Questioni attributive tra Tansillo e Tasso.
Il manoscritto XXIII. D. 12 della Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, dal Percopo
Luigi Tansillo, Il canzoniere edito e inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe, Napoli, Liguori, 1996, pp. LXVI-LVIII. in poi siglato M, è uno dei principali testimoni delle Rime del Tansillo, la più estesa raccolta di poesie tansilliane dopo il codice Casella. Erika Milburn
Erika Milburn, Luigi Tansillo and Lyric Poetry in Sixteen century Naples, Leeds, Maney Publishing for the modern Humanities Association, 2003, pp. 15-16. ha già fatto notare come l’ultima parte del codice contenga componimenti sicuramente spuri o di dubbia attribuzione e Rossano Pestarino
Rossano Pestarino, Tansillo e Tasso o della «sodezza» e altri saggi cinquecenteschi, Pisa, Pacini 2007. ha fornito, per alcuni di questi di certa paternità tassiana, una fine analisi critica e preziose considerazioni sulla profonda suggestione “meridionale” dell’ispirazione del Tasso
Rossano Pestarino, cit., p. 105. Si tratta, ove non specificato altrimenti, di Torquato Tasso. o sul fatto che le rime dubbie risultino tematicamente e stilisticamente affini alle prove più significative della lirica napoletana del Cinquecento
Rossano Pestarino, cit., p. 226.; su questo punto tornerò fra breve, perché se suggestiva e convincente è l’analisi del sonetto Per fuggir la mia morte, alma mia speme del Muzzarelli , forse finito in un manoscritto tansilliano perché copiato in un certo momento dal Tansillo perché gli interessava come modello per eventuali rielaborazioni, le quali sarebbero forse sfociate nel suo sonetto Non potrò star, per quel ch’io sento, guari
Rossano Pestarino, cit., p. 230; potrebbe darsi dunque, aggiunge Pestarino, lo stesso caso del sonetto di Diego Sandoval de Castro nel manoscritto XIII H 49 di rime del Tansillo della Biblioteca Nazionale di Napoli. (cfr. D. Sandoval di Castro, Rime, a c. di Tobia Raffaele Toscano, Roma, Salerno, 1997, pp. 15-6)., per i componimenti del Tasso è forse possibile una spiegazione più semplice e banale; ma andiamo per ordine.
I componimenti tassiani di M sono il madrigale Mentre nubi di sdegno e il dialogo amoroso Io qui, Signor, ne vegno, sicuramente del Tasso perché, oltre che pubblicati in stampe coeve senza che l’autore mai li rinnegasse, sono presenti anche in manoscritti autografi, in C (entrambi) ed E1
Uso le sigle tradizionali ormai per rime del Tasso a partire dall’edizione del Solerti; E1 in realtà è in parte autografo e in parte apografo con correzioni autografe; il dialogo ha correzioni autografe.(il dialogo). Il sonetto Vorrei, né so di cui, più lamentarmi, che sarà oggetto del mio discorso, è attribuito in M al Tansillo, e al Tasso in altri manoscritti tutt’altro che autorevoli, sicché la questione non si può dirimere con facilità. Occorre poi ricordare che un altro madrigale del Tasso, Caro amoroso neo, circolò al lungo sotto il nome del Tansillo a partire dall’antologia di Cristoforo Zabata del 1579
Scelta di rime di diversi eccellenti poeti di nuovo raccolte e date in luce. Parte seconda. In Genova 1579. Dedicatoria di Cristoforo Zabata a Giovanni Durazzo. Il madrigale è nella sezione dedicata al Tansillo; ma vi è anche una sezione di rime tassiane correttamente attribuite, tra le quali, ultima, il dialogo Io qui signor ne vegno.; e dunque Tansillo e Tasso si disputano un discreto numero di componimenti in totale e si può dire che, salvo errore, la confusione tra Tansillo e Tasso è superiore a quella tra Tansillo e qualsiasi altro poeta settentrionale o meridionale; e ciò sarà in parte certamente dovuto ad una certa somiglianza tra i due poeti, sarà stato anche facilitato dalla comunanza dell’esercizio madrigalistico, ma penso che soprattutto sia dovuto principalmente all’abitudine di molti copisti cinquecenteschi di manoscritti antologici di indicare gli autori dei singoli componimenti solo con l’iniziale puntata (che, come ognun può vedere, per i due nostri poeti è l’istessa); altro non serviva a loro, come promemoria, ma certo complicava le cose, o le facilitava, a chi dai loro manoscritti raccoglieva materiale per altri manoscritti e raccolte, lasciando ampia facoltà di interpretazione a seconda dei gusti e delle necessità. Del resto anche un’indicazione estesa del nome di uno dei due poteva generare equivoci nient’affatto stupefacenti per uno pratico di fenomenologia della copia, quando si pensi che Torquato, prima che la sua fama crescente oscurasse del tutto quella paterna, era chiamato comunemente, anche da molti sconosciuti compilatori di manoscritti antologici cinquecenteschi, Tassino: e da Tassino a Tansillo il passo mi sembra molto breve.
