alternative, ma era visto essenzialmente come un modo per risolvere i problemi e confermare le ipo18 tesi di partenza» . I documenti da essi pubblicati non costituiscono un campione ‘neutro’ della documentazione eporediese: sono il frutto di una selezione di testimonianze scritte operata da un gruppo di storici e paleografi 19 che se ne servirono per corroborare le proprie tesi . Non parliamo, poi, dei casi di vera mala fede. Gabotto, per esempio, non potè non accorgersi della falsità del diploma di immunità indirizzato da Ottone III all’episcopio eporediese nel 1000, costruito tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento a partire da un vero diploma di Federico II, edito da Gabotto stesso; ma la ignorò, editando il privilegio senza avvertirne il lettore e in tal modo colmando il ‘vuoto’ causato dall’assenza di un diploma ottoniano di immunità 17 G. G. FISSORE, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca nel Comune di Asti: i modi e le forme dell'intervento notarile nella costituzione del documento comunale, Spoleto 1977, pp. 42-57. 18 ARTIFONI, Scienza del sabaudismo cit., p. 177. 19 Le prime pubblicazioni della Biblioteca della Società storica subalpina, per esempio, contenevano un repertorio di fonti selezionato appositamente per consentire la redazione di genealogie che confermassero la teoria gabottiana dell’origine signorile dei comuni; ciò attirò le critiche di Gioacchino Volpe: cfr. OLIVIERI, Il metodo cit., pp. 584-586. Sulla controversia Gabotto-Volpe cfr. soprattutto N. IRICO, Il problema della presenza signorile nei primordi del comune di Biella, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXIX/2 (1971), p. 449 sgg. 7 20 per la chiesa eporediese . Uno studioso dei nostri giorni che conduca una ricerca basandosi sui soli documenti editi per cura della Società storica subalpina rischia di lasciarsi inavvertitamente condizionare dalla visione del medioevo propria di Gabotto e dei suoi collaboratori. Una tra le ‘sfide’ offerte alla ricerca dal medioevo eporediese è, senza dubbio, il superamento della tradizione gabottiana e la valorizzazione di nuove forme documentarie21. Le pagine che seguono intendono fornire un modesto contributo al conseguimento di tale scopo. 20 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 11, doc. 1. È giusto, almeno in nota, accennare al problema della genuinità dei testi dei documenti solenni relativi a Ivrea, a cominciare dai quattro diplomi indirizzati all’episcopio eporediese tra XI e XIII secolo: quello succitato di Ottone III, risalente al 1000, e i tre di Federico II, datati 1219. Nessuno dei quattro ci è giunto in forma originale. Le copie più antiche sono presenti in cartulari della curia vescovile, risalenti ai primissimi anni del secolo XIV, in particolare in un fascicolo, contenente tra l’altro una trascrizione in copia semplice di tutti e quattro (BUFFO, I registri notarili cit., p. 99). Proprio su questo manoscritto, l’unico a riportare il testo del diploma ottoniano, Gabotto condusse la propria edizione. Fra gli studiosi che sino a oggi si sono occupati del medioevo eporediese, coloro che recepiscono le indicazioni fornite in Die Regesten des Kaiserreiches unter Otto III, a cura di M. UHLIRZ, Graz-Köln 1957 (Regesta imperii, II/3.2), p. 769, doc. 1384; p. 836, doc. 1467, e in MGH, Diplomata II/2: Ottonis III diplomata, p. 803 sg., doc. 376, edizioni che denunciano la falsità dell’atto ma lo ritengono ricavato da un documento autentico, accolgono il testo del diploma come comunque attendibile nella sua sostanza. Al contrario, tale testo va ritenuto del tutto inattendibile anche dal punto di vista sostanziale, in quanto l’unico tratto che il falsario riprende da un diploma ottoniano autentico è il nome del cancelliere Heribertus, che eseguì la recognitio (Die Regesten cit., p. 769). Tutto il resto del testo è una copia, molto aderente, del dettato di un documento posteriore di oltre due secoli: uno dei tre diplomi rilasciati, sempre alla chiesa di Ivrea, da Federico II nel 1219 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 120 sg., doc. 85). È impensabile che, al contrario, il testo del diploma del 1219 copi, puntualmente e per gran parte della propria estensione, quello di un diploma autentico dell’anno 1000: come spiegare, in tal caso, la totale assenza di riferimenti a diplomi precedenti? A ben vedere, il falso diploma ottoniano contiene elementi estrapolati da un ulteriore documento, quello attraverso il quale lo stesso Federico II concedeva al vescovo di Ivrea di far scrivere in lettere d’oro il diploma concessogli (op. cit., I, p. 121 sg., doc. 86): nel testo falsificato è infatti inserito un riferimento ad «aureis litteris». Quello delle lettere dorate è un elemento caro ai falsari eporediesi del secolo XIII: esso ricorre infatti in uno dei falsi atti di fondazione del monastero di S. Stefano di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1 n. 1). A differenza dei diplomi federiciani, copiati numerose volte tra la seconda metà del secolo XIII e gli inizi del successivo, quello ottoniano compare, come si è detto, una sola volta, all’interno di una fonte senza dubbio ‘parziale’: un fascicoletto, risalente agli anni intorno al 1300, in cui un ignoto notaio della curia vescovile copiò un numero limitato di documenti relativi alla chiesa eporediese (per lo più diplomi imperiali e convenzioni con il comune di Ivrea), delineando una serie cronologica da cui risultasse lo sviluppo storico dei privilegi detenuti da quella chiesa. Solo la valutazione del milieu attraverso il quale il testo del falso diploma ottoniano si è conservato consente di comprendere appieno il significato politico della falsificazione. 8 1. Il quadro istituzionale di riferimento Una ‘sovrabbondanza’ di poteri connotati in senso pubblico Fra lo spirare del secolo XII e gli anni Sessanta del XIII la frattura tra la città di Ivrea e il territorio rurale circostante, dal bacino della Dora Baltea a quello del Malone – consumatasi contestualmente alla dissoluzione della marca anscarica – andò ricomponendosi. Non attraverso l’assorbimento di un contado entro la sfera di controllo della civitas, bensì con l’intreccio di legami di interdipendenza, sostanzialmente paritari, fra i poteri urbani – le istituzioni comunali e l’episcopo – e i principali poteri signorili radicati nelle campagne. Tale particolare situazione indusse le istituzioni laiche eporediesi a sostanziare la propria azione sul piano del publicum con prassi differenti rispetto a quelle osservabili, per gli stessi anni, nelle altre civitates, sfruttando al massimo l’elasticità dei lessici legittimanti che intorno all’esercizio del potere pubblico si erano nei secoli costruiti. I signori delle campagne, a propria volta, dovettero elaborare forme di autorappresentazione adeguate a gestire i propri rapporti con la civitas su un piano di parità: ciò si tradusse nell’adozione, 21 anche da parte di costoro, di pratiche e linguaggi di ascendenza pubblica . Una sorta di mimesi istituzionale, che alcuni fra questi domini impararono a impiegare anche nei confronti dei poteri signorili minori. Si pensi, in particolare, ai lignaggi comitali – i Valperga e i loro rami di Masino e Rivara, i San Martino, i Biandrate – che si legarono in svariate societates, la cui organizzazione richiamava quella delle leghe fra comuni, e impiegarono lessici documentari intesi a presentare la propria area di influenza alla stregua dei districtus comunali; un’area che proprio in quei decenni acquisiva definitivamente la denominazione complessiva di «Canavese». È un tema che qui non tratteremo ma che meriterà, in futuro, qualche approfondimento rispetto allo scarno 22 panorama delle ricerche sinora condotte . Quello eporediese e canavesano fu, sino all’avvento della potenza sabau21 BUFFO, La cogestione cit., p. 45 sgg. Cfr. soprattutto A. OREGLIA, Le famiglie signorili del Canavese nei secoli XII e XIII. Prosopografia, genealogia, vicende patrimoniali e politiche dei «comites Canapicii» coinvolti nelle vicende della «societas Canapicii», Torino 1990, Tesi di dottorato preso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, Sezione di Paleografia e Medievistica; P. BUFFO, Lessico e prassi dell’affermazione signorile entro l’area d’influenza dei Valperga. Il caso di Busano, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 22 11 da, un quadro politico policentrico. Un contesto caratterizzato dall’assenza di un potere in grado di affermarsi in maniera netta sugli altri, imponendo le proprie regole a un processo di riorganizzazione del territorio. Quel contesto si distinse anzi per la marcata ‘sovrabbondanza’ di poteri che aspiravano a presentarsi e a organizzarsi secondo il lessico e le forme legittimanti del publicum: poteri impegnati nel continuo sforzo di definire se stessi rispetto ai propri concorrenti, di superare le contraddizioni derivanti dalla sovrapposizione e dall’intreccio dei rispettivi ambiti giurisdizionali. In questa ricerca sono studiati i rapporti intercorsi fra due soggetti in particolare, l’episcopio e il comune eporediesi. Quelle due istituzioni, tuttavia, non furono i soli poteri a tentare di sfruttare a proprio vantaggio un lessico di ascendenza pubblica: a essi devono essere accostati, come rilevato, i conti 23 di Biandrate e i lignaggi comitali canavesani . Il quadro appena descritto fu complicato, a partire dalla seconda metà del secolo XIII, dalla progressiva perdita di autonomia da parte delle istituzioni civiche eporediesi. Un’effimera sottomissione a Guglielmo VII di Monferrato (1266-1267) fu seguita da un altrettanto effimero periodo di indipendenza; negli anni Settanta, Ivrea entrò nell’orbita degli Angiò, quindi (1278) nuovamente sotto il controllo di Guglielmo VII; poco dopo la morte di quel marchese, comune ed episcopio si sottomisero al figlio Giovanni (1294); alla morte di quest’ultimo (1305), Ivrea riacquistò per alcuni anni la piena autonomia. Il breve periodo intercorrente fra quella data e il momento dell’ingresso della città nei domini sabaudi (1313) fu caratterizzato dall’aggravarsi di una crisi sociale e istituzionale i cui presupposti sono avvertibili durante gli ultimi decenni del secolo XIII. Da un lato, l’episcopio aveva parzialmente perso l’effettivo controllo delle proprie funzioni di ascendenza pubblica, a causa del progressivo allentarsi del legame funzionariale con gli individui e le famiglie che esercitavano per conto dei vescovi alcune funzioni pubbliche spettanti alla chiesa eporediese: è il caso dei Solero, dei Taliandi e degli Stria, che ottennero in feudo, rendendola ereditaria, la carica dapprima amovibile di vicecomes ecclesiae 24 Yporiensis . Dall’altro, il comune non era in grado di imporsi né sulle reti di solidarietà rionali e di Parte, che sullo scorcio del Duecento inquadravano la società cittadina, né su alcune famiglie signorili detentrici di giurisdi23 Cfr. per esempio oltre, nota 30. CVI/2 (2008), pp. 399-441; BERTOTTI, La pianticella di canapa. Signori antichi e usurpazioni nel Canavese del medioevo, Ivrea 2001. 24 Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 187 sgg. 12 zioni entro l’area d’espansione del districtus comunale, quali i signori di 25 Settimo . Per quasi tutto il periodo qui in esame, insomma, le scelte politiche delle istituzioni eporediesi furono condizionate dalla subordinazione a dominazioni esterne o dalla debolezza politica in seno alla civitas; si vedrà tuttavia come tale situazione non abbia impedito loro, sino almeno alla sottomissione ai Savoia, di contendersi o di gestire congiuntamente diversi ambiti istituzionali di ascendenza pubblica, tra cui appunto quello del controllo sulle prassi documentarie. Un esempio: il titolo comitale dei vescovi di Ivrea Un’altra caratteristica del quadro che stiamo brevemente tratteggiando è costituita dalla fortuna che qui godettero certe definizioni istituzionali – da 26 quella di conte a quella di «societas del Canavese» – che furono caratterizzate da una lunga persistenza, malgrado non vi fosse alcuna identità fra i soggetti che di volta in volta se ne investirono. I vescovi di Ivrea, per esempio, impiegarono il titolo di episcopus et comes ininterrottamente fra gli anni Trenta del secolo XIII e gli anni Cinquanta del XX. L’attributo di conte ascritto ai presuli era certo «in gran parte svuotato di contenuti poli27 tici» : esso non coincise mai con l’effettivo esercizio, da parte dei presuli, di un’attività funzionariale all’interno di una circoscrizione pubblica avente come capoluogo Ivrea. Come per le altre città dell’impero, nemmeno nel caso eporediese si può quindi immaginare l’esistenza di un «vescovo28 conte» , ancora sostenuta in alcune opere divulgative locali. Quel titolo era, semmai, una forma suscettibile di essere riempita nel tempo con contenuti non sempre pienamente coincidenti con quelli ascritti alla nozione di comes 25 Op. cit., p. 215 sgg.; BUFFO, Cronaca di una fondazione cit. Una sintesi degli eventi fra la seconda metà del secolo XIII e la prima del XIV è in G. S. PENE VIDARI, Vescovi e comune nei secoli XIII e XIV, in Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 925-971. 26 Cfr. sopra, nota 23 sg. 27 R. BORDONE, I poteri di tipo comitale dei vescovi nei secoli X-XII, in Formazione e strutture dei ceti dominanti nel medioevo: marchesi conti e visconti nel regno italico (secc. IX-XII) (Atti del terzo convegno di Pisa: 18-20 marzo 1999), a cura di A. SPICCIANI, Roma 2001, p. 122. 28 Sul mito storiografico dei vescovi-conti, riguardante soprattutto gli episcopati di età ottoniana, cfr., oltre a BORDONE, I poteri di tipo comitale cit., soprattutto G. SERGI, Poteri temporali del vescovo: il problema storiografico, in Vescovo e città nell’alto medioevo: quadri generali e realtà toscane (Atti del convegno internazionale di Studi: Pistoia, 16-17 maggio 1998), Pistoia 2001, pp. 1-16; per una prospettiva d’insieme sulla sopravvivenza di miti storiografici legati alla storia medievale, ID., La rilettura odierna della società medievale: i miti sopravvissuti, in Medioevo reale, medioevo immaginario. Confronti e percorsi culturali tra le regioni d’Europa (Atti del convegno; Torino, 26 e 27 maggio 2000), Torino 2002, pp. 89-98. 13 nelle età precedenti; di essere cioè diversamente connotata a seconda dell’uso politico che si intendeva farne. Giovanni Tabacco, in un saggio intitolato L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, fa riferimento alle contraddizioni insite nell’uso del titolo comitale – proprio di realtà politiche differenti e cronologicamente molto distanti fra loro – segnalando «l’opportunità di non esigere, neppure nelle singole situazioni istituzionali e neppure nelle singole formulazioni di esse, un pensiero necessariamente univoco: … anche una singola espressione può emergere nel segno dell’ambiguità ed attestare una sovrapposizione di immagini. … La nozione di comes può ancora conservare per secoli l’idea di pars publica e di una schietta delegazione di responsabilità di immediata origine regia, pur là dove abbia assunto il significato di una potenza … autonoma, … con conseguenze notevoli nelle prospettive di 29 ulteriori sistemazioni istituzionali» . Tra la comparsa dell’idea del vescovo come comes e il suo impiego nella documentazione non vi fu, del resto, alcun automatismo: l’assunzione del titolo comitale da parte dei presuli fu motivata da precise scelte ideologiche, connesse con gli equilibri di potere definitisi in seno alla civitas all’inizio del Duecento. Nei quarant’anni intercorsi fra il 1193 – anno in cui i consoli di Ivrea confutarono in sede di arbitrato le pretese dei conti di Biandrate sulla città, argomentando che «l’imperatore aveva in precedenza concesso il comi30 tatus al vescovo» (e quindi, per la prima volta a noi nota in ambito eporediese, accostando esplicitamente le nozioni di episcopatus e comitatus) – e il 1233, anno che segnò l’inizio dell’uso sistematico del titolo comitale nella documentazione episcopale, il binomio episcopus et comes non fu recepito dai 31 notai operanti alle dipendenze del vescovo . Né il detentore della cattedra approfittò immediatamente dell’occasione di fregiarsi del titolo di conte offerta da un diploma con cui, nel 1219, Federico II diffidava gli Eporediesi dall’interferire con l’esercizio, da parte del vescovo, dei diritti che gli pertineva32 no "ratione comitatus" . Così come negli altri centri piemontesi – quali 29 G. TABACCO, L’ambiguità delle istituzioni nell’Europa costruita dai Franchi, in Forme di potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, a cura di G. ROSSETTI, Bologna 1987, p. 80. 30 «Prius imperator concesserat comitatum episcopo» (Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 122, doc. 137). 31 Alcuni studiosi fanno riferimento all’uso isolato di quel binomio in un documento del 1198; si tratta però, con buona probabilità, di un’interpolazione tardiva (Le carte dell’Archivio capitolare d’Ivrea cit., I, p. 71, doc. 60; nel documento l’espressione «episcopus et comes» compare soltanto in uno dei casi in cui è menzionato il vescovo, per giunta in soprallinea: si può quindi ragionevolmente supporre che si tratti di un’aggiunta di mano non coeva al resto del testo). 32 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 122 sg., doc. 87. 14 33 Vercelli e Tortona – nei quali è attestato per i secoli XII e XIII l’uso del titolo episcopus et comes, anche a Ivrea quell’espressione fu dapprima impiegata per costruire un lessico dell’antagonismo, come risposta all’attacco, da parte delle istituzioni laiche, delle prerogative di ascendenza pubblica tradizionalmente detenute dai vescovi. L’ingresso della qualifica di comes nel linguaggio della documentazione vescovile eporediese avvenne soltanto al principio degli anni Trenta, in una situazione di aperto scontro fra il vescovo e il comune per il 34 controllo di certi diritti di natura eminentemente pubblica . Un secondo aspetto è utile a chiarire il carattere problematico dell’uso del binomio episcopus et comes in quanto frutto di precise scelte politiche. Una volta entrata a far parte del lessico dell’episcopio, l’espressione subì, nel corso degli anni, una serie di piccoli ma significativi assestamenti intesi ad 33 A Vercelli, l’uso del titolo comes per il vescovo ebbe durata effimera, limitata in sostanza all’episcopato di Uguccione (1151-1170), con l’eccezione di un singolo caso relativo al predecessore Gisulfo. La sua comparsa fu contestuale a un consolidamento del potere vescovile ai danni del comune, da cui deriva addirittura una temporanea scomparsa delle istituzioni comunali dalla documentazione vercellese (F. PANERO, Istituzioni e società a Vercelli dalle origini del comune alla costituzione dello Studio (1228), in L’università di Vercelli nel medioevo (Atti del secondo Congresso storico vercellese, 23-25 ottobre 1992), Vercelli 1994, p. 81 sg.); un elenco delle occorrenze del titolo episcopus et comes nei documenti relativi a Uguccione si ha in op. cit., p. 134, n.26. Nella Vercelli di inizio Duecento, fiorì la riflessione teoretica sul publicum in quanto sfera di esercizio di diritti pertinenti al vescovo. Si pensi, in particolare, alle argomentazioni presentate da Giuliano da Sesso nel proprio Libellus quaestionum: «episcopus Vercellensis episcopus est et comes, episcopatum habet ab ecclesia, comitatum ab imperio»; «episcopus Mutinensis castrum Baziani alii concessit in feudum; nunc queritur utrum iurisdictionem concessisse videatur» (L. SORRENTI, Tra scuole e prassi giudiziarie. Giuliano da Sesso e il suo «Libellus Quaestionum«», Roma 1999, pp. 119, 169). Già nel 1206, del resto, Innocenzo III definiva, con la decretale Licet, i limiti dell’esercizio da parte dei vescovi di Vercelli dell’autorità giudiziaria nel territorio del districtus, circoscrivendola di fatto ai giudizi d’appello (Patrologia latina 215, c. 892, doc. 72); decretale che farebbe peraltro riferimento ai primi tentativi, attuati dal comune di quella città, di definire in sede statutaria il confine tra le due giurisdizioni (P. G. CARON, La legislazione ecclesiastica negli statuti medioevali del comune di Vercelli, in Vercelli nel secolo XIII (Atti del primo Congresso storico vercellese: Vercelli, 2-3 ottobre 1982), Vercelli 1984, p. 362). L’episcopio era dunque altamente consapevole sia del significato teorico sia del contenuto pratico dei diritti legati alla detenzione del comitatus, anche se, nella prassi documentaria, esso prediligeva l’uso del lessico della fidelitas vassallatica (BAIETTO, Vescovi e comuni cit., p. 518 sgg.), opponendosi all’erosione dei suoi diritti da parte del comune in virtù della fedeltà prestatagli da quest’ultimo a partire almeno dal 1208 (V. MANDELLI, Il comune di Vercelli nel Medioevo, I, Vercelli 1858, p. 46 sg). La fedeltà fu rinnovata nel 1214 (I Biscioni, I/1, a cura di G. C. FACCIO, M. RANNO, Torino 1934 (Biblioteca della Società storica subalpina, CXLV), p. 127, doc. 39). A Tortona, il titolo fu impiegato, a partire dal 1151, in maniera non sistematica e anzi con significative variazioni di densità (cfr. R. MERLONE, Cronotassi dei vescovi di Tortona, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIX/2 (1987), p. 533 sgg. E a M. MONTANARI, Cronotassi dei vescovi di Tortona nei secoli XIV e XV, in I vescovi dell’Italia settentrionale nel basso medioevo. Cronotassi per le diocesi di Cremona, Pavia e Tortona nei secoli XIV e XV, a cura di P. MAJOCCHI, M. MONTANARI, con un saggio di P. MAJOCCHI, Pavia 2002, p. 103 sgg.). In questo caso, i vescovi cercavano – pur in una situazione di buoni rapporti con il comune – di mettere la propria autorità al riparo dalle antinomie originatesi, anzitutto sul piano giuridico e formale, dal progressivo affiancamento delle istituzioni comunali a preesistenti reti funzionariali facenti capo all’episcopio (G. CHIURA, Origini e composizione sociale del comune di Tortona, Torino 1990, tesi di laurea presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, Sezione di Paleografia e Medievistica, p. 140). 34 Cfr. oltre, nota 42. 15 adeguarla al mutare della situazione politica vigente a Ivrea. Quando, nel 1233, il vescovo Oberto incominciò ad adottare sistematicamente il titolo comitale, uno fra i più importanti notai allora alle dipendenze del presule, Pagano – forse un chierico appartenente al capitolo cattedrale eporediese – 35 coniò per lui l’espressione «episcopus et comes Yporiensis» , in cui le due cariche erano poste sul medesimo piano ed era forte il nesso tra potere comitale e città; nesso che in seguito fu forse percepito come troppo problematico, dato che quella versione non fu accolta nel formulario degli altri notai e fu rapidamente soppiantata dalla più neutra «Yporiensis episcopus 36 et comes» . Il titolo comitale restò, almeno per tutto il Duecento, legato a quello episcopale: chi deteneva la cattedra eporediese in qualità di semplice «electus» o «procurator» non ne faceva uso; ciò determinò notevoli discontinuità nell’uso dell’espressione. Quando, nel 1289, Alberto Gonzaga si insediò sulla cattedra eporediese, il titolo non era usato da oltre vent’anni, perché il suo predecessore Federico di Front (1263-1289) non si era mai fatto consacrare. Poiché in quel periodo Ivrea era soggetta alla signoria dei Monferrato, Alberto ritenne più prudente far cadere del tutto il nesso tra potere comitale e controllo politico della città, adottando una nuova versione del titolo: «episcopus Yporiensis et comes»; ma nei primi anni del secolo XIV, in un contesto di crisi istituzionale interna e di affievolimento del controllo marchionale sulla civitas, ricomparve in alcuni atti vescovili il 37 vecchio titolo di «episcopus et comes Yporiensis» . Episcopio e comune: concorrenza istituzionale e cogestione del publicum L’aspetto fondamentale di cui tenere conto nel corso della nostra ricerca, perché incise in maniera determinante sulla costruzione delle prassi documentarie, è il carattere strutturale e non residuale delle funzioni di ascendenza pubblica detenute, sino ai primi anni del secolo XIV, dall’episcopio eporediese, malgrado il progressivo aumento del peso politico delle istituzioni laiche e malgrado la ripetuta sottomissione del territorio di Ivrea a poteri esterni. Tale persistenza conferì alla vicenda eporediese caratteri di forte specificità rispetto alla maggior parte delle civitates dell’Italia centrosettentrionale, nelle quali, entro i decenni centrali del Duecento, gli episco35 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 189, doc. 136; p. 196, doc. 140. Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 29 sgg. 37 Cfr. oltre, nota 199 sgg. 36 16 pi avevano perso le proprie funzioni pubbliche a vantaggio dei comuni. È un processo che Giovanni Tabacco ha descritto come «superamento nella 38 res publica comunale … della sintesi istituzionale di vescovo e città» . A Ivrea, la partecipazione di entrambi i vertici istituzionali urbani all’esercizio delle funzioni di ascendenza pubblica continuò per tutto il Duecento e oltre a essere considerata un elemento portante del regimen della città. L’amministrazione dei terreni comuni, l’esazione di pedaggi e gabelle, il presidio dei centri militari del districtus e, appunto, il controllo sulla validità degli atti giuridici comportarono, lungo tutto quel periodo, la compartecipazione o la concorrenza delle due istituzioni. L’assenza del «superamento» indicato da Tabacco può certo essere imputata a una 39 «intrinseca debolezza del governo cittadino» con riferimento ai decenni a cavallo fra i secoli XII e XIII – si pensi, per esempio, all’investitura feudale al comune, da parte del vescovo, delle sue «bone usantie», avvenuta nel 40 1210 – ma non in relazione alla seconda metà del Duecento e agli anni iniziali del Trecento, quando il comune eporediese si era ormai lasciato alle spalle la minorità politica rispetto al proprio vescovo. Il peculiare assetto istituzionale della civitas di Ivrea non fu, nel lungo periodo, imposto dal predominio di uno di quei due poteri sull’altro, ma si basò sul convergere, talvolta forzato, delle scelte politiche di entrambi. La spiegazione della persistenza della diarchia di vescovo e comune in Ivrea deve essere cercata anche nella continua vulnerabilità del complesso delle istituzioni cittadine nei confronti dei soggetti politici esterni. Nella prima metà del Duecento, per esempio, comune ed episcopio subirono la concorrenza istituzionale dei conti di Biandrate, che si intromisero nella 41 gestione di diversi ambiti di ascendenza pubblica, quali i terreni comuni ; nella seconda, come già ricordato, l’autonomia delle istituzioni cittadine fu limitata dall’inquadramento di Ivrea e del suo territorio entro dominazioni signorili. Di fronte all’impossibilità di acquisire singolarmente un efficace 38 G. TABACCO, Vescovi e comuni in Italia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e Germania nel medioevo (Atti della Settimana di studio: Trento, 13-18 settembre 1976), a cura di C. G. MOR, H. SCHMIDINGER, Bologna 1979, p. 281 sg. (anche in ID., Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, Torino 2000). 39 A. FALOPPA, Dal vescovo al comune, in Ivrea. Ventun secoli di storia, Pavone Canavese 2001. 40 L’atto è studiato in R. BORDONE, Potenza vescovile e organismo comunale, in Storia della chiesa di Ivrea cit., p. 817 sgg. 41 BUFFO, La cogestione cit., p. 103 sgg. Sul tema dei terreni comuni nel Piemonte medievale cfr. R. RAO, «Comunia». Le risorse collettive nel Piemonte comunale, Milano 2008. 