4/2021
Secondo Natura
pp. 193-210
ISSN: 2611-9757
DOI: 10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Che cos’è il lamarckismo sociale?
David Ceccarelli
In the 1960s, historians introduced the expression “social Lamarckism” to better identify
several forms of evolutionary social theories that had emerged between the XIX and the XX
centuries. Notably, social Lamarckism became popular in the reformist atmosphere of the
French Third Republic as well as in American social sciences. Within the same social and
political contexts, however, advocates of social hierarchy also referred to the Lamarckian
mechanisms of evolution. The paper aims to show that such different articulations of social
Lamarckism depended on the way biologists and social scientists used the notion of
“developmental constraint”.
Keywords: Social Lamarckism – Social Darwinism – Developmental Constraint – Le Bon – Reinsch
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. Darwinismo e lamarckismo sociale
Nella seconda metà del XIX secolo, la teoria dell’evoluzione divenne il principale
strumento euristico con cui analizzare i cambiamenti interni alla società industriale.
L’uso dei concetti di adattamento ambientale, lotta per l’esistenza, selezione naturale
e sopravvivenza del più adatto nell’interpretazione delle dinamiche sociali è divenuto
noto come “darwinismo sociale”, espressione che è stata oggetto di un lungo e
complesso dibattito storiografico. Ancora oggi, il termine ricorre nel discorso pubblico
con accezione prevalentemente negativa, spesso allo scopo di censurare giustificazioni
biologistiche di scelte politiche ed economiche, o per condannare forme più o meno
radicali di laissez-faire1. L’ambiguità del termine e il fatto stesso di rappresentare un
A pochi mesi dallo scoppio della pandemia di COVID-19, sono stati gli appelli all’immunità di
gregge del Primo Ministro Inglese Boris Johnson e del consigliere scientifico dell’esecutivo Patrick
Vallance a essere etichettati dalla stampa internazionale come esempio di darwinismo sociale, cfr. UK
coronavirus response utterly hypocritical, says UN poverty expert, in «The Guardian», 26 aprile 2020.
1
David Ceccarelli – Università de Roma 2 – david.ceccarelli@uniroma2.it
David Ceccarelli
194
fenomeno epistemologicamente e storicamente complesso dove i linguaggi delle
scienze sociali e naturali si sovrappongono hanno fatto del darwinismo sociale un
oggetto d’analisi privilegiato da parte degli storici della scienza e delle idee.
Esistono ormai numerosi studi sul darwinismo sociale e sulle sue configurazioni
ideologiche nei vari contesti culturali e politici nazionali fra XIX e XX secolo2. Il
quadro che ne risulta è spesso sconcertante per eterogeneità e contraddittorietà, dal
momento che i medesimi termini furono adottati contro obiettivi polemici e posizioni
ideologiche differenti. Come ha sottolineato lo storico delle idee Antonello La
Vergata, «vi fu un darwinismo sociale liberista […], uno solidaristico, uno statalista
conservatore, uno nazionalista, uno militarista, uno pacifista, uno socialista, uno
anarchico»3. Gli usi del termine furono tanto eterogenei quanto i modi di interpretare
il cambiamento sociale mutuando teorie e concetti dalla nascente biologia
evoluzionistica. L’appello alla selezione naturale, soprattutto nell’accezione
spenceriana di “sopravvivenza del più adatto”, fu certamente uno dei tratti distintivi
dell’evoluzionismo sociale di fine Ottocento. Altrettanto frequentemente, però, a
essere estrapolate e applicate allo studio delle dinamiche sociali furono idee
predarwiniane del cambiamento biologico. È anche per tale ragione che, a partire
dagli anni Sessanta dello scorso secolo, alcuni storici hanno introdotto il termine
“lamarckismo sociale”.
Una prima trattazione del legame fra scienze sociali e teoria lamarckiana
dell’evoluzione è stata condotta dallo storico dell’antropologia George W. Stocking.
Fra il 1962 e il 1968, Stocking ha sottolineato quanto gli storici avessero fino ad allora
minimizzato il peso dei richiami alle idee di Jean-Baptiste Lamarck all’interno del
dibattito antropologico di fine Ottocento4, soprattutto fra coloro che si opponevano al
darwinismo sociale di matrice liberista basato sull’esaltazione della concorrenza
individuale. Nei decenni successivi, l’espressione “lamarckismo sociale” ha iniziato a
riscuotere un certo successo in letteratura, senza tuttavia scalzare il suo equivalente
“darwiniano”, venendo di fatto classificato come sottoprodotto di quest’ultimo5. Ciò è
quantomeno interessante, dal momento che la diffusione di evoluzionismi sociali
basati sui cosiddetti principi “lamarckiani” fu capillare, in Europa come in Nord
America, fra i due secoli.
Varie ragioni sono state addotte per spiegare la circolazione relativamente limitata
Cfr. R. Hofstadter, Social Darwinism in American Thought, Massachusetts, Beacon Press, ed. 1992;
L.L. Clarck, Social Darwinism in France, Tuscaloosa, University of Alabama Press, 1984; A. La Vergata,
Evoluzionismo alla francese contro darwinismo alla tedesca, in «Paradigmi» 29 (2011), n. 2, pp. 67-87. Vedi
anche E.-M. Engels, T.F. Glick (a cura di), The Reception of Charles Darwin in Europe, London,
Continuum, 2008.
3 A. La Vergata, Colpa di Darwin? Razzismo, eugenetica e altri mali, Novara, UTET, p. 76.
4 G.W. Stocking Jr., Race, Culture, and Evolution. Essays in the History of Anthropology, Chicago and
London, University of Chicago Press, 1968, p. 234.
5 P.J. Bowler, The Eclipse of Darwinism: Anti-Darwinian Evolution in the Decades Around 1900, Baltimore,
Johns Hopkins University Press, p. 18.
2
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
195
della nozione di “lamarckismo sociale”. In primo luogo, a differenza della controparte
“darwiniana” già ampiamente in uso negli anni ’80 del XIX secolo, il termine
rappresenta un prodotto della storiografia contemporanea, il che ha reso arduo
risemantizzare concetti codificati e stratificati nella letteratura specialistica e non. Si è
poi sottolineato quanto il fatto di invocare il darwinismo per descrivere qualunque
visione evoluzionistica del cambiamento biologico e sociale, a prescindere dalle sue
specificità teoriche, abbia inevitabilmente penalizzato la diffusione di interpretazioni
alternative. Secondo David N. Livingstone, un uso così vago e generalizzato, per altro
avallato da almeno una generazione di storici, ha finito con l’appiattire la complessità
del dialogo fra scienze naturali e sociali, oscurando forme di evoluzionismo al tempo
altrettanto diffuse6. Che il termine “darwinismo sociale” sia stato una categoria
storiografica spesso fuorviante è quanto ha rilevato anche lo storico della biologia
Peter J. Bowler. Studi classici come quello di Richard Hofstadter Social Darwinism in
American Thought (1944) hanno fatto sì che un autore come Herbert Spencer (18201903), portavoce di una filosofia evoluzionistica fondata sul principio di adattamento
diretto all’ambiente, venisse considerato il maggiore esponente del darwinismo sociale
e, al tempo stesso, un “lamarckiano”7.