Intendo qui occuparmi del sonetto Vorrei né so di cui più lamentarmi , presente in M, da cui lo trasse il Percopo per la sua edizione del Canzoniere del Tansillo
Luigi Tansillo, Il canzoniere, cit. (son. XXXIII, p. 50) e dalla copia di questo N, manoscritto 15 del fondo San Martino della Biblioteca Nazionale di Napoli, che Toscano ritiene poter essere funzionale ad una progettata e non attuata stampa delle Rime del Tansillo per le cure di Giovan Battista Attendolo
Cfr. T. R. Toscano, Giovan Battista Attendolo Editore di Luigi Tansillo: dalla princeps delle Lagrime di San Pietro (1585) al progetto non realizzato di una stampa delle rime, in L’enigma di Galeazzo di Tarsia, altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 2004, pp. 221-226. ; dal manoscritto N il Fiorentino lo prese per la sua edizione delle Poesie liriche
Luigi Tansillo, Poesie liriche edite ed inedite, Napoli, Morano, 1882. (son. CXLVII, p. 74) vi sono alcune differenze di lezione tra N e M, rilevate dal Percopo, che qui non interessano, essendo N descritto da M. Produco qui il sonetto secondo la lezione del Percopo, che dovrebbe coincidere con quella di M
In realtà, come mi ha fatto notare Tobia Toscano, al v. 5 M legge hor mi scaccia.:
(1)
Vorrei, né so di cui più lamentarmi:
di madonna, d'Amore o di me stesso:
madonna mi chiamò, Amor fu il messo,
ed io, libero, corsi a imprigionarmi.
Ella mi scaccia, Amor torna a chiamarmi;
io sciôrmi non desio, né mi è concesso:
e veggio, ahi lasso!, il mio gran danno espresso;
né da lei né da lui poss'io ritrarmi.
Dunque, debbo biasmar me, lui e lei:
lei che a sé mi chiamò per mio dolore,
Amor che m'ingannò, me che 'l credei.
Anzi debbo lodar me, lei e Amore:
lei che sì bella parve a gli occhi miei,
me che la vidi, Amor che m'arse il core.
Francesco Torraca
Francesco Torraca, Studi di storia letteraria napoletana, pp. 224-225 fu il primo a mettere in relazione questo sonetto con quello del Sannazaro Lasso, ch’io non so di chi biasmarmi,:
(2)
Lasso, ch' ïo non so di chi biasmarmi,
d'Amor, di me medesmo o di costei,
c'avendo libertà persa per lei
dovea per suo prigion lieta accettarmi.
Ma Amor volse, non lei, ligato farmi;
anzi 'l vols'io; che pur quest'occhi mei
tenni fermi a quel sol, ch'i sacri Dei
avria infiammato, e lì volsi ligarmi.
Orsù, biasmamo ognun del proprio errore:
Amor che mel mostrò, io che 'l mirai,
e lei che fu materia a un tanto ardore.
