Luciana Borsetto
Università degli studi di Padova | Original scientific paper
Testimoniate in parte da tradizione manoscritta, le Rime volgari (1549) di Ludovico
Pascale (1500 ca.-1551), edite a Venezia, presso Stefano e Battista Bertacagno, ospitano
nella prima parte del corpus (cc. 1r-66 r) il canzoniere erotico che il poeta-soldato di Cattaro,
all’epoca avamposto della Serenissima contro il Turco, poco prima della morte affida ai
buoni uffici della nobildonna zaratina Marzia Crisogona per la veneziana transizione
alla stampa. Sonetti e canzoni (1530) del Sannazaro, le Rime (1530) del Bembo, le Rime
Amorose (1532) del conterraneo Giorgio Bizanti, e i Tre libri degli Amori (1534-1537) di
Bernardo Tasso sono, con i Rerum vulgarium fragmenta e gli elegiaci latini, direttamente
accostati nella coeva produzione dei Carmina (Elegiarun libri 1551), alla base dell’assetto
macrotestuale dell’opera. Il fitto dialogo con gli auctores presiede alla selezione e
sistemazione dei materiali che la costituiscono, ricomponendone temi e forme nel disegno
compositivo organico alla sua costruzione. Lo studio in questa sede proposto evidenzia
l’istanza strutturale che guida le scelte operate dall’autore nella transizione alla stampa
della testualità manoscritta, la progettuale gradatio retorica preposta alla dispositio dei
materiali, il loro ordinamento in microsequenze funzionali al lirico narrato prodotto, la
partizione per temi e forme di questo, la sua seriazione, l’isotopismo narrativo chiamato
ad articolarvi la storia dell’onore e del furore al centro della fabula erotica descritta, il suo
sviluppo invariato, in senso euforico come disforico, nell’elaborazione di un identico schema
bipolare del discorso poetico, intonato alla lode e alla deprecazione della figura d’amore
esemplata. L’universo mitico e pastorale impronta le vicissitudini dell’innamoramento
ritratte nella parte seconda dell’opera conclusa dal discidium e dall’intonazione religiosa
finale, e scandita dalla liturgica cronologia dell’intera vicenda; i temi e i modi dell’elegia
riconducibili alla natura, al disordine e alla violenza della passione sono invece ricorrenti
nella prima parte, che dopo il proemio sulla bellica potenza di Eros ne avvia il racconto delle
imprese modulate sul paradigma dell’infelicità e felicità del dio offerto dagli Asolani.
parole chiavi: Ludovico Pascale, Rime volgari, Costruzione del canzoniere
LE RIME VOLGARI DI LUDOVICO PASCALE.
SULLA COSTRUZIONE DEL CANZONIERE.
«[…] se avverrà […] che queste mie giovanili fatiche siano da voi giudicate
non indegne di uscir in luce, di ciò ne commetto la cura a Vostra Signoria»
scriveva alla nobildonna zaratina Marzia Crisogona il poeta soldato Ludovico Pascale di Cattaro (1500-1551), lasciando trasparire il travaglio della si-
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le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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mi) posso ormai communerarmi io, che di sì invidiato favor vi ringrazio […] (Di giugno, in Venezia. M.D.XLVIIII)3.
stemazione in Liber delle Rime Volgari a lei inviate nel richiamo alle giovanili fatiche in esse profuse1; «avendo io deliberato di dar fuori alcune rime
da me «rozzamente già tessute» per metterle in qualche credito, le ho volute
dedicare al nome vostro», scriveva invece al patrizio veneziano Vincenzo
Quirini, adombrando il lavoro di ripulitura delle Rime Diverse nell’accompagnatoria all’appendice elogiativa posta a conclusione del Liber2. Nella forma bipartita che lo costituisce, il volume delle Volgari era verosimilmente
uscito, o era sul punto di esserlo, nel giugno 1549, se una missiva dell’Aretino raccolta in seguito nel Quinto libro delle lettere a Baldouino de Monte,
fratello di Papa Giulio III, poteva in quella data indirettamente menzionarlo
nell’elogio all’autore di cui si faceva latrice, assieme alla cortesia evocandone il prestigio letterario raggiunto presso i dotti del tempo:
Due anni più tardi Ludovico Pascale avrebbe cessato di vivere, non sopravvivendo agli Elegiarum libri andati in stampa nel 1551. Il 10 settembre
di quell’anno così ne avrebbe parlato il poligrafo veneziano Ludovico Dolce,
sottolineando la compiutezza dell’opera portata a termine dall’amico di Cattaro, e la volontà di farla conoscere al mondo nella dedicatoria all’insigne
umanista e bibliofilo di Napoli Giovanni Bernardino Bonifacio marchese
d’Oria, premessa all’intera silloge a lui intitolata:
Cum mihi eruditus vir Lud. Pascalis, amicus olim meus, paucis antequam e vita decederet mensibus, haec et nonnulla alia non indigna
lectu dedisset, ut si a doctis, hoc est a tui similibus, probarentur, in
manus studiosorum emitterem, ea cum ad te prius scripta misissem,
et tu mihi per tuas litteras multis laudibus extulisses, nunc tuo nomini inscribere decrevi, fretus scilicet humanitate tua, magis quam
eorum doctrina, vel elegantia4
[…] la fama incomincia a farvi divoto al mondo, che vi ammira in le
vertù, e commenda per la cortesia che usate inverso di quegli che vi
paiono di qualche merto. Tra i quali (come appare ne le rime mandati-
1
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Alla molto nobile e gentile Madonna Marzia Grisogona gentildonna zaratina, in RIME VOLGARI DI
M. LUDOVICO PASCHALE / Da Catharo Dalmatino / Non più date in luce [d’ora in poi RV nelle cit. del
testo] / In Vinegia appresso Steffano et Battista cognati al / Segno de S. Moise. / CON GRATIA ET
PRIVILEGIO./ M.D.XLIX, c. A iijv. Arnolfo Bacotich (Rimatori dalmati nel Cinquecento, «Archivio storico
per la Dalmazia», vol. XXV, fasc. 146, p. 64) ascrive la nobildonna al casato di Federico Grisogono di
Zara, che nel Cinquecento scrisse sulla causa del flusso e riflusso del mare, attribuendo il fenomeno
alla pressione del sole e della luna. Sante Graciotti (Per una tipologia del trilinguismo letterario in
Dalmazia nei secoli XVI-XVIII, in Barocco in Italia e nei paesi slavi del sud a cura di Vittore Branca e
Sante Graciotti, Firenze, L. S. Olschki 1983, pp. 321-346), ne segnala l’appartenenza all’Accademia dei
Concordi di Ragusa, menzionandola come rimatrice in volgare. Bernardino Grisolfo da Schio le dedica
la versione del Dialogus de Hercule a Christicolis superato dello spalatino Marko Marulić (Venezia 1524)
e quella dal greco della Prima oratione d’Isocrate a Demonico (Venezia, Stefano e Battista Bertacagno
1548), per la quale si rinvia alla moderna edizione curata da Lucio Puttin (Schio, Tip. C. Menin, 1972).
Al magnifico M. Vincenzo Quirini, fu del Clariss. M. Paolo (Rime Diverse [d’ora in poi abbreviato in
RD], in Rime Volgari di M. Ludovico Pascale da Cattaro Dalmatino cit., c. 67r. Per un approfondimento
si veda il nostro Della laude soave cibo de i nomi degni d’onori. Sulle Rime Diverse di Ludovico
Pascale in Letteratura, Arte, Cultura tra le due sponde dell’Adriatico III /Književnost, umjetnost,
kultura između dviju obala Jadrana III, uredili / a cura di Nedjeljka Balić Nižić, Luciana Borsetto,
Andrijana Jusup Magazin, Zbornik radova s međunarodnog znanstvenog skupa Zadar- Lovinac, 5-6
studenoga, 2010, pp. 209-233.
Nel biennio 1549-1551, dunque, rispettivamente due anni prima della
morte e a pochi mesi dall’evento, uscivano a Venezia, presso l’officina tipografica di Stefano e Battista Bertacagno5, le Rime volgari6; presso la stam-
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A la bonta somma del magnanimo signore Baldouino de Monte il quinto libro de le lettere di m.
Pietro Aretino per diuina gratia huomo libero. In Vinegia [Andrea Arrivabene], 1550; In Vinegia, per
Comin da Trino di Monferrato, 1550, cc. 137v-138r. Corsivo nostro.
Illustriss. Et doctiss. P.R. Ioanni Bernardino Bonifatio Marchioni Auriae, Ludovicus Dulcius, in
Ludouici Pascalis, Iulii Camilli, Molsae et aliorum illustrium poetarum carmina, ad illustriss. et
doctiss. Marchionem Auriae Bernardinum Bonifatium per Ludouicum Dulcium nunc primum in
lucem aedita, Venetiis, apud Gabrielem Iolitum et fratres De Ferrariis, 1551, c. 4 r-v.
Attivo a Venezia tra il 1548 e il 1550 assieme al cognato Stefano, lo stampatore Giovanni Battista
Bertacagno esercitò in seguito da solo la professione sino al 1553. Oltre a opere diverse di Andrea
Calmo, pubblicò le due versioni del Crisolfo sopra citate (Prima oratione d’Isocrate a Demonico,
1548; Dialogo di Marco Marvllo. Delle eccellenti uirtu, & marauigliosi fatti di Hercole, 1549).
Inclusive dell’appendice delle Diverse, 29 corone testuali a personaggi illustri nelle lettere e nelle armi
dell’una e dell’altra sponda adriatica globalmente aggregate dalla cornice della laus Venetiae. Si si veda
il nostro Della laude soave cibo de i nomi degni d’onori. Sulle Rime Diverse di Ludovico Pascale cit.
