Ernesto Pedrini
Educare alla Pace
in Italia
Studio Kappa
Via Duca d’Aosta 14
14100 Asti
Dicembre 2016
5€
Studio Kappa
Ernesto Pedrini
Educare alla Pace
in Italia
Studio Kappa
Prima edizione: Dicembre 2016
© 2016 by Studio Kappa, Asti
Tutti i diritti riservati
Studio Kappa
Via Duca d’Aosta 14
14100 Asti (Italy)
www.studiokappa.it
Indice
Introduzione …………………………………………………..
Pag.
5
Lorenzo Milani. Le disuguaglianze della scuola e
Pag.
della società ……………………………………………………
7
Aldo Capitini. L’utopia nonviolenta ………………….
Pag.
11
Danilo Dolci. L’integrazione tra Sud e Nord Italia
Pag.
15
Ernesto Balducci. Il disarmo come educazione
alla pace ……………………………….………………………… Pag.
19
Alexander Langer. Riconciliare uomini e natura
Pag.
23
Antonio Bello. L’accoglienza dello straniero …….
Pag.
29
Alessandro Zanotelli. Il rifiuto della violenza dei
Pag.
potenti ……………………………………………………………
33
Quali sfide oggi si presentano a chi vuole ancora
educare alla pace? ………………………………………….. Pag.
39
Bibliografia ……………………………………………………..
43
1
Pag.
2
Questa pubblicazione vuole essere una specie di guida
temporale di quanto è successo in Italia, dal dopoguerra ad
oggi, relativamente al tema dell’educazione alla pace.
Proprio in questi tempi incerti e travagliati si presentano
due ambiti di intervento piuttosto definiti per chi si occupa di
educazione alla pace.
Uno è rappresentato dal mondo degli adulti, dove la
nostra cultura educativa deve contrastare la tendenza
all’egoismo ed alla diffidenza.
L’altro ambito è quello della formazione delle nuove
generazioni, attraverso la scuola e le agenzie educative
extrascolastiche.
Soltanto seminando il rispetto nelle giovani generazioni
possono crescere piante diverse in grado di convivere
pacificamente fra di loro, con ciò che le circonda e persino
consapevoli di essere parte di un tutto e perciò accoglienti a
loro volta verso il diverso che si viene ad aggiungere.
Il lavoro è duro ma assolutamente necessario e
prioritario.
Buona lettura
Ernesto Pedrini
3
4
Introduzione
Nel periodo che va dall’immediato dopoguerra agli anni
’70 l’Italia è impegnata a risorgere dalle proprie macerie e ad
accettare la mescolanza dei propri cittadini, sia
geograficamente con l’immigrazione dal Sud, sia socialmente
con l’aumento della scolarità che porta a contatto bambini di
classi sociali diverse. In questo periodo emergono le figure di
Lorenzo Milani, Aldo Capitini e Danilo Dolci.
Lorenzo Milani fu il primo a comprendere come la
scuola tentasse di perpetuare al suo interno le disparità sociali
e che fosse necessaria una rivoluzione delle coscienze per
creare cittadini responsabili, capaci anche di dire no
all’istituzione militare per seguire la propria coscienza.
La difesa dell’obiezione di coscienza e della scelta
nonviolenta fu anche il pensiero di Aldo Capitini, professore
universitario, inventore della marcia della pace Perugia – Assisi
e del movimento vegetariano.
Danilo Dolci fu invece una figura mitica nel Sud Italia
dove si batté con tutti gli strumenti possibili per il diritto al
lavoro e per la lotta alla dispersione scolastica.
Dagli anni ’70 all’inizio dei ’90 in Italia cresce la
mobilitazione contro la guerra fredda e contro i rischi
dell’energia nucleare sia in campo militare e poi in campo civile
come insegnerà l’incidente di Chernobyl. In Italia tra i più
instancabili nei loro interventi accorati, pedagogici e profetici
emergono Ernesto Balducci e Alexander Langer.
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Ernesto Balducci sarà impegnato strenuamente nella
lotta agli euromissili, per un disarmo delle due superpotenze ed
un superamento della logica armata tra gli stati.
Alex Langer sarà tra i promotori del movimento verde in
Italia, per una tutela dell’ambiente che diventa
automaticamente diritto alla salute, sull’esperienza dei Grunen
tedeschi; il suo precedente lavoro di “ponte” tra le comunità
diverse nel nativo Alto Adige gli sarà d’aiuto.
Gli anni ’90 vedono molti nuovi elementi: il crollo del
Muro di Berlino e dell’URSS, l’arrivo massiccio
dell’immigrazione in Italia, la guerra alle porte di casa nella exIugoslavia. Figure di riferimento per coloro che vogliono
trasmettere valori di pace in questo decennio insanguinato
saranno Tonino Bello e Alessandro Zanotelli.
Nel ’91 scoppia il fenomeno immigrazione con l’arrivo
delle prime carrette del mare, strapiene di uomini e donne in
cerca di un futuro migliore, in fuga dalla povertà e in seguito
dalla guerra e dalle discriminazioni. Tonino Bello, mentre tutti
si chiedono come limitare questo assedio, si occupa invece di
accogliere questi migranti e di capirne bisogni e ragioni.
Alex Zanotelli è in quegli anni lontano dall’Italia, in una
baraccopoli del Kenia dove si è ritirato dopo gli scandali causati
dai suoi articoli sulle vendite di armi compiute dal governo
italiano ai paesi in guerra nell’Africa, ma profeticamente
preannuncia ciò che poi emergerà a fine millennio con il
movimento di opposizione alla globalizzazione neoliberista. Poi
la sua scelta di tornare in Italia, e dedicarsi alla città più povera,
Napoli, e alle battaglie per l’acqua pubblica.
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Lorenzo Milani
Le disuguaglianze della scuola e della società
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio del 1923 da
una famiglia di signori, padre laureato in chimica e conoscitore
di sei lingue e madre colta di origine ebrea, un privilegiato
dell’epoca che però non ha un ottimo rendimento scolastico
come ci si aspetterebbe. Finite le scuole superiori rifiuta
l’università e si dedica alla pittura e dallo studio dei colori
nell’arte sacra si avvicina alla chiesa. Nel 1943 entra in
seminario e viene ordinato sacerdote nel 1947 e indirizzato ad
una parrocchia del borgo operaio di San Donato di Calenzano.
Qui nel giro di pochi anni si fa portavoce dei malesseri della
classe operaia che lavorava nel borgo in condizioni disumane,
con turni di lavoro massacranti che riguardavano anche i
ragazzini in età scolare. Lorenzo si fa notare per le sue idee e i
suoi scritti progressisti e per questo motivo viene a scontrarsi
con la curia di Firenze, la quale decide di “esiliarlo” sulle
montagne del Mugello, a Barbiana, dove arriva nel dicembre
del 1954. A Barbiana non c’è strada, non c’è luce, non c’è acqua
e i ragazzi del posto lavorano nei campi. Lorenzo decide di
fondare una scuola per i ragazzi “montanini” che in genere nella
scuola pubblica finiscono bocciati, e con loro inizia
un’esperienza educativa che segnerà l’intera generazione del
’68.
Barbiana è la scuola degli ultimi, dove un prete mette a
disposizione le sue conoscenze per dare ai ragazzi una
coscienza, una dignità, una parola e la voglia di farcela. La
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conquista della lingua è lo strumento principale di questo
riscatto e per realizzarlo a Barbiana non ci sono orari, non ci
sono feste, non ci sono ricreazioni. Si studia, si fa ricerca, si
lavora in gruppo, chi sa di più lo passa agli altri. Si fa scuola fino
a 12 ore al giorno, tutti i giorni e a chi si stupisce, tra i visitatori
che arriveranno a frotte a Barbiana per visitare la scuola, di quel
ritmo, Milani dice: “Questi ragazzi prima facevano questi orari
lavorando nei campi, e ora io gli do un’istruzione, non mi
sembra un sacrificio” (Carta n° 38/2002). Oppure più esplicita
ancora è la risposta dei ragazzi: “La scuola sarà sempre meglio
della merda” (Carta n° 38/2002).
