Storie dati e prove. Il ruolo della credibilità nelle narrazioni di richiesta di asilo
Barbara Sorgoni
[in Parolechiave, 2011, n. 46, pp. 115-33]
Only a naive positivist would believe
that expressions are equivalent to reality
Edward M. Bruner
Le procedure di esame delle richieste di asilo o di altri tipi di protezione
internazionale sono processi istituzionali complessi e spesso lunghi, che prevedono alcuni
passaggi obbligati ed oggi sempre più standardizzati, soprattutto per quanto riguarda
l’Europa1. A tutt’oggi le procedure di riconoscimento dello status di rifugiato presentano
una sorta di tensione verso uno stile comune informato da direttive e regolamenti
vincolanti o da indicazioni “persuasive” che provengono da organismi sovranazionali
(rispettivamente Unione Europea e UNHCR), e contemporaneamente differenze
significative tra gli Stati nelle modalità con cui vengono accolte, esaminate e valutate le
richieste di asilo dalle istituzioni preposte alla determinazione dello status.
Un elemento centrale in tale processo riguarda il concetto di prova ed il peso a
questo attribuito. Per i richiedenti asilo è comunemente accettato che possa essere difficile,
se non impossibile, produrre documenti attestanti la veridicità delle vicende narrate di
persecuzione subita o temuta, su cui si fonda la richiesta di protezione internazionale. In
Il processo iniziato con il Trattato di Amsterdam del 1997 e il Consiglio Europeo di Tampere nel 1999,
prevede di giungere entro il 2012 all’adozione di un regime comune europeo dell’asilo attraverso due fasi
distinte. Nella prima sono stati emanati una serie di atti volti a definire norme minime in materia di
accoglienza dei richiedenti asilo, definizione dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria,
riconoscimento e perdita dello status (rispettivamente: Direttiva Accoglienza 2003/9/EC; Direttiva Qualifiche
2004/83/EC; e Direttiva Procedure 2005/85/EC). Nella seconda fase, attualmente in corso, si intende superare
il concetto di “norme minime” e pervenire a: norme per l'accoglienza dei richiedenti; definizione di uno
status uniforme valido in tutta l'Unione (attualmente un rifugiato è vincolato a risiedere stabilmente nel
paese in cui ha ottenuto il riconoscimento); procedure comuni per l'ottenimento e la perdita dello status
uniforme. All’interno del Parlamento Europeo le decisioni verranno ora assunte a maggioranza qualificata e
non più all'unanimità, con conseguente perdita del potere di veto dei singoli Stati. Ringrazio Antonietta
Cozza ed Alessandro Fiorini per le informazioni sugli aspetti giuridici della procedura nazionale ed europea
che hanno generosamente condiviso con me.
1
1
molti casi – e per differenti ragioni - può essere difficile persino dimostrare la propria
identità. Per questo motivo, la Direttiva Qualifiche approvata dall’Unione Europea nel
2004 prevede che "qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano
suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque
necessaria" a patto che il richiedente soddisfi alcune condizioni, come avere compiuto
"sinceri sforzi per circostanziare la domanda"; avere fornito una spiegazione soddisfacente
della mancanza di altri elementi, o dichiarazioni "ritenute coerenti e plausibili" che non
appaiano "in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo
caso di cui si dispone"; e infine mostrare di essere "in generale attendibile".2
Nel testo italiano il termine “attendibilità” traduce l’inglese credibility; il senso della
Direttiva sembra essere quello di offrire la possibilità di valutare la generale coerenza,
plausibilità ed attendibilità/credibilità della storia del richiedente asilo come alternativa alla
produzione di prove documentali, non strettamente necessarie3. Non viene però chiarito in
quali modi accertare la credibilità di una storia di vita.
In linea con quanto già suggerito dal Manuale dell’UNHCR (1992), l’orientamento
comune nei vari paesi è quello di assegnare alle storie dei richiedenti asilo un ruolo
centrale nel processo di determinazione dello status stesso. Le narrazioni di fuga e di
persecuzione sono progressivamente divenute il luogo all’interno del quale passare al
setaccio i fatti narrati alla ricerca di omissioni, incongruenze o incoerenze, al fine di
verificare la generale credibilità del racconto. In alcuni casi, il giudizio sull’attendibilità
della storia – o più in generale del soggetto che racconta la storia – finisce per sostituirsi
alla ricerca o all’esame delle prove. Detto in altri termini, la storia può divenire la prova
rispetto alla quale decidere se riconoscere o meno la protezione internazionale.
L’analisi dei modi in cui le narrazioni divengono documenti utilizzati come prove
per stabilire la verità nei processi di esame delle richieste di asilo, costituisce l’oggetto di
Cfr. Direttiva Qualifiche 2004/83/EC art. 4 § 5, recepita in Italia con D. lgs. 251/2007 (art. 3 § 5).
Sweeney 2009. Nei fatti sembra esseri affermata una sorta di circolarità per cui si supplisce alla carenza di
documentazione prodotta direttamente dai richiedenti asilo, tramite l’esame dell’attendibilità delle
narrazioni; ma la crescente sfiducia verso queste ultime (dovuta all’irrigidimento delle procedure
amministrative) porta richiedenti e avvocati a tentare di integrare le richieste con altri documenti,
soprattutto certificazioni di esperti (Fassin 2011).
2
3
2
questo articolo. Prendo qui in esame una parte della considerevole mole di documenti
legali, medici ed amministrativi prodotti attorno ad una lunga e complicata procedura di
riconoscimento di protezione internazionale, che si riferisce ad una donna incontrata
durante la mia ricerca etnografica sul tema più ampio dei processi istituzionali di
accoglienza dei richiedenti asilo in Italia4. La giovane donna ha scelto di essere chiamata in
questo lavoro Mirabelle, ed ha acconsentito a farmi studiare la documentazione
accumulata sul suo caso durante il lungo iter burocratico, per produrre su questa un’altra
storia. Ho inoltre discusso a più riprese la vicenda con diversi soggetti che hanno avuto un
ruolo centrale nella procedura, tra cui gli operatori sociali che hanno seguito
nell’accoglienza Mirabelle, il medico legale che ha certificato aspetti relativi alla sua
condizione fisica e psichica, e l’avvocata che l’ha accompagnata dal primo diniego fino al
riconoscimento dello status.