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peria giolitina i quattro Elegiarum libri, verosimilmente elaborati in parallelo nel corso di una vita, come sembra confermare, nella sua disarmonica
unitarietà, l’autografo marciano Ms it. CL 9 n. 291 (= 6320), ex libris Apostoli Zeni, che molti dei testi confluiti nell’una e nell’altra pubblicazione
contiene. I due codici della scrittura poetica che informano diversamente
le due opere presiedono alla sistemazione separata dei materiali contenuti,
focalizzando i due disegni messi a punto nel mandarle in luce: il primo – dimidiato tra canzoniere erotico (146 testi) e raccolta encomiastica (63 testi)
-, rispettivamente affidato ai buoni uffici della nobildonna zaratina Marzia
Crisogona e del patrizio veneziano Vincenzo Quirini, titolari di due distinte
dedicatorie nella raccolta del 1549; il secondo – unicamente incentrato su
temi e forme della produzione elegiaca neolatina -, sottoposto al preventivo
scrutinio dell’amico Ludovico Dolce e della cerchia di amici da lui coinvolti
nella disamina.
Il diverso obiettivo perseguito dal Pascale nel mandarli in luce impronta
il formato letterario delle due opere rendendo ragione dell’autonoma costruzione e organizzazione in liber da queste prodotta. Forte il dialogo da entrambe in tal senso intrattenuto con l’autografo, direttamente implicato nel
lavoro di ripulitura, selezione, accrescimento e riscrittura avviato dall’autore nel predisporle alla stampa. Dei 77 componimenti latini inclusi nel manoscritto, le cui desultorie successioni testuali ignorano la partizione Rime
Volgari / Rime Diverse / Elegie dalla stampa istituita, solo 31, accresciuti di
tre (nn. 13, 17, 27), vedono la luce negli Elegiarum libri del 1551; dei 79 frammenti in volgare, nel manoscritto pure contenuti, solo 49, accresciuti di 97,
compaiono nel canzoniere di due anni antecedente; solo 14, accresciuti di
49, nell’appendice a quest’ultimo annessa.
Se la testualità neolatina non rimane del tutto indenne nella transizione
alla stampa, quella in volgare viene a più livelli sottoposta a elaborazione
formale. Di una minuta pratica correttoria e variantistica, diversa per tipologia ed estensione, interessata a un verso, a una parola o a un sintagma isolato, rende conto, in interlinea o nei margini, lo stato redazionale di 36 dei
49 componimenti dell’autografo transitati nel canzoniere a stampa. Singoli
testi di questo trovano inoltre riscontro in frammenti diversi delle neolatine Elegiae intonati all’identico tema, o riusati nell’ambito della sua poetica
riscrittura. Nel sonetto 81 (Quanta ti porto invidia, o bel monile), assente
nel manoscritto, la testualità petrarchesca (Quanta invidia io ti porto, ava-
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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ra terra, Rvf 300), e quella ovidiana soggiacente («invideo donis iam miser
ipse meis», Amores II 15, 8) rimodulano nelle Volgari il motivo dell’invidia
del diadema al collo dell’amata di cui si legge nel De monili dominae, ottava
Elegia del Liber I: 7
1 Quanta ti porto invidia, o bel monile,
2 Ch’ al bianco collo di madonna pendi
Ed indi spesso in quel bel sen discendi
Ov’ ognor ride il grazioso aprile.
5 Ed or ti spazi in quel giardin gentile
Fra poma d’or, ed or al cor ti stendi,
E tutti i suoi pensier secreti intendi
Sotto un bel velo candido e sottile.
Perle gentil, ove vi fé Natura
Ne ‘i lidi d’India, o pur negl’ Eritrei,
O nel giardin ov’ ancor vive Elia?
12 Oh, s’io potessi uscir di mia figura
13 E tuorne un’altra a mio piacer, vorrei
14 Farmi monile della donna mia.
1 Quam tua sors foelix, et sorte beatior omni
(De monili dominae, cit., v. 77;
2 Quod cingis dominae colla monile meae
(ibid., v. 2);
5 Aut, dum foecundo spatiaris Amoris in
horto (ivi, v. 9);
12-14 O mihi, si liceat varias assumere formas,
Et mea in innumeros vertere membra modos,
Non ego raucus olor, non alta fronte iuvencus,
Sed fieri Domine posse, Monile, veli
(ivi, vv. 15-18).
Nella disperata 125 (Poi che il cammin m’è chiuso di mercede), intonata
nell’incipit dal verso d’esordio di Rvf 130, introduttivo di un sonetto di lontananza, l’amplificata ripresa dell’iperbolico scenario infero rappresentato,
con l’icastico indugio sulle pene comminate a Sisifo, Tizio, Tantalo, Issione, insieme alla canzone LXXV del Sannazaro, al sonetto XXI e alla canzone
XXII del primo libro degli Amori di Bernardo Tasso8, richiama Ad Sylviam,
seconda Elegia del medesimo Liber I:
7
8
Ludouici Pascalis, Iulii Camilli, Molsae et aliorum illustrium poetarum carmina cit., c. 12v. Il testo
si può leggere anche in Carmina, versio electronica, ed. Sanja Perić Gavrančić (http://www.ffzg.
unizg.hr/klafil/croala/cgi-bin/getobject.pl?c.261:2:7.croala).
«In una rota poi volubil molto / vede a forza legarsi, / et in giro voltarsi / col vento sempre, senza
aver mai posa» (Sannazaro, Sonetti e Canzoni LXXV, strofa VI, vv. 81-84); «com’Ixion a la volubil
rota / cinta da serpi velenosi e crudi» (B. Tasso, Amori lib I, xxii, vv. 113-114).
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le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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Poss’io portar quella volubil salma
Di Sisiffo, né mai giungere in cima
Ov’egli spera di posarsi in calma.
Poss’io veder che con ingorda lima
L’augel di Tizio il cor mi rode e sface
E si rifaccia ancor com’era prima.
E un’altra volta ancor co ‘l suo rapace
Artiglio il squarci, e poscia un’altra volta
S’integri, ond’io non aggia tregua o pace.
Poss’ io mai sempre roteando in volta
Fuggir a un tratto e seguitar me stesso
Come Ission per la sua voglia stolta
Poss’io morir da fame e sete oppresso
Qual Tantalo bramando ognor in vano […].
(RV 125, vv. 144-157)
Tu mea spes sola es, tu lux mea, denique; vitae
Ardorisque; mei terminus unus erit.
Et, nisi lethaeis veniunt oblivia in undis,
Post obitum Stygias te sequar inter aquas,
Qua terret miseras latratu Cerberus umbras,
Dum quatit anguineas per tria colla iubas:
Et Tytii saevus habitans sub pectore Vultur
Assiduum rabido distrahit ore iecur.
Impius Ixion radiis laceratur acutis,
Inquam caput celeri voluitur usque rota.
Bellides et cribro toties frustrantur inani,
Eternumque loquax Sysiphus urget onus.
Et sitit in mediis infelix Tantalus undis,
Et frustra refugas appetit ore dapes […].
(vv. 42-50)
passato non senza varianti alla stampa, dove il rinvio a Rvf 79, 1-2 («S’al
principio risponde il fine e’l mezzo/ del quartodecimo anno ch’io sospiro»)
riscrive il De natali die, IV Elegia del Liber I. Il testo latino riferiva del quinto lustro trascorso dall’io lirico nella cattività di Libia, presso i carcerieri
Numidi; quello in volgare colloca l’evento nel Natale cristiano, facendo del
venticinquesimo genetliaco del locutore il quarto anniversario del duro servitium amoris da lui stoltamente prestato (v.2), e il giorno stesso a partire
dal quale, dopo la sconfessione della «dura mente» della canzone 137, e il suo
orientamento verso lo Spirto sacro e divino del sonetto 138, prende avvio,
con la denuncia dell’empia guerra mossagli contro da Amore (La guerra che
mi fé gran tempo Amore si legge nel nel proemio), il processo di redenzione
inscritto nel residuale formato narrativo dell’opera:
Dopo il vigesim’ anno è scorso il quinto
Della mia vita, e quarto dell’affanno
Ch’io soffro poi ch’ Amor con dolce inganno
M’ha l’alma e ’l cor di mille nodi avinto.
Ch’ io veggio chiaro il mio futuro danno:
Vorrei ritrarmi, e pur più d’anno in anno
Mi trovo avolto in questo labirinto
Ma tu, Signor, che per salute umana
Mirabilmente oggi nascesti in terra
Da ‘l sacrosanto ventre di Maria,
Concedi pace alla mia dura guerra
E frena la mia voglia cieca e vana,
Sì ch’ io ritorni alla verace via.
(RV 139)9
Nella sintassi cumulativa del testo, la replica variata della maledizione
elabora in ben 21 occorrenze un prolungato rovesciamento del modulo delle benedizioni di Rvf 13 e 61, e delle sue disseminate riprese in RV 15-16.
Analogo rovesciamento elabora il riuso dello scenario di amore corrisposto
dell’Elegia (vv. 40-53), contrastivamente richiamato nell’invettiva scagliata
dall’io lirico contro di sé nell’explicit della disperata, dove l’epitaffio con la
fine di Orfeo che la sigilla anticipa la palinodia poi al centro della canzone
137, volta insieme a stigmatizzare l’insania della «cieca mente», responsabile del venir meno della ratio nel governo del furor (vv. 171, 175) e l’estremo
degrado della figura d’amore, ridotta alla domina empia e spietata degli elegiaci latini, per il cui affectus, a torto impetrato, ogni infernale supplizio
altro non può rappresentare che il giusto dosaggio di pena:
Iamque meae quintum vitae claudentia lustrum
Natalis redeunt annua sacra mei.
Salve sancta dies multos mihi culta per annos,
Nunc quoque selectos inter agenda iocos.