Ma la scuola di Barbiana è anche denuncia: nel 1967, a
pochi mesi dalla morte per tumore, Milani e i suoi ragazzi
scrivono un documento straordinario che lascia un segno
irreversibile nella riflessione sull’istituzione scolastica. È
“Lettera ad una professoressa”, libro-denuncia che fa il giro
d’Italia e del mondo (verrà tradotta in tedesco, spagnolo,
inglese e perfino giapponese) per rivelare la natura classista
della scuola, una scuola che apparentemente promette pari
condizioni di partenza per tutti ma che in realtà boccia chi non
è figlio del dottore, chi non ha alle spalle una famiglia già forte.
“Fare parti uguali fra diseguali è la peggiore delle
ingiustizie” (Milani, 1967) denuncia Milani e snocciola una serie
di dati inequivocabili sulle bocciature classiste dentro la scuola
italiana, dati acquisiti dall’Istat ma impressionanti nella loro
implacabilità.
“Lettera ad una professoressa” provoca convegni e
dibattiti a non finire, ma a Milani questo non interessa, ciò che
conta è la missione educativa della sua vocazione.
Ma il compito di Milani non è soltanto la formazione
scolastica dei suoi ragazzi ma anche la formazione della loro
8
coscienza di cittadini. Per questo motivo nel 1965 si lancia in
una battaglia a difesa degli obiettori di coscienza al servizio
militare, denigrati dai cappellani militari che definiscono
l’obiezione di coscienza “espressione di viltà”. Scrive una lunga
lettera di risposta ai giornali (che viene pubblicata inizialmente
soltanto dal periodico comunista “Rinascita”) argomentando
storicamente la ragioni dell’obiezione e criticando aspramente
il militarismo e la guerra: “Se voi però avete il diritto di dividere
il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso,
io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in
diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori
dall’altra. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se
voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di
insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi
eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di
dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi.
E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che
voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare,
distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io
sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto” (Milani, 1969).
Per tutta risposta viene denunciato e portato in
tribunale. Assente al processo per malattia scrive la sua difesa
in una “lettera ai giudici” che resta il documento antimilitarista
e non violento forse più intenso della storia italiana. Dimostra
che di guerre giuste non ne sono mai esistite, che i giovani
hanno diritto di sapere la verità, che educare vuol dire aiutare
ad aprire gli occhi, che la coscienza personale viene prima della
patria. “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti
sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la
più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far
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scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che
si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto” (Milani, 1969).
Assolto al primo grado nel 1966, al termine del processo
(1970) viene condannato ad un anno di carcere per istigazione
alla disobbedienza ma la pena viene annullata perché nel
frattempo Lorenzo Milani è morto.
Don Milani ha educato alla disobbedienza come forma
di fedeltà alle ragioni profonde della convivenza civile e l’ha
testimoniato con la sua stessa vita.
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Aldo Capitini
L’utopia nonviolenta
Aldo Capitini nasce a Perugia alla fine del 1899 da una
famiglia povera, padre campanaro comunale e madre sarta.
Aldo si rivela subito intelligente e curioso ma l’offerta culturale
di quegli anni è molto limitata. Da una iniziale passione
nazionalista e cattolica passa ad una rottura netta con il regime
clerico-fascista che si instaura con i Patti Lateranensi, scopre il
pensiero di Gandhi e si avvicina al pensiero socialista con
l’inserimento di elementi libertari.
Pur vicino al movimento di Giustizia e Libertà, durante
la resistenza se ne stacca per una visione della politica più
legata all’intervento diretto tra la gente che non alla
formazione di “resistenti” addestrati. La sua è una dottrina di
nonviolenza attiva, dove la nonviolenza non è semplicemente
un metodo di lotta ma un metodo di organizzazione sociale.
Non è un modo di gestire il potere ma un modo per cancellarlo.
Per Capitini violenza e potere coincidono e quindi
nonviolenza e uguale a non potere, anche la democrazia è
potere, quello delle maggioranze, mentre Capitini punta alla
“omnicrazia”, cioè la democrazia diretta dove occorre
l’unanimità.
Già nel 1943 Aldo Capitini affronta il tema del “bilancio
partecipativo” che sarà ripreso 60 anni dopo dal Forum di Porto
Alegre. Incarcerato due volte come antifascista si rifiuta di
partecipare alla lotta armata, pur non condannandola, e
organizza seminari sulla disobbedienza civile e la resistenza
11
nonviolenta, cercando di trasmettere i concetti di “ahimsa” e di
“satyagraha” pilastri del pensiero gandhiano.
Per “ahimsa” si intende la religione della nonviolenza, la
ricerca progressiva della Verità insita in ogni forma di
spiritualità umana.
Satyagraha è una disciplina che comprenda la
disobbedienza civile e che si basa su queste condizioni:
il satyagrahi (colui che pratica la satyagraha) non deve avere
sentimenti di odio verso chi gli sta di fronte;
la questione per la quale si pratica la satyagraha deve essere
vera ed avere un fondamento;
il satyagraha deve essere pronto a soffrire fino in fondo (e
quindi anche a morire) per la sua causa.
Questi principi, inusuali per l’occidente permisero a
Gandhi di conquistare l’indipendenza dell’India dall’Inghilterra,
nel 1947. Gandhi venne ucciso l’anno successivo da un fanatico
indù.
Nel dopoguerra, consapevole di essere minoranza nel
paese, dove cresceva la voglia di pace ma non c’era sensibilità
nei confronti della nonviolenza, organizza e promuove
iniziative. Prima di tutto il sostegno a Pietro Pinna che nel 1948
si dichiara obiettore di coscienza, sostegno che arriva dopo la
scelta di Pinna che precedentemente gli scrive per avere
consiglio. Capitini gli dirà poi di non avergli risposto subito per
non influenzare la sua decisione difficile e dolorosa. All’uscita
dal carcere Pinna diviene il principale collaboratore di Capitini,
fondano insieme il Movimento Nonviolento e Pinna verrà
“assunto” e stipendiato da Capitini con il suo guadagno come
professore di filosofia e pedagogia.
Tra le azioni del Movimento Nonviolento in quegli anni
ricordiamo il sostegno alle lotte nonviolente in Sicilia di Danilo
12
Dolci, l’appoggio a Lorenzo Milani accusato di istigazione alla
disobbedienza, l’organizzazione della marcia per la pace
Perugia – Assisi (1961). La prima marcia della pace sarà un
grande avvenimento, in un momento storico dove il mondo
rischia un conflitto nucleare tra le superpotenze. Il pacifismo di
Capitini è assolutamente equidistante, è contro le guerre
sovietiche e quelle americane, contro il riarmo e per il disarmo
anche unilaterale. Un punto che sarà ripreso 20 anni dopo dal
nuovo pacifismo in lotta contro gli euromissili.
La nonviolenza di Capitini non è solo politica ma anche
etica, si tratta di vivere fino in fondo l’idea di Gandhi che i mezzi
devono essere coerenti con il fine che si persegue e che
pertanto non si può pretendere una società migliore usando
mezzi violenti. È un principio che investe tutta l’esistenza, le
scelte individuali come quelle collettive.
