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INTRODUZIONE BARBARA CARFAGNA DEMOCRAZIA È INTELLIGENZA COLLETTIVA di Geoff Mulgan MINISTRO DIGITALE di Audrey Tang DEMOCRATURA E DATACRAZIA di Derrick de Kerckhove POLITICA E POETICA A SINGAPORE di Chrystal Abidin LA DEMOCRAZIA DIROTTATA di Lior Tabansky L’ALGORITMO NAZIONE di Michele Mezza SOVRANISMI di Giampiero Massolo BLOCKCHAIN: LA SCALABILITÀ DELLA FIDUCIA di Massimo Chiriatti L’UTOPIA DELL’UMANESIMO DIGITALE di Julian Nida Rumelin IPERSTORIA di Luciano Floridi INTRODUZIONE Finora abbiamo immaginato l’utilizzo di internet in politica per rafforzare la democrazia in termini di ‘potere del like’ o di continui referendum. Questa visione è ormai tramontata. La più recente visione di innovazione democratica sta prendendo altre strade, in un quadro sempre più complesso che esperti e Accademici di livello internazionale fotografano in questo ebook. Nel mondo digitale ci troviamo ad un bivio: possiamo utilizzare la tecnologia per rafforzare la democrazia o per ostacolarla. A Taiwan, ad esempio, la tecnologia è utilizzata per incrementare la discussione delle opzioni prima di arrivare al voto. Prima di giungere a una decisione, chiunque può entrare nella piattaforma del governo, discutere, adattare una legge che solo dopo verrà approvata. Altri esperimenti di democrazia digitale stanno coinvolgendo le nazioni tecnologicamente avanzate come la Corea, mentre Smart City/Nation come Singapore o Dubai avvolgono i cittadini -quasi inconsapevoli- in sistemi di controllo matematico che lasciano intravedere –a noi- il rischio di una dittatura dell’algoritmo. Ma i domini non sono più solo fisici, della forza, delle Nazioni come la Russia, l’America, la Cina. Ci sono anche domini digitali, delle aziende che raccolgono i dati. I socialnetwork sono pesantemente sotto accusa per la loro capacità di orientare gusti, comportamenti e spostare voti anche tramite fake news. Le grandi aziende come Amazon Facebook e Google hanno un enorme potere sui nostri dati, che noi gli stiamo cedendo in cambio di servizi. Ci sembrava un buon affare all’inizio. Ora non più e vogliamo rinegoziare. Finora i cittadini non se ne sono curati troppo, ma ora queste aziende dovranno rivedere il loro modello, che è rivendere i nostri dati a terze parti. L’intelligenza artificiale, unita a biotecnologie e modelli di analisi dei Big Data, inoltre, apre nuove frontiere offrendo possibilità sempre più invasive di manipolazione. Stupisce che non ci siano movimenti di cittadini che pretendano di sedere al tavolo in cui si decidono le regole assieme ai Governi, le aziende tech e agli ingegneri. I movimenti di cittadini dovrebbero accompagnare il potenziamento digitale. Questo ebook vuole inserirsi nella scia di chi –accademici, filosofi etici, hacktivist- si impegnano a rafforzare la consapevolezza. Se i cittadini non si mobiliteranno per partecipare alla strutturazione di internet, infatti, ci troveremo di fronte ad aziende sempre più potenti e governi sempre più autoritari che potranno liberamente utilizzare la tecnologia e internet per i loro scopi, che non sempre coincidono con quelli dei cittadini. Barbara Carfagna Giornalista Rai tg1 Autore e conduttore della trasmissione Codice su Rai1 DEMOCRAZIA È INTELLIGENZA COLLETTIVA La nostra dovrebbe essere una grande era di intelligenza collettiva. Abbiamo a disposizione strumenti di pensiero senza precedenti su larga scala, tra cui Internet, World Wide Web, Internet delle cose e intelligenza artificiale. Eppure spesso non sembra che il mondo sia così intelligente. Le tecnologie possono diventare più ottuse, non solo più intelligenti. Troppe istituzioni e sistemi agiscono in modo ben più stupido delle persone al loro interno, compresi molti che hanno accesso alle tecnologie più sofisticate. Martin Luther King Jr. parlava di "missili guidati ma uomini fuorviati" e le istituzioni ricche di intelligenza individuale possono spesso mostrare stupidità collettiva. Democrazia e governance possono essere più inclini che mai all'idiozia, soggette a credere a fatti falsi, propense all'illusione collettiva e alla pavida subordinazione ai potenti. Alcuni anni fa molti, in particolare i guru della Silicon Valley, sostenevano che la diffusione delle tecnologie digitali avrebbe certamente conferito potere. Invece la democrazia è diventata un campo di battaglia, con alcuni esperimenti e innovazioni straordinari, ma anche con molti sbagli. Dovrebbe essere il luogo dove la comunità valuta, decide e agisce, un cervello collettivo che cerca di sintetizzare i molti milioni di cervelli individuali che rappresenta. Sappiamo invece che gli elettori scelgono i partiti più per le identità o la lealtà che per le posizioni politiche. Regolano le opinioni per adattarsi alle lealtà piuttosto che viceversa. Rispondono a influenze irrilevanti come le recessioni globali o le esplosioni di crescita che non hanno nulla a che fare con le virtù di chi occupa le cariche e anche nelle società sature di media la loro conoscenza può essere profondamente distorta. È avvincente sperare che la tecnologia possa essere la risposta. Invece le tecnologie digitali hanno amplificato tanto i vizi quanto le virtù in un mondo in cui le cattive idee possono diffondersi più rapidamente e i cattivi leader possono scalare la vetta più rapidamente. Quindi, come potrebbe la democrazia diventare un buon esempio di intelligenza collettiva, espandendo le capacità intellettuali di una società anziché ottunderle? Ritengo che possiamo trovare risposte promettenti nei numerosi esperimenti in tutto il mondo che utilizzano strumenti digitali per trasformare il funzionamento della democrazia. Il meglio di questi evita l'idea ormai anacronistica di una democrazia puramente diretta, in cui le persone escludono i rappresentanti e l'autentico cervello popolare soppianta gli impostori nei parlamenti. I siti di petizione come change.org o avaaz.org, oppure i loro equivalenti collegati ai parlamenti, che esprimono direttamente l'opinione pubblica, non sono privi di valore. Ma da soli sono tutt'altro che adeguati, in parte perché presentano le scelte in forma binaria e in parte perché fanno poco per educare il pubblico sulla natura delle scelte o sul motivo per cui gli avversari non sono d'accordo. Invece i migliori esperimenti partono dalla grande lezione appresa, o ripresa, dall'espansione della democrazia negli anni '90: la democrazia implica molto più delle elezioni competitive. Dipende altrettanto da una forte società civile, da media indipendenti, da organismi intermedi e da culture di fiducia e rispetto reciproco. Se consideriamo la democrazia non solo come espressione di opinioni popolari ma anche come processo di pensiero collettivo, la qualità della deliberazione è altrettanto importante della quantità di persone coinvolte. La deliberazione di alta qualità dipende da un'ecologia delle istituzioni che servono l'intelligenza collettiva e la qualità di ciò che potremmo chiamare i comuni democratici. Questi includono istituzioni impegnate a servire la verità. Nel Regno Unito, ad esempio, ho aiutato a progettare un gruppo di organizzazioni per inserire più fatti e prove nel sistema. Ora includono svariati centri What Works supportati dal governo che forniscono analisi oggettive di politiche e programmi in settori come la salute e l'istruzione. Il loro ruolo non è imporre prove su un sistema restio, bensì contrastare false affermazioni e assicurare che chiunque prenda una decisione, dal dirigente scolastico al funzionario di polizia fino al policy maker nel governo, sia per lo meno consapevole dello stato di conoscenza disponibile. Altre istituzioni che servono questi comuni si concentrano su creatività e possibilità, come il Comitato del futuro nel parlamento finlandese o il Ministero aperto finlandese, che permetteva al pubblico di proporre leggi e commentare idee. Alcuni dei molti esperimenti in corso tentano di rendere la democrazia più simile a una conversazione, informata dai fatti e dal ragionamento oltre che dalle emozioni, che non a un monologo punteggiato di elezioni. La mia organizzazione, Nesta, nel Regno Unito, ha aiutato a sperimentare una serie di strumenti, D-CENT, che consentiva ai partiti politici, alle città e ai parlamenti (in Spagna, Finlandia e Islanda) di coinvolgere il pubblico in modo molto più sistematico nel proporre questioni, suggerire politiche, commentare e votare. Il sito web della città di Madrid, Decide Madrid, per esempio, apre i processi di governance ai cittadini in molti modi diversi, trattandoli da adulti riflessivi invece che da massa idiota. Per capire come la democrazia possa somigliare di più a un'intelligenza collettiva, amplificando il meglio invece del peggio di una società, abbiamo trovato utile scomporre il processo democratico in una serie di fasi, ciascuna dotata di culture e requisiti distinti, che al loro meglio riescono ad associare la portata delle reti aperte e la concentrazione su decisioni mirate. Includono:  inquadramento delle questioni e determinazione di ciò che merita scarsa attenzione e del modo di considerarlo (ad esempio, se il cambiamento climatico sia importante e se sia risolvibile);  identificazione e denominazione dei problemi che potrebbero essere suscettibili di azione, ad esempio il modo in cui l'edilizia residenziale può contribuire a ridurre le emissioni di carbonio;  generare alternative da prendere in considerazione, ad esempio il modo di ristrutturare case vecchie;  esaminare le alternative, ad esempio utilizzando l'analisi costi-benefici o analizzando gli effetti distributivi;  decidere il da farsi, ad esempio se porre in atto incentivi o detrazioni fiscali, per introdurre nuove regole;  esaminare ciò che è stato fatto e valutare se funzioni. Gli strumenti digitali possono aiutare in ciascuna fase; possono aiutare la democrazia ad accedere a più cervelli, più dati e più idee; assicurano che il funzionamento del governo sia più trasparente e meno sciocco. Ma hanno bisogno di una cura attiva. Le risposte giuste non appaiono organicamente. Le folle non sono automaticamente sagge. In breve, l'obiettivo generale per un sistema democratico dovrebbe essere rispecchiare tutti i tipi di intelligenza anziché concentrarsi esclusivamente sul voto o sugli equivalenti dei Mi piace di Facebook. Deve essere in grado di osservare bene la realtà, dai fatti economici all'esperienza vissuta, e non lasciarsi ingannare da miti o fuorviare da aneddoti. Deve essere in grado di ragionare e considerare, usando argomentazioni e deliberazioni, concentrarsi sui problemi che contano, esplorare creativamente le possibilità, ricordare e quindi formulare giudizi saggi. Le folle possono aiutare in molte attività. Ma sono particolarmente poco adatte al compito di progettare nuove istituzioni, di articolare strategie radicali o di associare criteri singoli per trasformarli in programmi coerenti. Sono ottime per fornire input di dati e idee, ma non per giudizi. Quindi, la sfida per i progettisti di nuove forme di democrazia volte ad apparire più simili a un'intelligenza collettiva consiste nell'occuparsi dei dettagli e della granularità fine. Dobbiamo diffidare di chi parla solo in termini generali. Ma in una democrazia più impegnata che osserva e agisce più come un'intelligenza collettiva possiamo vedere una speranza di evoluzione della democrazia, le cui principali forme attuali sono state modellate nel 18° e 19° secolo, e un'alternativa alla regressione all'autocrazia che ormai affligge tante parti del mondo. Geoff Mulgan CEO Nesta, UK Autore di Big Mind: how collective intelligence can change our world, pubblicato da Princeton University Press Geoff.mulgan@nesta.org.uk MINISTRO DIGITALE Intervista con Audrey Tang Io sono un hacker civico. Un hacker della politica, della legge. Per hackerare intendo: individuare i problemi e lavorare sui bisogni del sistema in modo che non li soffra più. Come fa ad essere un’anarchica e un Ministro allo stesso tempo? Io lavoro con il governo, ma questo non significa che io lavori per il governo. C’è una bella differenza. Quello che faccio è un open software. Un software libero. Il governo di Taiwan è il primo a sperimentare questo modello. Non metto copyright; quindi qualsiasi governo può usare il sistema che ho costruito. Senza chiedere licenze o permessi. Lavoro per tutti, pubblico e privato. Il governo paga solo il mio stipendio Taiwan non ha un ministero digitale, ma un ministro sì. Lei. Perché questa scelta? In questo momento di trasformazione è utile avere un ministro senza portafoglio che connetta gli sforzi della trasformazione digitale di tutti i differenti ministeri contemporaneamente. Questa è una trasformazione digitale nel senso che ogni ministero deve alla fine diventare digitale. Non avrebbe senso avere un ministero digitale. Perché la democrazia ha bisogno di un open government? Un software migliora quando tutti lo sviluppano insieme, un po’ come Wikipedia. L’idea di abbandonare parte del copyright è il fondamento della cultura collaborativa. Migliaia di persone che non si sono mai incontrate prima sviluppano software insieme. In politica è ciò che chiamiamo collaborazione in crowdsourcing. Ognuno può vedere cosa stiamo facendo. Chiunque può dire “vorrei questo cambiamento per questa buona ragione”. Possono essere cittadini o stranieri che guardano il processo di policymaking e danno il loro contributo liberamente. Senza contratti o accordi preventivi. In pratica cosa succede? C’è un sito web centrale detto join.gov.tw join : significa: unisciti al governo di Taiwan. A ogni ministero è richiesto di fare un preannuncio regolatorio nel sito 60 giorni prima che il regolamento diventi effettivo. I ministri ricevono anche le petizioni popolari così quando ci sono 5000 controfirme sulla piattaforma, i ministri devono rispondere alla voce del popolo. Ogni ministro dovrà anche pubblicare sul sito il budget impiegato; che potrebbe essere revisionato da chiunque La combinazione di regolamenti, petizioni, e supervisione dei budget coinvolge a Taiwan 5 milioni di persone su 23 milioni totali. Usano la piattaforma per comunicare direttamente con i ministri. Direi quindi che influenziamo abbastanza tutti i ministri Quante persone lavorano con lei? Io lavoro costituendo un team virtuale di funzionari da ogni ministero; più di trenta che lavorano insieme Ogni ministero deve avere almeno un cosiddetto “funzionario di partecipazione” che connetta direttamente il ministero alle persone via internet o attraverso altri media. Non solo a chi lavora nei media, legislatori o parlamentari ma a chiunque abbia una buona idea Il mio lavoro è quindi stabilire un team virtuale di funzionari partecipanti così che i problemi interministeriali siano maneggiati collettivamente da sei sette ministeri simultaneamente come in un puzzle, in un talk faccia a faccia. Abbiamo anche un voto interno. Si vota quale problema interministeriale si vuole affrontare ogni mese. Quelli col voto più alto avranno l’aiuto dei facilitatori. Invitiamo poi le persone ad un faccia a faccia e un brainstorming della durata di cinque ore il cui risultato verrà portato al Primo Ministro. Così formiamo politiche basate sull’imput del popolo direttamente e rapidamente. Se sul problema dobbiamo confrontarci con persone che vivono un’area specifica non ben collegata sia in senso fisico che digitale voliamo noi lì altrimenti avremmo delle fette del paese tagliate fuori. Pescatori delle isole o altri luoghi remoti devono poter partecipare personalmente ai processi Uno dei problemi della democrazia ora è la fiducia… Come Yin e Yang non si possono davvero separare governo e cittadini. È naturale che se il governo propone qualcosa i cittadini rispondano con qualcos’altro. Se il governo fosse unidirezionale sarebbe come avere un sistema che scarica rapidamente da internet ma che non può