Narrazioni particolari
Negli ultimi anni l’antropologia giuridica ha iniziato ad estendere il proprio campo
di analisi oltre il più classico studio delle norme e delle istituzioni nei diversi contesti
sociali, per considerare il diritto come una tecnologia di produzione di conoscenze
attraverso l’esame dei dispositivi di costruzione delle verità giuridiche, della dimensione
temporale dei processi legali, e dei saperi circolanti attraverso la documentazione prodotta
(Coutin, Yngvesson 2008). Nonostante l’evidente interesse antropologico che può suscitare
l’analisi di un processo attraverso il quale narrazioni di (parti di) storie di vita vengono
tradotte, trascritte, co-prodotte e in-testualizzate da molteplici soggetti istituzionali in
diversi contesti, al fine di venire utilizzate come prove capaci di attestare la verità e
concedere l’accesso a diritti universali (Sorgoni c.s.), le ricerche etnografiche in questo
La ricerca, tutt’ora in corso, è iniziata nel 2007 e interessa diversi comuni che aderiscono al Sistema
(nazionale) di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) in Emilia-Romagna. L’analisi è rivolta ai
processi di accoglienza in diversi progetti locali, con una particolare attenzione ai temi della co-costruzione
di narrazioni conformi alle aspettative istituzionali, e della produzione di soggettività all’interno di relazioni
burocratiche.
4
3
ambito sono molto recenti.5 Si tratta ad ogni modo di un campo di difficile accesso, sia in
senso letterale visto che molte tappe della procedura sono potenzialmente inaccessibili ad
altri soggetti al di fuori di quelli direttamente coinvolti, sia per le condizioni estremamente
frammentate che caratterizzano la gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Europa.
In qualsiasi momento della ricerca i richiedenti asilo, appena conosciuti o con cui si è
instaurato un rapporto di fiducia, possono essere “spostati” sul territorio nazionale
(quando non espulsi o rimpatriati) o possono decidere di interrompere il percorso e
tentare la fortuna altrove, mentre gli operatori del settore sono spesso soggetti ad alti ritmi
di turn-over. La delicatezza dei temi trattati e le leggi sulla privacy rendono inoltre spesso
difficile - e per alcuni tratti della procedura impossibile – la presenza del ricercatore e
l’osservazione dei contesti; come spesso accade con temi “difficili”, l’analisi di fonti
tradizionalmente considerate secondarie (narrazioni, rappresentazioni e documentazioni)
si affianca o sostituisce l’osservazione sul campo (Das 2007, Sandvik 2011). Nel caso
specifico della protezione internazionale, infine, anche l’accesso ai documenti cartacei
prodotti durante i procedimenti può essere ristretto.
La letteratura antropologica sui contesti di migrazione forzata ha sottolineato
l’importanza centrale delle narrazioni e delle storie di vita, spesso l’unico mezzo a
disposizione per accedere all’esperienza vissuta dai soggetti ed ai significati che questi le
assegnano nell’interpretare le vicende di violenza vista o subita. Ed anche un luogo
privilegiato dal quale articolare le differenze soggettive, contrastando la più diffusa
rappresentazione di una categoria omogenea di rifugiato-tipo, di una comune “esperienza
del rifugio” (Eastmond 2007, p. 249). Nell’affrontare la relazione complessa tra esperienza,
rappresentazione e realtà in contesti di migrazione forzata, Marita Eastmond riprende la
distinzione analitica già avanzata da Bruner, tra vita vissuta (come flusso degli eventi), vita
esperita (come percezione e interpretazione di ciò che accade basate su esperienze
precedenti e bagaglio culturale), e vita narrata (i modi in cui l’esperienza e la sua
Si veda Good (2007, 2011) sul ruolo degli antropologi nella certificazione della credibilità in UK; Bohmer,
Shuman (2008) per una comparazione tra UK e USA sul tema; i lavori di antropologia linguistica di
Blommaert (2001, 2009) e Maryns (2007) sul Belgio; Jacquemet (2005) per un caso di gestione delle narrazioni
d’asilo da parte dell’UNHCR. Per l’Italia si veda Pozzi 2011, e ora Sbriccoli, Jacoviello 2011.
5
4
interpretazione sono riproposte in determinati contesti di fronte ad un pubblico specifico).
E aggiunge a questi un ulteriore livello, quello della vita come testo, intendendo con ciò
l’interpretazione e la rappresentazione etnografica: le vite degli altri raccontate dai
ricercatori. Ognuno di questi momenti è filtrato da diversi fattori contingenti di natura
storica, relazionale, sociale e culturale, che contribuiscono a ridurre la complessità
dell’esperienza nella narrazione e ad imporre a quest’ultima un ordine di coerenza che la
realtà non necessariamente possiede. Infine, differenti contesti caratterizzati da diversi tipi
di relazioni di potere e da diversi gerghi o codici producono versioni difformi della stessa
storia. Narrazioni e testi prodotti in contesti terapeutici o legali divergono necessariamente
da rappresentazioni delle stesse vicende prodotte ad esempio spontaneamente di fronte a
chi ha condiviso le stesse esperienze, o da storie collettive di denuncia o testimonianza6.
Quest’ultimo punto consente di suggerire che le narrazioni fornite dai richiedenti
asilo per ottenere una forma di protezione internazionale sono di un tipo molto particolare
perché prodotte in contesti altamente controllati nei quali la relazione di potere è
fortemente asimmetrica, i codici culturali ed espressivi appropriati non sono
necessariamente noti né condivisi da chi deve narrare la propria esperienza, e la vita come
testo si risolve in una co-produzione a più mani sulla quale (e sulla cui circolazione) i
richiedenti asilo possono esercitare solo un controllo molto limitato7. Sono queste
particolari narrazioni - necessariamente interrotte rispetto ad un tradizionale fluire del
racconto, poiché riferite ad un processo sospeso ancora in atto e determinate dai tempi
della procedura amministrativa, nonché fortemente costrette all’interno di moduli
espressivi rigidi – ad essere valutate nella loro plausibilità e coerenza ai fini del
Ad esempio, Coutin (2001) confronta i documenti prodotti sullo stesso evento da tre diversi soggetti
pubblici (attivisti religiosi, richiedenti asilo ed esperti legali) mostrando come generino differenti narrazioni
a partire dal tipo di soggettività che ascrivono ai richiedenti asilo. Talvolta gli antropologi possono svolgere
un compito analogo, contribuendo in diversi modi (ufficiali o meno) alla costruzione della narrazione di
asilo. Per l’Italia, si veda su questo il bel saggio di Sbriccoli e Jacoviello (2011), i quali lasciano però
inesplorate importanti questioni etiche necessariamente sollevate dalla partecipazione attiva degli etnografi
in contesti legali altamente sensibili, come il rischio di strumentalizzazione della conoscenza prodotta ed il
complesso legame tra etica della responsabilità e censura (Das 2003).
7 Sugli effetti non previsti della circolazione incontrollata delle testimonianze di violenza si veda Ross 2003;
sulle narrazioni d’asilo come “traiettoria testuale totale”, o somma di testi co-prodotti da diversi soggetti,
rimando a Blommaert 2001.