Capitini è vegetariano, animalista e lotta per il rispetto
della vita ovunque; attua una ricerca di spiritualità che vada
oltre i dogmi delle religioni storiche. In questo quadro si
inserisce il suo essere educatore, docente universitario di
pedagogia prima a Cagliari e poi, fino alla morte nel 1968, a
Perugia.
Senz’altro più filosofo che pedagogista, dotato di un
pensiero scarsamente operativo e molto idealistico, già nel
1954 Capitini elencava i metodi nonviolenti per
l’insegnamento: “Utilizzazione degli indirizzi attivi, democratici,
cooperativi, eliminazione degli elementi coercitivi, delle
chiusure nazionalistiche, razziali e di classe; sostituzione di un
apprendimento passivo di schemi fissi con un imparare facendo
e in libera ricerca, che tenda a svegliare e incoraggiare le
capacità creative, ad offrire loro il mezzo di affermarsi, e quindi
di eliminare la violenza sia nell’imposizione da parte
13
dell’educatore, sia nella reazione da parte dell’educando;
educazione alla sincerità e alla libera discussione, al rispetto
delle minoranze, dei refrattari, degli eretici, all’attenzione per
chi è fuori dal gruppo; scambi di scolari e campi estivi
internazionali; protezione degli animali” (Carta n° 17/2003).
Se vogliamo andare all’essenziale del suo
insegnamento, alla sua radice possiamo dire che è stato un
critico integrale del potere: contestava al potere il suo diritto di
essere potere, e alla società la legittimità di farsi governare
attraverso il potere. Ed il suo pensiero pedagogico si può
condensare in questa frase: “L’educazione deve dare il senso di
una tensione, di una insoddisfazione per ciò che c’è, creando un
elemento di tensione che discrimina il passato e chiede il
futuro” (Carta n° 17/2003).
Dell’insegnamento
di
Capitini
ci
rimane
un’impostazione “olistica” della pedagogia, dove tutti gli ambiti
di vita dell’uomo possono essere espressione della scelta
nonviolenta.
Dal punto di vista politico le idee di Capitini rimangono
minoritarie per anni, fino ai giorni nostri con la sua riscoperta
da parte di frange del movimento contro la globalizzazione.
14
Danilo Dolci
L’integrazione tra Sud e Nord Italia
Danilo Dolci nasce a Trieste nel 1924 da padre ferroviere
e madre di origine slovena.
Studia a Milano e giovanissimo fa propaganda
antifascista e viene arrestato a Genova nel ’43, riesce a fuggire
e si nasconde sulle montagne abruzzesi. Dopo le guerra vive per
due anni alla comunità di Nomadelfia, creata in Emilia da Don
Zeno Saltini per accogliere i bambini orfani ed abbandonati
durante la guerra. Danilo ha però nel cuore e nella mente il
piccolo paese di Trappetto, in provincia di Palermo, dove il
padre era stato capostazione, un paese immerso nella miseria.
Lì si trasferisce nel 1952, a 28 anni ha già visto tutta l’Italia con
le sue contraddizioni sociali.
Le condizioni di vita in Sicilia sono drammatiche:
denutrizione, banditismo, mafia, abitazioni che sono tuguri,
fogne a cielo aperto, disoccupazione. Nella vicina Partinico apre
un Centro di studi e iniziative, dove avvia progetti di
autorganizzazione del lavoro e di educazione alla cooperazione
e al rispetto della comunità.
Le sue azioni sono spesso eclatanti: nel 1952 inizia un
digiuno pubblico, primo in Italia ad applicare questa forma di
lotta, per protestare dopo la morte per fame di una bambina;
nel 1955 inizia un altro digiuno per sollevare il problema della
diga sul fiume Jato, un progetto del Governo per creare un
bacino necessario per l’irrigazione delle campagne vicine,
bloccato dalle cosche mafiose della zona (il progetto verrà
15
attuato nel 1962 dopo un altro digiuno e una grande
manifestazione popolare).
Ma la sua azione che desta più scalpore è lo “sciopero
alla rovescia” organizzato nel 1956; con 200 contadini della
zona occupa una vecchia strada tra i campi, abbandonata, ed
incomincia ad aggiustarla, per dimostrare che c’è tanto lavoro
da fare e che i contadini, così come previsto dall’articolo 4 della
Costituzione, hanno diritto di lavorare e coltivare le terre
abbandonate.
Dolci viene arrestato insieme con altri manifestanti e
spedito al carcere dell’Ucciardone, dove starà due mesi e
raccoglierà le storie di tanti disperati che daranno origine al
libro “Racconti Siciliani”. Il processo contro di lui per
occupazione abusiva di suolo pubblico si trasformerà in una
dura rogatoria contro le istituzioni assenti e lo Stato che non
rispetta l’articolo 4 della Costituzione; al suo fianco troverà
intellettuali, studiosi, parlamentari ed Aldo Capitini.
L’iter processuale sarà il testo del libro “Processo
all’articolo 4”.
Negli anni successivi Dolci intensifica anche la lotta alle
cosche mafiose, raccogliendo testimonianze firmate e
consegnandole ai giudici. Un’azione pubblica che gli porta
decine di denunce da parte dei politici locali collusi con il
sistema mafioso e condanne per diffamazione.
Anche il terremoto del Belice nel 1968 lo vede in prima
fila per denunciare le condizioni di vita locali. Crea anche la
Radio dei Poveri Cristi, prima radio libera italiana, sequestrata
dalla polizia dopo 12 ore di trasmissione.
All’inizio degli anni ’70 Danilo Dolci si immerge in un
progetto che porterà avanti fino alla morte, il Centro
sperimentale di Mirto (una località vicina a Partinico). Si tratta
16
di una scuola materna che all’atto della sua fondazione diviene
subito una delle più avanzate esperienze educative. I bambini
all’inizio della giornata esprimono domande, esigenze, bisogni;
le maestre ascoltano e raccolgono costruendo percorsi di
lavoro a partire da questo ascolto profondo: è il metodo
maieutico.
Così lo descrive Dolci: “Una levatrice aiuta a far nascere
la nuova vita che una persona ha in sé. Così il domandarsi, il
domandare cos’è la speranza, l’amore, la vita, tende a far
nascere una risposta in quanto ciascuno ha sperato, amato,
vissuto, cioè già possiede in sé i semi della risposta. Ma, se
osserviamo attentamente, non solo la speranza, pur
confusamente, è già dentro di noi: anche i triangoli possiamo
trovarli, scoprirli, nella nostra esperienza, nella nostra vita.
Anche la matematica può essere intesa come modo di capire il
mondo, la vita. Solo quando si è sviluppato l’interesse per i
triangoli, in un gruppo, si può procedere a studiarli: non si può
partire da problemi estranei, o falsi, o impossibili, i problemi da
affrontare devono nascere dal gruppo. Dai giochi stessi, dalle
esperienze che interessano i ragazzi, si può arrivare a sviluppare
il concetto di stima, di processo, di formula. Quando uno è
pronto a capire, può capire” (Carta n° 7/2003).
In quegli anni sperimenta nuove forme di insegnamento
attraverso la poesia o la rappresentazione con i pupi ed
incominciano ad arrivare apprezzamenti dall’estero ed offerte
di collaborazione. Danilo Dolci diverrà collaboratore dei più
importanti ed innovativi istituti di ricerca come le università
americane di Berkeley e UCLA, la Scuola di Francoforte, quella
di Paulo Freire, le università Gandhiane in India.
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In Italia però Dolci è quasi sconosciuto come
pedagogista, tranne che in certi ambienti scolastici, anche se
partecipa a centinaia di convegni e seminari ovunque.
Nel 1981 è proposto per il premio Nobel per la pace, da
parte di ambienti scandinavi, che aveva frequentato per anni
insieme alla seconda moglie, una giornalista svedese.
