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Sorgoni - ??????????????????
etnografie
rifugiati
Il nostro è il secolo dei rifugiati. È quasi impossibile percorrere la letteratura sui richiedenti
asilo senza imbattersi almeno una volta in questa affermazione, anticipata da Said nelle
sue riflessioni sull’esilio. Ma l’esilio di ieri non assomiglia in tutto all’asilo di oggi. Nel processo che porta pochi selezionati individui (apolidi, esuli) ad essere rimpiazzati da masse
in movimento (profughi, rifugiati) cambiano non solo le condizioni storiche, ma anche le
modalità con cui il fenomeno viene identificato e rappresentato, nonché le politiche di ricezione e gestione dello stesso. L’esilio rimanda infatti anche ad una condizione estetizzatile: implicando elementi di volontarietà, libertà e potere, si presta ad essere idealizzato
divenendo fonte di ispirazione letteraria. Al contrario, la condizione del rifugiato suggerisce la presenza di masse anonime in pericolo costrette a spostarsi più che desiderose di
farlo, rimanda non al mondo della creatività ma a quello della burocrazia umanitaria, a regole e costrizioni, recinti e protocolli. Non libertà e potere, ma controllo, pericolo e dolore.
Per rappresentare i rifugiati i media propongono quindi immagini di masse di individui
dalla corporeità anonima che, premendo sugli schermi televisivi sembrano minacciosamente incombere sui nostri confini, mentre la loro presunta incapacità di reagire prova la
necessarietà di intervento umanitario (Feldman 1994, Malkki 1996). Uno studio sul rifugio a Milano1 propone un’immagine diversa, che richiamando quelle del nostro immediato dopo-guerra ricorda le molte forme di continuità - per precarietà, sofferenza e violenza - tra l’“arretratezza” dei luoghi da cui si è fuggiti e la “modernità” del paese di approdo.
La foto che ho scelto ritrae un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati in un momento del
percorso di “integrazione” proposto dal comune in cui sono stati collocati dal Sistema di
Protezione Nazionale. Tranne quello della docente volontaria, gli altri volti sono stati oscurati poiché lo status giuridico di molti è ancora incerto; ma il contesto della fotografia, gli
atteggiamenti affettuosi ed i sorrisi di alcuni fungono da contrappunto alle immagini consuete. Poiché nulla in questo gruppo di persone le identifica come richiedenti asilo, utilizzo questa immagine per articolare le principali caratteristiche che costituiscono la categoria “rifugiato” a livello trans-nazionale e, successivamente, per mostrare attraverso alcuni esempi etnografici in che modo tali caratteristiche vengano riproposte a livello locale
attraverso pratiche politiche di integrazione.
Più categorie, meno rifugiati
Nel tracciare un bilancio dei suoi studi degli ultimi vent’anni Roger Zetter2 annuncia un significativo cambiamento di rotta: se nel passato il suo interesse era contribuire ad una
identificazione e definizione dei rifugiati, oggi è piuttosto quello di “disetichettarli”. La
proliferazione di etichette politico-giuridiche, scrive, ha reso la categoria oscura e confusa,
e nasconde il fatto che tale status si è trasformato in premio per pochi, mentre il discorso
politico non si esprime più in termini di diritti e possibilità ma di identità, appartenenza e
accesso ristretto, e la gestione del fenomeno è passata dalle associazioni non governative
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1 - Si veda la ricerca
coordinata da Van Aken
(2008).
2 - Attuale direttore del
Refugee Studies Centre di
Oxford, si veda il suo saggio
del 2007.
3 - Si veda ora su questo il
volume curato da
Bellagamba 2009.
4 - In antropologia, la
letteratura si è focalizzata
essenzialmente sulle
classificazioni, la gestione
delle differenze e la
creazione di confini, su
reciprocità, controllo sociale
e fiducia (Malkki 1995,
Colson 2003)
5 - Per il primo tema è utile
la rassegna proposta in
Foster 1991; per il secondo
penso all’impatto delle
riflessioni di Appadurai 1988
sull’analisi di spostamenti,
dislocazioni e asilo (Gupta,
Ferguson 1992, Malkki
1992).
6 - Questa “epistemologia
causale non-reciproca” si
collega alla spazializzazione
delle culture nel facilitare
l’organizzazione di un sapere
per il quale gli operatori
divengono gli esperti mentre
i rifugiati vengono
delegittimati perché incapaci
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o comunque non oggettivi
(de Voe 1981, Harrell-Bond
2005, Fassin, D’Halluin
2005).