6
5
riconoscimento della protezione internazionale. Con il crescente ricorso alla testimonianza
della violenza come mezzo necessario per reclamare diritti ed ottenere giustizia, le storie
private entrano nei contesti pubblici preposti ad accoglierle (tribunali internazionali o
commissioni governative) dove necessariamente subiscono riduzioni, l’esperienza viene
stilizzata, il discorso costretto in schemi prestabiliti e le differenze individuali
ridimensionate8.
Nel suo saggio sull’uso e sul significato del concetto di evidenza in antropologia,
Thomas Csordas solleva alcuni interrogativi che possono essere utili per esplorare la
valenza assunta da questo concetto nell’esame delle narrazioni dei richiedenti asilo.
Facendo riferimento esplicito ai problemi posti dall’assumere una storia di vita come
prova, egli mostra come la differenza tra dati ed evidenze risieda nel fatto che i primi non
dimostrano nulla di per sé, sebbene possano essere impiegati per divenire evidenze di
qualcosa. Questo qualcosa identifica un’ipotesi, un assunto di partenza rispetto al quale
determinati dati vengono utilizzati come prove. In questo senso, il problema non è di tipo
quantitativo (di quante evidenze c’è bisogno per dimostrare un determinato caso?), ma
qualitativo: quale tipo di prova serve per dimostrare questo caso? (2004, pp. 475-76).
Proseguendo il ragionamento, Csordas si chiede quale sia il momento trasformativo nel
quale un certo dato viene trasformato in prova.
Provo a ricondurre queste suggestioni e questo interrogativo al contesto di
determinazione dello status di rifugiato, nel quale dati e fatti estrapolati da complesse
narrazioni di (parti di) storie di vita vengono trasformati in prove di credibilità, o al
contrario di inattendibilità dei richiedenti stessi - mentre altri vengono lasciati cadere come
inutili rumori di fondo - perché interpretati in relazione ad ipotesi precostituite ed assunti
preformati, che costituiscono il bagaglio di conoscenze e credenze messe in campo dai
soggetti chiamati a decidere sul riconoscimento dello status di rifugiato. Nei casi di asilo in
particolare, la conoscenza della Verità è condizionata dalla tensione tra “scrivere la storia”
(nei numerosi passaggi di trascrizione, traduzione e circolazione) e “fare giustizia” (come
8
Wilson 2003, p. 267, e già Malkki 1996.
6
riconoscimento pubblico del senso politico della persecuzione narrata) che caratterizza la
transizione tra regimi politici differenti9.
La storia come prova
Mirabelle arriva in Italia a 26 anni direttamente dal suo paese, il Camerun, nel
luglio del 2009 e viene convocata in Questura nel novembre dello stesso anno per
formalizzare la richiesta di asilo. Oltre a compilare il Modulo standard previsto in questi
casi e a fare il suo ingresso nel sistema Eurodac10, Mirabelle fornisce anche una prima
memoria molto sintetica della sua vicenda di persecuzione, delle modalità del viaggio di
fuga e dei pericoli che correrebbe se fosse rimpatriata. In questa prima narrazione,
Mirabelle racconta di essere da molti anni membro attivo di un partito di opposizione
assieme al fratello e al loro padre (segretario di sezione) e che, a seguito di una
dimostrazione indetta per conto del partito per invitare la popolazione a votare alle
successive elezioni previste nel 2011, sono stati raggiunti nella notte nella loro abitazione
da un gruppo di militari e civili i quali, dopo averli picchiati e torturati, li trasportano a
forza in auto verso una destinazione sconosciuta. Lungo la strada Mirabelle è stata fatta
scendere nella boscaglia e violentata “fino a perdere conoscenza”. Racconta quindi di
essersi svegliata la mattina dopo in una cella assieme al padre ed al fratello, e “dopo
alcune ore, vedo mio padre e mio fratello che sono caduti e sono morti davanti a me”. Lei
viene trattenuta in ospedale per 75 giorni e poi rilasciata. Trovando la casa incendiata,
afferma di essersi rifugiata presso l’associazione religiosa di cui faceva parte e di essere
partita per l’Europa di lì a poco con una congregazione della stessa associazione. Quando
nel febbraio del 2010 Mirabelle viene convocata per l’audizione presso la competente
Si veda su questo punto Fabio Dei (2005, p. 53), alle cui riflessioni sui particolari aspetti di metodo e di etica
che un’etnografia della violenza solleva questo saggio deve molto.
10 Il Mod. C/3 è un questionario a campi chiusi compilato in presenza di un pubblico ufficiale, un interprete e
talvolta un operatore di riferimento nel progetto di accoglienza, in cui vengono trascritte le generalità della
richiedente (inclusa lingua, appartenenza etnica e religiosa, grado di istruzione ed eventuale professione), il
percorso di fuga, e il motivo della richiesta di asilo. Quest’ultimo dato viene solitamente allegato al Modulo
in una memoria a parte scritta nella lingua scelta dal richiedente oppure tradotta da chi raccoglie la
narrazione. L’Eurodac è un sistema informatizzato europeo che prevede la foto segnalazione e
l’archiviazione delle impronte digitali, ai fini dell’applicazione del Regolamento Dublino II.
9
7
Commissione Territoriale (CT)11, è sulla base di questa storia che viene condotto
l’interrogatorio volto ad appurare la coerenza e l’attendibilità dei fatti narrati.
L’andamento dell’interrogatorio in audizione non segue uno schema cronologico
lineare, piuttosto le domande si muovono avanti e indietro nel tempo della storia di vita,
di persecuzione e di fuga, interrompendo continuamente la narrazione. Le prime
domande ad esempio riguardano l’arrivo in Italia e, a ritroso, la ricostruzione del viaggio;
seguono delle domande relative alle generalità della richiedente, per passare a riassumere
il “percorso della sua vita” e poi il motivo della fuga. Questa parte del verbale riporta una
narrazione che sembra (poter) fluire liberamente a lungo senza interruzioni, fatta
eccezione per una parentesi in cui chi trascrive sente il bisogno di specificare che la
richiedente “piange”. La vicenda risulta molto dettagliata, e pur non mostrando alcuna
contraddizione rispetto alla prima memoria, fornisce nuovi particolari. Ad esempio,
Mirabelle rivela ora il contenuto del proprio intervento durante il comizio, nel quale –
come suo fratello – ha denunciato la mancanza di libertà di espressione e la grave
situazione economica e sociale nel paese, invitando le giovani (e i giovani) a iscriversi alle
liste elettorali. Spiega inoltre che questo è necessario per evitare che chi non vota venga
automaticamente conteggiato tra i sostenitori del governo in carica, e fornisce alcuni
dettagli dell’aggressione nella notte, come l’uso del machete “con la lama di piatto”. In
questa
parte
dell’interrogatorio
Mirabelle
aggiunge
che
la
mattina
successiva
all’aggressione viene svegliata assieme al padre ed al fratello da poliziotti: “dissero ’caffè
caldo’, che significa che li avrebbero picchiati a morte”. Testimoniando per la prima volta
di avere assistito all’uccisione per tortura dei suoi familiari, Mirabelle colma qui lo spazio
lasciato vuoto nella prima memoria dove aveva scritto di averli visti cadere morti “dopo
alcune ore”. Aggiunge infine di essersi recata a casa del presidente dell’associazione
religiosa di cui faceva parte e di avere potuto salutare le sue due figlie che lascia in
custodia al presidente stesso, il quale dopo pochi giorni organizza la sua fuga.