Nel 1988 pubblica un Manifesto sulla Comunicazione,
sottoscritto da grandi personaggi della cultura internazionale
come Galtung, Chomsky, Freire, Rubbia, Levi Montalcini in cui
esprime la preoccupazione per il dilagare della comunicazione
unilaterale televisiva a discapito dei rapporti diretti ed
immediati.
Ottiene due lauree honoris causa (a Berna e a Bologna)
e il 30 dicembre del 1997 muore a causa delle complicazioni del
diabete. Il suo pensiero da “pacifista globale” è racchiuso in
queste parole: “Per riuscire a costruire un nuovo mondo di pace
occorre il coraggio, lo slancio di mettersi col nuovo, per
scomodo e pericoloso che possa essere o sembrare, occorre
buttarsi in imprese più grandi di noi” (Marrone, Sansonetti,
2003).
18
Ernesto Balducci
Il disarmo come educazione alla pace
Ernesto Balducci nasce a Santa Fiora, in provincia di
Grosseto, nel 1922, da una famiglia povera, come del resto
tutto il paese. Il padre è minatore e quando Ernesto ha 12 anni
gli chiede di andare a lavorare, abbandonando la scuola, anche
se Ernesto è molto studioso e appassionato di libri. Farà il
garzone di un fabbro per qualche anno, poi un amico della
madre di Balducci gli offre un posto gratuito per studiare in
seminario a Roma. I genitori accettano ed Ernesto passa gli anni
della guerra nel seminario, vivendo poi per sempre un senso di
colpa per non aver partecipato alla lotta antifascista.
Viene ordinato sacerdote nel 1945, ma è tormentato dal
dubbio di aver tradito i compaesani che morirono per difendere
le miniere dalla distruzione che volevano fare i nazisti.
Alla fine degli anni ’40 Balducci si trasferisce a Firenze
dove conosce il futuro sindaco della città, Giorgio La Pira, ed
inizia con lui una collaborazione politico-intellettuale molto
florida, che sarà una delle migliori espressioni del dissenso
cattolico in quegli anni.
Nel 1954 l’arcivescovo progressista di Firenze, Dalla
Costa, viene sostituito dal cardinale Florit, conservatore e
persecutore di Lorenzo Milani. Anche Balducci finisce nelle mire
dell’arcivescovo di Firenze che lo accusa di mescolare carità e
ricerca politica, pacifismo e solidarietà con gli operai licenziati,
critiche all’arte sacra e dialogo con i comunisti. Balducci viene
difeso per quattro anni dal suo ordine (gli Scolopi) rispetto alle
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proteste del cardinale e del Vaticano ma nel 1959 il Sant’Uffizio
lo trasferisce da Firenze e lo manda prima a Frascati e poi a
Roma. Prima di partire da Firenze riuscirà a fondare la rivista
“Testimonianze”, che ancora oggi rimane un punto di
riferimento per il movimento pacifista ed i cattolici progressisti.
Durante l’esilio romano scoppia il caso Gozzini, che
creerà grande scalpore. Giuseppe Gozzini è il primo giovane
cattolico che fa obiezione di coscienza, cioè si rifiuta di fare il
servizio militare. La Chiesa non appoggia Gozzini che finisce in
galera. Il processo inizia nel dicembre del ’62 e si concluderà nel
’63 con la condanna di Gozzini, e nel mondo cattolico si apre
una discussione. Escono sui giornali articoli di sacerdoti che
danno ragione allo Stato e torto a Gozzini, esaltano
l’insegnamento di Pio XII e il dovere per il cristiano di difendere
la patria in armi. Balducci scrive un’articolo-intervista sul
“Giornale del mattino” nel quale difende Gozzini, invita a non
enfatizzare il concetto di patria, afferma il dovere del cristiano
di disobbedire. Per tutta risposta scattano tre esposti, due
religiosi ed uno alla Procura della Repubblica per apologia di
reato.
Gli esposti religiosi non hanno seguito perché il Concilio
Vaticano II sta modificando molte cose, ma il giudice istruttore
trova invece ragionevole l’esposto e procede nei confronti di
Balducci. Assolto in primo grado, condannato in appello e
Cassazione ad un anno di carcere con la condizionale nel 1964.
Il clima in Vaticano si rasserena con l’arrivo prima di
Giovanni XXIII e poi di Paolo VI, e a quest’ultimo Balducci chiede
di tornare a Firenze. Il cardinale Florit però non ci sta e alla fine
Balducci nel 1966 viene mandato a Fiesole, al confine con la
diocesi fiorentina, dove resterà per tutta la vita.
20
Balducci e la rivista “Testimonianze” seguono con
attenzione e offrendo sostegno il movimento pacifista italiano,
soprattutto dal 1979 quando l’invasione sovietica
dell’Afghanistan provoca una corsa al riarmo nucleare da parte
delle due superpotenze.
Il movimento che nasce all’alba degli anni ’80 è il primo
che si pone concretamente il problema del superamento dei
blocchi e vede nel disarmo, anche unilaterale, l’unica
prospettiva per l’umanità. Lo slogan più gridato nei cortei è
chiarissimo: “Dalla Sicilia alla Scandinavia, no alla Nato e al
Patto di Varsavia”.
Il parlamento italiano approva a fine ’79 l’installazione
di missili nucleari e, un anno e mezzo dopo, identifica in Comiso,
a pochi chilometri da Ragusa, la base idonea per i missili Cruise
americani.
Gli anni seguenti saranno pieni di manifestazioni e
iniziative pacifiste ed antinucleariste (una petizione contro i
missili raggiungerà un milione e mezzo di firme).
Nell’estate del 1983 si decide di insediare un campo di
fianco alla base e di cercare di bloccare i lavori di preparazione
all’installazione dei missili con digiuni, blocchi pacifici,
spettacoli di strada. Dopo due giorni di blocco la polizia attacca
e ferisce centinaia di persone; il neoeletto presidente del
consiglio Bettino Craxi condanna l’operato della polizia (sarà
l’unica volta nella storia italiana) ma conferma l’intenzione di
installare i missili che verranno definitivamente approvati il 14
novembre del 1983.
Gli anni successivi vedono un riflusso del movimento
pacifista ma è proprio in quei momenti che Balducci fa sentire
maggiormente la sua voce, comincia a collaborare con i giornali
della sinistra “L’Unità” e “Il Manifesto”, è tra gli organizzatori
21
più impegnati nella costruzione delle marce per la pace PerugiaAssisi del 1985 e del 1988, infine diventa punto di riferimento
per chi si oppone alla prima guerra che vede coinvolta l’Italia
dal 1945, la guerra del Golfo nel 1991.
I suoi articoli e i suoi interventi in cento luoghi diversi
(scuole, teatri, piazze…) danno ossigeno al movimento pacifista
che vede svolgersi la guerra sotto ai propri occhi e
contemporaneamente assiste alla dissoluzione del tentativo di
Gorbaciov di riformare il regime sovietico.
Balducci muore l’anno dopo, per un incidente stradale,
e lascia un vuoto intellettuale molto forte nel movimento
pacifista; muore il 25 aprile, data solenne e catarsi del suo senso
di colpa per non aver partecipato alla Resistenza.
22
Alexander Langer
Riconciliare uomini e natura
Alexander Langer nasce a Vipiteno, in Alto Adige, il 22
febbraio del 1946 da padre medico ebreo viennese,
perseguitato dal fascismo e dal nazismo, e madre farmacista
sudtirolese.
Dopo la maturità va a studiare a Firenze dove incontra
Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Giorgio La Pira. Si laurea in
giurisprudenza nel ’68 e poi si iscrive alla facoltà di sociologia di
Trento, dove si laurea nel ’72.