Non ego te Lybicis Nomadum captivus in oris,
Quum premeret nostros arcta cathena pedes,
Non colui; tibi nanque dedi pia thura, tulique,
Ante Deos casta munera parva manu,
Nec tamen asuetas potui tibi ducere pompas;
Irati nobis sic voluere Dei.
Ah gravis illa dies, qua vincula dura coactus,
Tortaque Barbarica verbera ferre manu.
Illius quoties mihi tempestatis imago […].
(De natali die, El. Lib. I, 3, c. 9r, vv. 1-13)10
9 10
Nel madrigale 35, estremo moto ragionativo della canzone 34, la bruciante fenomenologia del furor che affligge l’io lirico, testimoniata dal ricorso
nella catena versale del polýptōton ardente (v. 3), arde (v. 4), ardor (v. 6), arda
(v. 8), alla base dell’invisibil foco del v. 4 - prelievo petrarchesco da Rvf 270,
77 -, richiama quella in parallelo dispiegata nel carme Ad Ioannem Bonnam
(V Elegia del Liber I), dall’anafora di uror (vv. 1-4, 5-6, 8), e nella successiva
E se fie alcun a cui di me n’ incresca
Ch’ ogni reliquia de ‘l mio corpo insieme
Rinchiuder voglia onde mai più non esca,
Scriva ne ‘l sasso queste note estreme:
- Costui morì per una donna indegna
E così morto ancor sospira e geme,
E maledice e si dispera e sdegna. (RV 125, 183-189)
Un simile riuso della testualità neolatina investe il sonetto 139 (Dopo
il vigesimo anno è scorso il quinto / Della mia vita, e quarto dell’affanno),
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Al v. 2 il Ms riporta la variante «Della mia vita, e primo dell’affanno» (c. 13v). Corsivo nostro.
Al v. 1 il Ms riporta la variante «Iamque meae quartum vitae claudentia lustrum» (c.53r). Corsivo
nostro
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Ad eundem, che del furor proclama l’estraneità all’amor e l’affinità alla pazzia («non amor est […] sed furor iste tuus», v. 26):
Io veggio apertamente
Ch’ io mi consumo e struggo a poco a poco,
Sento la fiamma ardente
Che m’arde il cor con invisibil foco,
Ma bench’io ponga mente
Trovar non so di questo ardor il loco.
O meraviglia eterna,
Ch’io arda in foco, e ‘l foco mio non scerna.
(RV 35)11
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Uror, ut Assyrio sub Iove nudus Arabs.
Uror ego, ut coelsum quum Syrius exerit astrum,
Uritur, Eoa quem rigat Indus aqua:
Uror ego, Aethnaeis ferrum velut uritur antris,
Mulciber irato quum struit arma Iovi:
Uror ego, ut liquido perfusa bitumina lampas,
Flavaque, supposito flagrat ut igne seges:
Uror ego, et vivos iam iam conversus in ignes
Accendo afflatu frigida saxa meo. (Ad Ioannem
Bonnam, vv. 4-12)
Nel sonetto 36, lo scorcio mitologico sulle imprese amorose di Giove di
cui si legge in Ad Amnem Gurdum, II Elegia del Liber III all’amata Sylvia,
viene direttamente coinvolto nel cambio improvviso dell’intonazione elegiaca preposta alla rappresentazione dell’eros:
Credo che stanco già da gl’ anni Giove,
Come solea non oda più, né veda,
Né perché meglio il suo desir succeda
Si muta in cigno, o in pioggia d’oro piove,
Che s’ei potesse far le antiche prove
Per rapir voi più bella assai che Leda
E più d’ogni altra sua famosa preda
Si cangiarebbe in mille forme nuove […]
(RV 36, 1-8)
Suspicor antiquos mendacia fingere vates,
Quum referunt veterum furta tot illa Deum:
Nam neque Laeda foret, neque dignor ulla priorum,
Esset ut in thalamis Iupiter usque tuis.
Ut Ganimedis avis: ut Taurus, et aureus imber,
Ut niveus fieres, haec meruisset, Olor.
(Ad Amnem Gurdum, vv. 43-48)
Analoga situazione presentano microsequenze come quella tematicamente omogenea offerta dai sonetti marciani 62-67, dove il ritratto dell’amante-poeta incrocia quello del poeta-soldato cui il rigore della stagione in-
11
Il testo, come altri delle Volgari, godette di fortuna musicale in ambito italiano nel secondo
Cinquecento. Il poeta ed ecclesiastico milanese Camillo Perego lo incluse tra i Madrigali a
Quattro Voci, novamente a lui composti, corretti et posti in luce (Venezia, Girolamo Scotto,
1555), dove si legge a p. 18. Si rinvia ai contributi offerti in materia dagli studioso Enio
Stipčević, Kotorski pjesnik Ludovik Pascalić (Lodovico Pascale), zadranka Martria Grisogono i
nekoliko talijanskih renesansnih skladatelja, in Armud6 43/1 (2012), 65-87 e Smiljka Malinar,
Taljanski i hrvatski na istočnoj obali Jadrana (Od prvih razdoblja do devetnaestog stoljeća),
Hodočasnici, pjesnici, hvastavci. Hrvatsko-talijanske studije, Konzor, Zagreb 2008, 217-254.
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
vernale, l’empia fortuna e il crudele destino raddoppiano le pene del vivere
rimuovendolo dalla patria e dall’oggetto del desiderio. La navigatio in balia
dei venti e delle tempeste, che dopo averne consegnato il ritorno ai marosi
gli riporta il felice odore della patria, depositandolo al caro nido, trova amplificato riscontro, oltre che nel piccolo corpus di apertura del Liber II, tutto
pervaso dai saluti recati agli amici (Ad amicos, Ad Eugenium Bucchium, Ad
Marianum Bizantium), nella I elegia del Liber III (In reditu ex Craeta):
Io sento l’aura del felice odore
Della mia patria e della donna mia,
Che dopo lunga e perigliosa via
Soavemente mi ferisce il core. (RV 66, 1-4)
Antiquae tandem mihi linquere littora Craetae
Fas erit, et patrios ad remeare lares.
Iam mihi nescio quid laetum sub corde resultat,
Et reficit sensus gratior aura meos.
Ecco ch’ al fin di tante mie fatiche
Volgo la nave coronata al lido,
Né più di Borea il tempestoso strido,
Né temo l’onde al mio desir nemiche:
Io torno a riveder le mura antiche
Della mia patria e de ‘l mio caro nido […]. (RV
67, 1-8)
Iam videor patriae colles discernere terrae,
Et notos celeri puppe subire sinus […].(In reditu
ex Craeta, vv. 5-10)
Un’evidente istanza strutturale guida le scelte operate dall’autore nell’espungere dal canzoniere a stampa la testualità dispersiva e occasionale del
testimone marciano, 11 componimenti del quale (10 sonetti e un’ottava madrigale), verosimilmente destinati a una fruizione singola o per frammenti,
non figurano nelle Rime volgari, ovvero nel riprenderla e riformularla, come
in RV 117, e, strutturandola in racconto, nell’aggiungerne di nuova, con conseguenze di rilievo sul piano dello stile, del verso e del metro, oltre che nella
dispositio dei materiali, fortemente tra loro interconnessi, ordinati e articolati assecondando l’andamento assunto, nel ms, dalla seriazione prodotta,
nel suo intermittente divenire, dal lirico narrato che vi si rinviene. Dei 49
testi trasmessi alla princeps, 37 ne conservano, con l’originaria giacitura,
l’intenzionale disegno d’insieme verosimilmente impresso dall’autore alla
prima incompiuta raccolta. La giunta operata portando a 146 il corpus a
stampa interviene di fatto sulla discontinuità testimoniata nel loro succedersi dalle diverse microsequenze dell’autografo, provvedendole dell’opportuna sutura organica alla loro dislocazione nel macrotesto chiamato a fare
la trama del canzoniere.
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Seriazione nel corpus manoscritto
(fuori parentesi la serie testuale numerata;
in parentesi la non numerata)
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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Seriazione nel corpus a stampa (RV / Ms)
mula incipitaria che apre in Bernardo Tasso il Libro II de gli Amori nell’ed.
veneziana di Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio 1534, e all’isotopia spaziale intonata all’incipit di Rvf 67, correggono l’acefalo autografo marciano
modulando sui primi cinque sonetti petrarcheschi i canonici loci (a loco, a
tempore, a re) dell’innamoramento, il locus a persona, foriero del floreale
senhal dell’amata, la legiadra et fresca rosa del conterraneo Giorgio Bizanti
(Ra 32, 13) e l’excusatio e il vanto per la complessità e novità dell’opus poeticum in suo nome intrapreso.
1-5, 6-10 + 11-13, 14 + 15-20 + 21 + 22-26 + 2728 + 29 + 30-33 + 34-35 + 36-42 + 43-50 + 51
52, 43-50, [77], 53-55, 62-67, 34, 56-57,139- + 52-57 + 59-60+ 61-67 + 68-76 + 77 + 79-83 +
140, 92, [11-13], [19], [15-18], 20, [117], [22], 84 + 85-91 + 92 + 93-106 + 107 - 108 +109 -114
23-26, 84, 35, 29, [61], 125, 107, 115-116, 109 + 115-117 + 118-124 + 125 + 126-138 + 139-140
+ 141-146
Il rapporto stampa-manoscritto documenta in tal senso, in favore della stampa, incrementi di rilievo non solo al livello tematico del romanzo
dell’eros, ma anche sul piano della prosodia, del ritmo, del verso deputati
a intonarne o ricapitolarne il racconto. È quanto si evince, nella ricercata
aderenza petrarchesca delle forme impiegate, dal numero delle canzoni, dei
madrigali, delle ballate e dei sonetti, rispettivamente aumentati di 7 su 3, di
4 su 1, di 6 su 2, di 87 su 32, oltre che dall’introduzione ex novo di due sestine
liriche (RV 51, 102).