caricare. Download senza Upload. Penseremmo a un sistema rotto perché non si può contribuire. È essenziale inoltrare ai cittadini qualcosa da ispezionare, revisionare, deliberare. La loro voce verrà ascoltata con la stessa cura dal servizio pubblico. Nessuna delle due parti è più importante dell’altra. La relazione lo è. L’interazione lo è. Solo così il trust, la fiducia può crescere. Come la tecnologia può trasformare il processo di governance? L’algoritmo, cioè come il computer lavora, è come una legge, nel senso che è scritto da persone. A differenza di una legge però non è interpretato dalla gente. Nella legge abbiamo giudici, legislatori, l’esecutivo che interpreta e decide come applicare ogni legge e regolamento a ogni condizione. Il codice, l’algoritmo, il computer impone il suo design da solo. Può creare disparità. Il codice corre veloce e senza bisogno di delibere. Questo è ciò che chiamano disruptive innovation. Il nostro lavoro è ciò che chiamiamo regulation technology. Noi usiamo la tecnologia non solo in senso disruptive ma anche per trasformare lo stesso processo di governance. Per scaricare il più possibile il lavoro ripetitivo su agenti autonomi, sull’intelligenza artificiale, così da poterci aggiornare, essere di pari passo con le nuove tecnologie che sopraggiungono Per fare un esempio concreto ora sta passando un fintech sandbox act, cioè una legge per sperimentare la blockchain in scala. Se proponi una blockchain all’inizio puoi provare a lavorare con il governo di una sola città. Iniziare a sperimentare con solo 200 persone. Dopo sei mesi o un anno puoi scrivere un report su come questa tecnologia si integra nella società. Se è stata positiva o negativa. Durante questo periodo sperimentale il nostro governo promette di non sanzionare o controllare l’esperimento. Possiamo fare molti esperimenti contemporaneamente. Alcuni falliranno. Ma sarà educativo: come pagare un’istruzione per imparare tutti a usare le nuove tecnologie. In questo caso la blockchain. Tecnologie e leggi, invece di combattersi, possiamo impiegarle in tandem in progetti su piccola scala. Esisteranno ancora i confini nazionali tra vent’anni? Se indossassi i miei occhiali virtuali e guardassi la terra dalla stazione spaziale non vedrei confini. Infatti esistono solo nella nostra mente. Prendiamo ad esempio alcuni progetti come Wikipedia; nessuno pensa di lavorare per una fondazione nonprofit o in una particolare nazione. In una community open source con una cultura libera i confini si dissolvono. Restano lingue culture e diversità. Ed è una gran cosa, che non ha nulla a che vedere con la geografia. La Community crea senso di appartenenza e ha un’idea della stabilità non collegata alla presenza fisica. È costantemente attiva, distribuita in tutto il mondo 24 ore su 24. Non scompare se vai a fare qualcos’altro per un periodo. Credo che le digital skills crescano e debbano crescere nella community. Crede più nella democrazia diretta o in quella rappresentativa, essendo anche un Ministro? Io sono incaricato; non eletto. Non penso di rappresentare alcun elettore. Rappresento solo me stesso, in un certo senso. Per quanto riguarda la democrazia diretta.. è per piccole città; è più facile laddove tutti si conoscono, almeno di fama. Quando si allarga la scala, e si diventa 10 milioni, 100 milioni, diventa dura far sentire la propria voce nel modo giusto. Il punto è rendere possibile per milioni di persone ascoltarsi l’un l’altro e soprattutto capire i diversi punti di vista. Come me e lei ora, qui. Ma su larga scala. Quando risolveremo questo problema tecnologico e culturale per migliaia di persone potremo avere una democrazia per migliaia di persone. Quando milioni di persone si ascolteranno e capiranno reciprocamente potremo avere una democrazia per milioni di persone. E così via. Prima di quel momento avremo bisogno di una rappresentanza. Che potrà essere votata, ma anche estratta a sorte, o qualsiasi altro metodo Il problema è l’accesso a internet, e l’educazione digitale, che non tutti hanno in egual misura.. A Taiwan crediamo in Internet come diritto umano nel senso che ognuno deve poter avere accesso alla banda larga. Stiamo utilizzando un budget speciale per assicurare questo accesso a tutti. E per assicurare un’istruzione digitale di base a tutti, che comprenda il pensiero critico sviluppato con l’aiuto di internet e che faccia si che il digital divide si accorci invece che allargarsi. Questo dipende anche dalla possibilità di avere i mezzi e la banda larga nel Paese. Il governo è obbligato a fare questo per i cittadini. Se no ci saranno divisioni in classi a seconda dell’accesso alle tecnologie. Bisogna imparare con le macchine e non contro le macchine. E imparare in questo modo nella nostra Era è un diritto universale. Audrey Tang Hacktivist e Ministro Digitale di Taiwan DEMOCRATURA E DATACRAZIA LA DATACRAZIA, VERSIONE SOFT A SINGAPORE Che vuol dire democratura. È una contrazione fra democrazia e dittatura, una sorta di dittatura piu o meno sinceramente imposta per il bene comune. La datacrazia, invece, è la dittatura dei dati, nuovo modello d’ingegneria sociale che delega tutti poteri decisionale del governo a Big Data, Intelligenza Artificiale e robotica. È il modello in corso a Singapore, e ancora di piu in Cina. In fatti, è utile di vedere il disegno e le tappe di un auto-sviluppo (selforganizing) di presa di controllo della società dalla tecno-ecologia dell’elettricità. Ci sono tre tappe principale, prima la democratura di Lee Kuan Yew in Singapore, fondata sulla stipulazione e l’applicazione stretta della legge poi la sorveglianza automatizzata praticata dal suo figlio, Lee Hsieng Loong, e, in fine ormai in preparazione per 2020, il lancio del cosi-detto “social credit” in Cina, versione hard della datacrazia. Pero, procediamo per tappe. L’evoluzione parte tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Ecco alcune imposizioni:  vietato masticare chewing gum fuori casa;  non sputare per terra; ne buttare sigarette (se no, multa in 1975 era di 50 dollar singaporani, vale a dire piu o meno 100 euro di oggi valore di mercato);  multa per non avere scaricato un bagno pubblico;  bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti;  Fustigazione per gli atti vandalici. Tutto ciò riguarda lo spazio pubblico, non mancano le regole per quelli privati:  Nessun pornografia è permessa;  Il sesso gay è illegale punito con due anni di carcere;  È illegale camminare nudi in casa fuori del bagno. Q Questo regime è “democratura”, cioè un sistema vigoroso di leggi e ordine, che la maggior parte, ma non tutti, i soggetti accettano per i suoi evidenti vantaggi sociali ed economici. Singapore, al tempo della morte di Lee Kuan Yew era in passo di tornare come oggi la seconda piattaforma finanziaria del mondo dopo New York. Se vale "quando a Roma, fai come i Romani", lo stesso vale per ogni altro Stato sovrano. Il Wall Street Journal ha riportato che “ La Smart Nazione Platform (SNP) lanciata dal primo ministro Lee Hsien Loong, si basa su nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore. Loro scopo è di raccogliere dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli immatricolati. La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche”. In effetti, Lee Hsien Loong, salito al potere nel 2004, implementa nuovi divieti e telecamere di sorveglianza un pò per tutto. I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molto della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciando tracce. Singapore è la città Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone. I cittadini sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita. Contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali. Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. Lee Hsien Loong ha sostituito la democratura del padre con la datacracy. Le tracce che ciascuno lascia sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti altri scopi. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. La sorveglianza permanente è tecnologica ed umana, in ogni caso il sistema assicura l’immediato e quasi automatico giudizio, verdetto e esecuzione della pena (multe o peggio). Siamo andando verso il "governo dell’algoritmo”: tutta la popolazione è mappata e costantemente controllata. Dai dati raccolti e analizzati vengono automaticamente il responso e la pena. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge. Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e la gestione dei dati. Ho definito quest’organizzazione datacrazia, perché è una civiltà così fondata sui dati apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti, e tanto altro. Il tutto serve a far rispettare regole rigidissime, che hanno sì aiutato Singapore a diventare un luogo civile, ricco ed evoluto rispetto a soli 40 anni fa, ma a completo discapito della privacy. È anche una delle città le piu moderne, e lussuose del mondo. Il successo del padre sembra stato raddoppiato dal figlio. Singapore è una città che vuole diventare intelligente ad ogni costo. L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti. Le persone sembrano essere soddisfatte della situazione che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori. In più salute e tutto il benessere possibile sono garantiti per la vita. Si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini di Singapore sembrano essere orgogliosi. Tuttavia, non mancano le critiche di certo numero di persone contrarie al sistema, una frangia di dissenso già sotto stretta sorveglianza. I critici sostengono che l'uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. I blogger dissidenti sono perseguitati. Amos Yee (16 anni) è in carcere da maggio 2015 per commenti offensive. ONG e stampa libera sono scoraggiati (La tv è un monopolio statale in televisione e la stampa è fortemente controllata). Il politichese sulla supposta armonia interculturale impera (ma il razzismo continua soprattutto nelle assunzioni). I simboli del passato vengono soffocati da opera moderne, senza rispetto per la storia della città. La storia è riscritta nei testi scolastici per soddisfare la propaganda di Stato. L'accesso agli archivi governativi pubblici è limitata. Sebbene tutto ciò possa apparire estremo, dall’arrivo di Internet, abbiamo iniziato a perdere privacy, ed anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse, e presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri. Ormai è di dominio pubblico che il microfono del nostro smartphone funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’Iphone)1. Ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti sono registrati. A tutti gli effetti, il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili, certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco. La privacy svanisce più velocemente nelle società, dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti, ne è prova l’evoluzione di Singapore. Le ragioni possono essere buone, o cattive, e spesso il fine giustifica il mezzo, 1 https://www.digitaltrends.com/mobile/is-your-smartphone-listening-to-your-conversations/ come insegna Macchiavelli. Infatti, una cosa è certa Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata sui Big Data e smartphone. Un modello di vita basato su una sorta di tecno-etica che può essere non ideologicamente corretto, ma è coerente con i tempi moderni. Siamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, è mondiale. Singapore presenta, come un laboratorio per il resto del mondo, un modello di gestione di una città-stato, sostenuto da un’apparatus tecnologico esteso è fondato sulla tecno-etica, un’etica di responsabilità pubblica che si aggiusta e rispetta le condizioni di trasparenza e visibilità imposte dalla cultura digitale. I cittadini sono sottomessi a una doppia visibilità da parte del governo e delle autorità, quella del comportamento fisico grazie alla moltiplicazione delle camera video negli spazi pubblici certo, ma anche nei alcuni spazi privati, e quella del comportamento mentale. Questo obbliga la cittadinanza a rispettare la legge. Eventualmente, il governo della datacrazia potrebbe farsi senza l’intervento dell’uomo con decisioni autonome e automatizzate, i leader li crea l’algoritmo. I cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia. L’apparato statale passa dall’organicità alla tecnicità. Quest’evoluzione può sembrare scandalosa da un lato, ma dall’altro può anche essere parte di un destino ineluttabile. In effetti, quello che sta accadendo dopo l'adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale. Come Marshall McLuhan ha spiegato più e più volte, l'elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: "Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirrannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni, grandi fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano, non c'è redenzione, nessuna cancellazione di "errori" di gioventù. Abbiamo già raggiunto il momento in cui è necessario il controllo e la capacità di gestione che solo la conoscenza dei media e dei loro effetti complessivi sulla vita di ciascuno permette di esercitare ". Quali le conseguenze sul comportamento sociale e il benessere del popolo? Alla luce di quanto sopra, possiamo plausibilmente immaginare una nuova etica, tutta da sviluppare in cui gli interessi della comunità prevalgono su quelli individuali. Programmare la sfera sociale per trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali alla fine emergerà come questione politica fondamentale. Tuttavia, non posso fare a meno di chiedermi se la datacrazia è meglio della democratura rispetto al potenziale tirannico di un governo dei Big Data. Un'altra importante domanda riguarda noi tutti: che sia meglio o peggio abbiamo ancora una scelta in materia? Derrick de Kerckhove Visiting Professor, Politecnico di Milano, Scientific Director, Osservatorio Tuttimedia, Media Duemila POLITICA E POETICA A SINGAPORE Da quando ha ottenuto un'influenza politica significativa come partito dominante negli anni '60, la burocrazia di Singapore, il People's Action Party (PAP), ha esercitato una notevole presa sul discorso pubblico nella repubblica, in particolare attraverso i media stampati e trasmessi. Di conseguenza, per decenni, sui giornali e sui media elettronici strettamente controllati, la presenza del paternalismo di stato è stata personificata dall'immagine imponente e severa di Lee Kuan Yew, politico e primo ministro di Singapore dalla carica più lunga nella storia della nazione. Tramite Lee e il suo PAP, che si distingue per i funzionari senior per lo più cinesi maschi in uniformi bianche, i singaporiani sono stati spettatori degli ammonimenti assillanti e delle esortazioni dello stato-partito. Per contrasto, nei media principali controllati dallo stato erano rare le voci di opposizione e alternative. L'avvento di Internet ha spostato le dinamiche mentre lo spazio digitale diventava una nuova piattaforma per pronunciare e leggere discorsi pubblici fin dagli anni '90, sebbene in gran parte dominata da utenti maschi e da discorsi maschilisti. Tuttavia, negli ultimi anni, attiviste, artiste, giornaliste e intellettuali pubbliche hanno smosso le acque, giocherellando con le righe di malanimo e disobbedienza civile come forme di soft power e protesta. Nel giugno 2012, l'artista venticinquenne Samantha Lo, soprannome "skl0", è diventata nota a Singapore con il nomignolo "Sticker lady" dopo essere stata arrestata per aver incollato adesivi rotondi con frasi come "Press Until Shiok" (tradotto: premi fino a provare piacere) sui pulsanti pedonali dei semafori e scritto con la vernice a spruzzo frasi come" My Grandfather Road" sull'asfalto di strade pubbliche (Tong 2012). Il suo arresto è stato controverso tra alcuni netizen, è stata difesa pubblicamente su Twitter (AsiaOne 2012) e alcuni membri senior dello stato