Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo
Pasolini
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Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini è un saggio biograficoletterario di Giuseppe Zigaina, pittore nonché amico del poeta, scrittore e
regista Pier Paolo Pasolini. Pubblicato per la prima volta nel 1995, si tratta
Hostia. Trilogia della morte di
Pier Paolo Pasolini
della raccolta dei tre libri pubblicati precedentemente dall'autore, tra il 1987 e
il 1993: Pasolini e la morte. Mito, alchimia e semantica del "nulla lucente"
(1987); Pasolini tra enigma e profezia (1989); Pasolini e l'abiura. Il segno
vivente e il poeta morto(1993).
La tesi dell'autore, altamente controversa e dibattuta, è che Pasolini abbia
potuto - per così dire - programmare e far realizzare tutti gli eventi, così come
si sono poi effettivamente verificati, dell propria morte: quando all'alba di una
domenica mattina, il giorno della commemorazione dei defunti, viene
rinvenuto il corpo martoriato di ferite del poeta, in uno sterrato a pochissima
distanza dal mare, quell'evento - linguaggio muto - ha costituito per tutti un
problema di decifrazione. Un "giallo puramente intellettuale", per utilizzare
un'espressione che compare in "Bestia da stile".
Ritratto di Pasolini
Autore Giuseppe Zigaina
1ª ed. originale 1995
Genere Saggio
Indice
Lingua originale italiano
Introduzione
Indice
Introduzione (1995). Premessa (1989). Prefazione (1987)
Parte prima. Pasolini e la morte
Parte seconda. Pasolini tra enigma e profezia
Parte terza. Pasolini e l'abiura
Epilogo. Un giallo puramente intellettuale
Descrizione
Note
Voci correlate
Introduzione
«La nostra realtà... è quella che noi abbiamo espresso usando i nostri corpi come figure. Io come vittima, tu
come boia. Vittima che vuole uccidere, tu; boia che vuole morire, io.Orgia (Pasolini)»
Pasolini avrebbe lasciato in un numero molteplice di suoi testi, a partire almeno dal 1961, indicazioni e descrizioni, più o meno
dettagliate, degli eventi che avrebbero direttamente condotto alla propria tragica fine; in poesia, teatro, critica cinematografica, film e
sceneggiature, saggistica e quant'altro; una volontà di fare, morendo, poesia, che da parola si fa in tal maniera un gesto estremo ed
assoluto: "Per esprimermi compiutamente io devo morire. La mia morte dunque, come segno linguistico, come montaggio del film
della mia vita".
Una morte violenta, rituale, teorizzata e profetizzata; quando il protagonista maschile della sua tragedia Orgia, vestito da donna,
s'appresta ad impiccarsi, eccolo affermare: "Il mio linguaggio diventerà muto per eccellenza... chi domattina verrà ed alzerà gli occhi
per decifrarlo... si troverà davanti ad un fenomeno espressivo... così nuovo da dare un grande scandalo e da smerdare, praticamente,
ogni loro amore".
Come il linguaggio della realtà rappresentato dal cinema, facendo uso della morte ai fini di un preciso progetto espressivo esibito con
un atto sadomasochistico: "perché solamente la mitica morte eroica è uno spettacolo; e solo essa è utile" Empirismo eretico
(pag.275). Un'idea della morte dirompente e creativa, fondata sulla fede nella realtà e nell'efficacia del mito; come afferma anche
Mircea Eliade in Mito e realtà (cap. "La divinità assassinata"): ilsacrificio opera un gigantesco transfert.
«Finché siamo vivi manchiamo di senso. Solo grazie alla morte la nostra vita ci serve ad esprimerci.
"Osservazioni sul piano sequenza, in Empirismo eretico»
Come dice lo stesso poeta in Descrizioni di descrizioni: L'allagamento del territorio conoscitivo è inebriante. Ma è un'esperienza che
va vissuta, con tutti i suoi rischi.
