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La tradizione epica
e cavalleresca in Italia
(XII-XVI sec.)
P.I.E. Peter Lang
Bruxelles · Bern · Berlin · Frankfurt am Main · New York · Oxford · Wien
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Claudio Gigante e Giovanni Palumbo (a cura di)
La tradizione epica
e cavalleresca in Italia
(XII-XVI sec.)
Destini Incrociati
n° 3
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Questo libro è stato pubblicato con un contributo del FNRS.
In copertina: disegno di Luca Dalisi (2007) per gentile concessione
dell'autore.
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ISBN 978-90-5201-651-1
D/2010/5678/54
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Indice
Premessa.................................................................................................9
Claudio Gigante e Giovanni Palumbo
Epica francese in Italia: due schede ...................................................11
Maria Careri
Observations sur les formes verbales
dans Berta da li pè grandi ....................................................................19
Philippe Ménard
Osservazioni sul metro del codice V7 (Marciano Fr. VII)
della Chanson de Roland .....................................................................39
Carlo Beretta
Textes et traditions épiques chez Dante (Par. XVIII).......................73
Paolo Rinoldi
Amori e morte tra Blaye e Saint-Denis. Ancora sull’epilogo
della vicenda di Alda nella tradizione rolandiana ..........................107
Maria Luisa Meneghetti
Da Oriente a Occidente: il Vecchio della Montagna
nella tradizione epica.........................................................................121
Laura Minervini
Il «nucleo ciclico» Couronnement de Louis,
Charroi de Nîmes, Prise d’Orange nelle
Storie Nerbonesi di Andrea da Barberino........................................141
Salvatore Luongo
La «rotta di Roncisvalle» tra XIV e XV secolo.
Ancora a proposito della Spagna in rima ........................................173
Giovanni Palumbo
La «rotta di Roncisvalle» dans la Spagna Magliabechiana.
Les sources et la structure du récit ..................................................209
Amélie Hanus
7
L’«altro» Pulci: il Ciriffo Calvaneo
e la collaborazione poetica ................................................................229
Paola Moreno
«Ogni cavalier ch’è sanza amore…»:
presenze epiche nell’Inamoramento de Orlando..............................247
Cristina Montagnani
Alcune ipotesi sulla presenza dei romanzi
arturiani nell’Orlando Furioso .........................................................265
Marco Praloran
Epica e romanzo in Trissino .............................................................291
Claudio Gigante
Tasso e i «romanzi» ...........................................................................323
Emilio Russo
Conclusioni.........................................................................................345
Cesare Segre
Notizie biografiche.............................................................................353
8
Tasso e i «romanzi»
Emilio RUSSO
Centro Pio Rajna
1. «Amori» e «meraviglie»
Un doppio riguardo si impone da sempre agli studi sulla Liberata:
avvicinare il testo avendo presenti le teorie tassiane sull’epica, evolutesi
nel tempo, e di fatto dunque esaminare attraverso quella lente le ottave
del poema; d’altra parte conservare come abito di prudenza una parziale
sospensione di giudizio nel rapporto tra poesia e poetica, nella
sovrapposizione non perfetta tra la vulgata del poema e l’intenzione
d’autore, a lungo, per anni, oggetto di movimenti di assestamento non
marginali; tenere cioè conto di un’area di scarto che le stratigrafie dei
manoscritti e le fasce di apparato genetico potranno illuminare e magari
ridurre, ma non eliminare del tutto. Della Liberata, facendone giudizio,
occorre ragionare come di uno stato di equilibrio puntuale, congelatosi
ad un certo momento del lavoro tassiano, a prescindere non solo dagli
accidenti della biografia ma anche da un’ultima serie di correzioni
annunciate e poi andate ad effetto, quasi tutte, nella Conquistata.1 È
riguardo che cercherò di osservare anche in queste pagine, ove si assume
materia molto ampia: agevole trattarne ad un livello generalissimo di
illustrazione delle dinamiche, sorretti da una bibliografia ormai molto
1
Questo tanto che si considerino caritatevoli o speculative le pratiche editoriali che, tra
1581 e 1584, determinarono la base per la vulgata antica e poi per quella moderna del
testo Caretti. Sulla complessa vicenda testuale del poema vd. anzi tutto le indagini
ora raccolte in L. Poma, Studi sul testo della «Gerusalemme liberata», Bologna,
Clueb, 2005; per il passaggio alla Conquistata: L. Capra, «Alternative della Liberata
accolte nella Conquistata», Giornale Storico della Letteratura Italiana, 45, 1978,
pp. 567-576; C. Gigante, Esperienze di filologia cinquecentesca, Roma, Salerno
Editrice, 2003, in partic. pp. 174 e sgg. (ove si recupera anche la bibliografia
precedente).
323
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
nutrita,2 difficile definire una grammatura esatta degli elementi in gioco,
tra intenzioni ed esiti, perché appunto in un trapianto controllato, a
misura, di elementi lirici e romanzeschi nell’epos il Tasso individuò la
via stretta per un poema che risultasse digeribile ai moderni, tanto agli
intendenti quanto all’uditorio mirato di lettori mezzani. E se su un’opera
nata all’insegna della mescolanza di tradizioni e stili c’è accordo
generale, più articolati risultano i giudizi sulla consapevolezza di questa
operazione.
La necessità di una mediazione è iscritta come strategia principale
sin dalle poche pagine con cui il Tassino affidava il Rinaldo ai lettori,
pagine entro le quali in modo chiaro erano individuati il modello
vincente di Ariosto e le regole di Aristotele, che Tasso avrebbe sempre
ritenuto di universale validità:
Ma io desidererei, che le mie cose né da’ severi filosofi seguaci d’Aristotile,
che hanno innanzi il perfetto esempio di Virgilio e d’Omero, né riguardano
mai al diletto ed a quel che richiedono i costumi d’oggidì, né da i troppo
affezionati de l’Ariosto fossero giudicate: però che quelli conceder non mi
vorranno, ch’alcun poema sia degno di loda, nel qual sia qualche parte che
non faccia apparente effetto, la qual tolta via non però ruini il tutto;
ancorché molti di tali membri siano nel Furioso e ne l’Amadigi, ed alcuno
ne gli antichi greci e latini; quest’altri gravemente mi riprenderanno che non
usi ne’ principi de’ canti quelle moralità, e que’ proemi ch’usa sempre
2
Cito solo alcuni degli studi più recenti entro una bibliografia davvero abbondante per
la quale rimando alla rassegna presente in C. Gigante, Tasso, Roma, Salerno Editrice,
2007, pp. 169 sgg., che ha diverse osservazioni di rilievo sull’incrocio di tradizioni
entro la Gerusalemme; G. Baldassarri, Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa
del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, 1982, in partic.
pp. 129-173 nel cap. «Stratigrafie tassiane»; G. Güntert, L’epos dell’ideologia
regnante e il romanzo delle passioni. Saggio sulla «Gerusalemme liberata», Pisa,
Pacini, 1989, in partic. pp. 105-138; H. Grosser, La sottigliezza del disputare. Teorie
degli stili e teorie dei generi in età rinascimentale e nel Tasso, Firenze, La Nuova
Italia, 1992; M. Residori, «Il Mago d’Ascalona e gli spazi del romanzo nella
Liberata», Italianistica, 24, 1995, pp. 453-471; E. Stoppino, «“Onde è tassato
l’Ariosto”. Appunti sulla tradizione del romanzo nella Gerusalemme liberata»,
Strumenti critici, 96, 2001, pp. 225-244, con un titolo che promette molto più di
quanto l’articolo mantiene; S. Zatti, L’ombra del Tasso, Milano, Bruno Mondadori,
1996, in partic. pp. 1-27, con segnalazioni di possibili legami intertestuali tra la
conclusione del Furioso e l’avvio della Liberata; S. Jossa, La fondazione di un
genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002, dall’ampio campo
di indagine, ma con trattazione spesso approssimativa e schematica; M. C. Cabani,
«L’ariostismo mediato della Gerusalemme liberata», Stilistica e metrica, 3, 2003,
pp. 19-90; S. Jossa, «Da Ariosto a Tasso: le verità della storia e le bugie della
poesia», Studi rinascimentali, 3, 2004, pp. 69-82; A. Soldani, «Forme della
narrazione nel Tasso epico», Italianistica, 35, 2006, pp. 23-44.
324
Emilio Russo
l’Ariosto: e tanto più che mio padre, uomo di quell’autorità e di quel valore
che ’l mondo sa, anch’ei talvolta da questa usanza s’è lasciato trasportare.3
La pagina più celebre e citata dei Discorsi dell’arte poetica, quella
sul poema come «picciolo mondo», nel quale «una sola parte o tolta via
o mutata di sito il tutto ruini»,4 trova dunque nella Prefazione al Rinaldo
un anticipo e una declinazione da prospettiva opposta: posizioni qui più
aperte alle ragioni del romanzo, com’era ovvio presentando un poema di
marca ariostesca, legittimate con un bisogno di diletto e di successo che
era già stato scontato da Bernardo nel condurre in porto l’Amadigi (né
andrà trascurato, per la definizione degli orizzonti del Tassino, il doppio
accostamento Ariosto-Bernardo nel giro di poche righe);5 e tuttavia
emergeva già qui esplicita la necessità di una narrazione come
organismo compatto, calibrato, nel quale ogni parte è necessaria,
secondo un’istanza che Tasso avrebbe poi reso assoluta nella Liberata,
appunto sulla superfluità e sulla dismisura prendendo le distanze e la
meglio sul Furioso.
Nella comune percezione critica il Rinaldo rimane per solito
confinato in posizione marginale, messo nel conto di un apprendistato
narrativo all’ombra del Venier e di Danese Cataneo, e questo malgrado
per il Tasso l’argomento della precocità valga poco: del 1559 sono le
ottave del Gierusalemme, in larga parte già degne dei primi tre canti
della Liberata, del 1562, in tutto o in larghissima parte, sono i Discorsi
dell’arte poetica. Non di formazione in corso dovrà parlarsi per le ottave
3
4
5
T. Tasso, Rinaldo, ed. a cura di L. Bonfigli, Bari, Laterza, 1936, p. 5 (mio il corsivo,
come sempre da qui in avanti in assenza di indicazione contraria).
Cito, qui e in seguito, dall’ed. a cura di L. Poma delle due opere teoriche tassiane:
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica e del poema eroico, Bari, Laterza, 1964, il brano
in questione alle pp. 35-36.