Anzi laudamo ognun: lei ch' i suoi rai
dignò mostrarmi, e che 'l permisse Amore,
e me che più bel sol non viddi mai
sonetto che ora è la Dispersa XXX dell’edizione Mauro
Iacopo Sannazaro, Opere volgari, a c. di Alfredo Mauro, Bari, Laterza, 1961., che allora era inedito e che lo studioso trasse direttamente dal Palatino VII 720 della Biblioteca Nazionale di Firenze; dal confronto il Torraca trovò la conferma che il Tansillo era “molto studioso del Sannazaro”, visto che conosceva di lui non solo le stampe ma anche le composizioni che allora correvano manoscritte, e che il Tansillo “abbellì in parecchi punti e in altri…rese più artificioso” il suo modello. Affermazioni che da allora sono state sempre confermate da studiosi successivi, a partire dal Percopo, il quale, riferendola in calce al sonetto Tansilliano approvava e rilanciava: “ma, a mio parere, nell’insieme, superò”
Luigi Tansillo, Il canzoniere, cit., p. 50., passando per il Raimondi, che rileva nel Tansillo un ritmo più “scandito e concertato”, dovuto alla “nuova orchestrazione della triade Madonna-Amore-me stesso”
Ezio Raimondi, Il Petrarchismo nell’Italia meridionale, in: A.A. V.V., Atti del Convegno internazionale sul tema: Premarinismo e pregongorismo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, p. 109n. fino al Pestarino, che è il primo a discutere la questione dell’attribuzione posta dalla Milburn (propendendo per il Tansillo) e che, continuando sulla stessa linea, nota che Tansillo “purifica il sonetto sannazariano da quanto c’era di accessorio rispetto alla contrapposizione primaria” e fornisce una chiusa più sonora che contrasta con quella sannazariana, pacata e vocalica. Il sonetto sarebbe del Tansillo per motivi stilistici, dato che il Tasso sarebbe contrario a contrapposizioni così marcate
Pestarino, Tansillo e Tasso, cit., p. 234; cita la Lezione del Tasso sopra il sonetto del Casa., e tematici, data la coincidenza con autori poco diffusi al di fuori di Napoli, come Dragonetto Bonifacio, Cariteo e De Jennaro e con il Sannazaro della dispersa; tuttavia lo stesso Pestarino si chiede come mai, se il sonetto è veramente del Tansillo, “il poeta abbia escluso dal Codice Casella delle proprie rime un esemplare così ben riuscito della sua versificazione […]” e d’altra parte lo studioso aveva fornito con dotta perizia, accanto ad esempi napoletani, anche prove tematicamente molto affini di poeti non meridionali, come l’Ariosto del Furioso, il Cavalier Gandolfo, Giuliano de’ Medici, l’Alamanni; e ci sarebbe da chiedersi se la dispersa del Sannazaro non avesse prodotto i suoi frutti in qualche modo anche al di fuori del Regno.
Il fatto è che la dispersa in questione in realtà era abbastanza diffusa e circolava, a metà Cinquecento, un po’ in tutta Italia, anche se adespota. L’idea, sottesa a tutta la tradizione critica a partire dal Torraca, di un Tansillo privato ed esclusivo delibatore di rarità sannazariane è quanto meno da ridimensionare.
Il sonetto è presente inanzitutto, come sappiamo, nel dal Palatino VII 720 della Biblioteca Nazionale di Firenze, dal Mauro nella sua edizione siglato FN4, a c. 83b; pertiene dunque della prima parte del codice, di mano del copista a secondo il Mauro (e b secondo la più razionale denominazione di Cesare Bozzetti)
Per un’edizione critica del “canzoniere” del Sannazaro, SFI, LV, 1997, p.114-5 la parte che contiene rime del Sannazaro e di altri per lo più adespote; il sonetto è comunque ivi attribuito al Sannazaro, attribuzione forse non certissima ma nemmeno da mettere in dubbio senza particolari motivi.
