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4/2021 Secondo Natura pp. 193-210 ISSN: 2611-9757 DOI: 10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– Che cos’è il lamarckismo sociale? David Ceccarelli In the 1960s, historians introduced the expression “social Lamarckism” to better identify several forms of evolutionary social theories that had emerged between the XIX and the XX centuries. Notably, social Lamarckism became popular in the reformist atmosphere of the French Third Republic as well as in American social sciences. Within the same social and political contexts, however, advocates of social hierarchy also referred to the Lamarckian mechanisms of evolution. The paper aims to show that such different articulations of social Lamarckism depended on the way biologists and social scientists used the notion of “developmental constraint”. Keywords: Social Lamarckism – Social Darwinism – Developmental Constraint – Le Bon – Reinsch ––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– 1. Darwinismo e lamarckismo sociale Nella seconda metà del XIX secolo, la teoria dell’evoluzione divenne il principale strumento euristico con cui analizzare i cambiamenti interni alla società industriale. L’uso dei concetti di adattamento ambientale, lotta per l’esistenza, selezione naturale e sopravvivenza del più adatto nell’interpretazione delle dinamiche sociali è divenuto noto come “darwinismo sociale”, espressione che è stata oggetto di un lungo e complesso dibattito storiografico. Ancora oggi, il termine ricorre nel discorso pubblico con accezione prevalentemente negativa, spesso allo scopo di censurare giustificazioni biologistiche di scelte politiche ed economiche, o per condannare forme più o meno radicali di laissez-faire1. L’ambiguità del termine e il fatto stesso di rappresentare un A pochi mesi dallo scoppio della pandemia di COVID-19, sono stati gli appelli all’immunità di gregge del Primo Ministro Inglese Boris Johnson e del consigliere scientifico dell’esecutivo Patrick Vallance a essere etichettati dalla stampa internazionale come esempio di darwinismo sociale, cfr. UK coronavirus response utterly hypocritical, says UN poverty expert, in «The Guardian», 26 aprile 2020. 1 David Ceccarelli – Università de Roma 2 – david.ceccarelli@uniroma2.it David Ceccarelli 194 fenomeno epistemologicamente e storicamente complesso dove i linguaggi delle scienze sociali e naturali si sovrappongono hanno fatto del darwinismo sociale un oggetto d’analisi privilegiato da parte degli storici della scienza e delle idee. Esistono ormai numerosi studi sul darwinismo sociale e sulle sue configurazioni ideologiche nei vari contesti culturali e politici nazionali fra XIX e XX secolo2. Il quadro che ne risulta è spesso sconcertante per eterogeneità e contraddittorietà, dal momento che i medesimi termini furono adottati contro obiettivi polemici e posizioni ideologiche differenti. Come ha sottolineato lo storico delle idee Antonello La Vergata, «vi fu un darwinismo sociale liberista […], uno solidaristico, uno statalista conservatore, uno nazionalista, uno militarista, uno pacifista, uno socialista, uno anarchico»3. Gli usi del termine furono tanto eterogenei quanto i modi di interpretare il cambiamento sociale mutuando teorie e concetti dalla nascente biologia evoluzionistica. L’appello alla selezione naturale, soprattutto nell’accezione spenceriana di “sopravvivenza del più adatto”, fu certamente uno dei tratti distintivi dell’evoluzionismo sociale di fine Ottocento. Altrettanto frequentemente, però, a essere estrapolate e applicate allo studio delle dinamiche sociali furono idee predarwiniane del cambiamento biologico. È anche per tale ragione che, a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, alcuni storici hanno introdotto il termine “lamarckismo sociale”. Una prima trattazione del legame fra scienze sociali e teoria lamarckiana dell’evoluzione è stata condotta dallo storico dell’antropologia George W. Stocking. Fra il 1962 e il 1968, Stocking ha sottolineato quanto gli storici avessero fino ad allora minimizzato il peso dei richiami alle idee di Jean-Baptiste Lamarck all’interno del dibattito antropologico di fine Ottocento4, soprattutto fra coloro che si opponevano al darwinismo sociale di matrice liberista basato sull’esaltazione della concorrenza individuale. Nei decenni successivi, l’espressione “lamarckismo sociale” ha iniziato a riscuotere un certo successo in letteratura, senza tuttavia scalzare il suo equivalente “darwiniano”, venendo di fatto classificato come sottoprodotto di quest’ultimo5. Ciò è quantomeno interessante, dal momento che la diffusione di evoluzionismi sociali basati sui cosiddetti principi “lamarckiani” fu capillare, in Europa come in Nord America, fra i due secoli. Varie ragioni sono state addotte per spiegare la circolazione relativamente limitata Cfr. R. Hofstadter, Social Darwinism in American Thought, Massachusetts, Beacon Press, ed. 1992; L.L. Clarck, Social Darwinism in France, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1984; A. La Vergata, Evoluzionismo alla francese contro darwinismo alla tedesca, in «Paradigmi» 29 (2011), n. 2, pp. 67-87. Vedi anche E.-M. Engels, T.F. Glick (a cura di), The Reception of Charles Darwin in Europe, London, Continuum, 2008. 3 A. La Vergata, Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica e altri mali, Novara, UTET, p. 76. 4 G.W. Stocking Jr., Race, Culture, and Evolution. Essays in the History of Anthropology, Chicago and London, University of Chicago Press, 1968, p. 234. 5 P.J. Bowler, The Eclipse of Darwinism: Anti-Darwinian Evolution in the Decades Around 1900, Baltimore, Johns Hopkins University Press, p. 18. 2 DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 195 della nozione di “lamarckismo sociale”. In primo luogo, a differenza della controparte “darwiniana” già ampiamente in uso negli anni ’80 del XIX secolo, il termine rappresenta un prodotto della storiografia contemporanea, il che ha reso arduo risemantizzare concetti codificati e stratificati nella letteratura specialistica e non. Si è poi sottolineato quanto il fatto di invocare il darwinismo per descrivere qualunque visione evoluzionistica del cambiamento biologico e sociale, a prescindere dalle sue specificità teoriche, abbia inevitabilmente penalizzato la diffusione di interpretazioni alternative. Secondo David N. Livingstone, un uso così vago e generalizzato, per altro avallato da almeno una generazione di storici, ha finito con l’appiattire la complessità del dialogo fra scienze naturali e sociali, oscurando forme di evoluzionismo al tempo altrettanto diffuse6. Che il termine “darwinismo sociale” sia stato una categoria storiografica spesso fuorviante è quanto ha rilevato anche lo storico della biologia Peter J. Bowler. Studi classici come quello di Richard Hofstadter Social Darwinism in American Thought (1944) hanno fatto sì che