Allora come oggi, quasi ogni riferimento ai concetti di evoluzione, progresso o lotta
viene percepito come intrinsecamente darwiniano, che vi sia o meno una connessione
diretta con il pensiero di Charles Darwin8. D’altra parte, autori come lo storico Paul
Crook hanno contestato la tendenza a prediligere interpretazioni restrittive del
concetto di darwinismo sociale. Seconda questa prospettiva, derubricare come “non
darwiniani” gli evoluzionismi sociali ispirati al lamarckismo risulterebbe quantomeno
problematico dal momento che lo stesso Darwin considerò i principi formulati da
Lamarck come meccanismi ausiliari nell’evoluzione biologica9.
Vi è tuttavia un’altra possibile ragione alla base della limitata diffusione
dell’espressione “lamarckismo sociale”, ed è il fatto di essere non meno ambigua della
sua controparte “darwiniana”. Il lamarckismo sociale non fu uno spazio teorico
omogeneo, ma un mosaico di visioni socio-politiche e teorie biologiche diverse10. I
6 J.A. Campbell, D.N. Livingstone, Neo-Lamarckism and the Development of Geography in the United States
and Great Britain, in «Transactions of the Institute of British Geographers» 8 (1983), n. 3, pp. 267-294,
269; Id., Evolution, science and society: Historical reflections on the geographical experiment, in «Geoforum» 16
(1985), n. 2, pp. 119-130.
7 P.J. Bowler, Eclipse cit., p. 18; Id., Social Metaphors in Evolutionary Biology, 1870-1930: The Wider
Dimension of Social Darwinism, in S. Maasen, E. Mendelsohn, P. Weingart (a cura di), Biology as Society,
Society as Biology; Metaphors, Dordrecht, Springer, 1994, pp. 107-126.
8 P.J. Bowler, Darwin Delated. Imagining a World without Darwin, Chicago, The University of Chicago
Press, 2013.
9 Cfr. P. Crook, Social Darwinism: The Concept, in «History of European Ideas» 22 (1996), n. 4, pp.
261-274, 262
10 Cfr. A. La Vergata, Il lamarckismo fra riduzionismo biologico e meliorismo sociale, in Lamarck e il
Lamarckismo. Atti di convegno (Napoli, 1-3 dicembre 1988), Reggio Calabria, La Città del Sole, 1995, pp.
183-219.
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
196
richiami alla teoria lamarckiana caratterizzarono tanto le opere dei riformisti fautori
dell’“ottimismo bio-sociopolitico”11, quanto gli scritti di chi sostenne concezioni
gerarchiche dell’organizzazione sociale. Ciò rende forse ancor più necessario
interrogarsi sul fenomeno del lamarckismo sociale e sulle sue articolazioni storiche. In
particolare, il presente contributo intende evidenziare come, a fungere da elemento
discriminante, fu soprattutto la diversa tematizzazione della nozione di “vincolo di
sviluppo”.
2. Dal lamarckismo al neo-lamarckismo
Poche figure hanno avuto un’influenza sulla storia delle scienze naturali pari a quella
di Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829). La sua eredità intellettuale, anche e
soprattutto per le implicazioni filosofiche sottese, fu vasta quanto controversa,
incontrando a più riprese, e per ragioni spesso diverse, fasi di consenso e biasimo da
parte della comunità scientifica. Le teorie di Lamarck sono state definite come «nude»
e «tristi», «assurdità», prodotto di «pura immaginazione», «originali» ed «eroiche»12.
Analogamente, la qualifica di “lamarckiano” ha avuto accezioni eterogenee nel corso
del tempo, talvolta contrassegnando programmi di ricerca di successo, altre ancora
divenendo un marchio d’infamia.
È noto che Lamarck si avvicinò alla zoologia quasi da neofita. Egli si sarebbe
principalmente dedicato agli studi di botanica, seguendo i corsi di Louis Guillaume Le
Monnier e Antoine-Laurent de Jussieu al Jardin de Roi parigino, nonché alla geologia
e alla meteorologia. L’affidamento nel 1793 del corso di “Zoologia degli insetti, dei
vermi e degli animali microscopici” al Muséum d’histoire naturelle di Parigi fu
l’occasione per entrare nel dibattito zoologico contemporaneo. Lo studio degli
“invertebrati”, termine che egli stesso coniò nel 1794, si sarebbe rivelato di grande
importanza nella maturazione della sua teoria sulla trasformazione dei viventi.
Secondo alcuni storici, fu proprio il confronto con una categoria tassonomica ancora
così vaga, ma al tempo stesso ricca di esemplari fossili, a favorire un’interpretazione
della storia naturale in termini di serie graduate di strutture sempre più complesse13.
Cfr. Y. Conry, Le darwinisme social existe-t-il?, in «Raison présente» 66 (1993), pp. 17-40.
Si veda rispettivamente C.-A. de Sainte-Beuve, Volupté, Paris, Eugène Renduel, 1834, pp.150151; C.R. Darwin, Notebook C, febbraio 1838-luglio 1838, p. 63, www.darwin-online.org.uk; J. Fleming,
Review of J. E. Bicheno’s On Systems and Methods in Natural History, in «The Quarterly Review» 41 (1829),
pp. 302-328, 321; A.S. Packard, Lamarck, the Founder of Evolution, New York, Longmans, Green, and Co.,
1901, p. VII.
13 Cfr. R.W. Burkhardt, The Spirit of System. Lamarck and Evolutionary Biology, Cambridge, Harvard
University Press; E. Mayr, The Growth of Biological Thought, Cambridge, The Belknap Press of Harvard
University, 1982, pp. 346-347; G. Barsanti, Una lunga pazienza cieca, Torino, Einaudi, 1995; Id.,
Introduzione: una grande rivoluzione di sintesi, in G. Barsanti (a cura di), Filosofia zoologica e altri naturalia,
Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2020, pp. 9-61.
11
12
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
197
Integrando i dati raccolti nel lavoro di classificazione al Musèum, e di fatto
proponendo una sintesi delle idee e dei principi proto-evoluzionistici diffusi nella
cultura illuminista francese degli idéologues14, Lamarck espose le sue note “leggi” del
cambiamento biologico nella Philosophie zoologique (1809). Qui, egli sostenne che ogni
organismo era inserito e “attraversato” dal proprio ambiente (milieu), il quale poteva
influire in modo più o meno diretto sulla distribuzione dei fluidi corporei (sangue,
linfa, fluidi nervosi). Gli organismi “apatici”, dotati di un sistema nervoso elementare,
“subivano” il proprio ambiente, che ne modificava la fisiologia e l’anatomia in modo
diretto. Secondo Lamarck, Infusori, Radiati, Tunicati e Polipi potevano essere
tuttalpiù soggetti a “irritazione” che, tuttavia, non comportava la percezione di dolore
o piacere. Solo in presenza di un sistema nervoso più complesso le sollecitazioni
ambientali venivano mediate da un ambiente “interno”. Al variare del milieu extérieur,
il milieu intérieur degli organismi “sensibili” e “intelligenti” reagiva dapprima con
l’insorgere di nuove sensazioni, e successivamente attraverso la percezione di nuovi
bisogni (besoins). Tale necessità innescava nuovi comportamenti (actions) e abitudini
(habitudes/manières de vivre) che, reiterate in una fase in cui l’animale «non abbia
raggiunto il termine del suo sviluppo» 15 , ne alteravano la struttura anatomica
modificando progressivamente la distribuzione e l’afflusso dei fluidi corporei. A ciò,
divenuta nota come legge dell’“uso e del disuso”, Lamarck aggiunse:
Tutto ciò che la natura ha fatto acquisire o perdere agli individui mediante l’influenza
delle circostanze cui la loro popolazione si è trovata per molto tempo esposta, e
conseguentemente per effetto dell’uso predominante di quel tal organo, o per la mancanza
costante di uso di quel tal altro, essa lo conserva mediante la riproduzione nei loro
discendenti, purché i cambiamenti acquisiti siano comuni ai due sessi, o almeno a coloro
che generano i nuovi individui16.