È poi presente nel Vaticano Latino 5225, manoscritto di metà 500 che contiene poesie di vari settentrionali (Amanio, Trissino, Bandello, Barignano, Molza, Mozzarello) e del Sannazaro; ma il nostro sonetto non è attribuito. Ho siglato questo manoscritto V;
nel Panciatichiano 164, manoscritto fiorentino di metà ‘500; a p. 246-7 vi è una lettera di Pietro Bembo al Duca di Firenze di raccomandazione di Benedetto Varchi datata 21 marzo del 1545 (Bembo, Lettere, 2286; ma il testimone non è citato nell’apparato e la data non corrisponde). A pp. 257-8 vi è una lettera del cardinal di Gambera (Uberto, protonotario apostolico, fratello della poetessa) a sua eccellenza (il Duca di Toscana) datata di Roma 21 marzo del 1545, in cui si raccomanda il Varchi che è stato messo in prigione dai ministri di Sua Eccellenza. Seguono sonetti del Varchi e del Lasca in morte del Bembo, il tutto nella stessa sezione di una mano calligrafica che va da p. 243 a p. 324; dato il contenuto, può darsi che il manoscritto provenga da un qualche funzionario della corte ducale, oppure al Varchi stesso, che però dubito che abbia voluto conservare le prove e i ricordi di una vicenda per lui così scabrosa. Ho indicato questo testimone con la sigla F;
nel ms. 1250 della Biblioteca Universitaria di Bologna a, p. 105. Della stessa grafia sono le cc. 105-107 che contengono:
Poiché il leggiadro aspetto, altiero e santo (terzine)
Lasso, ch’io non so ben di cui biasmarmi
Occhi beati, e tu del ciel discesa (son.)
Come posso dir io che sì begli occhi (ball.)
Non v’ammirate amanti s’in lei spero (madr.)
Come potrò lontan dal mio bel sole (ball.)
tutti adespoti, e
Alma città, che già tenesti a freno
che reca la dicitura: Canzona del Molza.
Probabilmente l’attribuzione esplicita della canzone ha indotto il Frati a pubblicare tutto il gruppo tratto da questo manoscritto (tranne il nostro sonetto che era già attribuito al Sannazaro dal Torraca) sotto il nome del Molza nelle Rime inedite del Cinquecento
Rime inedite del Cinquecento, ediz. a cura di L. Frati, Bologna, Romagnoli-Dall'Acqua 1918., attribuzione che pare un po’ sbrigativa; va detto anche che la ballata Come posso dir io che sì begli occhi è attribuita all’Amanio a c. 45v del Vat. Lat. 5187. Ho siglato questo manoscritto B.
Aggiungo che il fatto che la tradizione del sonetto sembri prevalentemente settentrionale e adespota non implica di per sé che questo non sia del Sannazaro: anzi, è destino comune ad altre sue disperse
Cfr. Cesare Bozzetti, Un madrigale adespoto ed inedito e una canzone di dubbia attribuzione, in Operosa parva per Gianni Antonini, Verona, Valdonega, 1996, p. 144 e 145.. Intendo affermare però che il componimento non era diffuso solamente a Napoli, e che i contemporanei potevano anche non sapere che fosse del Sannazaro.
Riproduco ora il testo della dispersa del Sannazaro nella lezione di FN4, con in apparato le varianti degli altri testimoni: (3)
Lasso, ch’io non so di chi biasmarmi,
D’Amor, di me medesmo o di costei,
Ch’havendo libertà persa per lei
dovea per suo prigion lieto accettarmi.
Ma Amor volse non lei ligato farmi
Anzi ‘ l vols’io, che pur quest’occhi mei
tenni fermi a quel sol ch’i sacri dei
Havria infiammato e llì volsi ligarmi.
Horsù biasmamo ognun del propio errore:
Amor che mel mostrò, io ch’ el mirai,
e lei che fu materia a un tanto ardore.
Anzi laudamo ognun: lei ch’i suoi rai
dignò mostrarmi, e ch’el permisse Amore,
E me che più bel sol non viddi mai
1 so] so ben F B 2 di me medesmo] o di me stesso F 3 havendo] avend’io F persa] perso F V 4 dovea] Devria B V F prigion] pregion B lieto] lieta B V 5 Ma] d. B V Ma…lei] Amor non io vore F ligato] legato F 6 Anzi ‘l vols’io, che pur quest’] Anzi io, et Amor non , che gli | Anzi io volsi, Amor non, che gl’ B V 7 fermi] fissi B fisso V F a] in B F dei] iddei F 8 Havria infiammato e llì] Infiama, et volontier F Potria infiammar e lì B V ligarmi] legarmi B F 9 Horsù] Dunque F biasmamo] biasmiamo B propio] proprio B V 10 che] chi V el] il V 11 che ] chi V un] d. F materia a ] cagion d’un B ragion d’un V tanto] tant’ F 12 laudamo] lodiamo B F lodamo V ch’i] che F V suoi] soi B bei F 13 Dignò] Degniò F Degnò B V el] il B permisse] permise B premesse F 14 che più bel] ch’un più bel] F ch’un simil B ch’un sì bel V
Non è qui il luogo per discutere quale sia la lezione migliore o la più autentica; al v. 1, per esempio, la lezione di F e B permette di evitare la dieresi di io, che può apparire forse un po’ duretta, ma può essere anche un’integrazione di uno o più copisti cinquecenteschi indipendenti tra loro. Per quello che attiene al nostro discorso, che è il confronto tra questo sonetto e quello attribuibile al Tansillo, faccio notare che la lezione di F al v. 9, il molto più loico e conclusivo Dunque è più vicino alla rielaborazione tansilliana o pseudo tansilliana di quanto non sia la lezione di Fn4, e che quindi nulla ci obbliga a ritenere che proprio il Magliabechiano sia stato la fonte del Tansillo o di chiunque sia l’autore del sonetto Vorrei, né so di cui più lamentarmi.