un autore come Herbert Spencer (18201903), portavoce di una filosofia evoluzionistica fondata sul principio di adattamento diretto all’ambiente, venisse considerato il maggiore esponente del darwinismo sociale e, al tempo stesso, un “lamarckiano”7. Allora come oggi, quasi ogni riferimento ai concetti di evoluzione, progresso o lotta viene percepito come intrinsecamente darwiniano, che vi sia o meno una connessione diretta con il pensiero di Charles Darwin8. D’altra parte, autori come lo storico Paul Crook hanno contestato la tendenza a prediligere interpretazioni restrittive del concetto di darwinismo sociale. Seconda questa prospettiva, derubricare come “non darwiniani” gli evoluzionismi sociali ispirati al lamarckismo risulterebbe quantomeno problematico dal momento che lo stesso Darwin considerò i principi formulati da Lamarck come meccanismi ausiliari nell’evoluzione biologica9. Vi è tuttavia un’altra possibile ragione alla base della limitata diffusione dell’espressione “lamarckismo sociale”, ed è il fatto di essere non meno ambigua della sua controparte “darwiniana”. Il lamarckismo sociale non fu uno spazio teorico omogeneo, ma un mosaico di visioni socio-politiche e teorie biologiche diverse10. I 6 J.A. Campbell, D.N. Livingstone, Neo-Lamarckism and the Development of Geography in the United States and Great Britain, in «Transactions of the Institute of British Geographers» 8 (1983), n. 3, pp. 267-294, 269; Id., Evolution, science and society: Historical reflections on the geographical experiment, in «Geoforum» 16 (1985), n. 2, pp. 119-130. 7 P.J. Bowler, Eclipse cit., p. 18; Id., Social Metaphors in Evolutionary Biology, 1870-1930: The Wider Dimension of Social Darwinism, in S. Maasen, E. Mendelsohn, P. Weingart (a cura di), Biology as Society, Society as Biology; Metaphors, Dordrecht, Springer, 1994, pp. 107-126. 8 P.J. Bowler, Darwin Delated. Imagining a World without Darwin, Chicago, The University of Chicago Press, 2013. 9 Cfr. P. Crook, Social Darwinism: The Concept, in «History of European Ideas» 22 (1996), n. 4, pp. 261-274, 262 10 Cfr. A. La Vergata, Il lamarckismo fra riduzionismo biologico e meliorismo sociale, in Lamarck e il Lamarckismo. Atti di convegno (Napoli, 1-3 dicembre 1988), Reggio Calabria, La Città del Sole, 1995, pp. 183-219. Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 196 richiami alla teoria lamarckiana caratterizzarono tanto le opere dei riformisti fautori dell’“ottimismo bio-sociopolitico”11, quanto gli scritti di chi sostenne concezioni gerarchiche dell’organizzazione sociale. Ciò rende forse ancor più necessario interrogarsi sul fenomeno del lamarckismo sociale e sulle sue articolazioni storiche. In particolare, il presente contributo intende evidenziare come, a fungere da elemento discriminante, fu soprattutto la diversa tematizzazione della nozione di “vincolo di sviluppo”. 2. Dal lamarckismo al neo-lamarckismo Poche figure hanno avuto un’influenza sulla storia delle scienze naturali pari a quella di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829). La sua eredità intellettuale, anche e soprattutto per le implicazioni filosofiche sottese, fu vasta quanto controversa, incontrando a più riprese, e per ragioni spesso diverse, fasi di consenso e biasimo da parte della comunità scientifica. Le teorie di Lamarck sono state definite come «nude» e «tristi», «assurdità», prodotto di «pura immaginazione», «originali» ed «eroiche»12. Analogamente, la qualifica di “lamarckiano” ha avuto accezioni eterogenee nel corso del tempo, talvolta contrassegnando programmi di ricerca di successo, altre ancora divenendo un marchio d’infamia. È noto che Lamarck si avvicinò alla zoologia quasi da neofita. Egli si sarebbe principalmente dedicato agli studi di botanica, seguendo i corsi di Louis Guillaume Le Monnier e Antoine-Laurent de Jussieu al Jardin de Roi parigino, nonché alla geologia e alla meteorologia. L’affidamento nel 1793 del corso di “Zoologia degli insetti, dei vermi e degli animali microscopici” al Muséum d’histoire naturelle di Parigi fu l’occasione per entrare nel dibattito zoologico contemporaneo. Lo studio degli “invertebrati”, termine che egli stesso coniò nel 1794, si sarebbe rivelato di grande importanza nella maturazione della sua teoria sulla trasformazione dei viventi. Secondo alcuni storici, fu proprio il confronto con una categoria tassonomica ancora così vaga, ma al tempo stesso ricca di esemplari fossili, a favorire un’interpretazione della storia naturale in termini di serie graduate di strutture sempre più complesse13. Cfr. Y. Conry, Le darwinisme social existe-t-il?, in «Raison présente» 66 (1993), pp. 17-40. Si veda rispettivamente C.-A. de Sainte-Beuve, Volupté, Paris, Eugène Renduel, 1834, pp.150151; C.R. Darwin, Notebook C, febbraio 1838-luglio 1838, p. 63, www.darwin-online.org.uk; J. Fleming, Review of J. E. Bicheno’s On Systems and Methods in Natural History, in «The Quarterly Review» 41 (1829), pp. 302-328, 321; A.S. Packard, Lamarck, the Founder of Evolution, New York, Longmans, Green, and Co., 1901, p. VII. 13 Cfr. R.W. Burkhardt, The Spirit of System. Lamarck and Evolutionary Biology, Cambridge, Harvard University Press; E. Mayr, The Growth of Biological Thought, Cambridge, The Belknap Press of Harvard University, 1982, pp. 346-347; G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca, Torino, Einaudi, 1995; Id., Introduzione: una grande rivoluzione di sintesi, in G. Barsanti (a cura di), Filosofia zoologica e altri naturalia, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2020, pp. 9-61. 11 12 DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 197 Integrando i dati raccolti nel lavoro di classificazione al Musèum, e di fatto proponendo una sintesi delle idee e dei principi proto-evoluzionistici diffusi nella cultura illuminista francese degli idéologues14, Lamarck espose le sue note “leggi” del cambiamento biologico nella Philosophie zoologique (1809). Qui, egli sostenne che ogni organismo era inserito e “attraversato” dal proprio ambiente (milieu), il quale poteva influire in modo più o meno diretto sulla distribuzione dei fluidi corporei (sangue, linfa, fluidi nervosi). Gli organismi “apatici”, dotati di un sistema nervoso elementare, “subivano” il proprio ambiente, che ne modificava la fisiologia e l’anatomia in modo diretto. Secondo Lamarck, Infusori, Radiati, Tunicati e Polipi potevano essere tuttalpiù soggetti a “irritazione” che, tuttavia, non comportava la percezione di dolore o piacere. Solo in presenza di un sistema nervoso più complesso le sollecitazioni ambientali venivano mediate da un ambiente “interno”. Al variare del milieu extérieur, il milieu intérieur degli organismi “sensibili” e “intelligenti” reagiva dapprima con l’insorgere di nuove sensazioni, e successivamente attraverso la percezione di nuovi bisogni (besoins). Tale necessità innescava nuovi comportamenti (actions) e abitudini (habitudes/manières de vivre) che, reiterate in una fase in cui l’animale «non abbia raggiunto il termine del suo sviluppo» 15 , ne alteravano la struttura anatomica modificando progressivamente la distribuzione e l’afflusso dei fluidi corporei. A ciò, divenuta nota come legge dell’“uso e del disuso”, Lamarck aggiunse: Tutto ciò che la natura ha fatto acquisire o perdere agli individui mediante l’influenza delle circostanze cui la loro popolazione si è trovata per molto tempo esposta, e conseguentemente per effetto dell’uso predominante di quel tal organo, o per la mancanza costante di uso di quel tal altro, essa lo conserva mediante la riproduzione nei loro discendenti, purché i cambiamenti acquisiti siano comuni ai due sessi, o almeno a coloro che generano i nuovi individui16. Nei decenni successivi alla pubblicazione della Philosophie zoologique, e in particolare fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la “seconda legge” di Lamarck, nota come teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, è spesso divenuta sinonimo di “lamarckismo”. Ciò nonostante si trattasse di un’idea diffusa nel senso comune e che molti naturalisti, a partire da Darwin, diedero quasi per scontata fino alla fine del XIX secolo17. Proprio per il fatto di aver fornito un impianto sistematico a idee e Hawkins, The Distinctiveness of Social Darwinism, in Social Darwinism in European and American thought, 1860-1945: Nature as Model and Nature as Threat, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 39-58. 15 J.B. Lamarck, Philosophie zoologique, Paris, Dentu, 1809; trad. it. Filosofia zoologica, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2020, p. 214. 16 Ivi, pp. 214-215. 17 R.W. Burkhardt, Lamarck, Evolution, and the Inheritance of Acquired Characters, in «Genetics» 194 (2013), n. 4, pp. 793-805; P. Corsi, The Age of Lamarck: Evolutionary Theories in France 1790-1830, Berkeley, University of California Press, 1988; P. Corsi, J. Gayon, G. Gohau, Gabriel, S. Tirard (a cura di), Lamarck, philosophe de la nature, Paris, PUF, 2005. 14 M. Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 198 “convincimenti” di lunga data18, il nome di Lamarck finì con l’essere associato a teorie eterogenee. Ciò avvenne in particolare dagli anni ’80 del XIX secolo quando, con il progressivo sclerotizzarsi del dibattito evoluzionistico e la nascita del fronte “neo-darwiniano”, i richiami e i tributi a Lamarck divennero comuni fra coloro che si autoproclamarono, a vario titolo, “neo-lamarckiani”. Soprattutto nel contesto francofono, il neo-lamarckismo rappresentò un atteggiamento teorico estremamente resiliente e duraturo, influenzando tanto la pratica scientifica quanto la formazione in biologia evoluzionistica fino agli anni ’70 dello scorso secolo19 . Le ragioni della resistenza al darwinismo da parte della comunità scientifica francese sono state più volte esaminate dagli storici. Spesso si è sottolineato quanto l’ipotesi della trasformazione delle specie fosse già ampliamente discussa in Francia al tempo della pubblicazione dell’Origin of Species (1859). Darwin sarebbe stato in tal senso dipinto come il «prosecutore di una grande tradizione» iniziata da Diderot, Lamarck e dall’anatomista Geoffroy Saint-Hilaire20. Nel 1882, l’anno della scomparsa di Charles Darwin, la Società di Antropologia parigina, fondata da Paul Broca nel 1859, avrebbe inaugurato i cosiddetti “incontri sul trasformismo”, termine che sempre più diffusamente divenne sinonimo di evoluzionismo nell’ambiente francofono21. L’immagine positivistica della scienza quale attività necessariamente sperimentale avrebbe altresì rappresentato un ulteriore ostacolo alla diffusione del darwinismo in Francia22. Negli anni del dibattito post-darwiniano, furono numerosi i programmi di ricerca “neo-lamarckiani” improntati alla metodologia sperimentale. Nonostante le differenze teoriche in campo, il loro punto di convergenza era il medesimo: il principio darwiniano della selezione naturale presentava limiti epistemologici non trascurabili. In primo luogo, essa non forniva una spiegazione efficace dell’origine fisiologica di nuove strutture. Inoltre, il “lungo ragionamento” darwiniano non contemplava il ricorso alla sperimentazione23. Autori come lo zoologo Edmond Perrier (1844-1921), il botanico Gaston Bonnier (1853–1922), lo zoologo Alfred Giard (1846-1908) e il suo discepolo Fèlix Le Dantec (1869-1917) promulgarono forme Barsanti, Una lunga pazienza cieca cit., p. 151. Cfr. Y. Conry, L’Introduction du darwinisme en France au XIXe siècle. Paris, Vrin, 1974; J. Gayon, Darwin and Darwinism in France before 1900, in M. Ruse (a cura di), The Cambridge Encyclopedia of Darwin and Evolutionary Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2013, pp 243-249; L. Loison, French Roots of French Neo-Lamarckisms, 1879-1985, in «Journal of the History of Biology» 44 (2011), pp. 713-744; L. Loison, E. Herring, Lamarckian Research Programs in French Biology (1900-1970), in R.G. Delisle (a cura di) The Darwinian Tradition in Context, Cham, Springer, 2017, pp. 243-242. 20 Si veda in particolare l’elogio funebre a Darwin pubblicato sul «Bulletins de la Sociétà d’Anthropologie», cfr. R.E. Stebbins, France, in T.F. Glick (a cura di), The Comparative Reception of Darwinism, Chicago, The University of Chicago Press, 1988, pp 117-163, 155. 21 Cfr. J. Harvey, Darwin in a French Dress: Translating, Publishing and Supporting Darwin in NineteenthCentury France”, in The Reception of Charles Darwin in Europe cit., pp. 354-374, 373. 22 Cfr. Bowler, The Eclipse cit., pp. 107-109. 23 Cfr. Loison, Herring, Lamarckian Research Programs cit., pp. 246-248. 18 19 DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 199 diverse di “lamarckismo” di stampo eminentemente materialistico e meccanicistico, sottolineando l’importanza di un approccio sperimentale allo studio dell’evoluzione biologica. È in questo contesto che il filosofo Henri Bergson (1859-1941) svilupperà la sua critica verso quella «biologia puramente meccanicistica» pronta a far coincidere «l’adattamento passivo di una materia inerte che subisce l’influenza dell’ambiente e l’adattamento attivo di un organismo che trae da questa influenza il proprio vantaggio» 24 . Paradossalmente, Bergson avrebbe individuato nella tradizione evoluzionistica statunitense, e non in quella francofona, la forma più virtuosa di neolamarckismo, in particolare guardando all’opera del paleontologo americano Edward Drinker Cope (1840-1897), fra i pochi ad aver ammesso «un principio interno e psicologico di sviluppo» 25 . Secondo Cope, infatti, i processi di adattamento ambientale presupponevano una forma di sensibilità consustanziale ai viventi, a partire dalla quale gli organismi potevano rispondere alle pressioni ambientali adottando nuovi schemi comportamentali e modificando la propria struttura attraverso l’uso e il disuso. Una tale forma