Nei decenni successivi alla pubblicazione della Philosophie zoologique, e in particolare
fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la “seconda legge” di Lamarck, nota come
teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti, è spesso divenuta sinonimo di
“lamarckismo”. Ciò nonostante si trattasse di un’idea diffusa nel senso comune e che
molti naturalisti, a partire da Darwin, diedero quasi per scontata fino alla fine del
XIX secolo17. Proprio per il fatto di aver fornito un impianto sistematico a idee e
Hawkins, The Distinctiveness of Social Darwinism, in Social Darwinism in European and American
thought, 1860-1945: Nature as Model and Nature as Threat, Cambridge, Cambridge University Press, 1997,
pp. 39-58.
15 J.B. Lamarck, Philosophie zoologique, Paris, Dentu, 1809; trad. it. Filosofia zoologica, Milano-Udine,
Mimesis Edizioni, 2020, p. 214.
16 Ivi, pp. 214-215.
17 R.W. Burkhardt, Lamarck, Evolution, and the Inheritance of Acquired Characters, in «Genetics»
194 (2013), n. 4, pp. 793-805; P. Corsi, The Age of Lamarck: Evolutionary Theories in France 1790-1830,
Berkeley, University of California Press, 1988; P. Corsi, J. Gayon, G. Gohau, Gabriel, S. Tirard (a cura
di), Lamarck, philosophe de la nature, Paris, PUF, 2005.
14 M.
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
198
“convincimenti” di lunga data18, il nome di Lamarck finì con l’essere associato a
teorie eterogenee. Ciò avvenne in particolare dagli anni ’80 del XIX secolo quando,
con il progressivo sclerotizzarsi del dibattito evoluzionistico e la nascita del fronte
“neo-darwiniano”, i richiami e i tributi a Lamarck divennero comuni fra coloro che si
autoproclamarono, a vario titolo, “neo-lamarckiani”.
Soprattutto nel contesto francofono, il neo-lamarckismo rappresentò un
atteggiamento teorico estremamente resiliente e duraturo, influenzando tanto la
pratica scientifica quanto la formazione in biologia evoluzionistica fino agli anni ’70
dello scorso secolo19 . Le ragioni della resistenza al darwinismo da parte della
comunità scientifica francese sono state più volte esaminate dagli storici. Spesso si è
sottolineato quanto l’ipotesi della trasformazione delle specie fosse già ampliamente
discussa in Francia al tempo della pubblicazione dell’Origin of Species (1859). Darwin
sarebbe stato in tal senso dipinto come il «prosecutore di una grande tradizione»
iniziata da Diderot, Lamarck e dall’anatomista Geoffroy Saint-Hilaire20. Nel 1882,
l’anno della scomparsa di Charles Darwin, la Società di Antropologia parigina,
fondata da Paul Broca nel 1859, avrebbe inaugurato i cosiddetti “incontri sul
trasformismo”, termine che sempre più diffusamente divenne sinonimo di
evoluzionismo nell’ambiente francofono21.
L’immagine positivistica della scienza quale attività necessariamente sperimentale
avrebbe altresì rappresentato un ulteriore ostacolo alla diffusione del darwinismo in
Francia22. Negli anni del dibattito post-darwiniano, furono numerosi i programmi di
ricerca “neo-lamarckiani” improntati alla metodologia sperimentale. Nonostante le
differenze teoriche in campo, il loro punto di convergenza era il medesimo: il
principio darwiniano della selezione naturale presentava limiti epistemologici non
trascurabili. In primo luogo, essa non forniva una spiegazione efficace dell’origine
fisiologica di nuove strutture. Inoltre, il “lungo ragionamento” darwiniano non
contemplava il ricorso alla sperimentazione23. Autori come lo zoologo Edmond
Perrier (1844-1921), il botanico Gaston Bonnier (1853–1922), lo zoologo Alfred Giard
(1846-1908) e il suo discepolo Fèlix Le Dantec (1869-1917) promulgarono forme
Barsanti, Una lunga pazienza cieca cit., p. 151.
Cfr. Y. Conry, L’Introduction du darwinisme en France au XIXe siècle. Paris, Vrin, 1974; J. Gayon,
Darwin and Darwinism in France before 1900, in M. Ruse (a cura di), The Cambridge Encyclopedia of Darwin and
Evolutionary Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 2013, pp 243-249; L. Loison, French Roots
of French Neo-Lamarckisms, 1879-1985, in «Journal of the History of Biology» 44 (2011), pp. 713-744; L.
Loison, E. Herring, Lamarckian Research Programs in French Biology (1900-1970), in R.G. Delisle (a cura di)
The Darwinian Tradition in Context, Cham, Springer, 2017, pp. 243-242.
20 Si veda in particolare l’elogio funebre a Darwin pubblicato sul «Bulletins de la Sociétà
d’Anthropologie», cfr. R.E. Stebbins, France, in T.F. Glick (a cura di), The Comparative Reception of
Darwinism, Chicago, The University of Chicago Press, 1988, pp 117-163, 155.
21 Cfr. J. Harvey, Darwin in a French Dress: Translating, Publishing and Supporting Darwin in NineteenthCentury France”, in The Reception of Charles Darwin in Europe cit., pp. 354-374, 373.
22 Cfr. Bowler, The Eclipse cit., pp. 107-109.
23 Cfr. Loison, Herring, Lamarckian Research Programs cit., pp. 246-248.
18
19
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
199
diverse di “lamarckismo” di stampo eminentemente materialistico e meccanicistico,
sottolineando l’importanza di un approccio sperimentale allo studio dell’evoluzione
biologica. È in questo contesto che il filosofo Henri Bergson (1859-1941) svilupperà la
sua critica verso quella «biologia puramente meccanicistica» pronta a far coincidere
«l’adattamento passivo di una materia inerte che subisce l’influenza dell’ambiente e
l’adattamento attivo di un organismo che trae da questa influenza il proprio
vantaggio» 24 . Paradossalmente, Bergson avrebbe individuato nella tradizione
evoluzionistica statunitense, e non in quella francofona, la forma più virtuosa di neolamarckismo, in particolare guardando all’opera del paleontologo americano Edward
Drinker Cope (1840-1897), fra i pochi ad aver ammesso «un principio interno e
psicologico di sviluppo» 25 . Secondo Cope, infatti, i processi di adattamento
ambientale presupponevano una forma di sensibilità consustanziale ai viventi, a
partire dalla quale gli organismi potevano rispondere alle pressioni ambientali
adottando nuovi schemi comportamentali e modificando la propria struttura
attraverso l’uso e il disuso. Una tale forma di «vitalismo lamarckiano», ha
riconosciuto l’epistemologo Georges Canguilhem, parve in parte più fedele «allo
spirito della sua dottrina» rispetto al «meccanicismo dei neo-lamarckiani francesi»26,
anche se, a ben vedere, per Lamarck le facoltà del sentir non rappresentarono mai una
proprietà intrinseca alla materia vivente27.