Canzoni
Ms = 3 (34, 84, 92)
RV = 10 (4, 18, 21, 34, 68, 84, 92, 109, 124, 137)
Madrigali
Ms = 1 (35)
RV = 4 (33, 35, 104, 111, 116)
Ballate
Ms = 2 (15, 115)
RV = 6 (5, 6, 15, 27, 110, 112, 113, 115)
Sonetti
Ms = 32
RV = 119
Sestine liriche
Ms = 0
Exordium
Ecco descritta in lagrimosi versi, RV 1, 1
Initium narrationis
De ‘l seno d’Adria alla sinistra riva, RV 2, 1
> Ecco ch’amor ritorna irato e fero (B. Tasso,
Amori, II, 1)
> Del mar Tirreno a la sinistra riva, (Rvf 67, 1)
Locus a loco, a tempore, a re
Scaldava il sol già l’un e l’altro corno, RV 4, 1
Locus a persona / Senhal
Un più bel fior che si vedesse unquanco
Vago, gentil’ e colto in Paradiso,
Amor volgendo il pianto in dolce riso,
Piantomi con sua man ne’l lato manco
(RV 3, 1-4)
12
Ei corse in un fiorito, et verde loco,
Cinto dintorno di sepe amorosa,
Et colse una leggiadra et fresca rosa,
Che parea accesa d’un honesto foco.
I’ che era vago di mirar un poco,
15
Sentii per man d’amore
Piantarmi a mezzo il core
Quel fior ch’ogni martir mi volgie in gioco
RA 32, 11-1812
Se l’elogio alla leggiadra rosa che l’amata rappresenta può vincere il confronto con quanti dell’«amoroso ardore» hanno scritto in verso o in prosa
nel corso del tempo, la competizione istituita dal poeta di Cattaro tra le rime
a lei dedicate e quelle dedicate dal Petrarca al ben colto lauro (Rvf 30, 36),
elabora l’autoironico contrasto rime sparse / rime scarse di cui s’intridono,
nel vanto e nell’inadeguatezza che esprimono, incipit ed explicit di RV 5,
ballata conclusiva del prologo:
RV = 2 (51, 102)
Il medesimo rapporto, mentre attesta nel manoscritto la non più che accennata presenza della dimensione penitenziale della fabula erotica, ridotta ai soli sonetti 139-140 (c.13v-), documenta nella stampa la modulata inserzione di questi nella compatta microsequenza stabilita, nell’epilogo dell’opera, da RV 137-146-. Un ingresso parallelo di testualità viene nella stampa a
svilupparsi in sede incipitaria con l’inserzione di un prologo in cinque testi,
dove exordium e initium narrationis, rispettivamente improntati alla for12
Si cita da Rime amorose di Georgio Bizantio Catharense, Venezia, Iacob dal Borgo, 1532.
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Luciana Borsetto
Quel che cantando in dolci rime sparse
Fece sentir il suo ben culto lauro
Dall’Indo lito al Mauro
Co ‘l canto a cui null’altro può eguagliarse,
E quanti mai dell’amoroso ardore
Han scritto inanzi o poi, in verso o in prosa,
Non potrian dir di mille parti l’una
Della beltà d’una leggiadra rosa
Che con sua man ne ‘l cor piantomi Amore.
Cosa più vaga mai sotto la luna
Vista non fu, né tante ad una ad una
Grazie de ‘l ciel in altro fior cosparte.
Alcun dunque non dee meravigliarse
Essend’io, come son, d’ingegno ed arte
Tanto menor d’ogniun di lor, quant’ella
D’ogn’altro fior più bella
Se le mie rime a dir di lei son scarse.
Un ulteriore ingresso di testualità si registra nel breve prologo successivo, dove la microsequenza 6-10 intona la lode di una figura d’amore stilnovisticamente connotata, che la concatenatio manoscritta 11-13 subito
inserisce nel confronto con la tibulliana Delia e la properziana Cinzia non
estraneo alle Stanze galanti del Bembo recitate a Elisabetta Gonzaga nel
Carnevale del 150713. Sulla loro scorta, la topica dell’inadeguatezza del dire
attivata in RV 514 elabora il nuovo motivo di vanto nei confronti degli antichi e moderni poeti, foriero del proposito di eternarne il nome facendolo
13
14
«Se fusse stata al mondo al tempo ch’era /Tibullo e gl’altri dotti, ognuno avria/ Di lei sola cantato, ella
saria/ Non Delia e Cinzia di gran fama altiera» (RV 11, 5-8): «Questa fe’ dolce ragionar Catullo / di Lesbia,
e di Corinna il Sulmonese, / e dar a Cinzia nome, a noi trastullo / uno, a cui patria fu questo paese, / e
per Delia e per Nemesi Tibullo / Cantar […]» (Bembo, Stanze 50, 21, 5-6). Si cita da Prose della volgar
lingua, Gli Asolani, Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Utet, Torino 1966. Riviste e adattate per la stampa, le
stanze a Elisabetta Gonzaga recitate alla corte d’Urbino la notte di Carnevale del 1507 da Pietro Bembo
e Ottaviano Fregoso entrarono nella princeps bembiana delle Rime 1530.
Si veda la replica di scarso di RV 5, 11 al v. 9 di RV 11: «‘l ciel ad ambo noi fu scarso, a lei / Che non
fé nota sua bellezza a tale / Che potria giunger di sue lode al segno,/ A me che non concesse equal
ingegno/ All’alto mio desir», ivi, 11-14).
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le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
risuonare nella patria comune (Farò che quanto sete bella e umile / Sempre
ragioni il vostro nido e mio, RV 12, 7-8).
Le rime all’impietosa di freddo ghiaccio armata il core del testo proemiale, difesa dal binomio ovidiano bellezza-onestà (Bellezza et onestà compagne fersi, ivi, 6-8), insegna della guerra sferrata da Amore contro l’amantepoeta, vengono così a inscriversi nel progetto dell’ampia storia dell’onore
della donna impareggiabile, salutifera e insieme foriera di malattia, nuovamente configurata, e del furore da lei suscitato nell’amante-poeta (Tesserò
di tue lode un’ampia istoria/ Ove’l tuo onor si legga, e’l furor mio, RV 13,
14-15). La sua lirica tessitura avvia un rilancio tematico-strutturale del canzoniere che, inciso dalla metafora del testo come tessuto connettivo, alla
maniera della tela novella di Rvf 40, presiediederà all’alterna dialettica di
lode e biasimo impressa all’intero movimento lirico-narrativo dell’opera.
Delle sue quattro difformi declinazioni (Innamoramento: RV 14-88; 92-123;
Pentimento: RV 89-91; discidium: RV 124-136; catarsi: RV 137-146) testimoniano il non facile equilibrio raggiunto sul piano macrotestuale nell’armonizzazione di forme, tradizioni e intonazioni diverse del dire, il complesso
rapporto stabilito con gli Auctores, l’andamento per sintesi e aggiunte di
una lirica narratio necessitata a una progressività di sviluppo omogenea al
proprio radicamento manoscritto.
All’insegna del Petrarca e del Bembo, del Sannazaro e delle Rime amorose 1532 del conterraneo Giorgio Bizanti; della musa pastorale coltivata da
Bernardo Tasso e dei poeti elegiaci della latinità classica, direttamente accostati dal Pascale nella coeva produzione neolatina, prende corpo, in apparenza indivisa, l’intera raccolta, nel cui ambito una bipartizione per temi e
forme organici al divenire della fabula erotica orchestrata sembra nondimeno potersi riconoscere. All’universo mitico e pastorale sono di fatto in gran
parte improntate le vicissitudini dell’innamoramento ritratte nella parte
seconda dell’opera segnata dal languore dell’amata (RV 74-77), dalla fuga nei
boschi di lei (RV 93-101), dal ripiegamento su di sé dell’amante-poeta che
vanamente ne insegue le tracce, dal discidium e dall’intonazione religiosa
finale, scandita dalla liturgica cronologia dell’intera vicenda stabilita dal
sonetto 139. I temi e i modi dell’elegia riconducibili alla natura, al disordine e alla violenza della passione sono invece in prevalenza ricorrenti nella
prima parte, che dopo il proemio sulla bellica potenza di Eros ne avvia il
racconto delle imprese affidando all’amoroso ardore suscitato nell’amante-
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Luciana Borsetto
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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non ignoto al Petrarca di Rvf 132, o della sestina 80; il profilo in controluce di un’amata volta a radicalizzare la lacerazione del desiderio e a segnalare la funzione positiva svolta dal pianto nella fenomenologia dell’eros; il
canto dolce del cigno di Rvf 23 nell’estremo congedo di vita e il paradossale
motivo della doppia morte, una medicamentum dell’altra strumentalmente
elaborato da Amore; la voluptas dolendi indotta dal dio e l’amaro lamento
all’impietosa, implicata nelle operazioni distruttive di lui. Con la critica al
binomio Bellezza e onestà, connotative, nel proemio, della sua figura, si apre
alla microsequenza 34-40 il discorso sulla natura medusea di un soggetto di
canto coinvolto nella metamorfosi in sasso del suo cantore, sul mostruoso
divenire della fabula stessa addetta a riferirne (34).