ne minimizzavano la colpevolezza, incluso il consigliere senior Philip Jeyaretnam che sosteneva che i suoi atti erano stimolati da un "desiderio di promuovere l'arte e la cultura locale attraverso la street art" (Lim 2013). In un'intervista per Yahoo! News, Lo ha dichiarato: "Quando l'abbiamo fatto, sapevamo che non era legale. E quando siamo stati presi, abbiamo pagato per questo. È semplicissimo. Non sono affatto arrabbiata per questo. L'unica cosa per cui mi arrabbio è il modo in cui i media scoprono praticamente tutto. Questa è davvero l'unica cosa che mi ha sconvolto." (Sarvananda 2013) La notizia ha anche attirato rapidamente l'attenzione della stampa internazionale (MacKinnon 2012). Alla fine Lo si è dichiarata colpevole di almeno sette capi d'accusa (AsiaOne 2012) e le sono state assegnate 240 ore di servizio e consulenza alla comunità (Lee 2014). Tuttavia, nonostante sia stata etichettata come una piantagrane, Lo ha mantenuto la sua posizione, ribadendo la necessità di uno spazio più aperto ed espressivo per i giovani: "Qualsiasi iniziativa che consenta alla comunità di riunirsi per fare qualcosa per i giovani, senza alcun intervento del governo o alcuna intromissione da parte dei "poteri forti", è la forma di progresso più onesta. Le arti urbane incarnano i giovani: ciò che sentono, le cose cui pensano e di cui si occupano. È il sottoprodotto di tutto questo ed è perciò che esistono queste comunità." (Sarvananda 2013) Nel suo lavoro sullo spazio politico e sulla gestione statale del controllo a Singapore, la nota studiosa di media singaporiana Cherian George postula che lo stato abbia selezionato "gli strumenti di repressione giusti per il lavoro giusto" (George 2005: 4), consentendo a "regole autoritarie di permanere" e tanto più "resistere e sfidare" (2005: 3). La definisce "coercizione calibrata" e sostiene che "riduce al minimo il senso di oltraggio morale che potrebbe essere usato per mobilitare il pubblico contro lo stato" e "riduce l'importanza della coercizione, facendo apparire il consenso come l'unica base per la stabilità" (2005: 20). Sullo stesso filone, l'incursione di Lo nelle arene più legittime delle dimostrazioni d'arte spinge la sua pratica creativa sovversiva verso i regni accettabili della società morale, in cui alla sua opera è quindi permesso di prosperare nonostante i messaggi politici profondamente radicati. Ad esempio, un anno dopo il fiasco del vandalismo nel 2013, Lo è stata invitata a presentare street art simile sulla spiaggia di Siloso a Sentosa nell'ambito delle celebrazioni della Giornata nazionale (Feng 2013). Le opere comprendevano segnaposti con dialetto locale, ad esempio "Guardare e non toccare, toccare e non guardare, toccare e guardare, pagare" e "Niente da fare? Fai volare l'aquilone. In realtà, non posso. Mi dispiace. Trova qualcos'altro da fare". In risposta all'accoglienza calorosa riservata dal pubblico alle sue opere, Lo dice: "Quello che mi piace davvero nel lavoro a questo progetto è il fatto che Sentosa crede e confida nella visione di un artista". (Feng 2013) In una successiva intervista con la piattaforma media popolare locale Vulcan Post, Lo ha riflettuto su questo progetto e sul perché il pubblico ora accetti maggiormente il suo lavoro: "Quando sono stata invitata a lavorare a Sentosa, si commentava che mi stavo svendendo. Io non lo pensavo, perché continuavo ancora a prendere in giro la gente. Non cambiavo i miei principi. È difficile trovare un equilibrio tra nutrire la tua anima e nutrire la tua famiglia." (Ubersnap 2015) Impegni pubblici come la mostra di Siloso Beach hanno ribattezzato lo status di Lo come artista legittima, distruggendo così la sua etichetta di "vandala" o "ribelle". Ha potuto anche trarre profitto dalle sue opere d'arte, il che ha aggiunto uno strato di legittimità al suo personaggio come cittadina produttiva e morale. Dopo aver creato un putiferio pubblico, Lo sembra essere transitata correttamente nella società legittima e negli "spazi dell'arte morale" attraverso la mostra personale (Martin 2015) e l'impegno come art influencer per iniziative commerciali (Manjur 2016). Ma un tale arco narrativo non capita a tutti. La ventitreenne Han Hui Hui è ricordata soprattutto per le sue numerose campagne pubbliche di dissenso che invitavano il governo di Singapore a "Restituire i contributi CPF" (si tratta del fondo di previdenza sociale nazionale), diffuso in Internet tramite registrazioni video dei netizen, resoconti dei principali giornali e materiale satirico prodotto dai media popolari. Uno di questi rally di protesta da lei guidato nel 2014 fu considerato "disturbo alla quiete pubblica", organizzato "senza approvazione" a Hong Lim Park e si disse che aveva "interrotto un carnevale di beneficenza in corso" nella stessa location (Bhattacharjya 2016). Il carnevale di beneficenza era incentrato su bambini con esigenze speciali e Han è stata accusata specificamente di essersi fatta strada nell'evento "come un rullo compressore" insieme ad altri due accusati, occupando e bloccando il percorso dell'ospite d'onore che era un ministro di Stato, e producendo "rumori forti e acuti" (Chelvan 2016), ad esempio "urlando a squarciagola, cantando slogan, sventolando bandiere, esponendo cartelli, fischiando rumorosamente e suonando tamburi" (Chong 2016). Meme di scherno a suo riguardo circolarono inoltre diffusamente su Internet (SGAG n.d.). Le sue proteste furono descritte da testimoni come "ai limiti della violenza" (Chelvan 2016) e come "portare una bara a un matrimonio" (Ng 2015); il giudice nella sentenza dichiarò: "Questo è un caso in cui, ironicamente e purtroppo, le persone accusate, mentre apparentemente sostenevano i diritti di una classe di persone, lo facevano calpestando allegramente i diritti di un altro gruppo di persone" (Chelvan 2016). Per questo, Han è stata condannata e multata di $ 3.100, ma ha scelto di presentare appello (Bhattacharjya 2016), affermando che, avendo solo "23 anni" all'epoca della protesta, non era in grado di guidare il rally (Koh 2016). Un anno dopo, nel 2015, Han ha partecipato alle elezioni generali di Singapore (GE2015) nel collegio elettorale a singolo membro di Radin Mas come candidato indipendente, ma ha dovuto rinunciare al deposito elettorale di SGD 14.500 non avendo ottenuto almeno il 12,5% del voti espressi, raccogliendo invece solo una quota del 10,04% (Yeo 2015). Tuttavia, prima dei risultati elettorali, Han aveva rivelato in una precedente intervista alla stampa di non ritenere che "perdere il deposito" fosse "una questione importante", poiché il suo obiettivo era consentire ai residenti nella circoscrizione di "far sì che i loro problemi venissero sollevati in Parlamento" (Foo & Law 2016). Poiché Han era diventato un nome familiare in quanto candidato più giovane alle elezioni GE2015, vari media iniziarono a compilare sue biografie, sebbene il tono di questi scritti fosse spietato: la lista compilata da Straits Times, di proprietà statale, si concentrava su stile, età, peso e base di fan (Chen & Chew 2015); la lista compilata dalla piattaforma di media popolare locale Mothership era incentrata sul suo rally elettorale, in particolare il numero di volte in cui aveva menzionato l'acronimo "CPF", la sua apparente "rabbia", la sua richiesta di donazioni e reazioni (di supporto) da parte del pubblico (Ng & Yeoh 2015). Non sorprendentemente, furono i media stranieri come il malese Malay Mail Online a evidenziarne il lavoro di attivista, concentrandosi su motivazioni, intenzioni, impegni sociali, iniziative politiche e frizioni con lo stato (Mok 2015). Da allora, Han deve ancora arrivare alla sua narrativa di redenzione nel discorso pubblico a Singapore ed è ancora ricordata come una disturbatrice antagonista, mentre la sua disobbedienza civile continua attraverso apparizioni a manifestazioni e impegni pubblici. Queste brevi istantanee di Lo e Han evidenziano come nel clima polemico dei media di Singapore la capacità di proporre discorsi ambigui e la commutazione di codice in diverse modalità e media influenzino la portata e il potenziale rinculo di un messaggio politico. A differenza di Han, che ha continuato senza sosta con il suo modo contestatore di parlare in pubblico, l'arte politica di Lo può essere decodificata generosamente a diversi livelli da parte di spettatori diversi, in varie sfumature: molto critica nei confronti dello stato, satira e parodia, o pura arte ludica. Laddove Han, a quanto si riferisce, ha lasciato Singapore per chiedere asilo in Europa dopo i recenti scontri con la legge (The Independent 2017), Lo è riuscita a inculcare e individuare sacche nella società in cui la sua arte e la sua politica sono riconosciute e apprezzate da un pubblico di nicchia, in una miscela redentrice di politica e poetica. Crystal Abidin Socio-cultural anthropologist, Jönköping University & Curtin University wishcrys.com * Riferimenti AsiaOne. 2012. “Sticker Lady vandal is traumatised, says her father.” AsiaOne, 6 giugno 2012. Accesso dell'11 ottobre 2016 da http://news.asiaone.com/News/Latest+News/Singapore/Story/A1Story20120606350830.html Bhattacharjya, Samhati. 2016. "Singapore blogger Han Hui Hui to appeal against public nuisance conviction.". ibtimes, 27 giugno 2016. Accesso dell'11 ottobre 2016 da http://www.ibtimes.sg/singapore-blogger-han-hui-hui-appeal-against-public-nuisanceconviction-2106 Chen, May e Chew Hui Min. 2015. "GE2015: 5 things about independent candidate Han Hui Hui." Straits Times, 4 settembre 2015. Accesso dell'11 ottobre 2016 da http://www.straitstimes.com/politics/ge2015-5-things-about-independent-candidate-hanhui-hui Chelvan, Vanessa. 2016. "Blogger Han Hui Hui fined S$3,100 for disrupting YMCA event." Channel News Asia, 27 giugno 2016. Accesso dell'11 ottobre 2016 da http://www.channelnewsasia.com/news/singapore/blogger-han-hui-huifined/2908436.html Chong, Elena. 2016. "Blogger Han Hui Hui fined $3,100 for role in Hong Lim Park rally." Straits Times, 27 giugno 2016. 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Il potere è la capacità di influenzare gli altri per ottenere i risultati desiderati, secondo Joseph Samuel Nye, Jr., uno dei più influenti studiosi di relazioni internazionali ed ex presidente del National Intelligence Council statunitense. Nye distingueva tra potere "hard" e "soft" in un articolo autorevole del 1990.2 Il cyberpotere è la capacità di utilizzare il cyberspazio per creare vantaggi e influenzare gli eventi in altri ambienti operativi e al di là degli strumenti del potere.3 I social network online, abbinati all'automazione basata su software (compresi i robot software e l'intelligenza artificiale per l'analisi dei big data), offrono modi senza precedenti per migliorare la progettazione dei messaggi, la consegna, il coinvolgimento, la valutazione, il tutto a un costo molto basso. a) Aumento del volume di informazioni fornito attraverso diversi canali di comunicazione diretta tramite messenger autentici o automatizzati b) Messa a punto del micro-targeting Le piattaforme di social media consentono di segmentare i destinatari in decine e migliaia di sottogruppi, con una capacità senza precedenti di conoscere il proprio pubblico (Target Audience Analysis (TAA)) c) Messaggi, tempi e canali di consegna personalizzati su misura d) Comunicazione usando video, immagini e suoni (contaminati) e) Identificazione di influencer, trend-setter, opinion leader per farne i propri target f) Assumere le credenziali di fonti credibili 2 {Nye Jr, 1990 #1956} 3 KUEHL, D. T. 2009. Cyberspace and Cyberpower. In: KRAMER, F. D., STARR, S. H. & WENTZ, L. K. (a cura di) Cyberpower and national security. National Defense University Press : Potomac Books. g) Incremento del coinvolgimento tramite la partecipazione (ad esempio condividi, rispondi, mi piace, hashtag) h) Reazione al contesto in tempo quasi reale Soprattutto, diventa fattibile la manipolazione dell'opinione pubblica su larga scala. Gli attori che si adattano prima, più velocemente e meglio al ruolo dei social network online nell'ecosistema dei media ottengono un enorme vantaggio nel perseguire i loro interessi. I fatti accertati sono i seguenti.  La rapida ascesa dei social network online di proprietà americana nell'ecosistema dei media occidentali, nonché nei modelli di comunicazione personale pubblica (WhatsApp, messenger), rende l'influenza cibernetica un potente strumento di potere.  In ogni paese, le organizzazioni impiegano più tecniche di influenza cibernetica semi-nascoste e che operano sotto falsa bandiera nella competizione politica interna.  Gli esperti occidentali hanno identificato numerose campagne russe di influenza massiva, che perseguono cambiamenti politici in molte società democratiche.4 I social network online, privi di guardiani, facilitano la disinformazione, le notizie false e le operazioni di informazione.5 Lo scenario di minaccia comune è la Russia, che sfrutta audacemente l'infrastruttura di comunicazioneinformazione cibernetica (in accordo con altri mezzi tradizionali) per esercitare magistralmente un'influenza sostenuta sul pubblico occidentale. Il processo politico democratico canalizzerà questa opinione pubblica per allontanare le preferenze dei leader dai valori occidentali e verso il principale obiettivo strategico della Russia: sradicare l'ordine della sicurezza post-guerra fredda.6 STUDIO DEL CASO LISA E DISCUSSION Analizziamo "il caso Lisa", che la NATO ha adottato come modello delle operazioni di influenza russe in quanto è stato il primo in cui gli esperti occidentali hanno chiaramente identificato diversi elementi coordinati di 4 Per una buona panoramica, cfr. {Giles, 2016 #2929} 5 Cfr. una recente panoramica empirica della manipolazione dei social media organizzati {Howard, 2017 #3146} #MeToo è l'esempio più recente di come l'impostazione dell'agenda tragga beneficio dalla diffusione virale. 