Che il neo-lamarckismo sia stato un ritorno alle dottrine di Lamarck è un tema
particolarmente dibattuto in storiografia. Di fatto, molti degli evoluzionisti definitisi a
vario titolo “neo-lamarckiani”, in Francia come in Nord America, lo fecero senza
aver mai letto Lamarck. Inoltre, il trasformismo non conobbe un vero e proprio
arresto durante la prima metà del XIX secolo, ma anzi si diffuse in modo carsico nel
pensiero biologico trovando spazio, come noto, nella stessa teoria darwiniana.
L’appello a Lamarck non fu dunque un ritorno a idee obsolete, ma piuttosto il
radicalizzarsi di concettualizzazioni del cambiamento biologico largamente diffuse, in
parte catalizzato dal programma di ricerca del biologo tedesco August Weismann
(1834-1914), divenuto noto come “neo-darwinismo”, e dall’idea che il materiale
ereditario rappresentasse una sostanza “segregata” e inalterabile durante lo sviluppo.
Le tesi di Weismann esercitarono un’influenza straordinaria sul dibattito biologico
di fine secolo, innescando reazioni avverse tanto sul piano scientifico che su quello
H. Bergson, L’Évolution créatrice, Paris, Alcan, 1907; trad. it. L’evoluzione creatrice, Milano, BUR,
2012, p. 75.
25 Ivi, pp. 80-81.
26 G. Canguilhem, La Connaissance de la vie, Paris, Vrin, 1965; trad. it. La conoscenza della vita, Bologna,
Il Mulino, 1976, p. 194. Secondo Laurent Loison, nel corso del Novecento molti neo-lamarckiani
francesi avrebbero rivalutato l’autonomia e la reattività dei sistemi viventi, contrapponendosi al
trasformismo meccanicistico del secolo precedente, cfr. Loison, French Roots cit.
27 Cfr. B. Baertschi, Diderot, Cabanis and Lamarck on Psycho-Physical Causality, in «History and
Philosophy of the Life Sciences» 27 (2015), n. 3/4, pp. 451-463.
24
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
200
ideologico e culturale. Il “neo-darwinismo” fu considerato come il colpo di grazia per
chiunque tentasse di giustificare biologicamente il progresso intellettuale e morale
dell’uomo 28 . Le implicazioni della dottrina neo-darwiniana, scrisse il sociologo
americano Lester Frank Ward (1841-1913), erano quanto di più pernicioso: «smettete
di educare», poiché si tratta di «una mera perdita di tempo contro le più profonde e
immodificabili forze della natura»29. Fra XIX e XX secolo, invocare il nome di
Lamarck significò spesso salvaguardare una vera e propria Weltanschauung. È in questo
contesto che si svilupperà il dibattito sul cosiddetto “lamarckismo sociale”.
3. Il trasformismo sociale negli anni della Terza Repubblica
Scrisse nel 1880 il giornalista anarchico Emilie Gautier (1853-1937):
Il faut changer le lit du progrès, canalisé jusqu’ici au profit seulement do quelques
domaines seigneuriaux; il faut travailler à briser toutes ces écluses factices qui débitent ses
flots bienfaisants avec une parcimonieuse injustice, afin de pouvoir, par un système
scientifique et indéfiniment perfectible d’irrigation sociale, les distribuer à tous les
membres de la grande famille humaine. […] Secouons d’abord la torpeur des déshérités,
illuminons leur conscience: le bon sens ou la poltronnerie des privilégiés feront le reste!
C’est ainsi que doit être entendu et pratiqué le darwinisme social30!
Con il suo celebre pamphlet, Gautier introdusse il termine “darwinismo sociale” nel
dibattito culturale di fine secolo allo scopo di denunciare le brutali giustificazioni
biologistiche del laissez-faire e, parallelamente, indicare la strada per una più corretta
applicazione della teoria darwiniana alla società umana basata sui principi della
cooperazione e della solidarietà sociale. Non di rado questa interpretazione è stata
definita “trasformismo” o “lamarckismo” sociale.
Come ha rilevato la storica Linda L. Clarck, negli anni della Terza Repubblica e
della progressiva liberalizzazione del sistema educativo nazionale, il culto della
scienza e il ricorso ad argomentazioni evoluzionistiche nella propaganda anticlericale
e antimonarchica fu estremamente diffuso. In un contesto nel quale l’espressione
“transformisme” era comunemente usata in alternativa a “evoluzionismo”, e dove molti
biologi si proclamarono, come visto, “neo-lamarckiani”, le interpretazioni
cooperazionistiche dell’evoluzionismo sociale finirono spesso con l’inglobare il lessico
lamarckiano, pur ricorrendo altrettanto significativamente a termini quali “lotta per
28 Cfr. H.F. Osborn, The Present Problem of Heredity, in «The Atlantic Monthly» 67 (1891), n. 401, pp.
353-364.
29 L.F. Ward, Neo-Darwinism and Neo-Lamarckism, in «Proceedings of the Biological Society of
Washington» 6 (1891), pp. 11-71, 65.
30 E. Gautier, Le Darwinisme Social, Paris, Derveaux, 1880, pp. 88-89.
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
201
l’esistenza” (lutte pour la vie o concurrence vitale) e “selezione naturale” (sélection naturelle)31.
Dirimente diveniva in tal senso espandere il concetto stesso di “lotta”, non più inteso
come mero conflitto interindividuale ma come resistenza collettiva alle forze
ambientali. Per autori come lo zoologo Henry de Varigny (1855-1934) e il biologo
Jean-Louis de Lanessan (1843-1919), la vita consisteva in una lotta perpetua contro le
forze ostili della natura32. Il progresso evolutivo, sottolineava lo zoologo Edmond
Perrier (1844-1921), era il risultato dell’associazione e della coordinazione fra le forze
individuali, non della competizione malthusiana. Solo capendo ciò i governi
avrebbero potuto curare le “piaghe” che affliggevano la società contemporanea.33
Termini come “association pour la vie” e “effort pour la vie” divennero espressione di
un’immagine della natura in netto contrasto rispetto al cosiddetto “darwinismo
germanico”34, considerato da più parti come l’origine dell’ideologia militarista tedesca
e, più o meno implicitamente, come la causa dello scoppio della Prima Guerra
Mondiale. Al tempo stesso, esse andavano a delineare uno spazio teorico ed
ideologico contrapposto alla “antroposociologia darwiniana” di stampo elitario,
imperialista e razzista promossa da antropologi quali Gustave Le Bon (1841-1931) e
George Vacher de Lapouge (1854-1936).