Indice
Introduzione (1995). Premessa (1989). Prefazione (1987)
Parte prima. Pasolini e la morte
La contaminazione totale
Pittura e alchimia
Nel cuore della realtà
Dal caos al cosmo
Parte seconda. Pasolini tra enigma e profezia
Il lavoro arguto
Organizzar il trasumanar
Patmos e l'apokalypsis
Un altro esempio
Parte terza. Pasolini e l'abiura
Scrittore di aforismi
Il segno vivente e il poeta morto
Mimesis e diegesis
Manfredi Stalin e Ciappelletto
Una "pasolinaria" a Umberto Eco
"Medea"
"Porcile" come storia esemplare
Mythos e Logos
Il nucleo di senso
L'analisi del racconto
La sceneggiatura "come struttura che vuol essere altra struttura"
"Orgia" come struttura teatrale che ha in sé la volontà a essere altra
Un'alternativa rivoluzionaria
"Manifesto per un nuovo teatro"
Il nuovo teatro
"Un affetto e la vita"
Janàcek e la triade
Petrolio
Epilogo. Un giallo puramente intellettuale
Descrizione
Solamente dopo la morte di Pasolini comincia ad emergere, sia dalla vita sia dall'opera, il senso e la qualità della sua testimonianza:
la morte ha determinato quel passo avanti ulteriore nel campo della conoscenza, che ha reso la scrittura investita d'una forza del tutto
nuova.
Già nel 1967 afferma che l'azione attraverso cui si esprime ogni essere umano manca di unità e senso fino a che essa non è
perfettamente compiuta... "È dunque assolutamente necessario morire perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso" ed il
linguaggio con cui ci esprimiamo rimane intraducibile, un caos di possibilità. "Finché io non sarò morto nessuno potrà garantire di...
poter dare un senso alla mia azione"[1]. Ma anche Enzo Siciliano si pose con forza la questione: Pasolini chiese a se stesso di morire?
Il suo fu un suicidio per delega?[2].
Attraverso i suoi studi di antropologia, soprattutto dell'autore francese di origini rumene Mircea Eliade, Pasolini unifica l'arte della
cinematografia al mito, facendone una nuova realtà, insistendo sul punto: "La morte, dando un significato retroattivo all'intera
esistenza passata, ne sceglie i punti essenziali facendone atti mitici o morali fuori dal tempo"[3]. In Mito e realtà Eliade specifica che
il mito cosmogonico viene recitato in occasione della morte, situazione del tutto nuova che va resa creatrice; tale mito dev'esser
[4].
recitato solamente durante un periodo di "tempo sacro", generalmente durante l'autunno o l'inverno e soltanto di notte
In un racconto intitolato "Gas", scritto nel 1950 pochissimo tempo dopo il suo trasferimento a Roma e raccolto nel 1965 nel libro di
prose Alì dagli occhi azzurri Pasolini descrive con accurati dettagli la scoperta da parte di Villon (sdoppiamento col poeta francese
maledetto François Villon) del corpo massacrato di un certo Virgili (da Publio Virgilio Marone), un corruttore di minorenni: "il
cadavere vi giaceva a brandelli come un mucchio di immondizia... i pezzi del viso erano sparsi più avanti... inzuppati di sangue, erano
irriconoscibili". Qui l'autore, divenuto alter ego di Villon, ed in parte anche di "Virgili-o", nel racconto scopre il proprio corpo. Nella
pseudo "Nota dell'Editore" (che porta la data 1966-67) a presentazione de La divina mimesis, lo stesso Pasolini scrive che l'autore "è
morto ucciso a colpi di bastone a Palermo l'anno scorso".
Zigaina passa poi ad esaminare l'opera pittorica dell'amico, a partire dai ritratti fatti a Maria Callas, dando a tutto l'assieme una
valenza in certo qual modo sacra: lo stile di pittura pasoliniana sarebbe stata così, in tal modo, affine alla medioevale "scienza sacra"
dell'alchimia. Avrebbe realizzato dei veri e propri maṇḍala atti a preparare rituali magico-alchemici; a quanto ne dice Carl Gustav
Jung i mandala sono autentici autoregolanti della psiche, "li chiama in scena come fattori compensativi un disordine nell'ambito del
campo della coscienza"[5] e chiamati a trasmutare il caos (la caoticità disordinata della vita) in cosmo (l'ordine fisso e stabile
costituito dalla morte).