Ed ora veniamo al sonetto che si disputa tra il Tansillo e il Tasso. Riassumendo
A dire il vero un esauriente riassunto della questione è già presente in Pestarino, Tansillo e Tasso, cit., p. 226 n. Lo ripeto qui per comodità di esposizione., solo M attribuisce il sonetto al Tansillo, mentre al Tasso viene attribuito da due manoscritti:
il Palatino 224, miscellaneo, confezionato dal Serassi, che però, contrariamente al solito, non indica la provenienza del contenuto. Il sonetto è assieme ad altri componimenti , nessuno dei quali è una poesia sicuramente attribuibile al Tasso:
Tu godi il sol ch’agli occhi miei s’asconde (1)
Vorrei né so di chi più lamentarmi (2)
Che rete è questa ov’io son colto, Amore? (3)
Donna, crediate, che chi col pensiero (4)
Un inferno angoscioso è la mia vita (5)
Una donna vid’io che in grembo avendo (6)
Il testimone venne schedato dal Solerti nel primo volume delle Rime del Tasso, sotto la sigla P3; il sonetto però non compare nell’edizione critica solertiana, rimasta incompiuta, né in quella del Maier che ne è, per quanto riguarda i testi una riproduzione e un completamento sulla base del materiale inedito preparato dal Solerti
Cfr. la Nota ai testi in T. Tasso, Opere, a c. di Bruno Maier, Milano, Rizzoli 1963, I p. 1153. (che evidentemente intendeva comprendere il nostro sonetto nelle rime di dubbia attribuzione), né in altre edizioni successive.
Il manoscritto MM 693 della Biblioteca Civica “Angelo Mai” di Bergamo, che contiene, tra gli altri, tutti i sei componimenti. Il sonetto in questione è replicato due volte, a c. 67 v. e 74v.
Vercingetorige Martignone
V. Martignone, Catalogo dei manoscritti delle Rime di Torquato Tasso, Centro di Studi Tassiani, Bergamo, 2004, pp. 30-31. ha schedato il manoscritto con la sigla H3 (era sconosciuto al Solerti) ha segnato il nostro sonetto con l’asterisco proprio delle rime dubbie e ha indicato, per tre delle rime del gruppo di sei, altre attribuzioni: Guarini (1), Anguillara (3) e Fortunio Spira (5); insomma, la tradizione serassiana e “bergamasca” che attribuisce il sonetto al Tasso è altrettanto infida della tradizione “napoletana” (rappresentata dal solo M) che attribuisce il sonetto al Tansillo. E d’altronde a questo punto si può dire che il dilemma può non essere affatto tale: non è da credere che se si riesce ad escludere che il sonetto sia del Tasso allora lo si può attribuire al Tansillo o viceversa, che ci si debba schierare col Serassi o col compilatore di M, con Bergamo o Napoli.