Pur nelle loro differenze e specificità teoriche, le interpretazioni “associazioniste”
dell’evoluzione sociale convergevano su almeno due aspetti. In primo luogo, l’idea
che fossero state le spinte solidaristiche ad aver guidato l’evoluzione umana nel suo
lento percorso di emancipazione dallo stato di natura. Tale visione, denominata da
Eric Goldman come “darwinismo riformista”35, si fondava a sua volta su una
concezione dell’organismo come sistema aperto e dinamico, il cui rapporto con
l’ambiente era essenzialmente “performativo”. In altre parole, l’uomo e gli altri
viventi non si limitavano a subire la selezione naturale, ma giocavano un ruolo attivo
nel costante processo di adattamento alle circostanze di vita. Ciò avrebbe condotto
numerosi zoologi, antropologi e sociologi ad abbracciare una visione “ottimistica”
dell’evoluzione sociale, all’interno della quale la teoria dell’ereditarietà dei caratteri
acquisiti rappresentava un vero e proprio tramite bioculturale in grado di trasformare
le conquiste morali ed intellettuali in «regolarità della natura»36. Migliori erano le
condizioni sociali, economiche ed educative, migliori sarebbero diventati i popoli,
L.L. Clarck, Social Darwinism in France, in «The Journal of Modern History» 53 (1981), n. 1, pp.
D1025-D1044, p. D1029; G. Molina, Darwinisme Français, in P. Tort (a cura di), Dictionnaire du
Darwinisme et de L’Evolution, Paris, PUF, 1996, pp. 909-954, p. 943; A. La Vergata, Lamarckisme et
solidarité, in C. Blanckaert (a cura di), Le Muséum au premier siècle de son historie, Paris, Muséum National
d’Histoire Naturelle, Archives, 1997.
32 Cfr. Clarck, Social Darwinism cit.; La Vergata, Evoluzionismo alla francese cit.
33 E. Perrier, Le Faune des côtes de Normandie, Paris, Association française pour l’avancement des
sciences, 1894.
34 Cfr. La Vergata, Evoluzionismo alla francese cit.
35 Cfr. E. Goldman, Rendezvous with Destiny, New York, Vintage, 1956.
36 La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 194.
31
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
202
accumulando e trasmettendo i progressi conseguiti di generazione in generazione.
Alla fine del XIX secolo, tale forma di “ottimismo bio-socio-politico”37 divenne il
sostrato teorico di riferimento per istituzioni quali la Societé d’eugenetique e,
soprattutto, il Cercle de gymnastique rationnelle fondato a Parigi nel 1881 sotto la
supervisione di antropologi e medici vicini alla biologia lamarckiana quali Paul Bert
(1833-1886) ed Étienne Jules Marey (1830-1904). Di fatto, la biologia neolamarckiana avrebbe fornito all’educazione fisica un nuovo ruolo sociale, facendo
dell’esercizio e dell’addestramento i mezzi primari con cui garantire il costante
miglioramento fisico, cerebrale, morale e sociale dei popoli38.
La fiducia nella plasticità organica non fu tuttavia unanime e uniforme nel contesto
francofono. Botanici come Julien Costantin (1857-1936), ad esempio, sottolinearono
quanto fosse in realtà impossibile indurre mutazioni ereditarie in ogni tipo di pianta.
Con la nascita della genetica, fra gli anni ’10 e ’30 del XX secolo la tensione fra i
concetti di eredità e plasticità aumentò, portando molti biologi francesi a
ridimensionare il potere morfogenetico dell’ambiente. Lo stesso Le Dantec iniziò
sempre più frequentemente a sostenere che gli organismi andassero incontro a una
perdita graduale della plasticità organica all’aumentare della complessità strutturale39.
Contro il “potere delle circostanze” invocato dai fautori dell’egalitarismo si
sarebbero scagliati i sostenitori della concezione ereditarista e selezionista
dell’evoluzione umana come Lapouge:
On a attribué à l’éducation un rôle non moins exagéré dans le développement de la
moralité et de la religiosité. Cette thèse a été soutenue surtout en Angleterre, et par l’école
de H. Spencer. C’est toujours la même confusion entre l’évolution collective et la sélection.
[…] Améliorer les masses par l’instruction et l’éducation est donc une utopie. De tous les
changements de milieu, le moins efficace est le changement de milieu intellectuel. Il ne sert
à l’individu que selon sa nature et ne donne rien qui paraisse transmissible par hérédité40.
Sostenere simili posizioni non implicava tuttavia negare il potere migliorativo
dell’uso e dell’esercizio. Secondo Gustave Le Bon, i caratteri nazionali erano il
prodotto dell’azione costante «dello stesso milieu, delle stesse istituzioni, delle stesse
credenze» sulle popolazioni. Esse rappresentavano «il risultato delle esperienze e delle
Cfr. Conry, Le darwinisme cit.
L. Dibattista, Dalla ginnastica “cadaverica” all’educazione fisica “vivificante”. Le basi filosofiche della scuola
francese moderna secondo Georges Demenÿ (1850-1917), in H. Gundlach, E. Pérez-Córdoba, M. Sinatra, G.
Tanucci (a cura di), L’arte del movimento, Lecce, Pensa MultiMedia, 2012, pp. 77-93, p. 79. Ha scritto a
tal proposito Antonello La Vergata: «Nella cura delle deformità, sia congenite sia acquisite, la
ginnastica medica era vista come un’applicazione del potere morfogenetico dell’uso e del disuso e delle
condizioni d’esistenza», La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 194.
39 L. Loison, The Notions of Plasticity and Heredity among French Neo-Lamarckians (1880 – 1940): From
Complementarity to Incompatibility, in S.B. Gissis, E. Jablonka (a cura di), Transformation of Lamarckism,
Cambridge, The MIT Press, pp. 67-76.
40 G.V. de Lapouge, Les sélections sociales, Paris, A. Fontemoing Successeur, 1896, pp. 123-125.
37
38
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
203
azioni di una lunga serie di antenati», ognuno dei quali, però, era vincolato al
bagaglio ereditario del proprio lignaggio. L’esistenza di ciascun individuo era
indelebilmente segnata dal proprio passato evolutivo e qualunque influenza del milieu
acquisita nell’arco di una generazione avrebbe potuto sortire effetti «infinitamente
piccoli»41.
Il rapporto fra volume cranico e intelligenza fra classi sociali era secondo Le Bon
una chiara dimostrazione di quanto i vincoli ereditari influenzassero l’adattabilità
individuale. A differenza del contadino, «l’uomo istruito» migliorava «costantemente
se stesso trasmettendo al suo lignaggio i progressi acquisiti gradualmente». Per tale
ragione, le differenze craniche e intellettive fra membri di classi socialmente distanti
erano destinate ad aumentare nel tempo42. Pur trattandosi di una «legge fisiologica»
ancora non dimostrata sperimentalmente, era altamente probabile che, come per
qualunque altro organo, l’esercizio e la continua sollecitazione potessero influire
positivamente sullo sviluppo del cervello. Ciò nondimeno, il potere morfogenetico
delle circostanze restava vincolato alla tara ereditaria di ciascun individuo e, più in
generale, al passato evolutivo del gruppo sociale ed etnico di appartenenza43. Era la
storia a dettare le condizioni di possibilità dello sviluppo individuale. Citando i versi di
Daniel Lesueur, Le Bon scriveva:
Car le passé de l’homme en son présent subsiste,
Et la profonde voix qui monte des tombeaux
Dicte un ordre implacable, auquel nul ne résiste44.