di «vitalismo lamarckiano», ha riconosciuto l’epistemologo Georges Canguilhem, parve in parte più fedele «allo spirito della sua dottrina» rispetto al «meccanicismo dei neo-lamarckiani francesi»26, anche se, a ben vedere, per Lamarck le facoltà del sentir non rappresentarono mai una proprietà intrinseca alla materia vivente27. Che il neo-lamarckismo sia stato un ritorno alle dottrine di Lamarck è un tema particolarmente dibattuto in storiografia. Di fatto, molti degli evoluzionisti definitisi a vario titolo “neo-lamarckiani”, in Francia come in Nord America, lo fecero senza aver mai letto Lamarck. Inoltre, il trasformismo non conobbe un vero e proprio arresto durante la prima metà del XIX secolo, ma anzi si diffuse in modo carsico nel pensiero biologico trovando spazio, come noto, nella stessa teoria darwiniana. L’appello a Lamarck non fu dunque un ritorno a idee obsolete, ma piuttosto il radicalizzarsi di concettualizzazioni del cambiamento biologico largamente diffuse, in parte catalizzato dal programma di ricerca del biologo tedesco August Weismann (1834-1914), divenuto noto come “neo-darwinismo”, e dall’idea che il materiale ereditario rappresentasse una sostanza “segregata” e inalterabile durante lo sviluppo. Le tesi di Weismann esercitarono un’influenza straordinaria sul dibattito biologico di fine secolo, innescando reazioni avverse tanto sul piano scientifico che su quello H. Bergson, L’Évolution créatrice, Paris, Alcan, 1907; trad. it. L’evoluzione creatrice, Milano, BUR, 2012, p. 75. 25 Ivi, pp. 80-81. 26 G. Canguilhem, La Connaissance de la vie, Paris, Vrin, 1965; trad. it. La conoscenza della vita, Bologna, Il Mulino, 1976, p. 194. Secondo Laurent Loison, nel corso del Novecento molti neo-lamarckiani francesi avrebbero rivalutato l’autonomia e la reattività dei sistemi viventi, contrapponendosi al trasformismo meccanicistico del secolo precedente, cfr. Loison, French Roots cit. 27 Cfr. B. Baertschi, Diderot, Cabanis and Lamarck on Psycho-Physical Causality, in «History and Philosophy of the Life Sciences» 27 (2015), n. 3/4, pp. 451-463. 24 Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 200 ideologico e culturale. Il “neo-darwinismo” fu considerato come il colpo di grazia per chiunque tentasse di giustificare biologicamente il progresso intellettuale e morale dell’uomo 28 . Le implicazioni della dottrina neo-darwiniana, scrisse il sociologo americano Lester Frank Ward (1841-1913), erano quanto di più pernicioso: «smettete di educare», poiché si tratta di «una mera perdita di tempo contro le più profonde e immodificabili forze della natura»29. Fra XIX e XX secolo, invocare il nome di Lamarck significò spesso salvaguardare una vera e propria Weltanschauung. È in questo contesto che si svilupperà il dibattito sul cosiddetto “lamarckismo sociale”. 3. Il trasformismo sociale negli anni della Terza Repubblica Scrisse nel 1880 il giornalista anarchico Emilie Gautier (1853-1937): Il faut changer le lit du progrès, canalisé jusqu’ici au profit seulement do quelques domaines seigneuriaux; il faut travailler à briser toutes ces écluses factices qui débitent ses flots bienfaisants avec une parcimonieuse injustice, afin de pouvoir, par un système scientifique et indéfiniment perfectible d’irrigation sociale, les distribuer à tous les membres de la grande famille humaine. […] Secouons d’abord la torpeur des déshérités, illuminons leur conscience: le bon sens ou la poltronnerie des privilégiés feront le reste! C’est ainsi que doit être entendu et pratiqué le darwinisme social30! Con il suo celebre pamphlet, Gautier introdusse il termine “darwinismo sociale” nel dibattito culturale di fine secolo allo scopo di denunciare le brutali giustificazioni biologistiche del laissez-faire e, parallelamente, indicare la strada per una più corretta applicazione della teoria darwiniana alla società umana basata sui principi della cooperazione e della solidarietà sociale. Non di rado questa interpretazione è stata definita “trasformismo” o “lamarckismo” sociale. Come ha rilevato la storica Linda L. Clarck, negli anni della Terza Repubblica e della progressiva liberalizzazione del sistema educativo nazionale, il culto della scienza e il ricorso ad argomentazioni evoluzionistiche nella propaganda anticlericale e antimonarchica fu estremamente diffuso. In un contesto nel quale l’espressione “transformisme” era comunemente usata in alternativa a “evoluzionismo”, e dove molti biologi si proclamarono, come visto, “neo-lamarckiani”, le interpretazioni cooperazionistiche dell’evoluzionismo sociale finirono spesso con l’inglobare il lessico lamarckiano, pur ricorrendo altrettanto significativamente a termini quali “lotta per 28 Cfr. H.F. Osborn, The Present Problem of Heredity, in «The Atlantic Monthly» 67 (1891), n. 401, pp. 353-364. 29 L.F. Ward, Neo-Darwinism and Neo-Lamarckism, in «Proceedings of the Biological Society of Washington» 6 (1891), pp. 11-71, 65. 30 E. Gautier, Le Darwinisme Social, Paris, Derveaux, 1880, pp. 88-89. DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 201 l’esistenza” (lutte pour la vie o concurrence vitale) e “selezione naturale” (sélection naturelle)31. Dirimente diveniva in tal senso espandere il concetto stesso di “lotta”, non più inteso come mero conflitto interindividuale ma come resistenza collettiva alle forze ambientali. Per autori come lo zoologo Henry de Varigny (1855-1934) e il biologo Jean-Louis de Lanessan (1843-1919), la vita consisteva in una lotta perpetua contro le forze ostili della natura32. Il progresso evolutivo, sottolineava lo zoologo Edmond Perrier (1844-1921), era il risultato dell’associazione e della coordinazione fra le forze individuali, non della competizione malthusiana. Solo capendo ciò i governi avrebbero potuto curare le “piaghe” che affliggevano la società contemporanea.33 Termini come “association pour la vie” e “effort pour la vie” divennero espressione di un’immagine della natura in netto contrasto rispetto al cosiddetto “darwinismo germanico”34, considerato da più parti come l’origine dell’ideologia militarista tedesca e, più o meno implicitamente, come la causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Al tempo stesso, esse andavano a delineare uno spazio teorico ed ideologico contrapposto alla “antroposociologia darwiniana” di stampo elitario, imperialista e razzista promossa da antropologi quali Gustave Le Bon (1841-1931) e George Vacher de Lapouge (1854-1936). Pur nelle loro differenze e specificità teoriche, le interpretazioni “associazioniste” dell’evoluzione sociale convergevano su almeno due aspetti. In primo luogo, l’idea che fossero state le spinte solidaristiche ad aver guidato l’evoluzione umana nel suo lento percorso di emancipazione dallo stato di natura. Tale visione, denominata da Eric Goldman come “darwinismo riformista”35, si fondava a sua volta su una concezione dell’organismo come sistema aperto e