Le 12 Commissioni Territoriali sono gli organi competenti a valutare in prima istanza la richiesta di asilo,
con facoltà di decidere se riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, o rinviare gli atti al
Questore per il rilascio del permesso per motivi umanitari, oppure negarli.
11
8
Questo racconto doloroso della vicenda di violenza vissuta e vista è
immediatamente seguito da domande di diversa natura. Si tratta di domande di controllo
(check-question) come il nome del vescovo della capitale, la descrizione del simbolo del
partito di opposizione e il suo collocamento (in area di “destra, sinistra, democratica,
liberale…”?), intervallate da richieste di chiarimenti di tipo storico (“Quale fu la vera causa
dei disordini” nella capitale nel 2008) o di interpretazioni personali su quanto vissuto
(“non trova poco coerente che l’abbiano lasciata in vita e testimone dell’omicidio di suo
padre e suo fratello?”). Quando il membro della CT chiede se ha altro da aggiungere
l’audizione sembra terminata, ma riprende invece subito con altre domande di controllo.
L’interrogatorio dura in tutto 3 ore.
Circa tre mesi dopo, la Questura notifica a Mirabelle la decisione della CT (presa in
realtà il giorno dopo l’audizione stessa) che le nega qualsiasi forma di protezione
internazionale poiché considera “inattendibile il racconto”. Identificata con l’aiuto degli
operatori del progetto un’avvocata che accetta di seguire il caso, viene presentato ricorso;
il Tribunale civile fissa l’udienza per il mese di giugno e, dopo circa altri due mesi, emette
una sentenza di rigetto del ricorso confermando così il diniego di qualsiasi tipo di
protezione internazionale.
Dal Verbale dell’udienza in Tribunale risulta che sono stati depositati alcuni nuovi
documenti, che l’interrogatorio dura meno di un’ora, e che a parte le solite domande di
controllo questo ruota esclusivamente attorno a due questioni: la modalità della
liberazione di Mirabelle e quella del viaggio verso l’Italia. Nel Verbale della sentenza però,
non c’è alcun accenno ai documenti acquisiti, e le motivazioni del rigetto sono
nuovamente riferite unicamente al racconto, commentato tappa per tappa ricorrendo a
locuzioni come: “privo di credibilità”, “poco verosimile”, “ancora meno verosimile”, e
“assoluta non credibilità”. Ad esempio, il giudice ritiene poco verosimile che un gruppo
“addestrato a compiere simili azioni” non elimini subito gli oppositori politici (cioè al
momento dell’aggressione in casa) ma li trasporti in una struttura carceraria per ucciderne
poi solo due; e ritiene ancora meno verosimile che li trattenga nella stessa cella senza
dividerli. Questa prima serie di obiezioni ricalca ed estende lo scetticismo già espresso
9
dalla CT durante l’audizione, che definiva “poco coerente” il fatto che Mirabelle fosse stata
lasciata in vita.
Sembra opportuno chiedersi quali ipotesi sono utilizzate come cartina di tornasole
per dimostrare che i dati forniti (i fatti narrati) siano prova di inattendibilità, e cioè quali
conoscenze vengono mobilitate per valutare l’attendibilità di un dato in modo tale da
trasformarlo o meno in prova. In questo caso, sembra che tanto i membri della CT quanto
successivamente il giudice del Tribunale civile presuppongano l’esistenza di una struttura
politica coerente con alcuni assunti condivisi, che fanno plausibilmente riferimento ad un
modello di dialettica politica preciso ancorché implicito. L’azione repressiva raccontata
appare poco convincente perché eccessiva rispetto “ad un’attività ordinaria di
sensibilizzazione politica”12, svolta in un paese che “pur presentando una diffusa
corruzione e un apprezzabile tasso di criminalità” non mostra però segni di instabilità
politica o di conflitti armati, come confermato dal “sito del Ministero degli Affari Esteri
Viaggiare Sicuri”13. L’unico documento consultato dal giudice descrive un paese
mediamente sicuro per i cittadini italiani che vogliano soggiornarvi, suggerendo
l’indimostrabilità di pratiche repressive violente le quali, qualora si verificassero,
seguirebbero
comunque
un
diverso
schema
logico:
si
dovrebbero
eliminare
immediatamente gli oppositori; questi non dovrebbero restare insieme nella “prima fase
della detenzione”; non si dovrebbero lasciare in vita i testimoni. Emerge una visione
normativa della logica della repressione, che si immagina segua universalmente uno
schema presentato come coerente.
Sebbene sia la CT sia il giudice di primo grado ritengano credibile l’esperienza di
violenza traumatica subita da Mirabelle come individuo, una volta dimostrata la non
plausibilità di un’azione politica repressiva come quella descritta entrambe le istituzioni
procedono a smontare il nesso tra violenza soggettivamente subita (plausibile) e
repressione politica del dissenso (inverosimile). E’ la rottura di questo nesso che consente
12
13
Verbale della Decisione della Commissione Territoriale, 25/2/2010, corsivo mio.
Sentenza del Tribunale Civile sul ricorso, 7/8/2010.
10
infine di negare la protezione internazionale, accordata unicamente quando è dimostrata
la natura politica della persecuzione.
Le ipotesi di fondo utilizzate per valutare i fatti narrati come prove di, sembrano
allora fare riferimento non tanto a conoscenze (già possedute o ottenute ad hoc) da parte
delle autorità giudicanti sul paese di origine della richiedente asilo14, quanto piuttosto a
credenze condivise su come si immagina che in generale e in assoluto funzioni ogni azione
politica di tipo repressivo. Ad esempio, il giudice non ritiene verosimile che la stessa
struttura carceraria nella quale sono compiute tali violenze possa svolgere “funzione di
ospedale […] emettendo anche una certificazione”15, implicitamente suggerendo che la
nuova prova documentale prodotta in udienza sia falsa, senza controllarne la natura ma
provvedendo a delegittimarne il valore unicamente in base alla non verosimiglianza del
racconto. Potremmo chiederci, parafrasando Csordas: non verosimile rispetto a cosa?