Ne rende testimonianza, sul piano metapoetico, l’erotica arsura tematizzata dal madrigale 35, il cui concentrato crescendo di meraviglia
si stempera nel brusco cambio d’intonazione lirica affidato al confronto
iperbolico della figura d’amore con le figure femminili del mito connesse
ai furti e alle strategiche metamorfosi amorose di Giove, e al catasterismo
(36). L’admiratio che sotto tale mitologica species ne onora il profilo inscena la febbre che arde e consuma l’amante-poeta, nel cui ambito, esemplati
sul I libro degli Amori di Bernardo Tasso, trova spazio il trittico votivo ad
Apollo e alle Muse dei sonetti 38-4015 che mentre registra l’estinzione, per
effetto divino, del fuoco, riapre al canto l’azione del furor volta a dischiudere il varco a nuove torture.
Con la formula di avvio del canzoniere (Ecco ch’io torno con pietosi accenti / Un’altra volta a ragionar d’amore, ivi, 1-2), meccanismo macrotestuale intonato al Libro II degli Amori di Bernardo Tasso16, esordisce la
microsequenza 41-61, dove la forma epistolare del dialogo con la gentile e
la crudele dei sonetti 42-43 ripropone la messa a nudo dell’ardore che brucia senza spegnere la sete del desiderio. Modulata sull’incipit di Rvf 50 (Ne
poeta dal dio le azioni guerresche contro di lui intraprese dalla sua diretta
emissaria: la domina inflessibile e sorda alle preghiere configurata nel prologo del canzoniere.
In quanto strategia testuale fondamentalmente isotopica, la storia
dell’onore e del furore in suo nome descritta supera nondimeno ogni ben
definito diaframma, sviluppandosi, invariata in senso euforico come disforico, nell’elaborazione di un identico schema bipolare del discorso poetico,
soggetto ad ambientazioni tematico-formali diverse, distribuito in microsequenze lirico-narrative di difforme respiro, affidato a testi-cornice con
funzioni di legamento e consuntivo volti a intrecciare materiali manoscritti e a stampa provvedendo del continuum, lungo tutta la catena testuale, il
ritratto di entrambe le figure oggetto di canto.
L’orchestrazione narrativa della storia esordisce nella microsequenza
14-20 con una sintesi elogiativa sull’amata che apre al canzoniere il tema
della guerra empia sferrata da Eros nel proemio opponendogli l’ossimorico
motivo della guerra dolce da lei condotta, colta nell’instabile furor suscitato dal metaforico sole che la emblematizza, il cui fuoco mai concede ripari,
incendiando anche la notte, a differenza dell’astro del giorno che, come nei
primi sei versi della petrarchesca sestina 22, a tutti i mortali offre tregua
nel suo avvicendarsi con la notte.
Mai non si vide il più leggiadro viso,
Più bionde treccie, più begl’occhi in terra,
Più bianche man, più delicato riso
Di questo che mi fa dolce empia guerra.
(RV 14, 1-4)
Dolce m’è ogni martir, ogni tormento,
È dolce ogni fattica, ed ogni danno,
È dolce ogni dolor che per lei sento,
E benedico l’ora, il giorno e l’anno
Che diè principio al mio sì caro stento,
Al mio sì dolce e riposato affanno.
(RV 16, 9-14)
Io veggio un nuovo sol che viè più splende
Lucido, e chiaro, e viè più coce in terra,
E viè più lunge il suo valor estende
Che l’altro sol, che ‘l giorno et apre e serra,
Che quel di fuor co ‘l suo calor m’offende,
Quest’ all’ossa ed al cuor mi face guerra,
Da quel ho pace quand’egli è sotterra,
Questo di notte più m’abbaglia e ‘ncende […]
(RV 20, 1-8)
Una ritrattistica erotica incentrata sugli emblemi floreali a base mitologica legati alla tradizione di imeneo introduce nella microsequenza 21-33 il
tema dei lacci che avvolgono di elegiaco ardore l’amante-poeta. Orchestrati
dalla petrarchesca conventio de oppositis entrano sulla scena del testo gli
opposti moti della perturbatio animi, nel cui destabilizzante succedersi
prendono corpo il conflitto Amore-Ragione, contraddittoriamente operante nel monito a seguire l’impresa del canto volta a incoronare di gloria e a
desistervi, e l’ovidiano navigium preda di opposti venti di Amores II 10, 9,
15
16
Questa faretra e questi strali d’oro, RV 40: Questa faretra cogli aurati strali, B. Tasso, A Diana,
Rime, II, XVIII. Sulla fortuna cinquecentesca del sonetto votivo e su Bernardo Tasso si veda G.
Cerboni Baiardi, La lirica di Bernardo Tasso, Urbino 1966 e J. Hutton, The Greek Antology in Italy to
the year 1800, Ithaca, New York, 1935; C. Zampese, Tevere e Arno. Studi sulla lirica del Cinquecento,
Milano, Franco Angeli, 2013 (Letteratura italiana. Saggi e strumenti)
Sul meccanismo, e relativi agglomerati, si veda Cristina Zampese, Tevere ed Arno. Studi sulla
lirica del Cinquecento, Milano, Franco Angeli 2013 (Letteratura italiana. Saggi e strumenti).
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la stagion che’l ciel rapido inchina), l’angosciosa descriptio temporis che
ne accompagna il dire intona la sofferta nostalgia del primo dolce affanno,
foriero della critica al difforme presente, responsabile del metaforico ritiro dell’amante-poeta nella selva, dove le paniche immagini della natura
e del mito in modi diversi ne inducono lo sfogo della pena del vivere (RV
44-47) gridando la tragedia dell’amore non corrisposto nell’invito ad amare
della breve giovinezza.
Nella staggion che si riveste l’anno
De ‘l verde manto d’erbe e fior novelli,
Io tra fresch’ aure, e ‘l lamentar d’augelli
Gl’occhi miei lassi a lagrimar condanno.
Ch’ or mi sovvien il primo dolce affanno
Che duo begl’ occhi di pietà rubelli
Co i sguardi suoi non empi men che belli
Mi dier al cor, ed or vie più mi danno.
E s’ io veggio talor sicure e liete
Gir due colombe, od altra simil copia
Che giunta tien dolce amorosa rete
- Felici voi – dic’io – che tanta copia
Di quel piacer, di quella gioia avete,
Di ch’ io mi struggo per estrema inopia –
(RV 45)
S’io veggo per le piagge i fiumi presti
Correndo al mar portar l’usato fio,
Io dico: - Potria far il pianto mio
Fiumi maggior assai che non son questi. S’odo gl’accenti dolorosi e mesti
Di Filomena e Progne, alor anch’io
Piangendo narro il mio tormento rio
A i boschi oscuri, ed al veder molesti.
Se tortorella scompagnata e sola
Ch’ i verdi rami ognor aborre e schiva
Ne i secchi tronchi star afflitta veggio
- Teco - dich’ io - lo stato mio pareggio,
Poi che madonna di mercé mi priva,
Né trovo cosa ancor che mi consola.
(RV 46)
Fiume gentil, che da scogliose vene
Scendendo porti il suo tributo al mare
Con le tue ninfe graziose e care
Tra verdi piagge e di fioretti piene,
Tu solo sai le mie gravose pene
E i miei martiri, e le mie pene amare,
Che tante son quant’ in ciel stelle chiare
E fronde in selve, e nel tuo fondo arene
Tu dico il sai, perché di pianti miei
Turbossi spesso e crebbe oltre misura
Il tuo cristallo, onde doler te ‘n dei,
E questa quercia il sa, rigida e dura,
Che perché cresca il mio dolor con lei,
Scritto ho ne ‘l tronco suo la mia sventura.
(RV 47)
Lo stato di perpetuo sofferente dell’amante-poeta, privo di voce e visione, i sensi, il corpo distrutti da un servitium amoris che il sogno della giusta
mercede non riesce ad appagare, costituisce il nucleo discorsivo-tematico
lungo il quale, intorno alla sestina 51, si dispone l’intera microsequenza 4860, esemplata sugli adynata dell’ardore gelato di eros, sulla fenomenologia
del fuoco foriera di uno strazio estraneo alla figura che sola può nondimeno
arrestarlo. In chiave metapoetica, la scena del testo mostra l’inerzia delle
mani incapaci di vergare la carta destinata ad accogliere le rime a lei rivolte,
dove lo stanco lamento all’impietosa concretizza l’impasse elegiaco di un
effuso dolore fattosi afasico per eccesso di disperazione. «Degno saria che ‘l
mio noioso pianto / Avesse ormai qualche riposo e pace», si legge nel dialogo
tra Amore e Ragione sviluppato in omaggio alle Stanze del Bembo nelle 39
ottave giocose di RV 61 (ivi, 27, 1-2). Al carpe diem del loro dettato («cogliete
il tempo che sì ratto fugge,/ perché la vita mai non si rinverde/ Poi ch’una
volta come il fior si strugge, ivi, 34, 2-4), segue il lamento ad Amore, Fortuna
e al destino malvagio chiamato ad aprire la microsequenza 62-66, dove l’e-
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
27 _
rotica arsura dell’amante-poeta sperimenta insieme l’ardore di lontananza
dall’amata e dalla patria; il fuoco eterno dell’amoroso inferno e il freddo e
tempestoso verno in balìa dei marosi pronto a rinfocolarlo; la perigliosa navigatio nello sconvolto paesaggio interiore rappresentato in metafora nel
sonetto 24 e il teso dialogo con Borea, Tritone e le ninfe del mare inscenato
nel trittico 63-65, non immemore della favola di Leandro ed Ero narrata da
Bernardo Tasso ad Antonia Cardona nel III libro degli Amori 1537.
- Or ch’io son lunge da quel chiaro obietto
Che con la luce sua m’accese il core
Devria scemarsi il mio tenace ardore
Mancando la cagion, manca l’effetto,
Eppur l’incendio che mi strugge il petto
È mille volte, ch’ era pria, maggiore Così diss’io, così rispose Amore
Con voce accesa di pietoso affetto:
- L’imagin di colei da cui procede
Il foco che ti strugge a mano a mano
In mezzo de ‘l tuo cuor scolpita siede.