Seguendo questa visione interpretativa mitico-arcaica e magico-alchemica si può dire che l'atto di iniziazione viene allora compiuto
in una notte d'inverno, tempo sacro pagano di halloween tra la festa di tutti i santi e quella di tutti i defunti, tra un sabato e una
domenica, in un luogo che ha il nome del "corpo divino sacrificato" (l'ostia sacra) all'interno di un temenos (il campetto da calcio in
riva al mare, tra le baracche, là ove il poeta ha trovato la sua morte violenta): una discesa mitica agli inferi, impresa iniziatica atta a
conoscere l'enigma della vita e il futuro, quel luogo ove
" ricomincia la vita"[6]..
Sempre Pasolini e sempre inEmpirismo eretico espone a chiare lettere che
«...ogni volontario che cerchi una morte significativa come esibizione deve recarsi sulla linea del fuoco... Solo
la morte dell'eroe è uno spettacolo; e solo essa è utile... A furia di provocare il mondo e di esporsi, essi
finiscono con l'ottenere ciò che aggressivamente vogliono: essere feriti e uccisi con le armi che essi stessi
offrono al nemico... su tale fronte realizzano la loro libertà, quella di contraddire fino all'estrema conseguenza
la norma della conservazione... libertà di scegliere la morte... che si manifesta attraverso un martirio; ed ogni
[7].»
martire martirizza se stesso attraverso un carnefice.
Note
1. ^ Empirismo eretico pag.206, 240-241
2. ^ Vita di Pasolini 1978, pag.389
3. ^ Empirismo eretico pag.254
4. ^ M. Eliade Mito e realtà 1985, pag.32
5. ^ C. G. Jung Psicologia e alchimia pag.103 e sgg
6. ^ Hostia. Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini 1995, pag.68
7. ^ "Empirismo eretico" pag.269, 275
Voci correlate
Pasolini e la morte. Un giallo puramente intellettuale
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Germana Duca Ruggeri
Dagli studi di Zigaina sulla fine di
P. P. Pasolini all’Indovinello Veronese
SAGGISTICA
Una ipotesi
Le molteplici attività di Pier Paolo Pasolini, se da un lato sono un
viaggio nello spazio e nel tempo, dall’altro si possono considerare quasi
un viatico all’epilogo della sua vita, cioè a quel “martirio per autodecisione” a lungo indagato dall’artista friulano Giuseppe Zigaina, suo amico
e collaboratore. Le appassionanti prove dell’insigne studioso, confluite
nel volume d’arte con tre incisioni originali Pasolini: la ricerca e il gioco
(Edizioni Scuola del Libro, Urbino 2002) e nel recente Pasolini e la morte
(Marsilio, Venezia, 2005), mettono in chiaro la strategia espressiva, gergale e criptica, reperibile nelle opere del regista. Il quale, da profondo
conoscitore di Freud e Wittgenstein, di Barthes, Russel, Todorov, Mircea
Eliade, Ernesto de Martino, con lungimiranza premedita e organizza il
proprio «trasumanar» come gioco linguistico-esistenziale. Ovvero come
lavoro sul campo che egli, in qualità di scrittore e poeta, può a suo piacere
disseminare di indizi con finalità di ordine estetico e pratico, nell’urgenza
di essere riconosciuto. E’ questa ultima, di fatto, la via maestra per acquisire il diritto di cittadinanza nel mondo - e nella Storia - cui Pasolini ambisce. Storia in rima con gloria e memoria del proprio nome, accortamente
congiunto sia a capolavori del passato di indiscusso valore (Il Vangelo