In quegli anni entra in Lotta Continua ma non
abbandona la ricerca della convivenza pacifica tra i gruppi
linguistici del nativo Alto Adige iniziata con la fondazione della
rivista “Die Brucke” (Il Ponte) nel 1967. Diviene insegnante di
filosofia e storia a Bolzano e Merano, da lì viene allontanato per
divergenze politiche con i presidi e finisce ad insegnare in un
liceo scientifico di Roma.
Nella capitale viene a contatto con i radicali e matura la
scelta di impegnarsi politicamente, non nel Partito Radicale, ma
in liste civiche sudtirolesi che si caratterizzano per l’interetnicità
tra italiani e tedeschi. Diviene consigliere provinciale per due
volte e incominciano in quel periodo gli scambi e le
intermediazioni con i “Grunen” tedeschi che portano nel 1985
alla nascita delle Liste Verdi anche in Italia.
Alex si trova così con la sua persona a fare da ponte tra
le esperienze tedesche e quelle italiane, che hanno un buon
risultato alle elezioni amministrative di quell’anno.
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Spiegava Langer la spinta propulsiva della nuova
esperienza politica: “Vorremmo sfuggire, finalmente, a quella
paralizzante logica di fondo che caratterizza il sistema politico
italiano e che è la logica dello schieramento: con chi stai per
troppo tempo ha prevalso e continua a prevalere sul cosa vuoi
ottenere, cosa proponi, quale cambiamento vuoi realizzare”
(Della Seta, 2000). L’anno successivo è quello decisivo per la
legittimazione politica dell’ambientalismo: il 20 aprile del 1986,
a causa di una serie di guasti al sistema di raffreddamento, uno
dei reattori della centrale ucraina di Chernobyl si surriscalda e
comincia a fondere; la reazione atomica viene fermata, ma dal
reattore si sprigiona una grande nube radioattiva che uccide e
contamina in tutta Europa e in meno di una settimana arriva in
Italia. L’impatto emotivo della catastrofe è enorme:
duecentomila persone manifestano per la chiusura delle
centrali nucleari esistenti in Italia e la sospensione dei lavori per
quelle in costruzione; nei successivi due mesi vengono raccolte
un milione di firme per indire dei referendum abrogativi che
blocchino il nucleare. I referendum si svolgono l’8 novembre del
1987 e sono un plebiscito per il sì. Nella primavera dello stesso
anno, alle elezioni politiche, le liste verdi prendono un milione
di voti e 15 parlamentari.
Alexander Langer è stato anche un precursore degli
intrecci tra le istanze ecologiste e quelle pacifiste. Scrive nel
1988: “Guardando alle ragioni del breve periodo, ecologisti e
pacifisti non possono che apparire velleitari e sostanzialmente
perdenti: chiedono, entrambi, di rinunciare ad un vantaggio
apparente ma immediato, rinunciare ad uno squilibrio
apparentemente ed immediatamente favorevole alla propria
sete di potere e di profitto, ma nel lungo periodo distruttivo non
solo per chi ne rimane vittima sul momento. Le ragioni del
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lungo periodo, quindi, starebbero di per sé dalla parte dei
pacifisti e degli ecologisti, ma nessuno si fida di accoglierle
nell’immediato, perché assomigliano troppo ad un disarmo
unilaterale della propria parte che procura vantaggi alla
controparte. Bisognerà quindi rendere attraente e convincente
la pace: quella tra gli uomini e quella con la natura. Deve essere
evidente a tutti che è anche questione di qualità della vita.
Liberarsi dalla guerra, dal militarismo, dalla distruzione
ecologica, dall’incombere dell’apocalisse, civile o militare che
sia, non è solo un imperativo per chi vuole che i nostri figli o
nipoti possano ancora vivere o per chi ama i popoli lontani. La
causa della pace non è più separabile da quella dell’ecologia, e
da quella della giustizia e della solidarietà tra i popoli, tra sud e
nord del mondo” (Langer, 1995).
La guerra del Golfo nel 1991 lo vede in prima fila tra i
pacifisti ma sarà la successiva guerra in Iugoslavia a vederlo
impegnato totalmente.
Dalla sua posizione di europarlamentare si muove a
sostegno delle iniziative di riconciliazione, interetniche, di
volontariato per le popolazioni colpite, per lo schieramento di
un corpo civile di volontari non armati tra le forze in conflitto. È
sua la proposta approvata dal Parlamento Europeo
dell’istituzione del Tribunale internazionale per i crimini contro
l’umanità nella ex-Iugoslavia.
Nel 1995 organizza una manifestazione a Cannes,
davanti ai capi di stato e di governo dell’Unione Europea per
l’ammissione della Bosnia nell’UE, unica carta possibile rimasta
per fermare l’aggressione delle milizie serbe. In quella
occasione Langer chiede anche un intervento armato dell’ONU,
in polemica con parte del mondo pacifista. La sua istanza non
verrà accolta dall’Unione Europea.
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Nello stesso anno gli viene rifiutata la possibilità di
candidarsi a sindaco di Bolzano, in quanto “obiettore etnico”; si
era cioè rifiutato di dichiarare la sua appartenenza ad uno dei
tre gruppi linguistici ufficiali (italiani, tedeschi e ladini).
Forse l’insieme delle amarezze provate, o altre ragioni
che restano oscure, spingono Alex ad un gesto tragico: si toglie
la vita il 4 luglio del 1995, a Firenze. Tra i messaggi che lascia
quello agli amici dice: “Non siate tristi. Continuate in ciò che era
giusto”.
La vita di Langer è stata una vita dedicata ai confini, al
loro superamento, alla loro ricchezza, alla loro
contraddittorietà. Confini della cultura e della religione, di
territorio e lingua da superare, alla ricerca di una ideale
convivenza tra esseri umani e con la natura che li circonda.
Tra i suoi scritti più significativi ci rimane il “Decalogo
della convivenza interetnica” (Langer, 2001) di cui riporto solo
i titoli dei paragrafi, e che rimane di scottante attualità:
1. La compresenza plurietnica sarà la norma più che
l’eccezione: l’alternativa è tra esclusivismo etnico e
convivenza.
2. Identità e convivenza: mai una senza l’altra, né inclusione
né esclusione forzata.
3. Conoscersi, parlarsi, informarsi, interagire: più abbiamo a
che fare gli uni con gli altri, meglio ci intenderemo.
4. Etnico magari sì, ma non ad una sola dimensione.
5. Definire e delimitare nel modo meno rigido possibile
l’appartenenza, non escludere appartenenze e
interferenze plurime.
6. Riconoscere e rendere visibile la dimensione plurietnica.
7. Diritti e garanzie sono essenziali ma non bastano: norme
etnocentriche favoriscono comportamenti etnocentrici.
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L’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di
muri, esploratori di frontiera
9. Una condizione vitale: bandire ogni violenza.
10. Le piante pioniere della cultura della convivenza: i gruppi
misti interetnici.
8.
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Antonio Bello
L’accoglienza dello straniero
Antonio Bello (per tutti Tonino) nasce ad Alessano, in
provincia di Lecce, il 18 marzo del 1935. Entra ragazzo nel
seminario vescovile di Ugento, poi in quello di Molfetta ed
infine a Bologna. Viene ordinato sacerdote alla fine del 1957 e
destinato al seminario di Ugento per occuparsi degli studenti.
Il Concilio Vaticano II nel 1962 è seguito da Tonino Bello
come segretario del vescovo di Ugento; rimane in lui un
entusiasmo sul rinnovamento della chiesa che cerca di
trasmettere ai suoi studenti. Si sforza di convogliare le spinte
dei gruppi di rinnovamento ecclesiale in una serie di incontri
che organizza all’interno del seminario dove rimarrà fino al
1978, quando viene destinato parroco a Tricase, nel leccese.
