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Rifugiati

2009, AM Antropologia Museale

Il nostro è il secolo dei rifugiati. È quasi impossibile percorrere la letteratura sui richiedenti asilo senza imbattersi almeno una volta in questa affermazione, anticipata da Said nelle sue riflessioni sull'esilio. Ma l'esilio di ieri non assomiglia in tutto all'asilo di oggi. Nel processo che porta pochi selezionati individui (apolidi, esuli) ad essere rimpiazzati da masse in movimento (profughi, rifugiati) cambiano non solo le condizioni storiche, ma anche le modalità con cui il fenomeno viene identificato e rappresentato, nonché le politiche di ricezione e gestione dello stesso.

XLIII Sorgoni - ?????????????????? etnografie rifugiati Il nostro è il secolo dei rifugiati. È quasi impossibile percorrere la letteratura sui richiedenti asilo senza imbattersi almeno una volta in questa affermazione, anticipata da Said nelle sue riflessioni sull’esilio. Ma l’esilio di ieri non assomiglia in tutto all’asilo di oggi. Nel processo che porta pochi selezionati individui (apolidi, esuli) ad essere rimpiazzati da masse in movimento (profughi, rifugiati) cambiano non solo le condizioni storiche, ma anche le modalità con cui il fenomeno viene identificato e rappresentato, nonché le politiche di ricezione e gestione dello stesso. L’esilio rimanda infatti anche ad una condizione estetizzatile: implicando elementi di volontarietà, libertà e potere, si presta ad essere idealizzato divenendo fonte di ispirazione letteraria. Al contrario, la condizione del rifugiato suggerisce la presenza di masse anonime in pericolo costrette a spostarsi più che desiderose di farlo, rimanda non al mondo della creatività ma a quello della burocrazia umanitaria, a regole e costrizioni, recinti e protocolli. Non libertà e potere, ma controllo, pericolo e dolore. Per rappresentare i rifugiati i media propongono quindi immagini di masse di individui dalla corporeità anonima che, premendo sugli schermi televisivi sembrano minacciosamente incombere sui nostri confini, mentre la loro presunta incapacità di reagire prova la necessarietà di intervento umanitario (Feldman 1994, Malkki 1996). Uno studio sul rifugio a Milano1 propone un’immagine diversa, che richiamando quelle del nostro immediato dopo-guerra ricorda le molte forme di continuità - per precarietà, sofferenza e violenza - tra l’“arretratezza” dei luoghi da cui si è fuggiti e la “modernità” del paese di approdo. La foto che ho scelto ritrae un gruppo di richiedenti asilo e rifugiati in un momento del percorso di “integrazione” proposto dal comune in cui sono stati collocati dal Sistema di Protezione Nazionale. Tranne quello della docente volontaria, gli altri volti sono stati oscurati poiché lo status giuridico di molti è ancora incerto; ma il contesto della fotografia, gli atteggiamenti affettuosi ed i sorrisi di alcuni fungono da contrappunto alle immagini consuete. Poiché nulla in questo gruppo di persone le identifica come richiedenti asilo, utilizzo questa immagine per articolare le principali caratteristiche che costituiscono la categoria “rifugiato” a livello trans-nazionale e, successivamente, per mostrare attraverso alcuni esempi etnografici in che modo tali caratteristiche vengano riproposte a livello locale attraverso pratiche politiche di integrazione. Più categorie, meno rifugiati Nel tracciare un bilancio dei suoi studi degli ultimi vent’anni Roger Zetter2 annuncia un significativo cambiamento di rotta: se nel passato il suo interesse era contribuire ad una identificazione e definizione dei rifugiati, oggi è piuttosto quello di “disetichettarli”. La proliferazione di etichette politico-giuridiche, scrive, ha reso la categoria oscura e confusa, e nasconde il fatto che tale status si è trasformato in premio per pochi, mentre il discorso politico non si esprime più in termini di diritti e possibilità ma di identità, appartenenza e accesso ristretto, e la gestione del fenomeno è passata dalle associazioni non governative am 22 rovesciato.indd XLIII 1 - Si veda la ricerca coordinata da Van Aken (2008). 