6 A gennaio 2014, la NATO ha istituito un Centro di eccellenza per le comunicazioni strategiche a Riga come conseguenza diretta della campagna di guerra dell'informazione russa. influenza russi. Ho scelto un esempio tedesco piuttosto che israeliano o italiano per frenare il pregiudizio personale. Destinatari principali Destinatari secondari Obiettivo strategico Pubblico ed élite tedeschi Pubblico ed élite europei e russi Invertire le integrazioni europee e NATO ripristinando la strategia nazionalista in Germania 11/01/2016 mattina; una ragazza di 13 anni di Berlino-Marzahn uscì da casa per andare a scuola ma scomparve. La ricerca della ragazza russo-tedesca della grande comunità Deutschlandrussen di Berlino naturalmente utilizzò i social media online in tempo reale. Tornata dopo 30 ore, raccontò ai genitori che tre sconosciuti di origine "meridionale o araba", che non parlavano bene il tedesco, l'avevano rapita. Tuttavia, la polizia indagò sulle denunce secondo cui era stata picchiata e violentata e stabilì che era stata da un amico quella notte. Alcuni giorni dopo, il corrispondente a Berlino della Prima TV russa pubblicava la notizia suggerendo che i migranti avessero rapito e violentato una tredicenne russa ma che le autorità e i media tedeschi tenessero nascosta la verità per ovvi motivi politici. I media stranieri russi e vari gruppi in Germania diffusero la storia sui social media. I Deutschlandrussen e l'estrema destra organizzarono dimostrazioni via Facebook. I media russi riferirono di queste dimostrazioni, forzando la copertura dei media mainstream tedeschi e alimentando il circo mediatico. La storia è vissuta nei social network online, dominando l'agenda politica tedesca per settimane. Il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov espresse due preoccupazioni pubbliche sull'incapacità della polizia e del sistema giudiziario tedeschi di prendere sul serio tali casi a causa della "correttezza politica". Le autorità tedesche accusarono pubblicamente la Russia di interferenze in affari sovrani, disinformazione deliberata e propaganda politica. VALUTAZIONE DEGLI EFFETTI DELLE OPERAZIONI DI INFLUENZA OSTILE Le operazioni di influenza ostile russe hanno preso esempio da comuni misure di influenza commerciale. I russi sono stati in grado di fissare l'agenda e sostenerla per settimane. La storia di Lisa ha raggiunto l'intera popolazione tedesca. Ha sicuramente impegnato la politica estera, la difesa, l'intellighenzia e le comunità dei media, di fatto ben oltre ciò che avrebbero voluto. La lingua e la cultura complicano la traduzione dei messaggi e l'esposizione all'influenza quando i messaggi provengono dall'esterno della cultura di destinazione. Inoltre, i temi presi di mira sono esplosivi. Spostare la scelta del consumatore da McDonalds a Burger King non è lo stesso che spostare il comportamento dei cittadini tedeschi verso i vicini di origine straniera. Il senso di ingiustizia e tradimento, la spinta primaria a proteggere il proprio gruppo dal pericolo imminente sono al di là del dominio dell'influenza commerciale. Le operazioni di influenza ostile mirano a innescare l'identità e la parentela, il patrimonio culturale, le norme sociali riguardanti la violenza verbale e fisica. Anche in questo, le operazioni russe sono riuscite a usare Lisa per attivare profonde emozioni latenti. Io sfido la visione comune. Non sappiamo se l'operazione di Lisa abbia avuto successo. Anche nell'operazione di influenza cibernetica ostile meglio studiata, quasi aperta, permettiamo che gli effetti rimangano pericolosamente poco chiari. Nella politica di difesa, Das Weißbuch 2016, il Libro bianco tedesco per la sicurezza, ha scoperto che la Russia usava "strumenti ibridi per un offuscamento mirato dei confini tra guerra e pace" e la "comunicazione digitale per influenzare l'opinione pubblica" in Germania.7 Questo aumento della consapevolezza in Germania non è certo un successo russo. I risultati delle elezioni tedesche di novembre 2017 forniscono dati per valutare gli effetti. Tuttavia, il voto può essere interpretato da ogni commentatore in qualsiasi modo desideri. Prendiamo la quota di Alternativa per la Germania (AfD) del 12,6%: un drastico aumento del nazionalismo e contemporaneamente una grande capacità di recupero dell'87% a sostegno dei valori liberali europei. Le ragioni alla base di questa profonda elasticità sono la mancanza di misurazione e il profondo divario tra atteggiamento e azioni. Quale quota del pubblico target cambia atteggiamento dopo l'esposizione all'influenza estera? Questa risposta dovrebbe essere relativamente facile: i mezzi tecnici sono disponibili nel marketing commerciale tradizionale. Nessuno ha misurato in modo coerente e scientifico gli atteggiamenti del pubblico. Nessuno può presentare un'argomentazione valida sull'effetto del caso Lisa. Questi tuttavia sono inadeguati per operazioni di influenza cibernetica ostile. Dobbiamo capire quale parte di queste persone abbia anche modificato le sue azioni. Siamo tutti ormai intuitivamente consapevoli che tradurre il messaggio in azione è tutt'altro che deterministico. La scienza ha dimostrato il divario atteggiamentoazione 80 anni fa nell'autorevole articolo LaPiere 1934. 8 7 www.nato.int/docu/review/2016/Also-in-2016/lisa-case-germany-target-russian-disinformation/EN/index.htm https://www.bmvg.de/de/themen/weissbuch 8 {LaPiere, 1934 #2917} IL CONTESTO SVOLGE UN RUOLO Che cosa porta al raccolto: piantare semi robusti o trovare terreno fertile? Al momento, non siamo in grado di distinguere l'effetto dell'operazione di influenza dal ruolo svolto dal contesto (formato meno di due settimane prima). Ciò rende impossibile la maggior parte dei modi per misurare gli effetti e la progettazione di adeguate contromisure. Il contesto viene discusso raramente nella valutazione delle operazioni di influenza ostile, inclusa la dissezione della NATO sul caso Lisa. La decisione del Cancelliere federale Merkel ha portato la Germania a registrare un afflusso record di 1,1 milioni di migranti dal Medio Oriente nel 2015. Non sorprendentemente, ciò ha intensificato le dispute politiche e pubbliche sull'immigrazione. A Colonia, circa 1.000 giovani di origine mediorientale arrivarono nella Piazza della Cattedrale dove era programmata la celebrazione della notte di San Silvestro per Capodanno il 31 dicembre 2015. Queste bande hanno aggredito sessualmente e derubato migliaia di donne tedesche venute per festeggiare. I manifestanti di destra hanno coniato lo slogan "Rapefugees not welcome" (i rifugiati violentatori non sono benvenuti) a seguito degli eventi di Colonia. La polizia locale non ha fermato l'assalto. Account di più persone e storie di follow-up sono invece apparsi e si sono diffusi sui social media online. Più rilevante per l'analisi è il fatto che i media tradizionali tedeschi hanno evitato di coprire questi crimini fino a quattro giorni dopo.9 Ciò ha ulteriormente alimentato teorie di cospirazione che spiegano come le "élite" e "la stampa menzognera" nascondano la verità scomoda a spese di gravi danni ai cittadini tedeschi.10 La scala dei crimini suggerisce una qualche pianificazione e organizzazione. Entro aprile 2016, gli investigatori indentificarono 1527 crimini con 1218 vittime, circa la metà delle quali erano vittime di reati sessuali. Su 153 sospettati identificati, 149 erano stranieri, compresi richiedenti asilo e migranti.11 Il caso Lisa è avvenuto solo una settimana dopo lo scandalo scoppiato nei media mainstream. Il fatto che gli agenti russi abbiano scelto di attivarlo, per piantare il seme in un terreno fertile, spiega molto sulla loro maturità operativa. Tuttavia, il contesto in sé non è un successo russo. ABBIAMO URGENTE BISOGNO DI APPROFONDIMENTI VALIDI SULL'EFFETTO DELLE OPERAZIONI DI INFLUENZA CIBERNETICA I social network online offrono strumenti nuovi e convenienti per esercitare il potere. Il caso di Lisa non è un fenomeno isolato: ogni lettore si è imbattuto in operazioni di influenza semi-nascoste che perseguivano obiettivi politici. La Russia sta conducendo "esperimenti naturali" che non possiamo ignorare. Numerose altre anomalie nel comportamento politico pubblico in Italia, Israele e altrove suggeriscono che il passaggio di potere attivato dai social network online è ancora più profondo delle operazioni russe. Comunque, l'effetto delle operazioni di influenza cibernetica sul comportamento politico è frainteso. Se vogliamo contrastare la minaccia, dobbiamo sistematicamente misurare l'effetto prodotto dalle operazioni di influenza cibernetica ostile. Gli esperti accademici insieme alle parti interessate che possono accedere ai dati pertinenti devono sviluppare urgentemente nuovi modi e metodi, perché le misure commerciali tradizionali sono inadatte. Senza una comprensione scientificamente valida basata sui fatti degli effetti prodotti dalle operazioni di influenza cibernetica, non possiamo gestire efficacemente nemici stranieri e attori radicali interni per evitare di compromettere le nostre democrazie. Senza una comprensione scientificamente valida basata sui fatti degli effetti prodotti 9 http://www.spiegel.de/international/germany/cologne-attacks-trigger-raw-debate-on-immigration-in-germany-a1071175.html 10 http://www.bbc.com/news/world-europe-35261988 11 http://www.spiegel.de/panorama/justiz/koeln-silvesteruebergriffe-die-ermittlungsergebnisse-a- 1085716.html dalle operazioni di influenza cibernetica, la nostra risposta carente o eccessiva danneggerà la stessa democrazia che cerchiamo di proteggere. Lior Tabansky The Blavatnik Interdisciplinary Cyber Research Center, Tel Aviv University, Israel cyber.acil@gmail.com L’ALGORITMO NAZIONE Per la prima volta dalla sua fondazione nel 1949 il comunismo cinese riconosce un nuovo potere con cui stabilire un patto di reciproca assistenza. La nuova forma del calcolo, che con il tornante quantistico che abbiamo di fronte, si avvia a diventare una potenza incommensurabile nella sua capacità di trattare dati per prevedere variabili e riuscire così a risolvere problemi, come spiega nel suo ultimo tomo Homo Deus (Bompiani 2017) Yuval Noah Harari, “è sempre basata su un patto sociale fra calcolati e calcolanti”. Chi negozia e determina i confini e la natura di questo patto? Xi Dada, lo zio XI, il vezzeggiativo con cui vuole ormai farsi identificare dal suo popolo il nuovo autarca cinese Xi Ji Ping, a conferma che il suo carisma ormai è del tutto sganciato dall’investitura solenne che pure gli è stata data dal 19°congresso del partito comunista, ha brigato non poco per farsi assegnare dalla commissione politico dell’assise comunista, insieme alle altre 11 posizioni apicali della piramide di comando , anche la il titolo di “Leader del gruppo centrale per Internet e l’informatizzazione del paese”. Una medaglia che sembrerebbe aggiungere poco alla sostanza del suo dominio sull’intero apparato istituzionale del paese, ma che invece segnala una svolta radicale della natura e delle funzioni dei nuovi sistemi tecnologici digitali, diventati il baluardo della governance dell’impero di mezzo. Sono io il garante del patto con l’algoritmo, in sintesi dice il nuovo leader. Viene così pensionato dal congresso comunista cinese Carl Schmitt, il padre dell’idea di stato come monopolista della forza e delle decisioni, considerato fino ad ora, dalla nomenclatura politica del regime, un nume tutelare del modello di potere così come lo concepì il leader storico della rivoluzione cinese, Mao Tse Tung, basandosi sul controllo di forza ( esercito popolare) e distribuzione ( l’apparato pubblico amministrativo). Ora la governance del paese più popoloso del mondo è fondata sul controllo diretto ed esclusivo della potenza di calcolo. La Cina che Francois Jullien, il sinologo più brillante ed originale contemporaneo definisce come l’unico “altro” nel panorama geo politico e antropologico del pianeta, sta diventando un algoritmo-nazione. Il rituale del congresso si è concluso con un documento che sancisce una nuova idea di politica basata su un soft power che è molto diverso dal concetto di egemonia culturale, elaborato ad Harvard da Joseph Nye all’inizio degli anni 90 per sostenere la mutazione materiale dell’impero americano. Pechino intende soft nella più diretta accezione etimologica di software. Il potere cinese vuole essere guida diretta non solo dell’utilizzo delle piattaforme ma proprio dell’architettura del codice. La transizione dalle meccaniche relazionali alle interferenze neuronali che l’intelligenza artificiale diffusa consente, esaspera lo scontro fra i grandi centri di innovazione tecnologica privata, che hanno monopolizzati le relazioni sociali con i loro software come i cosi detti Over The Top ( Apple, Google, Facebook, Microsoft, IBM, Amazon), e le volontà di controllo politico degli stati di forza, come appunto la Cina ma anche la Russia di Putin e gli stessi Stati Uniti di Trump. La posta in gioco non sono tanto il controllo dei social network, quanto direttamente la natura, e la gestione delle nuove forme più invasive di intelligenza artificiale che con le biotecnologie e i modelli di analisi dei big data stanno assumendo sempre più quel carattere di prescrizione di cui parlò Michel Faucoult. Se come diceva Hobbes l’uomo quando pensa calcola, allora chi controlla la grammatica del calcolo inevitabilmente si pone al vertice della catena deliberativa. Non poco allarme destò nelle cancellerie la comparsa sulla scena 2 anni fa ,in versione beta, di Release Radar, il nuovo software di Spotify, il provider che fornisce ormai a più100 milioni di clienti compilation musicali talmente aderenti ai loro gusti che nessuno dei clienti pensa di potersele organizzare da solo. Il nuovo dispositivo intelligente non solo profila i gusti ,ma traccia l’evoluzione della personalità di ognuno, prevedendo nei prossimi anni quali saranno le sensibilità musicali di ogni singolo utente. Su quel principio ha lavorato Cambridge Analytica, la società che ha supportato Trump nella sua campagna elettorale, mappando con i suoi grafi, 78 milioni di elettori, distribuiti per singole particelle catastali. Il tema non è più il sondaggio di opinione, o, appunto la profilazione, cio è la fotografia statica di cosa pensano i propri utenti o elettori, ma come poter agire direttamente sui processi psico semantici degli individui. La struttura degli algoritmi, articolata in una catena conseguenziale di correlazioni logiche è la trincera della nuova digital nation building che è al centro della riorganizzazione degli assetti geopolitici. Abbiamo ormai alle spalle la fase del movimentismo digitale, dove, come spiegava Manuel Castells nel suo saggio, studiatissimo negli apparati di sicurezza , “Reti di Indignazione e di speranza” ( Bocconi editore, 2012) che analizzava i fenomeni di insorgenza reticolare, dalle primavere arabe alle sollevazioni arancioni nell’est europeo, in cui “il potere era esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”. Significati che venivano diffusi e condivisi proprio mediante i social network,e dove era la struttura sociale a rete a determinare la potenza politica, come spiegava l’ex consulente strategico di Barak Obama John Arguilla, che scriveva nel suo saggio sulla guerra libanese del 2005, l’unica che Israele non riuscì a vincere contro gli Hezbollah, “per battere un network bisogna essere un network”. Il buco nero su cui oggi i i poteri politici si misurano riguarda la capacità di imprimere significati direttamente nella semantica degli algoritmi. Di questo , di fatto, si è parlato al G7 di Ischia nell’ottobre del 2017, quando per la prima volta gli stati occidentali si sono seduti ad un tavolo , da pari a pari, con i grandi service provider della rete per concordare la “contro narrazione” nei confronti della comunicazione del terrorismo islamico. Un atto che ratifica una mutazione dei poteri sostanziale. Si conferma la vision di I media non sono il quarto potere” i sistemi di relazione digitali non sono il quarto potere ,sono molto più importanti; sono lo spazio dove si costruisce il potere in un gioco di relazioni fra soggetti politici e attori sociali in competizione (Comunicazione e potere, Bocconi Editore,2008). Questo spazio di competizione si sta dilatando sempre di più, e sta riclassificando le forme della politica, a cominciare dalla stessa idea di partito. Alle spalle abbiamo una lunga incubazione della crisi più che della democrazia proprio delle dinamiche della governance, delle modalità della decisione politica. Icastica la fotografia di un testimonial della politica prima della rete come l’ex segretario generale della NATO, lo spagnolo Javier Solana che nel 2012 così scriveva “Negli ultimi 25 anni- un periodo segnato dalla guerra nei Balcani e in Iraq, dai negoziati con l’IRA, dal conflitto israelo/palestinese, e da infinite altre crisi- ho visto un gran numero di nuove forze e nuovi fattori ostacolare persino le potenze più ricche e tecnologicamente avanzate. Esse, e con questo intendo dire noi, raramente riuscivano ancora a fare quello che volevano”(cit dal libro di Moisès Naìm,La Fine del Potere, Mondadori editore, pag 75). Da questa sconsolata constataszione è partita la controffensiva dei paladini dello stato forte. La Russia di Putin sta ripensando l’intera sua geopolitica attorno al controllo dei flussi tecnologici. E lo stesso fenomeno Trump non sarebbe correttamente decifrato se non lo vedessimo sullo sfondo di un’insofferenza crescente in larghe aree della società americana rispetto al potere incontrollato della Silicon Valley. E’ in prima persona il capo di stato maggiore russo, Valeri Gerasymov, , che ripensa in termini digitali una nuova teoria di guerra asimmetrica, dove non è più la leggerezza dei combattenti, come sosteneva qualche anno fà l’ex capo del Pentagono di Bush Rumfield, , quanto la contaminazione dei linguaggi