dinamico, il cui rapporto con l’ambiente era essenzialmente “performativo”. In altre parole, l’uomo e gli altri viventi non si limitavano a subire la selezione naturale, ma giocavano un ruolo attivo nel costante processo di adattamento alle circostanze di vita. Ciò avrebbe condotto numerosi zoologi, antropologi e sociologi ad abbracciare una visione “ottimistica” dell’evoluzione sociale, all’interno della quale la teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti rappresentava un vero e proprio tramite bioculturale in grado di trasformare le conquiste morali ed intellettuali in «regolarità della natura»36. Migliori erano le condizioni sociali, economiche ed educative, migliori sarebbero diventati i popoli, L.L. Clarck, Social Darwinism in France, in «The Journal of Modern History» 53 (1981), n. 1, pp. D1025-D1044, p. D1029; G. Molina, Darwinisme Français, in P. Tort (a cura di), Dictionnaire du Darwinisme et de L’Evolution, Paris, PUF, 1996, pp. 909-954, p. 943; A. La Vergata, Lamarckisme et solidarité, in C. Blanckaert (a cura di), Le Muséum au premier siècle de son historie, Paris, Muséum National d’Histoire Naturelle, Archives, 1997. 32 Cfr. Clarck, Social Darwinism cit.; La Vergata, Evoluzionismo alla francese cit. 33 E. Perrier, Le Faune des côtes de Normandie, Paris, Association française pour l’avancement des sciences, 1894. 34 Cfr. La Vergata, Evoluzionismo alla francese cit. 35 Cfr. E. Goldman, Rendezvous with Destiny, New York, Vintage, 1956. 36 La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 194. 31 Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 202 accumulando e trasmettendo i progressi conseguiti di generazione in generazione. Alla fine del XIX secolo, tale forma di “ottimismo bio-socio-politico”37 divenne il sostrato teorico di riferimento per istituzioni quali la Societé d’eugenetique e, soprattutto, il Cercle de gymnastique rationnelle fondato a Parigi nel 1881 sotto la supervisione di antropologi e medici vicini alla biologia lamarckiana quali Paul Bert (1833-1886) ed Étienne Jules Marey (1830-1904). Di fatto, la biologia neolamarckiana avrebbe fornito all’educazione fisica un nuovo ruolo sociale, facendo dell’esercizio e dell’addestramento i mezzi primari con cui garantire il costante miglioramento fisico, cerebrale, morale e sociale dei popoli38. La fiducia nella plasticità organica non fu tuttavia unanime e uniforme nel contesto francofono. Botanici come Julien Costantin (1857-1936), ad esempio, sottolinearono quanto fosse in realtà impossibile indurre mutazioni ereditarie in ogni tipo di pianta. Con la nascita della genetica, fra gli anni ’10 e ’30 del XX secolo la tensione fra i concetti di eredità e plasticità aumentò, portando molti biologi francesi a ridimensionare il potere morfogenetico dell’ambiente. Lo stesso Le Dantec iniziò sempre più frequentemente a sostenere che gli organismi andassero incontro a una perdita graduale della plasticità organica all’aumentare della complessità strutturale39. Contro il “potere delle circostanze” invocato dai fautori dell’egalitarismo si sarebbero scagliati i sostenitori della concezione ereditarista e selezionista dell’evoluzione umana come Lapouge: On a attribué à l’éducation un rôle non moins exagéré dans le développement de la moralité et de la religiosité. Cette thèse a été soutenue surtout en Angleterre, et par l’école de H. Spencer. C’est toujours la même confusion entre l’évolution collective et la sélection. […] Améliorer les masses par l’instruction et l’éducation est donc une utopie. De tous les changements de milieu, le moins efficace est le changement de milieu intellectuel. Il ne sert à l’individu que selon sa nature et ne donne rien qui paraisse transmissible par hérédité40. Sostenere simili posizioni non implicava tuttavia negare il potere migliorativo dell’uso e dell’esercizio. Secondo Gustave Le Bon, i caratteri nazionali erano il prodotto dell’azione costante «dello stesso milieu, delle stesse istituzioni, delle stesse credenze» sulle popolazioni. Esse rappresentavano «il risultato delle esperienze e delle Cfr. Conry, Le darwinisme cit. L. Dibattista, Dalla ginnastica “cadaverica” all’educazione fisica “vivificante”. Le basi filosofiche della scuola francese moderna secondo Georges Demenÿ (1850-1917), in H. Gundlach, E. Pérez-Córdoba, M. Sinatra, G. Tanucci (a cura di), L’arte del movimento, Lecce, Pensa MultiMedia, 2012, pp. 77-93, p. 79. Ha scritto a tal proposito Antonello La Vergata: «Nella cura delle deformità, sia congenite sia acquisite, la ginnastica medica era vista come un’applicazione del potere morfogenetico dell’uso e del disuso e delle condizioni d’esistenza», La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 194. 39 L. Loison, The Notions of Plasticity and Heredity among French Neo-Lamarckians (1880 – 1940): From Complementarity to Incompatibility, in S.B. Gissis, E. Jablonka (a cura di), Transformation of Lamarckism, Cambridge, The MIT Press, pp. 67-76. 40 G.V. de Lapouge, Les sélections sociales, Paris, A. Fontemoing Successeur, 1896, pp. 123-125. 37 38 DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 203 azioni di una lunga serie di antenati», ognuno dei quali, però, era vincolato al bagaglio ereditario del proprio lignaggio. L’esistenza di ciascun individuo era indelebilmente segnata dal proprio passato evolutivo e qualunque influenza del milieu acquisita nell’arco di una generazione avrebbe potuto sortire effetti «infinitamente piccoli»41. Il rapporto fra volume cranico e intelligenza fra classi sociali era secondo Le Bon una chiara dimostrazione di quanto i vincoli ereditari influenzassero l’adattabilità individuale. A differenza del contadino, «l’uomo istruito» migliorava «costantemente se stesso trasmettendo al suo lignaggio i progressi acquisiti gradualmente». Per tale ragione, le differenze craniche e intellettive fra membri di classi socialmente distanti erano destinate ad aumentare nel tempo42. Pur trattandosi di una «legge fisiologica» ancora non dimostrata sperimentalmente, era altamente probabile che, come per qualunque altro organo, l’esercizio e la continua sollecitazione potessero influire positivamente sullo sviluppo del cervello. Ciò nondimeno, il potere morfogenetico delle circostanze restava vincolato alla tara ereditaria di ciascun individuo e, più in generale, al passato evolutivo del gruppo sociale ed etnico di appartenenza43. Era la storia a dettare le condizioni di possibilità dello sviluppo individuale. Citando i versi di Daniel Lesueur, Le Bon scriveva: Car le passé de l’homme en son présent subsiste, Et la profonde voix qui monte des tombeaux Dicte un ordre implacable, auquel nul ne résiste44. Le critiche di Le Bon al “meliorismo sociale”, distanti dalla standard view condivisa da politici e accademici coevi, rimasero ai margini della cultura ufficiale repubblicana45. Ciò nonostante, esse evidenziano un aspetto significativo quanto spesso sottovalutato in letteratura. L’adozione della teoria dell’uso e del disuso e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti non fu esclusivamente appannaggio dei sostenitori del riformismo sociale. Almeno fino alla fine del XIX secolo, naturalisti, antropologi e sociologi continuarono a tematizzare il cambiamento organico, umano e sociale ricorrendo a temi e concetti “lamarckiani”, muovendo tuttavia da premesse ideologiche diverse. A fungere da elemento discriminante fu spesso la diversa interpretazione della nozione di “vincolo di sviluppo”. Per i sostenitori delle interpretazioni gerarchiche dell’organizzazione sociale, la teoria lamarckiana poté 41 G. Le Bon, L’influence de la race dans l’histoire, «Revue scientifique» 3a série, 41 (1888), n. 17, pp. 525- 532. 