17 e stabile controllo delle funzioni pubbliche sulla città e sul suo contado – qui lo chiamiamo, usando un termine allora diffuso, districtus – comune ed episcopio eporediesi approntarono strumenti pratici utili alla cogestione di tali funzioni. In questa sede, ne analizzeremo un gruppo soltanto: quello delle prassi relative al controllo dei registri di imbreviature dei notai defunti. Esprimersi in termini di «cogestione» non significa negare le periodiche rivendicazioni dell’esclusività di certi diritti pubblici da parte di una delle due istituzioni, né proporre una visione irenica dei rapporti fra esse intercorsi. La storia di comune ed episcopio fu del resto segnata, nel corso del Duecento e nei primi anni del Trecento, da una fitta sequenza di eventi di conflittualità. Per esempio, tra la fine degli anni Venti e il decennio successivo, il vescovo Oberto – sostenuto dalla sede apostolica e dai suoi legati – mise in atto una campagna di contenimento dell’intraprendenza del comune, intesa soprattutto a inibire l’autonomia che le istituzioni laiche si stavano conquistando negli ambiti delle prassi legislative e dell’accensione di legami politici con le signorie locali della campagna. La contesa si concluse, nel 1236, con la riaffermazione della supremazia sulla civitas del presu42 le, sia in quanto comes sia in quanto senior feudale del comune ; essa, tuttavia, non ebbe effetti significativi sugli equilibri che regolavano la cogestione della res publica da parte delle due istituzioni, che rimasero sotto 43 molti aspetti invariati . Un altro momento – ben più traumatico perché complicato dall’elemento bellico – di forte contrapposizione fra comune ed episcopio si registrò fra il 1266 e il 1267, allorché le istituzioni comunali, in seno alle quali era predominante l’orientamento filomonferrino, consegnarono Ivrea a Guglielmo VII di Monferrato; la città fu occupata militarmente, i beni dell’episcopio – che invece aderiva allo schieramento sfavorevole ai Monferrato – furono confiscati e il vescovo eletto fu ridotto in pri44 gionia . Nemmeno questi eventi, conclusisi con il ritiro del marchese, sembrano avere incrinato le strutture profonde che sostanziavano le pratiche relative alla gestione congiunta del publicum. Tali pratiche, poi, si mantennero in vita anche nei decenni finali del secolo XIII, quando svariate prero42 Su quegli eventi cfr. L. BAIETTO, Vescovi e comuni: l’influenza della politica pontificia nella prima metà del secoo XIII a Ivrea e Vercelli, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», C/2 (2002), p. 459 sgg.; EAD. Il papa e le città: papato e comuni in Italia centro-settentrionale durante la prima metà del secolo XIII, Spoleto 2007, p. 120 sgg. 43 BUFFO, La cogestione cit., p. 118 sgg. 44 GABOTTO, Un millennio cit., pp. 141-146. 18 gative spettanti all’episcopio erano nei fatti esercitate da lignaggi urbani eminenti e il controllo istituzionale sulla città da parte del comune era inde45 bolito dalla concorrenza di solidarietà rionali e clientele aristocratiche . Minacciata dagli episodi di più acceso contrasto e soggetta a continui mutamenti quanto a contenuti ed espressioni pratiche, la diarchia fra comune ed episcopio al vertice del potere pubblico sull’area eporediese, già parzialmente messa in crisi dai profondi conflitti che interessarono la civitas nell’effimera fase di autonomia tra il 1305 e il 1313, restò efficace fino al periodo immediatamente successivo all’avvento dei Savoia. Concepire una diarchia urbana in positivo – non cioè come espressione di un incompleto sviluppo del comune ma come esito, sempre riconfermato, di una coesistenza politica percepita come comune sottomissione di entrambe le istituzioni all’honor civico – è per noi un’impresa difficile. Non lo era altrettanto per gli Eporediesi del medioevo, visto che ancora all’inizio del Trecento uno di essi, il notaio comunale Francotto dell’Olmo, descriveva serenamente Ivrea come una «città … libera, sottoposta soltan46 to all’impero», in cui tuttavia «regnat … episcopus» . Cfr. BUFFO, La cogestione cit., p. 214 sgg. Cfr. oltre, nota 261. 45 46 19 2. L’emergere del problema documentario nella dialettica fra le istituzioni urbane Da quanto sinora rilevato emerge come lo sviluppo del notariato eporediese – che qui seguiremo a partire dal secondo quarto del secolo XIII, appoggiandoci per il periodo precedente alle ricerche condotte da Fissore – non possa essere studiato senza tenere conto delle tensioni fra comune ed episcopio per il controllo della gamma dei diritti connessi con le nozioni pubbliche del potere politico: gamma alla quale appartengono quelli relativi alle pratiche di gestione della memoria scritta. Occorrerà, da un lato, individuare i lessici e le prassi dei quali il comune e l’episcopio fecero uso per affermare ciascuno il proprio monopolio su questo settore della res publica; dall’altro, ricostruire tutti quei meccanismi di cogestione che consentirono di superare le impasses generate occasionalmente da tale situazione di rivendicazioni contrapposte. Una volta ricostruito questo quadro, cercheremo di tratteggiare le fisionomie professionali e i profili sociali dei tecnici del diritto che prestarono la propria opera a vantaggio dell’una e dell’altra istituzione. L’intreccio di queste due prospettive consente di porre in rilievo una fra le maggiori specificità della situazione eporediese tra il secolo XIII e gli inizi del XIV. «Nel redigere documenti comunali, il notaio si attiene alle regole del suo mestiere; però modifica … le proprie tecniche redazionali lasciando trasparire la natura pubblica del potere esercitato dai magistrati comunali e degli atti da essi compiuti. Con questo lavorio dal di dentro … il notariato contribuisce alla sua maniera all’elaborazione, costruzione e legittimazione ideologica del 47 nuovo potere» . È un processo ben noto, comune a tutta l’Italia comunale, che generazioni di diplomatisti hanno delineato con chiarezza. A Ivrea la situazione era tuttavia più complessa: qui, a un comune relativamente debole e perennemente alla ricerca di legittimazione politica faceva riscontro un episcopio in grado di conservare, lungo tutto il Duecento, prerogative di origine pubblica tutt’altro che residuali. Non meno dei loro colleghi contemporaneamente impegnati alle dipendenze del comune, i notai attivi per l’episcopio furono 47 J. C. MAIRE VIGUEUR, Forme di governo e forme documentarie nella città comunale, in Francesco d’Assisi. Documenti e archivi, codici e biblioteche, miniature, Milano 1982, p. 59. 21 impegnati, nel corso di tutto il secolo XIII e oltre, nella messa a punto di linguaggi e tecniche intesi a porre in evidenza i connotati pubblici dell’autorità esercitata dall’istituzione per la quale operavano: un processo, continuo e vitale, di costruzione di legittimità, svoltosi sotto la pressione dei convulsi avvicendamenti politici che si verificavano su scala regionale. «Nei comportamenti e nei rapporti fra notai e vescovi eporediesi» scrive Fissore «è risultata evidente una perfetta analogia con quanto avviene nelle grandi città comunali. Le tensioni, le sperimentazioni, i problemi di autorappresentazione tanto del prestigio notarile quanto del potere dei vescovi assumono le forme e le carat48 teristiche analizzate altrove per quanto riguarda il rapporto notai-comune» . Nello studiare la storia della documentazione eporediese, sviluppi abitualmente considerati appannaggio delle istituzioni comunali vanno seguiti con un occhio rivolto all’episcopio, il quale anzi assunse spesso un ruolo trainante rispetto all’elaborazione delle prassi documentarie della civitas. L’identica ricerca di legittimazione in senso pubblico da parte di comune ed episcopio determinò, tra l’altro, una lunga osmosi fra i gruppi di notai operanti per le due istituzioni. Come meglio vedremo nel corso di questa ricerca, i rapporti fra istituzioni cittadine e professionisti della documentazione devono essere studiati come un incontro fra autonomie: l’autonomia dei notai quali dispensatori di publica fides ai documenti da essi prodotti – il notaio medievale definisce se stesso notarius sacri palacii o notarius imperialis aule, insistendo sulla propria qualifica di ufficiale pubblico, derivante direttamente dall’impero – e dell’autonomia che comune ed episcopio aspiravano a esprimere sul piano istituzionale, anche affermando il proprio controllo sulla gestione della memoria scritta. Un tentativo vescovile di controllo sulle scritture del comune: l’ostensio del libro degli statuti Come già in parte rilevato, una fase di scontro istituzionale fra il vescovo Oberto e il comune eporediese si concluse, nel 1236, con una concordia promossa fra le due parti da una delegazione apostolica. L’atto dell’accordo ha un carattere prevalentemente dispositivo: esso consiste, in gran parte, in un elen- 48 G. G. FISSORE, Il notaio ufficiale pubblico dei comuni italiani, in Il notariato italiano nel periodo comunale, a cura di P. RACINE, Piacenza 1999, p. 52. 22 co di modifiche, cancellazioni e aggiunte da apportare al registro degli statuti comunali, contenenti, secondo quanto denunciato dall’episcopio, articoli lesivi della libertas ecclesiae. Ma se si esamina nel suo complesso il dossier documentario relativo all’ultimo periodo della contesa – il solo per il quale si disponga di fonti perspicue – si osserva come gli sforzi posti in atto dal vescovo Oberto per modificare a proprio vantaggio gli equilibri di potere interni alla civitas andassero ben oltre le clausole della concordia: egli intendeva approfittare dei contrasti con il comune per sperimentare comportamenti non del tutto giustificati dalle consuetudini locali, con l’intenzione di stabilire – forte anche della sanzione pontificia assicurata dai legati apostolici – una serie di ‘precedenti’ su cui fondare rivendicazioni future. Un atteggiamento appena avvertibile, ma segnalato da tracce certe. Una di esse – che riguardò proprio l’ambito, qui in esame, delle scritture giuridiche – fu il tentativo, da parte di Oberto, di coinvolgere i rappresentanti del comune in una procedura anomala. Nel corso di una prima udienza, svoltasi a Torino il 16 febbraio 1235, i rappresentati del comune avevano ricusato i delegati pontifici, rifiutando di sottoporsi al loro giudizio. In quell’occasione il magister Pagano, procuratore della chiesa di Ivrea, aveva ingiunto loro di cancellare gli statuti incriminati ed eventuali «altri statuti, formulati contro la libertà ecclesiastica, dei quali il detto Pagano … ignori l’esistenza, e che il medesimo 49 richiede siano presentati e mostrati» («que exhiberi petit et ostendi») . Dall’atto della sentenza relativa all’udienza successiva, svoltasi il 7 marzo, si evince che i delegati avevano nel frattempo avuto l’occasione di prendere personalmente visione del testo degli statuti in questione. Riferendosi agli articoli da cancellare, essi parlano infatti di «statuta que eis ostensa sunt». I delegati ordinarono che, una volta cancellati gli articoli contestati, il «liber statutorum comunis Yporegie» fosse fatto oggetto di un’altra ostensio, intesa a verificare l’effettivo svolgimento dell’operazione; tuttavia questa seconda ostensio non avrebbe avuto come destinatari, nuovamente, i giudici pontifici, come sarebbe stato normale, bensi – e in ciò consiste l’anomalia – il vescovo stesso: 50 «ostendere debeant librum statutorum ipsi domino episcopo» . In teoria, il vincolo vassallatico gravante sull’esercizio delle consuetudines 51 comunali da parte degli Eporediesi comportava per il presule la possibilità di esercitare un qualche controllo sul registro degli statuti, che di quelle 49 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 197, doc. 141. Op. cit., I, p. 199, doc. 142. 51 Cfr. sopra, nota 40. 50 23 consuetudines era l’espressione scritta. Ma il gesto dell’ostensio, richiesto da Oberto – per bocca dei legati pontifici che recepivano le sue istanze – ai rappresentanti del comune di Ivrea era, di per sé, abbastanza pregnante da caratterizzarne immediatamente il destinatario come detentore di un’autorità di natura pubblica. Quel gesto ricorda da vicino una delle tradizionali procedure giudiziarie dei secoli centrali del medioevo: quella, appunto, dell’ostensio chartae, attraverso la quale l’autorità pubblica che presiedeva un placito convalidava come autentico un atto, notarile o cancelleresco, esibito da una 52 delle parti . Per i rappresentanti del comune e dell’episcopio, l’ostensio al vescovo del codice degli statuti non sarebbe stata un neutro meccanismo di verifica, bensì un atto carico di significati impliciti: un gesto di subordinazione in grado di individuare, fra le due parti in causa, un soggetto postulante e uno detentore dell’autorità pubblica nella sua pienezza. Imponendo ai vertici del comune l’ostensio dei loro statuti di fronte al vescovo, i legati pontifici dimostravano di guardare oltre l’occasione straordinaria della propria missione, rimettendo il diritto di controllare e legittimare le scritture normative del comune all’autorità a cui esso avrebbe dovuto competere, in futuro, in circostanze ordinarie. Il vescovo Oberto e il suo procuratore Pagano, figura di spicco in seno all’entourage episcopale, sfruttavano l’autorevole presenza dei legati per creare, come si è osservato, un precedente da far valere in occasio53 ne delle controversie future . Primi segnali di un contrasto per la gestione dei protocolli di notai defunti Osservare questo segnale di interesse, da parte dell’episcopio, per il controllo delle scritture normative comunali aiuta a interpretare meglio un famoso capitolo della concordia finale tra vescovo e comune del dicembre dell’anno successivo, in cui si tocca nuovamente il problema documentario per dare disposizioni circa la conservazione e l’uso dei protocolli notarili dopo la morte degli estensori. I protocolli erano i registri – sovente cartacei, ma per gli anni 52 F. BOUGARD, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle, Rome 1995, pp. 319-329; C. MANARESI, Le tre donazioni della corte di Caresana alla canonica di Vercelli e la teoria dell’«ostensio chartae», in «Regio Istituto lombardo di scienze e lettere. Rendiconti», 74 (19401941), pp. 39-55. 53 Sul tema della creazione di nuove norme attraverso la politica dei precedenti giudiziari, cfr. GIANA, Pratica delle istituzioni Pratica delle istituzioni: procedure e ambiti giurisdizionali a Spigno nella prima metà del XVII secolo, in «Quaderni storici», 103 (2000), p. 14 sg. 24 Trenta del Duecento si è conservato anche un protocollo eporediese pergame54 naceo – entro cui i notai redigevano i propri atti, a partire dalle informazioni contenute nelle minute redatte al momento della stipula dei relativi contratti. I testi riportati nei protocolli prendono il nome di imbreviature, perché spesso erano riportati in forma abbreviata: nei singoli documenti erano omessi alcune clausole, il signum tabellionis distintivo del notaio ed elementi di chiusura quali la completio (la sottoscrizione finale in cui l’estensore dichiarava il proprio nome e la propria professione di notaio); tutte parti che, solitamente, erano condensate nella pagina iniziale del registro o all’inizio dei gruppi di imbreviature di un singolo anno, entro un incipit che conferiva validità all’intero gruppo dei documenti. Tale espediente faceva sì che gli atti contenuti nei protocolli, malgrado la forma abbreviata, avessero pieno valore giuridico. Il notaio poteva quindi, su richiesta dei contraenti, trascrivere (extrahere, levare) l’atto o gli atti di loro interesse, aggiungendo il proprio signum e le opportune formule, dal protocollo a uno o più esemplari in pergamena sciolta (i diplomatisti li chiamano munda), destinati a essere conservati dalle parti stipulanti. In molti casi, tuttavia, i contraenti preferivano non sostenere la spesa dell’estrazione del mundum, proprio perché l’atto, pienamente valido sul piano giuridico, era conservato e facilmente reperibile presso il notaio. Anche dopo la morte del notaio estensore, i protocolli continuavano a essere una ricchezza, sia sul piano economico sia, in certi casi, su quello politico. Sul piano economico, perché i contraenti dei diversi atti potevano rivolgersi agli assegnatari dei protocolli – si trattasse di eredi del defunto che esercitassero anch’essi il notariato o di commissari deputati dall’autorità pubblica – richedendo la redazione in mundum dei relativi documenti. Sul piano politico, perché spesso i protocolli medievali contenevano in originale, accanto alle imbreviature di atti di interesse privato, documenti riguardanti negozi in cui erano coinvolte istituzioni pubbliche. Si pensi che ancora a metà del secolo XV si ha notizia dell’invio, da parte del duca di Savoia, di un messo presso Rumilly, alla ricerca di protocolli contenenti atti relativi alla camera dei conti 55 sabauda, trasmessi privatamente dal loro primo estensore ai propri eredi . La 54 Cfr. oltre, nota 97. P. CANCIAN, Interventi sabaudi su conservazione e trasmissione di protocolli notarili a Susa e Rumilly (secoli XIV e XV), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXXVII/1 (1989), p. 214 sg. 55 25 gestione dei registri di imbreviature dei notai defunti era, infine, una prassi di elevato interesse sul piano istituzionale. La trasmissione dei protocolli dal loro primo estensore ad altro notaio era una transizione delicata, nel corso della quale occorreva che le istituzioni pubbliche – eventualmente servendosi della perizia di un collegio di professionisti del settore – vigilassero sulla conservazione della publica fides dei documenti ivi redatti. Affermare il proprio controllo su tale passaggio equivaleva a presentarsi come autorità garante della validità dei negozi giuridici stipulati entro il territorio della civitas. Non stupisce pertanto che l’episcopio e il comune eporediesi, interessati – lo abbiamo visto – da un complesso e instabile rapporto di cogestione delle funzioni di ascendenza pubblica, si siano precocemente confrontati sulle questioni relative alla gestione dei registri di imbreviature. Leggiamo, dunque, l’articolo della concordia del 1236 inerente il controllo pubblico sulla trasmissione (commissio) a concessionari dei protocolli di notai defunti. «Circa le imbreviature dei notai defunti» recita il testo «il vescovo e il comune sono pervenuti a tale accordo: che, qualora il notaio morto non abbia egli stesso assegnato o fatto assegnare i propri registri di imbreviature o protocolli [ad altro notaio], questi siano deposti presso due persone, una eletta dal vescovo e l’altra dalla credenza comunale; e quando accadrà che atti presenti nei registri debbano essere estratti [in mundum], questi due custodi si presentino di fronte al vescovo e l’atto sia estratto per decreto del vescovo e coscienti entrambi i custodi; e i due custodi giurino di custodire e porre al sicuro fedelmente i registri di imbreviature, secondo le proprie possibilità, in maniera che da essi non possa sorgere alcun danno; e ugualmente facciano e giurino quanti riceveranno [in eredità] registri di imbreviature per volontà del 56 notaio defunto» . Gli studiosi che si sono occupati della concordia del 1236 – in particolare Laura Baietto e Gian Giacomo Fissore – hanno avvertito una sostanziale estraneità dell’argomento di questo capitolo rispetto al resto dell’atto, incentrato sulla modifica degli statuti iniqui e sulla spartizione delle competenze sul 56 «De abreviaturis tabellionum decedentium sive morentium in tali concordia fuerunt dictus dominus episcopus cum comuni: quod, nisi tabellio decedens alii notario comitat vel duxerit comitendum, dicta breviaria seu protocolla deponantur apud duos, quorum unus eligatur per episcopum et alius per credentiam; et cum contingerit instrumenta que facta fuerint extrahi de dictis breviariis, representent se duo predicti custodes coram episcopo et fiat dictum instrumentum de parabola episcopi et conscientia amborum custodum; et iurent dicti custodes dicta breviaria bona fide custodire et salvare, ita quod de dictis breviariis aliquod dampnum non contigat, pro posse suo; hoc idem iuret et servet per omnia ille qui habuerit breviaria de voluntate notarii decedentis» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 216, doc. 157). 26 castello di Settimo, feudo vescovile indebitamente alienato dal comune alcu57 ni anni prima. Fissore, che ha esaminato questo brano in due saggi , afferma 58 che esso compare «un po’ a sorpresa» fra i capitoli dell’accordo. Un esame dei testi relativi agli anni immediatamente precedenti mostra tuttavia come, nella controversia fra vescovo e comune, il problema della pertinenza dei diversi diritti attinenti alla gestione pubblica della memoria scritta dei negozi giuridici, in tutte le sue forme, sia stato centrale, benché nell’atto conclusivo non emerga che in un passo isolato. Si osservi, anzitutto, la fisionomia professionale dei partecipanti alle due prime udienze tenute dai legati pontifici, quelle in cui fu sollevato il problema del’ostensio del libro degli statuti. Procuratore del vescovo Oberto era, lo si è detto, il magister Pagano, canonico della cattedrale eporediese. Costui deve probabilmente essere identificato con uno fra i notai che nei medesimi anni redigevano atti di alto livello per l’episcopio; a meno che non si ascrivano tutti 59 i documenti sottoscritti «Paganus» o «magister Paganus notarius domini epi60 scopi» , prodotti tra gli anni Venti e Trenta del Duecento, a un omonimo, tale 61 «Paganus notarius de Albiano» . Non sarebbe l’unico caso, per quel periodo, di un canonico attivo nella professione notarile: si vedrà più avanti il caso, contemporaneo, del magister Viviano. Quanto al procuratore del comune, Stefano, egli fu, nel secondo quarto del Duecento, uno di quei pochi notai che si possano classificare con certezza come funzionari comunali: egli stesso, 62 infatti, si sarebbe definito «scriba comunis Yporegie» nel 1250 . Personaggio di spicco in seno alla cerchia dei notai operanti per il comune, produsse tra 63 l’altro una discreta quantità di copie autenticate su mandato di quell’istituzione . Le prime battute dello scontro che, attraverso la mediazione dei legati pontifici, avrebbe portato a una globale ridefinizione delle responsabilità pubbliche di comune ed episcopio erano insomma affidate a tecnici della documentazione. Fu proprio a partire da quegli anni che il livello più alto del notariato eporediese si affermò come gruppo in grado, in virtù della propria consisten57 FISSORE, Vescovi e notai cit.; ID., Un caso di controversa gestione cit., pp. 67-88. Op. cit., p. 67. 59 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, pp. 131-134, doc. 93 sg.; p. 136, doc. 95; p. 140 sg., doc. 100 sg.; p. 146, doc. 104; pp. 151-153, doc. 109 sg.; p. 170 sg., docc. 118-120; p. 174, doc. 123; p. 176 sg., doc. 126; p. 183 sg., doc. 128; pp. 189-196, docc. 136-140. 60 Op. cit., I, p. 171, doc. 123. 61 Op. cit., I, p. 183, doc. 130 (1233), in cui quest’ultimo e «magister Paganus canonicus» compaiono entrambi come testi dell’atto. 62 I documenti dell’archivio storico cit., p. 236, doc. 16. 63 Op. cit., p. 223, doc. 7. 58 27 za e alla propria persistenza – ma anche grazie al possesso e della condivisione di un’episteme giuridica e politica – di cooperare stabilmente con i vertici del potere, sviluppando discorsi politici di lunga durata. Prassi e lessici capaci di far valere, in seno a quella società, una propria legittimità intrinseca, svincolata rispetto alle contingenze che regolavano l’avvicendamento ai livelli più alti delle gerarchie politiche; ritorneremo su questo tema al termine della ricerca. L’affermazione dei notai eporediesi si svolse in condizioni del tutto particolari, non potendo essi approfittare dell’affermazione delle istanze politiche di Popolo, che in molti dei comuni italiani furono il principale motore della rivoluzione documentaria dei decenni centrali del Duecento e che favo64 rirono la crescita della componente notarile in seno alle istituzioni comunali . Teoria e prassi: la concorrenza delle istituzioni comunali e il primo affacciarsi di due distinti ambiti di responsabilità. Se negli anni Venti e Trenta del Duecento il problema del controllo sulla produzione e sulla copia di atti giuridici si fece sentire come questione centrale in seno alla disputa sulla pertinenza delle prerogative di natura pubblica sulla civitas di Ivrea, ciò accadde perché proprio a partire da quel periodo le istituzioni comunali consolidarono la propria indipendenza documentaria, ponendosi in concorrenza con l’episcopio come autorità garante delle scritture giuridiche riprodotte in copia dai notai eporediesi. Il comune, anzitutto, incominciò ad adottare nuove prassi di conservazione della propria memoria scritta. Nel 1225, vide la luce un primo liber iurium comunale – così i diplomatisti chiamano quei codici entro i quali le istituzioni laiche disponevano la copia 65 dei documenti attestanti, appunto, i propri diritti (iura) – interrompendo un’attività di raccolta di alcuni atti del comune in forma di regesto che aveva 64 Sul tema cfr. E. ARTIFONI, I governi di «popolo» e le istituzioni comunali nella seconda metà del secolo XIII (relazione presentata al convegno franco-italiano Le gouvernement de la cité. Modèles et pratiques (XIIIe-XVIIIe siècles), tenutosi a Perugia nel settembre 1997), distribuito in formato digitale da «Reti medievali», p. 15 sgg.; J.C. MAIRE VIGUEUR, Révolution documentaire et révolution scripturaire: le cas de l’Italie médiévale, in «Bibliothèque de l’Ecole des Chartes», 153/1 (1995), pp. 177-185. Per alcuni casi specifici di area subalpina, cfr. invece L. BAIETTO, Scrittura e politica. Il sistema documentario dei comuni piemontesi nella prima metà del secolo XIII, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCVIII/2 (2000), p. 487 sgg. 65 Una sintesi sui libri iurium, che dà conto dei principali studi sul tema, è in P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991, pp. 144-150. 28 66 preso avvio probabilmente nel 1216 . La prassi, in sé, non era innovativa: da secoli gli enti religiosi raccoglievano copia dei principali atti giuridici di loro interese entro registri detti cartulari: a Ivrea è attestata la composizione, nel 67 1174, di un cartulario del monastero benedettino di S. Stefano . La produzione del liber iurium interessa qui soprattutto perché coincise con l’ottenimento di un assetto e di una collocazione stabile da parte dell’archivio comunale: si pensi che la prima menzione di un «palatium comunis» distinto dalle strutture del palazzo episcopale, che sino ad allora avevano ospitato le riunioni dei 68 rappresentanti del comune e l’archivio stesso, risale al 1221 . I testi delle sottoscrizioni dei tre notai comunali che eseguirono la copia degli atti riportati nel liber iurium – è andato perduto l’incipit, che doveva contenere per esteso il praeceptum con il quale il podestà richiedeva ai notai scriventi di autenticare le copie così prodotte, conferendo loro la publica fides – e, indirettamente, il fatto stesso che nel 1236 il vescovo Oberto avvertisse la necessità di includere nella concordia con il comune una clausola che ribadisse la superiorità dell’episcopio nella gestione dei protocolli dei notai defunti denunciano come, verso il secondo quarto del secolo XIII, il comune apparisse ormai in grado di porsi come garante autosufficiente della validità pubblica degli atti giuridici copiati sotto il suo precetto. L’episcopio eporediese, da tempo interessato a presentarsi come autorità 69 «superiore e garante» nei negozi giuridici fra i cittadini e nella relativa docu70 mentazione , incominciò a enfatizzare questa posizione di controllo eminente non appena le istituzioni comunali furono in grado di esprimere una seria concorrenza nell’esercizio di tale funzione pubblica. È un comportamento che abbiamo già incontrato, come si ricorderà, discutendo dell’adozione del titolo episcopus et comes, provocata dalla concorrenza con il comune per il control- 66 Del codice contenente questi regesti è sopravvissuto un frammento, pubblicato insieme con il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., pp. 286-295, doc. 250; sulla datazione del regesto si veda F. PANERO, Il «Libro rosso» del comune d’Ivrea: raccolta degli atti di cittadinatico e strumento giuridico per un coordinamento politico del territorio diocesano, in «Libri iurium» e organizzazione del territorio in Piemonte (secoli XIII-XVI), a cura di P. GRILLO, F. PANERO, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici per la provincia di Cuneo»,128 (2003), p. 53. 67 Cfr. oltre, nota 173 68 Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 97, doc. 116. Sull’edilizia pubblica medievale a Ivrea: C. TOSCO, Ricerche di storia dell’urbanistica in Piemonte: la città d’Ivrea dal X al XIV secolo, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIV/2 (1996), p. 487 sgg. 69 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 908. 