e le determinazione dei profili sociali ad imporsi come vincenti. Nel 2013, dopo le rivolte in Ucraina e Bielorussa, inequivocabilmente fomentate da socialnetwork atlatici il comandante delle armate russe pubblica un saggio che fissa i nuovi paletti della strategias militare del cremlino: «Nel 21esimo secolo abbiamo visto nascere la tendenza a un confine sempre più sfocato tra la guerra e la pace: le guerre non vengono più dichiarate e, una volta cominciate, procedono secondo un modello sconosciuto». Le guerre non dichiarate sono appunto i conflitti degli algoritmi. In poco tempo, i russi si mettono al centro del nuovo scacchiere digitale con la potenza di fuoco dei pèropri hacker, ribaltando la capacità di mettere sotto scacco l’avversario, come Hillary Clinton ha potuto testimoniare nelle elezioni presidenziali vinte da Trump. La nuova strategia dell’algoritmo-nazione viene così perseguita in maniera scientifica a Mosca, componendo e scomponendo i vecchi kombinat tecnologica di origine sovietica, passati poi, avventurosamente nelle mani di ex funzionari , prevalentemente del KGB, e poi, con pressioni e persuasioni di ogni tipo, arrivati ad essere tutti controllati da uomini fedelissimi del presidente russo. Le università sono state setacciate, e soprattutto si è selezionato una schiera di “makers” slavi, giovani e rancorosi, che attribuiscono il proprio mancato successo rispetto ai loro omologhi della Silicon Valley ad uno strapotere americano che non ammette intrusioni. Una strategia che vede il richiamo della grande Russia estendersi, proprio sull’onda delle sfide digitali, in tutti i balcani, riunificando patrie etniche, come in Serbia e in Bulgaria, o patrie nazionaliste, come in Macedonia e in Croazia. Per tutti c’è un solo obbiettivo, come ha spiegato il ministro russo delle Telecomunicazioni Nikolai Nikiforov: “rompere il monopolio dell’eco sistema digitale che regna nel mondo”. Una posizione, questa di contestare ai grandi monopoli del mercato il controllo sull’evoluzione tecnologica, che paradossalmente ritroviamo persino nell’eccentrico profilo del presidente americano Trump, che nella sua corsa vittoriosa al consenso ha usato con forza questa determinazione a ridimensionare il protagonismo della Silicon Valley, mettendo gli interessi del governo al centro della scena. Il cosi detto populismo diffuso si nutre anche di questa diffidenza rispetto ai destini radiosi dei giovani imprenditori miliardari del Nasdaq. Trump, che ha potuto direttamente verificare la potenza dei nuovi modelli di analisi e interferenzxa comportamentale determinati dai grafi sociali dei big data, si trova oggi a dover emancipare la sua leadership proprio dalla supremazia degli algoritmi che lo hanno fatto vincere. Il vertice del G7 di ischia, dove a differenza del precedente di taorimna l’amministrazione americana ha dato il suo assenso all’incontro con gli Over The Top, segna una riconciliazione fra la Casa Bianca e la Silicon valley, all’insegna di un fronte comune contro il protagonismo nazionalistico dell’est. Ma come declinare questa tregua con le ambizioni di Zuckerberg e dello stesso Bezos a non avere mediatori nella relazione diretta con i propri utenti? In Europa è la cancelliera tedesca Angela Merkel ha guidare il fronte del nazionalismo del calcolo: in una sua intervista al Guardian, prima delle elezioni , ha stigmatizzare duramente l’invadenza degli Over The Top dicendo pubblicamente che “la trasparenza e la negoziabilità degli algoritmi afferisce ormai alla natura e sicurezza della democrazia”. La potenza del sistema industriale e finanziario tedesco si sente accerchiata dai protagonismi tutti di matrice americana sul mercato delle intelligenze. La Germania, per parafrasare il vecchio detto di Konrad Adenauer non può essere un gigante economico e rimanere un nano tecnologico. L’algoritmo nazione è dunque una bussola che sta scompaginando la dinamica della rete, e più in generale la geografia dei saperi, al momento guidata dall’ansia di controllo politico da parte delle leadership nazionali. Siamo agli inizi di una nuova storia, dove i contendenti non saranno solo più i gloriosi makers delle start up e degli spin off, ma direttamente i leaders nazionali, con i loro generali ed i loro strateghi digitali. Ma sarà bene ricordare sempre l’antica lezione di un padre dell’informatica come Alan Turing, secondo il quale “l’innovazione la troviamo sempre lungo la stretta linea che separa l’intraprendenza dalla disubbidienza”. Michele Mezza Giornalista, Docente di Marketing e nuovi media, Università Federico II Napoli michele.mezza@gmail.com CONFINI GEOGRAFICI E VIRTUALI Nel 1972, nel suo “Take Today : The Executive as Dropout”, Marshall McLuhan annotava: “World War I a railway war of centralization and encirclement. World War II a radio war of decentralization concluded by the Bomb. World War III a TV guerrilla war with no divisions between civil and military fronts.” La nozione che i media sarebbero divenuti l’ambiente d’elezione per la proiezione di potenza degli Stati è dunque vecchia (almeno) di alcuni decenni, ossia precede di qualche anno l’avvento di internet, che ha straordinariamente complicato la situazione. Ciò perché la pervasività, l’immediatezza, la strutturale decentralizzazione, la mancanza di barriere all’ingresso e l’ampio anonimato concessi da internet sono elementi che estendono oltre misura la superficie potenziale d’attacco e moltiplicano i vettori di rischio: il mondo, da questo punto di vista, è divenuto un “villaggio globale” (sempre McLuhan) in cui le frontiere geografiche, semplicemente, non esistono. Intendiamoci: i confini geografici non hanno perso la loro rilevanza. Nella pratica delle relazioni internazionali, la sovranità rimane il principio cardine, e non pare all’orizzonte il tramonto dell’epoca degli Stati, di cui i confini sono la rappresentazione concreta. Le frontiere geografiche coincidono in larga parte, ancora oggi, con ciò che va difeso. Che esse rimangano di straordinaria attualità è dimostrato, del resto, anche dal riapparire nel nostro lessico del termine “annessione” (Crimea), dalle spinte a riformulare vecchi confini (Daesh), dalla perdurante militarizzazione di trincee storiche (38° parallelo). No, il tempo delle minacce convenzionali e nucleari non è purtroppo finito, né le spese militari stanno registrando, a livello mondiale, una diminuzione. Certamente però le sfide alla nostra sicurezza evolvono: riteniamo in tutta evidenza meno plausibile che in passato, ad esempio, un’invasione di carrarmati sovietici. Ma proprio in ragione della mutevolezza delle sfide alla nostra sicurezza, assistiamo semmai ad un ritorno di moda dei sovranismi, ossia dell’idea che spetti ad ogni singolo Stato tutelare la propria sicurezza senza più fare troppo affidamento ai principi del solidarismo internazionale o alle organizzazioni internazionali dentro le quali ci troviamo – in primis, ovviamente, Unione Europea e NATO. Questa è una diffusa reazione, ad esempio, di fronte a minacce nuove e che incombono sulle nostre frontiere, quali le migrazioni, il terrorismo, i danni causati dagli spin-offs negativi della globalizzazione. L’elemento di novità nel nostro panorama di sicurezza appare piuttosto essere il moltiplicarsi delle sfide cui occorre far fronte, ed il connesso proliferare di nuovi fronti da proteggere. Minacce quali quella cibernetica, ad esempio, non hanno alcun riguardo per la dimensione geografica, e rendono l’intero sistemaPaese il campo di gioco rilevante ai fini della nostra sicurezza. I rischi, in questo caso, non sono solo virtuali: il danno potenziale è dannatamente concreto, ed è pari al know-how su cui basiamo la nostra economia e che ci può essere copiato o distrutto da un computer a migliaia di chilometri di distanza, corrisponde alla sicurezza delle nostre infrastrutture critiche e a quella delle nostri oggetti connessi alla rete, manomettibili da mani invisibili ed ignote, si riferisce alla privacy di ciascuno di noi. Già, perché il problema è che le nuove frontiere da proteggere non sono solo straordinariamente moltiplicate e spesso intrinsecamente porose, ma anche che esse finiscono per ridefinire le nostre vulnerabilità nel mondo reale. Ed in effetti, è forse già divenuta sostanzialmente inutile la distinzione tra mondo reale e mondo virtuale: sono due dimensioni che si sovrappongono e si intersecano, formando un continuum che ci costringe a ripensare completamente al modo in cui difendiamo e promuoviamo l’interesse nazionale. Diventa in altre parole critico saper anticipare e gestire le complesse logiche delle interrelazioni che si stabiliscono attraverso le reti, le quali hanno immediato impatto nel cosiddetto “mondo reale”. Le interconnessioni che si stabiliscono a livello globale con una velocità e portata senza precedenti fungono al contempo, paradossalmente, anche da moltiplicatore delle linee di faglia, e rappresentano un nuovo pericolo per la nostra sicurezza e stabilità. E’ un pericolo che va oltre la pur sensibilissima questione della protezione dei nostri computers e smartphones da intrusioni esterne: lo ha ricordato Angela Merkel nell’ottobre dell’anno scorso, quando ha pubblicamente segnalato il rischio che le nostre opinioni pubbliche siano condizionate da rappresentazioni distorte della realtà, dovute a processi di selezione che avvengono “da remoto”, fuori dal nostro controllo e senza che ce ne sia in ultima analisi dato conto. Merkel si riferiva per esempio a Google, i cui algoritmi sono progettati per ridurre la complessità del reale secondo le nostre naturali inclinazioni ed attese, proponendoci raffigurazioni del reale che hanno l’effetto di rinforzare le nostre convinzioni e polarizzare le opinioni pubbliche. I social network, in cui le interrelazioni assumono la forma di una comunità, alimentano in particolare una “bolla informativa” che seleziona le informazioni gradite agli utenti, facilitando un processo di distorsione delle percezioni, con evidenti riflessi sulle opinioni pubbliche, rese più volatili e influenzabili di un tempo. Si tratta di un rischio concreto e di una questione su cui è importante far crescere la sensibilità. E’ però, se vogliamo, un problema che attiene al rapporto uomo-tecnologia. Diverso, invece, è il fenomeno di distorsione delle informazioni e di “fake news” intenzionalmente propagate su internet con l’obiettivo di destabilizzare, disorientare, creare caos. Il problema qui non sono il funzionamento degli algoritmi o i social networks a cui decido di affidare la mia informazione, ma strategie orchestrate ad arte e secondo precisi obiettivi politici. Ci ritroviamo qui dinnanzi, dunque, al vecchio paradigma dei rapporti tra Stati, quello della “politica dell’influenza”, per il quale lo spazio cibernetico è solo un nuovo contenitore, seppure particolarmente efficace nel propagare la minaccia. Lo abbiamo già visto in molti contesti, quali ad esempio l’uso accertato di “trolls” russi per polarizzare l’opinione pubblica statunitense in occasione dell’ultima elezione presidenziale, con il presumibile obiettivo di favorire il candidato più divisivo, ossia Trump. Ne abbiamo fatto esperienza anche in Europa, ad esempio durante la guerra in Ucraina, in quella che è forse stata il primo esempio di guerra “ibrida”, in cui si fa ampio uso di operazioni di disinformazione per dare maggiore efficacia alle operazioni militari sul terreno. Non è un problema peraltro percepito solo dall’Occidente, se è vero che la nuova dottrina militare russa individua nelle azioni di potenze straniere all’interno dello “spazio informativo” russo (che comprenderebbe anche le tradizionali aree di influenza di Mosca) uno dei più seri pericoli per la sicurezza e la stabilità del Paese. Da parte russa, del resto, si è sempre affermato, sinceramente o a scopo propagandistico, che le cosiddette “rivoluzioni arancioni” fossero il frutto di sobillazioni occidentali sui network di quei Paesi, ed è interessante notare che la prima discussione sulla cybersecurity in sede ONU si deve proprio ai russi, che però la collegavano ad un più ampio ragionamento sulla limitazione dei contenuti veicolabili all’interno dello “spazio informativo”. Il problema di tutelare le opinioni pubbliche da azioni non-convenzionali volte a destabilizzare la nostra vita politica è un problema dunque comune e non nuovo, ma che trova nell’anonimato concesso da internet, e nella rilevanza che internet ha assunto nella nostra vita sociale, uno straordinario moltiplicatore. Non ci sono, purtroppo, semplici scorciatoie: non si può prevedere una “sovranità dello spazio cibernetico nazionale” senza correre il rischio di scegliere la “strada cinese”, creando un enorme firewall, come fosse una nuova Grande Muraglia, attorno alle nostre opinioni pubbliche per filtrare i contenuti che passano attraverso le reti, eliminando il pericolo insito nel confronto delle idee. A farne le spese sarebbero i valori che sono alla base della nostra democrazia, ed il rischio concreto sarebbe quello di avallare un futuro distopico in cui i governanti decidono a quali idee i propri cittadini possono avere accesso. Come dimostra il dibattito su come contrastare la propaganda jihadista online, tutelare le opinioni pubbliche da pericolose distorsioni non significa rinunciare ai propri valori, ad esempio imponendo (peraltro assai complesse) censure allo scambio di opinioni sulle reti. La difficoltà di contrastare la propaganda jihadista senza compromettere la libertà di parola è una scommessa che occorre vincere ogni giorno, senza mai darla per scontata, ma al contrario costruendola assieme alla società civile e alle stesse opinioni pubbliche, e, com’è evidente dal successo dei lavori del G7 presieduto ad Ischia dal Ministro Minniti, occorre farlo in una logica inclusiva e capace di assegnare precise responsabilità anche ai gestori dei grandi social networks e dei motori di ricerca online. Per essere all’altezza delle sfide poste dal proliferare di fronti che si aprono, come abbiamo visto, finanche all’interno dei gangli più sensibili dei nostri processi di maturazione delle opinioni pubbliche, occorre però anche saper fare evolvere le strutture e le modalità con le quali ci rapportiamo alla minaccia. Al moltiplicarsi delle sfide alla nostra sicurezza deve cioè corrispondere una potenziata capacità del Paese nel suo complesso di proporre figure ed informazioni autorevoli, di decidere e di agire rapidamente, seppure a valle di un confronto inclusivo e capace di salvaguardare il principio di rappresentanza. Occorre, in altre parole, saper costruire velocemente ponti, ed avere il coraggio di percorrerli, tenendo a mente che le democrazie traggono la loro forza da mature opinioni pubbliche. Se, come scriveva ancora Marshall McLuhan in The Gutenberg Galaxy, nel villaggio globale “we live in a single constricted space resonant with tribal drums”, il nostro compito è impedire che il frastuono di voci lontane ci impedisca di ascoltarci, riflettere ed agire assieme. Giampiero Massolo Presidente Ispi, Diplomatico Direttore del DIS 2012-2016, Presidente Fincantieri BLOCKCHAIN: LA SCALABILITÀ DELLA FIDUCIA Apparteniamo alla cultura digitale senza averla scelta. Ci siamo trovati dentro e abbiamo convissuto finora cercando di aumentarla con la creatività, ove possibile, o di uscirne quando è diventata impossibile. È la cultura in generale che ci fa capire fatti ed eventi, anche quando non abbiamo ancora le parole per descrivere i pericoli e le opportunità. I PERICOLI Nel brodo digitale incrementiamo le nostre possibilità, oltre quelle passive: vedere, ascoltare, leggere, anche con l’espressione attiva: la ricerca, la condivisione, la scrittura (così diffusa in questo periodo proprio grazie alla rete). In altre parole è il concetto dell’identità nella sua interazione con gli altri, esso ci consente di condividere il