42 G. Le Bon, Researches anatomiques et matématiques sur les lois des variations du volume du cerveau et sur leurs relations avec l’intelligence, in «Revue d’Anthropologie», II (1879), n. II, pp. 27-104, pp. 76-77. 43 Ivi, p. 85 44 Le Bon, L’influence cit. 45 Cfr. Clarck, Social Darwinism cit., p. D1038. Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 204 essere usata tanto per dimostrare lo sviluppo progressivo delle “razze” e delle “classi” superiori, quanto la stagnazione evolutiva dei tipi inferiori. Ciò fu particolarmente evidente nel dibattito antropologico statunitense di fine secolo, dove l’uso del lamarckismo assunse configurazioni ancor più polari. 4. Il lamarckismo sociale nel dibattito antropologico statunitense È stato proprio l’incontro fra il neo-lamarckismo e le scienze sociali statunitensi e a delineare ciò che George Stocking ha definito “lamarckismo sociale”46. Negli anni della cosiddetta “Ricostruzione”, in un paese socialmente e politicamente diviso fra le misure anti-discriminatorie del Civil Rights Act (1875) e le leggi segregazioniste degli stati ex-confederati, il dibattito antropologico assunse una fisionomia ideologicamente complessa che andò intrecciandosi con la cosiddetta “Negro Question”, ovvero il dibattito sulla posizione sociale, civile e politica da riconoscere agli schiavi liberati. Secondo Stocking, fra i principali portavoce del lamarckismo sociale americano vi furono il geologo John Wesley Powell (1834-1902) e, in modo particolare, il sociologo Lester Frank Ward. Questi fu promotore di un progressismo fondato su un’interpretazione cooperazionista dello sviluppo sociale, secondo cui il processo di civilizzazione consisteva nell’interferire con le leggi dell’evoluzione organica. Per Ward, «non vi era nulla di automatico e meccanico nel progresso della civiltà»47. In tal senso, il dibattito sulla civilizzazione dell’africano andava riconfigurato nel quadro di una teoria biologica dinamica e anti-meccanicistica per la quale le circostanze sociali e la trasmissione culturale, mediante l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, influenzavano direttamente l’evoluzione biologica e mentale degli individui, determinando, ed emendando, l’eredità razziale48. Visto all’interno del modello ereditario neo-lamarckiano, anche l’incrocio fra razze poteva esse considerato uno strumento con cui modificare le tare ereditarie. Di fatto, molti riformisti e teorici del lamarckismo statunitensi caldeggiarono il modello del melting-pot come mezzo per garantire il progresso biologico e sociale. Per Ward, ad esempio, il contatto interrazziale rappresentava un fattore benefico che, con il tempo, avrebbe condotto i membri delle due razze a condividere i medesimi obiettivi, cooperare nelle attività commerciali e sociali, incrociandosi fino al raggiungimento di un’omogeneità razziale49. Al tempo stesso, vi furono autori vicini alla biologia neo46 G.W. Stocking Jr., Lamarckianism in American Social Science: 1890-1915, in «Journal of the History of Ideas» 23 (1962), n. 2, pp. 239-256; Id., Race cit. P. Boller, American Thought in Transition, Lanham, University Press of America, ed. 1981, p. 66. Cfr. L.F. Ward, The Transmission of Culture, in «The Forum», XI (1891), pp. 312-319. 49 L. Newman, White Women’s Rights. The Racial Origins of Feminism in the United States, New York-Oxford, Oxford University Press, 1999, p. 49. 47 48 DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 205 lamarckiana che nutrirono più di un dubbio sull’efficacia del miscuglio razziale, convinti che l’unione di tipi umani filogeneticamente troppo distanti avrebbe prodotto varianti inadatte tanto alle condizioni delle razze superiori che a quelle degli inferiori50. Il processo di formazione delle razze umane era un processo lento e, soprattutto, vincolato da limiti antropologici precisi. Il tema del vincolo era stato espresso in modo chiaro da Herbert Spencer. Anche per il filosofo inglese, il cui individualismo metodologico rappresentò per i riformisti americani un argomento di grande dibattito, il miglioramento delle circostanze ambientali era un fattore indispensabile alla civilizzazione. Tuttavia, la questione della “rieducabilità” delle razze più arretrate restava più che mai controversa. Pur occupando un gradino evolutivo più basso, anche i tipi umani più primitivi potevano muoversi lungo la scala gerarchica dei viventi tramite lente e graduali acquisizioni51. Tuttavia, questi sembravano dotati di scarsa plasticità mentale: Many travellers comment on the unchangeable habits of the savages. The semi-civilised nations of the East, past and present, were, or are, characterised by a greater rigidity of custom than characterizes the more civilised nations of the West. The histories of the most civilised nations show us that in their earlier times the modifiability of ideas and habits was less than it is at present. And if we contrast classes or individuals around us, we see that the most developed in mind are the most plastic. To inquiries respecting this trait of comparative plasticity, in its relations to precocity and early completion of mental development, may be fitly added inquiries respecting its relations to the social state, which it helps to determine, and which reacts upon it52. I moniti di Spencer trovarono una notevole diffusione in America53. Molti dei suoi seguaci statunitensi avrebbero messo a tema, fra gli anni ’70 e ’80, il rapporto fra teoria neo-lamarckiana, civilizzazione e limite di sviluppo. A tal proposito, lo storico George Fredrickson ha parlato di “modello filantropico paternalista”54, una visione che, pur opponendosi alle forme più intransigenti di razzismo e suprematismo, reiterava la questione dei limiti di sviluppo nell’africano e dei vantaggi della segregazione sociale e sessuale55. John Fiske (1842-1901), il noto filosofo di Harvard fondatore dell’Immigration Restriction League, ed Edward Drinker Cope rappresentarono alcuni dei più autorevoli sostenitori di questa posizione. Nelle pagine di Outlines of Cosmic Philosophy (1874-1903), Fiske sottolineò come il tipo africano fosse Cfr. J.S. Haller, Outcast from Evolution, Carbondale & Edwardsville, Southern Illinois University Press, 1971, p. 130. 