70 Op. cit., p. 904 sgg. 29 lo delle funzioni pubbliche. Fu enfatizzata soprattutto l’estensione dell’autorità di controllo a tutti gli atti giuridici stipulati entro il territorio della civitas: certe richieste espresse dall’episcopio – l’ostensio del liber statutorum comunale, la subordinazione dell’estrazione di munda dai protocolli dei notai defunti all’autorizzazione vescovile – erano anche intese a rendere esplicito il fatto che quelle azioni di laudum, confirmatio, praeceptum ordinariamente compiute dal vescovo nelle diverse fasi della produzione di documenti relativi alla chiesa eporediese – azioni la cui legittimità è esplicitamente ricondotta, dai notai che le 71 registrano, all’"auctoritas" detenuta dal presule – potevano e dovevano essere esercitate a garanzia della piena validità di tutti i documenti giuridici redatti per la civitas, senza distinzione tra una sfera di pertinenza episcopale e una di pertinenza comunale. Si trattava di una mossa difensiva, perché nella realtà tale distinzione di ambiti stava effettivamente prendendo piede: l’autonomia con la quale i vertici del comune avevano autorizzato la copia degli atti da inserire nel liber iurium ne è la dimostrazione migliore. Nondimeno, l’episcopio rimase, per tutto il Duecento, uno dei due protagonisti principali delle vicende del controllo pubblico sulle scritture della civitas. Ciò avvenne in primo luogo perché, sul piano pratico, le istituzioni laiche, una volta guadagnata una certa indipendenza nella gestione delle operazioni notarili sulle scritture di ambito comunale, non furono subito in grado di affermare la propria auctoritas come sovrana a livello locale – di assicurarsi insomma la supremazia sulla totalità dei documenti della civitas, compresi quindi quelli di ambito vescovile – anche a causa della sempre vitale concorrenza dell’episcopio, di cui sono prova le disposizioni prese in materia nel 1236; in secondo luogo perché, sul piano dell’ideologia, l’episcopio stesso, nel corso dell’intero Duecento e anche oltre, continuò con insistenza a presentarsi come detentore di quell’auctoritas che conferiva legittimità alle operazioni di autenticazione, e in particolare alla delicata trasposizione del testo di un atto giuridico dal protocollo di un notaio defunto al mundum redatto da un nuovo notaio. 71 Si legga, ad esempio, la completio ricorrente in tre instrumenta degli anni 1215-1216, rogati da Martino e redatti da Giacomo: «Ego Iacobus sacri palacii notarius ex precepto magistri Martini et auctoritate domini episcopi hanc cartam ab eodem magistro Martino abreviatam scripsi» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 108, doc. 77; Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 108). Si osservi, inoltre, il praeceptum auctenticationis, scritto quasi un secolo più tardi, relativo a un instrumentum del notaio vescovile Bartolomeo Censodo copiato nel 1309 da Giglielmo de Honore di Santhià: «Ego Guillelmus notarius predictus predictum publicum instrumentum verbo et auctoritate dicti domini episcopi rogatus autencticavi et exemplavi et in publicam formam redegi, nichil addito vel dempto quod mutet sensum ipsius, ipsum de verbo ad verbum fideliter exemplando, et signum meum et nomen apposui in testimonium veritatis» (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM288/305/1, c. 92 r.). 30 Le politiche documentarie dell’episcopio: peculiarità locali e influenze del papato Il potenziamento dell’attività documentaria dell’episcopio a partire dagli anni Venti e Trenta del Duecento è spiegabile solo in parte come risposta alla concorrenza delle istituzioni laiche, né si limitò al tentativo di riportare sotto il controllo del vescovo la documentazione comunale. Fattori interni ed esterni alla civitas spingevano, in quel periodo, verso una poderosa opera di ristrutturazione delle prassi di produzione e conservazione di atti giuridici da parte dell’episcopio. A Ivrea, il percorso degli atti di pertinenza vescovile dalla stesura della minuta alla conservazione del mundum – un percorso già di per sé suscet72 tibile di numerose «discontinuità e labilità» – aveva sempre avuto un punto debole proprio nell’ultima fase, quella archivistica. Sino al tardo medioevo – periodo in cui si sarebbe incominciato a custodirli in un locale apposito, detto dai notai «crota seu archivium» – i documenti erano conservati all’interno 74 della «camera episcopi», nel palazzo vescovile , ed erano soggetti, al pari degli altri beni mobili ivi custoditi, alle periodiche spoliazioni da parte dei cives, proprie del periodo intercorrente fra la morte di un vescovo e l’elezione del suc75 cessore, che si susseguirono fino ai primi decenni del Duecento . Specialmente in fasi di conflitto tra comune ed episcopio, i milites eporediesi avrebbero potuto approfittare della situazione per far sparire le scritture che attestavano la competenza vescovile su alcuni diritti soggetti ad aspirazioni concorrenti da parte del comune. Benché le fonti tacciano sulla natura dei beni mobili asportati dal palazzo in occasione della morte dei vescovi, il rischio stesso che tali asportazioni si verificassero sarebbe comunque stato sufficiente a indurre i vescovi a prendere provvedimenti in materia. Alla minaccia umana si aggiunsero poi, intorno al 1227, i danni causati da un incendio che distrusse parte delle 76 scritture della «camera episcopi» . Rileviamo per inciso come la combinazione dei due fattori abbia fatto sì che il numero dei documenti anteriori al 1200 attualmente esistenti nell’archivio vescovile sia estremamente ridotto, soprat77 tutto in rapporto alle sopravvivenze dell’archivio capitolare . 72 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 908. Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 286, doc. 202. 74 Op. cit., I, p. 164, doc 118. 75 Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., pp. 159-163, doc. 172; BUFFO, La cogestione cit., pp. 84-88. 76 «Casu fortuito incendii [episcopus] magna parte de scripturis suis amisit in camera sua habita» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, doc. 118, p. 164). 77 67 documenti contro i 30 dell’archivio vescovile. 73 31 La commissio dei protocolli dei notai defunti a responsabili pubblicamente designati sopperiva alle pecche nella conservazione dei munda, assicurando la sopravvivenza e la reperibilità degli atti nel tempo, in forma di imbreviatura. Il forte vincolo che veniva a crearsi fra il concessionario dei protocolli e il vescovo faceva sì che l’episcopio continuasse a essere il centro operativo delle procedure di documentazione, evitando che questa estensione di responsabilità si trasformasse in dispersione archivistica. Quanto ai fattori di cambiamento esterni, al primo posto vanno senz’altro collocate le pressioni del papato nel senso di una più efficace gestione delle pertinenze documentarie delle singole diocesi. Sin dal IV concilio Lateranense 78 (1215) , la sede apostolica sollecitava l’adozione, da parte dei vescovi, di «pratiche documentarie avvertite quali efficaci … strumenti di un attento 79 governo diocesano» . Nei decenni centrali del Duecento, l’idea, incoraggiata soprattutto dal papato, che a una buona amministrazione della res ecclesiae dovesse corrispondere la capacità, da parte dei vescovi, di adottare «appro80 priate strategie documentarie» – consistenti eventualmente nella conservazione, presso il palatium episcopi, di registri notarili contenenti la memoria dei negozi giuridici compiuti dall’episcopio – era «uno dei principi ispiratori dell’ufficio episcopale, sebbene nella pratica si scontrasse con la consuetudine di 81 una conservazione esterna e con la mancanza di accentramento archivistico» . Laura Baietto ha mostrato come l’episcopato di Oberto – al pari di quello del suo immediato predecessore, Pietro – sia coinciso con il pieno compimento del disegno pontificio, che prevedeva l’instaurazione di un serrato rapporto fra il presule e un papato in grado di orientare secondo i propri progetti le linee 82 guida della politica vescovile . Nel corso del suo lungo episcopato (12091241), Oberto dovette recepire le sollecitazioni provenienti da Roma relativa- 78 Conciliorum Oecomenicorum decreta, a cura di G. ALBERIGO, P. IOANNON, C. LEONARDI, P. PRODI, Bologna 1962, p. 228, constitutio 38. 79 G. GARDONI, Notai e scritture vescovili a Mantova fra XII e XIV secolo. Una ricerca in corso, in Chiese e notai (secoli XII-XV), in «Quaderni di storia religiosa», XI (2004), p. 54. 80 L. cit. 81 M. ROSSI, I notai di curia e la nascita di una ‘burocrazia’ vescovile: il caso veronese, in Vescovi medievali, a cura di G.G. MERLO, Milano 2003, p. 84. Sul tema della corretta gestione di chartae et instrumenta come connotato del sacerdote ‘buon pastore’, cfr. M. MACCARRONE, «Cura animarum» e «parochialis sacerdos» nelle costituzioni del IV concilio Lateranense (1215). Applicazioni in Italia nel secolo XIII, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso medioevo (sec. XIII-XV) (Atti del VI Convegno di storia della Chiesa in Italia: Firenze, 21-25 settembre 1981), I, Roma 1984, p. 104 sg. 82 BAIETTO, Vescovi e comuni cit., p. 486 sgg. 32 mente alle necessità di ammodernamento della prassi documentaria delle chiese cittadine: i provvedimenti da lui presi in materia di documentazione negli anni del contrasto con il comune vanno letti anche nell’ottica di tale nuova 83 sensibilità . Del resto, proprio sotto Oberto va collocata la redazione del primo registro vescovile eporediese di cui si abbia memoria: il registro di imbreviature del notaio Pagano, sul quale torneremo oltre. 83 Si veda anche, in riferimento alla sensibilità documentaria sviluppatasi in seno alla curia romana al’inizio del secolo XIII, F. DELIVRÉ, Les registres pontificaux du XIIe siècle. L’apport des «Libri de primatu Toletane ecclesie», in «Mélanges de l’Ecole française de Rome», 120/1 (2008), pp. 105-138, in particolare p. 117 sgg. 33 3. Una memoria contesa: la circolazione dei registri notarili di imbreviature Un limite alla definizione di ambiti documentari separati: la compattezza del notariato eporediese Le politiche documentarie dell’episcopio e delle istituzioni comunali eporediesi si svilupparono, nel corso del Duecento, lungo due direttrici. Da un lato, entrambi i soggetti tentarono – sostanzialmente con successo – di approfondire la propria autonomia nella gestione delle scritture relative ai rispettivi ambiti di competenza. Nel caso del comune, lo si è visto, tale autonomia documentaria andò affermandosi di pari passo con la distinzione dei luoghi del potere comunale dalle strutture del palazzo vescovile. Un distacco fisico non privo, peraltro, di implicazioni di natura simbolica: si pensi che nell’estate del 1235 – nel pieno infuriare della contesa tra vescovo e istituzioni laiche intorno agli statuti comunali iniqui – il procuratore vescovile Fredenzono di Modena esponeva al capitano imperiale di Ivrea le proprie lamentele per la morosità del comune eporediese, il quale da molti anni rifiutava di corrispondere all’episcopio il censo dovutogli per la 84«domus comunis», appartenente, secondo Fredenzono, alla mensa vescovile . Quanto all’episcopio, esso fu impegnato, a partire dai decenni centrali del Duecento, in un generale ammodernamento delle pratiche legate alla documentazione, in parte come risposta alle sollecitazioni provenienti dal papato; un processo che preludeva alla nascita, piuttosto precoce, di una burocrazia vescovile in grado di far fronte alle esigenze di amministrazione temporale e spirituale proprie dei presuli. Dall’altro lato, quei due soggetti tendevano ciascuno a presentare se stesso come detentore di una funzione di tipo pubblico – in grado di assicurare una superiore garanzia sulla legittimità di tutte le operazioni documentarie svolte in seno alla civitas – e viceversa a estromettere o a sminuire il peso dell’altro nella partecipazione a tale funzione. Questo atteggiamento è riscontrabile in positivo per l’episcopio già dai primi decenni del secolo; per il comune, come si vedrà, soprattutto a partire da un’età più tarda. 84 «Dominus Fredençonus de Mutina iudex et vicarius et nuncius domini Oberti Dei gratia Yporiensis episcopi et comitis, vice et nomine ipsius domini episcopi, denunciavit domino Willelmo Sivolleto capitaneo et rectori Yporegie et Bonifacio filio condam domini Ardicionis de Mercato procuratoribus comunis Yporiensis nomine ipsius comunis ut dicto domino episcopo solverent pro comuni vel solvi facerent censum quem eidem domino episcopo dare debet comune Yporegie vel pro ipso comuni pro domo comuni in qua tenent et reddent suas raciones, videlicet XII denarios pictavinos pro quolibet anno, vel domum predictam eidem domino episcopo dimitant et restituant, cum iamdiu cessaverint a solucione censsus» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 207, doc. 149). 35 Parrebbe insomma che alle rivendicazioni contrapposte, sul piano delle ideologie, di una preponderanza nel ruolo di tutela delle scritture giuridiche della civitas nel loro complesso facesse riscontro, sul piano pratico, il delinearsi di due ambiti distinti di azione documentaria. In effetti, le forme di gestione delle scritture pubbliche indicate da un episcopio pur forte nel corso della contesa con il comune tra gli anni Venti e Trenta del Duecento non riuscirono a imporsi come prassi ordinarie. Il dettagliato preambolo (tecnicamente è detto narratio) che introduce l’atto della concordia del 1236 è privo di riferimenti all’ostensio del liber statutorum richiesta dai rappresentanti del vescovo l’anno precedente. Non vi sono, poi, attestazioni di un’applicazione letterale della procedura di commissio dei protocolli dei notai defunti a fiduciari dell’episcopio e del comune descritta nei medesimi accordi, i quali – come si ricorderà – prevedevano tra l’altro che fosse necessario ottenere un precetto vescovile prima di procedere all’estrazione di munda dei protocolli così assegnati. Il processo di definizione di due autonomie autenticatorie separate, dipanatosi nel corso del secolo XIII, ebbe tuttavia alcuni limiti, legati a una fra le caratteristiche meglio osservabili del notariato eporediese di quel secolo: la sostanziale identità intercorrente fra il gruppo dei notai operanti per l’episcopio e quello dei notai operanti per il comune. Gian Giacomo Fissore ha definito il notariato un 85 trait d’union fra quei due detentori di poteri pubblici nell’Ivrea del Duecento : un nucleo stabile e coeso di professionisti della documentazione, capace di garantire continuità alle pratiche legate alla memoria scritta, attraverso le quali si esercitavano le funzioni pubbliche del potere. Stiamo discutendo, come è ovvio, di una cerchia notarile di alto livello, vicino ai soggetti detentori di potere e pertanto in grado di partecipare ai processi di elaborazione dei lessici politici propri di quei soggetti. Tale partecipazione, come vedremo dettagliatamente esaminando il caso di Francotto dell’Olmo, andava ben oltre la semplice e strumentale messa a disposizione di un sapere pratico. Nella trasposizione degli atti giuridici compiuti dai poteri cittadini nella forma scritta del documento notarile, il notaio svolgeva un’opera al contempo ermeneutica e creativa: «egli partecipava (ed era parte) dell’oggetto stesso della sua attività: … il sistema … lo coinvolgeva proprio nella misura in cui egli si trovava al suo interno, come elaboratore, interprete, operatore pratico» . Nel concorrere alla legittimazione ideologica di un potere, egli era partecipe della sua costruzione. Ciò è vero in particolar modo nel caso di Ivrea, ove la prossimità di questo notariato eminente ai vertici del potere non si limitava ai legami di tipo professionale, ma aveva un’accentuata corrispondenza sul piano sociale: le famiglie di molti fra i notai attivi per il comune o nell’entourage episcopale fino alla seconda metà del Duecento appartenevano all’aristocrazia dei milites, alla cerchia dei vassalli del vescovo o al gruppo di lignaggi che esprimeva i membri del capitolo cattedrale. Non solo, pertanto, una élite in seno al gruppo dei notai, ma una componente a tutti gli effetti dell’élite urbana, e quindi doppiamente partecipe dell’elaborazione dei linguaggi della politica. 85 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917. 36 Un esempio di quanto fossero poliedrici i legami professionali dei maggio87 ri notai eporediesi del tempo è 88dato da Giovanni «de domino Aymone» – attivo come scriba per il comune e membro della credenza che approvò la 89 concordia del 1236 con il vescovo Oberto – il90quale, nel secondo quarto del Duecento, redigeva atti per il capitolo cattedrale e figurava come teste in atti 91 vescovili . Grande, un suo contemporaneo, operava anch’egli alle dipendenze del comune, ma92al contempo produceva 93atti per l’episcopio e per il monastero di S. Stefano . Il «notarius episcopi» Giovanni Caldera lavorò – insieme con il collega Giramo de Vetignato – dapprima, tra il 1250 e il 1258, a un imponente registro vescovile di investiture e consegnamenti feudali, quindi, nel 1264, all’autenticazione degli atti copiati in un nuovo liber iurium comunale; autenticazione alla quale partecipò anche Ottino de Guatacio, notaio del 94 quale si conservano altresì atti rogati per il vescovo . Nel frattempo Giovanni Cane di Castellamonte, “publicus notarius et iuratus", aveva contemporaneamente il compito di redigere gli atti delle 95sentenze emanate dai vicari del vescovo e di quelle del giudice comunale . L’elenco potrebbe proseguire. Certo non mancavano carriere eccentriche, 96come quella del magister Viviano, notaio e forse canonico della cattedrale . A costui appartiene il più antico fra i protocolli conservati nell’archivio diocesano di Ivrea. Ne 97 sopravvivono per la verità soltanto due bifogli – usati come copertine di volumi più tardi – uno dei quali doveva essere il primo in ordine di impa- 86 M. SBRICCOLI, L’interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano 1969, p. 9. 87 Il più interessante studio sui molteplici legami professionali dei notai operanti in una singola civitas è, almeno per l’area piemontese, P. CANCIAN, G. G. FISSORE, Mobilità e spazio nell’esercizio della professione notarile: l’esempio dei notai torinesi (secc. XII-XIII), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XC/1 (1992), pp. 81-136. 88 I documenti dell’archivio storico cit., pp. 226-230, doc. 12 (1234). 89 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 218, doc. 152. 90 Op. cit., p. 161 sg., doc. 151 (1226); Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, c. non numerata (1250). 91 Le carte dell’Archivio vescovile cit., I, p. 376, doc. 273 (1257). 92 Op. cit., pp. 157-159, doc. 114; p. 168 sg., doc. 122; p. 171 sg., doc. 124; p 186 sg., doc. 133; p. 220 sg., doc. 160; p. 225 sg., doc. 165. 93 Archivio storico diocesano di Ivrea, XI-1-EM 250/258/1, passim. 94 PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., p. 298 sg. 95 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXLVI-3-AaM 268/269/1 (si tratta di un volume contenente due protocolli di questo notaio, relativi rispettivamente al 1268 e al 1269); Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato (1277). 96 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 183, doc. 130; p. 189 sg., doc. 136. 97 Che si tratti del protocollo del notaio, e non di un altro tipo di registro, è denunciato dalla frase con cui si apre il fascicolo: «Hoc est liber abreviarii Viviani notarii». Il bifoglio contenente le cc. 1 e 10 (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXLI-2-IM 419/459/1) funge tuttora da copertina di un «Liber debitus» quattrocentesco; l’altro bifoglio (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 239-241/1) contiene le cc. 3 e 8. 37 ginazione: dalla numerazione in esso riportata scopriamo che il fascicolo era composto da appena dieci fogli pergamenacei, con documenti relativi a un periodo piuttosto ampio (dal 1238 al 1240), e che pertanto l’attività notarile di Viviano si limitò alla produzione occasionale di atti di rilievo: tutti, del resto, hanno come protagonista il vescovo Oberto. Nonostante l’esistenza di casi come quello appena citato – il quale peral98 tro non fu probabilmente unico nel suo genere – appare chiaro come la maggior parte dei notai attestati come attivi in incarichi di alto livello fino ai decenni finali del Duecento abbia operato, contemporaneamente o in tempi diversi, alle dipendenze sia delle istituzioni comunali sia dell’episcopio. Tale comportamento fu reso possibile da due ordini di circostanze. In primo luogo – lo si è già ricordato – i membri dell’élite notarile eporediese facevano in genere parte anche dell’élite dei cives. Provenienti da famiglie eminenti, l’ampiezza dei loro legami professionali rispecchiava quella dei loro legami personali. Sarà sufficiente, per ora, citare il caso di Giovanni Caldera, la cui famiglia, appartenente all’antica aristocrazia consolare epo99 rediese , esprimeva contemporaneamente uomini della credenza e canoni100 ci della cattedrale . In secondo luogo, molti professionisti d’alto livello lavorarono per entrambe le istituzioni perché il comune e l’episcopio avvertivano il bisogno di prestazioni di tipo analogo. Quei due poteri furono interessati, sino almeno al termine del secolo, a presentarsi come detentori di responsabilità di natura pubblica nell’ambito della documentazione e fecero ricorso a quella ristretta élite professionale in grado di fornire a tale ambizione il necessario supporto tecnico. L’esercizio congiunto dell’auctoritas documentaria: uno strumento di risoluzione dei conflitti tra i vertici istituzionali della civitas. Secondo Fissore, le ambizioni vescovili di controllo sul notariato eporediese si estinsero nel giro di pochi decenni dalla concordia del 1236. Lo studioso sottolinea come il meccanismo di commissio dei protocolli dei notai defunti a un rappresentante del comune e a uno dell’episcopio, descritto nel testo 101 quell’accordo, risulti essere stato usato in un numero assai limitato di casi ; sarebbe invece prevalso, su entrambi i fronti, l’impegno a costruire un’egemonia sui rispettivi ambiti documentari, il cui risultato fu il definitivo svilup102 po di due «aree di giurisdizione volutamente separate e distinte» . Nel corso 98 Cfr. sopra, nota 35. Un Caldera, Oberto, fu console di Ivrea nel primo decennio del Duecento: Il libro rosso cit., p. 2 sg., doc. 2 sg.; p. 20 sg., doc. 23 sg.; p. 46, doc. 52; p. 48 sg., doc. 55 sg.; p. 55, doc. 63; p. 57, doc. 69; p. 73, doc. 89; p. 86, doc. 105; p. 163, doc. 172; Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 49, doc. 33; p. 76, doc. 55. 100 PIAZZA, In chiesa e nella vita cit., p. 291. 101 FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 76 sgg. 102 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917. 99 38 della seconda metà del Duecento, poi, il notariato eporediese avrebbe raggiunto la massima autonomia nel conferimento della pubblica validità ai documenti da esso prodotti e si sarebbe legato in maniera sempre più univoca alle istituzioni comunali, le quali, in virtù di tale legame esclusivo, si sarebbero guadagnate il monopolio dell’autorità pubblica sulla documentazione. Il confronto dei dati studiati da Fissore, relativi al corpus delle fonti edite, e le fonti documentarie inedite, se da un lato conferma la progressiva acquisizione di autonomia da parte del notariato e il rafforzarsi del suo legame con il comune, dall’altro induce a ritenere che sino agli inizi del Trecento l’episcopio abbia seguitato a porre in atto comportamenti intesi a ribadire il suo diritto a porsi, eventualmente in concomitanza con le istituzioni laiche, come pubblico garante del corretto funzionamento della documentazione della civitas. Fissore indica la partecipazione dei presuli alla procedura di commissio dei protocolli dei notai defunti a individui di fiducia come misura del coinvolgimento dell’episcopio nel controllo della documentazione. Dopo il 1236, la partecipazione delle istituzioni ecclesiastiche ai meccanismi della commissio sarebbe rapidamente venuta meno e «nel corso della seconda metà del secolo XIII le procedure di affidamento delle imbreviature dei notai defunti" sarebbero "diventate un affare esclusivo dei rapporti tra notariato eporediese e 103 comune» . Da un lato, lo spoglio dei documenti inediti conferma quanto osservato da Fissore: la soluzione proposta nel 1236, troppo favorevole all’episcopio, non trovò applicazione nei decenni successivi; in un solo caso (posteriore al 1263) è attestata l’osservanza della disposizione, formulata in quella concordia, secondo cui anche l’estrazione di copie da protocolli ricevuti per 104 legato testamentario doveva essere autorizzata dal vescovo . Dall’altro, l’allargamento del campo di indagine pone in luce l’esistenza, lungo tutto il Duecento, di altre prassi di affidamento congiunto dei protocolli da parte delle due istituzioni cittadine. Per esempio, in un periodo posteriore al 1273 il notaio Giacomo Faber estraeva atti da un protocollo di Bernardo di Carnario, 105 affidatogli da vescovo e comune . Si arricchisce anche il panorama delle attestazioni di copie redatte, a partire da protocolli di notai defunti, sotto comune precetto del vescovo e del comune, senza però menzione della commissio dei protocolli stessi: verso il 1270, per esempio, il magister Pietro riceveva dal 103 FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 82. L’attestazione si riferisce alla copia di un atto del notaio Grande, del 1241, da parte di Bernardo di Carnario: «Ego Bernardus de Carnario Yporiensis notarius, de precepto condam Grandis notarii qui hanc cartam abreviaverat, que abreviaria michi Bernardo fuerunt commissa per ipsum Grandem et per dominum Iohannem condam Dei gratia episcopum Yporiensis et comitem, de quodam breviario ipsius Grandis hanc carta scripsi et extraxi sicut in ipso breviario continetur» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato). 105 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 3, doc. non numerato (1273): «Ego Iacobus notarius filius condam Raymondi Fabri Yporiensis hanc cartam scripsi et eam extraxi de quodam abreviario Bernardi de Carnario condam notarii, abreviaria cuius fuerunt michi predicto Iacobo notario comissa per ecclesiam et comune Yporiense ad fatiendum et extrahendum instrumenta omnibus quibus fuerint fatienda». 104 39 vescovo e dal podestà eporediesi il mandato di copiare alcuni atti da un proto106 collo di Giovanni Caldera ; poco dopo il 1300 il doppio mandato interessò in più occasioni il notaio vescovile Giovanni da Bergamo, che se ne servì per 107 108 copiare atti imbreviati da Giacomo Faber e da Bernardo di Carnario . Nonostante i nuovi dati portati alla luce nell’analisi delle fonti inedite, resta evidente che, rispetto alla totalità dei documenti in copia autenticata, quelli contenenti riferimenti alle modalità di affidamento e conservazione dei protocolli da cui la copia ha avuto origine sono largamente minoritari; ciò specialmente per il periodo precedente il 1287, anno in cui compare la prima, peraltro isolata, menzione di commissio di protocolli effettuata esclusivamente dal comune. Eppure i pochi dati di cui disponiamo consentono di affermare che, ancora nell’ultimo quarto del Duecento, i meccanismi della commissio vescovile o della doppia commissio, vescovile e comunale, erano avvertiti come praticabili e di fatto praticati, anche se non costituivano la prassi più usuale. Il tormentato percorso delle imbreviature di Giovanni Caldera: nuovi documenti In effetti, i protocolli oggetto di cogestione da parte di comune ed episcopio non erano del tutto simili al resto dei registri di imbreviature prodotti dai notai di Ivrea. I loro estensori, infatti, erano stati in diversi tempi fra i maggiori professionisti eporediesi nell’ambito della documentazione; tutti, inoltre, avevano svolto incarichi di alto livello sia presso le istituzioni laiche sia presso quelle ecclesiastiche. La questione dei protocolli era il più evidente limite pratico al delinearsi di una doppia autonomia autenticatoria, vescovile e comunale, e creava occasioni di tensione, sfruttate da ciascuno dei due poteri per rivendicare una preponderanza rispetto all’altro o almeno un diritto a partecipare alle pratiche di affidamento e autenticazione che l’altro cercava di porre in atto 106 «Ego magister Petrus Yporiensis notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de abreviariis condam Iohannis Caudere notarii Yporiensis qui eam abreviaverat sicut in eius abreviario continetur, de precepto domini Frederici electi Yporiensis et precepto domini Acursi Lançavege potestas Yporiensis et comitum de Sancto Martino» (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 106). 107 «Ego Iohannes de Pergamo Yporegie habitans publicus notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de protocollo condam Iacobi Fabri notarii Yporiensis ex auctoritate michi concessa a domino fratre Alberto episcopo Yporiensi et comite necnon a domino Petro de Episcopo iudice et assessore domini Odonis de Rivalba potestatis Yporiensis, nichil addens vel minuens quod mutet sensum vel intellectum, sed sicut in ipso protocollo inveni contineri sic in isto instrumento continetur» (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, pp. 132, 142). 108 «Ego Iohannes de Pergamo Yporegie habitans publicus notarius hanc cartam scripsi et eam extraxi de protocollo condam dicti Bernardi Carnarii notarii Yporiensis ex auctoritate michi concessa a venerabili patre domino fratre Alberto episcopo Yporiensi et comite, necnon a domino Petro de Episcopo iudice et assessore domini Oddonis de Rivalba potestatis Yporiensis, nichil addens vel minuens quod mutet sensum vel intellectum, sed sicut in ipso protocollo inveni contineri sic in isto instrumento continetur» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato del 1239). 