2 - Attuale direttore del Refugee Studies Centre di Oxford, si veda il suo saggio del 2007. 3 - Si veda ora su questo il volume curato da Bellagamba 2009. 4 - In antropologia, la letteratura si è focalizzata essenzialmente sulle classificazioni, la gestione delle differenze e la creazione di confini, su reciprocità, controllo sociale e fiducia (Malkki 1995, Colson 2003) 5 - Per il primo tema è utile la rassegna proposta in Foster 1991; per il secondo penso all’impatto delle riflessioni di Appadurai 1988 sull’analisi di spostamenti, dislocazioni e asilo (Gupta, Ferguson 1992, Malkki 1992). 6 - Questa “epistemologia causale non-reciproca” si collega alla spazializzazione delle culture nel facilitare l’organizzazione di un sapere per il quale gli operatori divengono gli esperti mentre i rifugiati vengono delegittimati perché incapaci 04/05/2009 14.07.04 XLIV o comunque non oggettivi (de Voe 1981, Harrell-Bond 2005, Fassin, D’Halluin 2005). 7 - La standardizzazione delle narrative, che includono sempre più violenze estreme nel racconto della storia di fuga, rappresenta un buon esempio della circolarità del meccanismo di (s)fiducia, rafforzando l’idea che loro “mentano” e spostando esclusivamente sull’investigazione dei corpi la ricerca di verità. Trasversale ai diversi approcci, fiducia e inganno sono esplicitamente trattati anche in Beneduce 2008, e Daniel, Knudsen 1995. 8 - Gli items di valutazione adottati sono una versione parziale e riadattata dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health): uno strumento creato dall’OMS per valutare la disabilità fisica e mentale degli adulti. alle istituzioni statali. In tutta Europa l’erosione dei diritti sociali dei richiedenti asilo si accompagna ad una riduzione della spesa pubblica, alla burocratizzazione dei programmi di accoglienza ed al rinnovato dibattito (non solo europeo3) sulla cittadinanza e le forme di esclusione sociale che questa non preclude e che, nel caso dei rifugiati, appaiono semmai istituzionalizzate. Come oggetto di studio, il termine compare in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale in concomitanza con l’emergere di tecniche di governo che associano cura e controllo nella gestione di masse di individui delocalizzati; di istituzioni amministrative preposte al loro contenimento (i campi profughi); di nuovi strumenti giuridici; e di una classe di persone formate per disciplinare tali masse e utilizzare tali tecniche, spesso secondo modelli di organizzazione militare. Più che un campo di studi oggettivamente delimitato, il termine implica la ridefinizione di concetti quali cittadinanza, nazionalità ed appartenenza, identità, etnia e cultura, nazionalismo e razzismo4; è inoltre al centro dell’interesse di differenti discipline quali le relazioni internazionali, lo sviluppo, la stessa antropologia ed il settore dei “refugee studies”, secondo angolazioni e intenti differenti. Nonostante questo, alcuni temi tornano incessantemente nella letteratura e nelle politiche sui rifugiati, a prescindere dal taglio adottato e dal contesto analizzato. Un primo tema è quello dello sradicamento come condizione psico-sociale dell’esperienza dei richiedenti asilo, che deriva dall’essere costretti ad abbandonare il proprio paese e, con esso, i legami affettivi e sociali e in generale la propria cultura. Senza negare il portato di sofferenza esperito da individui che per necessità o con la forza si trovano ad espatriare, è importante riconoscere come spesso, tanto negli studi quanto nelle politiche, la condizione dei rifugiati sia costretta all’interno di questa dimensione che funge da strumento di omogeneizzazione e riduzione, in un’unica categoria unificante, di storie e vissuti diversi. L’assunto in base al quale l’allontanamento dal proprio paese si traduce in perdita della propria cultura e lo sradicamento in perdita di identità, affonda sia nei