Vi è un altro testimone: il manoscritto è adespoto nel ms. O.91.Q mss sez. II 90 della bib. Labronica di Livorno. Si tratta di un manoscritto della seconda metà del Cinquecento, composito, di diverse mani, riconducibile all’attività, agli interessi e al circolo di Giovan Girolamo Acquaviva Duca d’Atri. E’ stato studiato dal Giraldi
Raffaele Girardi, Esperimenti satirici e burleschi alla corte di Giovan Girolamo Acquaviva (con un’appendice di inediti), in “Giornale Storico della Lingua Italiana”, CLXXIV, 1997, pp. 385-417. per quanto riguarda le satire in sdruccioli che contiene. Il nostro sonetto è a c. 59, nella prima parte del manoscritto, di una stessa mano calligrafica, che contiene qualche prosa per lo più di carattere militare e molte rime di autori non identificati, dello stesso Giovan Girolamo Acquaviva, di Berardino Rota, Scipione Ammirato (la satira in sdruccioli Oportuno signor Alfonso Cambio) e il sonetto Cura, che di timor ti nutri e pasci di Giovanni della Casa. Tutti i componimenti sono adespoti. Questa parte del manoscritto è databile post luglio 1563, che è la data esplicita della satira dell’Ammirato, e non mi pare che possa essere troppo più recente; anzi, per quanto è possibile sapere, il materiale ivi contenuto databile è di qualche anno più antico: le rime del Rota vi compaiono in una redazione più antica di quella testimoniata dalle stampe
Rota, Rime, p. 674. . Insomma, un contesto, geografico e cronologico, incompatibile con Torquato Tasso, molto meno con Luigi Tansillo.
Il nostro sonetto reca nel manoscritto livornese importanti differenze di lezione, soprattutto nelle terzine. Lo riproduco qui di seguito, con un apparato di varianti degli altri testimoni, fornendo una piccola legenda per le sigle dei manoscritti:
M = ms. XXIII. D. 12 della Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria (testo Percopo).
H3= ms. MM 693 della Biblioteca Civica “Angelo Mai” di Bergamo. Se vi sono differenze, si indica con H3a la lezione di c. 67v. e H3b la lezione di 74v.
P = ms. Palatino 224 della Biblioteca Nazionale di Firenze.
Vorrei non so di cui più lamentarmi,
Di Madonna, d’Amor o di me stesso:
Madonna mi chiamò, Amor fu il messo
Ed io, libero, corsi a impregionarmi.
Ella hor mi scaccia, Amor torna a chiamarmi;
Io scior mi vorrei, né m’è concesso,
Et veggio, ahi lasso, il mio gran danno espresso:
Né da lui né da lei posso ritrarmi.
Dunque debbo biasmar me, lei e Amore:
Lei che a sé mi chiamò per mio dolore,
Amor che m’ingannò, me che ‘l credei,
Anzi debbo lodar me, lei e Amore:
Me che la viddi, Amor che m’arse il core,
Lei che sì bella apparve agli occhi miei.
1 non] né M H3 P cui] chi H3b P 2 Amor] Amore M H3 4 impregionarmi] imprigionarmi M H3 P 5 hor] d. M H3 P chiamarmi] pregarmi H3 P 6 scior mi] sciormene H3 P vorrei ] non desio M 6 concesso] permesso H3b P 7 danno] male H3 P 8 Né da lui,né da lei posso] Né da lei né da lui poss’io M 9 lei e Amore] lui e lei M H3 P 11 Amor] E lui H3 P 13 Me…core] Lei che sì bella parve a gli occhi miei M H3 (apparve H3a apparse H3b P) 14 Lei…miei] Me che la viddi, Amor che m’arse il core M H3 (vidi H3a)
Le differenze sostanziali sono nelle terzine, e sulle terzine principalmente dovremo soffermarci. Ma giova notare che la variante al v. 6 rende il testo livornese più perspicuo che in M: la lezione di M (scior mi non desio) sembrerebbe il tentativo di sanare l’ipometria della lezione del livornese, ma, se rende la lezione più accettabile all’orecchio, e richiama superficialmente il topos tritissimo del carcere d’Amore dolce e gradito, in realtà non si accorda col senso del contesto, che tratta del mutamento dell’intenzione del poeta, che appunto prima, chiamato dalla donna, corse ad imprigionarsi volontariamente, ed ora che questa lo scaccia vorrebbe invece liberarsi (scior mi vorrei), ma Amore glielo impedisce. L’ipometria sarebbe risolvibile supponendo una dieresi d’eccezione in cesura: vorrei, in fine di emistichio, si comporterebbe come in fine di verso
Cfr. A. Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993, p. 243, e sarebbe da scandirsi in tre sillabe (d’altra parte, altrettanto eccezionale sarebbe la dialefe in cesura del v. 3) ; espediente inaccettabile, a metà Cinquecento, per rimatori della perizia di un Tansillo o di un Tasso. Pienamente accettabile, per senso e prosodia, la lezione di H3 P; ma potrebbe essere frutto di una correzione, più felice di quella che si ritrova in M. Il fatto è che i testimoni che attribuiscono il testo a Tansillo o a Tasso hanno una sospetta tendenza alla regolarizzazione formale e retorica (che potrebbe essere avvenuta anche gradualmente, di copia in copia) dovuta forse alla cultura dei diversi copisti o la fatto stesso che il testo debba far parte di un’alta tradizione poetica ormai consolidata: si veda anche la variante al v. 2 di M e H3 (contro P) Amore che riduce la dialefe d’eccezione (ma sconvolge il ritmo del verso) e la lezione del v. 11 di P H3 (contro M), E lui, che permette una migliore correlazione con lui e lei della fine del v. 9 nella lezione di H3 M P.