40 autonomamente. I più qualificati fra i notai eporediesi, come si è visto, erano soliti mettere le proprie competenze tecniche, contemporaneamente o in tempi diversi, a disposizione di entrambi i soggetti e ciò rendeva altamente problematica la gestione delle loro imbreviature dopo la morte. Era impossibile, infatti, che l’autenticazione e la conservazione di certi protocolli, contenenti in proporzioni simili atti di alto rilievo redatti per i vescovi e per il comune, fossero sottoposte al monopolio di una di queste due istituzioni senza che l’altra si sentisse sminuita nella propria autonomia documentaria. La possibilità di ricorrere a pratiche di cogestione come la duplice commissio o il duplice praeceptum auctenticationis – l’ordine, cioè, attraverso il quale un’autorità pubblica disponeva che un notaio producesse una copia di un atto, provvista della stessa validità giuridica dell’originale – forniva uno sbocco a situazioni di tensione e rivendicazioni contrapposte. Situazioni che non ci è possibile seguire agevolmente a causa della dispersione dei documenti comunali di quei decenni, dai quali probabilmente emergerebbe un intento di controllo sui protocolli dei principali notai del passato equipollente rispetto a quello di cui è rimasta traccia negli atti vescovili. Ci è noto un solo caso di contesa: quella relativa alle imbreviature di Giovanni Caldera. La vicenda è già in parte nota grazie 109 alle ricerche di Fissore ; l’uso di alcuni documenti inediti aiuta a completarne e a chiarirne il quadro. Giovanni Caldera apparteneva a quel gruppo ristretto di notai eporediesi dei decenni centrali del Duecento individuabili senza dubbio come funzionari 110 (officiales) delle istituzioni urbane . Generalmente non è facile, soprattutto per la prima metà del Duecento, studiare i rapporti professionali intercorrenti fra i singoli notai e i poteri politici, poiché i primi – gelosi della propria autonomia e dell’ascendenza imperiale della propria funzione autenticatoria – amavano presentarsi come liberi professionisti piuttosto che come dipendenti dei secondi. Giovanni Caldera non faceva eccezione a tale andamento: è infatti soltanto un altro notaio, Giramo di Vestignè – che redasse in mundum diversi documenti imbreviati da111Giovanni – a definirlo, nelle formule di autenticazione, «notarius episcopi» . I protocolli di Giovanni Caldera contenevano le imbreviature di numerosi atti relativi a investiture consegnamenti feudali da lui redatti durante l’episcopato di Giovanni di Barone (1250-1263), molti dei quali erano confluiti in un sontuoso cartulario compilato da Giovanni stesso e 112 tuttora conservato presso l’archivio diocesano di Ivrea . Quei protocolli contenevano insomma la memoria dei più importanti negozi giuridici stipulati fra la chiesa eporediese e i suoi vassalli nell’arco di diversi decenni: una memoria dotata di publica fides da far valere in situazioni di contenzioso. Giovanni operò anche alle dipendenze del comune: egli fu tra i notai che parteciparono 109 FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 80. Sul problema dei notai-funzionari eporediesi si veda ancora FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 917 sgg. 111 La definizione compare ripetutamente, ma non sistematicamente, nel grande registro vescovile di investiture e consegnamenti feudali compilato da Giovanni e Giramo (Archivio storico diocesano di Ivrea, XI1-EM250/258/1). 112 Archivio storico diocesano di Ivrea, XI-1-EM 250/258/1. 110 41 all’autenticazione dei documenti copiati, nel 1264, in un liber iurium comu113 nale . 114 Giovanni Caldera, il cui ultimo atto conservato risale al 1269 , dovette morire poco dopo questa data; negli anni immediatamente successivi, infatti, ben due notai posero mano ai suoi registri di imbreviature. Il primo fu un non meglio identificato magister Pietro, il quale ne estrasse una serie di munda, apparentemente non in quanto beneficiario di una commissio dei protocolli, bensì soltanto come destinatario di un precetto congiunto del vescovo eletto, Federico di Front, e del 115podestà di Ivrea e dei conti di San Martino, Accursio Lanciavecchia116 . Si conservano117due atti di Caldera estratti da Pietro; risalenti l’uno al 1268 e l’altro al 1269 , essi furono tra gli ultimi rogati da quel notaio: si trattava probabilmente di atti che Caldera non aveva fatto in tempo a redigere in mundum. Abbiamo 118 notizia di tre praecepta auctenticationis rilasciati da Accursio Lanciavecchia ; quello riguardante i protocolli di Giovanni Caldera è tuttavia l’unico nel quale l’autorità del podestà sia affiancata da quella del vescovo, segno del convergere su quelle imbreviature di interessi diversi e probabilmente in conflitto. Poco più tardi, infatti, fra il 1271 e il 1276, la "curia regia" eporediese – Ivrea era in quel periodo soggetta a re Carlo d’Angiò –119procedette alla vera e propria trasmissione dei protocolli a un commissario : la scelta cadde su un notaio di indiscussa fama professionale, Giacomo Faber . La soluzione dettata dai funzionari regi non riuscì tuttavia a120imporsi come definitiva. Alcuni anni più tardi, infatti – quando Giacomo Faber era ancora in piena atti- 113 Sull’organizzazione dei libri iurium eporediesi nei decenni centrali del Duecento cfr. PANERO, Il "Libro rosso" cit. Cartario della confraria del S. Spirito cit., doc. 31. 115 A causa della dispersione documentaria che ha colpito le scritture del comune eporediese relative agli anni Settanta e Ottanta del Duecento, non è possibile determinare con esattezza l’anno in cui Accursio Lanciavecchia fu podestà di Ivrea. Si sa però che egli fu podestà a Genova nel 1271 e a Bologna nel 1273 (E. ARTIFONI, I podestà itineranti e l’area comunale piemontese. Nota su uno scambio ineguale, in I podestà dell’Italia comunale. Parte I: reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), a cura di J.C. MAIRE VIGUEUR, Roma 2000, I, p. 44 sg.; Statuti delle società del Popolo di Bologna, I: Società delle armi, a cura di A. GAUDENZI, Roma 1889, p. 231); tale dato, insieme con la definizione di Lanciavecchia come "potestas Yporegie et comitum de Sancto Martino", induce a collocare il suo mandato intorno al 1270. 116 In verità di questo primo documento non si conserva che una parziale trascrizione, alquanto sbiadita, esistente sulla copertina pergamenacea di un protocollo di Giovanni Cane di Castellamonte (Archivio storico diocesano di Ivrea, CLVI-3-AaM268/269/1), della quale si leggono le parole «[Ego m]agister P(etrus) Yp[oriensi]s notarius de pre[cept]o domini F(rederici) Yporiensis episcopi electi et domini [Acursi Lançevegle] potestatis Yporegie et comitum de Sancto Martino hanc cartam scripsi et extraxi de abreviaria [con]dam Iohannis Calderie notarii infrascripti» e la data dell’instrumentum, «millesimo duecentesimo LX[VIII], indicione XI». 117 Cartario della confraria del S. Spirito cit., doc. 31. 118 Oltre a quello già menzionato, si segnalano due precepta rivolti al notaio Oberto de Atayno, l’uno riguardante le imbreviature di Alberto Michelano (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 132), l’altro quelle di Ataino (Archivio storico diocesano di Ivrea, p. 153). 119 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. non numerata. 120 Su questo notaio cfr. A. BONINO, Attività professionale e contesto sociale di un notaio eporediese del secolo XIII: Giacomo Fabbri, Torino 1994, tesi di laurea presso il Dipartimento di Storia dell’Università di Torino, sezione di Paleografia e Medievistica. 114 42 vità – i protocolli di Giovanni erano oggetto di una nuova commissio, il cui beneficiario era un notaio altrettanto stimato: il «notarius comunis» Francotto dell’Olmo, il quale ne estraeva un atto nel 1287. Nella completio si legge: «io, Francotto dell’Olmo, cittadino eporediese, notaio del comune di Ivrea, ho scritto questo atto (cartam) estraendolo dal protocollo delle imbreviature del fu notaio Giovanni Caldera, che da tempo mi è stato assegnato (michi 121 diu fuerat comissa) … pertanto l’ho sottoscritto e ho apposto i miei signa» . In quel «diu», osserva Fissore, è presente una velata polemica: evidentemente l’episcopio contestava il monopolio comunale su quelle imbreviature, acquisito in pregiudizio dei precedenti accordi e delle prerogative vescovili in materia di controllo sulla documentazione. E infat122 ti poco più tardi, tra il 1290 e il 1291 , i protocolli di Giovanni Caldera erano nuovamente a disposizione del vescovo, Alberto Gonzaga, il quale impartiva a Rufino di Mazzè, un notaio anziano che aveva lavorato per l’episcopio negli 123 stessi anni di Caldera, il precetto di estrarne un grande numero di munda . A prima vista, la decisione di far stendere una tale quantità di munda pergamenacei parrebbe configurarsi come una risposta alla precarietà del possesso di quei protocolli da parte dell’episcopio, motivata da concorrenti rivendicazioni da parte del comune. Ma la campagna documentaria avente come oggetto le imbreviature di Giovanni Caldera va confrontata con il resto delle attività svolte contemporaneamente dall’entourage notarile del vescovo Alberto. I primi registri ‘vescovili’ Risulta infatti che, mentre Rufino di Mazzè operava dietro precetto vescovi121 "Ego Francotus de Ulmo civis Yporiensis notarius comunis Yporegie hanc cartam scripsi et eam exstraxi de protocollo seu abreviariis condam Iohannis Calderie notarii, et que abreviatura michi diu fuerant comissa, et quod eciam instrumentum alias factum fuerat per dictum Iohannem notarium, ut aparebat per quodam instrumentum gamolatum seu roxiglatum, unde me subscripsi et signa mea aposui rogatus" (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 324, doc. 223). 122 Nel novembre 1290 quelle imbreviature non erano ancora a disposizione dell’episcopio: a tale data risale infatti la copia di un atto di Caldera effettuata su precetto del vescovo dal notaio vescovile Pietro Picalotto di Alatri, copia che usa come testo base non quello contenuto nei protocolli, bensì un mundum precedentemente estratto dagli stessi, su precetto comunale, a opera di Francotto dell’Olmo (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., pp. 322-324, doc. 223). Al 31 maggio 1291 risale invece un precetto vescovile relativo all’estrazione di un atto dalle imbreviature di Caldera da parte di Rufino di Mazzè (op. cit., I, p. 332, doc. 230). 123 Op. cit., I, p. 251 sg., doc. 181; pp. 253-258, doc. 183 sg.; p. 262 sg., docc. 186, 188; pp. 277-279, doc. 200; pp. 284-300, doc. 207 sg.; p. 317 sg., doc. 217; p. 320, doc. 220; p. 324, doc. 224; p. 326, doc. 227; pp. 330-332, doc. 230; p. 338, doc. 235; p. 340 sg., doc. 238; p. 343 sg., doc. 240; p. 346, doc. 243; pp. 355-357, docc. 252, 254; p. 359, doc. 260; p. 361, doc. 263; p. 364 sg., doc. 265; pp. 366-372, doc. 267 sg.; p. 376 sg., doc. 273; p. 378 sg., doc. 276; p. 381 sg., doc. 278; p. 389, doc. 283; II, pp. 13-19, docc. 229, 303, 305-307; pp. 23-25, doc. 313 sg. 43 le sui protocolli di Caldera, un altro notaio, Rufino di Mantova, estraesse una notevole quantità di munda dai protocolli di un altro notaio defunto, Giacomo di Caluso. Giacomo aveva lavorato per l’episcopio ai tempi del vescovo Giovanni di Barone, in particolare a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento. La redazione di questa seconda serie di copie non può essere agevolmente spiegata con la precarietà del controllo dei protocolli di Giacomo da parte dell’episcopio: molte delle sue imbreviature non erano infatti contenute in protocolli comuni, bensì in uno o più registri destinati a raccogliere esclusivamente atti rogati per la chiesa eporediese, i quali presumibilmente erano rimasti, nel corso dei decenni, a piena disposizione dell’episcopio. L’incipit di un quaderno conservato presso l’Archivio diocesano di Ivrea lo designa infatti come «libro delle imbreviature degli atti della chiesa di Ivrea al tempo di Giovanni di Barone, per grazia di Dio vescovo di Ivrea e conte» e prosegue: «io notaio, che sono detto magister Giacomo di Caluso, l’ho scritto» («liber abreviarii instrumentorum Yporiensis ecclesie tempore domini Iohannis de Barono, Dei gratia Yporiensis episcopi et124comitis. Ego notarius qui dicor magister Iacobus de Caluxio predicta scripsi» ). I documenti contenuti nel registro risalgono a un periodo compreso fra il 1258 e il 1263. Vedremo più avanti altri casi di registri simili. Appena entrato in carica – la sua nomina risale al 1289 – Alberto Gonzaga aveva intrapreso una politica di ripristino della rete di proprietà e rapporti vassallatici incentrata sull’episcopio, rete in parte sfaldatasi negli anni precedenti a causa delle convulsioni politiche – l’occupazione di Ivrea da parte di Guglielmo di Monferrato, l’effimera sottomissione agli Angiò e il ritorno nell’orbita dei125Monferrato – e delle lunghe assenze del predecessore, Federico di Front . Uno dei punti chiave di tale politica consisteva nel recupero e nella riproduzione dei documenti attestanti le fedeltà e i censi spettanti alla chiesa eporediese: ecco il motivo per cui Alberto si impegnò a riportare le imbreviature di Giovanni Caldera sotto il controllo dell’episcopio. La campagna documentaria del 1291 esprime, più che la precarietà del controllo vescovile su quelle imbreviature – come abbiamo visto, quelle di Giacomo di Caluso erano già in possesso della chiesa eporediese – il successo di un progetto di recupero documentario da parte dell’episcopio eporediese, oltre alla persistente vitalità di quest’ultimo nel coordinamento di attività notarili legate all’uso di protocolli di notai defunti. Del resto, per quanto ne sappiamo, le imbreviature di Caldera rimasero, negli anni successivi, in possesso del vescovo: ancora nel 1311, il «notarius episcopi» Giovanni da Bergamo ne estraeva un atto su precetto del vicario vescovile Savino Solero, senza interventi autenticatori da parte del comu- 124 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM 272/298/1. F. PANERO, La grande proprietà fondiaria della chiesa di Ivrea, in Storia della chiesa di Ivrea cit., p. 864 sg; BUFFO, Nuovi documenti cit.; Nuovi documenti su Alberto Gonzaga, vescovo d’Ivrea, a cura di V. ANSALDI, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino» XIX/1 (1914), p. 1 sgg. 125 44 126 ne . Riprendendo l’accenno testé fatto al registro di Giacomo di Caluso, è interessante notare come un analogo disinteresse, da parte dei notai legati all’episcopio, per la specificazione delle pratiche di affidamento dei protocolli di notai defunti al momento della stesura della completio si fosse già manifestato, negli anni intorno al 1260 (al tempo, cioè, in cui si registra il massimo numero di menzioni della doppia commissio comunale e vescovile), di fronte alle imbreviature del notaio Pagano, redatte negli anni Venti e Trenta del Duecento. Il protocollo di Pagano aveva seguito, dopo la morte dell’estensore, un percorso particolare: anziché entrare in possesso di un erede o di un affidatario, esso era rimasto all’interno della camera episcopi, a disposizione di altri notai dipendenti dall’episcopio. Nel 1258, infatti, il notaio Ottino, incaricato dal vescovo Giovanni di estrarre un mundum da imbreviature attribuite a Pagano, asseriva di trascrivere l’esemplare da un’imbreviatura contenuta in protocollo in possesso del vescovo: «abreviaturam que erat scripta in quodam 127 abreviario quod dictus dominus episcopus habebat» . Pagano – del quale già si è supposta l’identità con il procuratore della chiesa eporediese che aveva difeso le ragioni dell’episcopio in occasione dell’arbitrato del 1235 – è detto da un collaboratore «magister Paganus notarius 128 domini episcopi Yporiensis» ; gli atti estratti dalle sue imbreviature si riferiscono tutti a fedeltà prestate da particolari al vescovo di Ivrea. Probabilmente le imbreviature di Pagano erano state concepite come destinate a restare stabilmente sotto il controllo diretto dei presuli, senza nemmeno allontanarsi fisicamente dal «palatium episcopi». Sarebbe pertanto un errore attendersi di trovare nelle formule di autenticazione dei numerosi munda che Giramo di Vestignè – il notaio che ne129estrasse su mandato del vescovo, in un periodo antecedente il marzo 1254 , numerose copie pergamenacee – riferimenti a un’ asegnazione pubblica di quei protocolli. Giramo si limita in effetti a dichiarare di agire «de precepto et 130 mandato domini Iohannis de Barrono, Dei gratia Yporiensis electi et comitis» . Sono le medesime parole che Rufino da Mantova posponeva, trent’anni più tardi, ai munda estratti dai protocolli di Giacomo di Caluso, anch’essi probabil- 126 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 178. L’incipit recita: «In nomine Domini, amen. Anno millesimo CCCXI, indicione VIIII, die XVIII mensis marcii, in claustro ecclesie Yporiensis, presentibus testibus domino Antonio de Solerio et Petro de Solerio canonicis dicte ecclesie. Dominus Savinus de Solerio, archidiaconus et vicarius domini Alberti episcopi Yporiensis precepit michi notario infrascripto quatenus infrascriptum instrumentum extraherem de protocollo condam Iohannis Caudere notarii et in publicam formam redigerem»; la completio: «Et ego Iohannes de Pergamo notarius Yporegie habitans suprascriptum instrumentum scripsi et extraxi de protocollo Iohannis Caudere notarii, de precepto dicti vicarii, nichil addens vel minuens quod sensum mutet». 127 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 183, doc. 131. 128 Op. cit., I, p. 171, doc. 123. 129 Nei praecepta auctenticationis redatti da Giramo Giovanni di Barone è designato come eletto. La sua consacrazione avvenne tra l’8 febbraio e il 3 marzo 1254 (op. cit., I, p. 336 sg., docc. 233, 234). 130 Op. cit., I, p. 174, doc. 126. 45 mente rimasti, nel tempo, pacificamente a disposizione dell’episcopio. Quando – lo si vedrà fra poco – tale tipo di registri soppianterà, in seno all’archivio vescovile, i protocolli tradizionali, di uso ‘privato’, i riferimenti alla commissio pubblica dei registri di imbreviature, ormai non più necessari, scompariranno del tutto dai documenti vescovili. La prassi della commissio dei protocolli nel formulario dei notai intorno al 1300 Si noti, poi, la persistente analogia tra le formule in uso presso i notai attivi per il comune e quelle proprie dei notai vescovili – i quali, lo si vedrà, a partire dall’episcopato di Alberto Gonzaga tendono a distaccarsi dai primi formando un gruppo separato. Analizziamo tre esempi di formule di autenticazione non datate, risalenti agli anni a cavallo fra Due e Trecento. Nella prima, Bertolino di Morisseto dichiara di aver estratto un atto dal protocollo del fu magister Pietro Ottolini, notaio eporediese, a tenore della «comissio et auctoritas» rilasciategli 131 da Corrado Trosello, un tempo («olim») giudice di Ivrea . Nella seconda, Giacomo, figlio di Giovanni Cane di Castellamonte, dichiara di trascrivere un documento dalle imbreviature del132padre morto in virtù della «comissio» ricevuta dal vescovo eporediese Alberto . Infine, in un anno successivo al 1300, il «notarius episcopi» Bonaventurino di Mantova copiava un atto dalle imbreviature di un altro notaio vescovile, il concittadino Rufino, dichiarando di autenticare la copia su ordine del vescovo, in 133 virtù dell’auctoritas e della commissio da questi attribuitegli . Di là dalla varietà sintattica, il lessico usato per esprimere i gesti compiuti dalle autorità aventi competenze di garanzia sulla gestione delle imbreviature – 131 «Ego Bertolinus de Morixeto converssus civis Yporiensis imperialli auctoritate notarius publicus predictam abreviaturam extraxssi et in publicam formam instrumenti pressentis scripsi et exemplavi, ex comissione et auctoritate michi concessa per discreptum virum dominum Conradum Trosellum olim iudicem … Yporegie, et sicut in dicto abreviario continebatur sic et in isto continetur exemplo» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 7). La medesima completio, con piccole variazioni, si ripresenta in altri atti estratti da Bertolino dai protocolli di Pietro Ottolini (ibidem, n. 4 sg.). 132 «Ego Iacobus filius quondam Iohannis Canis notarii ex comissione michi facta a venerabili in Christo patre domino fratre Alberto Yporiensi episcopo et comite hanc cartam ex imbreviariis quondam dicti Iohannis patris mei scripsi et extrasi sicut in ipsis continebatur»: Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 185 (1289). Giovanni Cane era ancora in vita nel 1293 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 186 sg., doc. 441). 133 «Ego Bonaventurinus de Mantua notarius predicti domini episcopi predictam abreviaturam vidi et legi, et prout in prothocollo quondam dicti Ruffini continebatur ita hic fideliter transcripsi, autenticavi et exemplavi, de mandato et auctoritate domini episcopi supradicti, et ex comissione michi facta per eundem» (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 194, doc. 445). Rufino da Mantova era ancora attivo nel 1300, anno al quale risale un suo registro di imbreviature conservato in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-2-AM 299/300/1. 46 un funzionario comunale nel primo caso, il vescovo negli altri due – è, nei tre esempi, identico: segno, questo, ancora una volta, dell’identità fra le necessità autorappresentative di comune ed episcopio in quanto auctoritates documentarie. Osserviamo ora, nei tre casi citati, l’uso del termine commissio. Nel primo caso, si ha: «ex comissione … michi concessa per discreptum virum dominum Conradum Trosellum olim iudicem … Yporegie». L’espressione si riferisce, a quanto pare, a una commissio integrale dei protocolli, effettuata in un momento anteriore e nettamente separato rispetto a quello dell’estrazione del mundum: Corrado Trosello, infatti, aveva operato la commissio al notaio in quanto «iudex» – cioè in quanto funzionario comunale – ma alla data della trascrizione dell’atto egli non esercitava più tale carica (si spiega così l’uso di «olim»). Nemmeno la seconda formula di autenticazione contiene un vero e proprio praeceptum auctenticationis, ma fa uno stringato riferimento a una commissio ricevuta dal vescovo: che si intenda esprimere, usando questo termine, un affidamento originario delle abbreviature anziché un mandato circoscritto all’estrazione di un singolo documento? Tale impressione è ancora più forte di fronte alla terza completio, in cui i due momenti sono ricordati separatamente: «autenticavi et exemplavi de mandato et auctoritate domini episcopi supradicti et ex comissione michi facta per eundem». Occorre insomma spiegare la presenza, alle soglie del secolo XIV, di tali apparenti accenni a persistenti responsabilità del presule nell’affidamento di imbreviature di alcuni notai defunti ad altri tecnici della documentazione; e domandarsi perché, se a cavallo dei due secoli il vescovo conservava responsabilità di questo genere – almeno limitatamente alle imbreviature dei professionisti più legati all’episcopio – i riferimenti fatti dai notai vescovili alle pratiche della commissio siano tanto ellittici, mentre quelli inseriti dai notai comunali nelle formule di autenticazione sono espliciti e più circostanziati. La risposta a tali problemi deve essere ricercata, come vedremo fra poche pagine, nello sviluppo delle pratiche di documentazione e di archiviazione in uso presso l’episcopio eporediese, che a partire dall’insediamento del vescovo Alberto Gonzaga nel 1289 incominciarono a differenziarsi nettamente rispetto a quelle comunali. 47 4. Continuità e innovazioni: le prassi della conservazione documentaria a cavallo fra Due e Trecento Autonomie documentarie sullo scorcio del Duecento Negli ultimi decenni del Duecento, il comune di Ivrea formalizzò e approfondì il proprio legame con il notariato eporediese. Nel 1289, la credenza cittadina emanava diversi provvedimenti relativi al rapporto fra il 134 comune e un «collegium notariorum» della cui formazione sono ravvisa135 bili alcuni indizi già nei decenni precedenti . Una norma in particolare, 136 relativa agli «atti da estrarre dai protocolli dei notai» , presenta una «rigida e minuziosa regolamentazione dell’iter burocratico e dei gradi successi137 vi di controllo dei registri notarili dopo la morte dell’autore» e colpisce per la propria distanza rispetto al testo della concordia del 1236: manca, infatti, ogni riferimento al vescovo quale detentore di un’auctoritas autenticatoria rispetto agli atti imbreviati. Auctoritas che è invece ascritta integralmente al comune e ai professionisti del settore, i notai. Come sottolinea Fissore, tale situazione era l’esito dell’avvicinamento del notariato eporediese alle istituzioni laiche; un avvicinamento «da leggersi come punto culminante di un reciproco rafforzamento sulla base di esigenze solo parzialmente coincidenti, ma per il momento magnificamente cointeressate ad uno 138 sviluppo comune» . In quegli stessi anni aumentano le attestazioni esplicite di episodi di commissio dei protocolli di notai defunti esercitata dal 139 solo comune . La mancata menzione, negli statuti comunali, del vescovo quale autorità documentaria era anche espressione di una scelta politica. Al comune interessava presentarsi come istituzione garante dell’autenticità di tutte le scrit134 Statuti del comune di Ivrea, a cura di G. S. PENE VIDARI, Torino 1974 (Biblioteca della Società storica subalpina, CLXXXVIII), I, p. 50 sgg. 135 FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 87 sg. 136 Statuti del comune di Ivrea cit., I, p. 52 sg. 137 FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 83. 138 Op. cit., p. 88. 139 Op. cit., p. 83 sgg. 49 ture prodotte in seno alla civitas: nelle sue leggi, riferimenti a una persistente autonomia autenticatoria dei vescovi non potevano trovare posto. D’altro canto, come si è visto, i praecepta auctenticationis con cui il vescovo Alberto Gonzaga disponeva, intorno al 1300, l’estrazione di munda da protocolli di un notaio defunto non differivano di molto da quelli dei decenni centrali del secolo XIII: le espressioni usate dai notai per descrivere il gesto d’autorità compiuto dai vescovi rimanevano sostanzialmente invariate. È vero che i notai attivi, fra il 1291 e il 1293, nella campagna di estrazione di munda dai protocolli di Giovanni Caldera, di Giacomo di Caluso di altri notai, promossa dal vescovo Alberto, non inserirono in alcuno dei relativi praecepta auctenticationis riferimenti all’assegnazione pubblica delle imbreviature. Tuttavia, quell’insieme di praecepta privo di accenni a interventi delle autorità laiche trasmette un’immagine del presule come auctoritas autenticatoria autosufficiente, salva la prestazione tecnica dei redattori delle copie. Ciascuna delle due istituzioni ambiva insomma a presentarsi quale detentrice esclusiva di una funzione autenticatoria che l’altra, nella pratica, esercitava in sostanziale autonomia. Osserviamo incidentalmente come anche altri soggetti, di minor rilievo, abbiano saputo sfruttare la possibilità di presentarsi come compartecipi dell’autorità autenticatoria in occasione dell’estrazione di munda da protocolli di notai defunti. Intorno al 1260, il notaio Ardicione estraeva un documento dalle imbreviature di Bertolotto di Mazzè dietro precetto del vesco140 vo Giovanni e del conte di Mazzè, Ranieri di Valperga . Nel corso degli anni Novanta, poi, Rufino di Mazzè raccoglieva in un’unica pergamena 141 quattro atti estratti dal protocollo del compaesano Bonifacio , relativi a beni siti in Mazzè di proprietà del monastero di S. Stefano di Ivrea, in esecuzione di un praeceptum ricevuto dal vescovo Alberto e dal conte Bonifacio, figlio di 142 Ranieri . A S. Stefano era parso utile che i negozi giuridici di cui facevano memoria gli atti trascritti da Ruffino ottenessero un avallo plateale da parte dei vertici del potere locale, in grado di proteggere i diritti del monastero nel terri- 140 Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Provincia di Ivrea, m. 14, doc. 7 (1257). Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato (1216, 1220, 1224): singoli documenti editi in Cartario dell’abazia di Santo Stefano cit., pp. 347-349, doc. 57 sg.; p. 353 sg.,doc. 63; p. 358 sg., doc. 68. 142 Fissore presenta Bonifacio di Mazzè come podestà di Ivrea, integrando nel testo del praeceptum le parole «potestatis Yporegie» (FISSORE, Un caso di controversa gestione cit., p. 77 sg., n. 33). In realtà, se anche Bonifacio avesse effettivamente detenuto tale carica allorché emise il praeceptum, sarebbe ancor più significativo il rifiuto di fare uso del proprio titolo, agendo esclusivamente come conte di Mazzè. 