In altri termini, sebbene la procedura di determinazione dello status di rifugiato
preveda il ricorso alla credibilità del racconto come alternativa all’esame delle prove
documentali, in questo caso il racconto diventa la prova della (presunta) inattendibilità dei
fatti narrati a prescindere dai documenti prodotti16. Proprio il fatto che il Tribunale omette
di valutare le prove documentali costituisce in seguito uno dei motivi per cui la Corte
d’Appello decide di accogliere la richiesta di sospensiva avanzata dall’avvocata17,
garantendo a Mirabelle del tempo prezioso.
Come peraltro previsto dalla Direttiva Qualifiche (2004/83/EC, art. 4 § 3).
Sentenza del Tribunale Civile sul ricorso, 7/8/2010. Si veda però Halliday (2010, p. 837) il quale riconosce
come pratica occasionale ben nota l’archiviazione sistematica da parte degli stessi persecutori di documenti e
dati sulle violenze perpetrate.
16 In quella stessa udienza, oltre al certificato medico citato, Mirabelle produce la propria tessera di
affiliazione al partito, nonché i certificati di morte del padre e del fratello.
17 Ordinanza della Corte d’Appello, 15/12/2010, che recepisce il riferimento dell’avvocata alla sentenza della
Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 27310 del 21/10/2008) sull’onere probatorio, che assegna al giudice il
compito di acquisire informazioni aggiornate sulla situazione politica del paese di provenienza del
richiedente. Se la richiesta di sospensiva non fosse stata accolta, Mirabelle avrebbe dovuto lasciare il paese
perché irregolare.
14
15
11
Rumori di fondo
C.T.:
Non trova poco coerente il fatto che l’abbiano lasciata in vita e
testimone dell’omicidio di suo padre e suo fratello?
Mirabelle:
Io stessa mi pongo questa domanda e non so perché. Sono scelte
divine18.
Con questa domanda il membro della Commissione Territoriale che conduce
l’audizione sembra suggerire che vi debba essere una coerenza nella vicenda di orrore di
cui Mirabelle narra di essere stata vittima e testimone. Chiede quindi a Mirabelle di
interpretare la logica che ha guidato i suoi aguzzini provando a mettersi dal loro punto di
vista. Infine, implicando poca coerenza nella sua stessa sopravvivenza, la costringe a
considerare alternative moralmente insostenibili: forse avrebbe dovuto morire anche lei
con i suoi familiari? O forse invece il fratello e il padre meritavano in qualche modo
quanto è accaduto loro?19 Come ricordavo in apertura, la letteratura antropologica ha
mostrato ampiamente che la richiesta di testimoniare verbalmente la violenza in luoghi
pubblici può di fatto inibire la possibilità di esprimere quanto si vorrebbe al contrario fare
emergere (Wilson 2003, Das 2003). Alcune recenti proposte sembrano raccogliere tali
suggestioni, ad esempio esplorando nuovi metodi di raccolta delle prove che consentano
alle vittime di violenza estrema, soprattutto di tipo sessuale, di ricevere giustizia senza
essere costrette a testimoniare (Halliday 2010). Nel caso che descrivo mi pare si vada anche
oltre la violenza simbolica riproposta con l’imposizione di un’unica particolare modalità di
testimoniare20, poiché si mette in discussione la testimonianza stessa a partire dalla
Verbale dell’Audizione della CT, 24/2/2010.
In un recente saggio Simona Taliani (c.s.) riporta un caso analogo, sottolineando non solo l’insostenibilità
etica di tali interrogativi, ma anche la loro potenziale pericolosità soprattutto (ma evidentemente non solo) in
casi di persone fortemente traumatizzate, come i certificati medici e medico-legali indicano rispetto a
Mirabelle.
20 Come suggerisce Veena Das (2003), non è necessariamente l’atto del testimoniare a costituire in sé una
potenziale violenza, quanto l’adozione di pratiche di testimonianza verbale come unica modalità espressiva
prevista per denunciare quanto vissuto che, per molti diversi motivi, può risultare al contrario indicibile.
18
19
12
richiesta di uno sforzo di immaginazione che propone alla vittima di assumere il punto di
vista dei suoi persecutori per fornirne una “spiegazione soddisfacente”.
Ritengo che la risposta data da Mirabelle a se stessa ancora prima che alla CT - “Sono
scelte divine” - indichi il suo rifiuto a lasciarsi costringere dentro una logica di necessaria
ricerca di spiegazioni razionali, rispetto a ciò che percepisce come imperscrutabile e quindi
pertinente ad un altro orizzonte di senso. Per dirla con Renato Rosaldo, di fronte alla
“forza emotiva” di esperienze violente e di lutto, la ricerca di spiegazioni più approfondite
risulta vana perché “il problema di significato risiede nella pratica, non nella teoria”. Il
dilemma di Mirabelle riguarda semmai “la circostanza pratica di come convivere” con la
propria esperienza traumatica, piuttosto che quella astratta di trovare e fornire spiegazioni
logiche (Rosaldo 2001, p. 43).
“Perché non ti hanno ucciso?” chiede un legale dell’Ufficio Immigrazione di Los
Angeles ad un richiedente asilo guatemalteco. Per Susan Coutin (2001), l’impossibilità di
dare conto in modo appropriato dei motivi delle azioni dei persecutori rappresenta, dal
punto di vista del giudice, un buco nella trama della narrazione del richiedente asilo.
Basandosi su una lunga ricerca di campo in California tra richiedenti asilo provenienti da
Salvador e Guatemala, e successivamente sullo studio dei processi legali e politici di
determinazione dello status di rifugiati degli stessi soggetti a Los Angeles, Coutin utilizza
il termine plot-hole per sottolineare il fatto che le richieste con esito positivo sono quelle che
seguono una trama narrativa “prototipica”. Trame non tipiche o che presentano
interruzioni vengono ritenute inattendibili.
Sono però questi buchi di trama che consentono di cogliere lo scarto (la disgiunzione)
tra gli assunti sulla logica della politica che i richiedenti asilo si formano in base alle
esperienze soggettive di violenza e terrore, che emergono dalle narrazioni orali e che
traspaiono ancora in parte dalle trascrizioni istituzionali delle stesse, e le logiche condivise
dai soggetti istituzionali che seguono le procedure legali di protezione internazionale.