luogo in cui ci troviamo, i nostri commenti, le sensazioni che viviamo in ogni momento. L’identità è un valore forte ma non esiste senza lo scambio. Lo scambio rafforza l’identità e ci aiuta a reinterpretare il mondo e fondere, come una reciproca impollinazione, il nostro bagaglio con quello degli altri. Non è la tecnologia ad assicurare l'armonia di questi successi, ma sono le azioni individuali che, eseguite per altri fini, sono convergenti – per mezzo dei protocolli aperti – verso gli attuali risultati. «Il principio secondo cui le azioni umane possono portare al conseguimento di fini diversi da quelli prefissati», è la descrizione che troviamo nel dizionario De Mauro Paravia alla voce «Eterogenesi dei fini». Wikipedia articola il concetto facendo riferimento a un campo di fenomeni i cui contorni e caratteri trovano più chiara descrizione nell'espressione «conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali». Tale espressione rende evidente che essa non si riferisce a semplici accadimenti naturali, ma riguarda più specificamente il campo dell'azione umana, tanto individuale quanto, più spesso, collettiva. È facilmente riscontrabile come il digitale abbia «virtualizzato la mente dell'uomo» nel senso che ha ampliato sia l'orizzonte delle sue opportunità, sia quello delle relazioni sociali; ci ha trasformato da spettatori in utenti attivi, e questo non è un mero fatto tecnologico, ma ha formidabili implicazioni sul nostro futuro. Se la tecnologia è un'estensione o virtualizzazione delle nostre capacità, come afferma il filosofo francese Pierre Lévy, allora queste nuove risorse si potrebbero assimilare a sinapsi appena nate – tra persone vicine ma anche lontane – con inediti e inattesi livelli cognitivi. Ecco come un fine da raggiungere con la tecnologia (migliorare la comunicazione) sconvolgendo le regole dell'economia (non più solo limitato dagli scambi monetari) potrebbe procurare, in maniera inaspettata, immensi cambiamenti in termini sociali. La chiave di volta per comprendere il motivo del successo di tali strumenti è che essi rispondono a un bisogno fondamentale del l'uomo: comunicare. Ma la tecnologia da sola non ha alcuna possibilità di successo: solo quando si combina e s'interseca con un'alta accessibilità – in termini economici – può sfociare in qualcosa che modifica il modo in cui le persone si relazionano, diventando un bene di massa. E la società non è più la stessa, è mutata, e in ciò sta il significato dell'eterogenesi dei fini. Probabilmente uno dei maggiori cambiamenti ancora incompresi sono le conseguenze economiche che sperimenteranno le persone. Per esempio, pagheremo in funzione del consumo. Ciò abiliterà effetti economici importanti: non compreremo più, ma affitteremo. Dalla proprietà al possesso, così arriva un mondo nuovo per:  gli ingegneri: si può misurare tutto per controllare i fenomeni.  gli economisti: dalle misurazioni nascono ottimizzazioni e quindi nuovi modelli di business  i sociologhi: inferire il comportamento delle persone quando si relazionano con tutti gli altri (nella società), con il denaro (nell’economia) con la tecnologia, etc. diventa una missione culturale di primaria importanza.  i politologhi: immaginare un nuovo mondo di regole. Pensiamo a quando ci ritroveremo qui a raccontare della necessità di sottoporre a controllo le reazioni, non più nucleari, ma algoritmiche. Esse sono forze che ci manipolano, e non sappiamo come le tante AI tessono la rete contro di noi. Non c’è modo di fermarle, perché sono altamente resilienti ai guasti (creati dagli umani). L’AI comporta anche tanti costi umani, da stimare in termini di disuguaglianze crescenti e disoccupazione se non operiamo subito per controbilanciarli. Il progresso tecnologico è ineluttabile, anche se fa male dircelo. Però le conseguenze di tale progresso, potenzialmente molto positive, sono ancora nelle nostre mani. Se il flusso delle novità sull’AI arriverà da Usa e Cina, è evidente che verso di loro andranno i capitali di tutti i Paesi. In questi tempi di fervore digitale ci siamo così infatuati del modello Big Data da inasprire ancor di più il classico bipolarismo per la conquista della verità. Da una parte chi ama i numeri e per questo aggrega miliardi di dati, credendo che in tal modo possano avvicinarsi all’essenza dei fatti. Dall’altra parte ci sono quelli che studiano le azioni delle persone attraverso i comportamenti e le sensazioni, confidando sulle discipline sociali e sull’istinto primordiale. Ora le due fazioni si scontrano su chi può prevedere meglio il futuro. I matematici vantano un privilegio momentaneo: la tecnologia è dalla loro parte, pertanto si sentono in grado di predire chi vincerà le elezioni, chi guadagnerà da quella azione di marketing, etc. Gli “umanisti” d’altro canto ritengono che le singole persone, con le loro interazioni determinano il risultato, che rimane imprevedibile. Lo studioso più famoso nel campo statistico-matematico è Nate Silver; in quello psicologico-economico è Daniel Kahneman. L’abbondanza di dati non assicura l’esattezza di una previsione, per esempio sul risultato di una partita di calcio. Mai come di questi tempi abbiamo così tanti dati sui calciatori, sui loro movimenti e serie storiche, perfino sul successo dei singoli passaggi. Tuttavia nelle interazioni tra giocatori non esistono modelli matematici degli eventi, come in fisica. Essi interagiscono con aspettative ed emozioni –prima- dell’evento e la loro reazione non varia in modo lineare né razionale in funzione della risposta altrui. Dove altrui può essere una squadra, una comunità o un insieme molto grande. Un'altra esemplificazione: non è il numero degli ingredienti a disposizione di un cuoco la garanzia di un buon piatto, ma è la conoscenza che si mette nella ricetta. Tra i tanti input e l'output c'è un problema di epistemologia, che diventa rilevante con i Big Data. Oltre ai dati strutturati, che conosciamo abbastanza bene, ora l’enfasi è su quelli non ancora strutturati. Sono i più importanti, che non analizziamo perché non li abbiamo ancora modellati. Questa massa di dati pone molti problemi sul metodo da adottare per orientarsi. Occorre servirsi di una bussola “mentale”: sapere prima cosa vogliamo cercare. Per questo non possiamo partire dai dati, ci sono due ragioni: 1. potrebbero non esserci. 2. perché bisogna partire dall’ipotesi e poi falsificarla con i dati a disposizione, purtroppo solo con quelli modellati, che restano una minoranza. Il percorso che ora si vuol intraprendere -con troppa foga- è passare dalla congettura a una nuova legge, grazie alla potenza dei computer. La congettura è caratterizzata da un grado di confidenza molto basso, perché non ci sono state verifiche indipendenti sulle cause di correlazione. Inoltre, con molti dati a disposizione aumenta la varianza e quindi il rischio di tradurli in false informazioni. Il computer può diventare così il braccio armato di fanatici numerologi che, con algoritmi costruiti su congetture, volano sulle ali della tecnologia e si allontanano dagli altri. Il timore è che se ci sono i dati allora siamo portati a pensare, troppo velocemente, di avere anche la teoria e la previsione. Abbiamo visto che non è così: i dati rilevano cosa le persone hanno fatto, ma non il perché. Questo è il bipolarismo che dobbiamo ricomporre. Come abbiamo visto questo mondo non è scevro da nuovi pericoli, perché nel business online ci sono tre componenti che interagiscono: il contenuto, la customer experience e la piattaforma di fruizione. Proprio l’ultimo punto, la piattaforma, dà un potere enorme a chi la gestisce. Segue la sua naturale (e umana) tendenza a portarlo a livelli insostenibili per gli altri esclusi. Infatti c’è uno iato che si allarga sempre più tra l’estrema efficienza del lavoro automatico e i lavori inutili che ancora affibbiamo a molte persone, pur di tenerle occupate. Questa contraddizione arriva velocemente a un livello di rottura se:  non cambiamo le basi della nostra oppure  non ci inventano nuovi modi per essere produttivi, adesso. società La prima richiede innanzitutto una distruzione del contratto sociale, conflitti, miserie e tanto tempo libero e inoccupato. La seconda ipotesi è fattibile nel breve, ma dobbiamo far presto per non cadere nella prima ipotesi. Ogni volta che una tecnologia esce dall’alveo dei laboratori per sfociare nel delta delle potenziali applicazioni, ognuno cerca di adattarla ai propri scopi. E’ successo con il web, dove un tempo era tutto pubblico, poi per mezzo di nuove implementazioni le aziende l’hanno separato creando le intranet private. Altri miliardi di informazioni sono state segregate nei database dei grandi dominatori come Facebook, per esempio, o nelle app di Apple, quindi fuori dal web pubblico. Nel bel mezzo di tanti benefici in quest’epoca digitale, qui viviamo un dramma. Vedremo sempre più l’effetto “winner takes all”. È la più dura manifestazione degli effetti dei ritorni crescenti presenti nell’economia digitale, che hanno consentito a una classe di persone privilegiate (per via della formazione culturale, familiare, e di relazioni ereditate) di cogliere –tutti- i benefici derivanti dall’evoluzione esponenziale della tecnologia. Come finora l’abbiamo visto nel campo dello sport con i fuoriclasse. Ma quando tale sistema si espande anche nelle operazioni quotidiane e manuali del lavoro di tutte le persone, ecco che le conseguenze diventano drammatiche. Se la classe media scompare, naturalmente si esacerbano i conflitti e la disparità tra le classi. Questo problema non può essere risolto dalla formazione, se non in tempi lunghi. La soluzione richiede radicali cambiamenti politici, economici e dei nostri valori. Quindi l’antidoto ai pericoli di monopolio è avere le nostre teste sempre ben connesse. LE OPPORTUNITÀ In passato lo Stato aveva assunto un ruolo guida, sia per la protezione dell’impresa locale, sia per la sua autonoma capacità di sviluppo, e attuando interventi di ispirazione Keynesiana era diventato un punto di riferimento per tutte le forze economiche e sociali. Tutto questo fino agli anni ’70, poi il formidabile processo d’espansione delle multinazionali, la nascita di nuovi mercati, la maggior apertura di quelli esistenti, la crisi del Welfare State inizialmente nei Paesi anglosassoni, poi seguiti da molti altri - ha rimesso in discussione questo rapporto tra mercato e Stato, la cui evoluzione finale - tra richieste stataliste e ricette di puro liberismo - non si può prevedere, ma qualche domanda ce la possiamo fare. Intanto, di quale infrastruttura hanno bisogno i mercati dei servizi immateriali per operare in sistemi democratici? Primo, le regole. Altrimenti il mercato non sopravvive a se stesso. Fino a quando il mercato è possibile? I malpensanti ritengono fino a quando è possibile realizzare enormi profitti in condizioni monopolistiche, e la storia italiana è qui a dimostrarlo. Poi, quando la presenza dello Stato è necessaria? Quando dobbiamo utilizzare lo Stato per proteggere interessi di parte per imprese che non possono reggere nel mercato per quanto sono diventate inefficienti. Accade però che oggi, i politici più spregiudicati, quelli che solleticano le paure più ataviche, continuano a parlare solo degli svantaggi della tecnologia accoppiata con la globalizzazione, ma quanto avremmo perso finora senza la produzione di massa? Avremmo privato il mondo di godere delle invenzioni dell’altro, solo perché era distante. Ora è possibile con la comunicazione di massa informare la propria generazione su cosa accade. E trasportare i beni dovunque, e tutto a costi decrescenti. Alla nostra porta ci consegnano tante cose complesse e a basso prezzo. Ci hanno anche promesso che con i droni faranno anche prima. Ma il problema resta: la fiducia umana non scala. Abbiamo sempre avuto aziende verticali e relazioni di fiducia tra loro perché era l’unico modo per fare affari. Ora possiamo fare la stessa cosa con la tecnologia. Il cambiamento introdotto dalla blockchain guida l’innovazione nei modelli di business e permette, per esempio, di negoziare tra parti che non si conoscono. La blockchain in questo contesto è impiegata per economizzare i costi di transazione, elimina la necessità di riconciliazione (settlement) e, soprattutto, propaga la fiducia attraverso la rete. La scalabilità della fiducia è data dall’effetto rete: maggiore è il numero di nodi nella blockchain, minore è la probabilità che ci sia un attacco. La reciprocità era richiesta per la fiducia, che era preventiva, occorreva prima dell’accordo. Ora invece c’è la fiducia nella sicurezza del protocollo informatico, quindi abbiamo eliminato – nel bene e nel male – la reciprocità umana. Siccome nelle transazioni complesse si richiede fiducia in grandi quantità, la blockchain la estende in tutti i casi, poiché le prove degli effettivi trasferimenti delle risorse sono a disposizione di tutti. Si studia che ora è possibile invertire gli incentivi che portavano alla famigerata “tragedia dei beni comuni”, perché l’impiego di politiche basate sulla blockchain rende possibile progettare nuovi sistemi di incentivazione, certamente più trasparenti. Si può pertanto raggiungere una nuova forma di consenso per l’autogoverno dei beni pubblici. Potenza dei beni immateriali: ora abbiamo una (info)struttura che non consumiamo con l’uso. Anzi, la costruiamo insieme. La blockchain è, quindi, un bene pubblico digitale. È meglio allora mettersi, con spirito critico, dalla parte di chi considera la tecnologia un’opportunità. Non si tratta solo di tecnologie, ma più propriamente di business model abilitati dalle tecnologie, infatti i computer iniziano a contare quando spariscono dalla nostra vista. Ognuno li porta già sotto i vestiti, li troviamo all’interno dei tubi, sotto il manto stradale, etc. Negli anni ‘70 si è sviluppato quel mondo dell’informatica distribuita che osserviamo intorno a noi. Ora nelle facoltà universitarie si sviluppano applicazioni mobile e programmi per stampe in 3D. Non ci resta che attendere ancora un po’ per godere in massa di tali innovazioni. Ogni volta che si evolve il modo di comunicare, grazie alla riduzione dell'energia necessaria per acquisire e gestire e informazioni, ci si apre un nuovo universo. Come quando abbiamo gestito l’elettricità diffondendola dappertutto. Quest’ultima, una volta dispiegata, ha generato una rivoluzione economica e culturale, con miliardi di posti di lavoro impensabili all'epoca della sua messa in opera. Da lì abbiamo avuto altre industrie, tra le quali comunicazioni, media, e computer. E oggi abbiamo l’AI. L’AI significa immensi benefici in termini di produttività e di PIL del Paese che la sa utilizzare. Tutto dipenderà dalle politiche che stiamo mettendo in campo oggi. Politiche miranti alla formazione e gestione degli impatti nel mercato del lavoro, che non prendono la scorciatoia populista di dar la colpa alla tecnologia. L’AI ci cambia come persone e come società, ed è così piccola da entrarci in tasca. Esagerando, ma non tanto: non parliamo quasi più senza, non viaggiamo senza, non pensiamo senza. Il pendìo riduzionista e globalista che abbiamo intrapreso ci vuole portare laddove ci sono meno regole, meno Stato e quindi meno tasse. È una strada alquanto scivolosa perché tutto ciò si concretizza, oggi, in tagli ai servizi sociali. Con il passare dei decenni la società è cambiata e così anche le sfide che essa deve affrontare, ma quelle iniziative pubbliche restano ancora valide e vanno difese. Dobbiamo quindi conciliare l’intervento dello Stato con la più classica delle regole economiche: ciò che conta in economia è quello che non si può contare, per esempio concetti come la legalità (lotta contro la corruzione e burocrazia) e la credibilità (per ottenere finanziamento del debito). Come potremmo intraprendere percorsi innovativi come l’industria 4.0 senza tali prerequisiti? Il