Sulla presenza implicita, ma cogente, dell’esperienza dell’Amadigi, e sulle variazioni
di orientamento che il poema di Bernardo aveva subito, dopo le segnalazioni sparse
in E. Proto, Sul «Rinaldo» di Torquato Tasso, Napoli, Tocco, 1895, basti qui il
rimando da un lato alle lettere di Bernardo (ora disponibili in due volumi di
riproduzioni anastatiche delle edizioni Giglio 1559 e Giolito 1560, a cura di
A. Chemello e D. Rasi, Bologna, Forni, 2002, in partic. vol. I, p. XII e sgg.), d’altra
parte alle posteriori difese che Torquato si provò ad organizzare nell’Apologia (vd. il
racconto in T. Tasso, Prose, ed. a cura di E. Mazzali, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959,
pp. 416-421; e G. Baldassarri, «L’Apologia del Tasso e la maniera “platonica”», in
Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni, vol. IV,
1977, pp. 223-251). Per un quadro vd. C. Dionisotti, «Amadigi e Rinaldo a Venezia»,
in La ragione e l’arte. Torquato Tasso e la repubblica veneta, a cura di G. Da Pozzo,
Venezia, Il Cardo, 1995, pp. 13-25; V. Corsano, «L’Amadigi epico di Bernardo
Tasso», Studi tassiani, 51, 2003, pp. 43-74; inoltre, centrato sul Floridante, ma
comunque utile per ripercorrere le ultime fasi di lavoro dell’Amadigi, l’Introduzione,
in B. e T. Tasso, Floridante, ed. a cura di V. Corsano, Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 2006, pp. V-LIII, in partic. pp. XXIV-XXVII.
325
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
del Rinaldo, per la sua struttura poco coerente (si apre con la conquista
di Baiardo, improbabilmente collegato, per via di magia, al ciclo di
Amadigi), quanto della sperimentazione consapevole di un genere
(meglio, di un sottogenere, quello del romanzo) e dei relativi livelli di
stile, condotta con ostinazione e accentuando fino al calligrafismo gli
esiti di varietà e pluralità. E appunto come sperimentazione voluta il
Rinaldo può essere recuperato quale banco di prova tanto per una prima
assunzione tassiana del precedente ariostesco,6 quanto per l’indagine su
zone mirate della Liberata.
Dopo aver depositato alcune critiche al Furioso nel terzo libro dei
Discorsi,7 del rapporto con la tradizione del «romanzo» il Tasso tornò a
parlare in modo esplicito in diversi passaggi delle Lettere poetiche,
1575-1576, a quell’altezza misurandosi con le ottave del Goffredo.
Metto in sequenza, sottolineando alcune espressioni con il corsivo e
aggiungendo poche note di commento, passaggi in rilievo della
discussione maturata in quei mesi, ormai ben noti alla critica tassiana:
[a] Credo che in molti luoghi trovaranno forse alquanto di vaghezza
soverchia, et in particolare nell’arti di Armida che sono nel quarto: ma ciò
non mi dà tanto fastidio, quanto il conoscere che ’l trapasso, ch’è nel quinto
canto, da Armida alla contenzione di Rinaldo e di Gernando, e ’l ritorno
d’Armida, non è fatto con molta arte; e ’l modo con che s’uniscono queste
due materie è più tosto da romanzo che da poema eroico, come quello che
lega solamente co ’l legame del tempo e co ’l legame d’un istante, a mio
giudicio assai debol legame.8
[b] La ventura della spada a nessuno spiacque mai più ch’a me: ma io non
mi risolvea a rimoverla, non sapendo di che riempire il loco vuoto o, per dir
meglio, che dire in quella vece. Ora m’è sovvenuto come si possa tòr via la
maraviglia della ventura, lasciando la previa disposizione; e ciò sarà, se ’l
cavaliero di Danismarca per consiglio dell’eremita portarà la spada con
determinato consiglio di donarla a Rinaldo e d’essortarlo alla vendetta
6
7
8
Vd. anche M. Sherberg, «Rinaldo». Character and intertextuality in Ariosto and
Tasso, Saratoga, Anma, 1993; allo stesso studioso si deve anche un’edizione recente
del Rinaldo, fondata sulla seconda stampa del poema tassiano, quella del 1570:
T. Tasso, Rinaldo, Ravenna, Longo, 1990, con un’Introduzione alle pp. 9-36.
T. Tasso, Discorsi dell’arte poetica, ed. cit., p. 51 (con riguardo al verso Amor che
m’arde il cor fa questo vento, di Furioso, XXIII 127, impiegato da Ariosto per il
dolore di Orlando).
T. Tasso, Lettere poetiche, ed. a cura di C. Molinari, Parma, Guanda-Fondazione
Bembo, 1995, pp. 29-30, lett. V del 15 aprile 1575; la soluzione per il problema del
canto V, su cui tornerò tra breve, sarebbe stata trovata poco dopo, su suggerimento
del Gonzaga (ibidem, p. 63, lett. VIII del 3 maggio); da segnalare la precisa
indicazione stilistica all’insegna della «vaghezza» per il lungo inserto del discorso di
Armida e del suo gioco di sguardi nel canto IV.
326
Emilio Russo
dovuta a lui e per l’amor che Dano gli portava e per fatale disposizione o
providenza, per meglio dire.9
[c] E s’io ho a dirle il vero, son quasi pentito di aver introdutte queste
maraviglie nel mio poema; non perch’io creda che in universale per ragion
di poesia si possa o si debba far altrimenti (ch’in questo sono ostinatissimo,
e persevero in credere che i poemi epici tanto sian migliori, quanto son men
privi di così fatti mostri). Ma forse a questa particolare istoria di Goffredo si
conveniva altra trattazione; e forse anco io non ho avuto tutto quel riguardo
che si doveva al rigor de’ tempi presenti, et al costume ch’oggi regna nella
corte romana: del che è buon tempo ch’io vo dubitando; et ho temuto talora
tant’oltre, che ho desperato di potere stampare il libro senza gran
difficultà.10
[d] Et in quel che tocca alle cose, rimoverò del mio poema non solo alcune
stanze iudicate lascive, ma qualche parte ancora degli incanti e delle
meraviglie. Peroché né la trasmutazion de’ cavalieri in pesci rimarrà, né
quel miracolo del sepolcro, invero troppo curioso, né le metamorfose
dell’aquila, né quella vision di Rinaldo ch’è nel medesmo canto, né alcune
altre particelle che Vostra Signoria o condanna come Inquisitore o non
approva come poeta. E pongo fra queste l’episodio di Sofronia, o almen quel
suo fine che più le dispiace. Ben è vero che gl’incanti del giardino d’Armida
e quei della selva e gli amori d’Armida, d’Erminia, di Rinaldo, di Tancredi
e de gli altri io non saprei come troncare senza niuno o senza manifesto
mancamento del tutto.11
[e] Io ho già condennato con irrevocabil sentenza alla morte l’episodio di
Sofronia, e perch’in vero era troppo lirico e perch’al signor Barga et a gli
altri pareva poco connesso e troppo presto; al giudicio unito de’ quali non
9
10
11
Ibidem, pp. 190-191, lett. XXIII del 7 settembre 1575. Sull’incrocio di «meraviglioso» e «ventura» romanzesca nell’episodio della spada di Sveno (canto VIII)
vedi quanto detto qui di seguito e, sin d’ora, F. Pignatti, «Canto VIII», in Lettura
della «Gerusalemme liberata», a cura di F. Tomasi, Alessandria, Edizioni dell’Orso,
2006, pp. 173-207; G. Baldassarri, «Dalla “crociata” al “martirio”. L’ipotesi
alternativa di Sveno», in Sul Tasso. Miscellanea di studi per Luigi Poma, a cura di
F. M. Gavazzeni, Roma-Padova, Antenore, 2003, pp. 107-121.
T. Tasso, Lettere poetiche, ed. cit., pp. 220-221, lett. XXVII del 1° ottobre 1575.
Malgrado la contorsione sintattica che la rappresenta, rimane evidente la divergenza
tra le norme dell’arte poetica, che volevano a giudizio del Tasso l’epica tanto più
perfetta quanto più nutrita di una meraviglia costruita sui «mostri» (qui Tasso
discuteva dei prodigi che punteggiano la battaglia del canto XVIII), e le ragioni
contestuali che avevano sede nella corte romana e voce concreta nelle opposizioni
che Tasso riceveva, o si aspettava di ricevere, dall’Antoniano. Discorso ancora più
marcato nel brano citato subito di seguito, e poi ancora in quello che chiude questa
sequenza di citazioni, ove si distinguevano «venture» eliminabili senza danno, a
moderare una componente, e d’altra parte «incanti» e «meraviglie» coessenziali al
poema, la cui caduta avrebbe avuto inevitabili effetti strutturali.
Ibidem, pp. 343-345, lett. XXXVIII del 30 marzo 1576.
327
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
ho voluto contrafare e molto più per dare manco occasione a i frati che sia
possibile.12
[f] Io ho già rimosso il miracolo del sepolto, la conversione de’ cavalieri in
pesci, la nave meravigliosa. Ho moderata assai la lascivia dell’ultime stanze
del vigesimo, tutto che dall’Inquisitore fosse vista e tolerata e quasi lodata.
Rimoverò i miracoli del decimosettimo; torrò via le stanze del pappagallo,
quella dei baci, et alcune dell’altre in questo e ne gli altri canti, che più
dispiacciono a monsignor Silvio, oltre moltissimi versi e parole. E tutto
questo ho fatto o farò, non per dubbio ch’io abbia d’alcuna difficultà in
Venezia; ma solo perché temo che non mi sopragiungesse alcun
impedimento da Roma.13
Mirati ora alle «lascivie» e alle zone liriche (brani a, e, f), ora a
«venture» e «incanti» (b, c, d, ancora f), secondo una distinzione
esplicitata in avvio del brano d, quelli annunciati sono tagli e rimozioni
che riguardano episodi in parte rifluiti nelle Ottave stravaganti (si
leggono in appendice alle edizioni di Solerti e Caretti),14 in parte
sopravvissuti nella Liberata con uno statuto ambiguo, sconfessati e
tuttavia non sostituiti, rimasti a galleggiare nella vulgata.