secondo Matteo, Edipo re, Medea, Il Decameron, I racconti di Canterbury,
Il fiore delle mille e una notte…), sia ai margini, alle pieghe, agli enigmi
del presente (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Teorema, Porcile, Orgia,
Petrolio, ecc.), con dettagli che spesso prefigurano se stesso, le modalità
del suo commiato: suicidio per delega o, se si preferisce, assassinio su
commissione. Il tutto previsto per il 1975, a Ostia, nel campetto di calcio,
per la Festa dei Defunti, di domenica, col pensiero rivolto al fratello Guido
(partigiano ucciso da partigiani, durante la guerra, nello stesso giorno)
e agli alter ego letterari, i quali muoiono di morte violenta e sempre di
domenica o in una sacra festività, sostituendo la liturgia con la licenza e
l’orgia. Così quando Pasolini, la notte fra l’uno e il due Novembre, consegna il suo corpo di cinquantatre anni a chi dovrà fargli la festa, già
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conosce a memoria il copione: alla vittima sacrificale prima verrà rotto
l’osso del collo, poi schiacciato lo sterno; il cadavere finirà riverso in un
solco, rullato dai pneumatici di un’auto rubata. La notizia della sua morte
sarà il film della sua vita. L’esibizione più alta del suo talento scandaloso
così potrà fare il giro del mondo e dargli fama, essendo «un atto di “industria culturale” privo di precedenti storici», come anticipato nei versi de
Il giorno della mia morte. In tal modo il poeta si spinge oltre ogni limite,
facendo del proprio martirio, come ha osservato Zigaina, un gesto che
rivaluta l’intera opera e insieme apre a lui (laico) la possibilità (cristiana)
di “pensare a una vita del Dopo”.
Lo squallido campetto di Ostia - anticamente spazio di sacrifici umani
per propiziare il raccolto del grano; luogo in cui morirono, uno di spada,
l’altro massacrato a bastonate, i fratelli Gracchi, autori delle riforme agrarie - diviene allora recinto sacro dove la parola dell’eroico peccatore si
spoglia di sé per donarsi quale forza cieca, di puro amore, nudo annientamento in terra, umore fertilizzante, seme di frumento.
Quasi a confermare l’annuncio posto in cima al poemetto
prima ricordato: «…se il chicco di grano, caduto in terra, non
morirà, rimarrà solo, ma se morirà darà molto frutto. San Giovanni, Vangelo 12.24 (citato da Dostoevskij)». Metafora ricorrente,
in Pasolini, questa del grano che dà la semenza al seminatore e pane da
mangiare; penso in particolare alla mietitura, richiamata dalla poesia La
raccolta dei cadaveri, in cui si ripete nove volte la parola covo (sinonimo di
covone, fascio di spighe tagliate, oltre che di tana, luogo di cospirazione).
Tali espressioni indiziarie, ed altre simili, che annunziano la propria fine
e la propria rinascita - «La vita solo vera che ci resta è quella che sarà»
- sono nel contempo vaticinio e testimonianza, realtà di un misterioso
progetto teso all’affermazione dell’essere, cui il regista ha lavorato per più
di tre lustri, dandone già conto nella poesia La reazione stilistica (1960):
«No, la storia / che sarà non è come quella che è stata. / […] E la lingua
[…] s’integra, nessuno lo scordi, / con quello che sarà e ancora non è.»