Le critiche di Le Bon al “meliorismo sociale”, distanti dalla standard view condivisa
da politici e accademici coevi, rimasero ai margini della cultura ufficiale
repubblicana45. Ciò nonostante, esse evidenziano un aspetto significativo quanto
spesso sottovalutato in letteratura. L’adozione della teoria dell’uso e del disuso e
dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti non fu esclusivamente appannaggio dei
sostenitori del riformismo sociale. Almeno fino alla fine del XIX secolo, naturalisti,
antropologi e sociologi continuarono a tematizzare il cambiamento organico, umano
e sociale ricorrendo a temi e concetti “lamarckiani”, muovendo tuttavia da premesse
ideologiche diverse. A fungere da elemento discriminante fu spesso la diversa
interpretazione della nozione di “vincolo di sviluppo”. Per i sostenitori delle
interpretazioni gerarchiche dell’organizzazione sociale, la teoria lamarckiana poté
41
G. Le Bon, L’influence de la race dans l’histoire, «Revue scientifique» 3a série, 41 (1888), n. 17, pp. 525-
532.
42 G. Le Bon, Researches anatomiques et matématiques sur les lois des variations du volume du cerveau et sur leurs
relations avec l’intelligence, in «Revue d’Anthropologie», II (1879), n. II, pp. 27-104, pp. 76-77.
43 Ivi, p. 85
44 Le Bon, L’influence cit.
45 Cfr. Clarck, Social Darwinism cit., p. D1038.
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
204
essere usata tanto per dimostrare lo sviluppo progressivo delle “razze” e delle “classi”
superiori, quanto la stagnazione evolutiva dei tipi inferiori. Ciò fu particolarmente
evidente nel dibattito antropologico statunitense di fine secolo, dove l’uso del
lamarckismo assunse configurazioni ancor più polari.
4. Il lamarckismo sociale nel dibattito antropologico statunitense
È stato proprio l’incontro fra il neo-lamarckismo e le scienze sociali statunitensi e a
delineare ciò che George Stocking ha definito “lamarckismo sociale”46. Negli anni
della cosiddetta “Ricostruzione”, in un paese socialmente e politicamente diviso fra le
misure anti-discriminatorie del Civil Rights Act (1875) e le leggi segregazioniste degli
stati ex-confederati, il dibattito antropologico assunse una fisionomia ideologicamente
complessa che andò intrecciandosi con la cosiddetta “Negro Question”, ovvero il
dibattito sulla posizione sociale, civile e politica da riconoscere agli schiavi liberati.
Secondo Stocking, fra i principali portavoce del lamarckismo sociale americano vi
furono il geologo John Wesley Powell (1834-1902) e, in modo particolare, il sociologo
Lester Frank Ward. Questi fu promotore di un progressismo fondato su
un’interpretazione cooperazionista dello sviluppo sociale, secondo cui il processo di
civilizzazione consisteva nell’interferire con le leggi dell’evoluzione organica. Per
Ward, «non vi era nulla di automatico e meccanico nel progresso della civiltà»47. In
tal senso, il dibattito sulla civilizzazione dell’africano andava riconfigurato nel quadro
di una teoria biologica dinamica e anti-meccanicistica per la quale le circostanze
sociali e la trasmissione culturale, mediante l’ereditarietà dei caratteri acquisiti,
influenzavano direttamente l’evoluzione biologica e mentale degli individui,
determinando, ed emendando, l’eredità razziale48.
Visto all’interno del modello ereditario neo-lamarckiano, anche l’incrocio fra razze
poteva esse considerato uno strumento con cui modificare le tare ereditarie. Di fatto,
molti riformisti e teorici del lamarckismo statunitensi caldeggiarono il modello del
melting-pot come mezzo per garantire il progresso biologico e sociale. Per Ward, ad
esempio, il contatto interrazziale rappresentava un fattore benefico che, con il tempo,
avrebbe condotto i membri delle due razze a condividere i medesimi obiettivi,
cooperare nelle attività commerciali e sociali, incrociandosi fino al raggiungimento di
un’omogeneità razziale49. Al tempo stesso, vi furono autori vicini alla biologia neo46 G.W. Stocking Jr., Lamarckianism in American Social Science: 1890-1915, in «Journal of the History of
Ideas» 23 (1962), n. 2, pp. 239-256; Id., Race cit.
P. Boller, American Thought in Transition, Lanham, University Press of America, ed. 1981, p. 66.
Cfr. L.F. Ward, The Transmission of Culture, in «The Forum», XI (1891), pp. 312-319.
49 L. Newman, White Women’s Rights. The Racial Origins of Feminism in the United States, New
York-Oxford, Oxford University Press, 1999, p. 49.
47
48
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
205
lamarckiana che nutrirono più di un dubbio sull’efficacia del miscuglio razziale,
convinti che l’unione di tipi umani filogeneticamente troppo distanti avrebbe prodotto
varianti inadatte tanto alle condizioni delle razze superiori che a quelle degli
inferiori50. Il processo di formazione delle razze umane era un processo lento e,
soprattutto, vincolato da limiti antropologici precisi.
Il tema del vincolo era stato espresso in modo chiaro da Herbert Spencer. Anche
per il filosofo inglese, il cui individualismo metodologico rappresentò per i riformisti
americani un argomento di grande dibattito, il miglioramento delle circostanze
ambientali era un fattore indispensabile alla civilizzazione. Tuttavia, la questione della
“rieducabilità” delle razze più arretrate restava più che mai controversa. Pur
occupando un gradino evolutivo più basso, anche i tipi umani più primitivi potevano
muoversi lungo la scala gerarchica dei viventi tramite lente e graduali acquisizioni51.
Tuttavia, questi sembravano dotati di scarsa plasticità mentale:
Many travellers comment on the unchangeable habits of the savages. The semi-civilised
nations of the East, past and present, were, or are, characterised by a greater rigidity of
custom than characterizes the more civilised nations of the West. The histories of the most
civilised nations show us that in their earlier times the modifiability of ideas and habits was
less than it is at present. And if we contrast classes or individuals around us, we see that the
most developed in mind are the most plastic. To inquiries respecting this trait of
comparative plasticity, in its relations to precocity and early completion of mental
development, may be fitly added inquiries respecting its relations to the social state, which
it helps to determine, and which reacts upon it52.
I moniti di Spencer trovarono una notevole diffusione in America53. Molti dei suoi
seguaci statunitensi avrebbero messo a tema, fra gli anni ’70 e ’80, il rapporto fra
teoria neo-lamarckiana, civilizzazione e limite di sviluppo. A tal proposito, lo storico
George Fredrickson ha parlato di “modello filantropico paternalista”54, una visione
che, pur opponendosi alle forme più intransigenti di razzismo e suprematismo,
reiterava la questione dei limiti di sviluppo nell’africano e dei vantaggi della
segregazione sociale e sessuale55. John Fiske (1842-1901), il noto filosofo di Harvard
fondatore dell’Immigration Restriction League, ed Edward Drinker Cope
rappresentarono alcuni dei più autorevoli sostenitori di questa posizione. Nelle pagine
di Outlines of Cosmic Philosophy (1874-1903), Fiske sottolineò come il tipo africano fosse
Cfr. J.S. Haller, Outcast from Evolution, Carbondale & Edwardsville, Southern Illinois University
Press, 1971, p. 130.