Nel 1982 viene nominato vescovo di Molfetta e nel 1985
assume la guida della sezione italiana di Pax Christi, movimento
cattolico internazionale per la pace.
Nel 1985 incomincia anche l’impegno per Tonino Bello
e molti altri al fine di ottenere una legge di regolamentazione
del commercio delle armi, appoggiati in questo dal presidente
della Repubblica uscente, Sandro Pertini.
Nel 1988, nonostante le aperture al disarmo di
Gorbaciov, la NATO decide di dispiegare 72 caccia F16 a Gioia
del Colle, in Puglia.
Bello convince i suoi colleghi vescovi pugliesi a firmare
un durissimo documento contro il trasferimento dei caccia.
L’iniziativa desta molto scalpore nel mondo politico, ed ottiene
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come risultato che i caccia vengano spostati in Calabria, dove la
protesta non riesce ad organizzarsi altrettanto efficacemente.
Nel 1990 finalmente viene approvata la legge 185 sul
commercio delle armi, legge avanzatissima che fino a
quest’anno, quando è stata pesantemente modificata, è
risultata un fiore all’occhiello per il pacifismo italiano.
Nel 1991 in Italia scoppia la “bomba” immigrazione:
migliaia di persone, provenienti soprattutto dall’Albania, si
riversano sulle coste pugliesi, in fuga dal caos della transizione
post-comunista e dalle truffe organizzate dalle finanziarie
italiane.
Il dibattito politico è aspro, gli albanesi vengono
ammassati negli stadi, in condizioni bestiali. Don Tonino
organizza servizi di accoglienza, comunità residenziali, raccolte
di alimenti e di vestiario, indebitandosi personalmente e non
con i soldi della diocesi. La risposta solidale della gente della
Puglia è molto alta e arrivano anche volontari da tutta Italia.
In Tonino Bello la dedizione agli immigrati era già
presente da molto tempo. Scrisse nel 1985: “Perdonaci fratello
marocchino, se noi cristiani non ti diamo neanche l’ospitalità
della soglia, se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza
deserta, dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere
della tua miseria” (Nigrizia n° 4/2003).
Trasformò la diocesi di Molfetta in una sorta di grande
laboratorio dove sperimentare la pace come giustizia, e non
solo come assenza di guerra. Nascono iniziative per i profughi,
i tossicodipendenti, i senzatetto e i nuovi poveri.
Quando scoppia la guerra del Golfo Tonino Bello scrive
su “Il manifesto”: “Oggi, dopo il lampo di Hiroshima, non è più
possibile difendersi con la guerra” ma indicava anche
chiaramente l’alternativa, la difesa nonviolenta, da lui ritenuta
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scienza articolata e complessa che si avvale di grandi maestri
come Gandhi.
Nella lettera aperta ai parlamentari italiani il giorno
prima dello scoppio della guerra del Golfo dice: “Risparmiateci,
vi preghiamo, la sofferta decisione, quella extrema ratio di
dover esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di
guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza la gravità
morale dell’uso delle armi che essi hanno in pugno” (Mosaico
di Pace n° 4/2003). Per questa frase verrà accusato di
incitamento alla diserzione.
La sua è una condanna netta e precisa della guerra; non
solo in generale ma anche verso interventi militari precisi, come
quello nel Golfo, o la guerra civile in Iugoslavia.
Scrisse su “l’Avvenire” in risposta a chi accusava i
pacifisti di silenzio: “Voi lo sapete dove sono andati a finire i
pacifisti. Li troverete negli innumerevoli laboratori di analisi in
cui si smaschera la radice ultima di ogni guerra: il potere del
denaro. Li troverete nei luoghi dove si formano le nuove
generazioni a compitare le letture sovversive della pace. Li
troverete là dove si coscientizza la gente sulle strategie della
nonviolenza attiva e la si educa a vivere in una comunità senza
frontiere e senza eserciti” (ICS, 2001).
Pax Christi, Beati i costruttori di pace ed altre
associazioni organizzano tra il 7 e il 12 dicembre 1992 un’azione
di pace che porta 500 pacifisti da Spalato a Sarajevo, per
sensibilizzare l’opinione pubblica sull’assedio a cui è costretta
la città da nove mesi (assedio che durerà tre anni).
Tonino Bello è con loro anche se il tumore che lo ha
colpito è già molto avanzato e morirà quattro mesi dopo, il 20
aprile del 1993.
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Al suo funerale, sul molo di Molfetta strapieno di gente,
venne ricordato come “il vescovo col grembiule” cioè vicino alla
gente, impegnato nell’aiuto al prossimo.
Don Tonino accoglieva nella sua casa immigrati e
sfrattati; si sentiva felice quando riusciva a “servire gli ultimi,
anziché servirsene”; scriveva al proposito: “Il bambino che
dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale
del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato
ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, ad un povero di
passaggio” (Mosaico di Pace n° 4/2003).
Il suo pacifismo radicale è racchiuso nel discorso che
fece all’inaugurazione di una nuova nave militare che avrebbe
dovuto avere compiti di soccorso in mare ed invio di aiuti. Disse
Tonino Bello nella sua preghiera: “Fa, o Signore, che se questa
nave manterrà fedelmente i suoi impegni, la sua bandiera
sventoli sul pennone come tovaglia di altare; ma se non
manterrà questi impegni la sua bandiera cada a terra come uno
strofinaccio da cucina” (Mosaico di Pace n° 4/2003).
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Alessandro Zanotelli
Il rifiuto della violenza dei potenti
Alessandro Zanotelli nasce a Livo, in provincia di Trento,
il 26 agosto 1938. Dopo le scuole decide di partire per gli Stati
Uniti dove completa gli studi di teologia a Cincinnati. Nel 1964
viene ordinato sacerdote nell'Istituto dei missionari
comboniani. Partito missionario per il Sudan, dopo otto anni
viene allontanato dal governo locale a causa della sua
solidarietà con il popolo Nuba e della coraggiosa testimonianza
cristiana, in un paese minato dalla guerra.
Assume la direzione della rivista dei missionari
comboniani “Nigrizia” nel 1978 e contribuisce a renderla
sempre più un mensile d’informazione, nel solco di una
tradizione avviata nel 1883 dai missionari e consolidatasi dagli
anni '50.
Il suo programma di lavoro è ben chiaro fin dall'inizio:
"Essere al servizio dell'Africa, in particolare voce dei senza voce,
per una critica radicale al sistema politico-economico del Nord
del mondo che crea al Sud sempre nuova miseria e distrugge i
valori africani più belli, autentici e profondi" (www.nigrizia.it).
Per quasi dieci anni, Zanotelli prende posizioni precise e
si impone all'opinione pubblica italiana, affrontando i temi del
commercio delle armi, della cooperazione allo sviluppo
affaristica e lottizzata, dell'apartheid sudafricano.
Nel 1987, su richiesta di svariati esponenti politici ed
ecclesiastici, stanchi delle sue reprimende, Alex Zanotelli lascia
la direzione di Nigrizia: ma la sua eredità culturale viene
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raccolta dai successivi direttori e redattori che fanno della
rivista un punto di riferimento per tutti coloro che criticano
l’approccio “colonialista” dell’occidente nei confronti
dell’Africa.
Zanotelli è stato anche tra i fondatori nel 1985 del
movimento "Beati i costruttori di pace", con cui ha condotto
molte battaglie in nome della cultura della mondialità, per i
diritti dei popoli e persino a sostegno dell’obiezione fiscale,
causando scandalo all’interno della Chiesa Cattolica.