processi di costruzione nazionale sia nella tendenza antropologica a spazializzare le culture ancorandole a determinati luoghi in modo tale che i nativi, più che appartenervi, vi restano “incarcerati”5. L’esito, tanto sul piano politico quanto su quello analitico, è un processo di depersonalizzazione e destorificazione dei soggetti la cui identità appare non in trasformazione ma sempre in perdita. Un secondo tema, strettamente collegato a tale “metafisica sedentarista”, è quello della vittimizzazione dei rifugiati. Identificando l’abbandono delle proprie “radici” con la perdita di identità culturale e personale, i rifugiati vengono percepiti, descritti e trattati essenzialmente come vittime della storia. Come soggetti inermi e perennemente in stato di necessità, individui dalle diverse storie vengono rubricati nella comune categoria del disagio e della labilità psicologica, mentre la stessa struttura dell’aiuto istituisce una relazione di dipendenza tra riceventi e benefattori, che circolarmente rafforza debolezza e impotenza dei primi, demandando agli operatori il compito di definirne i bisogni e rendendo al contempo impossibile qualsiasi forma di reciprocità7. Infine il tema della fiducia nelle sue varie possibili declinazioni. Da quanto detto risulta chiaro come la stessa relazione di aiuto, impostata sull’assenza di reciprocità e su meccanismi di controllo e verifica della eleggibilità del richiedente per l’ottenimento di diritti e risorse si collochi a priori e dall’inizio in un contesto di sospetto e sfiducia a livello sovra-nazionale e nazionale, ancora prima che locale. D’altro canto la percezione di tale clima di sospetto, unita alla dipendenza dalle strutture di contenimento per l’accesso ai più basilari diritti, comporta l’uso di qualsiasi stratagemma da parte dei richiedenti asilo nella relazione con operatori e associazioni8. “So che sono un profugo, so i miei limiti giuridici”: questa è la consapevolezza dell’identità Così si è espressa una volontaria impegnata nella valutazione di richiedenti asilo del corso di italiano offerto dal comune di Ravenna, che verteva in quel caso sulla “consapevolezza della propria identità” dei soggetti osservati . La frase indica in modo estremamente chiaro come la complessità delle singole individualità sia ridotta interamente alla dimensione giuridica, e lo sradicamento tradotto automaticamente in perdita di identità. L’intervento delle associazioni di volontariato è ovunque essenziale per la gestione dell’accoglienza, ed è apprezzato dagli stessi membri per la maggiore libertà che consente il non essere dipendenti di un sistema ritenuto coercitivo o punitivo (Hynes 2009). Tale ruolo permette atteggiamenti informali caratterizzati da maggiore empatia e fiducia perché basati sulla generosità. La mia ricerca tra i volontari che a titolo personale e gratuito offrono il loro tempo a sostegno di tali attività può servire da commento al modo in cui i temi enucleati informano le relazioni quotidiane di assistenza. La stessa enfasi sulla maggiore libertà del volontario rispetto all’operatore poggia su una netta differenziazione dei ruoli secondo la quale l’aiuto offerto spontaneamente dai primi è di particolare valore poiché rivolto a per- am 22 rovesciato.indd XLIV 04/05/2009 14.07.04 XLV sone che “non hanno niente”. Né viene ritenuta necessaria una formazione specifica dato che “qualsiasi cosa il volontario può offrire, è già tanto per chi ha perso tutto”. Il tema dello sradicamento come perdita di identità svolge un ruolo centrale nel definire la relazione in termini asimmetrici, dove la gratitudine è inscritta a priori e a prescindere dalle attività svolte. Così, nel valutare la capacità di “orientamento geografico e temporale” degli utenti, il gruppo di volontari riconosce in modo unanime che “non hanno ancora molto il senso del tempo”. Nella discussione su questo punto molti sottolineano che gli utenti apprezzano il servizio, sebbene nel recarvisi “certo non corrono”, maturando