7 - La standardizzazione
delle narrative, che
includono sempre più
violenze estreme nel
racconto della storia di fuga,
rappresenta un buon
esempio della circolarità del
meccanismo di (s)fiducia,
rafforzando l’idea che loro
“mentano” e spostando
esclusivamente
sull’investigazione dei corpi
la ricerca di verità.
Trasversale ai diversi
approcci, fiducia e inganno
sono esplicitamente trattati
anche in Beneduce 2008, e
Daniel, Knudsen 1995.
8 - Gli items di valutazione
adottati sono una versione
parziale e riadattata dell’ICF
(International Classification
of Functioning, Disability and
Health): uno strumento
creato dall’OMS per valutare
la disabilità fisica e mentale
degli adulti.
alle istituzioni statali. In tutta Europa l’erosione dei diritti sociali dei richiedenti asilo si accompagna ad una riduzione della spesa pubblica, alla burocratizzazione dei programmi di
accoglienza ed al rinnovato dibattito (non solo europeo3) sulla cittadinanza e le forme di
esclusione sociale che questa non preclude e che, nel caso dei rifugiati, appaiono semmai
istituzionalizzate.
Come oggetto di studio, il termine compare in Europa dopo la fine della seconda guerra
mondiale in concomitanza con l’emergere di tecniche di governo che associano cura e
controllo nella gestione di masse di individui delocalizzati; di istituzioni amministrative preposte al loro contenimento (i campi profughi); di nuovi strumenti giuridici; e di una classe
di persone formate per disciplinare tali masse e utilizzare tali tecniche, spesso secondo
modelli di organizzazione militare. Più che un campo di studi oggettivamente delimitato,
il termine implica la ridefinizione di concetti quali cittadinanza, nazionalità ed appartenenza, identità, etnia e cultura, nazionalismo e razzismo4; è inoltre al centro dell’interesse
di differenti discipline quali le relazioni internazionali, lo sviluppo, la stessa antropologia
ed il settore dei “refugee studies”, secondo angolazioni e intenti differenti. Nonostante
questo, alcuni temi tornano incessantemente nella letteratura e nelle politiche sui rifugiati,
a prescindere dal taglio adottato e dal contesto analizzato.
Un primo tema è quello dello sradicamento come condizione psico-sociale dell’esperienza
dei richiedenti asilo, che deriva dall’essere costretti ad abbandonare il proprio paese e, con
esso, i legami affettivi e sociali e in generale la propria cultura. Senza negare il portato di
sofferenza esperito da individui che per necessità o con la forza si trovano ad espatriare,
è importante riconoscere come spesso, tanto negli studi quanto nelle politiche, la condizione dei rifugiati sia costretta all’interno di questa dimensione che funge da strumento
di omogeneizzazione e riduzione, in un’unica categoria unificante, di storie e vissuti diversi. L’assunto in base al quale l’allontanamento dal proprio paese si traduce in perdita
della propria cultura e lo sradicamento in perdita di identità, affonda sia nei processi di costruzione nazionale sia nella tendenza antropologica a spazializzare le culture ancorandole
a determinati luoghi in modo tale che i nativi, più che appartenervi, vi restano “incarcerati”5. L’esito, tanto sul piano politico quanto su quello analitico, è un processo di depersonalizzazione e destorificazione dei soggetti la cui identità appare non in trasformazione
ma sempre in perdita.
Un secondo tema, strettamente collegato a tale “metafisica sedentarista”, è quello della
vittimizzazione dei rifugiati. Identificando l’abbandono delle proprie “radici” con la perdita di identità culturale e personale, i rifugiati vengono percepiti, descritti e trattati essenzialmente come vittime della storia. Come soggetti inermi e perennemente in stato di necessità, individui dalle diverse storie vengono rubricati nella comune categoria del disagio
e della labilità psicologica, mentre la stessa struttura dell’aiuto istituisce una relazione di
dipendenza tra riceventi e benefattori, che circolarmente rafforza debolezza e impotenza
dei primi, demandando agli operatori il compito di definirne i bisogni e rendendo al contempo impossibile qualsiasi forma di reciprocità7.