Ella ti strugge, ma ‘l bel viso umano
Che ti suol ristorar più non si vede,
Perciò più che d’appresso ardi lontano. –
(RV 63)
Ninfe del mar, che con soave errore
Solcate l’onda placida e tranquilla,
Se mai d’amor sentiste in voi favilla
Pietà vi mova il mio crudel dolore.
E voi ch’ avete più benigno il core,
Vaga Aretusa, e graziosa Scilla,
De ‘l vostro umor spargete qualche stilla
Ne ‘l vivo incendio de ‘l mio fiero ardore.
E tu Triton, nella tua cava tromba
Queste parole con tal forza inspira,
Che la mia donna intenda l’alto grido:
- Il tuo fedel, là dove il mar rimbomba,
E il vento freme e non si scerne il lido
Di sé non cura, e sol per te sospira. –
(RV 64)
S’ ancor favilla dell’antico ardore
Ti scalda il petto, il tuo furor ammorza
Borea crudel, la cui terribil forza
Perturba il mar con spaventoso orrore.
Mal si convien co ‘l ragionar d’amore
Il grido d’alternar di pioggia ed orza,
Ma benché tema, questa fragil scorza
Non si smarrisce l’animoso core,
Anzi fra stridi di procelle irate
Mentre ‘l ciel tona e ‘l mar spumoso freme
Sol a madonna co ‘l pensier attende,
E contra l’ira delle stelle ingrate
Con quel pensier si copre e si difende,
E sprezza il mar, i venti e i toni insieme.
(RV 65)
Bernardo Tasso intona il proemio al canzoniere (Ecco descritta in lagrimosi versi, RV 1), il ritorno al ragionar d’amore di RV 41 (Ecco ch’io torno
con pietosi accenti, ivi, 1), e il ritorno alla patria di RV 67 (Ecco ch’ al fin di
tante mie fatiche, ivi, 1), che dischiudendo il congedo marino alla microsequenza 67-83, con nuova modulazione di canto riprende le lodi alla nemica
di pietade e di mercede dell’esordio lirico, rilanciando le istanze programmatiche dell’opus poeticum a lei dedicato nella lunga parabola del suo stesso declino. Lo stile dell’enueg, che nella struttura a polittico della canzone
68 ne configura le cangianti mostruosità dell’imago, assimilandola al cobra
egiziano del Bellum civile lucaneo e alle omeriche sirene e a Cariddi dell’Odissea, al coccodrillo e al basilisco, a Medusa e alla calamita di Rvf 135, e
nel trittico 69-71 ne riesplora il proposito di eternarla nello stile del plazer,
nel dittico72-73, da cui il canzoniere risulta testualmente bipartito, mette a
nudo il petrarchesco labirinto di Rvf 211, dove preda di sdegno e ira, timore
e gelosia - le animi perturbationes dell’erotica oratoria perottiniana (Asolani I, XXX) -, l’amante-poeta si dibatte mentre si credeva sul punto d’uscirne.
Luciana Borsetto
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le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
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Fattasi «fiera venenosa e ria» (72), la nemica bella nulla concede; il lamento all’impietosa altro non aggiunge che l’ironico scorno a pianto e vergogna
stigmatizzati nell’explicit del testo incipitario (Vergogna il frutto fu, mercede
il pianto, RV 1, 14: Riporto al fin vergogna, scorno e pianto, RV 73, 14). Il successivo trittico del languore, omaggio ai libri di Delia e Cinzia degli elegiaci
Tibullo e Properzio, al petrarchesco pianto di Laura di Rvf 155-158, e alla sofferenza foriera di morte cantata dal conterraneo Giorgio Bizanti nelle Rime
Amorose 153217, ne elabora il lutto per il sottrarsi dell’imago. Il metaforico
sole che torna a emblematizzarla, restituendole nuova visione e promessa di
canto dopo la parentesi della sofferta malattia («io vi farò più chiara/ Assai
che ‘l sol doppo ‘l millesim’anno», RV 79, 13-14), si oscura. Il lamento alla crudele intona l’invidia del monile al collo di lei (81); il fiore strappato al cuore
(82) torna a denunciarne l’algida petrosità (83) stigmatizzata dalla canzone
68. La fuga nelle selve del canto inascoltato a lei rivolto nella canzone 84, con
la morte per amore impressa sulle cortecce dei tronchi, come le invocazioni
a Cinzia di Properzio in El. Lib. I, 18, 21-22, conclude all’insegna dell’empietà della crudele la retrospettiva sulla favola bella esemplata al primo fiorire
della giovinezza («Vattene in selve oscure / Ove de ‘l sol mai non aggiunge il
raggio,/ Canzon, e ‘l mio malvaggio/ Stato, e ‘l mio duro scempio/ Scrivi ne i
tronchi lor, dopo che l’empio/ Destin non lascia che voglia ascoltarti/ Quella
crudel che mi sospinse a farti», RV 84, 66-72).
Un brusco revirement tematico strutturale dell’opera consegna alla microsequenza 85-91 la giocosa apertura mitologica sull’aurea rete dei capelli
volta a identificarne con Venere la figura, così da ingannare sulla sua essenza lo stesso Eros. La sfida a morte in suo nome lanciata al mondo dal dio nel
sonetto 86 trova il suo contrappunto nell’ars moriendi dell’amante-poeta,
«nuovo Meleagro» consunto dal fuoco del suo stesso tizzone (87-88). Il registro introspettivo al riguardo attivato nel trittico 89-91, accanto alla nave
in balia di opposti venti di RV 24, inscena lo specchio di Rvf 361, rivelatore
dei segni del tempo sul pallido volto affacciato, chiamato a dire l’urgenza
del ritorno al dritto cammino, denunciando il cieco errore del labirinto, prima frammentaria intonazione penitenziale del canzoniere rivolta ai servi
d’amore di Rvf 207, 96, afflitti dal male più amaro della morte:
Io mi consumo in aspettando un’ora
Che per mia dura sorte unqua non viene
Che ponga fin alle mie dure pene
Ed al tormento che mi strugge ognora.
E ‘l tristo cor perché di duol non mora
Pasco di vana e di fallace spene,
Ed a me stesso fingo un certo bene
Che s’allontana a me più d’ora in ora.
Sì come nave che lontan dal porto
Da fieri venti combattuta e spinta
Or all’occaso ed or si volge all’orto,
Cos’ io con l’alma già da ‘l tedio vinta
Freddo ne ‘l cor per tema, in viso smorto,
M’aggiro e veggio ogni mia luce estinta..
(RV 89)
Ne riferiscono i cinque sonetti di RA 27-31, per i quali si veda della scrivente L’imitatio Petrarce
nelle Rime amorose di georgio Bizanthio Catharense (Venezia 1532) in Ead., Andar per l’aria. Temi,
miti, generi nel Rinascimento, Ravenna, Longo Editore, 2009, pp. 141-155 (collana “Il Portico”).
18
Talor mirando ne ‘l mio fido speglio
Il mio sembiante smorto e scolorito
Che par d’un uom che sia di tomba uscito
O da molt’anni attenuato e veglio,
Dico a me stesso, e quando ormai mi
sveglio
Da ‘l lungo sonno e prendo altro partito.
Tempo saria che da’l camin smarrito
Tornassi al dritto, e per me fora meglio
Perché seguendo il lusinghier Amore
Vivo mai sempre in angosciosa doglia
Con l’alma avolta in tenebroso orrore.
Questo è ben ver, ma chi di ben mi spoglia
Dice convien ch’ in questo cieco errore
Tu ti consume, e mai non te ne scioglia.
(RV 90)
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Acerba vita, e stato amaro ed agro
S’ in altrui man sta la mia pace e noia
Se vuol madonna ch’io languisca e moia
Languisco e muoro, e se vuol ch’ arda
io flagro.
Se pallido mi vuol son smorto e magro
Da lei vien la mia pena e la mia gioia,
E quel che m’addolcisce, e che m’annoia
Tal che son fatto un nuovo Meleagro.
Ma questo affanno ogn’ altro affanno
eccede,
Ch’ alla pietà mai non aprì le porte,
E pur lo stato di mia vita vede.
Servi d’amor, che questa dura sorte
Provato avete, fate ad altri fede,
Ch’ a par de ‘l vostro mal dolce è la morte.
(RV 91)
Nella zona dell’innamoramento più prossima al discidium (92-123), la
sintassi narrativa dell’opera accelera e agglutina eventi, ravvicina e distanzia scenari, condensa tradizioni e situazioni enunciative, disponendo
la frastagliata materia del dire su una linea di bilanci e confronti volta
insieme ad unire e disgiungere le disiecta membra della storia descritta
ricomponendone il senso alla luce dell’estremo processo della sua lirica
tessitura. La lode all’amata, opera eccelsa del divino fattore della canzone
92, in figura di «guardian armato / Di fuoco d’onestà» posta a difesa del
giardino paradisiaco già della canzone 4, dischiude al macrotesto elegiaco
lo squarcio bucolico sull’improvvida fuga nei boschi di lei, incurante di
fauni e silvani (93-97). Un richiamo e ritorno alla patria (98-99) intonati a
un coniugium modulato sulla vitale concordia degli elementi la sigillano
nello scenario del mito configurato da Aurora che imbionda la bianca chioma del vecchio Titone, restaurandone lena e vigore nel soddisfarne i desideri (100-101). La filigrana orfica delle Stanze per la giostra del Poliziano,
il sonetto XCIV del Bembo, e il suo più immediato ipotesto petrarchesco - i
primi quattro versi di Rvf 30418 -, dissolvono entrambe le figure nei protagonisti della scena venatoria della sestina 102, dove il laccio teso dalla
«Mentre che’l cor dagli amorosi vermi/fu consumato, e’n fiamma amorosa arse,/di vaga fera le
vestiagia sparse/ cercai per poggi solitari et hermi» (Si cita da p. 1175.F. Petrarca, Canzoniere,
edizione commentata a cura di Marco santagata, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996).