Da qui il giallo intellettuale, riservato a un esiguo numero di scelti lettori,
scoperto e narrato da Giuseppe Zigaina. Egli, rimanendo estraneo alle investigazioni poliziesche sull’omicidio, ha setacciato per decenni la biblioteca dell’amico e promosso la stupefacente lettura ancipite dell’intero
corpus pasoliniano, un cosmo dove abitano tutte le contraddizioni. La
sua tesi, fondata sulla volontà del regista di morire per vivere, essendo di
elevata qualità euristica, spesso porta alla luce il testo nascosto con tale
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intensità che leggendolo scoccano persino improvvise scintille. A me è
accaduto con le espressioni in cui compare il sostantivo verso/i: «morirò
in un verso»; «i miei versi saranno completamente pratici»; «versi, versi,
scrivo versi! Versi non più in terzine»; «ho commissionato dei versi per la
mia consacrazione, ho commissionato dei versi per pregare dentro a questo spazio sacro…», eccetera. Ebbene, questo termine reiterato fa supporre
che Pasolini, impiegandolo sia nel senso corrente (verso poetico), sia nel
senso arcaico (che dirò più avanti), ne faccia l’emblema del «disoccupato
linguistico» richiamato in Poema per un verso di Shakespeare: «So tutto
mio verso, vuoi, facendoti vivo nel vento che leviga il cosmo, sentire la
lezione… («italofona», sì, e «piena di non cosmopoliti europeismi»: ironia sul melodramma – caduta di ogni speranza di comprensione presso i
destinatari di letteratura, che, per fenomeno contradditorio, assume una
forma di recitativo melodrammatico, in una levigatezza linguistica generica, da «traduzione» - con sopra appunto l’allegria del suicidio, per una
cerchia specializzata di destinatari – la gratuità di chi non ha più nulla da
perdere, dopo averne avuto tanto – un disoccupato linguistico)».
(Mie le sottolineature). Mi sembra difatti che verso, vocabolo tardolatino di area franco-veneta, sia pure sinonimo desueto di filare di viti e
solco (da verto, vertis, verti, versum, vertere, nell’accezione di rivoltare,
arare; col derivato versorio, per aratro), il cui senso si attaglia a ciascuno
dei precedenti enunciati. Nella frase «morirò in un verso» ad esempio il
termine significa certo “morirò facendo poesia”, come traduce Zigaina
nella mirabile inchiesta, ma anche “morirò in un solco”, come mi piacerebbe proporre.
D’altronde, se è vero che Pasolini sceglie da sé la morte nel fango, il
segno finale non può che essere giacitura perfetta, enjambement ardito che
mima, nel gesto disperato del crimine, la naturale tendenza violenta della
vita e, insieme, la rivolta, la nostalgia di una morale. La salma nel solco,
solcata dalla Giulietta Romeo, evoca a sua volta il ritorno al grado zero
della scrittura, al seme che germogliando risillaba le ragioni del corpo e
dello spirito, ancora imbrattato di mota, come quando emerse dalla mano
di Dio. Il fango è nel medesimo tempo ciò che il mondo restituisce rispetto
a ciò che si è dato. E’ l’immagine del nulla; ma non è il nulla. E’ qualcosa
che Pasolini, pensando al raccolto, solca e semina, forte come un aratro,
ossuto come uno stilo; parimenti contadino e scrivano, fedele alle origini venetiche: Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba,
et negro semen seminaba… E conforme perciò, fino in fondo, a quanto
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dichiarato nel suo Progetto di opere future, secondo i nessi che vorrei
porre in evidenza: «Ma io […] nell’epoca in cui l’italiano sta per finire
/ perduto da anglosassone o da russo, / torno, nudo, appunto, e pazzo, al
verde aprile, / al verde aprile dell’idioma illustre / (che mai fu, mai fu!),
alto-italiano… / alla Verderbnis franco-veneta, lusso / di atticciate popolazioni fuori mano… / al verde aprile – con la modernità / d’Israele come
un’ulcera nell’anima - / dove io Ebreo offeso da pietà, / ritrovo una crudele