Queste logiche - che emergono dalle audizioni e dagli eventuali successivi dibattimenti per
ricorso o appello, e che lasciano traccia nei verbali prodotti in tali incontri – e in generale le
leggi sull’asilo, risultano ancorate alla teoria legale liberale che presume l’esistenza di un
13
individuo-cittadino universale. Immaginare che esperti legali e giudici condividano con i
richiedenti asilo lo stesso universo di significati ed esperienze relative a concetti come
cittadino, diritti, paura o persecuzioni21, significa anche immaginare che “qualsiasi persona
ragionevole nella stessa situazione” avrebbe avuto lo stesso comportamento (Coutin 2008,
p. 83). E questo può applicarsi ai carnefici, alle vittime e a tutti coloro che compaiono nella
narrazione del richiedente asilo.
Nel caso di Mirabelle l’inattendibilità è riferita dal giudice alle modalità di
persecuzione (carcerazione e rilascio) e a quelle del viaggio verso Italia. Mirabelle racconta
di essersi rifugiata in casa del presidente dell’associazione religiosa cui apparteneva, il
quale poco dopo riesce a farla partire con documenti falsi assieme ad un gruppo di
religiosi in viaggio per l’Italia. E spiega di non avere partecipato all’organizzazione del
viaggio, sulle cui modalità non viene informata perché “in quei 10 giorni avevo tentato il
suicidio per quanto mi era successo”. Questa spiegazione, coerente con la condizione
gravissima in cui Mirabelle si trovava e che testimonia la presenza di una persona in grado
di sollevarla da ogni preoccupazione, non è però ritenuta logica dal membro della CT che
conduce l’audizione, il quale motiva il proprio scetticismo facendo riferimento al tipo di
comportamento che qualsiasi soggetto sensato avrebbe dovuto tenere: “Se una persona
intende organizzare la mia fuga credo che abbia avuto un progetto e dei riferimenti per
farmi andare via dal paese e credo che mi avrebbe informato di quello che avrei dovuto
affrontare”.22
Gli scarti tra i due sistemi emergono dai dialoghi riportati nei documenti legali, ogni
volta che l’universo di riferimento di esperienze e interpretazioni di senso dei richiedenti
non coincide con quello previsto dal discorso giuridico sull’asilo, lasciando trapelare la
I presupposti universalistici dei decisori emergono anche dalle domande di controllo. La CT chiede a
Mirabelle di collocare il proprio partito in un’area politica di “destra, sinistra, democratica, liberale…”;
quando Mirabelle risponde che si tratta di “un partito democratico e di opposizione”, chi conduce
l’audizione getta immediato discredito sulla sua risposta (“non sa che [quel partito] aderisce al movimento
socialista internazionale?”), immaginando per il Camerun un’organizzazione politica e partitica che ricalca
un modello occidentale liberale, e mostrando di ritenere personalmente incompatibili i concetti di socialismo
e democrazia (Verbale dell’Audizione in CT, 24/2/2010). Come verrà successivamente appurato, si tratta di
un partito social-democratico.
22 Verbale dell’Audizione in CT, 24/2/2010, corsivo mio.
21
14
difficoltà e gli ostacoli che i soggetti incontrano nel tentare di far rientrare le loro
esperienze in categorie legali predefinite. Sebbene il passaggio alla narrazione/scrittura
necessariamente comporti una perdita di ricchezza e complessità dell’esperienza, nei
processi di co-costruzione di narrazioni di asilo alcune parti o dettagli rilevanti della storia
vengono ridotti, stilizzati o eliminati senza che i richiedenti asilo abbiano la possibilità di
controllare questo processo. Lo studio della documentazione prodotta in tali procedure
consente di mostrare che ad essere tralasciati sono spesso quei dati o fatti che non
combaciano con modelli assunti come universali da chi giudica, e che per questo non
divengono mai prova di ma restano sullo sfondo della narrazione destinati infine ad essere
scartati e perduti.
Nella prima audizione in Commissione Territoriale, Mirabelle racconta che mentre
era in carcere con il padre ed il fratello vengono svegliati da alcuni poliziotti che entrano
nella cella dicendo “’caffè caldo’, che significa che li avrebbero picchiati a morte”. Questa
frase non ritorna più in alcun documento successivo prodotto durante il lungo processo,
nonostante sia commissari e giudici che respingono le sue richieste di protezione, sia
l’avvocata che promuove ricorso e reclamo, utilizzino di frequente citazioni di frasi
pronunciate da Mirabelle, che circolano così attraverso i testi inserite nei verbali dei vari
incontri istituzionali. Eppure un particolare così inquietante e inassimilabile – il ricorso
all’ironia come indice della normalità dell’eccesso di violenza che sta per scatenarsi,
presentata come ingrediente di un qualsiasi risveglio – è una chiave importante per
avvicinarsi all’esperienza che Mirabelle tenta di comunicare. In contesti di violenza diffusa
perpetrata da apparati dello stato o gruppi para-statali nei confronti della popolazione
civile in modo capillare e sotterraneo, il terrore si dota di pratiche e di linguaggi che,
accanto a forme culturalmente o storicamente specifiche, presentano alcuni tratti comuni.
Di questo “repertorio ben noto, ampiamente dispiegato nel corso di diverse epoche e
contesti storico culturali” fanno parte gli eccessi di violenza sul corpo che precedono gli
omicidi, l’uso dei corpi come testi su cui inscrivere macabri messaggi, la violazione delle
sfere personali o familiari più intime23.
23
Su questo punto rimando a Dei (2005 pp. 45 e ss), anche per la ricca bibliografia proposta.
15
Ciò che Mirabelle racconta nei particolari (lo stupro di fronte ai suoi familiari, la
reiterazione della tortura che precede l’uccisione, l’annuncio ironico di quest’ultima,
nonché la pratica di prelevare le vittime in modo eclatante – la casa fu poi rasa al suolo ed
incendiata – e quella di lasciare vivo un testimone come monito pubblico) sono elementi
ricorrenti nella sintassi della violenza repressiva di tipo politico. In particolare, segnalano
un contesto di quotidianità ordinaria di violenza, una prossimità tra carnefici e vittime e la
presenza di una cultura del terrore che pur essendo noti nella letteratura sul tema, non
combaciano con le conoscenze e le credenze di coloro che valutano questa storia, i quali
reputano inverosimili proprio questi elementi della narrazione. La macabra ironia di
quella frase pronunciata come prologo del massacro è una chiave potenzialmente
preziosa, che potrebbe essere usata per aprire la possibilità di indagare la realtà del
contesto politico rispetto al quale valutare la storia della richiedente asilo, ma che resta
invece un rumore di fondo destinato a venire scartato se chi ha il compito di esaminare la
richiesta si affida unicamente alle proprie personali credenze, incapace di coglierne il
valore che risiede proprio nell’eccesso di dettaglio.