spesso ritardo. Quando l’operatore fa notare che tale ritardo dipende dall’orario del bus, la discussione si sposta sul fatto che gli utenti puntuali sono quelli che rinunciano a recarsi nelle strutture di accoglienza per riposare durante la pausa pranzo. Quindi chi arriva più tardi mostra di non apprezzare a sufficienza quanto offerto, e riceve un punteggio più basso poiché non si è “ancora abituato ai ritmi di qui: bisogna che tutti si sottopongano al progetto”. È interessante notare come questa posizione azzeri la distanza tra operatori e volontari, da un lato contrastando la retorica della libertà degli ultimi e rendendoli (agli occhi degli utenti) strumento dei primi, dall’altro esponendo la natura asimmetrica della relazione stessa. Di fronte alla tensione causata dal rifiuto di alcuni richiedenti asilo di partecipare ad una iniziativa extra-didattica, gli ingredienti di tale rapporto emergono con chiarezza. E al volontario che con risentimento sottolinea sia la necessità di uniformarsi tutti al progetto, sia la scarsa gratitudine mostrata verso chi offre gratuitamente il proprio tempo, i due utenti in disaccordo replicano seccamente, passando con notevole sforzo alla lingua italiana sebbene nel paese da poche settimane: “non vogliamo debiti con nessuno”. È solo un inizio. Le frasi riportate possono servire come piccoli esempi a commento della traduzione a livello locale di politiche e pratiche nazionali e sovra-nazionali; resta ancora da fare il lavoro propriamente antropologico di ricostruzione delle modalità attraverso cui questo avviene. Riferimenti bibliografici Appadurai, A. (1988) Putting Hierarchy in its Place, “Cultural Anthropology”, n. 3(1), pp. 36-49. Bellagamba, A. (2009), a cura, Inclusi/Esclusi. Prospettive africane sulla cittadinanza, Torino, UTET. Beneduce, R. (2008) Undocumented bodies, burned identities: refugees, sans papiers, harraga – when things fall apart, “Social Science Information”, n. 47(4), pp. 502-527. Colson, E. (2003) Forced Migration and the Anthropological Response, “Journal of Refugee Studies”, n. 16(1), pp. 1-18. Daniel, E. V., Knudsen, J. C. a cura (1995), Mistrusting Refugees, Berkeley e Los Angeles, University of California Press. De Voe, D. M. (1981) Framing Refugees as Clients, “International Migration Review”, n. 15(1), pp. 88-94. Fassin, D., D’Halluin, E. (2005) The Truth from the Body: Medical Certificates as Ultimate Evidence for Asylum Seekers, “American Anthropologist”, n. 107(4), pp. 597-608. Feldman, A. (1994) On Cultural Anesthesia: From Desert Storm to Rodney King, “American Ethnologist”, n. 21(2), pp. 404-418. Foster, R. J. (1991) Making National Cultures in the Global Ecumene, “Annual Review of Anthropology”, n. 20, pp. 235-260. Gupta, A., Ferguson, J. (1992) Beyond ‘Culture’: Space, Identity, and the Politics of Difference, “Cultural Anthropology”, n. 7(1), pp. 6-23. Harrell-Bond, B. (2005) L’esperienza dei rifugiati in quanto beneficiari di aiuto, in M. Van Aken, a cura, Rifugiati, “Annuario di Antropologia”, n. 5(5), pp. 15-48. Hynes, P. (2009) Contemporary Compulsory Dispersal and the Absence of Space for the Restoration of Trust, “Journal of Refugee Studies”, n. 22(1), pp. 97-121. Malkki, L. (1992) National Geographic: the Rooting of Peoples and the Territorialization of National Identity among Scholars and Refugees, “Cultural Anthropology”, n. 7(1), pp. 24-44. Malkki, L. (1995) Refugees and Exile: From ‘Refugee Studies’ to the National Order of Things, “Annual Review of Anthropology”, n. 25, pp. 495-523. Malkki, L. (1996) Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarian, and Dehistoricization, “Cultural Anthropology”, n. 11(3), pp. 377-404. Van Aken, M. (2008), a cura, Rifugio Milano. Vie di fuga e vita quotidiana dei richiedenti asilo, Roma, Carta. Zetter, R. (2007) More Labels, Fewer Refugees: Remaking the Refugee Label in an Era of Globalization, “Journal of Refugee Studies”, n. 20(2), pp. 172-192. am 22 rovesciato.indd XLV 04/05/2009 14.07.04