141 50 143 torio di Mazzè, espressi in quei documenti ; il conte sfruttò tale circostanza per porsi al medesimo livello del vescovo quale garante dell’autenticità dei documenti estratti dalle imbreviature del notaio defunto. I notai vescovili e i loro protocolli sotto Alberto Gonzaga Nel 1289, anno in cui compare la prima attestazione del «collegium notariorum» costituitosi sotto l’egida delle istituzioni comunali, Alberto Gonzaga si insediò a Ivrea in qualità di vescovo. L’episcopato di Alberto coincise con la definitiva formalizzazione dei rapporti tra la chiesa eporediese e i notai attivi alle sue dipendenze, consistente nella piena strutturazione di tale entourage notarile entro 144 i quadri di una ‘burocrazia’ vescovile , frutto di un’evoluzione le cui tracce sono individuabili lungo tutto l’arco del Duecento. Un segnale di questa maturazione è 143 Sulla fragilità del patrimonio di S. Stefano di Ivrea nella seconda metà del secolo XIII, si veda A. FALOPPA, Un insediamento monastico cittadino: S. Stefano d’Ivrea e le sue carte (secoli XI-XIII), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCII/1 (1995), p. 18 sgg. 144 Nel presente studio non possono trovare spazio – fatta eccezione per alcune puntuali digressioni – riflessioni approfondite sui temi dei rapporti fra presuli e notai nella prima metà del secolo XIV (epoca durante la quale, un po’ ovunque nell’Italia settentrionale, si assiste alla stabilizzazione delle strutture ‘di curia’) e delle responsabilità e della strutturazione interna della curia vescovile eporediese durante gli episcopati di Alberto Gonzaga e dei suoi successori. I notai attivi per l’episcopio eporediese menzionati nelle prossime pagine non saranno caratterizzati, laddove possibile, se non attraverso le denominazioni professionali fornite da essi stessi o da colleghi contemporanei. Il merito di avere avviato, in Italia, un dibattito di ampia portata sui notai di curia spetta a G. CHITTOLINI, «Episcopalis curie notarius». Cenni sui notai di curie vescovili nell’Italia centro-settentrionale alla fine del medioevo, in Società, istituzioni, spiritualità. Studi in onore di Cinzio Violante, Spoleto 1994, I, pp. 207-220, saggio che a sua volta raccoglieva gli spunti offerti da BRENTANO, Due chiese: Italia e Inghilterra nel XIII secolo, Bologna 1972 (trad. it.). Tra gli studi dedicati a singole realtà locali, è da segnalare in particolar modo, perché dedicato in parte ai meccanismi di formazione delle strutture di curia, ROSSI, I notai di curia cit., pp. 73-164. Altri saggi notevoli, relativi invece al periodo di maturo funzionamento delle curie vescovili, tra XIV e XV secolo, sono: E. PEVERADA, La «familia» del vescovo e la curia a Ferrara nel secolo XV, in Vescovi e diocesi in Italia dal XIV alla metà del XVI secolo (Atti del VII Convegno di storia della Chiesa in Italia: Brescia, 21-25 settembre 1987), a cura di G. DE SANDRE GASPARINI, A. RIGON, F. TROLESE, G. M. VARANINI, Roma 1990, pp. 630-659; M. LUNARI, «De mandato domini archiepiscopi in hanc publicam formam redigi, tradidi et scripsi». Notai di curia e organizzazione notarile nella diocesi di Milano (sec. XV), in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 49 (1995), pp. 486508; M. CAMELI, I notai con duplice nomina in una Chiesa ‘di frontiera’ nel XIII secolo: il caso ascolano, in Chiese e notai cit., pp. 117-148; G. CAGNIN, «Scriba et notarius domini episcopi et sue curie». Appunti sui notai della curia vescovile (Treviso, secolo XIV), in Chiese e notai cit., pp. 149-180. Riferimenti puntuali alle curie di varie diocesi dell’Italia settentrionale sono presenti nei diversi contributi riportati in I registri vescovili dell’Italia settentrionale (secoli XIII-XV) (Atti del Convegno di studi: Monselice, 24-25 novembre 2000), a cura di A. BARTOLI LANGELI, A. RIGON, Roma 2003, in particolare in G. BRUNETTIN, M. ZABBIA, Cancellieri e documentazione in registro nel Patriarcato d’Aquileia. Prime ricerche (XIII-XIV), pp. 327-372. Un pionieristico lavoro prosopografico, che dà conto delle fisionomie professionali dei notai operanti per una singola sede vescovile nel corso dei secoli tardomedievali, è costituito dagli Atti della cancelleria dei patriarchi di Aquileia (1265-1420), a cura di I. ZENAROLA PASTORE, Udine 1983, in cui i documenti, presentati in regesto, sono catalogati in base al notaio estensore. 51 costituito dal moltiplicarsi dei registri correnti di documenti relativi all’episcopio. Come abbiamo visto, già tra il 1258 e il 1263 un «Libro delle imbreviature dei documenti della chiesa di Ivrea», cartaceo, era compilato dal notaio Giacomo di 145 Caluso : esso si distingueva dai normali registri notarili di imbreviature per via dello specifico riferimento all’ente al quale gli atti ivi inseriti erano pertinenti. Quello di Giacomo di Caluso è il solo registro superstite avente tali caratteristiche e compilato prima dell’episcopato di Alberto Gonzaga; accanto a registri di questo tipo persistevano i protocolli tradizionali, contenenti la totalità degli atti rogati dai rispettivi proprietari, come liberi professionisti, in un certo lasso di tempo. Fu il vescovo Alberto a dare impulso alla redazione di registri dedicati agli atti concernenti la chiesa eporediese, conferendo a tale prassi un carattere di sistematicità. Già nei primi anni Novanta il mantovano Rufino produceva, con cadenza annuale, fascicoli cartacei definiti ciascuno come «Libro delle imbreviature contenente gli atti relativi ai beni della chiesa di Ivrea accensati dal venerabile padre frate Alberto, per misericordia divina vescovo di Ivea e conte, scritto da Rufino di Mantova, notaio pubblico» («liber prothocollorum continens instrumenta de rebus ecclesie Yporiensis ad censum datis per venerabilem patrem dominum fratrem Albertum miseratione divina episcopum Yporiensem et comitem, scriptusque per Roffinum 146 publicum notarium de Mantua») ; ne sono sopravvissuti tre, relativi rispettivamente agli anni 1291, 1293 e 1294. I tre libri hanno natura tematica e i loro incipit esprimono una preponderanza del vescovo quale attore giuridico degli atti registrati: il notaio non indica i fascicoli come propri registri di imbreviature, ma presenta se stesso come semplice redattore anziché come proprietario dei protocolli. La produzione di registri tematici, riferiti a singoli ambiti dell’azione vescovile, si raffinò nel corso dell’episcopato di Alberto: nei primi due decenni del Trecento furono redatti diversi libri collacionum, registri di con147 148 149 cessioni feudali , di accensamenti , di lettere rilasciate dal vescovo , di 145 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM272/298/1. L. cit. 147 Per esempio, Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1: «Liber prothocollorum seu imbreviaturarum continens fidelitates et homagia et consignamenta prestita per vassallos Yporiensis ecclesie venerabili patri domino fratri Alberto, permissione divina episcopo Yporiensi et comiti, ac investituras factas eisdem vassallis per eundem dominum episcopum de pheudis que tenent ab ecclesia supradicta, et scriptus per me Opeçinum dictum de Copavinis de Mutina publicum imperiali auctoritate notarium et nunc domini episcopi supradicti et inceptus sub anno Domini millesimo ducentesimo nonagesimo secundo, indictione quinta, apostolica sede vacante». 148 Per esempio, Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1: «Liber continens prothocolla seu instrumenta facta de rebus ecclesie Yporiensis ad censum datis, scriptus per me Opeçinum dictum de Copavinis de Mutina imperiali auctoritate notarium et nunc venerabilis patris domini fratris Alberti miseratione divina episcopi Yporiensis et comitis, inceptus sub ano Domini millesimo ducentesimo nonagesimo secundo, indictione quinta». 149 Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AM 308/311/2. 146 52 150 sentenze emesse dai vicari vescovili . Per il solo periodo di Alberto, ne 151 sopravvivono ben trentadue . Le origini mantovane di Alberto ebbero un peso non secondario nell’adozione di tali pratiche documentarie: l’episcopio mantovano era da decenni all’avanguardia nella gestione degli atti vescovili tramite registri . Il cambiamento maggiore rispetto agli episcopati precedenti coinvolse la base di reclutamento del notariato operante alle dipendenze del vescovo. Alberto Gonzaga, il primo vescovo estraneo alla diocesi a occupare la cattedra eporediese dopo oltre ottant’anni, assegnò molti fra i principali incarichi funzionariali a individui provenienti da Mantova o appartenenti alla 153 propria familia . In seno all’entourage notarile dell’episcopio, il ricambio fu massiccio. L’élite notarile eporediese – la cerchia, cioè, dei notai operanti per le istituzioni pubbliche della civitas – perdeva la propria unità: i notai reclutati da Alberto erano quasi tutti forestieri e spesso gli erano legati da rapporti di dipendenza personali. Si trattava di notarii episcopi a tutti gli effetti, privi di legami professionali con altri soggetti della civitas e attivi in 154 maniera tendenzialmente esclusiva al servizio dell’episcopio . I loro protocolli erano considerati alla stregua di registri vescovili, contenenti esclusivamente scritture relative all’amministrazione della diocesi e concepiti per restare, dopo l’uscita di scena del loro primo estensore, a disposizione dei successivi notai di curia. Ciò spiega, tra l’altro, l’alto numero dei protocolli di notai vescovili, risalenti all’episcopato di Alberto Gonzaga, conservatisi fino ai nostri giorni. I loro auto155 ri, se si escludono alcuni registri risalenti ai primi anni Novanta del Duecento , 150 Archivio storico diocesano di Ivrea, VII-2-YM 316/318/1: «Liber scriptum per me Bonaventurinum de Mantua notarium coram discreto viro domino Guillelmo de Strambino vicario domini episcopi Yporiensis et comitis sub anno Domini millesimo CCCXVI, indictione VIIII». 151 Ciascuno è presentato analiticamente in BUFFO, I registri notarili cit., pp. 93-100. 152 Sulla documentazione in registro mantovana si vedano: G. GARDONI, I registri della chiesa vescovile di Mantova nel secolo XIII, in I registri vescovili cit., pp. 141-187; ID., Notai e scritture vescovili a Mantova cit., pp. 51-86. Una panoramica della documentazione vescovile in registro nelle diverse diocesi piemontesi si ha in A. OLIVIERI, I registri vescovili nel Piemonte medievale (secoli XIII-XIV). Tipologia e confronto, in I registri vescovili cit., pp. 1-42. 153 Il resoconto più esauriente di tale ristrutturazione dell’apparato funzionariale diocesano è in G. G. MERLO, I vescovi del Duecento, in Storia della chiesa di Ivrea cit., pp. 271-273. 154 Può darsi che inizialmente essi non appartenessero nemmeno alla matricola dei notai cittadini (cfr. I documenti dell’archivio storico cit., p. 213, nota 38). 155 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 293/295/1 (protocollo personale di Giacomo Faber, con atti compresi fra il 1292 e il 1295), VIII-1-AaM 288/305/1 (volume contenente un registro compilato, intorno agli anni Novanta del Duecento, da Guglielmo di Santhià), CXCI-7-FM 272/298/1 (volume contenente imbreviature di Giovanni Cane di Castellamonte, datate fino al 1292). 53 facevano appunto parte di questo gruppo di notai forestieri, interessati, sotto gli aspetti professionale e personale, da legami forti ed esclusivi con il vescovo Alberto: Bonaventurino di Brunamonte da Mantova, «scriba domini episco156 pi» ; il suo concittadino Rufino di ser Airoldo, che si definisce notaio del vica157 158 rio diocesano Federico Gonzaga e familiaris del vescovo ; il «notarius … 159 domini episcopi» Opizzino dei Coppavini , originario di Modena; Giovanni 160 da Bergamo , il quale tra l’altro completò, aggiungendovi nuovi documenti datati sino al 1317, l’imponente cartulario capitolare iniziato nel 1264 da 161 Giacomo Faber (il nostro Libro dei redditi). Trascurata e mal conosciuta da Gabotto e dagli altri editori, poco nota anche agli studiosi di oggi, questa massa di registri, molti dei quali sono anonimi o frammentari, attende uno studio e una catalogazione generali che non possono trovare spazio nel presente lavoro. Con il separarsi della burocrazia notarile incentrata sui vescovi dal resto dei notai della civitas, le prassi della commissio dei protocolli di notai defunti non costituivano più, dal punto di vista dell’episcopio, un terreno di concorrenza con altre istituzioni pubbliche intese a presentarsi come garanti dell’autenticità delle scritture giuridiche. Come abbiamo visto, i registri di imbreviature dei nuovi notai di curia non erano prodotti per uscire dal palazzo vescovile; la loro 156 Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AM 308/11/2, f. 33 r. Di Bonaventurino resta una grande mole di registri cartacei. Gli si possono attribuire con certezza, in quanto corredati dalla sua sottoscrizione, i quaterni compresi in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM 000/308/1 («Hec sunt imbreviature facte [per] me Bonaventurino [de Mantua notarium]»), XII-4-AM 303/304/1; VIII-2-AM 308/311/1 («Liber prothocollorum continens strumenta Yporiensis ecclesie scriptus per me Bonaventurinus de Mantua imperiali auctoritate notarium»), VIII-3-AM 308/311/2 («Liber collacionum primum … scriptum per Bonaventurinum de Mantua scribam»), VIII-3-AM 310/320/1, XII-4-AM 312/315/1, XII-5-AM 313/317/1 («Liber nonus Bonaventurini de Mantua»), VIII-3-AM 315/316/1; VII-2-YM 316/318/1 («Liber scriptus per me Bonaventurinum de Mantua notarium coram discreto viro domino Guillelmo de Strambino vicario domini episcopi Yporiensis et comitis»). Cfr. oltre, fig. 7. 157 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXCI-7-FM 272/298/1, c. 1 r. 158 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 369, doc. 265. I registri sicuramente redatti da Rufino da Mantova sono collocati in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AaM 000/308/1 («L[iber prothoc]ollo[rum in quo] collatio[nes] et alia[…] instrumenta contin[entur… scriptus per me Rofinum] notari[um] de M[antua]»), CXCI-7-FM 272/298/1 (si tratta dei tre registri «de rebus ecclesies Yporiensis ad censum datis», risalenti agli anni 1291, 1293 e 1294, di cui si è detto sopra), VIII-1-AM 296/297/1, VIII-2-AM 299/300/1. 159 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 7, doc. 297. Due registri da lui compilati sono presenti in Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 292/293/1. 160 Fascicoli di imbreviature di Giovanni da Bergamo sono conservati in Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-5-IM 310/312/1, CXX-6-IM 318/319/1, CXX-7-IM 321/322/1, CXX-8-IM 324/338/1. 161 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. 55: «In nomine Domini amen. Liber sive registrum in quo continentur multa instrumenta donorum sive censuum ecclesie Sancte Marie Yporiensi pertinentium, scriptus per me Iohannem de Pergamo notarium infrascriptum». 54 circolazione dopo la morte degli estensori restava limitata al ristretto entourage dei tecnici dipendenti dall’episcopio. La commissio vescovile dei protocolli di curia era ormai uno dei molteplici meccanismi che regolavano l’ordinario funzionamento interno dell’amministrazione diocesana. Altri soggetti conservatori di documentazione: comune e capitolo cattedrale Sul fronte delle istituzioni laiche, il rafforzarsi del legame tra comune e notariato eporediesi non produsse, nell’ambito delle prassi di conservazione dei documenti, esiti paragonabili a quelli della riforma della burocrazia vescovile promossa da Alberto Gonzaga. È certo possibile che anche i notai attivi in ambito comunale abbiano incominciato a produrre registri destinati sin dall’inizio a restare a disposizione dei funzionari attivi, negli anni successivi, presso i diversi uffici del comune; per esempio, elenchi di diritti fiscali del comune, redatti probabilmente come «promemoria per la riscossione di fitti e per l’imposizione del 162 fodro», sono attestati sin dagli anni Sessanta del secolo XIII . Tuttavia, a Ivrea – così come nella maggior parte dei comuni e delle signorie italiani fra Due e 163 Trecento – la circolazione dei protocolli contenenti imbreviature di atti di pertinenza comunale continuò a seguire percorsi ben più tortuosi di quella dei registri vescovili, perché i notai comunali, diversamente da quelli reclutati per l’episcopio da Alberto Gonzaga, erano ancora anzitutto dei liberi professionisti. I loro protocolli contenevano, senza particolari soluzioni di continuità, tanto atti di interesse pubblico quanto rogiti privati. Si pensi che un analogo problema interessava anche i Savoia, i quali avrebbero faticosamente ottenuto, qualche decennio più tardi, che i propri notai redigessero protocolli separati per i due gruppi di docu164 menti . Dopo la morte del redattore, i protocolli dei notai comunali continuavano a circolare come una proprietà privata fra gli eredi, che li usavano per estrar- 162 PANERO, Il "Libro rosso" cit., p. 55 sg. Per una sintesi sull’argomento cfr. A. BARTOLI LANGELI, La documentazione negli stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione, personale, in Le scritture del comune. Amministrazione e memoria nelle città dei secoli XII e XIII, a cura di G. ALBINI, Torino 1998, p. 161, nota 25; O. BANTI, Ricerche sul notariato a Pisa tra il secolo XIII e il secolo XIV. Note in margine al «Breve collegii notariorum» (1305), in ID., Scritti di storia, diplomatica ed epigrafia, a cura di S. P. P. SCALFATI, Ospedaletto 1995, I, p. 416 sg.; M. BERENGO, Lo studio degli atti notarili dal XIV al XVI secolo, in Fonti medievali e problematica storiografica (Atti del Congresso internazionale per il 90° anniversario dell’Istituto storico italiano per il medioevo: Roma 1973), I, Roma 1976, pp. 152-154. 164 Cfr. A. BARBAGLIA, Antoine Beczon. Un notaio comitale nella Savoia del Trecento, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XCIII/1 (1995), p. 61 sgg. 163 55 ne a pagamento munda a beneficio dei soggetti che avevano stipulato gli atti: poteri laici, enti religiosi, istituzioni pubbliche e persone private. Probabilmente anche a Ivrea – come è attestato, nel medesimo periodo, per il caso bolognese – molti di quei registri si concentravano, col tempo, in un numero limitato di studi notarili, i quali «sembra agissero quali punti di raccolta delle scritture dei colle165 ghi defunti» . I correttivi impiegati dalle istituzioni comunali per impedire la perdita delle scritture di proprio interesse erano di due tipi. Da un lato, il comune di Ivrea continuò a fare un ampio ricorso alla copia dei propri atti entro libri iurium, soprattutto prima della sottomissione ai Savoia (1313). Come abbiamo visto, si trattava di una prassi ‘tradizionale’ di conservazione della memoria documentaria, atte166 stata per il comune eporediese sin dall’inizio del Duecento . Per quanto ne sappiamo – il tasso di dispersione documentaria è altissimo – una prima fase di produzione di codici contenenti copie di documenti riguardanti il comune di Ivrea 167 coincise con i primi tre decenni di quel secolo . Una seconda fase deve essere invece collocata negli anni a cavallo fra Due e Trecento; anni in cui furono prodotti almeno tre libri iurium a carattere tematico, ciascuno dedicato ai rapporti fra il comune di Ivrea e un diverso soggetto politico. Nessuno fra questi codici è sopravvissuto, ma se ne conserva notizia nell’inventario dell’archivio comunale 168 redatto nel 1477 . Apprendiamo così che nel 1296 il notaio Francotto dell’Olmo produsse per il comune un piccolo registro di otto fogli, contenente le copie autenticate degli atti stipulati in diversi tempi fra le istituzioni comunali eporediesi e i signori di Settimo (oggi Settimo Vittone), in perenne contrasto giurisdi169 zionale con il comune ; nel 1300 era invece redatto un «liber dequaternatus» 170 contenente copie dei patti con i conti di San Martino e di Castellamonte ; nel 1308, alcuni accordi fra il comune di Ivrea, il marchese Bonifacio II di Monferrato e diversi signori del Canavese erano copiati in forma autentica dal 165 Commissioni notarili. Registro (1235-1289), a cura di G. TAMBA, in Studio bolognese e formazione del notariato (Atti del convegno: Bologna, 6 maggio 1989), Milano 1992, p. 202. 166 PANERO, Il «Libro rosso» cit., p. 53 sgg. 167 Op. cit., p. 55. 168 Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1, cat. 47, n. 2805. Cfr. oltre, fig. 1 169 «Item quinternum unum bergameni in quo sunt octo folia continentie de pactis et conventionibus ac obligationibus in quibus suberant nobiles Septimi Vitoni erga comune et homines civitatis Ypporegie in castro dicti loci Septimi, subscriptum ad formam auctentici per multos notarios, in capite vero et in fine est subsciptum et tabellionatum manu Franchoti de Ulmo, sub die secunda septembris MCCLXXXXVI» (ibidem, c. non numerata). 170 «Item librum unum dequaternatum sine assidibus in quo sunt trigintaquatuor folia continentie de pactis celebratis inter comune et homines Ypporegie ac comites Sancti Martini, in quo libro etiam sunt multa instrumenta et consignamenta facta per ipsos nobiles de Sancto Martino et etiam nobilium de Castromonte, subscripta [manu] diversorum notariorum, inceptum videlicet sub die veneris prima iulii MIIIC» (ibidem, c. non numerata). 171 «Item quinternum unum bergameni in quo sunt duodecim folea continentie de pactis et conventionibus celebra- 56 171 notaio Uberto Grassi entro un registro di dodici fogli . Tale campagna documentaria coincise, tra l’altro, con una fase di potenziamento del controllo 172 sul districtus cittadino da parte delle istituzioni comunali . L’altra prassi utile a garantire il controllo del comune sulla memoria scritta dei propri negozi giuridici era l’affermazione di un’autorità sulla gestione dei protocolli di imbreviature; tale prassi fu perseguita, come si è visto, attraverso il perfezionamento dei meccanismi della commissio comunale dei protocolli, che esprimevano la subordinazione dell’uso delle imbreviature di notai morti all’auctoritas delle istituzioni laiche. Pertanto, mentre in seno alla burocrazia vescovile la commissio era ormai una mera formalità, per i notai dipendenti dal comune continuava a essere importante, sia sul piano ideologico sia su quello pratico, enfatizzare gli accenni a quella procedura: ciò spiega le diverse scelte lessicali tis inter illustrem dominum Bonifatium marchionem Montisferrati nobilesque Canepitii ex una parte ac comune Ypporegie ex altera, subscriptum per multos notarios in fine quinterni et subscriptum manu Uberti Grassi, receptum sub die IIII decembris MIIICVIII» (ibidem, c. non numerata). 172 BUFFO, La cogestione cit., pp. 220-228, 242-248. 173 Mi limito a citare due casi, benché non del tutto pertinenti, di praecepta auctenticationis nei quali le azioni che il comune compie come auctoritas autenticatoria sono descritte nel dettaglio. Il primo, del 1292, è relativo a un antico cartulario del monastero di S. Stefano, ed è indirizzato al notaio Vercellino Barale, il quale potrà estrarne munda su istanza dell’abate: «Anno Domini millesimo CCLXXXXII, … in palacio comunis Yporegie, … Coçonus Peluchus iudex et assessor domini potestatis Yporegie et Canapicii precepit michi Vercellino Barali notario infrascripto quatenus condam librum scriptum per Perrotum Ottolinum notarium et subscriptum et attestatum per Franchotum de Ulmo notarium et per Perrotum de Pagano notarium, quod liber incipit sic “In nomine Domini nostri Iesu Christi amen et cetera” et finit sic “ego Perrotus Ottolinus notarius publicus et filius Ermençone civis Yporegie auctenticum huius exempli seu predictum librum antiquum vidi et legi et cetera”, auctenticarem in toto et in parte, semel et pluries et quolibet capitulo per se et quamlibet aliam petiam terre per se ad voluntatem domini Iacobi abbatis monasterii Sancti Stephani Yporiensis seu ceter[orum monachorum] dicti monasterii si fuerit opportunum et in formam publici instrumenti redigerem; et de quo precepto constat instrumentum scriptum per Benedictum de Rucha notarium communis Yporegie sub eadem incarnatione, indictione et die et loco et testibus et cetera»; l’escatocollo recita: «Ego Vercellinus Baralis notarius comunis Yporegie exemplum huius novi exempli vidi et legi, et sicut in ipso continetur sic in isto novo continetur exemplo, et hanc cartam scripsi de precepto dicti domini potestatis, nichil addito vel diminuto quod mutet sensum. Incarnatio cuius libri veteri est millesimo CLXXIIII, indictione secunda, et cetera» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 26). Il secondo caso fornisce un esempio assai chiaro della traduzione, sul piano pratico, dell’incontro fra autonomia del collegio notarile e autorità documentaria comunale espresso in forma teorica negli statuti del 1289. Si tratta del praeceptum auctenticationis rilasciato nel 1338 dal comune al notaio Martinus de Ulmo, figlio di Franchotus, per l’estrazione in mundum di un atto dai protocolli del padre: «in palacio comunis civitatis Yporegie et presentibus testibus Iacobo de Monte de Padono, Georgio Grasso et Henrieto Bonardo notario civibus Yporegie et aliorum, ibique dominus Iohannes de Platis de Blandrate iudex et assessor nobilis viri domini Petri Vituli de Rubeomonte militis et vicarii civitatis Yporegie et districtus precepit et comissit michi Martino de Ulmo notario infrascripto quatenus ad instanciam et requisitionem Stephani filii condam Peroti Batagle de Claveirano civis Yporiensis […] Ysabelle filie condam Philippi Fornerii civis Yporegie et nomine ipsius Ysabelle tamquam coniuncta persona requirentis infrascriptum instrumentum censarie reperto in protocollis Franchoti de Ulmo condam patris mei et scriptum per manum suam extraherem et in publicam formam reddigerem, vissa prius et examinata literam ipsius protocolli et instrumenti per plures notarios de collegio notariorum civitatis Yporegie dicentum et protestantum coram dicto domino iudice quod dictum protocollum et instrumentum vere est de litera dicti patris mei, et predicta comissio facta fuit in presentia et de licentia Henrioti de Sylono 57 173 adottate dai due gruppi di notai nelle formule di autenticazione delle copie . Precocemente legate a quelle delle scritture comunali furono le vicende archivistiche della confraria eporediese dello Spirito Santo, che già nel 174 Quattrocento risultavano riversate entro l’archivio del comune . Questa società pia, che già nella seconda metà del secolo XIII aveva disposto la copia dei documenti attestanti i propri diritti patrimoniali entro un piccolo 175 cartulario pergamenaceo , incominciò, almeno dal 1306, a tenere serie di registri correnti cartacei, oggi scomparsi, contenenti liste di canoni dovuti 176 alla confraria . È ora necessario dedicare qualche parola alle prassi di conservazione della memoria adottate da un altro importante soggetto politico della civitas, il capitolo della cattedrale: il gruppo dei chierici officianti presso la chiesa cattedrale, dotato di un patrimonio proprio – frutto, in prevalenza, 177 dell’accumularsi di legati pii – e pertanto anche di un proprio archivio . Nei decenni centrali del Duecento, il capitolo si servì di un gruppo di notai ‘di fiducia’, appartenenti a quell’élite notarile che, come già abbiamo osservato, operava allora indistintamente alle dipendenze di episcopio e comune. Il principale professionista attivo per il capitolo nella seconda metà del 178 duecento fu Giacomo Faber . Giacomo, che morì intorno al 1300, ebbe 179 una lunga carriera, che siamo in grado di seguire per un cinquantennio ; durante questo periodo fu attivo, oltre che per il capitolo, anche per i vescovi e per il comune di Ivrea. Nel 1264, Giacomo riceveva dal vescovo eletto Federico di Front il compito di stendere un cartulario attestante le rendite e gli altri diritti spettanti al capitolo. Si tratta della parte più antica del Libro sindici monasterii et cobventus Sancti Stephani Yporiensis» (Archivio di Stato di Torino, Corte , Materie Ecclesiastiche, Abazie, Ivrea S. Stefano, m.5, doc.). 174 In un inventario dell’archivio comunale redatto nel 1491 è presente una sezione dedicata alle scritture della confraria (Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1, cat. 47, n. 2807, cc. non numerate). 175 Edito in Cartario della confraria del S. Spirito cit. Cfr. oltre, fig. 2. 176 Se ne conserva notizia negli inventari quattrocenteschi dell’archivio comunale: «Item librum unum confrarie, compillatum sub anno domini MCCCVI, cum aliis pluribus simul annexis, in quibus continentur debitores dicte confrarie usque ad annum MIIICLXXXIX, indicione XII, cum instrumentis XXVII in bergameno insertis per modum quinterneti in principio dicti libri» (Archivio storico del Comune di Ivrea, s. 1, cat. 47, n. 2807, cc. non numerate) 177 Sul tema cfr. CAMMAROSANO, Italia medievale cit., pp. 55-61. 