freschezza d’apprendista, / nelle vicende dell’altra (funebre) metà / della
vita… Mi rifaccio cattolico, nazionalista, / romanico, nelle mie ricerche
per «BESTEMMIA», / o «LA DIVINA MIMESIS» - e, ah mistica / filologia! nei giorni della vendemmia / gioisco come si gioisce seminando…
». Che resta oggi di quel ritorno alla sorgente, all’apprendistato, alla gioia
filologica del facitore di versi che accomuna i solchi della semina ai filari
della vendemmia? Di lui che, a differenza di Gesù, non si turba al pensiero
della Passione, anzi ne fa un Gioco, fingendo allegramente che sia ancora
tutto da indovinare, che resta? Restano gli scritti. Da rileggere ricercando,
avendo cioè per obiettivo “la relogificazione di tutte le tracce lasciate dall’autore”, come insegna Giuseppe Zigaina, sulla scorta di Dewey. Anche
Paolo Volponi spesso raccomandava di tornare sulle opere di Pasolini,
l’amico, l’intellettuale che considerava suo maestro: per il debito che
come società abbiamo nei suoi confronti, considerando quello che lui ha
fatto per la nostra cultura, per la nostra letteratura, per la nostra civiltà. In
un seminario di studio con Gualtiero De Santi, Peter Kammerer, Ruggero
Giacomini, ad Ancona nel 1993, lo scrittore urbinate ebbe modo di ricordare un dialogo rivelatore avuto con lui pochi giorni prima della fine: “Mi
mostrò Le anime morte di Gogol”, un libro che ci innamorava tutti e due
(spesso ne parlavamo) dicendo:
- Anche degli ultimi film ho fatto l’abiura. Il film forse sì, lo
riprenderò, ma da un altro punto di vista. Adesso basta. Voglio rimettermi
a studiare. A scrivere.” Confidenze e parole più congruenti all’entusiasmo
misto di inquietudine che dall’inizio alla fine pervade la ricerca di Zigaina
(oltre ai volumi citati all’inizio, ricordo Pasolini tra enigma e profezia
-1989, Pasolini e l’abiura -1994, Hostia -1995, Pasolini. Un’idea di stile:
uno stilo! -1999, tutti editi da Marsilio) sarebbe difficile immaginare.
Specie quel verbo scrivere all’infinito, così lontano, così vicino all’intenzione (filologica, quindi pratica) del poeta di rivoltare e spianare col
proprio corpo le zolle di Ostia, dopo avervi sparso il seme. Perché tutto
ciò che è realistico è mitico, e viceversa. Come nell’Indovinello veronese:
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Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba, et negro semen
seminaba… Forse per Pasolini, rustico e arcaico, il romanzo dei romanzi,
il film più vero, il più bel montaggio sul mito della scrittura.
Germana Duca Ruggeri
Giuseppe Zigaina
Anatomia e Insetti n. 2, 1972
Giuseppe Zigaina
Mio padre l’ariete n. 6, 1983
Giuseppe Zigaina e P. P. Pasolini in barca
nella laguna di Grado, 1949
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In cerca di un nuovo Paradigma
Caro Lettore,
un mio primo tentativo di un dialogo, ecco.
Pur avendo capito la maggioranza delle Tue considerazioni, c e qualcosa che volevo commentare sulla specificita della mia posizione. Accetto tutto quello che dici sul mio modo di pensare, esistere, operare, ognuno abbiamo il suo, specifico, logico, rilevante o non. Comunque sono di una cosa: io vorrei apportare qualcosa di nuovo su Pasolini, sia come traduttore sia come "pensatore" sia come "recensore". A parte questo non ho altre pretese. Mi sembra che molto spesso tra i pensatori pasoliniani ci sia quel tipo del pensiero "rivoluzionario alla cubana" nel senso piu tecnico della parola. Questo puo essere definito con il famoso lemma della rivoluzione cubana "Todo está permitido dentro de la revolución, nada fuera de ella," Siamo tutti tenuti a credere di poter e di dover e di dover pensare e dialogare e filosofare su Pasolini in modo nuovo, come se fosse definito rivoluzionario, ma solo apparentemente tale = in effetti tradizione, folklore, assodato. La storia della societa occidentale tiene due poli: la tradizione e la rivoluzione con variazione quando si tradisce l´uno o poi l´altro.