Così, sul versante delle Ottave stravaganti, per la ventura della spada
di Sveno: tassello fortemente romanzesco se, nella versione precedente
il codice Gonzaga (Fr), la spada doveva rimanere miracolosamente
macchiata di sangue finché a impugnarla non fosse tornato Rinaldo;
d’altra parte, tra i versi rifiutati ma presenti nella Liberata, l’inserto
lirico di Sofronia, condannato appunto con «irrevocabil sentenza», tanto
che Tasso progettò a lungo di sostituirlo con un racconto, ben più epico,
dei primi sei anni di guerra.15 Episodi pertinenti in modo chiaro ai due
filoni rispettivamente delle «meraviglie» e degli «amori» di cui Tasso
parlava anche in una lettera rimasta fuori dalla raccolta delle Lettere
poetiche;16 l’uno e l’altro funzionali alla causa del diletto, entrambi
12
13
14
15
16
Ibidem, pp. 374-375, lett. XXXIX del 3 aprile.
Ibidem, pp. 393-394, lett. XL del 14 aprile.
T. Tasso, «Gerusalemme liberata». Poema eroico, ed. a cura di A. Solerti e
cooperatori, 3 voll., Firenze, Sansoni, 1895-1896; T. Tasso, Tutte le poesie, vol. I, La
Gerusalemme liberata, ed. a cura di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1957,
pp. 521-617.
Vd. T. Tasso, Lettere poetiche, ed. cit., p. 388, lett. XXXIX del 3 aprile 1576; ancora,
ibidem, pp. 438-439, lett. XLVI del 22 maggio 1576.
T. Tasso, Lettere, ed. a cura di C. Guasti, 5 voll., Firenze, Le Monnier, 1852-1855,
vol. I, pp. 183-186, num. 76, indirizzata a Luca Scalabrino, del maggio-giugno 1576:
«Farò il collo torto, e mostrerò ch’io non ho avuto altro fine che di servire al politico;
e con questo scudo cercherò d’assicurare ben bene gli amori e gl’incanti» (ibidem,
p. 185). Si tratta di una missiva celebre, insieme ad alcune altre, per le varie ipotesi
328
Emilio Russo
soggetti ad opposizioni di misura nel senso della regolarità epica, e
tuttavia adoperati dal Tasso come ben distinti sotto il profilo stilistico.
Al riguardo c’è una pagina cruciale nei Discorsi dell’arte poetica, entro
la quale il Tasso distingueva i concetti dell’epico da quelli del lirico,
intendendo come concetti la percezione stessa della materia, come stile
il convenire e corrispondersi di concetti da un lato, lingua e trattamento
poetico loro riservati dall’altro.17 L’esempio più chiaro era quello della
bellezza femminile, resa da Virgilio con una tonalità epica distante da
quella con cui il Petrarca, con concetti da lirico, aveva cantato di Laura.
Il «concetto dell’epico» determinava dunque una precisa declinazione
della percezione prima, del trattamento poetico dopo, definiva un modo
di vedere le cose, con la conseguenza che l’inserimento di zone liriche
nel poema determinava di fatto una polifonia, prodotta dall’interferire di
uno sguardo altro, di cui lo stile lirico, con gli ossimori, le puntuali
contrapposizioni e le metafore amorose, era solo effetto risultante. Per
misurare la perfezione del meccanismo nel Tasso, e l’alternarsi di
temperature stilistiche diverse,18 si può ricorrere al canto III nella
giunzione tra lo scorrere epico e solenne della battaglia sotto le mura e
lo sguardo di Erminia rivolto a Tancredi, naturalmente piegato in chiave
lirica (III 19-20), incomparabile con la descrizione ammirata e timorosa
che la stessa Erminia fa del giovane Rinaldo (III 38-39). E se nel caso di
Erminia la curvatura lirica ha ragioni soggettive, essendo la scena
filtrata dagli occhi di una donna innamorata, altrove il narratore stesso
presta voce a sguardi lirici, assume in proprio i «concetti del lirico»,
come nel lungo passaggio sulle arti di Armida alla fine del canto IV. A
prodursi era dunque non solo una variazione tra visione dei personaggi e
visione d’autore, ma anche tra le distinte declinazioni del punto di vista
d’autore, con risultati stilisticamente e ideologicamente cangianti.19
17
18
19
sulla natura intima del Tasso che ha suscitato: se ne veda la discussione in
C. Gigante, Tasso, op. cit., p. 32 e n.
«E perché più appaia la verità di tutto questo, veggasi come lo stile dell’epico,
quando tratta concetti lirici (e questo non determino io già se s’abbia da fare) tutto
lirico si faccia; veggasi come ameno, come vago, come fiorito è l’Ariosto quando
disse: Era il bel viso suo quale esser suole» (Discorsi dell’arte poetica, ed. cit.,
p. 54), ove si discute di Furioso, XI, 65. Sul nesso tra epica e lirica in Tasso:
H. Grosser, «Tasso, la teoria e l’esprit de symétrie nella Gerusalemme liberata»,
Giornale Storico della Letteratura Italiana, 175, 1998, pp. 3-52, alla p. 17 e sgg.; ma
già in Id., La sottigliezza del disputare, op. cit., pp. 299-300; E. Russo, Studi su Tasso
e Marino, Roma-Padova, Antenore, 2005, pp. 3-38.
Si tratta di slittamenti e di interferenze allusi in C. Segre, Teatro e romanzo. Due tipi
di comunicazione letteraria, Torino, Einaudi, 1984, in partic. pp. 61 e sgg.
Al riguardo G. Baldassarri, «Canto VI», in Lettura della «Gerusalemme liberata»,
op. cit., pp. 123-142, in partic. pp. 137-138, con indicazioni essenziali sull’intreccio
329
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
Diverso il colore delle aree romanzesche, da Sveno appunto allo
scontro tra Tancredi e Argante nel canto VI (che nasce quale cimento
privato, come sancisce lo stesso Argante al re: «privato cavalier, non tuo
campione, / verrò co’ Franchi a singolar tenzone»: VI 13 7-8), alla selva
del canto XIII, omologa a tanti altri luoghi oscuri, punti di arresto e di
prova nella tradizione del romanzo.20 In questo senso la distinzione tra
«amori» e «incanti»/«meraviglie» credo vada conservata e trasposta su
un piano tanto narrativo quanto stilistico, come del resto indicano le
citazioni più sopra riportate. Non è questione di dettaglio, né inutile
sottigliezza, perché in termini tassiani importa l’accostare nel corpo
della Liberata ai concetti dell’epico non solo i concetti del lirico ma
anche i concetti del poeta di romanzi, utili a piegare le azioni degli eroi
in chiave di «venture», «incanti» e incredibilia.21 Pur restando fermo che
Tasso non attribuì mai ai romanzi lo statuto di genere autonomo
dall’epica, l’erranza cavalleresca e i suoi annessi tradizionali prefiguravano matrici di stile e forme narrative del tutto distinte da quelle
dell’epica: che poi la dimensione cavalleresca avesse sovente come
sfondo la passione amorosa (secondo dunque la formula di armi per
amori) non oblitera a mio avviso la specificità dei due piani, che
rinviano a trafile distinte di antecedenti letterari, quella dei romanzi
appunto e quella del genere lirico.22 Per chiarire quanto intendo, e
abbassare il grado di astrattezza in questioni che coprirono un trentennio
di trattati, riproduco alcune ottave eliminate dal canto XV della
Liberata, eliminate appunto per quell’eccesso di meraviglioso che Tasso
20
21
22
pluristilistico (e pluriprospettico) del poema maggiore, in questo lontano ad esempio
dall’Adone mariniano, spietatamente bidimensionale.
Vd. S. Zatti, L’ombra del Tasso, op. cit., pp. 22 e sgg. per il rapporto con i Cinque
canti ariosteschi.
Sulla considerazione tassiana dei «romanzi», dai Discorsi dell’arte poetica (ed. cit.,
p. 27) ai Discorsi del poema eroico (ibidem, pp. 126 e sgg.), vd. G. Baldassarri,
«Aristotele contro Patrizi. Un discorso tassiano», in Letteratura, arte, cultura tra le
due sponde dell’Adriatico, a cura di G. Baldassarri, N. Jaksic, Z. Nizic, Zara,
Zveuciliste, 2008, pp. 9-20.
Su questo singolo punto, con impostazioni e conclusioni diverse, cf. l’analisi
condotta da Soldani, il quale, sulla base del petrarchismo variamente sparso nel
Furioso (di recente studiato in M. Praloran, «Petrarca in Ariosto, il principium
constructionis», in I territori del petrarchismo. Frontiere e sconfinamenti, a cura di
C. Montagnani, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 51-74) segnala nella dimensione lirica la
linea dominante del romanzesco per come, soprattutto nel poema di Ariosto, si
offriva al riuso tassiano: «E se è vero che il terzo libro dei Discorsi dell’arte poetica
raffronta tra loro, su questo piano, solo l’eroico e il lirico, è anche evidente che
proprio il lirico trasportato nel poema costituisce il carattere più tipico dello stile
romanzesco» (A. Soldani, «Forme della narrazione», art. cit., p. 39 n.). Vd. anche
M. C. Cabani, «L’ariostismo mediato della Gerusalemme liberata», art. cit., pp. 37-43.
330
Emilio Russo
percepiva non ammissibile nel verosimile cristiano di fine Cinquecento.
Le accosto ad un brano del Rinaldo, cui suonano assai prossime:
Non hanno (sì il desio gli affretta e punge)
essi a tante vaghezze alcun riguardo,
poi che ’l mostro custode appar da lunge
su la gran porta in minaccievol guardo.
D’uomo è in lui quel di sopra, a cui congiunge
poscia da’ fianchi in giù membra di pardo,
salvo che serpentina orribil coda
nel deretano suo ripiega e snoda.
Ubaldo al fine argomentò con arte
nova vincer la dubbia aspra contesa:
il rotto scudo suo gitta in disparte
sì ch’abbia la sinistra atta a far presa;
quando la coda poi ch’incide e parte
le dure piastre è sovra lui discesa,
l’afferra sì che ’l mostro a sé non puote
ritrarla, e ferma le veloci rote.
Non perciò i piedi a ferir vanno invano,
ma grossa quercia e tant’entro sotterra
ascosa quanto sorge alta dal piano,
è da lor colta, rotta, e posta a terra.