178 Cfr. sopra, nota 120. 179 Oltre alle numerose pergamene, edite e inedite, di Giacomo sopravvivono protocolli di imbreviature relativi agli anni 1256-1263 (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 256/263/1) e 1292-1295 (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-3-IM 293/295/1). 58 dei redditi, al quale saranno dedicati i prossimi due volumi della presente opera; limitiamoci qui ad anticipare che Giacomo produsse, in quell’occasione, un registro di altissimo livello, sia per il suo aspetto grafico sia per la raffinatezza delle tecniche autenticatorie: il testo di ogni atto è corredato da un’imitazione del signum tabellionis dell’autore dell’originale ed é seguito da un rimando sintetico al praeceptum auctenticationis ricevuto dall’eletto (praecep180 tum illustrato, in forma più ampia, all’inizio del cartulario) . Giacomo era uno specialista dell’autenticazione di documenti in copia e come tale fu riconosciuto sia dall’episcopio sia dal comune. Gli furono infatti affidati, in tempi diversi, i protocolli di ben tre notai defunti: tra il 1271 e il 1276, la «curia regia» di Ivrea 181 gli assegnava, come si è detto, le imbreviature di Giovanni Caldera ; verso la seconda metà dello stesso decennio riceveva congiuntamente da «ecclesia et 182 commune Yporegie» le imbreviature di Bernardo di Carnario ; nel 1300, infine, risultava in possesso dei protocolli di Guglielmo Caldera, in virtù di una com183 missio il cui autore, non precisato nel testo, dovette essere il comune . Inizialmente, il capitolo non risentì delle novità introdotte in ambito vescovile da Alberto Gonzaga e continuò a servirsi di notai eporediesi – quali, appunto, lo stesso Giacomo Faber – attivi come liberi professionisti anche per altri soggetti. A questo gruppo si unirono, a inizio Trecento, notai forestieri, quali Giovanni da Bergamo, privi di un vero rapporto funzionariale con il capitolo – paragonabile a quello proprio dei notai di Alberto Gonzaga con l’episcopio – ma caratterizzati da un legame professionale quasi esclusivo con i canonici della cattedrale. A motivo della tarda ricezione delle innovazioni provenienti dall’entourage notarile dell’episcopio, il capitolo continuò a lungo a servirsi, al pari del comune, di prassi più tradizionali di salvaguardia della memoria scritta, quali la copia di atti entro cartulari. Del codice del 1264 si è già detto; intorno al 1320, poi, i canonici commissionarono a Giovanni da Bergamo la copia entro un nuovo registro – quello che costituisce ora la seconda parte del Libro dei redditi – di un numero 180 «(ST) Anno dominice nativitatis millesimo ducenteximo sexagessimo quarto, inditione septima, die mercurii, XIIII intrantis mensis madii, in palatio ecclesie Sancte Marie Yporiensis, presentibus testibus domino Andrea capellano et Rothefreydo de Pertuxio et magistro Iacobo notario de Caluxio et pluribus aliis. Dominus Fredericus de Fronte, Dei gratia ecclesie Yporiensis electus, precepit michi Iacobino notario infrascripto ut infrascripta instrumenta pertinentia ad ecclesiam et capitulum Yporiensem in presenti libro autenticarem et exemplarem et in publicam formam reddigerem» (Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-IIM 109/317/1). Cfr. oltre, fig. 4. 181 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1, p. non numerata (1268). 182 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 2, doc. non numerato (1273). 183 Le carte dell’Archivio capitolare d’Ivrea cit., p. 218, doc. 191. 184 Archivio storico diocesano di Ivrea, CXX-I-IM 109/317/1. Cfr. oltre, fig. 5. 59 184 piuttosto elevato di documenti . Contestuale alla produzione dei cartulari fu la redazione di obituari, nei quali erano riportati i giorni della morte dei donatori di legati pii al capitolo, giorni in cui i canonici erano ritenuti a 185 celebrarne una messa di suffragio . Nel 1357, infine, l’intero patrimonio di 186 pergamene sciolte dell’archivio capitolare fu riordinato e inventariato . 185 I necrologi del capitolo di Ivrea, a cura di G. BORGHEZIO, Torino 1925 (Biblioteca della Società storica subalpina, LXXXI/1). 186 Di quell’impresa è testimonianza un grande inventario cartaceo, mutilo, di 380 pagine (Archivio storico diocesano di Ivrea, LXI-1-IM200/350/1). 60 5. Istituzioni e notai in un’età di crisi Le prassi legate all’affidamento delle imbreviature di notai defunti a tecnici pubblicamente designati sono menzionate, nei munda da esse ricavati, per lo più in situazioni di difficile controllo sulle imbreviature stesse da parte dell’istituzione alla quale gli estensori dei munda fanno capo: episodi di rivendicazioni contrapposte da parte di comune ed episcopio o dispersioni documentarie dovute a interferenze tra gli incarichi funzionariali e l’attività privata dei notai roganti. Si trattava di una gamma di strumenti estremamente flessibili, adatti a far fronte alle evenienze più disparate ma, come si è visto, perfettamente padroneggiati dai professionisti che ne fanno uso. Il comune vide nella formalizzazione delle procedure di commissio una efficace garanzia contro la persistente fragilità del vincolo professionale tra l’istituzione e i suoi funzionari: uno strumento indispensabile per «interrompere gli automatismi della totalizzante prassi notarile» – che avrebbe altrimenti coinvolto le imbreviature degli atti di interesse comunale nei tortuosi circuiti dell’uso privato da parte di liberi professionisti – «modifican187 dola a favore degli interessi amministrativi del comune» . Come si è già rilevato, si trattava di necessità proprie della maggior parte dei comuni ita188 liani , che a Ivrea emersero in epoca avanzata, in concomitanza con la relativamente tarda stabilizzazione delle strutture corporative dei notai. Il fatto che i notai di ambito vescovile cessino, a partire dalla fine del Duecento, di fare esplicito riferimento alle modalità della commissio dei protocolli da parte dell’episcopio non rivela, di per sé, un disinteresse per questa fase della documentazione, posta ormai sotto la responsabilità delle istituzioni laiche. Tale situazione sarebbe, del resto, in contrasto con il generale orientamento ideologico dell’episcopio a cavallo fra Due e Trecento, inteso, come vedremo, a riportare in primo piano le prerogative di natura pubblica spettanti alla cattedra eporediese. Le menzioni della commissio dei registri scomparvero dai documenti dei notai vescovili sem- 187 G. G. FISSORE, Alle origini del documento comunale: i rapporti fra i notai e l’istituzione, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento (Atti del Convegno dell'Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti: Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989, p. 128. 188 Ben più precoci, tra quelli che hanno ricevuto studi approfonditi, i casi di Bologna (G. TAMBA, Teoria e pratica della ‘commissione notarile’ a Bologna nell’età comunale, Bologna 1991) e di Asti (FISSORE, Autonomia notarile e organizzazione cancelleresca cit., p. 159 sgg.). 61 plicemente perché i presuli, a cominciare da Alberto Gonzaga, scelsero di adottare un diverso strumento per vincolare a sé la produzione notarile in registro. Tale strumento consistette nella graduale sostituzione del tradizionale apparato di notai eporediesi legati professionalmente ai vescovi con un nuovo gruppo di professionisti, il cui legame con i presuli era di natura personale. I vescovi si creavano, in un certo senso, un ‘proprio’ notariato, separato dal resto dei professionisti operanti in seno alla civitas e incapace di contrapporre all’istituzione di riferimento un’autonomia paragonabile a quella di cui il collegium notariorum eporediese godeva rispetto al comune. Questa politica non era del tutto nuova: già dall’inizio del Duecento l’episcopio, interessato a indirizzare in senso funzionariale i rapporti con i maggiori notai attivi alle proprie dipendenze, aveva cercato di istituire con essi legami persona189 li, attraverso la concessione di benefici di vario genere ; possiamo semmai affermare che l’insediamento del mantovano Alberto Gonzaga abbia radicalizzato e accelerato il processo, rendendolo irreversibile. Soltanto al compiersi di tale avvicendamento fra cerchie notarili si può affermare che i due ambiti documentari che sono stati al centro della nostra trattazione, quello ‘comunale’ e quello ‘vescovile’ (ma la dicotomia è riduttiva), in forte osmosi per tutto il Duecento, si siano separati del tutto, perché affidati a due gruppi distinti di notai. Non si può invece sostenere che, contestualmente a tale trasformazione, sia venuto meno l’interesse dell’episcopio a presentarsi come auctoritas pubblica superiore in grado di surrogare l’auctoritas degli estensori defunti dei documenti, garantendo il corretto tramandarsi, nel tempo, della memoria delle azioni giuridiche da essi registrate; semmai tale aspirazione fu circoscritta alle scritture redatte dai notai vescovili. Lessico documentario e prerogative ‘comitali’ dell’episcopio L’evoluzione dei rapporti fra notariato e istituzioni pubbliche intorno al 1300 risulterà più comprensibile se posta in rapporto con i paralleli sviluppi politici e istituzionali del contesto eporediese. Come si ricorderà, dagli anni Settanta del secolo XIII Ivrea e il suo districtus erano stati sottoposti 190 al dominio dei marchesi di Monferrato ; dopo la morte in prigionia del marchese Guglielmo VII (1292), il comune e l’episcopio eporediesi aveva189 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 886 sg. Cfr. sopra, nota 25. 190 62 191 no rinnovato (1294) i patti di dedizione con il figlio Giovanni . Morto anche quest’ultimo, senza eredi diretti, nel 1305, la città si svincolò dalla soggezione ai Monferrato e, malgrado una breve fase di riavvicinamento ai marchesi, conservò una piena autonomia sino al 1313, anno della dedizione ai 192 Savoia . Il periodo 1292-1313 coincise con una fase di accentuata conflittualità politica e di forte crisi dei rapporti istituzionali fra comune ed episcopio. Nel 1307, le due istituzioni erano in contrasto a motivo delle diverse politiche adottate nei confronti del nuovo marchese, Teodoro Paleologo: da un 193 lato, il comune aveva allacciato con Teodoro rapporti di prossimità politica ; dall’altro, Alberto Gonzaga era su posizioni nettamente antimonferrine, soprattutto per via di alcune giurisdizioni signorili che Teodoro contendeva 194 alla mensa vescovile nel Chivassese e in altri luoghi . Nel 1310, poi, il comune – il quale, in virtù di un accordo risalente addirittura al 1200, deteneva tre 195 quarti dei terreni comuni della civitas in feudo dal vescovo – rifiutò di prestare ad Alberto Gonzaga il dovuto omaggio e tentò di cedere parte delle pro196 prie porzioni di communia a concessionari privati . La questione si risolse nello stesso anno con un arbitrato che, abolendo le norme del 1200, riconobbe il carattere allodiale dei tre quarti dei terreni comuni spettanti alle istitu197 zione laiche e impose al comune di rilasciare al presule il restante quarto . 191 I Biscioni cit., II/3, p. 191 sgg., doc. 598/i. Una sintesi di quegli eventi è in BUFFO, La cogestione cit., pp. 232-239. 193 Nel 1306 era insediato, presso il castello urbano di San Maurizio, un podestà monferrino, Aichino di Rivoli (Le carte dell’Archivio capitolare di Ivrea cit., p. 219, doc. 193); nel 1307 si insediava come podestà in Ivrea Oliviero della Torre, appartenente a una famiglia alleata di Teodoro Paleologo (Le carte dell’abbazia di S. Stefano cit., p. 385, doc. 92; Le carte dell’Archivio capitolare di Ivrea cit., p. 220 sg., doc. 195; cfr. PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 957). 194 Almeno a partire dal 1227 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., I, p. 164, doc. 118), i Monferrato tenevano in feudo dall’episcopio eporediese la giurisdizione su diversi luoghi appartenenti all’area meridionale della diocesi di Ivrea, a cavallo del Po, tra i quali Chivasso, Castagneto, Verolengo, San Giorgio. L’investitura fu confermata a Bonifacio II nel 1228, a Margherita, madre del minorenne Guglielmo VII, nel 1254 e a Guglielmo VII stesso nel 1257 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Ivrea, m. 1, n. 1). Una volta acquisito il controllo del marchesato, Teodoro non prestò ad Alberto Gonzaga la fedeltà dovutagli per le giurisdizioni in questione, come risulta dall’atto con quale Alberto, nel 1318, ne investiva l’eporediese Andrea «de domino Andrea», in cui si specifica che il «feudum tenetur adhuc occupatum contra Deum et iusticiam per dominum Theodorum filium domini imperatoris Grecorum, qui se appellat marchionem Montisferrati, qui numquam voluit cum predicto domino episcopo de investitura predicti feudi in aliquo concordare» (ANSALDI, Nuovi documenti cit., p. 14 sg., doc. 4). 195 Cfr. PENE VIDARI, Vescovi e comune cit., p. 925 sgg. 196 Sul tema cfr. M. GAJ, Un’assegnazione di terre comuni all’inizio del Trecento, in «Bollettino dell’Associazione di storia e arte canavesana», 8 (2008), pp. 71-134. 197 Gli atti relativi alla contesa, editi in BUFFO, La cogestione cit., pp. 293-299, sono conservati in Archivio stob rico diocesano di Ivrea, LXXXII-2-I M 312090. 192 63 Tanto l’affievolirsi (sotto Giovanni I di Monferrato) o addirittura l’assenza (dopo il 1305) del controllo sulla città da parte di poteri esterni quanto il parallelo inasprirsi del contrasto, appena descritto, fra le due istituzioni urbane indussero comune ed episcopio a enfatizzare, nei testi prodotti dai rispettivi notai, i riferimenti alla propria funzione di autorità pubblica superiore in seno alla civitas. Per esempio, nei testi comunali relativi alla cessione dei terreni comuni a privati si pose in rilievo come proprio il fatto di poter alienare i communia fosse indice del 198 totale controllo comunale su quei beni pubblici . Alberto Gonzaga, invece, insistè sulla connotazione comitale dei diritti dell’episcopio; rivendicazione che si espresse con maggiore efficacia proprio nell’ambito delle prassi documentarie. Come abbiamo visto, nelle formule di autenticazione di testi copiati dai notarii episcopi a partire da protocolli di notai defunti all’inizio del XIV secolo persistevano riferimenti all’auctoritas autenticatoria vescovile assimilabili a quelli presenti nei documenti prodotti per l’episcopio nel corso del Duecento. In quegli anni, i più interessanti tentativi di affermazione di un’auctoritas documentaria autonoma da parte dei vescovi riguardarono tuttavia altre prassi. Osserviamo, in particolare, tre contratti stipulati fra il chierico Ugonino Solero e il convento, recentemente fondato, di S. Chiara di Ivrea; gli atti risalgono al biennio 1302-1303 e furono redatti dal notaio Francotto dell’Olmo. Nel primo documento, del 10 dicembre 1302, Ugonino promette di corrispondere al convento una somma di 375 lire di imperiali. La narratio iniziale contiene un riferimento ad Alberto Gonzaga, presentato con la titolatura consueta di «episcopus Yporiensis et comes»; come si è visto, sotto Alberto – in un contesto di soggezione del territorio eporediese ai marchesi di Monferrato – l’aggettivo «Yporiensis» era stato posposto a «episcopus», eliminando ogni nesso fra il titolo comitale e la città di Ivrea. Al termine dell’atto, la funzione del vescovo cresce improvvisamente di importanza: Ugonino, «per la maggiore utilità e certezza di questa donazione … e per maggiore sicurezza delle sorelle e del convento di S. Chiara», richiede ad Alberto, che ora è detto «episcopus et comes Yporiensis» e «iudex ordinarius», di «insinuare et confirmare» l’atto appena stipulato; il presule, intervenendo con «suam auctoritatem et suum 199 decretum», ratifica quanto stipulato fra le due parti . Negli altri due atti – sono 198 BUFFO, La cogestione cit., pp. 252-255. «Et item ipse dominus Ugoninus clericus Yporiensis, ad maiorem cautelam, utilitatem et firmitatem presentis donacionis facte inter vivos et ad maiorem securitatem dictarum sororum et conventus Sancte Clare de Yporegia, dictum dominum fratrem Albertum, Dei gratia episcopum et comitem Yporegie et iudicem ordinarum, cum instancia requisivit quatenus dictam donacionem et contractum dignaretur insinuare et confirmare et hiis omnibus suam auctoritatem et suum decretum et ecclesie Yporiensis interponere. Unde ipse dominus episcopus, cognoxens hec omnia esse Deo accepta et in salutem animarum redundare, ad requisicionem dicti domini Hugonini … ut melius et solepnius potuit dictam donacionem et donaciones insinuavit et suam auctoritatem et 199 64 pervenuti in copia tarda ma il testo è da ritenersi attendibile sia sul piano formale sia su quello contenutistico – la prassi si ripete, ma Ugonino, infermo, richiede e ottiene l’«insinuatio» dell’atto tramite un proprio procuratore. In uno dei due documenti Alberto, designato come vescovo nelle altre parti del testo, procede alla conferma nella semplice qualità di «comes Iporegiensis» e «iudex ordinarius 200 ipsius … Hugonini» .Questi tre atti, relativi a una fondazione religiosa promossa e finanziata da Alberto nel quadro dell’affermazione della presenza mino201 ritica in Ivrea , sono fra le massime espressioni documentarie dell’ideologia ‘comitale’ affermata da Alberto Gonzaga nel primo decennio del secolo XIV. Il notaio Francotto, che abbiamo già incontrato e del quale parleremo meglio in seguito, sfruttò le proprie raffinate competenze giuridiche per presentare il vescovo come detentore esclusivo dei diritti di ascendenza pubblica sulla civitas, della quale era «conte» e «giudice ordinario». Funzioni che gli garantivano il potere di «insinuare», «confirmare», «roborare» – tutti termini, questi, provenienti dal lessico del diritto pubblico e della prassi cancelleresca – gli atti stipulati entro la propria giurisdizione, sommando la propria auctoritas a quella, non posta in discussione, del notaio e garantendo al negozio una più sicura validità, nel presente e nei tempi futuri. Peraltro, l’immagine estremamente artificiosa delle prerogative vescovili contenuta nei testi di Francotto era troppo ardita e troppo distante dagli effettivi assetti istituzionali della civitas per poter trovare seguito presso altri notai. Autonomie autenticatorie contrapposte Lo stesso intento di legittimazione che pervadeva le sperimentazioni di Francotto quale notaio al servizio del vescovo è avvertibile nella ripresa, da parte dell’episcopio, di alcune prassi documentarie, inusuali per il XIV, che implicavano una forte connotazione in senso pubblico dell’autorità emanante. Si pensi alla rinnovata produzione di documenti solenni – i diplomatisti li chiamano «documenti ibridi», perché, pur essendo prodotti da notai, la loro struttura si ispi202 rava a quella dei diplomi cancellereschi – simili per alcuni versi ai diplomi suo decretum et ecclesie Yporiensis interposuit et ea omnia et singula laudavit et confirmavit et coroboravit et aprobavit et ratificavit et hiis omnibus et singulis consensit» (BUFFO, Cronaca di una fondazione cit., doc. 10) 200 Op. cit., doc. 11. 201 BUFFO, Cronaca di una fondazione cit.; F. QUACCIA, I Francescani a Ivrea: dalle origini al secolo XVI, in C. BERTOLOTTO, P. BUFFO, S. COPPO, F. QUACCIA, C. TOSCO, Il convento di San Francesco a Ivrea. Storia, arte e architettura, Ivrea 2011, pp. 1-8. 202 Un testo di riferimento sui documenti ibridi è P. CANCIAN, La memoria delle chiese. Cancellerie vescovili e culture notarili nell’Italia settentrionale (secoli X-XIII), a cura di P. CANCIAN, Torino 1995. 65 emanati dai vescovi eporediesi sino al secolo XII. Nell’aprile 1296, Alberto Gonzaga aveva pronunciato un arbitrato fra il comune di Ivrea e i signori di Settimo, nel contesto di una lite per la giurisdizione sui territori di Settimo e di alcuni abitati vicini. La sentenza aveva accordato la giurisdizione al comune, interessato a costruire in quella zona un borgo nuovo, facendo però salvi molti 203 dei diritti di banno già spettanti ai domini . L’anno successivo, sempre nel quadro di tale passaggio di poteri, sia il vescovo sia il comune, a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro, fecero redigere ai rispettivi funzionari una copia autenticata di un atto di Giovanni «de domino Aymone», risalente al 1234 e contenente il giuramento di cittadinatico dei signori di Settimo al comune di Ivrea e l’investitura, indirizzata al comune da parte dei signori, del castello di 204 Settimo . L’originale dell’atto si trovava in un protocollo di imbreviature del notaio Giovanni. Fu direttamente da quel registro che il 30 ottobre Francotto dell’Olmo eseguì, per conto del comune, l’estrazione di una copia in forma di mundum; nella formula di autenticazione, Francotto spiega di aver ricevuto l’ordine di redigere una copia autenticata (come abbiamo visto, tale ordine è chiamato dai diplomatisti praeceptum auctenticationis) dal podestà di Ivrea, Guido Valperga di Masino, su richiesta di un procuratore giudiziario del comune, e che il podestà si atteneva «al testo dello statuto del comune di Ivrea relativo ai protocolli dei notai defunti» («de mandato nobilis viri domini Guidoni de Maxino comitis de Gualperga potestatis Yporegie, qui, fermata prius forma statuti comunis Yporegie facientis mencionem de abreviatura notarii mortui … precepit michi iandicto Franchoto notario ut dictum instrumentum de dicto abreviario fideliter extrahe205 rem et publice scriberem») . La copia eseguita per il vescovo, opera del notaio vescovile Rufino da Mantova, risale ad alcune settimane prima (4 settembre); essa non si basa direttamente sul testo contenuto nel protocollo di Giovanni, ma su una copia autenticata redatta da un precedente notaio affidatario, Giacomo. La prassi autenticatoria descritta da Rufino è ben diversa da quella impiegata da Francotto dell’Olmo nella copia da lui redatta. Il documento si apre infatti con la forma di un atto vescovile solenne, in cui il vescovo Alberto comunica di aver preso visione dell’esemplare di partenza, redatto da Giacomo: «Universis personis infrascriptum publicum instrumentum inspecturis, frater Albertus permissio203 I documenti dell’archivio storico cit., pp. 275-281, doc. 41. Op. cit., pp. 226-230, doc. 12. 205 Op. cit., p. 227, doc. 12. 206 «(ST) Et ego Roffinus de Mantua imperiali auctoritate notarius publicus prenominatum instrumentum non mutatum ut predictum est vidi ipsumque in presencia infrascriptorum testium exemplavi de verbo ad verbum, 204 66 ne divina episcopus Yporegie et comes, salutem in Domino sempiternam. Noveritis nos vidisse instrumentum scriptum manu Iacobi notarii extractum de imbreviario magistri Iohannis de domino Aymone non cançellatum, non abrasum, non abolitum nec viciatum in aliqua sua [parte …]». Segue la copia dell’atto del 1234, al termine della quale Alberto riprende la parola, affermando di confermare il contenuto del documento e di corroborarlo, in virtù della propria «auctoritas», con l’apposizione del proprio sigillo: «In cuius rei testimonium presens transcriptum, per infrascriptum notarium publicatum, laudavimus ipsumque nostra auctoritate nostri sigilli munimine iussimus roborari». La copia è chiusa dalla sottoscrizione del notaio Rufino, estensore materiale della copia, che vi appone il proprio signum tabellionis «su ordine del vesco206 vo» . Due prassi autenticatorie diverse, che rimandano a due differenti modelli di legittimità, entrambi promananti da istituzioni interessate a presentarsi come detentrici di un’auctoritas sufficiente a garantire pubblica validità ai testi copiati. I due notai, che non per nulla sono personaggi di spicco delle rispettive cerchie funzionariali, recepiscono perfettamente le istanze di autorappresentazione proprie delle istituzioni di riferimento. Francotto dell’Olmo le esprime attraverso un richiamo, estremamente dettagliato, ai diversi passaggi, segno dell’auctoritas documentaria del comune, che hanno condotto all’estrazione del mundum (quali il praeceptum del podestà comunale) e li giustifica facendo riferimento alle disposizioni statutarie riguardanti i protocolli di notai defunti. Anche la completio di Rufino da Mantova celebra l’auctoritas del vescovo come garante dell’autenticità del testo copiato. Essa, già contenente un richiamo al mandato vescovile, è come incorniciata da formule di ascendenza cancelleresca, che fanno del presule l’attore principale della procedura autenticatoria. 207 Al documento vescovile, poi, è applicato il sigillo del presule : un elemento che compare molto di rado negli atti dell’episcopio eporediese nel 208 corso del Duecento e che pare tornare in uso proprio al tempo della ripre- nichil addendo vel minuendo, ipsumque cum ipsius auctentico ascultavi. Posthec de mandato dicti domini episcopi ipsum meo signo et nomine roboravi. Sub anno Domini MCCLXXXXVII, indicione X, die III mensis septembris, in episcopali palacio Yporegie, presentibus testibus dominis Iohanne de Emblavato, Facio de Stria, Petro de Berlenda et Francoto de Ullmo civibus Yporiensibus (SP)». 207 Cfr. Tav. 1. «oltre, fig. 6» 208 L’unico documento con sigillo a noi noto risalente all’episcopato del predecessore di Alberto, Federico di Front, risale al 1268 (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 82 sg., doc. 353). 67 209 sa della tradizione comitale da parte di Alberto Gonzaga . Si noti, a tale proposito, che sotto Alberto la struttura dei sigilli vescovili cambiò di molto rispetto al predecessore, il vescovo eletto Federico di Front Membro di un ramo dei conti di San Martino, Federico aveva trascorso gran parte del proprio episcopato nel tentativo di consolidare l’in210 fluenza della propria famiglia sulla città di Ivrea ; nel suo sigillo – così come ci è descritto dal testimoniale di presentazione di un atto da lui emanato – «compariva l’immagine di san Martino che taglia in due il proprio mantello per il povero nudo» («apparebat ymago sancti Martini dividen211 tis clamidem pauperi nudo») . Nel sigillo a mandorla che Alberto usò nel 1297 per corroborare la copia del trattato fra il comune di Ivrea e i signori di Settimo compare invece la tradizionale figura di vescovo stante, con mitra e pastorale: un’immagine analoga a quelle presenti nei falsi sigilli di vescovi del secolo XI, prodotti nel corso del Duecento, prima dell’insediamento di Alberto sulla cattedra eporediese. Quei falsi, insieme con altri privilegi di S. Stefano, erano stati autenticati, solennemente e in più copie, da una commissione di tre 209 Il solo documento dotato di sigillo conservato è quello al quale si è testé fatto riferimento. Ulteriori attestazioni di diplomi vescovili con sigillo sono reperibili nei registri di imbreviature dei diversi notarii episcopi. Una ricognizione sistematica dei protocolli alla ricerca di simili attestazioni è ancora da compiere. Limitatamente ai fascicoli contenenti lettere indirizzate dal vescovo Alberto ad altri soggetti – nei quali i documenti sono registrati per intero, escatocolli compresi, riuniti posteriormente in un unico volume, custodito nell’archivio diocesano di Ivrea (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-3-AaM 308/311/2) – è stato possibile individuare le seguenti attestazioni. Nell’atto di donazione di locali dell’ospedale dei Ventuno, da parte del vescovo, ai canonici di S. Orso di Aosta (1310): «Universis Christi fidelibus presentem paginam inspecturis frater Albertus imspiratione divina episcopus Yporiensis et comes salutem in Domino sempiternam. … In cuius rei testimonium de premissis mandavimus per Bonaventurinum notarium nostrum scribi et tradi publicum instrumentum, nostri etiam sigilli munimine roborari. Datum et actum in episcopali palatio Yporegie. Presentibus testibus reverendo viro domino Hugucione Dei gratia abbate Sancti Andree Vercellensi, Henrico de Septimo canonico Yporegie et Petro de Lafimatana iuris perito ad hoc specialiter convocatis. Sub anno Domini millesimo CCCX, indicione VIII, die lune, XXIII mensis februarii» (c. 26 bis r.). In un atto solenne di concessione a Martino, rettore della chiesa di S. Maurizio di Biò (1311): «In cuius rei testimonium presentes literas nostro sigillo mandavimus comuniri. Datum in episcopali palacio Yporegie, anno Domini millesimo CCCXI, indicione VIIII, die III februarii, presentibus testibus Guidone de Gonçaga canonico Mantuanensi presbitero, Iacobino castellano Romani et Iohanne Brolino de Burgo Novo valle Montisalti, ad hoc specialiter convocatis» (c. 31 v.). 210 Sul tema cfr. G. S. PENE VIDARI, Un memoriale del vescovo d’Ivrea a Carlo d’Angiò, in «Bollettino della Società accademica di storia ed arte canavesana», 19 (1993), pp. 147-162. 211 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 82, doc. 353. 