caso concreto della quarta rivoluzione industriale riguarda molto più le persone e i processi che i prodotti. Solo con questi investimenti riusciremo a reimportare in Europa produzioni per avere una produttività superiore, affrancandoci dal costo del lavoro, sempre più marginale. L’età della pietra finì non perché finirono le pietre, ma perché quell’idea fu superata dalla scoperta di altre risorse che fecero fare un balzo all’umanità. L’età della produzione industriale, marcata dal cartellino e dalla mera automazione, è finita. Sono le idee (invenzioni) ad averla chiusa e saranno i nuovi metodi per applicarle(innovazioni) a immergerci nel futuro. Rimaniamo nel frattempo ottimisti se poniamo le persone al centro dell'azione; la tecnologia è uno strumento certamente importante e degno di rilievo in questo XXI secolo, ma non possiede una propria azione liberalizzante. D'altra parte la tecnologia non ha niente di naturale, non la troviamo allo stato puro, libera. Ma è solo opera dell'inventiva umana. Il più grande esempio dei fenomeni descritti è senza dubbio quello che va dall'idea che ha sviluppato internet alla realizzazione del World Wide Web e delle sue applicazioni come le conosciamo oggi. Non potevamo sperare in un potenziamento migliore per il nostro cervello. Le macchine che guidano da sole arriveranno, a breve, e avremo bisogno di tanti altri lavori in futuro che ora non possiamo nemmeno immaginare. Ciò non può esimerci dal crearli ora, anche e soprattutto con l’immaginazione, perché il 99% della tecnologia digitale è nelle nostre tasche. Gli strumenti sono tornati (o arrivati, direbbe Marx) nella disponibilità di tutti, e con essi renderemo più facile e veloce la costruzione di un futuro condiviso. Saper scorgere nuovi comportamenti, prevedere la creazione di nuovi mercati non è un dono della tecnologia, né della matematica, piuttosto trattasi di business, ossia di scienze sociali. Le tecnologie non sono nuove, sono digitali. Le politiche restano vecchie. Se realizzare questi obiettivi sarà un sogno o forse un’utopia dipenderà da come plasmiamo –ora- le nostre istituzioni. Massimo Chiriatti Tecnologo UMANESIMO DIGITALE E PHRONESIS. La tesi potrà apparire paradossale. È però un fatto che l’atteggiamento più benevolo rispetto al progresso tecnologico si trovi proprio in quella posizione che critica il progetto dell’intelligenza artificiale forte. Tale posizione promuove il disarmo ideologico, l’uso diffuso delle nuove possibilità digitali a favore di un’umanizzazione delle condizioni di vita sia di quelle attuali sia delle generazioni future. È inoltre scettica rispetto al programma di assimilare le persone alle macchine, in entrambe le direzioni (cioè l’uomo alla macchina e la macchina all’uomo). È ottimista rispetto all’uso delle tecnologie digitali per il miglioramento della conditio humana. È convinta che la pratica di dare e chiedere ragioni e la reciproca attribuzione di stati emotivi e epistemici (convinzioni e emozioni) siano irriducibili. Questi sono infatti elementi della forma di vita che condividiamo e non possono essere consegnati né alle macchine digitali né alle teorie scientifiche. Se si dovesse prendere sul serio il meccanicismo digitale questo comporterebbe la fine della forma umana di vita nel suo complesso. Dobbiamo piuttosto utilizzare le nuove tecnologie digitali per rendere la vita più ricca, più efficiente e più sostenibile, piuttosto che impoverirla. L’utopia dell’umanesimo digitale richiede di prendere congedo dal paradigma della macchina. Né la natura nel suo insieme né l’uomo possono essere considerati come una macchina. Il mondo non è un orologio e l’uomo non è un automa. Le macchine possono espandere e migliorare la capacità umana sia nell’azione sia nella creatività. Esse possono essere utilizzate tanto a fin di bene quanto malevolmente nello sviluppo umano, ma non possono sostituire la responsabilità umana, sia quella individuale che quella culturale e collettiva della società umana. Paradossalmente tanto la responsabilità individuale che collettiva vengono amplificate dall’utilizzo delle macchine digitali ma non diminuite e certamente non marginalizzate. Le nuove possibilità dell’interazione attraverso le tecniche digitali rappresentano nuove sfide all’ethos della responsabilità a cui l’essere umano razionale non si può sottrarre delegando la responsabilità a sistemi autonomi siano essi robot umanoidi o software capaci di auto-apprendimento. L’idea che i computer o i robot controllati dai computer digitali abbiano una personalità, o comunque un giorno la possano acquisire dovrebbe essere definitivamente messa da parte come una proiezione (in senso psicoanalitico) regressiva. È l’autoinganno di cui siamo vittime quando rinunciamo alla nostra responsabilità di umani personalizzando gli automi. È la ricaduta nell’animismo delle culture dell’Età della pietra. L’attribuzione di un’anima a alberi, corsi d’acqua e alle sagome delle nuvole può essere paragonata allo stesso meccanismo con cui attribuiamo un’anima ai computer o robot. Così facendo il peso della propria responsabilità e la solitudine che affligge l’unica specie del pianeta che ha capacità formativa nell’antropocene verrebbero mitigati. L’umanesimo digitale è favorevole alla tecnologia. Esso sostiene l’applicazione di tutte le tecniche digitali per il miglioramento della condizione umana e la conservazione dei sistemi ecologici – anche in considerazione degli interessi vitali delle generazioni future. Allo stesso tempo, tuttavia, si oppone violentemente tanto alle tendenze di fuga dalla responsabilità, quanto alla delega di responsabilità per il futuro conferita a uno sviluppo tecnologico inteso come autosufficiente. Un’utopia pragmatica dell’umanesimo digitale fa proprio il principio di realtà. L’esperienza umana non è l’interpretazione dei dati sensibili, ma si basa su una comprensione di fatti empirici e normativi contenuti in strutture. Senza intenzioni non si dà nessuna esperienza genuina, né etica né empirica. Le macchine non hanno intenzionalità. Non imparano nulla, anche se sono in grado di simulare percezione e comportamento. L’umanesimo digitale aderisce alle condizioni umane dell’azione responsabile. Non commette alcun errore categoriale. Non attribuisce proprietà mentali alla semplice simulazione del comportamento umano. Piuttosto, affina i criteri di attribuzione della responsabilità umana in considerazione della disponibilità di nuova tecnologia digitale, prevede l’ampliamento delle attribuzioni di responsabilità alle comunicazioni rese possibili dalla tecnologia digitale. Non permette agli attori (che siamo noi esseri umani) di sfilarsi e di trasferire la propria responsabilità alla presunta autonomia delle macchine digitali. L’umanesimo digitale è un’utopia, non perché i suoi principi non sarebbero realizzabili, ma perché si oppone all’attuale cultura della digitalizzazione. Si deve insomma prima affermare per prevalere contro le tendenze antiumaniste. Un’utopia dispiega la sua efficacia pratica quando si unisce all’esperienza del mondo della vita, ma allo stesso tempo contiene una visione che promette un suo miglioramento. Infatti, l’umanesimo digitale si basa sulla costitutiva normatività delle nostre interazioni e comunicazioni nel mondo della vita. Prende sul serio il complesso delle pratiche di attribuzione d’intenzioni, desideri, credenze, atteggiamenti e sentimenti. La comunicazione e la cooperazione sono possibili solo su questa base. L’ideologia alla base del programma d’intelligenza artificiale forte, l’esonero cioè da un lato e dall’altro la sussunzione della pratica umana in sistemi software algoritmicamente guidati è incompatibile con questa nostra esperienza di vita. Il messaggio centrale dell’umanesimo digitale è il mantenimento e la prosecuzione di questa esperienza, senza ostacolare il potenziale delle nuove tecnologie digitali. Un umanesimo digitale richiede la responsabilità politica delle infrastrutture delle comunicazioni e delle interazioni digitali. Se ciò non è possibile su scala mondiale, queste infrastrutture devono essere garantite mediante trattati multilaterali, preferibilmente sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Non si può accettare che gli interessi commerciali di Google, Facebook e altre grandi aziende del settore blocchino lo sviluppo di infrastrutture neutrali di comunicazione e di interazione digitali. Il modello di sviluppo oggi dominante in cui una vasta gamma di servizi digitali è fornita gratuitamente mentre la gran parte della raccolta dei dati degli utenti, che passa inosservata, permette sfruttamenti commerciali, non dovrebbe guidare il futuro della comunicazione e dell’interazione digitali. E questo già solo in ragione della minaccia nei confronti del diritto fondamentale all’autodeterminazione all’informazione che tale pratica configura. La semplice raccomandazione agli utenti di trattare i propri dati più attentamente, non tiene conto della realtà attuale della comunicazione in Internet. Per un’ampia fetta della società mondiale, l’assenza dai social media significa di fatto l’esclusione culturale. In questo modo l’utente critico paga il suo diritto di autodeterminazione all’informazione con l’esclusione dalle comunità sociali e culturali. Qui si può vedere una ricaduta nella cultura del borgo medievale. Chiunque non si sottopone al controllo sociale della comunità deve pagare uscendo dalla comunità. Così sono messe in discussione le conquiste della cultura moderna liberale, basate sui diritti individuali e le opportunità offerte da una cultura della partecipazione. E così perde la sua legittimità la separazione moderna tra pubblico e privato, condizione centrale dell’ordine democratico, così come si è sviluppato tra il XVIII e il XX secolo. In definitiva, questo sviluppo deve essere interpretato come una minaccia per l’ordine liberale basato sulla costituzione, sui diritti individuali, culturali, sociali e politici. L’immenso aumento delle possibilità di informarsi con uno sforzo minimo in modo affidabile, le diverse opzioni di formare comunità e perseguire obiettivi comuni, la nuove possibilità di comunicazione attraverso i confini culturali potrebbero essere condizioni ideali per uno sviluppo buono, umano e democratico in tutte le regioni del mondo. Potrebbero dare un contributo significativo all’autodeterminazione individuale e politica e realizzare l’ideale illuministico di una cittadinanza informata e responsabile, sia a livello nazionale che internazionale. Gli obiettivi educativi centrali del giudizio indipendente e delle capacità decisionali dovranno essere collocati al centro degli sforzi educativi affinché un tale sviluppo positivo possa avere una chance. Al momento non viviamo in una società della conoscenza ma in una dittatura dei dati. In sostanza, la conoscenza è caratterizzata da due criteri, vale a dire dalla verità e dalla fondatezza. Oggi, grazie alle tecnologie digitali, i dati sono così leggeri e così abbondanti come non mai nella storia umana. Tuttavia, la capacità di formarsi un giudizio affidabile basato su questo eccesso di dati non è aumentata, ma diminuita. Ciò è connesso con l’appiattimento, la superficialità e l’accelerazione dell’acquisizione delle conoscenze nelle scuole, ma anche con una perdita generale della capacità di concentrazione. I sistemi d’istruzione in tutto il mondo sono chiamati a far fronte a una civiltà formata dalle tecnologie digitali. Paradossalmente, il vecchio ideale umanistico dell’istruzione, soprattutto della formazione della personalità, è più attuale che mai. L’accumulo di conoscenze è radicalmente svalutato dalle tecnologie digitali. D’altra parte, più importante che mai è la capacità di navigare attraverso un eccesso d’informazioni contraddittorie e motivate da interessi mantendendo la responsabilità del proprio agire nel mondo. L’umanesimo digitale tende al rafforzamento della responsabilità, alla fruibilità della digitalizzazione. Esonera da conoscenze inutili e facilita gli sforzi nel calcolo, per dare alle persone l’opportunità di concentrarsi sugli elementi essenziali e, in altre parole, contribuire a un futuro dell’umanità più umano e più giusto. Julian Nida Rumelin Filosofo e politoligo tedesco Ludwig Maxinilians Universitat Monaco di Baviera IPERSTORIA 1. IPERSTORIA Oggi vivono più persone di quante ne siano mai vissute nell'evoluzione dell'umanità. E molti di noi oggi vivono più a lungo12 e meglio13 che mai nel passato. In larga misura, dobbiamo ciò alle nostre tecnologie, almeno nella misura in cui le sviluppiamo e le usiamo in modo intelligente, pacifico e sostenibile. Talvolta possiamo dimenticare quanto dobbiamo alle selci e alle ruote, alle scintille e agli aratri, ai motori e ai satelliti. Ricordiamo questo debito tecnologico così profondo quando dividiamo la vita umana nella preistoria e nella storia. Quella soglia significativa è lì a confermare che sono stati l'invenzione e lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) a fare la differenza tra chi eravamo e chi siamo. Solo quando le lezioni apprese dalle passate generazioni hanno cominciato a evolversi in senso lamarckiano piuttosto che darwiniano, l'umanità è entrata nella storia. La storia dura da seimila anni, da quando è iniziata con l'invenzione della scrittura nel quarto millennio a.C. Durante questo periodo relativamente breve, le ICT hanno provveduto alle infrastrutture di registrazione e trasmissione che hanno reso possibile l'evoluzione di altre tecnologie, con la conseguenza diretta di favorire la nostra dipendenza da un numero sempre maggiore di strati tecnologici. Le ICT sono maturate nei pochi secoli tra Gutenberg e Turing. Oggi viviamo una trasformazione radicale delle nostre ICT che potrebbe rivelarsi altrettanto significativa, poiché abbiamo iniziato a tracciare una nuova soglia tra la storia e una nuova era, che potrebbe essere opportunamente chiamata iperstoria. (Figura 1). Mi spiego. La preistoria (cioè il periodo precedente alle registrazioni scritte) e la storia funzionano come gli avverbi: ci dicono come la gente vive, non quando o dove. Da questo punto di vista, le società umane si estendono al momento attraverso 12 Secondo i dati sull'aspettativa di vita alla nascita nel mondo e per i principali gruppi di sviluppo, 1950-2050. Fonte: Divisione Popolazione del Dipartimento affari sociali ed economici del segretariato delle Nazioni Unite (2005). World Population Prospects: The 2004 Revision Highlights. New York: Nazioni Unite, disponibile online. 