Luciana Borsetto
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bella fera al cacciatore che l’inseguiva riscrive la genesi dell’eros ritratta
dal Pascale nell’initium narrationis:
Amor fra boschi e solitarie selve
Mostromi una legiadra e bella fiera
Che con la luce d’i suoi chiari rai
M’accese tutto, e poi tra fiori ed erbe
Mi tese un laccio, e con mirabil arte
M’avinse l’alma e ‘l cor in mille nodi.
(RV 102, 1-6)
Un più bel fior che si vedesse unquanco,
Vago, gentil e colto in Paradiso,
Amor volgendo il pianto in dolce riso,
Piantommi con sua man nel lato manco
[…]. (RV 3, 1-4)
Sospinse un stral ch’in mezzo ‘l cor mi
giunse
E là dove mi punse
Con la sua man piantò quel fior gentile
Di cui colei ch’ei mi mostrava nacque
[…]. (RV 4, 212-215)
Il bilancio esistenziale dell’erotica cattura introdotto dalla sestina riesplora nel segno del furor e dell’amaro lamento, nella microsequenza 102-118,
l’intera gamma dell’amore non corrisposto (103-107) aprendone il racconto al
motivo della gelosia organico al contesto bucolico tematizzato. Un omaggio
scoperto alla seconda egloga virgiliana inserisce nella narratio il parallelo
tra l’impareggiabile paesaggio di disperazione amorosa dipinto dal poeta di
Roma e il nuovo scenario di canto per analogia e per contrasto evocato dall’amante-poeta. «Canto quae solitus, si quando armenta vocabat, / Amphion
Dircaeus in Actaeo Aracyntho», scriveva Virgilio in Bucolicon II 23-25, e in
figura del bucolico Iola, chiamato da Orfeo tra le selve, mentre Filli cudele gli
nasconde il bel volto, e sola e senza compagno segue lo stolto Dameta, il poetapastore di Cattaro, lodando l’età felice che vide crescere bella e soave la voce
di Virgilio, così gli fa eco: «Io canto quel che fra l’ombrose fronde / D’Aracinto
Anfion cantava in quella / Felice età, né più soave e bella / Voce si può sperar
che s’oda altronde. / Titiro solo al mio cantar risponde» (Rv 108, 1-5).
Intonato all’incipit di Rvf 268, un dubbio irrisolto rivisita nella canzone
109 il “ciclo del guanto” del trittico petrarchesco 199-201 ponendolo all’insegna dell’incerto segnale lanciato dall’amata nel lasciarlo cadere (109-110),
un arcano sul quale invano si profonde la debole mente del locutore-poeta,
sotto la specie di pianto e dolore, desideri e timori, sdegni e paure derubricando le pene inflitte dalla crudele indifferente all’amore (111-113); sotto
la specie del premio al lungo soffrire elaborando il sogno della dolce morte
presso la gentile colpita dal fuoco di un identico strale, la bella morte, ristoratrice di un ardore di null’altro foriero che di amaro pianto:
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
Io morirò con lei,
Ed uscirò di lunghi affanni miei,
Ma se com’ io vorrei
Lo stral fie tinto d’amoroso affetto
Con par gioia e diletto
Ambi arderemo di un medesmo ardore
Ed ambi avrem un spirito, un’alma e un core.
Così questo dolore
Che meco sta, farà da me partita
Per dolce morte, o per più dolce vita
(RV 114, 8-17)
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Io ardo, e l’ardor mio
È tal che d’esser giunto io veggio chiaro
Al fin de ‘l viver mio diletto e caro,
Onde per allentar la forza alquanto
Di questo incendio vivo
Ch’ apertamente mi conduce a morte,
Spargo da gl’ occhi un abbondante rivo
D’amaro e tristo pianto
Ch’ in parte amorza quel ardor sì forte.
Ahi dolorosa sorte,
Poi che non ha mia vita altro riparo
Se non ch’io pianga ognor con pianto amaro.
(RV 115)
Sullo stile dell’amore corrisposto, impegnato nella canzone 118 a celebrare un’amata intiepidita nel ghiaccio che la rimuoveva dall’eros, si apre alla
microsequenza 119-135 il nuovo motivo di vanto nei confronti di Omero, Virgilio e Petrarca foriero del canto ineffabile a una «più che’l dì serena notte»
concessa da Amore, dove l’omaggio alla canzone 90 del Libro II degli Amori
di Bernardo Tasso (Come potrò giamai, Notte, lodarti) elabora l’ultimo, estremo rilancio della fabula erotica delle Volgari:
Quel chiaro stil che diè tant’ alto grido
Al forte Achille ed al sagace Ulisse,
E quel’ ancor ch’ altieramente scrisse
D’ Enea, di Turno, e di Camilla e Dido,
E quel che Laura nata in umil nido
Per tante alme virtù che di lei disse
Fé tal, ch’ ove ‘l suo nome non s’udisse
Non fu sì strano, e sì discosto lido,
E quante altre mai furono famose e dotte
Lingue greche e latine, e le moderne
Che vanno a paro dell’ antiche carte
Non potrian dir, delle dolcezze eterne
Ch’ in una più che ‘l dì serena notte
Amor mi dié, di mille l’una parte.
(RV 119)
4
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Il congedo da Amore pietoso, guida e scorta alla dolcezza, consolatore
e restauratore di speranza, ineffabile traghettatore alla porta del cielo del
Luciana Borsetto
trittico 120-122, configura infatti un duplice, contrapposto cambio d’intonazione: alle lodi rinnovate dell’amata, inclusive, come in Rvf 247, dell’excusatio per lo stile inadeguato a consacrarne il nome (Parrà forse, madonna, a
quei che mai, RV 123, 1: Parrà forse ad alcun che’n lodar quella, Rvf 247, 1), si
accompagna il brusco recupero della musa elegiaca dell’affanno sconsolato,
che nella canzone 124 e nella disperata 125, intonata nell’incipit a Rvf 130
(Poi che ‘l camin m’è chiuso di mercede) torna a mettere a nudo la difforme
realtà, dischiudendo al racconto dell’eros il definitivo discidium. Ne rende
completa testimonianza la microsequenza 126-135, dove i tormenti per la
mancata mercede che attraversano il dire dell’amante-poeta, e le cantilenae oculorum dettate dal sottrarsi dell’oggetto di canto all’orizzonte dello
sguardo sigillano la loro predicazione nella sintesi sull’amorosa pena, risolta in rabbia e frenesia, del sonetto 136, introduttivo della catarsi spirituale
testimoniata, nella microsequenza 137-141, dall’epilogo del canzoniere.
Il dialogo tra Amore e Ragione che onore e furore alternava nell’intreccio
macrotestuale dell’opera, lascia spazio, nella canzone 137, alla condanna della
Superba, altiera ed orgogliosa mente, sin dal tempo giovanile impegnata a celebrare le imprese di Eros. Evocativo di Rvf 314 (Mente mia che presaga de’ tuoi
danni), l’appello dell’incipit a lei rivolto perché si pieghi al divino Fattore da cui
solo può giungere il rimedio all’esausto languire, e il conseguente orientamento
del canto verso lo Spirto sacro e divin (138) segnano l’insorgere dell’interiore
renovatio deputata, nel sonetto 139, a ripudiare il dolce inganno del dio alla base
dell’insidioso labirinto insediatosi nell’animo del poeta. Modulata sul pregnante simbolismo religioso della petrarchesca canzone 264, introduttiva nell’Auctor Petrarca della seconda parte del canzoniere, la stretta relazione simbolica
tra calendario liturgico e tempo di vita e innamoramento istituita dal testo pascaliano rivisita in funzione dell’intero liber delle Volgari, come in Rvf 364, i
tempi forti della vicenda narrata. Diversamente dall’Auctor, che avviava l’amore per Laura nel giorno della morte di Cristo (Rfv 3), Pascale avvia e conclude l’amoroso affanno nel Natale cristiano, coincidente con il dies natalis dello stesso
poeta. L’istanza della mutatio vitae precede invece, come nell’Auctor, la morte
dell’amata, verosimilmente adombrata nel sonetto 142.
Trasformando l’esiziale sofferenza in nuova modalità di canto, la Musa
sacra preposta all’estrema intonazione lirico-narrativa dell’opera conclude la lunga guerra in essa descritta senza includerne l’evento tra gli agenti dell’interiore metamorfosi. Al divino giardiniere dell’esordio, intento a
piantare la rosa nel cuore del poeta, succede il divino Fattore dell’epilogo,
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
32 _
che sanando la ferita ne sradica il germe dell’errore di cui si era fatta portatrice («Dio svelse il germe, e non Fortuna o Morte, / Ch’ avea già fatto ne
‘l mio cor radice/ Che per turbar lo stato mio felice/ Piantovi Amor, e le mie
voglie torte», RV 140, 1-4). Declina, con la stagione transeunte della rosa,
la transeunte stagione dell’erotica poesia del canzoniere pascaliano. Nel sonetto 141, come nel Libro I degli Amori Bernardo Tasso, il poeta di Cattaro
intona il canto gioioso del ritorno alla libertà, inneggiando allo scioglimento del nodo con cui Amore l’avvolgeva consegnandolo a una catena avara
d’ogni bene, destinandolo alla tomba deputata a seppellirlo:
Poi che la libertà mia dolce e cara
Ho riacquistato e ogni nodo è sciolto
Con cui mi tenne Amor gran tempo avvolto
Nella catena d’ogni ben avara,
È volta in gioia la mia pena amara,
Il tristo pianto in lieto riso è volto,
Rotta è la tomba ov’ io giacea sepolto.