68 212 notai nel 1278, su ordine di Federico di Front . Anche in campo sfragistico, come negli altri aspetti formali del transunto del 1297, Alberto promuoveva un ritorno alla produzione documentaria solenne espressa dai vescovi del passato. Nelle due copie autenticate appena esaminate, comune ed episcopio parrebbero costituire altrettante auctoritates documentarie indipendenti e sovrane, in grado di conferire legittimità alle pratiche autenticatorie più svariate. Eppure i due esemplari, così distanti quanto alla scelta dei dispositivi autenticatori, sono accomunati da una presenza defilata ma costante. Alla copia dell’atto da parte di Rufino da Mantova, nel palazzo vescovile, era presente anche Francotto dell’Olmo, che nel mese successivo avrebbe estratto il medesimo documento dalle imbreviature del notaio rogante, così come era presente il giurisperito Pietro di Berlenda – personaggio di spicco in seno al collegium cittadino dei giudici, formatosi parallelamente al 213 collegio dei notai , e attivo con diversi incarichi diplomatici per conto 214 del comune – il quale avrebbe fatto da teste anche alla redazione della copia comunale. Segno, questo, dell’interesse del comune a sorvegliare 212 In un solo caso – quello del falso diploma del 1075, attribuito al vescovo di Ivrea Ogerio – si sono conservate le due copie autenticate, redatte l’una per S. Stefano e l’altra per l’episcopio (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1, n. 7; Archivio storico diocesano di Ivrea, LXXX-2-IM 0750000). L’incipit degli atti recita: «(ST) In nomine Domini nostri Iesu Christi, amen. Anno nativitatis eiusdem millesimo duecentessimo septuagessimo octavo, indictione sexta, die martis quinta intrantis mensis iulii, in claustro ecclesie Yporiensis, coram testibus presentibus vocatis et rogatis Rainerio archipresbitero, Iuvene de Montecuco et Rainerio de Tohenengo canonicis Yporiensibus et domino Nicolao de Leçulo in dicta Yporiensi ecclesia capellano, dominus Willelmus Tronellus Yporiensis archidiaconus et domini Frederici Yporiensis ecclesie procuratoris seu electi iudex et vicarius precepit michi Yvorino Baçano infrascripto notario quatinus infrascriptum privilegium proprio sigillo cereo episcopali sigillatum auctenticarem et in formam publici instrumenti redigerem, cuius privilegi tenor et forma talis est». I privilegi furono autenticati, oltre che da Ivorino, anche dai notai Giovanni Cane e Pietro de Herbis. 213 Cfr. oltre, nota 272. 214 Le vicende del dominus Pietro di Berlenda, «utriusque iuris peritus», esemplificano adeguatamente questo tipo di carriera professionale. Pietro non era un homo novus. Suo padre Giacomo, aveva avuto, intorno agli anni Sessanta, un certo rilievo in seno al funzionariato comunale (Il libro rosso del comune d’Ivrea cit., pp. 109-112, docc. 127-130; p. 208, doc. 207; p. 220, doc. 223); nel 1267 egli aveva inoltre presenziato alla pronuncia della scomunica contro Guglielmo VII di Monferrato, colpevole di avere occupato i beni della mensa vescovile e di avere imprigionato l’eletto Federico di Front (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 75, doc. 347). 69 un’operazione documentaria svolta nel quadro di una controversia che lo coinvolgeva direttamente; ma anche e soprattutto della persistente e anzi accresciuta capacità di mediazione – a livello politico e ideologico, oltre che tecnico – fra i vari ambiti istituzionali interni alla civitas detenuta da un ceto colto di notai e giurisperiti. Proprio nel periodo in cui sembra essersi finalmente consumata la separazione fra gli ambiti documentari episcopale e comunale, ecco emergere, ancora una volta, un gruppo di mediatori fra i diversi poteri urbani. Di questa componente, proprio uno dei notai coinvolti nelle prassi appena descritte, Francotto dell’Olmo, fu un esponente altamente rappresentativo. Sarà utile concludere questo saggio presentandone in maniera particolareggiata il percorso professionale, i legami sociali e le aspettative politiche. Pietro mise a frutto, nella propria carriera di giurisperito, la familiarità con le istituzioni comunali e la prossimità all’episcopio ereditate dal padre. Egli operò al servizio del comune eporediese in importanti missioni diplomatiche: nel 1294, presente il vescovo Alberto, rinnovò a nome del comune, di cui era sindicus, la dedizione di Ivrea ai Monferrato (BUFFO, La cogestione cit., p. 215); nel 1311, insieme con Andrea «de domino Andrea» e Giacomotto Solero, fu inviato presso Amedeo V di Savoia, vicario imperiale in Lombardia, a promettere il contributo della città al pagamento degli ufficiali imperiali (Archivio di Stato di Torino, Corte, Paesi, Provincia di Ivrea, m. 1, n. 4). Pietro svolse parimenti in più occasioni l’incarico di procuratore vescovile: nel 1309, insieme con il visconte Pietro Solero e Pietro Fontana, rappresentò il vescovo nella vertenza tra comune ed episcopio per la fissazione delle tariffe della curaya presso la porta di Ponte (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 203 sg., doc. 456); nel 1319 faceva parte – insieme con il vicario sabaudo di Ivrea, Giacomotto Solero e altri – del collegio di sapientes deputati a dettare le condizioni del passaggio della giurisdizione temporale spettante alla chiesa di Ivrea ai conti di Savoia (Archivio storico diocesano di Ivrea, VIII-1-AM 000/308/1, c. 1r). La fiducia di cui godeva presso comune ed episcopio e la sua posizione di rilievo in seno al collegium iudicum gli valsero nel 1312 la nomina ad arbitro, insieme con altri esponenti di quel collegio, nella complessa causa riguardante la spartizione dei communia tra istituzioni laiche ed istituzioni ecclesiastiche, causa celebratasi in un clima di aspra tensione a causa della scomunica pendente sui vertici del comune (Archivio storico diocesano di Ivrea, LXXXII-2-EaM 312090). Pietro esercitò anche la professione notarile (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 131v). 70 6. Un trait d’union: Francotto dell’Olmo, tecnico del diritto e professionista della memoria scritta Funzionario comunale e vescovile, notaio, falsario e cronista: le notizie biografiche pervenuteci a proposito dell’eporediese Francotto dell’Olmo e la sopravvivenza di una parte delle sue scritture consentono di studiare in maniera puntuale il percorso professionale di un rappresentante di quella cerchia di tecnici giuridici che tanto contribuì, attraverso la propria opera di mediazione pratica, alla definizione dei rapporti fra i due vertici istituzionali della civitas. Il caso di Francotto è ancor più interessante se si considera che egli fu un personaggio sì eminente, ma non al pari di altri professionisti – quali Pietro di Berlenda o Andrea «de domino Andrea» – che giunsero a detenere giurisdizio215 ni signorili nel contado eporediese , e continuò, nel corso di tutta la propria carriera, a esercitare la professione notarile sia in privato sia entro i ranghi del funzionariato comunale e di quello vescovile. Una carriera media e pertanto rappresentativa di quelle percorse da gran parte dei suoi colleghi. Le scelte professionali di Francotto furono certo dettate dal prestigio 216 conseguito nella generazione precedente da Alberto, un suo zio paterno , entro i quadri del funzionariato comunale. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento Alberto, al quale è talvolta ascritto il titolo di «dominus», aveva infatti svolto l’ufficio di pubblico inquisitore. Occupazione grazie alla quale era riuscito a guadagnarsi, oltre al malevo217 lo appellativo di «cercamaculas» , una posizione di eminenza tale da essere nominato dal comune esattore della curaya vescovile allorché, nel 1263, le istituzioni comunali si assunsero la responsabilità della custodia 218 dei beni e dei diritti dell’episcopio vacante . Se da un lato Alberto, forte della propria posizione in seno al funzionariato comunale, dovette favorire Francotto agli esordi della sua carriera, dall’altro toccò poi a Francotto stesso, dopo la morte dello zio, dare soddisfazione ai suoi creditori, fatto che peggiorò la sua situazione economica impedendogli forse 215 Cfr. nota precedente e BUFFO, La cogestione cit., pp. 206-212. Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 5r; Archivio storico diocesano di Ivrea, LXI-1-IM200/350/1, p. 97. 217 Il Libro rosso del comune d’Ivrea cit., p. 109, doc. 127 (1258). 218 Op. cit., p. 214 sg., doc. 215. 216 71 219 di ambire a maggiori fortune . Anche all’interno della famiglia di Francotto – come in diverse altre famiglie eporediesi – è possibile individuare più generazioni di tecnici del diritto: si sa per esempio che Martino, figlio di Francotto e pronipote di Alberto, esercitò la medesima funzione di «nota220 rius communis» detenuta dal padre e ne ereditò i registri di imbreviature . 221 Di Francotto – che morì tra il 1309 e il 1310 – si sono conservati un discreto numero di documenti, redatti fra il 1275 e il primo decennio del Trecento, quasi tutti per il monastero di S. Stefano di Ivrea; sempre nell’archivio di quell’ente religioso – oggi custodito presso l’Archivio di Stato di Torino – è sopravvissuto un protocollo contenente le imbreviature di Francotto per gli anni dal 1300 al 1303, con sporadiche aggiunte relative ad 222 anni successivi . Proprio dalle pagine di quel protocollo giungono le sorprese maggiori. Gli spazi non occupati dalla registrazione delle imbreviature, infatti, sono fitti di annotazioni di diversa natura: ricordi di date significative per le vicende familiari di Francotto, osservazioni relative alla vita politica e alla storia della città, brani tratti dalle Scritture o da testi scolastici e canonistici, frammenti di carmi religiosi. Un patrimonio di difficile lettura – soprattutto a causa del deterioramento dei margini del registro – ma di grande valore per chi intenda ricostruire l’orizzonte sociale, culturale e politico entro il quale si muoveva un professionista del diritto e della memoria scritta quale Francotto. Tratti caratterizzanti della produzione documentaria di Francotto Sin dalle prime fasi della propria carriera, Francotto fu attivo alle dipendenze del monastero di S. Stefano di Ivrea. Il fatto non stupisce, perché nella seconda metà del Duecento diversi notai legati più o meno formalmente al comune operarono anche per quel cenobio: fra i contemporanei di Francotto si ricordano per esempio Vercellino Barale, Ivorino Bazano e il 219 Nel 1304 Francotto dovette vendere alcuni suoi terreni «cum ipse Franchotus indigeret [causa] persolvendi plura debita domini Alberti de Ulmo condam patrui sui et Facieti filii sui, quibus successerit»(Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 5 r). 220 Cfr. sopra, p. 162. 221 Nell’aprile 1309 Franchotus è attestato come procuratore della chiesa di Ivrea (Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, pp. 200-202, doc. 455), mentre è già detto «condam notarius» in un atto del settembre 1310 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Monache diverse, Ivrea, Monastero di S. Chiara, m. 1, doc. non numerato). 222 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2. Cfr. oltre, fig. 10. 72 223 224 «converssus» Bertolino de Morixeto . In quel periodo, S. Stefano attraversava una crisi economica e di prestigio: non più punto di riferimento delle famiglie dell’aristocrazia urbana, esso era stato spinto ai margini della vita politica della civitas e non era nemmeno del tutto in grado di contrastare l’erosione del proprio patrimonio da parte dei concessionari enfiteutici. Da alcuni decenni, inoltre, il cenobio tentava di svincolarsi dall’onerosa protezione dei vescovi eporediesi, negando loro il diritto di visita e proclamandosi dipendente in maniera 225 diretta dalla sede apostolica . Non si sa in quale contesto sia avvenuta la prima formazione di Francotto: è probabile, tuttavia, che essa si sia svolta in parte al di fuori dei circuiti abitualmente praticati dai suoi colleghi eporediesi. Non solo, infatti, Francotto padroneggiava senza difficoltà stili grafici differenti; egli era anche in grado di produrre documenti simili, per apparato grafico e aspetti formali, ai diplomi cancellereschi. I documenti redatti da Francotto abbondano, specialmente nel protocollo e nell’escatocollo, di imponenti caratteri capitali; non di rado egli fa uso di caratteri particolarmente allungati, ricchi di nessi e giochi grafici, a imitazione delle litterae elongatae o, più semplicemente, della svolazzante grafia cancelleresca. La sua perizia grafica lo porta a una continua ricerca della varietas: nei documenti più solenni, la stessa lettera compare scritta in modi differenti e la congiunzione et è resa attraverso una grande varietà di soluzioni grafiche. Molti degli escatocolli sono corredati da complessi segni a graticcio, a imitazione dei signa recognitionis cancellereschi. Le scelte testuali adottate da Francotto nella redazione dei propri atti rispecchiano quelle grafiche. Molti fra quei documenti sono introdotti o chiusi da invocazioni solenni. Si legga l’incipit di un documento del 1304: «In nomine sancte et individue Trinitatis, patris, filii, Spiritus Sancti, amen. Virgo Maria cum filio adsit nostro principio, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum, curente anno a nativitate eiusdem domini nostri Yesu Christi filii Dei patris et beate virginis Marie domine nostre millesimo CCCIIII, indicione secunda, die iovis 226 XVII mensis decembris, videlicet sextodecimo kalendas ianuarii» ; o quest’altro, risalente al 1302: «Virgo mater cum filio et cum sancta Clara virgo adsint 223 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 1, p. 27. F. SAVIO, Le origini del monastero di S. Stefano d’Ivrea, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società storica subalpina, IX), p. 248. 225 Per un’esposizione dettagliata di questa situazione si rimanda a FALOPPA, Un insediamento cit., pp. 36-44. 226 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 12r. 224 73 nostro principio, amen. (ST) In nomine sancte et individue Trinitatis, silicet patris et filii et Spiritus Sancti, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum anno a nativitate eiusdem domini nostri Yesu Christi curenti milleximo CCC secundo, indicione quartadecima, die lune, que fuit decima die intrante mense decembris et quarto idus decembris, in festo sancti Melciadis pape et martiris et pontificatus 227 domini Bonifacii pape octavi anno octavo» . Alcuni incipit, come quello di un documento del novembre 1300, consistono in veri e propri carmi in rima: «Post incarnatum verbum de virgine natum, annus centenus Rome semper est iubileus; crimina laxantur, quem penitet ista donantur; hoc confirmavit Bonifacius et robo228 ravit pastor octanus et verus papa Romanus» . Al servizio di S. Stefano: Francotto notaio e falsario Queste scelte grafiche e testuali non erano certo frutto dell’estro dello scriba, ma rispondevano a una precisa domanda di legittimazione proveniente da S. Stefano. Al monastero – che tentava di affermare la propria autonomia rispetto ai presuli – interessava ostentare una produzione documentaria di alto livello, propria di un ente indipendente e degna di competere con quella dell’episcopio, il quale in quel periodo – come abbiamo visto – considerava la propria auctoritas documentaria come una fra le più importanti delle proprie prerogative di ascen229 denza comitale . Le qualità grafiche e la cultura notarile non comuni di Francotto ne facevano l’esecutore perfetto delle politiche documentarie del cenobio. Proprio a Francotto, con ogni probabilità, gli abati di S. Stefano commissio230 narono un incarico fra i più delicati: la stesura di falsi diplomi vescovili , utili a difendere, in sede giudiziaria, le rivendicazioni dell’ente religioso a scapito 227 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 121r. Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non numerato. I versi appartengono a un componimento divenuto piuttosto popolare nel corso del giubileo del 1300 (E. MORI, M. MORI, Un documento cortonese sul giubileo del ‘300: la lettera di Silvestro «scriptor» pontificio, Cortona 2001, pp. 1-19); Francotto li apprese di certo in occasione del proprio pellegrinaggio a Roma (cfr. oltre, pagina 179). Nei protocolli di Francotto è presente anche una versione più lunga del carme: «Annis centenus Rome semper est iubileus / crimina laxantur quem pe[ni]tet ista donantur / hoc declaravit Bonifacius et roboravit / pastor octanus et verus papa Romanus / oriundus tamen de Aranie partibus; amen» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 103v). Cfr. oltre, fig. 8. 229 La scelta, attuata da Antonella Faloppa, di presentare una comparazione delle vicende di S. Stefano e dell’episcopio eporediese nei termini di un «confronto di istituzioni» (FALOPPA, Un insediamento cit., p. 36) pare insomma del tutto appropriata, specialmente in riferimento alle politiche documentarie poste in atto dai due enti. 230 Sul falso documentario medievale cfr. anzitutto E. CAU, Il falso nel documento privato fra XII e XIII secolo, in Civiltà comunale: libro, scrittura, documento (Atti del Convegno: Genova, 8-11 novembre 1988), Genova 1989, pp. 215-277. 228 74 dell’episcopio. A tale scopo furono prodotte, a pochi anni di distanza, due versioni false del diploma di fondazione del monastero, datate l’una al 1001 e l’altra al 1042; un terzo diploma, datato al 1044 e considerato autentico da Savio, 231 è invece ritenuto un falso, pur vicino all’originale, da Fissore . 232 Per motivi che in questa sede sarebbe superfluo esporre , il falso del 1042 (in forma di copia sincrona) è fatto risalire alla prima metà degli anni Settanta del Duecento, mentre quello del 1001 (un falso originale) andrebbe ascritto agli anni intorno al 1290. L’attribuzione dei due falsi a Francotto dell’Olmo risale al 1902, allorché Fedele Savio e Carlo Cipolla, dopo un’accurata analisi delle scritture di S. Stefano, concordarono nell’affermare che nessun altro fra i notai attivi per il monastero noti per quel periodo disponeva delle capacità grafiche 233 e della cultura giuridica necessarie alla realizzazione dei due diplomi . Uno studio più approfondito della figura di Francotto, dei suoi rapporti professionali con S. Stefano e con altri enti, delle sue competenze tecniche e della sua cultura giuridica pare confermare l’intuizione dei due studiosi. Aggiungerei peraltro che, mentre è più facile legare il falso del 1001 al nome di Francotto, l’identificazione dell’autore dell’altro diploma pare incerta, perché la sua datazione entro la prima metà degli anni Settanta lo colloca appena ai margini del 234 periodo di maggiore collaborazione tra Francotto e il monastero . Nell’artificio del falso, nuovi contenuti sono comunicati attraverso il lin235 guaggio, tanto inattuale quanto autorevole e legittimante, dell’antico . Quando, negli anni Settanta del Duecento, Francotto – o un suo collega – costruì il falso diploma del 1042, non si limitò a inserirvi solenni richiami al diritto di S. Stefano di riscuotere decime sul territorio di Ivrea; quel diritto, cioè, in vista del cui riconoscimento gli era stato commissionato il falso. Egli si premurò 231 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 876 sg. Sulle due falsificazioni, cfr. poi sia SAVIO, Le origini cit., p. 229 sgg., sia FALOPPA, Un insediamento cit., p. 40 sg. Cfr. oltre, fig. 9. 232 Ma si rimanda a SAVIO, Le origini cit., pp. 240-246. 233 Op. cit., p. 247 sg. 234 In FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 877 si rende conto di altre due falsificazioni commissionate dagli abati di S. Stefano e risalenti, secondo l’autore, all’inizio del Duecento: si tratta di due diplomi vescovili a favore del cenobio, relativi agli anni 1075 e 1162 (Cartario dell’Abazia di S. Stefano cit., pp. 283-287, doc. 4; pp. 290-292; doc. 7). 235 Sembra utile introdurre a questo punto un confronto tra la figura del falsario medievale e quella del falsario moderno, studiata da Anthony Grafton. Secondo Grafton (A. GRAFTON, Falsari e critici. Creatività e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Torino 1996, trad. it.), lo scopo del falsario moderno è semplicemente quello di creare falsi che possano essere scambiati per originali; tuttavia anche il migliore dei falsi contiene inevitabilmente alcuni elementi che consentono di ricondurlo al contesto storico entro il quale è stato prodotto. Anche il falsario medievale, ovviamente, persegue l’obiettivo di produrre falsi che possano essere ritenuti originali. Egli tuttavia non è mosso dal puro desiderio di imitare l’antico: egli desidera anzitutto intervenire sulla realtà contemporanea. 75 anche di fornire una descrizione dei rapporti giuridici tra i vari soggetti partecipanti alla stipula dell’atto: il monastero, il presule con il clero diocesano, gli homines di Ivrea. Si legge infatti: «nos autem firmantes que concessimus ac dedimus … sigilli nostri impressione firmamus, confratrum etiam et canonicum nostrorum atestatione et anotatione roboramus; nostrorum quoque honestorum civium legitimos caracteres et designatos apices ad robur firmandum admisimus». Un’espressione identica sarebbe ricomparsa nel falso diploma del 1001 236 redatto con buona probabilità da Francotto circa quindici anni più tardi . Il riferimento da parte del vescovo all’ammissione alla decisione dei vertici cittadini legittimamente designati è, come osserva anche Fissore, fortemente ana237 cronistico : esso è inserito nei falsi allo scopo di suggerire al pubblico di fine Duecento, attraverso la voce autorevole del passato, un’immagine ideale di collaborazione virtuosa fra le diverse componenti politiche della civitas. In un periodo di progressiva emarginazione di S. Stefano rispetto alla vita politica cittadina, il monastero è presentato come punto di riferimento per l’aristocrazia eporediese, che partecipa compatta all’atto della sua fondazione. Oltre che con la produzione di uno o più falsi, Francotto partecipò alla costruzione della memoria di S. Stefano di Ivrea anche autenticando, insieme con Perrotto di Pagano, la copia di un cartulario del cenobio – compilato originariamente nel 1174 e detto «Liber antiquus» o «Liber vetus» – redatta dal notaio 238 Perrotto Ottolino . Fides documentaria e memoria storica Nel corso della propria carriera, Francotto ricoprì diversi incarichi di responsabilità per conto dei principali enti religiosi e istituzioni eporediesi, sia come esperto nelle prassi di autenticazione dei documenti sia come tecnico del diritto. Si è già riferito del suo coinvolgimento, come «notarius communis», nelle tormentate vicende relative alla conservazione delle imbreviature del notaio Giovanni Caldera e nella produzione di un liber Gli anacronismi, che il falsario moderno considera una tara inevitabile e cerca di ridurre al minimo, sono invece un elemento portante del falso medievale: essi costituiscono il cuore del messaggio che il falsario intende comunicare ai propri contemporanei, presentandolo attraverso il lessico e i segni legittimanti dell’antico. 236 SAVIO, Le origini cit., p. 266 sg. 237 FISSORE, Vescovi e notai cit., p. 875 sg. 238 L’informazione giunge dalla formula di autenticazione di un atto che il notaio Vercellino Barale estrasse nel 1292 dalla copia del «Liber antiquus» (cfr. sopra, nota 173). 76 239 iurium ; si è parimenti accennato al suo coinvolgimento nell’autenticazione delle due copie, comunale e vescovile, dei patti con i signori di Settimo del 1234 e alla sua sperimentazione di formule intese a enfatizzare la con240 notazione pubblica degli interventi del vescovo nei processi documentari . Francotto svolse anche incarichi funzionariali di diversa natura. A partire dal 1301 e almeno sino al 1307 egli fu procuratore di S. Stefano per tutte le 241 liti relative al cenobio ; nel 1302 svolgeva il medesimo incarico per conto 242 del monastero cistercense di S. Michele . Un’analoga fiducia gli fu accordata dal vescovo Alberto Gonzaga, il quale lo nominò procuratore dell’epi243 scopio in una complessa causa che lo opponeva al comune di Vercelli . Francotto, poi, intrecciò un legame privilegiato con il convento di S. Chiara, fondato intorno al 1300 con il sostegno del vescovo. Egli redasse la maggior parte degli atti stipulati dal convento entro il 1310, lo rappresentò in alcune importanti transazioni, produsse un fascicolo di copie dei documenti relativi alla fondazione dell’ente e alla sua aggregazione all’ordine delle Clarisse (destinato evidentemente a essere usato per difendere i diritti di S. Chiara in caso di contestazione) e annotò fra le proprie imbreviatu244 re svariate notizie relative ai primi anni di vita del convento . In una fase in cui il notariato eporediese aveva ormai perso la propria tradizionale unità, con la costruzione di una burocrazia notarile dell’episcopio, Francotto si prestava insomma quale versatile trait d’union fra i principali soggetti della civitas, interpretando le esigenze di ciascuno sia sul piano pratico sia su quello ideologico. Tutti gli incarichi sin qui elencati presupponevano una diffusa fiducia personale nei confronti di Francotto e un generale consenso circa la sua episteme giuridica. Francotto stesso si mostra perfettamente consapevole dell’alto valore pubblico della propria professione di notaio. L’incipit di un suo atto del 1304 recita: «Questo documento è stato scritto per i tempi futuri, per conservare la memoria del negozio fra i presenti e i posteri e per esibire legittimamente quanto è stato stipulato» («hoc publicum fuit factum instrumentum pro futuris temporibus ad memoriam retinendam inter posteros ac modernos ad prolacionem geste rey legi239 Cfr. sopra, nota 205. Cfr. sopra, nota 169. 241 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non numerato (1301); Cartario dell’Abbazia di S. Stefano cit., p. 385, doc. 92. 242 C. SERENO, Il monastero cistercense femminile di S. Michele d’Ivrea: Relazioni sociali, spazi di autonomia e limiti di azione nella documentazione inedita dei secoli XIII-XV, doc. 17. 243 Le carte dell’Archivio vescovile di Ivrea cit., II, p. 201, doc. 455. 244 Tutti questi aspetti sono trattati più approfonditamente in BUFFO, Cronaca di una fondazione cit. Cfr. oltre, fig. 3, 11 240 77 245 timam faciendam») . Nei documenti da lui redatti, poi, egli si presenta ora sem246 247 plicemente come «notarius Yporiensis» , ora invece come «scriba publicus» o 248 «aule regie et sacri palacii Romani publicus notarius» , ora addirittura come «civis Yporiensis, publica seu imperiali auctoritate notarius et scriba iuratus in 249 ipso officio in toto Romano imperio» . Spesso, poi, la memoria degli eventi di rilievo sia civico sia familiare annotati da Francotto in margine alle proprie imbreviature è accompagnata da un richiamo alla sua trascrizione documentaria: «Mercoledì 17 aprile il notaio Rufino di Mantova ha scritto l’atto con il quale il vescovo ha conferito a mio figlio Rufino l’ordinazione sacerdotale» («Die mercurii, XVII aprilis, magister Rofinus de Mantua recepit cartam sicut dominus epi250 scopus Rofinum filium meum clericali karatere insignivit») ; «Il comune di Vercelli ha rilasciato al comune di Ivrea metà [della giurisdizione sul] borgo di Piverone e Giovanni Grimaldi ha scritto il documento dei patti» («Comune Vercellarum relaxavit comuni Yporegie medietatem burgi Piveroni et Iohannes de Grimaldis recepit cartam pactorum») . Egli addirittura riporta, in una bella grafia posata, il testo dell’atto di proclamazione del giubileo del 1300, seguito da un breve racconto del viaggio a Roma da lui compiuto in quella occasione insieme 252 con la moglie Imeldina . Francotto fu in grado di sfruttare in modo originale i supporti materiali del proprio lavoro: è il caso dei suoi registri di imbreviature. Il registro di imbreviature era un oggetto ‘vivo’. Dopo la morte del primo estensore, esso si tramandava fra i suoi eredi e a ogni passaggio era esibito alle autorità comunali e autenticato da membri della corporazione dei notai: un percorso di riuso che lo conduceva fra le mani di una gamma eterogenea di fruitori. Il protocollo, inoltre, era un veicolo della memoria fededegna. Gli incipit più o meno solenni che l’estensore ogni anno anteponeva alla regi- 245 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 12r. Per esempio, in Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 15 (1288). 247 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 5, doc. non numerato (1307). 248 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 9 (1286). 