Rinaldo quei con l’una e l’altra mano,
pria che gli tiri a sé, stringe ed afferra;
cerca Baiardo uscir di questo impaccio
ma troppo è forte del nemico il braccio.
L’una stringe la coda e l’altra mano
difende ambi duo lor da le percosse;
ché tentò il mostro di troncar, ma in vano,
or l’una or l’altra; in van si torse e scosse:
rotar non può, non gir da lor lontano,
né da far resistenza have armi o posse,
talché senza contrasti e senza schermi
fesse e trafitte son le membra inermi.
23
(Ottave estravaganti, XV b, h-i)
Move indarno le gambe, indarno ancora
per morderlo ver’ lui la bocca volta,
si crolla indarno e s’alza e sbuffa, e fuora
sparge annitrendo l’ira dentro accolta.
Durò tal zuffa lungo spazio d’ora:
con gran vigore alfin, con forza molta,
ma con arte maggior, a terra il pone
l’alto figliuol del valoroso Amone.
(Rinaldo, II, 42-43)
L’omologia con un passaggio del poema giovanile (nel quale
Rinaldo conquistava Baiardo, fino ad allora indomito), può servire come
riprova indiretta della diversa caratura stilistica con cui Tasso
avvicinava e metteva in ottave questa materia rispetto all’alone che
contorna il personaggio di Goffredo o alla stessa macelleria delle
battaglie, nutrita dell’epica classica.24 La linea romanzesca ha dunque,
magari circoscritto, uno spazio suo proprio entro la Liberata, oltre la
componente degli amori, intrecciata nelle fibre costitutive del poema se
23
24
Le dodici ottave da cui trascelgo questo brano si collocavano fra le ottave XV 54 e 55
della vulgata. Da ricordare le riflessioni tassiane sulla componente cavalleresca in
Furioso, XLVI, 115 sgg. riguardo al rapporto tra Ruggiero e Rodomonte (T. Tasso,
Lettere poetiche, ed. cit., pp. 103-104, lett. XII del 2 giugno 1575).
Sulla nobilitazione delle battaglie attraverso il ricorso ai classici cf. M. C. Cabani,
«L’ariostismo mediato della Gerusalemme liberata», art. cit., pp. 31-37; prima
ancora G. Baldassarri, Il sonno di Zeus, op. cit.
331
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
il Tasso difendeva aspramente, contro il Castelvetro, la possibilità di un
eroe principale di natura interamente favolosa,25 e se appunto in chiave
di eroe da romanzo presentava Rinaldo (in I 58-60), descrivendolo
ancora in V 12-1326 come estraneo alla fascinazione amorosa; non per
caso secondo lo schema intervenuto a posteriori eppure significativo
dell’Allegoria del poema, Rinaldo incarna l’anima irascibile e non
concupiscibile del corpo cristiano.27 La «ventura» in cerca di onore è
dimensione sua propria, quanto è estranea a Tancredi, sin da principio
dimidiato nel valore dalla ferita d’amore, e le due erranze, divagazioni
vettoriali da Gerusalemme, conservano segni diversi e distinti
trattamenti stilistici sino almeno al canto XIV, quando anche a Rinaldo
si sovrappone, quasi manto obbligato, la passione amorosa.
2. Ricerche di equilibrio
Si tratta di linee di andamento generale da verificare misurandole su
precisi scorci testuali, utilizzando a supporto le testimonianze disponibili
sull’evoluzione del testo, e cercando poi di ricavare alcune almeno delle
modalità di gestione narrativa del Tasso. Nella citazione a riportata più
sopra, pertinente all’aprile 1575, Tasso faceva riferimento ad una
congiunzione esteriore di due episodi all’inizio del canto V, raccordo
narrativo fondato sulla contemporaneità delle vicende e dunque svolto
secondo modalità romanzesche («più tosto da romanzo che da poema
eroico»). In causa era l’elezione di dieci guerrieri destinati a difendere la
causa di Armida e la versione che poco convinceva il Tasso ci è
tramandata da alcuni manoscritti e da una stampa ottocentesca che
pubblica tre canti pertinenti alla redazione α del poema.28 Queste le
ottave imputate, a sinistra nella versione rifiutata, a destra in quella più
avanti fissatasi nella vulgata:
Mentre il soccorso a lei promesso attende
la donna ed usa in procurarlo ogn’arte,
vari romori il capitano intende
a quanto ella narrò conformi in parte.
Per questa via più facile ei si rende
25
26
27
28
A sé dunque li chiama, e lor favella :
– Stata è da voi la mia sentenza udita,
ch’era non di negare a la donzella,
ma di darle in stagion matura aita.
Di novo or la propongo, e ben pote ella
Vd. C. Gigante, Tasso, op. cit., pp. 150-154.
E vd. ancora Liberata, V 43, 46, 49, 52.
«[…] ma venendo a gli intrinseci impedimenti, l’amor, che fa vaneggiar Tancredi e
gli altri cavalieri, e li allontana da Goffredo, e lo sdegno, che desvia Rinaldo da
l’impresa, significano il contrasto che con la ragionevole fanno la concupiscibile e
l’irascibile virtù, e la ribellione loro» (cito da T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura
di A. Solerti, ed. cit., vol. II, p. 27).
Vd. E. Scotti, I codici della fase alfa della «Gerusalemme liberata», Alessandria,
Edizioni dell’Orso, 2001.
332
Emilio Russo
a confidarle una sì cara parte
de l’essercito suo, ché vere stima
le sue parole onde fu dubbio prima.
esser dal parer vostro anco seguita,
ché nel mondo mutabile e leggiero
costanza è spesso il variar pensiero.
Ma pria che de’ più forti al paragone,
diece ne scelga in quella gente eletta,
a cui d’Armida e d’ogni sua ragione
la difesa e la cura si commetta,
vuol che s’elegga un successor d’Ottone
onde schiera sì nobile sia retta,
che senza duce stata era dapoi
ch’esso finì pugnando i giorni suoi.
Ma se stimate ancor che mal convegna
al vostro grado il rifiutar periglio,
e se pur generoso ardire sdegna
quel che troppo gli par cauto consiglio,
non sia ch’involontari io vi ritegna,
né quel che già vi diedi or mi ripiglio;
ma sia con essovoi, com’esser deve,
il fren del nostro imperio lento e leve.
E già per questo grado infra i maggiori
mastri di guerra eran contese ed ire,
ch’insieme Ugo e Roberto a i primi onori,
ed Ernando ed Ubaldo avien ch’aspire,
benché i duo primi accesi in novi amori
di seguir poi la donna ebber desire.
Restò fra gli altri due d’onor contesa
a cui non calse di novella impresa.
29
(An, V 1-3)
Dunque lo starne o ’l girne i’ son contento
che dal vostro piacer libero penda:
ben vuo’ che pria facciate al duce spento
successor novo, e di voi cura ei prenda,
e tra voi scelga i diece a suo talento;
non già di diece il numero trascenda,
ch’in questo il sommo imperio a me riserbo:
non fia l’arbitrio suo per altro servo.
(testo vulgato, V 3-5)
Nella redazione più antica Goffredo risulta dunque disposto all’aiuto
di Armida, convinto e persino irretito dalla versione dei fatti che la
stessa Armida aveva fornito nel canto IV; dispostosi a modificare la
connessione tra gli episodi, il Tasso non solo decise di affidare la scelta
del drappello al successore di Dudone (allora Ottone), creando dunque
un vincolo di necessità tra la scelta dei protettori di Armida e la contesa
per l’elezione al comando del drappello, ma ritagliò per Goffredo una
sostanziale freddezza, delineando grazie alla figura di Eustazio uno
scontro di prerogative, ma soprattutto delle logiche sottese: da un lato
l’obbligo cortese e privato di soccorso alla dama, dall’altro l’impresa
comune e salvifica della conquista di Gerusalemme.30 Goffredo risulta
29
30
Cito da T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di A. Solerti, ed. cit., vol. II, pp. 167168. Si tratta di un testo davvero arcaico, posto che Rinaldo, rapito da ansia di gloria
e poco attratto dall’impresa consistente nel proteggere la bellezza insidiata di Armida
(An, V 3 7-8), vi figura ancora con il nome di Ubaldo, in linea con il progetto del
Gierusalemme e comunque con un poema a marca urbinate; una stesura che tuttavia,
a prescindere dai nomi, dovette rimanere valida per lungo tratto se il Tasso la
discuteva come ancora vigente in una lettera della primavera 1575.
La linea di evoluzione dell’episodio è commentata con efficacia e puntualità in
F. Tomasi, «Canto V», in Lettura della «Gerusalemme liberata», op. cit., pp. 97-122,
alle pp. 99-106; ne riprendo impostazione e conclusioni per la loro funzionalità al
discorso che vado svolgendo.
333
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
dunque costretto dal comune volere dei cavalieri, intarsiato di desiderio
amoroso, nel punto in cui prendono avvio una serie di erranze private
che indeboliranno il campo. Quanto però mi sembra esemplare è la
dinamica di correzione per la quale il Tasso sopprimeva una giunzione
narrativa da romanzo, avvertita come estrinseca, proprio attraverso lo
sfruttamento di materia e ideali da poema cavalleresco, per questa via
polarizzando la posizione di Goffredo rispetto ai compagni erranti.31 Il
nodo necessario alla tenuta epica veniva così stretto con fila romanzesche, secondo una gestione acutissima dei tasti disponibili.
Altro esempio: al principio del canto VI le ottave stravaganti32
attestano una redazione alternativa dello scontro tra Tancredi e Argante,
redazione nella quale mancano le ottave 23-31 della vulgata che
descrivono il pietrificarsi di Tancredi alla vista di Clorinda, episodio
aggiunto all’altezza dell’aprile 1576.33 Ad un comune inizio di battaglia,
Tasso sovrappose dunque la matrice lirica della debolezza di Tancredi,
riprendendo quanto annunciato nel canto I, e così assemblando le
dinamiche passionali che legano i tre personaggi. Si tratta di modifiche
complementari e di segno opposto rispetto all’asciugarsi degli incanti
nel canto XV o all’eliminazione della ventura per la spada di Sveno. In
questi casi la materia lirica non è rimossa da una redazione anteriore, ma
piuttosto viene inserita a sorreggere, e a complicare emotivamente,
l’andamento della narrazione, trapiantata all’interno del racconto
secondo un vincolo di necessità, di coerenza unitaria della favola che
costituisce il lievito segreto dell’invenzione tassiana. Appunto la
simmetria tra l’implemento dei passaggi soprattutto di area lirica, la
difesa di parte degli «incanti» e d’altra parte l’eliminazione di episodi,
ricavabile anche da una superficiale (eppure non sempre svolta) lettura
degli strati del poema,34 mostra che nel corso degli anni di stesura e poi
ancora nel biennio della revisione romana ad operare non fu una
disposizione angosciata, ma la tensione a ragionare in piena luce
l’accordo tra sezioni di poesia sentita «dilettevole» ed equilibri di
poetica. Non era materia che scottasse le mani al Tasso, e i condizionamenti che arrivavano dall’ambiente romano sono ben esplicitati
31
32
33
34
Vd. al riguardo le splendide pagine di G. Mazzacurati, «Dall’eroe errante al
funzionario di Dio», in Id., Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 79-88.
T. Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, ed. cit., p. 601.
T. Tasso, Lettere poetiche, ed. cit., pp. 371-372, lett. XXXIX del 3 aprile 1576; al
riguardo E. Scotti, I codici della fase alfa della «Gerusalemme liberata», op. cit.,
pp. 45-47; inoltre C. Molinari, «La revisione fiorentina della Liberata. A proposito
del codice 275 di Montpellier», Studi di filologia italiana, 51, 1993, pp. 181-212, in
partic. pp. 202-203.
Su questo aspetto, di metodo, esemplari le indicazioni ricavabili da alcuni passaggi di
G. Baldassarri, «Canto VI», art. cit., pp. 123-124.
334
Emilio Russo
nelle lettere, e certo incisero su scelte che miravano a tener quieto
l’orizzonte di accoglienza del poema, ma non vennero toto corde
introiettati da un poeta che, fino all’avvio della riscrittura della
Conquistata (quando il contesto biografico e ideale era ormai stato
stravolto), mantenne verso «amori» e «meraviglie» un atteggiamento di
apertura limitata e di prelievo mirato.
In questo senso anche (e soprattutto) la striscia di episodi riguardanti
Armida. Più di Erminia o Argante, più di Tancredi e Clorinda, e quasi al
pari di Goffredo e Rinaldo, Armida riveste un ruolo strutturante
nell’impianto della Liberata, una funzione dinamica non puntuale ma
diffusa, di motore dello sviluppo narrativo, primo e più importante
agente terreno della schiera infernale, mentre ai due eroi crociati, capo e
braccio dell’esercito cristiano, occorrerà soprattutto reagire, rimuovere
ostacoli e reindirizzare torsioni, le diversioni fisiche e morali che
intralciano l’impresa di Gerusalemme.35 Incistata nel corpo del poema, e
sin dalle testimonianze cronologicamente più alte, Armida poteva
servire quale asse cui intrecciare una serie di episodi, senza alcun rischio
in termini di unità;36 e tuttavia, malgrado questa imbricatura, il Tasso
prese man mano a mostrarsi disponibile ad attenuazioni di misura e
persino a tagli decisi. Così in una terna di brani, dal luglio del 1575
all’aprile del 1576, si può osservare in diacronia la variazione di
orientamento:
Sto ancora in dubbio se vorrò lasciar nell’ultimo canto la riconciliazione
d’Armida con Rinaldo; e credo che vorrò finire questa materia nella fuga
d’Armida: ma sovra ciò scriverò più a lungo a Vostra Signoria
illustrissima.37
Credo ancora che, quando volessi accompagnare Armida sino all’ultimo,
non mi mancarebbono alcune ragioni et alcun essempio d’Omero stesso;
peroché quella persona o quella cosa che s’introduce per necessità non è
necessario che subito, cessata la necessità, s’abbandoni; anzi si può seguire
35
36
37
Per questo nel sommario del canto IV, nell’ottava che riepiloga e annuncia la
compagine degli errori, Armida figura in posizione centrale («Sia destin ciò ch’io
voglio: altri disperso / se ’n vada errando, altri rimanga ucciso, / altri in cure d’amor
lascive immerso, / idol si faccia un dolce sguardo e un riso», IV 17 1-4).
È il caso dell’assolo di recitazione patetica del canto IV, evidente macchia lirica nella
compagine dello stile e tuttavia tassello dall’indubbia funzionalità; stesso principio,
ma su una sospensione della narrazione epica più pronunciata, e dunque con dubbi
strutturali più consistenti, doveva valere per il blocco dei canti XIV-XVI, bipartito
ancora tra le «meraviglie» del viaggio e gli «amori» del XVI, e cui il Tasso dedicò
molte delle sue argomentazioni a difesa di fronte ai revisori (vd. M. Residori, «Il
Mago d’Ascalona e gli spazie del romanzo», art. cit.).
T. Tasso, Lettere poetiche, éd. cit., pp. 169-170, lett. XX del 20 luglio 1575.
335
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
a parlare di lei per semplice verisimilitudine e per soddisfattione de’
lettori.38
Ho moderata assai la lascivia dell’ultime stanze del vigesimo, tutto che
dall’Inquisitore fosse vista e tolerata e quasi lodata.39
A metà del 1575 le ragioni della «necessità» narrativa di Armida
(autorizzante Omero) venivano impiegate a «coprire» la scorcio del
canto XX, come per condurre a termine la vicenda umana della donna, e
insieme quella di Rinaldo, nel rispetto delle aspettative e della
«soddisfattione» dei lettori;40 l’anno successivo la dinamica testuale di
asciugamento e attenuazione si fondava invece su ragioni eteronome, su
quel controllo dell’Inquisitore che, per quanto terminato con esiti
positivi, suggeriva di moderare, e poi più avanti di resecare del tutto;41
così le ottave XX, 121-136 (il quadro diventato simbolo della volontà
tassiana di ridurre le «lascivie» liriche, la riconciliazione di Armida con
Rinaldo appena prima che Goffredo con il mantello ancora macchiato di
sangue sciolga il voto nel tempio) caddero già all’altezza del codice
Gonzaga, fase β del testo della Liberata. Da qui, dall’interno della
ricerca di un equilibrio conveniente ai tempi oltre che all’arte poetica,
muovono complesse questioni filologiche, e la necessità, espressa da
Luigi Poma dopo un ventennio di studi,42 di espungere dal testo critico
38
39
40
41
42
Ibidem, pp. 175-176, lett. XXI del 29 luglio 1575.
Ibidem, p. 393, lett. XL del 14 aprile 1576.
Solo pochi anni appresso iniziative di letterati di diversi gradini inferiori avrebbero
finito per dare ragione agli argomenti tassiani: così i Cinque canti di Camillo Camilli,
a stampa a Venezia già nel 1583, che portavano a termine le storie sospese di Erminia
e Tancredi e di Armida e Rinaldo e che proprio per questa ragione, appunto come
compimento, vennero sovente accorpati alla Liberata (si rilegga un racconto sul
dispiacere del Tasso al riguardo in L. Carpanè, «Altre testimonianze sulla Liberata»,
Studi tassiani, 49-50, 2001-2002, pp. 297-302); nello stesso senso avrebbe operato
l’autore, ancora oggi ignoto, di un testo tràdito dal ms. 2432 della Biblioteca
Angelica di Roma, un proseguimento in ottave per nulla spregevoli della fabula della
Liberata. Questa la prima ottava disponibile del codice, purtroppo acefalo e
anepigrafo (si tratta dell’ottava II 18 e a parlare è un rabbioso Goffredo): «Nuove
Armide vegg’io di vezzi armate / a comparire fatalmente in campo, / che col fascino
loro e la beltate / voglion servire a’ miei guerrier d’inciampo. / Quanto siano
perniciose a noi state / simili insidie, de le quali scampo / si cercò in vano, è pur
palese e poco / giova il rimedio allor ch’acceso è il foco». Il manoscritto meriterebbe
un’indagine specifica, in vista anzi tutto di un tentativo di attribuzione.
Celebre, e con margini di applicazione al caso tassiano, pur nella necessità di mai
dimenticare la complessità di strategie di Torquato a fronte del suo orizzonte di
ricezione, il saggio di L. Firpo, «Correzioni d’autore coatte», in Studi e problemi di
critica testuale, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, pp. 143-157.
Vd. L. Poma, «La formazione della stampa B1 della Liberata», in Id., Studi sul testo
della «Gerusalemme liberata», op. cit., pp. 87-144, alle pp. 135-136, ove si ricorda
come il recupero di quelle ottave nelle prime stampe si debba all’iniziativa e al testo
336
Emilio Russo
un episodio cruciale, collocato come suggello, con effetti di diversione
macroscopica rispetto agli equilibri fissati nella vulgata cinquecentesca e
in quella moderna rappresentata dal testo Caretti.43
Proprio sulla riunione tra Armida e Rinaldo conviene recuperare una
sequenza di segnalazioni e di ipotesi, finita ai margini dell’esegesi
recente ma avviatasi già ad inizio Seicento. In una lettera celebre
premessa alla Sampogna, il Marino da accusato di prelievi indebiti si
faceva accusatore:
Onde il nascimento di Clorinda ci fa subito ricordare del nascimento di
Cariclia in Eliodoro; lo sdegno di Rinaldo, l’ira di Achille in Omero;
l’Inferno e ’l consiglio de’ Demoni, dell’uno e dell’altro in Claudiano et nel
Trissino […] Rinaldo quando parte d’Armida, d’Enea quando lascia Didone;
Armida che fugge nella rotta dell’essercito egizzio seguita et abbracciata da
Rinaldo, d’Abra sconfitta et appunto nel medesimo modo disperata per
Lisvarte.44
Anche i capolavori osannati del Cinquecento, Furioso e Liberata,
avevano dunque magazzini fitti di materia altrui, e Marino insisteva
soprattutto sul Tasso, persino maldestro in «imitazioni universali»
(riprese cioè di invenzioni narrative, di interi episodi) tratte da autori
classici e poemi moderni. L’ultima riga, quella che qui importa, si
riferiva con disinvoltura, come se il rimando fosse al tempo perspicuo,
ad un episodio dell’Amadigi di Grecia, IX libro del ciclo di Amadigi di
Gaula, apparso in Spagna nel 1530 e tradotto in Italia per la prima volta
nel 1550:45 nel corso delle labirintiche vicende di Amadigi e di Lisuarte,
43
44
45
di Diomede Borghesi (al riguardo A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, 3 voll., TorinoRoma, Loescher, 1895, vol. II, pp. 145-146).