Infine il tema della fiducia nelle sue varie possibili declinazioni. Da quanto detto risulta
chiaro come la stessa relazione di aiuto, impostata sull’assenza di reciprocità e su meccanismi di controllo e verifica della eleggibilità del richiedente per l’ottenimento di diritti e risorse si collochi a priori e dall’inizio in un contesto di sospetto e sfiducia a livello sovra-nazionale e nazionale, ancora prima che locale. D’altro canto la percezione di tale clima di
sospetto, unita alla dipendenza dalle strutture di contenimento per l’accesso ai più basilari diritti, comporta l’uso di qualsiasi stratagemma da parte dei richiedenti asilo nella relazione con operatori e associazioni8.
“So che sono un profugo, so i miei limiti giuridici”:
questa è la consapevolezza dell’identità
Così si è espressa una volontaria impegnata nella valutazione di richiedenti asilo del corso
di italiano offerto dal comune di Ravenna, che verteva in quel caso sulla “consapevolezza
della propria identità” dei soggetti osservati . La frase indica in modo estremamente chiaro
come la complessità delle singole individualità sia ridotta interamente alla dimensione giuridica, e lo sradicamento tradotto automaticamente in perdita di identità. L’intervento
delle associazioni di volontariato è ovunque essenziale per la gestione dell’accoglienza, ed
è apprezzato dagli stessi membri per la maggiore libertà che consente il non essere dipendenti di un sistema ritenuto coercitivo o punitivo (Hynes 2009). Tale ruolo permette atteggiamenti informali caratterizzati da maggiore empatia e fiducia perché basati sulla generosità. La mia ricerca tra i volontari che a titolo personale e gratuito offrono il loro tempo
a sostegno di tali attività può servire da commento al modo in cui i temi enucleati informano le relazioni quotidiane di assistenza. La stessa enfasi sulla maggiore libertà del volontario rispetto all’operatore poggia su una netta differenziazione dei ruoli secondo la
quale l’aiuto offerto spontaneamente dai primi è di particolare valore poiché rivolto a per-
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sone che “non hanno niente”. Né viene ritenuta necessaria una formazione specifica dato
che “qualsiasi cosa il volontario può offrire, è già tanto per chi ha perso tutto”.
Il tema dello sradicamento come perdita di identità svolge un ruolo centrale nel definire
la relazione in termini asimmetrici, dove la gratitudine è inscritta a priori e a prescindere
dalle attività svolte. Così, nel valutare la capacità di “orientamento geografico e temporale” degli utenti, il gruppo di volontari riconosce in modo unanime che “non hanno ancora molto il senso del tempo”. Nella discussione su questo punto molti sottolineano che
gli utenti apprezzano il servizio, sebbene nel recarvisi “certo non corrono”, maturando
spesso ritardo. Quando l’operatore fa notare che tale ritardo dipende dall’orario del bus,
la discussione si sposta sul fatto che gli utenti puntuali sono quelli che rinunciano a recarsi
nelle strutture di accoglienza per riposare durante la pausa pranzo. Quindi chi arriva più
tardi mostra di non apprezzare a sufficienza quanto offerto, e riceve un punteggio più
basso poiché non si è “ancora abituato ai ritmi di qui: bisogna che tutti si sottopongano
al progetto”.
È interessante notare come questa posizione azzeri la distanza tra operatori e volontari,
da un lato contrastando la retorica della libertà degli ultimi e rendendoli (agli occhi degli
utenti) strumento dei primi, dall’altro esponendo la natura asimmetrica della relazione
stessa. Di fronte alla tensione causata dal rifiuto di alcuni richiedenti asilo di partecipare
ad una iniziativa extra-didattica, gli ingredienti di tale rapporto emergono con chiarezza.
E al volontario che con risentimento sottolinea sia la necessità di uniformarsi tutti al progetto, sia la scarsa gratitudine mostrata verso chi offre gratuitamente il proprio tempo, i
due utenti in disaccordo replicano seccamente, passando con notevole sforzo alla lingua
italiana sebbene nel paese da poche settimane: “non vogliamo debiti con nessuno”. È
solo un inizio. Le frasi riportate possono servire come piccoli esempi a commento della traduzione a livello locale di politiche e pratiche nazionali e sovra-nazionali; resta ancora da
fare il lavoro propriamente antropologico di ricostruzione delle modalità attraverso cui
questo avviene.
Riferimenti bibliografici
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