249 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 148r. 250 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 90v. 251 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c.54r. 252 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 108rv: «Die sabati, ultima aprilis, ego Franchotus de Ulmo et Ymeldina uxor mea … visitavimus limina ipsorum principum apostolorum in urbe Roma; et die sabati, XIIII madii, in sancto Bonifacio martire, recesimus cum spe divine miseracionis ab urbe sancta predicta et prospere venimus Yporegie civitate». 246 78 strazione delle scritture, corredandoli con il proprio signum tabellionis, garantivano la validità pubblica della memoria dei negozi riportati nel registro; un’attestazione di publica fides che periodicamente – in occasione di un passaggio ereditario o dell’estrazione di documenti da parte di notai diversi dal titolare della commissio – era rinnovata dal collegio dei notai e dalle autorità della civitas. I notai-cronisti del Trecento attribuivano un particolare valore di veridicità alle proprie opere storiche per il solo fatto che 253 erano state scritte da professionisti della publica fides . Nel caso di Francotto, se vogliamo, il processo è inverso: non sono gli attributi professionali del notaio a riverberarsi anche sulle sue fatiche storiografiche, ma è la narrazione degli eventi storici che si infiltra, letteralmente, tra le pagine del registro notarile per godere di una fides paragonabile a quella – di volta in volta riconfermata – delle imbreviature. Si pensi, per esempio, al rapporto intercorrente, nel manoscritto, fra le imbreviature di documenti relativi al convento di S. Chiara e le due pagine in cui Francotto, servendosi della propria memoria e dei documenti da lui stesso precedentemente redatti, si diffonde in un elenco di fatti note254 voli relativi all’ente religioso . Estensore di molti fra i documenti attestanti i primi negozi giuridici compiuti dal cenobio ed egli stesso padre di 255 una delle suore , Francotto affidò la propria elementare cronaca di S. Chiara al registro delle imbreviature, facendone un autentico veicolo della memoria storica dell’ente. Un discorso analogo potrebbe riguardare le poche scritture marginali 253 M. ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999 (Nuovi studi storici, 49), p. 14 sg; ID., Notariato e memoria storica. Le scritture storiografiche notarili nelle città dell’Italia settentrionale (secc.XII-XIV), in «Bullettino dell’Istituto storico italiano e Archivio muratoriano», 97 (1991), pp. 111-113; ID., Tra istituzioni di governo ed opinione pubblica. Forme ed echi di comunicazione politica nella cronachistica notarile italiana (secc.XII-XIV), in «Rivista storica italiana», CX/1 (1998), p. 102 sgg.; ID., Il contributo dei notai alla codificazione della memoria storica nelle città italiane (secoli XII-XIV), in «Nuova rivista storica», LXXXII/1 (1998), p. 8. Si veda anche il discorso simile condotto, a proposito dei testi epigrafici dettati da notai, in O. BANTI, Epigrafi ‘documentarie’, «chartae lapidariae» e documenti in senso proprio, in «Studi medievali», serie III, 33 (1992) pp.229-242. 254 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154rv. Il testo è edito in BUFFO, Cronaca di una fondazione cit., doc. 13. 255 «Hodie ad instar beate Virginis et sancti Iosephi qui ad sanctum templum Dei Yesum Christum obtulerunt, Ymeldina et Francotus de Ulmo iugales eorum filiam Benevegnutam obtulerunt ad sanctum templum sancte Clare de Yporegia et ibidem in dicto festo sancte Marie ipsa soror primo intravit ordine, et ibi erant domina Richadona filia condam prepositi de Dianis de Samarate plebis de Galerate et eius soror Girarda et soror Donina sorores condam filie Lantelmi de Magi de Samarate, que antea intraverant» (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 107v). 79 relative al monastero di S. Stefano, che consistono in accenni a fatti di rilie256 vo per la storia del cenobio . Francotto interprete di una ‘coscienza civica’ eporediese Francotto fu un uomo dalla vorace curiosità e dietro la gran copia di annotazioni disparate che costellano i margini delle sue pagine non vi è alcun programma unitario. Non è possibile in questa sede rendere conto della totalità delle scritture che Francotto riversò in quello che riteneva il veicolo della memoria per eccellenza; da quelle relative agli eventi più importanti – come alcuni fatti bellici o a un terremoto che colpì 257 l’Eporediese – ai ricordi minuti di vita familiare – come la nascita del 258 figlio Secondo Martino o l’uccisione in battaglia di un parente . Si osservi che questa commistione di eventi riguardanti l’intera comunità civica e ricordanze domestiche, estranea alla nostra sensibilità, è presente anche 260 nell’articolazione delle cronache notarili propriamente dette . Circoscriviamo la nostra attenzione alle scritture relative a eventi di rilievo per la civitas. Francotto autentica un fascicolo contenente le proprie imbreviature con un solenne incipit, che tra l’altro designa quegli atti come relativi all’anno 1303, «regnante il sommo pontefice papa Bonifacio VIII, regnante nella città di Ivrea frate Alberto Gonzaga di Mantova, già dell’ordine dei Minori, vescovo e conte di Ivrea, e trovandosi nella carica di pode- 256 Per esempio: «In Christi nomine, amen. MCCC, indicione XIII … dominus abbas Bonifacius […] tam honeri quam onori abbacie et electus et confirmatus et factus est abbas dominus Iohannes … prior sancti Daniellis de Veneciis monacus fructuariensis filius condam domini Alberti de Riparolio de Sancto Martino ; et pulsatis campanis positus fuit in sede abbacie. Deo gratias. Amen» (c. 106v). 257 «In sero ramis palmarum fuit terremotus et de muro castri Burolii per terremotum dirutus IIII texias vel circa» (c. 66r). 258 «MCCC secundo, indicione XV … die martis … secunda die octobris, sexto nonas octobris, luna septima, ora prima, quando corpus Christi levabatur ad Sanctum Franciscum, natus est Secundus Martinus filius meus, in festo sancti Leodegarii episcopi et martiris et sancti Primi et aliorum; et fuit batiçatus in festo sancti Luce, qui fuit die iovis XVIII dicti mensis» (c. 139v). 259 «MCCCII, indicione XV, die sabati, primo setembris, luna sexta et ora tertia, in prelio de Corgnato Rofinotus Guatarellus meus consanguineus fuit vulneratus, captus, ductus apud Corgnatum, ubi ipsa die in ocasu decesit, capta penitencia, et sepultus fuit ad Sanctum Dalmaçium; et die mercurii sequenti, in serio, Ymeldina de Guarnerio peperit filium qui dicit filium esse Rofini filii mei» (c. 142v). 260 M. ZABBIA, La memoria domestica nella cronachistica notarile del Trecento, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 78 (1998), pp. 123-140; ID., I notai e la cronachistica cittadina cit., p. 113 sgg. 80 stà di Ivrea Abbone di Rivalba»: (ST) In nomine sancte et individue Trinitatis, silicet patris et filii et Spiritus Sancti, amen. Post incarnatum verbum de virgine natum curente anno a nativitate eiusdem domini nostri dei Yesu Christi millesimo tricentesimo tercio, indicione prima, die martis vicessimo quinto mensis decembris, seu septimo exeunte ipso mense decembris, in die ipsius nativitatis et ad ipsius laudem et honorem et gloriose virginis Marie matris eius et tocius curie celestis. Ego Franchotus de Ulmo civis Yporiensis, publica seu imperiali auctoritate notarius et scriba iuratus in ipso officio in toto Romano imperio, filius condam Rofini de Ulmo de civitate dicta Yporiensi, has rogationes cepi fideliter inchoare, regnante summo pontifice domino Bonifacio papa octavo et anno octavo sui pontificatus ac regnante in ipsa Yporiensi civitate domino fratre Alberto de Gonçagia de Mantua, olim de ordine Minorum, episcopo et comite 261 Yporiensi, et existente potestate Yporegie domino Abbone de Rivalba . Ciò che interessa in questo caso sono la descrizione dei rapporti fra i due vertici istituzionali della civitas e il lessico usato per esprimerla. Francotto designa l’attività del vescovo – nuovamente definito con il titolo inusuale di «episcopus et comes Yporiensis» – come «regnum», collocandola su un livello ben più alto rispetto a quella del podestà, il quale si limita a «existere» all’apice delle cariche cittadine laiche. Tale situazione ricorda quella indicata – probabilmente da Francotto stesso – nei due falsi diplomi di fondazione di S. Stefano del 1001 e del 1042, nei quali il presule era descritto come garante della stabilità della legge di fronte agli homines eporediesi, a lui subordinati. Secondo la concezione della politica cittadina espressa da Francotto, insomma, alla rassicurante stabilità dell’autorità episcopale fa riscontro la labilità dei vertici delle istituzioni laiche della civitas. Tale labilità dipendeva, nella contingenza, dall’instabilità che aveva caratterizzato la politica eporediese negli ultimi decenni. Tuttavia, più in generale, la natura stessa dell’ufficio podestarile, caratterizzato da un costante ricambio ai vertici, comportava il rischio che la res publica fosse di volta in volta esposta agli umori contrastanti dei magistrati che si avvicendavano alla sua guida. Francotto, in effetti, non risparmia critiche nei confronti di chi, a suo avviso, 261 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 148r. 81 non ha dimostrato sufficiente perizia nella direzione del comune; ed è significativo come proprio in questa occasione ricompaia, ma stavolta con una connota262 zione negativa, un termine appartenente alla sfera semantica del regnum : «Nel 1302, quindicesima indizione, … la Pasqua si celebrò il 22 aprile e fino al giorno di san Bartolomeo fu podestà di Ivrea Giovanni, figlio di Francesco di Ceretto, conte palatino di Lomello, uomo giovane e stolto: »Guai alla terra il cui re è un bambino, eccetera» («MCCC secundo, indicione XV, … fuit … festum pascatis resurecionis die XXII aprilis; et usque ad sanctum Bartolomeum erat potestas Yporegie Iohannes f[ilius] Francesci de Cereto comes palatinus de Lomello, 263 homo iuvenis et stultus, unde: “Ve terre cuius rex puer est” et cetera») . La cita264 zione è tratta dal libro biblico dell’Ecclesiaste . La svalutazione dell’operato dei podestà monferrini va anche interpretata, con ogni probabilità, come conseguenza dell’orientamento politico personale di Francotto: un precoce orientamento antimonferrino che gli sarebbe valso, negli anni successivi, la fiducia di Alberto Gonzaga, il quale gli avrebbe conferito incarichi di rilievo. Nel 1305, infatti, Francotto salutava la fine dell’egemonia monferrina su Ivrea con le seguenti parole: «Sabato 20 marzo, Ludovico Gonzaga, figlio di Corrado Gonzaga di Mantova, ebbe il governo di Ivrea ed è ora podestà di Ivrea; città libera, sottoposta soltanto all’impero, pur vacante, che era rimasta serva e sottoposta a trattati, patti di soggezione e servitù sin dal 1266 circa; e giorno dopo giorno il castello di San Maurizio è diroccato, distrutto e abbattuto» («Die sabati, XX martii, dominus Ludovicus de Gonçaga filius domini Conradi de Gonçaga de Mantua adivit ad regimen Yporegie et est potestas Yporegie, que civitas est libera, solum sub imperio tamen vacante, que serva et sub condicionibus et pactis et servitutibus stetit ab anno Domini curente MCCLXVI circa; et 265 castrum Sancti Mauricii cotidie diruytur et destruytur et disipatur») . Esiste, in questa scrittura, un termine – «regimen» – semanticamente vicino a quelli di «rex» e «regnare», che abbiamo appena incontrato. Ludovico Gonzaga non è più un emissario inviato da un potere esterno a «existere» passivamente ai vertici della città, bensì un rector, chiamato da una comunità civica indipendente al «regimen» della res publica. Francotto percepiva la fine della dominazione monferrina su Ivrea come una cesura storica, individuando 262 Sull’uso del lessico della regalità in un singolo attore medievale, si veda G. GANDINO, Il vocabolario politico e sociale di Liutprando di Cremona, Roma 1995 (Nuovi studi storici, 27), pp. 15-80. 263 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 54r. 264 Eccl. 10, 16. 265 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 24r. 82 nella soggezione della civitas a poteri signorili esterni la caratteristica saliente del periodo compreso fra il 1266 – anno della prima effimera dedizione del comune ai Monferrato – e il 1305. In effetti, egli insiste anche sui gesti di sfregio «cotidie» inferti al castello, già marchionale, di San Maurizio; struttura che il comune, subito dopo la morte di Giovanni I, si era affrettato a vendere a un privato, per esprimerne il pieno controllo e sottolineare la parallela riappropriazione di tutte le prerogative giurisdizionali 266 sulla civitas, spettanti prima di allora ai Monferrato . Non si può fare a meno di osservare l’alta considerazione per valori civici, come la libertas, che pervade queste frasi. Quello appena citato non è il solo punto in cui Francotto manifesti un’adesione a tale genere di valori: si può anzi affermare che nei protocolli di Francotto siano presenti le prime attestazioni esplicite di una ‘coscienza civica’ eporediese. Si leggano, per esempio, le parole usate per riportare la notizia di un evento bellico in cui fu coinvolto il comune di Ivrea: «Nel 1303, prima indizione, martedì 22 gennaio … il comune di Ivrea sconfisse quelli di Cuorgnè, il giorno di san Vincenzo martire, e ricevette compensazione dell’ingiuria fattagli nel giorno di sant’Egidio: gli stessi rustici [sconfitti] dagli stessi cittadini» («comune Yporegie devincit illos de Corgnato in festo sancti Vincentii martiris et accepit emendam iniurie facte in festo sancti Egidii: ipsos rusticos ipsis 267 civibus») . In quest’ultima espressione il termine «rustici» compare in un’accezione totalmente stravolta rispetto a quella riscontrabile in documenti precedenti. È sufficiente confrontare queste parole con il testo dell’accordo stipulato tra il comune di Ivrea, alcuni conti canavesani e i marchesi di Monferrato nel 1229: «illi de Canapicio possint venire ad habitandum 266 A circa due settimane dalla morte di Giovanni I – il 31 gennaio 1305 – la credenza stabiliva che i «mura quondam domini marchionis» e tutte le strutture a essi pertinenti fossero venduti a una società privata facente capo al notaio comunale Perino di Frassineto (cfr. Statuti di Ivrea cit., I, p. 349: «De venditione murorum quondam domini marchionis observanda Perino de Fraxeneto et sociis. Item statuerunt et ordinaverunt in plena credencia comunis Yporegie quod venditio murorum, edifficiorum, castrorum, turrium et domzonorum et materia ipsorum facta per credenciam Perino de Fraxeneto et sociis suis, de qua constat publicum instrumentum receptum per Iohanne de Loge notario in anno Domini MCCCV, indicione III, die dominico, ultimo mensis ianuarii, cum pactis et convencionibus, promissionibus et omnibus aliis que in ipsa vendicione continentur attendantur et inviolabiliter observentur eidem Perino et sociis per potestatem sive vicarium, iudices et rectores Yporegie qui pro temporibus fuerint, et hoc statutum sit precissum et trunchum»). I patti di soggezione stipulati fra il comune di Ivrea e Giovanni nel 1294 prevedevano in effetti che, in assenza di eredi legittimi, alla morte del marchese il castello di San Maurizio ritornasse sotto il controllo del comune «et eidem domino marchionis commune in predictis … succedat» (I Biscioni II/3, a cura di R. ORDANO, Torino 1994 (Biblioteca storica subalpina, CXI), p. 193, doc. 600/i). 83 Yporegie ubicumque et quandocumque voluerint, rustici cum mobilia tantum, 268 seguacerii cum sua mobilia et rebus mobilibus tantum» . Mentre nel testo del 1229 il termine indicava una categoria ben precisa in seno alla popolazione rurale canavesana, in quello del 1303 sono considerati «rustici» tutti coloro che non siano «cives». Il termine, inoltre, è connotato in senso dispregiativo, facendo risaltare specularmente l’orgoglio di Francotto per la propria appartenenza alla civitas. Nelle scritture marginali di Francotto, poi, il toponimo Yporegia è quasi sempre accompagnato dall’apposizione civitas: segno dell’importanza che assumeva, per il nostro, la sfera seman269 tica dell’adesione alla comunità civica . Altro segnale dell’attaccamento di Francotto alla dimensione della civitas fu la sua devozione a san Besso, santo che proprio in quegli anni andava affermandosi, accanto alla Vergine, come patrono della città; si pensi alla comparsa del suo nome nella legenda di diverse monete coniate a Ivrea a 270 partire dalla fine del Duecento . Proprio fra le annotazioni marginali di Francotto compare un frammento di carme a san Besso, purtroppo leggibi271 le solo in minima parte . Non è un caso che un’ideologia dell’appartenenza alla comunità eporediese dei cives sia attestata in seno alla cerchia dei tecnici del diritto proprio a cavallo fra Due e Trecento. In quel periodo, gli studi giuridici godettero in Ivrea di una notevole fortuna, in concomitanza con la crescita dell’influenza di un gruppo colto di professionisti del diritto, in grado di esercitare una funzione mediatrice tra i due vertici istituzionali della civitas. Da un lato, il collegio dei giudici di Ivrea – attestato nel 1307 ma formatosi 272 probabilmente alcuni decenni prima, parallelamente a quello dei notai – aveva acquisito un discreto peso politico in seno all’élite urbana eporediese, in virtù sia della tendenza a impiegare figure eminenti di giurisperiti nella gestione dei rapporti diplomatici fra il comune e i suoi interlocutori 267 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. non numerata. 268 Corpus statutorum Canavisii, a cura di G. FROLA, II, Torino 1918, (Biblioteca della Società storica subalpina, XCIII), p. 35. 269 Per esempio, nel racconto del pellegrinaggio a Roma di Francotto e Ymeldina: cfr. sopra, nota 252. 270 Corpus nummorum Italicorum. Primo tentativo di un catalogo generale delle monete medievali e moderne coniate in Italia o da italiani in altri paesi, II: Piemonte-Sardegna, Roma 1911, p. 295, tav. XLVIII; E. BIAGGI, Le antiche monete piemontesi, Borgone di Susa 1978, p. 261. 271 Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154r. 84 273 sia delle brillanti carriere personali di alcuni suoi aderenti . Dall’altro, la promozione dello studio delle discipline giuridiche era, in quei decenni, un problema centrale: si pensi che, poco dopo la sottomissione ai Savoia, il comune di Ivrea incaricò alcuni emissari di concordare con Amedeo V e Filippo d’Acaia l’istituzione in città di uno «studium generale … sic privilegiatum per summum pontificem quemadmodum est privilegiatum stu274 dium Bononie» . Per la propria attività professionale – che li portava a operare al contempo per diversi soggetti politici della civitas – e per la propria appartenenza sociale alta, questa cerchia di notai e giudici era particolarmente sensibile ai problemi connessi con la gestione della res publica. Era pertanto normale che i suoi esponenti, di fronte alla labilità che caratterizzò gli assetti istituzionali della civitas a partire dagli ultimi decenni del secolo XIII, si interrogassero sui fondamenti pubblici del diritto, sforzandosi di individuare un punto di riferimento istituzionale solido, in grado di tutelare ciascuno nel godimento dei propri diritti. Francotto ravvisò tale punto di riferimento nell’autorità dei vescovi, priva ormai di una vera preponderanza sul piano politico ma ancora fortemente connotata in senso pubblico. E collaborò con l’episcopio, desideroso di legittimarsi enfatizzando l’ascendenza ‘comitale’ delle funzioni che esercitava, nell’esprimere, attraverso l’elaborazione degli opportuni artifici documentari, le alte responsabilità di rappresentanza della collettività cittadina spettanti al presule quale «episcopus et comes Yporiensis». 272 Cartario dell’abazia di S. Stefano cit., p. 211, doc. 186; BUFFO, La cogestione cit., p. 207. Cfr. sopra, nota 214; BUFFO, La cogestione cit., p. 206 sgg. 274 Statuti del comue di Ivrea cit., I, p. 98. 273 85 Conclusioni A cavallo fra Due e Trecento Ivrea, malgrado l’alternanza di periodi di autonomia limitata e periodi di indipendenza caratterizzati da una forte conflittualità sociale e istituzionale, era un fiorente centro culturale. La fortuna di cui godettero gli studi giuridici in quei decenni andò di pari passo con lo svilupparsi di un gruppo di alto livello di professionisti del diritto, impegnati in un’opera di mediazione tra i due vertici istituzionali della civitas – malgrado lo svilupparsi, intorno a questi due vertici, di gruppi distinti di notai – e partecipi delle scelte politiche da essi espresse. Una cerchia colta che – di fronte all’indebolimento politico dell’episcopio e all’incapacità, da parte del comune, di imporsi sulle solidarietà di fazione – si domandava quali dovessero essere i fondamenti di un potere pubblico stabile, in grado di tutelare i diritti di ciascuno e di porsi come solido baricentro istituzionale rispetto alla vasta pluralità di soggetti politici attivi in seno alla civitas. Questa ricerca di fondamenti sicuri del diritto, che già trapela dalle parole di Francotto dell’Olmo, avrebbe trovato uno sbocco nelle 275 molteplici redazioni statutarie dei primi decenni del Trecento . L’enfatizzazione, sotto Alberto Gonzaga, dell’ascendenza comitale delle prerogative dell’episcopio – certo motivata anche dall’esigenza di contenere i tentativi comunali di assorbimento di parte delle funzioni esercitate dai vescovi – sembra proporre uno sbocco a tali istanze. Più stabile rispetto a quella di un comune scarsamente autonomo e promanante direttamente dal potere imperiale, l’autorità comitale dei presuli sarebbe stata la sola in grado di garantire a ciascuno il mantenimento dei propri diritti e di sottoporre a una tutela eminente i negozi giuridici interni ed esterni alla civitas, come nel caso dei trattati fra il comune e i signori di Settimo. Le scritture di Francotto, tanto quelle documentarie prodotte per conto dell’episcopio quanto quelle personali riportate sui margini del suo protocollo, sono espressione di questa maniera di concepire i rapporti istituzionali entro la comunità dei cives. Nel novembre del 1313, la città di Ivrea si sottometteva ad Amedeo V di Savoia e a Filippo di Savoia-Acaia. L’inizio della dominazione sabauda, più 275 A tal proposito cfr. PENE VIDARI, Introduzione, in Statuti di Ivrea cit., p. VII sgg. Cfr. anche oltre, fig. 12. 87 duratura e con un più forte impatto sulle strutture del governo cittadino rispetto a quelle duecentesche dei Monferrato e degli Angiò, segnò la conclusione della diarchia fra comune ed episcopio sulla quale, prima di allora, si reggeva l’equilibrio istituzionale del districtus eporediese. La funzione di baricentro politico e di coordinamento istituzionale fra i diversi soggetti della civitas – quella funzione della quale il comune non era riuscito ad appropriarsi completamente e che Alberto Gonzaga tentava di ascrivere alla chiesa eporediese in quanto detentrice di funzioni pubbliche – fu assunta dai nuovi signori e dai loro vicari. L’affermazione del principe come vertice unico delle gerarchie istituzionali, tuttavia, ebbe connotati di gradualità e non cancellò del tutto gli esiti degli sviluppi politici e sociali duecenteschi. Per esempio, l’eco dell’idea di un’ascendenza pubblica delle prerogative dei vescovi sopravvisse nell’uso del titolo comes accanto a quello di episcopus. L’episcopio, del resto, continuò a esibire la natura comitale delle proprie funzioni anche negli anni successivi alla soggezione di Ivrea ai Savoia, ancora caratterizzati da forti 276 conflittualità di Parte : nei primi decenni del Trecento, per esempio, si continuò a produrre copie del diploma con il quale, nel 1219, Feredico II confermava la «publica functio» dei vescovi di Ivrea, una delle quali si trova nel Libro dei redditi. Soprattutto, la dedizione ai Savoia non alterò il quadro dei rapporti fra il notariato e le istituzioni civiche, così come si era delineato nel secolo precedente. Il comune seguitò ad approfondire il proprio legame con il collegio dei notai, l’episcopio seguitò a costruire una burocrazia notarile propria. In seno alla curia e alla clavaria sabaude la funzione dei notai conservò quella centralità di cui godeva presso i diversi uffici del comune autonomo. I professionisti della documentazione continuarono a operare in seno alla civitas ponendo la propria episteme tecnica a disposizione dei diversi soggetti che la componevano, ma anche esprimendone le esigenze di legittimazione, di autorappresentazione, di promozione politica. Nel secondo volume di quest’opera osserveremo nei dettagli l’aspetto e il contenuto di una testimonianza notevole del lavoro dei notai attivi in Ivrea. Le due parti di cui si compone il Libro dei redditi furono redatte ai due estremi del periodo di riorganizzazione politica del contesto eporediese che 276 Estratti dai «conti» cit., p. 273, sg., docc. 50-52. 88 è stato qui descritto. La prima parte fu scritta nel 1264, alla vigilia della prima affermazione della signoria dei Monferrato su Ivrea, nel 1266: si ricordi il valore di profonda cesura storica che Francotto dell’Olmo attribuiva a quella data. La seconda parte, redatta intorno al 1320, è di poco successiva alla sottomissione della città ai Savoia. Malgrado l’estrema distanza – non tanto cronologica quanto politica – fra i due cartulari, le due sezioni che compongono il codice sono accomunate da un forte elemento di persistenza: la natura di incontro fra autonomie che caratterizzò il rapporto fra i committenti e i redattori delle diverse parti. Da un lato, l’autonomia dei presuli: uno di essi ordinò al notaio Giacomo di autenticare i documenti copiati nel primo cartulario, un altro dispose la copia, fra gli atti del capitolo cattedrale, del diploma con il quale Federico II confermava le prerogative comitali dell’episcopio. Dall’altro lato, l’autonomia dei notai, che non posero al servizio dei canonici e dei vescovi soltanto un sapere tecnico, ma anche quella publica fides, da essi trasmessa ai documenti prodotti ex novo o autenticati, di cui ciascuno di essi era portatore. 89 Bibliografia Fonti Atti della cancelleria dei patriarchi di Aquileia (1265-1420), a cura di ZENAROLA PASTORE, IVONNE, Udine 1983. I Biscioni, I/1, a cura di FACCIO G. C., MANNO R., Torino 1934 (Biblioteca della Società storica subalpina, CXLV). I Biscioni, II/3, a cura di ORDANO, ROSALDO, Torino 1994 (Biblioteca storica subalpina, CCXI). Le carte dell'Archivio capitolare d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle piu notevoli dal 1231 al 1313, a cura di DURANDO, EDOARDO; Le carte dell'abazia di S. Stefano d'Ivrea fino al 1230: con una scelta delle piu notevoli dal 1231 al 1313, a cura di SAVIO, FEDELE; BARELLI, GIOVANNI, Pinerolo 1902 (Biblioteca della Società storica subalpina, IX). 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Chiara di Ivrea da parte del vescovo Alberto Gonzaga, già murata nel cortile del palazzo vescovile di Ivrea (primo decennio del secolo XIV) 105 Fig. 4 - Copie autenticate nel primo cartulario componente il Libro dei redditi del capitolo eporediese, redatto nel 1264 (Archivio storico diocesano di Ivrea, cxx-1-IbM 109/317/1, c. 10v). Per gentile concessione dell’Archivio). 106 Fig. 5 - Copie semplici nel cartulario trecentesco rilegato entro il libro dei redditi (Archivio storico diocesano di Ivrea, cxx-1-IbM 109/317/1, c. 64v). Per gentile concessione dell’Archivio. 107 Fig. 6 - Sigillo del vescovo di Ivrea Alberto Gonzaga, del 1297 (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1, cat. 1, n. 44). 108 Fig. 7 - Protocollo del notaio vescovile Bonaventurino di Mantova, dei primi anni del secolo XIV (Archivio storico diocesano di Ivrea, XII-4-AM 303/304/1, cc. 14 v-15r). Per gentile concessione dell’Archivio. 109 Fig. 8 - Incipit e completio di un atto scritto da Francotto dell’Olmo (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 4, n. 9). 110 Fig. 9 - Particolari estrinseci (litterae aureae e sigillo) dei falsi diplomi di fondazione del monastero di S. Stefano di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 1/1, n. 1 sg.). 111 Fig. 10 - Una pagina del protocollo di Francotto dell’Olmo, degli anni 1302-1303 (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 58 v ). 112 Fig. 11 - Particolare delle memorie di Francotto dell’Olmo relative ai primi anni del convento di S. Chiara di Ivrea (Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Ivrea S. Stefano, m. 15, n. 2, c. 154 r). 113 Fig. 12 - Il codice trecentesco degli statuti del comune di Ivrea (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1, cat. 86, n. 3798, cc. 64v-65r). 114 Fig. 13 - Disegno di una campana (suonata per convocare la credenza comunale) sulla coperta del registro degli ordinati di Ivrea dell’anno 1334 (Archivio storico del Comune di Ivrea, s.1, n. 3233). 115 Finito di stampare nel mese di Dicembre 2012 Tipografia Paolo Bardessono snc - Ivrea (TO)