La complessa gestione dello stratificarsi diacronico del poema a fronte del testo
storico, presto fissatosi nelle stampe e nella memoria dei lettori, spetta ora a Guido
Baldassarri, cui è stata affidata, nell’ambito dell’Edizione Nazionale delle opere del
Tasso, la curatela della Liberata.
G. B. Marino, La Sampogna, ed. a cura di V. De Maldé, Parma, Guanda-Fondazione
Pietro Bembo, 1993, pp. 49-50: il commento al passo rinvia al Guastavini per la gran
parte delle fonti indicate dal Marino, ma non per l’episodio di Abra e Lisuarte.
Questo brano, impastato di rivalità e impazienza, lascia intravedere un’altra porzione
della biblioteca del Marino, quella romanzesca, e conferma l’escursione delle letture
e la puntualità della sua memoria, cementata nei celebri zibaldoni.
La prima versione italiana del libro IX del ciclo venne stampata a Venezia da
Tramezzino e conobbe una serie fitta di ristampe, in alcuni casi presentate come
nuove traduzioni, tra cui quella di Venezia, presso Enea de Alaris, del 1574 e, ancora
veneziana, quella del 1580; ho consultato l’esemplare di quest’ultima edizione
conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (262. 10. A. 8): Historia di
Amadis di Grecia Cavallier dell’Ardente Spada Nuovamente da Spagnuolo nella
lingua Italiana tradotta, In Venetia, Appresso Gio. Battista Uscio, 1580. Per un
quadro delle stampe spagnole e delle versioni italiane vd. la messa a punto in
337
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
suo padre,46 emerge la figura della principessa Abra, sorella di Zairo,
sultano di Babilonia.47 Abra si innamora subito di Lisuarte, già legato
però a Onoloria:48 la passione della donna, scandita attraverso una serie
di gesti di omaggio, muta di segno quando Lisuarte prima uccide Zairo,
poi sposa Onoloria.49 Abra, marcata dunque dalla ferita amorosa e dal
desiderio di vendicare il fratello, si impegna a raccogliere un esercito
ostile, promettendo gratitudine all’eroe capace di sconfiggere Lisuarte.
La battaglia successiva registra la puntuale sconfitta della schiera
pagana e il trionfo di Lisuarte che, tiratosi fuori dalla mischia, raggiunge
Abra fuggitiva e ormai disposta al suicidio, e ne ottiene la resa, in nome
di un pegno di vassallaggio amoroso contratto reciprocamente.
L’opportuna morte nel frattempo intervenuta di Onoloria consente
infatti che il libro IX si chiuda con le nozze di Lisuarte e Abra, dopo che
quest’ultima, attraverso il battesimo, si è convertita alla religione
cristiana. Anche attraverso questo rapido racconto, per una storia che si
intreccia a molte altre50 e si snoda lungo una trentina di capitoli e oltre
46
47
48
49
50
A. Bognolo, La finzione rinnovata. Meraviglioso, corte e avventura nel romanzo
cavalleresco del primo Cinquecento spagnolo, Pisa, ETS, 1997.
Alle avventure di Lisuarte è infatti dedicato il Lisuarte di Grecia di Feliciano de
Silva, VII libro del ciclo, apparso nel 1514 (la cui versione italiana venne pubblicata
per la prima volta a Venezia dal Tramezzino ancora nel 1550); stesso titolo di
Lisuarte di Grecia per il libro VIII, di Juan Díaz, edito nel 1526, ma mai tradotto in
italiano; per questa tradizione, e per gli sviluppi interni al ciclo, oltre al volume citato
nella nota precedente, vd. D. Eisenberg, Romances of Chivalry in the Spanish Gold
Age, Newark, De la Cuesta, 1982; A. Bognolo, «La prima traduzione dell’Amadís de
Gaula in Italia: Venezia 1546», Annali della Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere di Ca’ Foscari, 23, 1994, pp. 1-29; Ead., «Amadís encantado. Scrittori e
modelli in tensione alla nascita del genere dei libros de caballerías», in Scrittori
contro: modelli in discussione nelle letterature iberiche, Roma, Bulzoni, 1996,
pp. 41-52, in particolare sui libri VI-IX del ciclo e sulle modalità di impiego della
dimensione fantastica.
Le vicende di Abra, Zairo e Lisuarte, a testimonianza del rilievo, sono collocate in
apertura della seconda parte del libro IX (già a c. 1v si racconta della nascita come
gemelli di Abra e Zairo dal sultano di Babilonia); da questa seconda parte, che
presenta autonoma numerazione delle carte, derivano tutte le citazioni riportate qui di
seguito.
Zairo e Abra fingono una conversione al cristianesimo per poter ottenere le nozze
rispettivamente con Onoloria e Lisuarte, mire che portano ad un primo scontro tra
Lisuarte e Zairo (Historia di Amadis di Grecia, op. cit., cc. 24v sgg.).
Historia di Amadis di Grecia, op. cit., cc. 81r, 84v.
A scandire la narrazione è l’alternarsi continuo delle avventure di Lisuarte e di quelle
di Amadigi, linee che solo in alcuni nodi essenziali vengono a intersecarsi: così
quando Amadigi, promettendo sostegno a una delle donzelle inviate da Abra in cerca
di campioni, si trova a sfidare lo stesso Lisuarte, ignorando di trovarsi di fronte al
proprio padre; lo scontro termina naturalmente con l’agnizione, attraverso l’intervento della maga Urganda (Historia di Amadis di Grecia, op. cit., cc. 142r-157v).
338
Emilio Russo
duecento carte, soprattutto dopo la prima sezione topica, è bene in luce
la prossimità del romanzo con scorci della Liberata, e soprattutto con le
vicende ultime di Rinaldo e Armida.
Dopo la prima segnalazione del Marino, fu Scipione Errico a ricordare il debito che le ottave tassiane avevano contratto con l’Amadigi di
Grecia,51 e dall’Errico (non dal Marino) l’indicazione è transitata negli
studi di stagione positivistica, di Enrico Proto e Vincenzo Vivaldi.52 I
riscontri testuali paiono convincenti e conviene dunque allargare la
casistica già prodotta ad inizio ’900;53 nel quadro della sfilata
dell’esercito pagano del canto XVII della Liberata,54 la descrizione degli
apparati di Armida, bilanciata tra splendore della donna e magnificenza
della cornice, presenta alcune tessere in comune con la descrizione del
carro di Abra, collocata appena prima della battaglia.55
Andava la bella Assiana sopra un caro trionfale tirato da dodeci possenti
cavalli tutto coperto di panni d’oro, et ella guarnita di sì ricche vesti, e sì
ricca corona in testa che faceva in gran maniera illustrar la sua bellezza.
Eran sotto di lei a suoi piedi poste a sedere trenta donzelle sotto un ricco
padiglione ricchissimamente addobbate, e sopra i cavalli che conducevano il
carro dodeci paggi vestiti di broccato con le medesime guarnigioni de i
51
52
53
54
55
Altra sezione ampia, e di gusto ariostesco, era rappresentata dalle prove del Castello,
luogo di visioni fantastiche per diversi dei protagonisti (ibidem, cc. 175r-185v).
S. Errico, Le rivolte di Parnaso, ed. a cura di G. Santangelo, Catania, Società di
storia patria, 1974, pp. 128-129, che altro non è che una riscrittura della pagina
mariniana. Nella scena successiva della commedia di Errico Tasso e Marino vengono
direttamente alle mani.
E. Proto, Sul «Rinaldo» di Torquato Tasso, op. cit., pp. 102, 154-155, 190-191,
202-203, che già per Rinaldo e Clarice rinviò a Lisuarte e Onoloria indicando però le
versioni francesi del ciclo (Les chevaliers de la Serpente); ancora Id., «Bricciche
tassesche», La rassegna critica della letteratuta italiana, 1, 1896, pp. 104-109 (qui il
rinvio è a La princesse de Trebisonde, Buzando-le-nain, Zirfée l’enchanteresse);
V. Vivaldi, La «Gerusalemme liberata» studiata nelle sue fonti: azione principale
del poema, Trani, Vecchi, 1901; Id., Prolegomeni ad uno studio completo sulle fonti
della «Gerusalemme liberata», Trani, Vecchi, 1904, pp. 36 sgg., 48, 198; Id., La
«Gerusalemme liberata» studiata nella sue fonti: episodi, Trani, Vecchi, 1907,
pp. 226-231 (con rinvio al Florisel de Niquea, altra sezione del ciclo di Amadigi).
Trascrivo la versione italiana in prosa, con l’aggiunta di caporali per il discorso
diretto, e ricordo in nota le relative ottave della Liberata. Ho tenuto in conto il testo
originale spagnolo secondo l’ed. Feliciano de Silva, Amadís de Grecia, ed. de
A. C. Bueno Serrano, C. Laspuertas Sarvisé, A. de Henares, Centro de Estudios Cervantinos, 2004.
Da segnalare la sfilata degli eroi di fronte ad Abra che si legge in Historia di Amadis
di Grecia, op. cit., cc. 206v-207r, omologa, ma senza coincidenze puntuali, rispetto
alla presenza degli eroi pagani al cospetto di Armida in Liberata, XIX, 67-74.
Un ulteriore aggancio con il brano citato qui di seguito dall’Historia di Amadis
nell’Armida malinconica di Liberata XIX (67), collocata in sede eminente «fra
cavalieri» e «fra donzelle».
339
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
cavalli. La gentile e generosa Abra veniva dietro il suo essercito sopra un
carro trionfale anche ella, condotto da dodeci Elefanti tutti con castelli
sopra armati, ne i quali eran alla difesa molti arcieri, et erano i castelli tutti
dipinti d’azurro e di oro, et in mezo di essi era una sedia ricchissima con
grande artificio lavorata ch’era più alta che i castelli, fatta di quattro archi
trionfali, sopra i quali eran quattro virtù cardinali a guisa di donzelle, così
ben fabricate che parevano propriamente vive, gli archi erano d’oro, dipinti
anco d’altri diversi colori. Sotto di questo onorato baldachino stavasi la
gentil Abra sopra una sedia Imperiale di gran valore. Haveva i suoi biondi
e bei capegli sparsi per le spalle con una ricchissima corona Imperiale in
testa di tanto valore che pareva che al Sole togliesse la luce. Vestita di una
veste di seta cremesina tutta seminata di spere d’oro di tante pietre e perle
raccamata, che pareva che tutte le spere fussero Soli, secondo i raggi che
ne uscivano. In uno strato a torno a lei erano assise cinquanta Infante
figliuole di Re con ricchissime corone d’oro sopra le teste, vestite di
vestimenti di tela d’oro estremamente belle. A torno al carro venivan in sua
guardia sei mila cavallieri, i duo mila de i quali erano arcieri (Historia di
Amadis di Grecia, op. cit., cc. 265v-266r).56
I rapporti si fanno assai più stretti all’altezza del canto XX, quello cui
del resto si indirizzava la segnalazione del Marino: «Armida che fugge
nella volta dell’essercito egizzio seguita et abbracciata da Rinaldo» è
episodio che ricalca a tratti, fino alla coincidenza di taluni dettagli,
quanto già si leggeva nell’Amadis di Grecia.