51 R. Bannister, Science and Myth in Anglo-American Social Thought, Philadelphia, Temple University
Press, 1979, pp. 188-189.
52 H. Spencer, Comparative Psychology of Man, in «Mind» 1 (1876), pp. 7-20, p. 10.
53 Cfr. Hofstadter, Social Darwinism cit., Haller, Outcast cit., p. 131; Bannister, Science and Myth cit.
54 G.M. Fredrickson, The Black Image in the White Mind: the Debate on Afro-American Character and Destiny,
1817-1914, New York, Harper & Row, 1971.
55 Bannister, Science and Myth cit., p. 188.
50
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
206
caratterizzato da un brusco arresto nello sviluppo che, di fatto, ne impediva la crescita
morale e intellettuale56. Considerare dunque il progresso sociale alla portata di tutte le
razze era una fallacia fin troppo diffusa fra i «metaphysical writers»57. Anche per Cope
l’arresto dello sviluppo era fatale per “mongoli” e “neri”. Forse, in un lontano futuro
l’africano avrebbe potuto migliorare le sue abilità cognitive e le sue disposizioni
morali, giacché lo stato d’inferiorità non rappresentava una condizione
necessariamente permanente. Tuttavia, l’evoluzione biologica, e con essa quella
mentale e sociale, era un processo lento e irreversibile contro il quale poco potevano
fare i «pacifisti» e i «socialisti» portavoce dei diritti civili agli afroamericani. I segni
della stagnazione evolutiva in cui versavano i freedmen era, per Cope, l’esito
dell’adattamento ai climi caldi dei loro antenati, il quale aveva accelerato il definirsi
delle suture craniche con il conseguente squilibrio fra l’area mandibolare-mascellare e
quella encefalica58. Con la maturazione sessuale, la mente dell’africano andava
incontro a un’eclissi inesorabile59.
La critica di Cope al meliorismo sociale può sembrare paradossale se si considera
che a muovere alcune delle critiche più sferzanti al potere morfogenetico
dell’ambiente fu proprio il maggiore esponente della biologia neo-lamarckiana
statunitense del XIX secolo60. Ciò è in parte dovuto al fatto che si è tradizionalmente
più propensi ad associare fenomeni come il “razzismo scientifico” e l’eugenetica al
darwinismo sociale61. Il lamarckismo sociale non fu un fenomeno teoricamente e
ideologicamente omogeneo, tantomeno esso fu usato esclusivamente in difesa di
visioni egalitarie. Sostenere che le popolazioni umane abbiano acquisito la propria
costituzione fisica e mentale “epigeneticamente” 62 non rende una teoria
implicitamente meno razzista di quanto non lo faccia qualsivoglia interpretazione
ereditarista e selezionista dell’evoluzione umana. Per autori come Le Bon, Fiske e
Cope la “legge dell’esercizio” e l’abitudine a sollecitazioni ambientali tempranti era
condizione necessaria, ma non sufficiente, al progresso morale e sociale, dal momento
che non tutti i membri della specie umana godevano della stessa plasticità.
56 Cfr. J. Fiske, Outlines of Cosmic Philosophy, IV, Boston-New York, Houghton, Mifflin and Company,
pp. 3-4.
57 Cfr. J. Fiske, Outlines of Cosmic Philosophy, III. Boston-New York, Houghton, Mifflin and Company,
pp. 285-286.
58 D. Ceccarelli, L’evoluzionismo anti-darwiniano in America. Fra scienza e ideologia, Roma, CNR Edizioni,
2019, p. 98.
59 E.D. Cope, Two Perils of the Indo-European - Part I, in «The Open Court» 3 (1890), n. 126, pp.
2052-2053, p. 2053.
60 H. Gershenowitz, Edward Drinker Cope, Father Of American Neo-Lamarckism, Camden, Camden,
County Historical Society Bulletin.
61 Stocking, Race cit., p. 250.
62 Sul rapporto storico ed epistemologico fra i concetti di “epigenesi”, “epigenetica” e
“lamarckismo” cfr. D. Ceccarelli, B. Continenza, Introduction. The Epigenetic Perspective between Philosophy
and Life Sciences, in «Paradigmi», 3 (2020), pp. 393-407.
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
207
Le stesse versioni riformiste del lamarckismo sociale finirono spesso con il
sostanziare l’idea che fra razze umane esistessero differenze qualitative stratificatesi
nei lunghi tempi dell’evoluzione. Per il sociologo americano Paul Samuel Reinsch
(1869-1923), esaminare lo scarto fra le qualità mentali delle popolazioni aborigene e
quelle acquisite dagli afroamericani rappresentava il modo migliore per affrontare la
“Negro Question”. L’evoluzione regressiva dell’africano era dovuta, secondo Reinsch,
al «basso livello di organizzazione sociale» delle sue comunità originarie. Gli africani
del Sudan occidentale, ad esempio, vivevano secondo un’organizzazione matriarcale
che, combinata con la pratica della poligamia, rendeva «impossibile costruire famiglie
forti» e uomini «leader»63. Le disposizioni mentali e caratteriali dell’africano moderno
rispecchiavano la sua evoluzione bioculturale: un precoce appetito sessuale dovuto
alla necessità di lasciare più progenie possibile in un territorio ostile, scarsa
propensione alle arti meccaniche e figurative, buona attitudine al commercio nonché
una predisposizione all’arte oratoria. Se nelle principali università americane vi erano
giovani neri nella posizione di «class orators», ciò era dovuto al fatto che, nei villaggi
africani, la trasmissione culturale avveniva quasi esclusivamente in forma orale64.
I «barbari costumi» degli africani avevano condotto molti studiosi a negare loro
qualunque possibilità di avanzare sulla scala della civilizzazione. La ragione fisiologica
più frequentemente addotta, precisava Reinsch, era la precoce chiusura delle suture
craniche durante la pubertà e il conseguente arresto nello sviluppo cerebrale e
mentale. Ciò nonostante, credere che l’africano fosse condannato a uno stato di
inciviltà permanente era una conclusione avventata. Al tempo stesso, l’evoluzione
delle popolazioni africane doveva essere valutata in tutta la loro complessità storica e
sociale:
The difference between the average negro and the average European does not explain,
nor is it at all commensurate to, the difference between their respective civilizations. The
social conditions that have kept the negro from acquiring a higher organization lie in the
fact of the constant shifting of the African populations, which are not held in place by the
physical conform nation of territory such as that of Greece and Italy. The African societies
were thus not given time to strike roots and to acquire a national tradition and history –
the memory of races – which is one of the chief ingredients of civilization65.
Era d’altra parte possibile che la struttura cranica degli africani potesse essere
influenzata dalle condizioni sociali, politiche ed economiche. Nella peggiore delle
ipotesi, e indipendentemente dai limiti di sviluppo, l’esposizione a influenze positive
dopo la pubertà avrebbe comunque potuto comportare uno sviluppo progressivo.