51 R. Bannister, Science and Myth in Anglo-American Social Thought, Philadelphia, Temple University Press, 1979, pp. 188-189. 52 H. Spencer, Comparative Psychology of Man, in «Mind» 1 (1876), pp. 7-20, p. 10. 53 Cfr. Hofstadter, Social Darwinism cit., Haller, Outcast cit., p. 131; Bannister, Science and Myth cit. 54 G.M. Fredrickson, The Black Image in the White Mind: the Debate on Afro-American Character and Destiny, 1817-1914, New York, Harper & Row, 1971. 55 Bannister, Science and Myth cit., p. 188. 50 Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 206 caratterizzato da un brusco arresto nello sviluppo che, di fatto, ne impediva la crescita morale e intellettuale56. Considerare dunque il progresso sociale alla portata di tutte le razze era una fallacia fin troppo diffusa fra i «metaphysical writers»57. Anche per Cope l’arresto dello sviluppo era fatale per “mongoli” e “neri”. Forse, in un lontano futuro l’africano avrebbe potuto migliorare le sue abilità cognitive e le sue disposizioni morali, giacché lo stato d’inferiorità non rappresentava una condizione necessariamente permanente. Tuttavia, l’evoluzione biologica, e con essa quella mentale e sociale, era un processo lento e irreversibile contro il quale poco potevano fare i «pacifisti» e i «socialisti» portavoce dei diritti civili agli afroamericani. I segni della stagnazione evolutiva in cui versavano i freedmen era, per Cope, l’esito dell’adattamento ai climi caldi dei loro antenati, il quale aveva accelerato il definirsi delle suture craniche con il conseguente squilibrio fra l’area mandibolare-mascellare e quella encefalica58. Con la maturazione sessuale, la mente dell’africano andava incontro a un’eclissi inesorabile59. La critica di Cope al meliorismo sociale può sembrare paradossale se si considera che a muovere alcune delle critiche più sferzanti al potere morfogenetico dell’ambiente fu proprio il maggiore esponente della biologia neo-lamarckiana statunitense del XIX secolo60. Ciò è in parte dovuto al fatto che si è tradizionalmente più propensi ad associare fenomeni come il “razzismo scientifico” e l’eugenetica al darwinismo sociale61. Il lamarckismo sociale non fu un fenomeno teoricamente e ideologicamente omogeneo, tantomeno esso fu usato esclusivamente in difesa di visioni egalitarie. Sostenere che le popolazioni umane abbiano acquisito la propria costituzione fisica e mentale “epigeneticamente” 62 non rende una teoria implicitamente meno razzista di quanto non lo faccia qualsivoglia interpretazione ereditarista e selezionista dell’evoluzione umana. Per autori come Le Bon, Fiske e Cope la “legge dell’esercizio” e l’abitudine a sollecitazioni ambientali tempranti era condizione necessaria, ma non sufficiente, al progresso morale e sociale, dal momento che non tutti i membri della specie umana godevano della stessa plasticità. 56 Cfr. J. Fiske, Outlines of Cosmic Philosophy, IV, Boston-New York, Houghton, Mifflin and Company, pp. 3-4. 57 Cfr. J. Fiske, Outlines of Cosmic Philosophy, III. Boston-New York, Houghton, Mifflin and Company, pp. 285-286. 58 D. Ceccarelli, L’evoluzionismo anti-darwiniano in America. Fra scienza e ideologia, Roma, CNR Edizioni, 2019, p. 98. 59 E.D. Cope, Two Perils of the Indo-European - Part I, in «The Open Court» 3 (1890), n. 126, pp. 2052-2053, p. 2053. 60 H. Gershenowitz, Edward Drinker Cope, Father Of American Neo-Lamarckism, Camden, Camden, County Historical Society Bulletin. 61 Stocking, Race cit., p. 250. 62 Sul rapporto storico ed epistemologico fra i concetti di “epigenesi”, “epigenetica” e “lamarckismo” cfr. D. Ceccarelli, B. Continenza, Introduction. The Epigenetic Perspective between Philosophy and Life Sciences, in «Paradigmi», 3 (2020), pp. 393-407. DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 207 Le stesse versioni riformiste del lamarckismo sociale finirono spesso con il sostanziare l’idea che fra razze umane esistessero differenze qualitative stratificatesi nei lunghi tempi dell’evoluzione. Per il sociologo americano Paul Samuel Reinsch (1869-1923), esaminare lo scarto fra le qualità mentali delle popolazioni aborigene e quelle acquisite dagli afroamericani rappresentava il modo migliore per affrontare la “Negro Question”. L’evoluzione regressiva dell’africano era dovuta, secondo Reinsch, al «basso livello di organizzazione sociale» delle sue comunità originarie. Gli africani del Sudan occidentale, ad esempio, vivevano secondo un’organizzazione matriarcale che, combinata con la pratica della poligamia, rendeva «impossibile costruire famiglie forti» e uomini «leader»63. Le disposizioni mentali e caratteriali dell’africano moderno rispecchiavano la sua evoluzione bioculturale: un precoce appetito sessuale dovuto alla necessità di lasciare più progenie possibile in un territorio ostile, scarsa propensione alle arti meccaniche e figurative, buona attitudine al commercio nonché una predisposizione all’arte oratoria. Se nelle principali università americane vi erano giovani neri nella posizione di «class orators», ciò era dovuto al fatto che, nei villaggi africani, la trasmissione culturale avveniva quasi esclusivamente in forma orale64. I «barbari costumi» degli africani avevano condotto molti studiosi a negare loro qualunque possibilità di avanzare sulla scala della civilizzazione. La ragione fisiologica più frequentemente addotta, precisava Reinsch, era la precoce chiusura delle suture craniche durante la pubertà e il conseguente arresto nello sviluppo cerebrale e mentale. Ciò nonostante, credere che l’africano fosse condannato a uno stato di inciviltà permanente era una conclusione avventata. Al tempo stesso, l’evoluzione delle popolazioni africane doveva essere valutata in tutta la loro complessità storica e sociale: The difference between the average negro and the average European does not explain, nor is it at all commensurate to, the difference between their respective civilizations. The social conditions that have kept the negro from acquiring a higher organization lie in the fact of the constant shifting of the African populations, which are not held in place by the physical conform nation of territory such as that of Greece and Italy. The African societies were thus not given time to strike roots and to acquire a national tradition and history – the memory of races – which is one of the chief ingredients of civilization65. Era d’altra parte possibile che la struttura cranica degli africani potesse essere influenzata dalle condizioni sociali, politiche ed economiche. Nella peggiore delle ipotesi, e indipendentemente dai limiti di sviluppo, l’esposizione a influenze positive dopo la pubertà avrebbe comunque potuto comportare uno sviluppo progressivo. P.S. Reinsch, The Negro Race and European Civilization, in «American Journal of Sociology», 11 (1905), n. 2, pp. 145-167, p. 149. 