Nel 1990 Alex torna in missione e va a Korogocho, una
delle baraccopoli che attorniano Nairobi, la capitale del Kenya.
L’esperienza di Korogocho segna Zanotelli in modo
indelebile: nella baraccopoli vivono 100.000 persone
ammassate vicino alla discarica, senza acqua e servizi igienici,
con una percentuale di sieropositivi che raggiunge il 60%. Alex
definisce Korogocho “i sotterranei della vita e della storia”, i
baraccati muoiono di fame e pagano un affitto salato per stare
nella loro baracca, poiché il terreno non è loro. Questa vita
rafforza in Alex la convinzione che non si può restare neutrali:
“I poveri mi hanno insegnato che Dio davvero c’è ma è
all’inferno, è il Dio degli schiavi, il Dio degli schiacciati, è il Dio
che era lì, sotto le bombe, con quella gente che soffriva. È
quello Dio, sta da quella parte, sta con chi soffre; per cui non
posso non essere di parte” (AA.VV., Bandiere di pace, 2003).
Pur lontano dall’Italia Zanotelli fa sentire la sua voce,
attraverso “Nigrizia” e “Mosaico di pace” (la rivista di Pax
Christi), contro tutte le guerre.
Dice a proposito dell’intervento Nato in Kossovo: “Non
posso accettare un’Europa che continua ad obbedire agli Stati
Uniti e all’Impero del denaro, né posso accettare l’esistenza di
una NATO. Perché dopo il crollo del muro di Berlino, che non ha
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significato e non significa nulla perché il grande muro è tra
ricchi e poveri e non tra Nord e Sud, non si è avuto il coraggio
né l’ispirazione di dire basta alla NATO da parte dell’Europa?
Che cosa ci sta a fare un esercito che serviva solo a fomentare
il grande nemico e che è totalmente nelle mani dell’Impero
degli Stati Uniti? Oggi, e lo sappiamo bene, le bombe sono
puntate sulla Iugoslavia, domani lo saranno sul Nord Africa
perché il grande nemico che l’Impero vede è l’Islam”
(www.nigrizia.it).
Alla fine del 1999 a Seattle, negli Stati Uniti, parte la
contestazione all’Organizzazione Mondiale del Commercio
(WTO) e in generale alla globalizzazione neoliberista voluta
dalle grandi multinazionali.
Zanotelli lavora affinché anche una realtà italiana forte
possa dire la sua nel controvertice preparato da più di un
migliaio di organizzazioni di tutto il mondo. Dal suo lavoro
instancabile di contatti tra pacifisti cattolici e non,
organizzazioni di commercio equo e finanza etica,
ambientalisti, nasce la “Rete di Lilliput per un’economia di
giustizia” (poi Rete Lilliput) con l’intento “lillipuziano” di
imbrigliare il gigante della globalizzazione con tante piccole
azioni quotidiane e straordinarie.
Da quel momento in poi Alex punta il dito ancora più
forte contro gli squilibri tra nord e sud del mondo ed è presente
a tutti i principali appuntamenti del movimento: Genova,
Firenze, Roma.
Nel 2002 lascia Korogocho per problemi di salute e
incomincia un tour senza fine in tutta Italia per raccontare la
sua esperienza e denunciare la globalizzazione neoliberista.
Ma non tutto il mondo missionario italiano condivide le
sue posizioni. Dice Piero Gheddo, direttore dell'Ufficio Storico
35
del Pontificio Istituto per le Missioni Estere: "Zanotelli è un
cattocomunista. Non è vero che l’Africa è sottosviluppata per le
ingiustizie internazionali, per il debito estero, e il commercio di
armi. L’Africa è nella miseria perché gran parte degli africani
hanno una cultura e una mentalità preistorica. La minoranza
dell’umanità consuma l´83% delle risorse perché produce la
maggioranza delle ricchezze. I popoli che hanno ricevuto la
Parola di Dio, e quindi una visione dell’uomo al centro dello
sviluppo, hanno avuto un input di crescita che ha portato allo
sviluppo moderno. Gli altri no. Quello che non riesce a capire
Zanotelli è che la ricchezza del mondo non è una torta da
distribuire, ma una torta da produrre. Posso dartene una fetta
della mia, quello che è importante è che tu ne produca tanta
come ne produco io" (www.nigrizia.it).
Ma Zanotelli e i missionari comboniani vanno avanti:
aprono in Puglia una comunità di accoglienza per gli adolescenti
stranieri, organizzano manifestazioni di protesta contro la
nuova legge sull’immigrazione, prendono posizione contro la
guerra in Iraq.
Proprio durante la mobilitazione pacifista preventiva
alla “guerra preventiva” voluta dall’amministrazione Bush in
Iraq, Zanotelli ha un’altra idea dirompente nella sua semplicità:
convincere le famiglie italiane ad esporre la bandiera
arcobaleno della pace dal proprio balcone o dalla propria
finestra, per esprimere la loro personale contrarietà
all’intervento armato. L’iniziativa, promossa dalla Rete Lilliput,
trova l’adesione entusiastica di molte altre associazioni ma
fatica a sfondare tra i “non militanti”.
All’inizio del 2003, con l’avvicinarsi dei venti di guerra,
l’adesione delle famiglie si moltiplica e all’inizio della guerra le
bandiere vendute saranno tre milioni. L’impatto visivo della
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protesta, i sondaggi che danno gli italiani contrari alla guerra
quasi al 90% e la manifestazione di Roma del 15 febbraio 2003,
con tre milioni di persone in corteo, convincono il governo
italiano a restare fuori dal conflitto (anche se le basi americane
in Italia lavorano a pieno ritmo). È una vittoria per Alex Zanotelli
e per tutto il movimento pacifista ed anche nel resto del mondo
l’idea di pace raggiunge quantità di persone mai viste prima (in
tutto 110 milioni di persone manifesteranno il 15 febbraio). La
guerra non si ferma, ma il New York Times definisce il
movimento pacifista la seconda potenza mondiale.
Zanotelli decide di andare a vivere a Napoli, nel rione
Sanità, in una piccola casa ricavata dal campanile della chiesa di
quartiere.
Da lì prosegue il suo lavoro di sempre, aiutare la gente a
rialzarsi e a riacquistare fiducia nel futuro, organizzando
comitati per ottenere dei servizi pubblici più efficienti.
Non mancano i suoi interventi nella campagna per
l’acqua pubblica, contro i progetti di privatizzazione.
Tale impegno lo porterà a spendersi nella campagna
referendaria del 2011, che lo vedrà trionfatore insieme ai
promotori di “Acqua Bene Comune”
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38
Quali sfide oggi si presentano
a chi vuole ancora educare alla pace?
Oggi la figura di chi educa è la sommatoria di molte
chiamate in causa, di molte assunzioni di responsabilità. E
questo sia per la diversificazione dei compiti progressivamente
attribuiti alla figura, sia per l’aumento dei soggetti di
riferimento: il tema della diversità culturale obbliga persone
adulte, con solide convinzioni di vita e di abitudini, a “fare i
conti” con mondi diversi presenti nella propria città.
A questo punto, senza scomodare la politica, occorre
fare una scelta di campo: chi educa deve scegliere tra
accoglienza ed integrazione dei migranti oppure espulsione ed
esclusione degli stessi; deve scegliere tra prevenzione delle
dipendenze o repressione delle stesse secondo metodi
coercitivi; deve scegliere tra pace e nonviolenza oppure guerra
preventiva. Nello stesso tempo deve anche evitare le
dicotomie, riallacciare i fili del dialogo e del confronto, pur
testimoniando i propri valori.