Egli dopo si mise a seguir il carro di Abra che da tutti quei cavallieri era
stato abbandonato, e vidde che le cinquanta sue donzelle stavan a stracciarsi
i loro bei capegli et a piagner sì dirottamente che egli non potè fare che per
compassione non ne piagnesse. Vidde l’Imperatrice che discendeva del
carro e montata sopra un palafreno sola, pensando da niuno esser veduta si
mise per un bosco. Onde commandò egli a Guilano duca di Bristoia che
quinci non dovesse partirsi, acciò non si facesse alcuna ingiuria a quelle
donzelle, et egli si mise a seguir l’Imperatrice per la foresta. Tutto il resto
della gente seguì la vittoria fino alle due hore della notte che durò la caccia,
l’uccisione, et il far de i prigioni. L’Imperatore seguì Abra fin che il sentiero
veniva a finire all’orlo del mare nel tempo che già il Sole voleva tuffarsi
nell’occidente (ibidem, c. 270v).57
E ancora:
Quivi giunta Abra smontata del suo palafreno amaramente piagnendo senza
veder Lisuarte che l’ascoltava, disse, rivoltatasi alle acque: «O pretioso
sacrario delle reliquie di Babilonia, ben pare che la finta quiete delle tue
furiose acque, vuol dar luogo che il fonte del mio cuore, pe ’l quale entrò
56
57
Vd. Liberata, XVII 33-34.
Vd. Liberata, XX 117 e 122.
340
Emilio Russo
tutta la cagion del mio male mostrasse i suoi effetti con sì nuovo e quieto
silentio delle tue onde, acciò che potessero i soppremi Iddij meglio intendere
le mie querele, perché già è giunto il tempo delle solennità delle essequie del
mio Zairo, e pianto della mia morte. O misera me, che non so considerare di
duo sì grandi estremi qual mi eleggere, o darmi la morte, o lasciarmi la vita,
meglio sarebbe stata per maggior vendetta di me medesima vivere, ma non
lo consente la presontione del mio regal sangue per non conceder l’ultima
vittoria al mio crudel amico et inimico, che il pietoso perdono del male che
gli ho procurato. Hor mi risolvo al fine di far di me istessa sacrificio per
godere la gloria con la mia morte che il mio crudel inimico haveva da
acquistar con meco, in concedermi la vita con la libertà et in maggior
prigionia, considerata la grandezza del mio stato» (ibidem, cc. 270v-271r).
Ma l’Imperator Lisuarte che in tanto che questo le udiva dire havea più
lagrime per pietà sparse contemplando in sì gran Principessa una sì subita
caduta, non era anco ella gittatasi nell’onde quando egli la prese nelle sue
braccia entrato nell’acqua fino alla cintura e dissele: «Non disama a me
Iddio tanto che questa gloria non mi lasci godere, nè a te sopprema
Principessa che per cagion di me venghi in tanta disperatione, né la fortuna
ti può impedire che tu non venga alle mie mani, né a me di compir quel che
ti ho promesso. Per tanto signora mia, poi che hai conosciuto la tua poco
giustitia, della quale hai tu istessa la colpa, conosci il vero amore che porto
al tuo servigio, del quale l’opre mie ti daranno testimonio» (ibidem,
cc. 271v-272r).58
Quando udì Abra queste parole e conobbe ritrovarsi nelle braccia del suo
maggior amico et inimico fortemente piagnendo cominciò a dire: «Deh
Imperator Lisuarte, quanto contrario ha la fortuna giudicato fra me e te. O
crudel micidiale del mio regal sangue, abbassatore della mia regal corona,
rubbatore del mio tribolato cuore, lasciami finir la vita in pagamento et
sacrificio della mia sfortunata sorte […]. O crudel Lisuarte perché vuoi tu
soggiogare la tua misera Abra con tanti modi di gloria e vituperio suo? che
non bastò che l’Amor ti donasse il cuor mio, se non che la fortuna mi
havesse a por hora nelle tue mani, onde havessi da acquistare la principal
vittoria del mio gran sangue per sigillar con la misericordiosa gloria tutte
l’altre contra di me acquistate»; e detto questo caddè tramortita nelle braccia
dell’Imperatore. Lisuarte che così la vidde si mosse a pietà tanta, che
versava abbondantissime lagrime che cadendo sopra il viso di Abra fu
cagion che in sé ritornasse tosto, e dato un doloroso sospiro disse: «O crudel
micidiale del mio misero cuore, anchor in questo ti han voluto gli Iddii
favorire in darti il più gran cuore che a cavallier desse giamai, lo potessi
soggiogare in haver compassione della tua maggior nemica. Deh misera me
che è tanto estremo il mal mio che colui che l’ha causato con sì forte animo
non può far che non se ne doglia. Poi che gli Iddii ti dotarono di tanta virtù,
58
Vd. Liberata, XX 125-127.
341
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
non haver di me compassione, ma usala verso di quelle misere Infante e
gran Principesse mie donzelle rimase orfane per cagion mia, e disheredate,
che son con meco venute» (ibidem, c. 272r-v).59
«Verso i morti» rispose l’Imperatore «solo Iddio vi può por rimedio, nel
rimanente lascia ogni pensiero, che né elle [i.e. le donzelle] saran meno
trattate che se fussero in poter tuo, né perderan cosa veruna dei loro beni sol
per il merito tuo, e quel che tu del tuo per giustizia doveresti perdere,
supplirà la mia grandezza con la mia persona che fino alla morte da qui
impoi voglio che ti sia sempre obligata» […]. «Hor goditi, rispose ella, tu
all’incontro tutte le glorie che ti puoi goder con meco, che quanto più con la
tua liberalità ti vieni a mostrar verso di me magnanimo, maggior vittoria ti
acquisti di me con maggior gloria tua […] per tanto fa di me quel che ti
aggrada, che è pazzia espressa voler contravenir a quel che è ordinato da i
cieli» (ibidem, cc. 272v-273r).60
Una rinnovata lettura di questi confronti conferma la probabilità,
notevole a mio modo di vedere, di un rapporto tra il poema tassiano e il
romanzo spagnolo, rapporto tanto incisivo quanto in un certo senso
epidermico, limitato ad un quadretto collocato a concludere una lunga
parabola narrativa.61 Sulla traccia offerta dalla scarna prosa dell’Amadigi
59
60
61
Vd. Liberata, XX 128-129, 131.
Vd. Liberata, XX 134-135, 137.
Conviene qui aggiungere un ulteriore tassello, anche questo non segnalato da
Vivaldi: l’episodio nel quale Lisuarte si rende colpevole di un’aggressione all’interno
del campo cristiano, al cospetto stesso dell’Imperatore di Trabisonda. Lisuarte viene
arrestato malgrado l’intercessione in suo favore di Perione che proprio per questo
viene allontanato dal campo; sviluppo che, con qualche slittamento, può essere
avvicinato alla «colpa» di Rinaldo nel canto V della Liberata (26-59): «Il Soldano
che era cavalliere coraggioso molto e signor grande, si mosse in colera per le parole
di Lisuarte, parendogli che dovesse amar la Principessa, e dissegli: “Lisuarte gran
presuntione è la vostra quando pensate esser tale che vi uguagliate con meco così in
stato come in persona, che con tanta audacia mi doviate in questo modo parlare, se
l’Imperator non fusse qui presente io vi havrei fatto castigare, ma quando egli non vi
castighi, di lui mi havrò io a dolere, e non di voi”. Lisuarte venne in tanta ira per le
parole del Soldano che gli disse: “Mal per voi fu la vostra venuta qua se pensate più
di me valere, e abbassarmi voi l’orgoglio”; e ciò detto posta mano alla spada menò un
colpo al Soldano pensando pe ’l mezzo partirgli la testa, ma egli che destro era molto
schivò la percossa, e venne a dare a un figliuolo del Duca di Alafonte che dietro gli
era, che fino alla cintura lo divise in due parti. Il Soldano pose mano alla spada et
imbracciò la cappa, e il medesmo fecero in un momento quanti si trovaron in sala,
dove fu il tumulto grande che se l’Imperator non vi havesse posto rimedio niun
sarebbe vivo rimaso. Il quale abbracciato il Soldano e condottolo in sua camera uscì
molto adirato contra Lisuarte, e havendolo preso per una giubba di broccato che
portava gli disse: “Lisuarte, io non mi havrei giamai pensato, che si poco rispetto
havesti avuto alla mia persona, ma poscia che voi non havete con me usata cortesia,
men io son per usarla con voi in lasciar di far giustitia”. E chiamato il capitano
della sua guardia commise al re della Bregna che lo menasse prigione a una torre.