A mio avviso, pero, la "rivoluzione" e il vero limite qui: in effetti finora tutti quanti, nessuno escluso, ci siamo mossi solo nei cerchi chiusi, come se fosse permesso solo il vecchio paradigma, appunto "dentro de la revolución", niente fuori di essa "nada fuera de ella", cio vuol dire che tutto quello che non fa parte della cosiddetta "rivoluzione" non e consentito, non e considerato, non e ammesso.
Se c e qualcosa che vorrei ancora fare nella mia vita, vorrei cominciare a pensare su un nuovo paradigma pasoliniano di pensiero, della traduzione e della recensione. Sono convinto che tutti i modi di pensare e di filosofare su Pasolini si sono trattenuti i vecchi schemi di pensiero provenienti dalle epoche piu superficiali della storia umana. Questa e la mia proposta: di costruire qualcosa di nuovo su Pasolini e di cercare di capirlo da altre angolazioni tranne quelle originali e classiche. Mi sembra che finora non solo io e Te, ma tutta l´intera classe intellettuale mondiale e rimasta dentro questa gabbia prigioniera della presunta rivoluzione, la quale non permette niente fuori di essa.
Capisco il Tuo modo critico di vedere tutto quello che sono e che faccio io. Dall´altro canto Ti chiedo di far attenzione alle capacita creative degli uomini, anche di quelli dai quali forse Te lo aspettavi di meno. Un idea originale, un idea buona, un idea vitale, organica, progressiva, puo nascere dagli angoli piu sperduti e piu dimenticati. Questo e il mio mondo, per questo io credo nella gente "comune" = piccolo borghese, perbenista anche, mediocre. Mi sono reso conto che cercando la vera vita, la vera pienezza della vita, il vero senso della vita l´ho scoperto visitando i miei familiari contadini, operai, semplici, umili, poco "intelligenti" nel senso originale della parola, molto ben poco "intellettuali" nel senso originale della parola.
Questo solo per dirTi che io non posso pretendere molto, posso pretendere molto ben meno di quel che Tu possa considerare degno di un "dialogo" di un´" attenzione" di un "tema": ho veramente pochissimo tempo, faccio tutto al volo e non ho spazio ne tempo per dedicarmi a niente piu complesso e piu grande e piu strutturato piu formato e piu pensato di alcune nugae, modestie e sciocchezze. Sono quasi sempre preso dal lavoro schiavo presso la multinazionale e se vado a casa c e l´altro dolce lavoro che pero porta via tutto il mio tempo. Quello che rimane e una speranza mia che io possa uscire da quella vertigine dell´attualita, che io possa uscire dalla cosiddetta "rivoluzione" ( che in effetti e la piu crudele conformita burocratica mai vista sulla Terra ) e di creare qualcosa all´infuori dei paradigmi dei nostri antenati e di quello che crediamo e rispettiamo attualemente come vincolante, vigente e canonico.
Se non posso esse anti-conformista, non - ortodosso, non - rivoluzionario, se smetto di credere in quelle sciochezze e quelle nugae e quelle piccolezze che faccio ora, se smetto di credere in quelle insomma cazzate molto modeste, semplici, stupide, perché mi e altro possibile, vorrei dedicarmi alla mia famiglia e tralasciare gli studi, le letture, la filosofia, la letteratura, l´arte, le recensioni, le poesie, tutta la arte creativa nel senso piu semplice della parola.
Sto sempre di piu valutando e apprezzando il fatto che la vera arte dell´uomo non e quella creativa, pensatrice, filosofica, poetica, letteraria, ma al contrario o a differenza quella di vivere. Un giorno non vorrei scrivere, pensare, filosofare, fare letteratura, fare delle recensioni, vorrei vivere bene. Dedicarmi a quell´arte che considero la piu alta e la piu solenne e la piu affascinante in tutta la vita umana, cioe la vita umana stessa. Senza progetti, senza pretese, senza prese di posizioni, senza scontri, senza confronti, senza paragonare, senza guadagnare, senza rubare, senza insinuare, senza manipolare, senza ideologia, senza filosofia, senza letteratura, senza artifici di ogni genere.
In bocca al lupo e a presto,
Tomas
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