Altrettanto importante dal punto di vista educativo è la
questione delle appartenenze: tra le più significative
appartenenze sperimentabili dalle persone nel corso della loro
vita, sicuramente la dimensione religiosa è una delle più
importanti. Dal punto di vista educativo risulta rilevante perché
“sono esplicitate ed indicate le concezioni del mondo e i valori,
le caratteristiche e i comportamenti dei soggetti che
partecipano all’esperienza” (Tramma, 2003).
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Non è un caso quindi se molti educatori alla pace
portano nel loro intervento una forte carica “religiosa”, anche
trasmettendo valori laici.
Altra importante dimensione collettiva dai forti
connotati educativi è l’appartenenza politica. La dimensione
politica deve prevedere “un progetto di società ed atti tendenti
ad attuare il progetto di società auspicata. Un progetto che può
essere confermativo degli assetti sociali esistenti, migliorativo
degli stessi, tendente a riproporre assetti sociali passati, oppure
a prospettarne di radicalmente diversi” (Tramma, 2003).
L’appartenenza politica è educativa anche perché “presenta un
modo di essere attuale o futuro del mondo e dello stare al
mondo che implica l’esistenza di un progetto educativo capace
di produrre la più ampia adesione possibile al progetto”
(Tramma, 2003).
Nell’approccio giovanile alla politica (ed anche alle
questioni religiose) molto è cambiato rispetto ai movimenti di
trent’anni fa: la componente pratica ed applicativa sovrasta la
dimensione teorica; è assolutamente falso sostenere che i
nuovi movimenti contestano ma non fanno proposte; è proprio
il “buonsenso” che anima le loro proposte a renderli così
originali ed anche così carichi di potenzialità educative.
Tornando ora al ruolo di chi educa alla pace, come si può
intervenire di fronte all’emergere delle nuove tematiche
“globalizzate” come l’immigrazione, le nuove povertà,
l’aumento della violenza da parte di minori e nei confronti di
minori? Non esiste ovviamente una risposta univoca ma può
essere identificato un percorso possibile.
In modo particolare l’intervento educativo sulla
diversità avviene di solito alla presenza di un conflitto
educativo, cioè si assiste, all’interno del sistema di esperienze
40
che interessa i soggetti, a diversità non conciliabili ed integrabili
di intenti, obiettivi e prassi educative.
Questa crisi ha ovviamente un livello di soglia mutevole,
che risente dell’ambiente, delle convinzioni sociali e culturali e
della percezione dell’operatore, il quale inizia a configurarsi una
situazione auspicabile diversa da quella esistente.
L’intervento in questo caso è di tipo compensativo cioè
quando i contesti sono ritenuti educativi verso direzioni non
volute e si rende necessario inserire in tali contesti
intenzionalità educative diverse in grado di contrapporsi o
controbilanciare i processi educativi in atto.
Questo tipo di intervento nasce come intervento di
breve periodo, prevedendo azioni collocate in un arco di tempo
limitato e finalizzate per esempio a fornire informazioni e
stimoli diversi da quelli circostanti, funzionali alla prevenzione
o alla riduzione di comportamenti considerati a rischio di
emarginazione o di esclusione.
Ma l’intervento può proseguire nel medio periodo
riguardando soggetti e contesti che presentano problemi
ritenuti strutturali ma non stabili ed irreversibili, oppure nel
lungo periodo con la costituzione di un presidio educativo
permanente a fronte di una conclamata cronicità dei problemi,
che si ripresentano ciclicamente senza sostanziali cambiamenti,
almeno visibili.
Il cambiamento in area educativa è inteso come un
bilancio qualitativamente e quantitativamente positivo tra la
situazione iniziale e quella finale: i soggetti partecipi
dell’esperienza educativa, alla fine di questa, dovrebbero
risultare più maturi, consapevoli, autonomi, responsabili. Di
tutto ciò chi educa deve essere un “catalizzatore” (Tramma,
41
2003), deve far reagire gli elementi in gioco, per ottenere un
risultato diverso dalla partenza.
Lavorare con la diversità comporta anche avere a che
fare con i pregiudizi, che in sé non sono giudizi falsi ma soltanto
giudizi che sono pronunciati prima di un esame completo e
definitivo dei fatti. “I pregiudizi sono ineliminabili e presumere
di non averne comporta di rimanere vittima del più pericolo fra
tutti i pregiudizi, cioè la presunzione di neutralità. In realtà i
pregiudizi sono la condizione del nostro incontro con la realtà,
le precondizioni che orientano il nostro sguardo” (Tramma,
2003). Una qualsiasi discussione riguardante i pregiudizi può
avere come obiettivi minimi l’esplicitazione, l’eventuale
condivisione, l’analisi, la nascita, l’osservazione critica, lo
scambio di informazioni. In tutto ciò non si può essere a nostra
volta neutrali ma occorre esserci emotivamente.
La relazione educativa comprende, infatti, sempre una
dimensione affettiva che non è solo presente come fenomeno
di disturbo, da frenare e controllare, ma come partecipazione
emotiva e realizzazione di incontro umano. Nella relazione
educativa non si può non essere emotivamente coinvolti in
quanto sono le condizioni strutturali che determinano il
coinvolgimento emotivo.
La diversità culturale sarà la sfida del futuro perché il
nostro futuro è multietnico; l’educazione alla convivenza
pacifica e al rispetto di persone, animali ed ambiente
circostante sarà il mezzo per l’accettazione delle nostre
diversità culturali, dove ogni cultura porterà la sua parte per il
tutto, il suo ingrediente per la ricetta dell’arcobaleno.
42
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Gandhi M. K., La mia vita per la libertà, Newton Compton,
Roma, 1973
ICS, È tempo di pace, Il Manifesto, Roma, 2001
Langer A., La scelta della convivenza, Edizioni E/O, Roma, 2001
Langer A., Non siate tristi. Continuate, Ed. della Battaglia,
Palermo, 1995
Marrone A., Sansonetti P., Né un uomo, né un soldo, Baldini
Castoldi Dalai, Milano, 2003
Meloni M., La battaglia di Seattle, Berti Editrice, Parma, 2000
Milani L., L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 1969
Milani L., Lettera ad una professoressa, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 1967
Morrone F., Regaliamoci la pace, Edizioni Nuovi Mondi,
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44
Mottana P., Miti d’oggi nell’educazione, Franco Angeli, Milano,
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Speziale Bagliacca R., Formazione e percezione psicoanalitica,
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Stella G. A., L’orda, Rizzoli, Milano, 2002
Tramma S., Educazione degli adulti, Guerini e associati, Milano,
1997
Tramma S., L’educatore imperfetto, Carocci Faber, Roma, 2003
45
Ernesto Pedrini
Sostenibilità Partecipata
Milanese, classe 1970, social planner e musicista dilettante, ha svolto attività di ricerca e
benchmarking nel campo della partecipazione dei cittadini alla programmazione delle politiche sociali
ed ambientali.
Dopo oltre 20 anni di esperienza nei servizi alla persona e nei percorsi di sostenibilità ambientale sta
elaborando e sperimentando un metodo di intervento che racchiude e integra le diverse competenze
maturate in questo periodo.
Con questo metodo, l’Educazione Ambientale Comunitaria, è possibile investire un territorio della
propria responsabilità sociale e ambientale, creando comunità più coese, e ottenendo risultati più
duraturi nel campo della sostenibilità.
Gli interventi si rivolgono a soggetti pubblici e privati, e sono modulabili secondo le richieste del
cliente rispondendo a diverse esigenze, dai percorsi di CSR e Agenda 2030 alle sperimentazioni
nell’ambito delle Human Cities, dalla programmazione scolastica in tema di educazione ambientale
ai processi di empowerment delle associazioni, dalla promozione della sostenibilità nelle PMI alla
valorizzazione di Parchi Locali e Contratti di Fiume.