342
Emilio Russo
di Grecia Tasso operava una complessiva metamorfosi, stratificando le
ottave di riprese dei classici latini e volgari, e assumendo una lingua
letteraria sedimentata e carica di risonanze, del tutto estranea
all’originale spagnolo e alla sua corriva versione italiana.62
Accettando dunque la derivazione, la si deve subito circoscrivere ad
una pura ripresa di intreccio, tramutata dal Tasso entro tonalità liriche
sue proprie, consone al «narratore passionato». I romanzi spagnoli
rappresentavano del resto un deposito di materiali ricchissimi appunto
sotto il profilo degli episodi e delle peripezie, repertori narrativi assai
contigui alla formazione del Tasso. Sin troppo noto, infatti, che gli anni
di apprendistato di Torquato furono quelli in cui Bernardo ricavava dal
ciclo spagnolo il proprio poema su Amadigi, giocandolo precisamente
sul discrimine tra tenuta epica e modalità romanzesche, e facendo valere
nella definizione degli equilibri criteri dalla normatività problematica
quali il diletto dei committenti.63 Tutto quel patrimonio dei cicli
spagnoli, non solo i testi fondanti ma anche le prosecuzioni e persino le
aggiunte italiane, può essere assegnato senza dubbio alla cultura del
62
63
Volse Lisuarte rispondere all’Imperatore, ma era tanto irato che giamai volse
ascoltarlo. Così fu Lisuarte sotto buona custodia condotto prigione. Perione andò
innanzi l’Imperatore e dissegli: “Ponga ben mente vostra altezza a quel che fa, che
personaggio tale quale è Lisuarte di Grecia non deve in tal guisa essere trattato, che
fia chi se ne risenta per lui”. L’Imperatore venne in maggior colera per queste
parole e tutto infellonito gli rispose: “Se non havete rispetto in minacciarmi con
tanta superbia, non l’havrò io se più mi tentate verso di voi, che ben disgraziato
sarei io se lasciassi di fare la giustitia che devo per le vostre minaccie. Andatevene
hor hora e uscite del mio Imperio né compariate più al mio cospetto, se non che io vi
farò morire”» (Historia di Amadis di Grecia, op. cit., c. 30r-v).
Le riprese, da Virgilio e Petrarca anzi tutto, ma anche Apollonio Rodio (per Liberata
XX 137) furono segnalate già da Guastavini e Gentili a fine Cinquecento (e vd. La
Gierusalemme liberata di Torquato Tasso con le figure di Bernardo Castello; e le
Annotationi di Scipio Gentili, e di Giulio Guastauini, In Genova, Appresso Girolamo
Bartoli, 1590). Passando per l’edizione commentata da Severino Ferrari (Firenze,
Sansoni, 1890) e per gli studi citati di Vivaldi, Proto (cui aggiungere S. Multineddu,
Le fonti della «Gerusalemme liberata», Torino, Clausen, 1895, pp. 208-209, con
rinvio alla fuga di Cleopatra ma anche ad un episodio del Ciriffo Calvaneo, entrambi
meno calzanti) si arriva fino a S. Verdino, «Canto XX», in Lettura della
«Gerusalemme liberata», op. cit., pp. 499-515. Sulla componente petrarchesca del
personaggio di Armida: G. Natali, «Lascivie liriche. Petrarca nella Gerusalemme
liberata», La cultura, 34, 1996, pp. 25-73.
L’Amadigi è stato riconosciuto in più occasioni tra i precedenti da rimeditare per gli
esiti della Liberata (vd. ad es. G. Baldassarri, Il sonno di Zeus, op. cit., e quanto già
detto in nota 5); più in generale ne andrebbe nuovamente focalizzata la posizione di
rilievo tra i poemi di medio Cinquecento: uno studio dei meccanismi di narrazione in
M. Mastrototaro, Per l’orme impresse da Ariosto: tecniche compositive e tipologie
narrative nell’«Amadigi» di Bernardo Tasso, Roma, Aracne, 2006, in partic. pp. 77103.
343
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
Tasso giovane,64 entro una conoscenza del resto diffusa se, come notava
Fucilla, la storia di Abra e Lisuarte può essere intravista in filigrana
entro una novella degli Ecatommiti di Giraldi Cinzio,65 figura di prima
grandezza nell’ambiente ferrarese degli anni ’50 e ’60, ma soprattutto
sostenitore anche teorico dell’importanza di una autonoma tradizione
romanzesca.66 Trovandosi a discutere di quella tradizione, il Tasso più
tardo dei Discorsi del poema eroico individuava precisamente l’Amadigi
di Grecia tra i testi dalla scarsa ambizione stilistica e tuttavia eccellenti
proprio nella trattazione delle passioni amorose integre:
Ma i poeti moderni, se non voglio descriver la divinità dell’amore in quelli
ch’espongono la vita per Cristo, possono ancora, nel formarvi un cavaliere,
descriverci l’amore come un abito costante della volontà; e così gli hanno
formati, oltre tutti gli altri, quegli scrittori spagnuoli i quali favoleggiarono
nella loro lingua materna senza obligo alcuno di rime, e con sì poca
ambizione ch’a pena è passato alla posterità nostra il nome d’alcuno. Ma
qualunque fosse colui che ci descrisse Amadigi amante d’Oriana, merita
maggior lode ch’alcuno degli scrittori francesi; e non traggo di questo
64
65
66
Segnalo, a testimonianza della fortuna e della domanda di questi testi, che una
Aggiunta all’Amadigi di Grecia, presentata appunto come Terza parte del libro IX,
venne composta da Mambrino Roseo e pubblicata per la prima volta dallo stesso
Tramezzino nel 1564, e anche questo testo conobbe una serie cadenzata di ristampe
negli anni successivi, fino alla soglia del 1600: se ne veda il regesto in A. Bognolo,
«Il “progetto Mambrino”. Per un’esplorazione delle tradizioni e continuazioni
italiane dei Libros de caballerías», Rivista di filologia e letterature ispaniche, 6,
2003, pp. 191-202.
Vd. J. G. Fucilla, «Giraldi’s Hecatommithi, Deca II, 1: central version in the
diffusion of the courtly Cid theme», PMLA, 56, 1951, pp. 785-794; la novella si
legge in G. B. Giraldi Cinzio, Ecatommiti, II 1 (cito dall’ed. Torino, Pomba, 1853, in
3 voll., I, pp. 243 sgg.): Caritea tentava prima di vendicare la morte dell’amato
Pompeo, ucciso da Diego, promettendo la propria mano a chi gli avesse riportato la
testa di Diego; in seguito alla generosa difesa che lo stesso Diego offriva contro le
insidie del re di Portogallo, Caritea accettava di sposarlo, convinta dalla sua
generosità e devozione. Sulla composizione e sullo stratificarsi della raccolta vd. S.
Villari, Per l’edizione critica degli «Ecatommiti», Messina, Centro di studi
umanistici, 1998, p. 9 sgg.
Dopo l’edizione degli Scritti critici curati da Guerrieri Crocetti nel 1973, si hanno il
Discorso dei romanzi, ed. a cura di L. Benedetti, G. Monorchio e E. Musacchio,
Bologna, Millennium, 1999; e il Discorsi intorno al comporre, ed. a cura di
S. Villari, Messina, Centro di Studi Umanistici, 2002. Molti gli studi, anche solo
negli ultimi anni, sulla teorizzazione a favore del romanzo e del filone ariostesco nel
corso del medio Cinquecento; solo a titolo di esempio si vedano R. Bruscagli,
«“Romanzo” ed “Epos” dall’Ariosto al Tasso», in Il Romanzo. Origine e sviluppo
delle strutture narrative nella cultura occidentale, Pisa, ETS, 1988, pp. 53-69;
A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema cavalleresco nel Cinquecento,
Milano, Franco Angeli, 1998; S. Ritrovato, «Romanzo e romanzesco nel
Cinquecento. Appunti per una discussione», Studi e problemi di critica testuale, 54,
1997, pp. 95-114, accurato ma distante dai testi.
344
Emilio Russo
numero Arnaldo Daniello, il quale scrisse di Lancillotto, quantunque dicesse
Dante: Rime d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti; e lascia dir gli
stolti / che quel di Limosì credon ch’avanzi. Ma s’egli avesse letto Amadigi
di Gaula o quel di Grecia, o Primaleone, peraventura avrebbe mutata opinione, perché più nobilmente e con maggior costanza sono descritti gli
amori da’ poeti spagnuoli che da’ francesi, se pur non merita d’esser tratto
da questo numero Girone il cortese, il qual castiga così gravemente la sua
amorosa incontinenza alla fontana; ma senza fallo è maggior lode avere in
guisa disposto l’animo ch’alcuno affetto non possa prender l’arme contra la
ragione.67
A quell’altezza però la riconciliazione di Armida era stata rimossa, e
l’omaggio poteva essere firmato senza il riflesso di una larvata
autogiustificazione.
Delineato questo panorama, l’opzione di una derivazione diretta
entro il XX della Liberata è particolarmente significativa perché,
seppure su scala contenuta, prefigurerebbe l’assunzione nel corpo
dell’epica gerosolimitana di un episodio a marca lirica da un testo di
altro ceppo, di gran lunga meno nobile; inserirebbe nella costruzione
tassiana un azzardo consapevole, giacché la capacità di rivestire e
ritessere per lingua e stile non cancella la matrice ideale dell’episodio, lo
scioglimento positivo di una passione trasversale agli schieramenti e a
lungo minacciosa per la vittoria cristiana. Di quell’azzardo la tessera
conclusiva, l’ultima battuta di Armida nel poema prelevata dal Vangelo
di Luca, rappresenterebbe il passo più estremo, adattando alla maga le
parole della Vergine.
Nel misurare un passo indietro, nella primavera del 1576, eliminando
il gruppetto di ottave per l’incontro ultimo di Armida e Rinaldo Tasso
agiva, con ottica da bilancino, sulla proporzione di «amori» nel poema,
secondo una consapevolezza che si misurava sulla rigidità dei tempi e
dei lettori, oltre che fondata su Aristotele: dinamica tutta interna a
questioni letterarie, per la quale risultano sovrapposte e indebite le
ricostruzioni di area freudiana, le ipotesi di una ambivalenza tassiana
riguardo a tutta una regione della Liberata. Secondo la medesima
ragione letteraria, al principio della seconda parte del Quijote (II, 1), in
un’ambigua rassegna degli eroi e dei libri di cavalleria, tra paradigmi di
comportamento e critica delle infinite aggiunte romanzesche, Cervantes
faceva posto anche a Lisuarte, individuandone nella galanteria, tra
Onoloria, Gradasilea e Abra, la caratteristica principe:
67
T. Tasso, Discorsi del poema eroico, ed. cit., pp. 106-107; vd. anche ibidem,
pp. 68-69, con il giudizio tassiano sul trattamento conveniente agli amori, discreto e
parco come nell’Amadigi paterno, e come non era stato nell’Italia liberata
trissiniana.
345
La tradizione epica e cavalleresca in Italia
E infatti, mi dicano loro: chi fu più onesto e più prode del famoso Amadigi?
Chi più savio di Palmerino d’Inghilterra? Chi più moderato e alla mano di
Tirante il Bianco? Chi più galante di Lisuarte di Grecia?
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