Dopo la storia: il flusso del tempo
Il tempo è una dimensione importante nell’asilo nelle sue numerose forme: come
attesa protratta e indefinita che aumenta sfiducia ed insicurezza e impedisce la ripresa di
una vita; come memoria degli eventi che si modifica o si sfoca mentre si aspetta la
convocazione in audizione; come sviluppo lineare imposto alle narrazioni per assegnare
un ordine a storie necessariamente sospese. Nel caso di Mirabelle, il tempo ha giocato
anche un ruolo positivo, o forse è più corretto dire che è stato utilizzato a suo favore.
Nonostante i documenti che compongono l’ampio dossier di Mirabelle da un certo
punto in poi siano un “taglia e incolla” dei testi precedenti senza presentare sostanziali
variazioni, il tempo entra a forza nella storia. Ottenuta la sospensiva della sentenza di
rigetto del ricorso, l’avvocata prepara la documentazione da presentare in Appello di
secondo grado nella quale include – accanto alle certificazioni mediche e psicologiche –
una relazione redatta dalla responsabile di un’Associazione di tutela dei diritti delle donne
16
con la quale Mirabelle è in contatto dal mese di ottobre 2010. Nella relazione si legge che
l’associazione decide da subito di sostenere la richiesta di asilo di Mirabelle a partire
“dalla condivisione del suo impegno a favore della democrazia e della partecipazione
politica delle donne nel suo paese, e dalla violenza di genere subita in ragione di tale
impegno”24. Oltre ad una raccolta di fondi, l’Associazione attiva relazioni e contatti con
ONG, associazioni religiose e singole cittadine nella città di provenienza di Mirabelle al
fine di rintracciare le sue bambine, che al momento della fuga erano in un collegio sotto la
tutela dalla stessa persona che aveva organizzato la fuga di Mirabelle. Per motivi di
scurezza, questi porta le bambine in un altro collegio facendole registrare con il nome della
sua stessa sorella, le affida ad una suora di cui si fida a cui rivela la loro vera identità, e si
cura di pagare la retta. Ma nel luglio del 2010 questa persona si ammala e non riesce più a
pagare; sebbene Mirabelle riesca a provvedere personalmente (facendo pervenire i soldi
alla sorella di un’amica conosciuta in Italia), nel gennaio 2011 la suora del collegio le
comunica che sarà trasferita e che non si fida della nuova responsabile. Pochi giorni dopo,
le bambine vengono effettivamente portate in un orfanotrofio dove potrebbero essere date
in adozione ma, soprattutto, “potrebbero sparire”. E’ in questo periodo che le condizioni
psicologiche di Mirabelle si aggravano ulteriormente, nonostante in tempi relativamente
celeri riesca, con l’invio di altri soldi, a farle portare di nuovo al collegio.
Nella sua azione politica l’Associazione segue due linee diverse. Nella relazione
allegata all’Appello di secondo grado racconta una vicenda umana incredibilmente
dolorosa e pericolosamente in bilico rispetto alla quale è necessario agire rapidamente,
contestualmente confermando - attraverso i canali aperti con soggetti privati e istituzionali
nel paese - la verità della storia narrata. Nell’appello pubblico indirizzato alla Corte di
Appello, dimostra con esempi storici il generale ricorso allo stupro come arma politica
nonché la necessità di lasciare in vita le vittime per testimoniare “le conseguenze del
proprio agire politico”, restaurando così il nesso tra violenza di genere subita da Mirabelle
e persecuzione politica, necessario a motivare la richiesta di asilo.
Relazione della responsabile dell’Associazione, 19/4/2011. La prima azione svolta per rendere pubblica la
vicenda di Mirabelle è un appello per il riconoscimento dello status e una raccolta di firme nella regione.
24
17
In realtà, l’udienza di Appello non si terrà mai poiché nello stesso periodo
l’avvocata riesce ad ottenere piuttosto una nuova audizione presso la Commissione
Territoriale, facendo ora rientrare il caso di richiesta di asilo nella categoria specifica di
“soggetto vulnerabile”25. Questa volta, già la semplice richiesta di appuntamento inoltrata
alla Questura competente è un testo denso e stratificato, in cui compaiono passi e brani di
molti documenti precedenti, e al riassunto della storia si affiancano citazioni dall’appello
dell’Associazione per i diritti delle donne, considerazioni sul paese tratte da rapporti di
organismi internazionali accreditati e stralci delle numerose certificazioni mediche che
attestano l’indubbia vulnerabilità della richiedente. La nuova audizione si tiene nell’aprile
del 2011 e a maggio Mirabelle ottiene lo status di rifugiata.
Confrontando i testi dei Verbali delle due audizioni non è possibile rintracciare
alcun elemento differente o nuovo; semmai la seconda audizione è sensibilmente più
breve della prima e non fa mai riferimento alla storia di persecuzione, concentrandosi
interamente sulla vicenda delle sue bambine e sulla collocazione e le attività del partito di
opposizione di cui Mirabelle era membro attivo. Eppure, nel Verbale di decisione della
seconda CT si afferma che la richiedente mostra ora di sapere “rendere un racconto
persuasivo delle sue vicende, soprattutto degli eventi traumatici”26. Questa motivazione
mostra i limiti della ricerca etnografica nel campo dell’asilo, costretta in molti casi a
confrontarsi unicamente con testi scritti che non consentono di percepire atteggiamenti,
disposizioni ed emozioni che si attivano in una relazione burocratica delicata e sensibile
come
quella
descritta.
Simultaneamente
consente
di
riconoscere
la
centralità
dell’esperienza (inter)soggettiva nei processi d’asilo e in generale nei procedimenti
giudiziari, pensati solitamente come luoghi asettici e neutrali.
L’annullamento del provvedimento di diniego adottato dalla prima CT viene
inoltre motivato facendo riferimento da un lato alla certificazione medica che mostra un
quadro
clinico
riconducibile
alle
violenze
narrate
dalla
richiedente,
dall’altro
La nuova decisione della CT ha riconosciuto la protezione internazionale annullando in toto la precedente,
cosa alquanto rara (Avv. Antonietta Cozza, comunicazione personale).
26 Verbale della Decisione della Commissione Territoriale, 5/5/2011, corsivo mio. E’ importante notare che
viene riconosciuto come dirimente un aspetto soggettivo (la capacità persuasiva) che non dovrebbe costituire
un elemento di valutazione.