64 Ivi, p. 152. 65 Ivi, pp. 154-155. 63 Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 208 Per Reinsch, l’uomo bianco aveva il compito di istituire modelli di «imitazione sociale» guardando a tipi afroamericani migliori. La strada era quella indicata da politici «lungimiranti» come il Presidente Theodore Roosevelt: tenere aperte «le porte della speranza». Ciò, precisava però il sociologo, non significava rivendicare l’uguaglianza sociale fra razze. Più semplicemente, non poteva esserci «miglior servigio» per la razza africana «che riconoscere i suoi uomini migliori», per le «qualità della mente e di spirito», ai quali non si doveva precludere la possibilità di inseguire le proprie ambizioni per il solo colore della pelle66. Pur giungendo a conclusioni diverse sul piano politico e normativo, tanto i fautori del segregazionismo quanto gli esponenti del modello filantropico paternalista sembrarono usufruire dalla medesima nozione di “plasticità di gruppo”. Le condizioni di evolvibilità, e dunque la ricettività stessa ai modelli educativi della società occidentale, rappresentavano qualità intrinsecamente razziali, frutto dalla storia evolutiva dei popoli. 5. Conclusione Fra XIX e XX secolo, il riformismo sociale, nei suoi vari appelli al valore della “resistenza collettiva”, dell’“associazione” o, per usare un’espressione del filosofo anarchico Pëtr Kropotkin, del “mutuo appoggio”, trovò nel trasformismo biologico un importante sostrato teorico e concettuale. Al tempo stesso, i richiami alle teorie dell’uso e del disuso e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti furono utilizzate per giustificare visioni gerarchiche dell’ordine sociale. Invocare le dottrine lamarckiane fu, a ben vedere, un atteggiamento «sovra-disciplinare», «sovrannazionale»67 e metaideologico che trovò in Francia e negli Stati Uniti un terreno particolarmente fertile, influenzandone per decenni il dibattito nelle scienze naturali e sociali. L’affermarsi della genetica e della teoria ereditaria mendeliana comportò certamente un’importante riconfigurazione del dibattito sull’evoluzionismo sociale nel corso del Novecento. La messa in discussione dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, il tramite bioculturale che per decenni aveva reso immaginabile un nesso causale diretto fra progresso culturale e progresso biologico, determinò la separazione fra i concetti di eredità biologica e apprendimento sociale. Ciò ebbe almeno due effetti significativi: favorire l’emancipazione epistemologica delle scienze sociali rispetto alla biologia e, al tempo stesso, inaugurare una nuova stagione del dibattito sull’evoluzionismo sociale in cui progresso biologico e sociale viaggiavano su binari paralleli, ma separati. La stessa distinzione novecentesca fra “eugenetica” 66 67 Ivi, pp. 166-167. La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 185. DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25 Che cos’è il lamarckismo sociale ? 209 ed “eutènica”68, ovvero tra il miglioramento della razza attraverso la regolazione degli incroci e l’istituzione di modelli educativi e culturali tempranti, testimonia la necessità di ripensare il meliorismo sociale a seguito della caduta dei modelli ereditari pre-mendeliani. Nell’era della postgenomica, la ricerca sui meccanismi ereditari epigenetici e il conseguente riaffiorare di tematizzazioni sistemiche e multifattoriali del cambiamento biologico hanno stimolato una significativa riflessione filosofica ed epistemologica che, in parte, ha ravvisato il riemergere di nuove forme di biologismo “dinamico”. Soprattutto nell’ambito della cosiddetta “epigenetica sociale” e degli studi epidemiologici sul rapporto fra status socioeconomico e sviluppo di condizioni patologiche quali obesità o disturbi metabolici, si assisterebbe a una nuova biologizzazione delle differenze culturali 69 . Smarcatasi dal riduzionismo genetico classico, la ricerca postgenomica avrebbe dunque reintrodotto un’interpretazione costruttivistica del concetto di razza, per la quale gli effetti ereditabili incorporati dall’ambiente (stress, alimentazione e stile di vita) rappresenterebbero “caratteristiche biologiche relativamente stabili” all’interno delle popolazioni umane70. Il rapporto fra epigenetica e il lamarckismo sociale è tema di dibattito fra gli storici e i filosofi della biologia contemporanei. Che vi sia o meno una continuità teorica ed epistemologica fra di essi, ci sembra opportuno sottolineare quanto, allora come oggi, il biologismo rappresenti un atteggiamento non strettamente riconducibile a uno specifico modello teorico. Considerare il lamarckismo sociale come un fenomeno in qualche modo distinto dal determinismo biologico 71 rappresenta una forzatura storica e concettuale. Come ha osservato Stocking, se i sostenitori dell’ereditarismo vedevano nella costituzione mentale e nei tratti culturali dei popoli nient’altro che fenotipi trasmissibili alla stregua di qualunque altro carattere somatico, per i lamarckiani il culturale si traduceva regolarmente nel biologico. Rimarcando il potere morfogenetico delle circostanze di vita, il lamarckismo sociale fu manifestazione di un biologismo dinamico i cui usi ideologici furono tutt’altro che omogenei e il cui potenziale razzista poteva essere facilmente Eugenetica ed eutènica, scrisse l’evoluzionista americano Henry F. Osborn, rappresentavano campi inseparabili della moderna «sfida umanitaria» per il progresso sociale, Cfr. H.F. Osborn, Creative education in school, college, university, and museum, New York, Charles Scribner’s Sons, 1927, pp 306-307. 69 M.R. Waggoner, T. Uller, Epigenetic determinism in science and society, «New genetics and Society», 34 (2015), n. 2, pp. 117-195; J. Baedke, A.N. Delgado, Race and nutrition in the New World: Colonial shadows in the age of epigenetics, «Studies in History and Philosophy of Science Part C: Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 76 (2019), 101175. 70 M. Meloni, Race in an epigenetic time: Thinking biology in the plural, «British Journal of Sociology», 68 (2017), n. 3, pp. 389-409. 71 Si veda ad esempio P.T. Merricks, Religion and Racial Progress in Twentieth-Century Britain: Bishop Barnes of Birmingham, Cham, Palgrave Macmillan, pp. 75-80; E. Slavet; Freud’s “Lamarckism” and the Politics of Racial Science, in «Journal of the History of Biology» 41 (2008), n. 1, pp. 37-80. 68 Suite française 4/2021 – Secondo Natura David Ceccarelli 210 innescato tramite l’argomento del “limite di sviluppo”. Ereditarismo e lamarckismo hanno verosimilmente occupato due posizioni diverse nello spettro teorico del determinismo biologico. Quando applicate al dibattito politico, la discrepanza fra tali tesi si è spesso tradotta in una diversa fiducia nell’emendabilità dei medesimi caratteri socialmente indesiderati. DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25