P.S. Reinsch, The Negro Race and European Civilization, in «American Journal of Sociology», 11
(1905), n. 2, pp. 145-167, p. 149.
64 Ivi, p. 152.
65 Ivi, pp. 154-155.
63
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
208
Per Reinsch, l’uomo bianco aveva il compito di istituire modelli di «imitazione
sociale» guardando a tipi afroamericani migliori. La strada era quella indicata da
politici «lungimiranti» come il Presidente Theodore Roosevelt: tenere aperte «le
porte della speranza». Ciò, precisava però il sociologo, non significava rivendicare
l’uguaglianza sociale fra razze. Più semplicemente, non poteva esserci «miglior
servigio» per la razza africana «che riconoscere i suoi uomini migliori», per le
«qualità della mente e di spirito», ai quali non si doveva precludere la possibilità di
inseguire le proprie ambizioni per il solo colore della pelle66.
Pur giungendo a conclusioni diverse sul piano politico e normativo, tanto i
fautori del segregazionismo quanto gli esponenti del modello filantropico
paternalista sembrarono usufruire dalla medesima nozione di “plasticità di gruppo”.
Le condizioni di evolvibilità, e dunque la ricettività stessa ai modelli educativi della
società occidentale, rappresentavano qualità intrinsecamente razziali, frutto dalla
storia evolutiva dei popoli.
5. Conclusione
Fra XIX e XX secolo, il riformismo sociale, nei suoi vari appelli al valore della
“resistenza collettiva”, dell’“associazione” o, per usare un’espressione del filosofo
anarchico Pëtr Kropotkin, del “mutuo appoggio”, trovò nel trasformismo biologico
un importante sostrato teorico e concettuale. Al tempo stesso, i richiami alle teorie
dell’uso e del disuso e dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti furono utilizzate per
giustificare visioni gerarchiche dell’ordine sociale. Invocare le dottrine lamarckiane
fu, a ben vedere, un atteggiamento «sovra-disciplinare», «sovrannazionale»67 e
metaideologico che trovò in Francia e negli Stati Uniti un terreno particolarmente
fertile, influenzandone per decenni il dibattito nelle scienze naturali e sociali.
L’affermarsi della genetica e della teoria ereditaria mendeliana comportò
certamente un’importante riconfigurazione del dibattito sull’evoluzionismo sociale
nel corso del Novecento. La messa in discussione dell’ereditarietà dei caratteri
acquisiti, il tramite bioculturale che per decenni aveva reso immaginabile un nesso
causale diretto fra progresso culturale e progresso biologico, determinò la
separazione fra i concetti di eredità biologica e apprendimento sociale. Ciò ebbe
almeno due effetti significativi: favorire l’emancipazione epistemologica delle scienze
sociali rispetto alla biologia e, al tempo stesso, inaugurare una nuova stagione del
dibattito sull’evoluzionismo sociale in cui progresso biologico e sociale viaggiavano
su binari paralleli, ma separati. La stessa distinzione novecentesca fra “eugenetica”
66
67
Ivi, pp. 166-167.
La Vergata, Il lamarckismo cit., p. 185.
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25
Che cos’è il lamarckismo sociale ?
209
ed “eutènica”68, ovvero tra il miglioramento della razza attraverso la regolazione
degli incroci e l’istituzione di modelli educativi e culturali tempranti, testimonia la
necessità di ripensare il meliorismo sociale a seguito della caduta dei modelli
ereditari pre-mendeliani.
Nell’era della postgenomica, la ricerca sui meccanismi ereditari epigenetici e il
conseguente riaffiorare di tematizzazioni sistemiche e multifattoriali del
cambiamento biologico hanno stimolato una significativa riflessione filosofica ed
epistemologica che, in parte, ha ravvisato il riemergere di nuove forme di
biologismo “dinamico”. Soprattutto nell’ambito della cosiddetta “epigenetica
sociale” e degli studi epidemiologici sul rapporto fra status socioeconomico e
sviluppo di condizioni patologiche quali obesità o disturbi metabolici, si assisterebbe
a una nuova biologizzazione delle differenze culturali 69 . Smarcatasi dal
riduzionismo genetico classico, la ricerca postgenomica avrebbe dunque
reintrodotto un’interpretazione costruttivistica del concetto di razza, per la quale gli
effetti ereditabili incorporati dall’ambiente (stress, alimentazione e stile di vita)
rappresenterebbero “caratteristiche biologiche relativamente stabili” all’interno
delle popolazioni umane70.
Il rapporto fra epigenetica e il lamarckismo sociale è tema di dibattito fra gli
storici e i filosofi della biologia contemporanei. Che vi sia o meno una continuità
teorica ed epistemologica fra di essi, ci sembra opportuno sottolineare quanto, allora
come oggi, il biologismo rappresenti un atteggiamento non strettamente
riconducibile a uno specifico modello teorico. Considerare il lamarckismo sociale
come un fenomeno in qualche modo distinto dal determinismo biologico 71
rappresenta una forzatura storica e concettuale. Come ha osservato Stocking, se i
sostenitori dell’ereditarismo vedevano nella costituzione mentale e nei tratti culturali
dei popoli nient’altro che fenotipi trasmissibili alla stregua di qualunque altro
carattere somatico, per i lamarckiani il culturale si traduceva regolarmente nel
biologico. Rimarcando il potere morfogenetico delle circostanze di vita, il
lamarckismo sociale fu manifestazione di un biologismo dinamico i cui usi ideologici
furono tutt’altro che omogenei e il cui potenziale razzista poteva essere facilmente
Eugenetica ed eutènica, scrisse l’evoluzionista americano Henry F. Osborn, rappresentavano
campi inseparabili della moderna «sfida umanitaria» per il progresso sociale, Cfr. H.F. Osborn, Creative
education in school, college, university, and museum, New York, Charles Scribner’s Sons, 1927, pp 306-307.
69 M.R. Waggoner, T. Uller, Epigenetic determinism in science and society, «New genetics and Society», 34
(2015), n. 2, pp. 117-195; J. Baedke, A.N. Delgado, Race and nutrition in the New World: Colonial shadows in
the age of epigenetics, «Studies in History and Philosophy of Science Part C: Studies in History and
Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», 76 (2019), 101175.
70 M. Meloni, Race in an epigenetic time: Thinking biology in the plural, «British Journal of Sociology», 68
(2017), n. 3, pp. 389-409.
71 Si veda ad esempio P.T. Merricks, Religion and Racial Progress in Twentieth-Century Britain: Bishop
Barnes of Birmingham, Cham, Palgrave Macmillan, pp. 75-80; E. Slavet; Freud’s “Lamarckism” and the
Politics of Racial Science, in «Journal of the History of Biology» 41 (2008), n. 1, pp. 37-80.
68
Suite française 4/2021 – Secondo Natura
David Ceccarelli
210
innescato tramite l’argomento del “limite di sviluppo”.
Ereditarismo e lamarckismo hanno verosimilmente occupato due posizioni
diverse nello spettro teorico del determinismo biologico. Quando applicate al
dibattito politico, la discrepanza fra tali tesi si è spesso tradotta in una diversa
fiducia nell’emendabilità dei medesimi caratteri socialmente indesiderati.
DOI:10.13131/2611-9757/q5gy-wb25