25
18
all’Associazione femminile che “dichiara” una situazione di insicurezza per le sue figlie. I
motivi con i quali Mirabelle ottiene infine il riconoscimento dello status 14 mesi dopo il
primo diniego, confermano senza dubbio la tendenza nota e comune anche ad altri paesi
europei, dove più le storie dei richiedenti asilo incontrano scetticismo e generano sospetto
maggiore è il ricorso a certificati prodotti da esperti – solitamente medici e più raramente
antropologi.27 D’altro canto, potremmo suggerire che si tratta di un esempio di come le
storie possano avere “conseguenze impreviste” così che di fronte a situazioni di pericolo o
insicurezza (come nel nostro caso la sorte delle due bambine) i soggetti istituzionali
chiamati a decidere non restano “sordi o ciechi” (Das 2003, p. 301), incorporando infine
nella propria decisione aspetti che dal punto di vista strettamente giuridico non
troverebbero spazio in una più rigida applicazione della legge sull’asilo.
Assumendo i frammenti della narrazione di Mirabelle non come Verità, ma come
tentativi di attribuzione di senso ad una esperienza soggettiva estrema, ho tentato di
mostrare la sua partecipazione al processo di co-produzione di un discorso sull’asilo che si
affianca, giustappone e sovrappone (ed anche viene appropriato, rimodellato, coperto o
annullato) da altri discorsi di costruzione di senso e ricostruzione di verità sulla stessa
vicenda prodotti dai soggetti istituzionali. Queste narrative dominanti divengono il
modello interpretativo rispetto al quale organizzare, comunicare e valutare l’esperienza,
senza essere esse stesse sottoposte ad esame28.
Per la centralità del trauma e/o della sua certificazione, si veda Fassin, D’Halluin 2007, McKinney 2007,
Beneduce 2010.
28 Bruner 1986, p. 18.
27
19
Bibliografia
Beneduce Roberto, 2010, Archeologie del trauma. Un’antropologia del sottosuolo, Roma, Bari,
Laterza.
Blommaert Jan, 2001, Investigating narrative inequality: African asylum seekers’ stories in
Belgium, “Discourse & Society”, 12(4), pp. 413-49.
Blommaert Jan, 2009, Language, Asylum, and the National Order, “Current Anthropology”,
50(4), pp. 415-41.
Bohmer Carol, Shuman Amy, 2008, Rejecting Refugees. Political asylum in the 21st century,
Routledge, London, New York.
Bruner Edward M., 1986, Experience and its Expressions, in V. W. Turner, E. M. Bruner (a
cura di), The Anthropology of Experience, University of Illinois Press, Urbana &
Chicago.
Coutin Susan, 2001, The Oppressed, the Suspect, and the Citizen: Subjectivity in Competing
Accounts of Political Violence, Law and Social Inquiry, 26(1), pp. 63-94.
Coutin Susan, Yngvesson Barbara, 2008, Technolgies of Knowledge Production: Law,
Ethnography, and the Limits of Explanation, “PoLAR. Political and Legal
Anthropology Review”, 31(1), pp. 1-7.
Csordas Thomas J., 2004, Evidence of and for what?, “Anthropological Theory”, 4(4), pp. 47380.
Das Veena, 2003, Trauma and Testimony. Implications for political community,
“Anthropological Theory”, 3(3), pp. 293-307.
Das Veena, 2007, Commentary: Trauma and Testimony: Between Law and Discipline, “Ethos”,
35(3), pp. 330-35.
Dei Fabio, 2005, Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza, in Id. (a cura di) Antropologia
della violenza, Meltemi, Roma.
Eastmond Marita, 2007, Stories as Lived Experiences: Narratives in Forced Migration Research,
“Journal of Refugee Studies”, 20(2), pp. 248-64.
Fassin Didier, 2011, Policing Borders, Producing Boundaries. The Governamentality of
Immigration in Dark Times, “Annual Review of Anthropology”, 40, pp. 213-26.
Fassin Didier, D'Halluin Estelle, 2007, Critical Evidence: The Politics of Trauma in French
Asylum Policies, “Ethos”, 35(3), p. 300–29.
Good Anthony, 2007, Anthropology and expertise in the asylum courts, Routledge-Cavendish,
Abingdon & N.Y.
Good Anthony, 2011, Witness statements and credibility assessments in the British asylum
courts, in L. Holden (a cura di), Cultural Expertise and Litigation. Patterns, Conflicts,
Narratives, Routledge, Abingdon & N.Y., pp. 94-121.
Halliday Terence C., 2010, Introduction: Symposium on Systematic Sexual Violence and
International Criminal Law, “Law & Social Inquiry”, 35(4), pp. 835-38.
Jacquemet Marco, 2005, The Registration Interview. Restricting Refugees’ Narrative
Performance, in A. De Fina, M. Baynham (a cura di), Dislocations/Relocations.
Narratives of Displacement, St. Jerome Publishing, Manchester & Northampton, pp.
197-220.
20
Malkki Liisa, 1996, Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization,
“Cultural Anthropology”, 11(3), pp. 377-404.
Maryns Katrijn, 2006, The Asylum speaker. Language in the Belgian Asylum Procedure, St.
Jerome Publishing, Manchester & Northampton.
Pozzi Sara, 2011, Raccontarci storie, in B. Sorgoni (a cura di), Etnografia dell’accoglienza.
Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, CISU, Roma, pp. 35-60.
Rosaldo Renato, La rabbia e il dolore di un cacciatore di teste, in Id. Cultura e Verità; Meltemi,
Roma.
Ross Fiona, 2003, On having a voice and being heard. Some after-effects of testifying before the
South African Truth and Reconciliation Commission, “Anthropological Theory”, 3(3),
pp. 325-41.
Sandvik Kristin B., 2011, Blurring Boundaries: Refugee Resettlement in Kampala – between the
Formal, the Informal, and the Illegal, “PoLAR. Political and Legal Anthropology
Review”, 34(1), pp. 11-32.
Sbriccoli Tommaso, Jacoviello Stefano, 2011, The case of S. Elaborating the “right” narrative to
fit normative/political expectations in asylum procedure in Italy, in L. Holden (a cura di),
Cultural Expertise and Litigation. Patterns, Conflicts, Narratives, Routledge, Abingdon
& N.Y., pp. 172-94.
Sorgoni B., c.s., Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni, in B. Pinelli (a cura di), Verso
l’Italia. Immigrazione e produzione di soggettività, “La Ricerca Folklorica”, numero
monografico.
Sweeney James A., 2009, Credibility, Proof and Refugee Law, “International Journal of
Refugee Law”, 21(4), pp. 700-26.
Taliani Simona, c.s., Il passato credibile e il corpo impudico. Storia, violenza e trauma nelle
biografie di donne africane richiedenti asilo in Italia, “Lares”, numero monografico
sull’asilo, a cura di B. Sorgoni.
UNHCR, 1992, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status under the
1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, Geneve,
http://www.unhcr.org/
21