(RV 141, 1-8)
[…] Rotto è l’ardente nodo, e dì tenace,
il duro giogo, e le catene salde,
tal ch’io pur resto un dì libero e sciolto […].
(Amori I CVII, 9-11)19
19
La sintesi sulla lunga stagione del pianto offerta dal sonetto 142 stringe
in un’unica reprobatio Amore e furore, così che anche la morte dell’amata, di
cui sembra lecito leggersi nel cenno al «nuovo e subito accidente» al v. 5 del
testo, altro non configura che la libertà riguadagnata alla mente e al cuore
in forza della grazia ottenuta dal Cielo, le fiamme spente dell’arsura, la nebbia degli occhi dissolta dalle mani stesse di Dio:
Lunga stagion io piansi amaramente
Spinto da quel furor chiamato Amore
Che lusingando in periglioso errore
Mi tenne vivo in ghiaccio e foco ardente.
Ed or un nuovo e subito accidente
(Mercé del ciel) d’ogni amoroso ardore
Mi ha posto in libertà la mente e il core,
E le mie fiamme in un momento ha spente.
(RV 142, 1-8)
19
Si cita, qui e altrove da Bernardo Tasso, Rime, Volume I. I tre libri degli Amori. Testo e note a
cura di Domenico Chiodo, Torino, Edizioni RES, 1995.
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Luciana Borsetto
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Rimodulando il dialogo con lo Spirto sacro e divin del sonetto 138, il
piccolo corpus delle rime sviluppato a sigillo del Liber, estrema appendice
lirico-narrativa della sequenza penitenziale avviata dalla canzone 13720, rivisita e approfondisce la funzione palinodica svolta dall’abiura della mente
insana, impegnata sin dal proemio a fare dell’amore elegiaco l’unica fonte
ispiratrice del canto, privilegiando la vicenda umana su quella morale del
cantore. Il mutamento etico in lui instauratosi permea insieme l’appello
accorato a Cristo Re de ‘l ciel perché intervenga contro il «crudel tiranno
d’Oriente» (145), incursione poetica nella contemporaneità minacciata non
immemore del sonetto 17 delle Rime Amorose bizantiane:
Pascale
Bizanti
O Cristo Re de’l ciel, a cui d’intorno
D’angeli benedetti mille cori
Cantando van i tuoi trionfi e onori
Mentre fai’l ciel della tua grazia adorno,
Riguarda in terra da’l divin soggiorno,
Vedi fra quanti perigliosi orrori,
Fra quanti affanni il Popul tuo dimori,
Quante riceva ingiurie e quanto scorno,
Vedi’l crudel tiranno d’Oriente
Ch’adombra’l mar con mille armati legni
Per oltraggiar la tua devota gente,
Affrena il suo furor e i fieri sdegni,
Padre di grazia, e l’orgogliosa mente
E tutti al vento spargi i suoi disegni.
(RV 145)
Nobile Italia chi mai non ti vide
S’attrista et piagne de la tua rapina,
Che ’l Ciel per propria colpa ti destina,
E pur il popul tuo di ciò sorride.
Vedi con che furor l’un l’altro ancide
Che eccede et vince rabbia peregrina,
Vedi ch’ogni huom procura la ruina
Tal che te stessa in più parti divide.
Chi brama Spagna, et chi l’ardita Francia,
Chi Chiesa, et chi magnanimo Lione,
Et pur non puono star in una stancia.
Ond’io temo la furia del Dracone
Ch’a preso in mano sanguinosa lancia,
Per gir in parte ove che’l ciel dispone.21
21
e l’istanza di pietà al Signor dell’universo per la colpa rimasta a lungo
inconfessata (143); l’invocazione all’Aurora discopritrice del vero (144) dis-
20
21
In seguito confluito nel Libro primo delle rime spirituali, parte nuovamente raccolte da più
auttori, parte non più date in luce, Venezia, Al segno della Speranza, 1550, dove si leggono alle cc.
138r-146r. Sul Libro si veda A. Quondam, Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa
(parte prima) Sezione seconda in Id.,Paradigmi e tradizioni, Roma, Bulzoni, 2005, p. 181.
Rime Amorose di Georgio Bizanti Catharense, MDXXXIII, In Vinegia per Iacob dal Borgo,
MD.XXXII, c. Aiijr.
le rime volgari di ludovico pascale. sulla costruzione del canzoniere.
sipatore delle tenebre, e la preghiera al «Sole verace», «fido porto» di «pentiti» perché mostri il suo raggio alla mente interna confortandone l’angoscia
dell’affannoso vaneggiare, rasserenandone il cammino sul «sentier dritto e
sicuro» (146):
O Sol verace, che l’abisso oscuro
Illuminasti della notte eterna
Quando per te dall’infernal caverna
I Santi Padri liberati furo,
S’ a giusti prieghi mai non fusti duro
Scopri il tuo raggio alla mia mente interna,
Sì che da te rasserenata, scerna
Fra tenebre il sentier dritto e sicuro.
Il tuo nemico e mio co ‘l suo veneno
E la mia poca cura, e ‘l creder torto
M’ han tolto di ragion di man il freno.
Tu dunque di pentiti, o fido porto,
Or ch’ io mi volgo a te d’angoscia pieno,
Porgi al mio vaneggiar qualche conforto.
(RV 146)
35 _
L’evolversi del petrarchismo
peninsulare e il prestigio nel suo
ambito assunto dal volgare
italiano come lingua della poesia
sono alla base, nella prima metà
del Cinquecento,
dell’affermarsi, in un centro
geo-politico e culturale di rilievo
come Cattaro — avamposto
della Serenissima nel dominio
dell’Adriatico —, della
sperimentazione lirica
improntata alla pratica del
Bembo. Tutto compreso nel
ventennio 1530-1550, l’arco
della sua parabola
documentabile è contrassegnato
dalla produzione di due
importanti canzonieri: Rime
amorose di Giorgio Bizanti
(Venezia 1532) e Rime Volgari
di Ludovico Pascale (Venezia
1549), uscito il primo a due anni
di distanza dalla princeps
bembiana (Rime, Nicolini da
Sabbio 1530), punto di avvio,
per il Dionisotti, del
petrarchismo nel senso stretto
del termine, e a un anno dalla
sua terza e definitiva
impressione, curata da Carlo
Gualteruzzi (Rime, Gabriel
Giolito de Ferrari 1548). Patria
del Bizanti e del Pascale, Cattaro, l’antica Ascrivium della Dalmazia romana, presenta all’epoca il
profilo linguisticamente ‘altro’, rispetto a Ragusa e a centri adriatico-orientali come Spalato, Zara o
Lesina, segnato dall’assenza della componente slava nella sua tradizione comunicativa illustre. Il
codice neolatino del Bizanti alla base delle Amorose sottolinea la contrastante prospettiva liriconarrativa sottesa all’opus poeticum prodotto, segnalando, nell’andamento parabolico della vicenda
che vi si snoda, la sua conformità a quella dell’Auctor Petrarca. In Pascale questo prospettico
contrasto viene a mancare, ricomposto nell’adesione manifestata alle diverse forme del classicismo
rinascimentale nel duplice codice (latino e volgare) sperimentate, stemperato dal fitto dialogo tra
loro, alla maniera del Bembo, ma anche del Trissino, e di Bernardo Tasso, intrattenuto. Il codice
neolatino del Pascale offre infatti inusitate movenze classiche a temi e forme delle Rime Volgari,
aprendone la declinazione romanza ai moderni microgeneri votivo e pastorale.
Luciana Borsetto ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Padova (Dipartimento di
Italianistica e DISLL) e all’Université Paris 3 Sorbonne Nouvelle, lavorando sui due versanti
dell’Italianistica e della Comparatistica. Ha curato l’ed. di Lettere secolari di Girolamo Muzio
(Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara, 1985); di Vita di Galileo di Vincenzio Viviani 1654
(Moretti&Vitali 1992); di Sei primi libri dell’Eneide di Vergilio tradotti a più illustri et honorate
donne (Zoppino 1540), e dell’Eneida in Toscano (Torrentino 1560), Forni 2002. Ha tradotto la
Judita 1521 del poeta spalatino Marko Marulić (Milano, Hefti 2001). Con Unicopli ha pubblicato
L’Eneida tradotta. Riscritture poetiche del testo di Virgilio nel XVI secolo (Milano 1989); con la
CLEUP, Tradurre Orazio, tradurre Virgilio. Eneide e Arte poetica nel Cinque e Seicento (Padova
1996). Per le Edizioni dell’Orso (Contributi e proposte. Collana di Letteratura italiana diretta da
Mario Pozzi, numeri 9 e 57, sono usciti Il furto di Prometeo. Imitazione, scrittura, riscrittura nel
Rinascimento (Alessandria, 1999) e Riscrivere gli Antichi, riscrivere i Moderni e altri studi di
letteratura italiana e comparata tra Quattro e Ottocento (Alessandria, 2002). Per le medesime
edizioni (Collana Manierismo e Barocco diretta da Guido Baldassarri e Marziano Guglielminetti nn.
3 e 5) hanno visto la luce Italia-Slavia tra Quattro e Cinquecento. Marko Marulić umanista croato
nel contesto storico-letterario dell’Italia e di Padova (Alessandria 2004) e Angeleida di Erasmo di
Valvasone (Alessandria 2005). Con Angelo Longo Editore è uscito Andar per l’aria. Temi, miti,
generi nel Rinascimento e oltre (Ravenna 2009). Altri suoi lavori hanno trovato sede in diverse
riviste italiane e straniere.
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Isbn
Manierismo e Barocco
20
No
Ludovico Paschale da Catharo Dalmatino
Luciana Borsetto
2016
XXIV-216
978-88-6274-710-3