E veniamo ora alle terzine. La lezione del manoscritto labronico è completamente diversa da quella degli altri testimoni. Diverso lo schema metrico, CCD CCD, piuttosto raro e monotono con quelle rime baciate ripetute, sconcertante la rima identica al v. 9. E’ vero che può essere frutto di un errore di copista, attratto dal simile finale del v. 12; ma l’identità può essere retoricismo cosciente, per voluta simmetria di argomentazione nelle terzine, laddove la variante di M H3 P (variante che naturalmente si porta dietro tutta l’organizzazione metrico-sintattica delle terzine) ha solo il pregio di eliminare la rima identica: per il resto non mi pare un buon guadagno l’affollarsi cacofonico dei monosillabi tonici alla fine del v. 12 con accenti di 6a, 7a, 8a. Si noti inoltre che la struttura del testo labronico, che io tenderei a considerare l’originale, punta il sonetto a gravitare, come già nel modello sannazariano, verso il complimento finale del v. 14 (E me che più bel sol non viddi mai | Lei che sì bella apparve agli occhi miei) insieme pointe epigrammatica e suprema galanteria, un pezzo di buona vecchia scuola cortigiana.
Insomma la lezione del manoscritto di Livorno ha una sua coerenza interna retorica e stilistica, nel solco di una tradizione cortigiana di repertorio che ha le radici nel Quattrocento ma che continuava ancora nel pieno Cinquecento. Ma un’applicazione così ingenua, così poco scaltrita, ancora così rigidamente didascalica delle vecchie pratiche della sonetteria e strambotteria cortigiane si fa fatica ad attribuirla sia al Tansillo che al Tasso: in questo senso è un passo indietro anche rispetto al modello sannazariano, e mi perdoni il Torraca, che certamente non pensava ben più di un secolo fa di poter suscitare ora questo mio sproloquio. Intendiamoci, le figure di ripetizione su concetti e parole chiave sono stilemi tansilliani tipici (riprese, capfinidad, duplicationes, concatenazioni, polittoti) che segnano una certa distanza dalla retorica alta petrarchesca, come ha bene mostrato Andrea Afribo
A. Afribo, La ripetizione ed altro in Luigi Tansillo, «Rivista di Letteratura Italiana», 12 (1994), pp. 43-77.; tuttavia nulla di così oltranzistico e brutale si può rinvenire nell’ampio e ragionato regesto di ripetizioni tansilliane proposto dallo studioso . E anche pensando che il testo di M, H3 e P sia frutto di correzioni d’autore e non della tradizione, resta che il punto di partenza, testimoniato, a mio parere, appunto dalla redazione livornese, non è compatibile con quello che sappiamo della carriera poetica dei due grandi; oltre al fatto che né l’uno né l’altro sarebbero potuti approdare, dopo lungo tormento, alla faticosa mediocrità ritmica del v. 12.
L’autore del sonetto è probabilmente un buon dilettante del medio Cinquecento, molto ingegnoso ma non abbastanza a la page dal punto di vista metrico e retorico, oppure programmaticamente ed ostinatamente arcaicizzante; probabilmente, ma non necessariamente, napoletano; forse un amico del Duca d’Atri. Di più non mi sembra di poter dire.