13 Secondo i dati sulla povertà nel mondo, definita come numero e percentuale di persone che vivono con meno di $ 1,25 al giorno (ai prezzi del 2005) nel 2005-08. Fonte: Banca Mondiale e The Economist, 29 febbraio 2012, disponibile online. tre epoche, quanto a modi di vivere. Secondo i rapporti su un numero imprecisato di tribù mai contattate nella regione amazzonica, esistono ancora alcune società che vivono come nella preistoria, senza ICT o almeno senza documenti registrati. Se un giorno queste tribù scompariranno, sarà stata scritta la fine del primo capitolo del libro sulla nostra evoluzione. La maggior parte delle persone oggi vive ancora storicamente, in società che si affidano alle ICT per registrare e trasmettere dati di tutti i tipi. In tali società storiche, le ICT non hanno ancora superato altre tecnologie, in particolare quelle legate all'energia, in termini di importanza vitale. Poi esistono alcune persone nel mondo che vivono già nell'iperstoria, in società o ambienti in cui le ICT e le loro capacità di elaborazione dei dati sono la condizione necessaria per il mantenimento e l'ulteriore sviluppo del benessere sociale, del benessere personale e della prosperità intellettuale. La natura dei conflitti presenta un triste test per l'affidabilità di questa interpretazione tripartita dell'evoluzione umana. Solo una società che vive nell'iperstoria può essere minacciata in modo letale da un cyber attacco. Solo chi di digitale vive, di digitale può morire.14 In sintesi, l'evoluzione umana può essere vista come un razzo a tre stadi: nella preistoria, non esistono ICT; nella storia, esistono ICT, registrano e trasmettono dati, ma le società umane si affidano principalmente ad altri tipi di tecnologie riguardanti le risorse primarie e l'energia; nell'iperstoria, esistono ICT, registrano, trasmettono e, soprattutto, elaborano dati, in maniera sempre più autonoma, per cui le società umane diventano dipendenti in misura vitale da loro e dall'informazione come risorsa fondamentale. Il valore aggiunto passa dalla correlazione con le ICT alla dipendenza dalle ICT. Non possiamo più scollegare il nostro mondo dalle ICT senza spegnerlo. Se tutto ciò è corretto anche solo approssimativamente, l'emergere dalla sua età storica rappresenta uno dei passi più significativi mai compiuti dall'umanità. Certamente apre un vasto orizzonte di opportunità oltre a sfide e difficoltà, il tutto essenzialmente guidato dalle capacità di registrazione, trasmissione ed elaborazione delle ICT. Dalla biochimica sintetica alla neuroscienza, dall'Internet delle cose alle esplorazioni planetarie senza equipaggio, dalle tecnologie verdi alle nuove cure mediche, dai social media ai giochi digitali, dalle applicazioni agricole a quelle finanziarie, dagli sviluppi economici all'industria dell'energia, le nostre attività di scoperta, invenzione, progettazione, controllo, istruzione, lavoro, socializzazione, intrattenimento, 14 Floridi e Taddeo (in corso di pubblicazione). Clarke e Knake (2010) affrontano i problemi della cyber-guerra e della sicurezza informatica da una prospettiva politica che si qualificherebbe ancora "storica" all'interno di questo capitolo, ma è molto utile. cura, sicurezza, affari e così via non sarebbero solo irrealizzabili ma impensabili in un contesto storico puramente meccanico. Ormai sono diventate tutte di natura iperstorica. Ne consegue che siamo spettatori della definizione di uno scenario macroscopico in cui l'iperstoria e la ri-ontologizzazione dell'infosfera in cui viviamo distaccano rapidamente le generazioni future dalla nostra. Ovviamente, questo non vuol dire che non ci sia continuità, sia all'indietro che in avanti. All'indietro perché spesso accade che più profonda è una trasformazione, più lunghe e più largamente radicate ne possono essere le cause. È solo perché molte forze diverse hanno esercitato pressione per un tempo molto lungo che i cambiamenti radicali possono accadere all'improvviso, forse inaspettatamente. Non è l'ultimo fiocco di neve che spezza il ramo dell'albero. Nel nostro caso, è certamente la storia che genera l'iperstoria. Non c'è ASCII senza l'alfabeto. In avanti, perché è più plausibile che le società storiche sopravvivano per molto tempo nel futuro, non diversamente dalle tribù amazzoniche preistoriche menzionate prima. Nonostante la globalizzazione, le società umane non sfilano uniformemente in avanti, a passo sincronizzato. Una tale prospettiva a lungo termine dovrebbe contribuire a spiegare il processo lento e graduale di apoptosi politica che attraversiamo, per prendere in prestito un concetto dalla biologia cellulare. L'apoptosi (nota anche come morte cellulare programmata) è una forma naturale e normale di autodistruzione in cui una sequenza programmata di eventi conduce all'autoeliminazione delle cellule. L'apoptosi svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella conservazione della salute dell'organismo. Può essere vista come un processo dialettico di rinnovamento e usata per descrivere lo sviluppo degli stati nazionali nelle società dell'informazione in termini di apoptosi politica (cfr. Figura 2), nel seguente modo. Semplificando all'estremo, un rapido abbozzo degli ultimi quattrocento anni di storia politica potrebbe apparire come segue. La Pace di Vestfalia (1648) significò la fine della Guerra mondiale Zero, ovvero la Guerra dei trent'anni, la Guerra degli ottant'anni e un lungo periodo di altri conflitti durante il quale le potenze europee e altre parti del mondo da queste dominate si massacrarono per motivi economici, politici e religiosi. I cristiani si mandavano all'inferno l'un l'altro con violenza impressionante e orrori indicibili. Il nuovo sistema emerso in quegli anni, il cosiddetto ordine di Vestfalia, vide il raggiungimento della maturità degli stati sovrani e degli stati nazione come oggi li conosciamo, ad esempio la Francia. Basta pensare al periodo tra l'ultimo capitolo di I tre moschettieri, quando D'Artagnan, Aramis, Porthos e Athos prendono parte all'assedio di La Rochelle del cardinale Richelieu nel 1628, e il primo capitolo di Venti anni dopo, quando si riuniscono di nuovo, sotto la reggenza della regina Anna d'Austria (1601-1666) e il governo del cardinale Mazzarino (1602-1661). Lo stato non divenne un agente monolitico, risoluto, ben coordinato, il tipo di animale (il leviatano di Hobbes) o piuttosto di robot che un'età meccanica successiva ci porterebbe a immaginare. Non lo è mai stato. Piuttosto, è salito al ruolo di potere vincolante, di rete in grado di tenere insieme, influenzare e coordinare tutti i diversi agenti e comportamenti che rientrano nell'ambito dei suoi confini geografici. La cittadinanza era stata discussa in termini di biologia (i tuoi genitori, il tuo sesso, la tua età...) sin dalle prime città stato della Grecia antica. Divenne più flessibile (gradi di cittadinanza) quando fu concettualizzata anche in termini di status giuridico, come sotto l'Impero romano, quando acquisire una cittadinanza (un'idea priva di significato in contesti puramente biologici) significava diventare un detentore dei diritti. Con lo stato moderno, la geografia ha iniziato a svolgere un ruolo altrettanto importante, mescolando la cittadinanza con la nazionalità e la località. In questo senso, la storia del passaporto è illuminante. Come mezzo per dimostrare la propria identità, è riconosciuto essere un'invenzione del re Enrico V d'Inghilterra (1386-1422), secoli prima dell'avvento dell'ordine di Vestfalia. Tuttavia, è l'ordine di Vestfalia che rende possibile il passaporto come lo intendiamo oggi: un documento che autorizza il titolare non a viaggiare (ad esempio, può essere richiesto anche un visto) o essere protetto all'estero, ma a tornare (o essere rimandato) nel paese che ha rilasciato il passaporto. È, metaforicamente, un elastico che lega il titolare a un punto geografico, indipendentemente dalla distanza nello spazio e dalla durata nel tempo del viaggio in altre terre. Tale documento è diventato sempre più utile quanto meglio era definito il punto geografico. I lettori potrebbero essere sorpresi di sapere che per viaggiare in Europa non erano ancora necessari passaporti fino alla Prima guerra mondiale, quando la pressione della sicurezza e i mezzi tecno-burocratici risposero alla necessità di districare e gestire tutti quegli elastici che se ne andavano in giro in treno. Torniamo all'ordine di Vestfalia. Ora gli spazi fisici e giuridici si sovrappongono e sono entrambi governati da poteri sovrani, che esercitano il controllo mediante la forza fisica per imporre leggi e assicurarne il rispetto entro i confini nazionali. La cartografia non è solo una questione di viaggiare e fare affari, ma anche una questione rivolta verso l'interno di controllo del proprio territorio e una questione rivolta verso l'esterno di posizionarsi sul globo. L'esattore delle tasse e il generale guardano queste linee con occhi molto diversi da quelli degli utenti odierni di Expedia. Perché gli stati sovrani operano come sistemi multiagente (o MAS, ne riparleremo in seguito) che possono, ad esempio, riscuotere tasse all'interno dei loro confini e contrarre debiti come persone giuridiche (da qui la nostra terminologia attuale in termini di "debito sovrano", ovvero obbligazioni emesse da un governo nazionale in una valuta estera) e possono ovviamente disputarsi i confini. Parte della lotta politica diventa non solo una silenziosa tensione tra le diverse componenti dello stato-MAS, come ad esempio il clero contro l'aristocrazia, ma un equilibrio esplicitamente codificato tra i diversi agenti che lo costituiscono. In particolare, Montesquieu suggerisce la classica divisione dei poteri politici dello stato che oggi diamo per scontata. Lo stato-MAS si organizza come una rete di tre "piccoli mondi", legislativo, esecutivo e giudiziario, tra i quali sono consentiti solo alcuni tipi specifici di canali di informazione. Oggi potremmo definirlo Vestfalia 2.0. Con l'ordine di Vestfalia, la storia moderna diventa l'età dello stato e lo stato diventa il solo agente di informazione, che legifera e controlla (o almeno cerca di controllare), nella misura del possibile, tutti i mezzi tecnologici coinvolti nel ciclo di vita delle informazioni tra cui istruzione, censimento, tasse, registri di polizia, leggi e norme scritte, stampa e intelligence. La maggior parte delle avventure in cui D'Artagnan è coinvolto è già causata da alcune comunicazioni segrete. Lo Stato finisce così per promuovere lo sviluppo delle ICT come mezzo per esercitare e conservare il potere politico, il controllo sociale e la forza legittima, ma così facendo mina anche il proprio futuro come unico, o anche solo principale, agente di informazioni. Come spiegherò più dettagliatamente in seguito, le ICT, essendo una delle forze più influenti che hanno reso possibile lo stato e quindi predominanti come forza trainante storica nella politica umana, hanno anche contribuito a renderlo meno centrale nella vita sociale, politica ed economica in tutto il mondo, facendo pressione sul governo centralizzato a favore della governance distribuita e del coordinamento internazionale a livello mondiale. Lo stato si è sviluppato diventando sempre più una società dell'informazione, quindi riducendo progressivamente il proprio ruolo di principale agente di informazione. Nel corso dei secoli, è passato dall'essere concepito come il massimo garante e difensore di una società laisser-faire a un sistema di welfare bismarckiano che si prende totalmente cura dei suoi cittadini. Le due guerre mondiali furono anche scontri di nazioni stato che si opponevano al coordinamento e all'inclusione reciproci volti a formare sistemi multiagente più grandi. Le guerre hanno condotto alla nascita di MAS come la Società delle Nazioni, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, l'Unione Europea, la NATO e così via. Oggi sappiamo che i problemi globali, dall'ambiente alla crisi finanziaria, dalla giustizia sociale ai fondamentalismi religiosi intolleranti, dalla pace alle condizioni di salute, non possono affidarsi agli stati nazione come uniche fonti di una soluzione, perché coinvolgono e richiedono agenti globali. Tuttavia, in un mondo post-vestfaliano (Linklater (1998)), sussiste molta incertezza sui nuovi MAS coinvolti nel plasmare il presente e il futuro dell'umanità. Le osservazioni precedenti offrono un modo filosofico di interpretare il consenso di Washington, l'ultimo stadio dell'apoptosi politica dello Stato. L'espressione "Washington consensus" è stata coniata nel 1989 dall'economista John Williamson per descrivere un insieme di dieci direttive specifiche di politica economica che considerava costituire una strategia standard adottata e promossa da istituzioni con sede a Washington, D. C., come ad esempio il Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale nelle trattative con paesi in via di sviluppo che dovessero affrontare crisi economiche. Le politiche riguardavano la stabilizzazione macroeconomica, l'apertura economica rispetto al commercio e agli investimenti e l'espansione delle forze di mercato all'interno dell'economia nazionale. Nell'ultimo quarto di secolo, il tema è stato oggetto di un dibattito intenso e vivace, in termini di descrizione corretta e di prescrizione accettabile: il consenso di Washington rispecchia un vero fenomeno storico? Il consenso di Washington raggiunge mai i suoi obiettivi? È da reinterpretare, nonostante la chiarissima definizione di Williamson, come l'imposizione di politiche neoliberali da parte di istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington ai paesi in difficoltà? Queste sono domande importanti, ma il vero punto di interesse qui non è la valutazione ermeneutica, economica o normativa del consenso di Washington. Piuttosto, è il fatto che l'idea stessa, anche se rimane solo un'idea tendenziale, coglie un aspetto significativo del nostro tempo iperstorico e post-vestfaliano. Infatti, il consenso di Washington può essere visto come il risultato coerente della Conferenza Monetaria e Finanziaria delle Nazioni Unite, nota anche come Conferenza di Bretton Woods (Steil (2013)). Questo incontro al Mount Washington Hotel di Bretton Woods, nel New Hampshire, Stati Uniti, riunì nel 1944 730 delegati di tutte le 44 nazioni alleate e ha regolato l'ordine monetario e finanziario internazionale dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale. Ha visto la nascita della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD, insieme al suo braccio di prestito agevolato, l'Associazione internazionale per lo sviluppo, nota come Banca mondiale), dell'Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (GATT, poi sostituito dall'Organizzazione mondiale del commercio nel 1995) e del Fondo Monetario Internazionale. In breve, Bretton Woods ha ufficializzato la nascita di una varietà di MAS in quanto forze sovranazionali o intergovernative coinvolte nei problemi politici, sociali ed economici del mondo. Così, Bretton Woods e in seguito il consenso di Washington evidenziano il fatto che, dopo la Seconda guerra mondiale, organizzazioni e istituzioni (non solo quelle di Washington D.C.) che non sono Stati ma MAS non governativi, sono apertamente riconosciute come importanti forze influenti sulla scena politica ed economica internazionale, che affrontano problemi globali attraverso politiche globali. Il fatto stesso (indipendentemente dalla sua correttezza o meno) che il consenso di Washington sia stato accusato di commettere un errore madornale nel non tener conto delle specificità locali e delle differenze globali rafforza l'argomentazione che una varietà di potenti MAS siano ora le nuove fonti delle politiche nelle società dell'informazione globalizzate. Tutto questo aiuta a spiegare perché, in un mondo post-vestfaliano (comparsa dello stato nazione come agente di informazione politico e moderno) e postBretton Woods (comparsa di MAS non statali come attori iperstorici nell'economia e nella politica globali), una delle principali sfide che dobbiamo affrontare è come progettare il giusto tipo di MAS che possano trarre il massimo vantaggio dai progressi socio-politici compiuti nella storia moderna, affrontando al contempo con successo le nuove sfide globali che minano la migliore eredità di questo stesso progresso nell'iperstoria. Tra le molte spiegazioni per un tale passaggio da un ordine storico vestfaliano a una situazione iperstorica post-consenso di Washington alla ricerca di un nuovo equilibrio, tre meritano di essere evidenziate qui. Primo, potere. Le ICT "democratizzano" i dati e il potere di elaborazione/controllo su di essi, nel senso che ora tendono a risiedere e moltiplicarsi in una moltitudine di repository e fonti, creando, attivando e responsabilizzando così un numero potenzialmente illimitato di agenti non statali, dal singolo individuo alle associazioni e ai gruppi, dai macro-agenti, come le multinazionali, alle organizzazioni internazionali, intergovernative e non governative, alle istituzioni sovranazionali. Lo stato non è più l'unico, e talvolta nemmeno il principale, agente nell'arena politica in grado di esercitare il potere informativo su altri agenti informativi, in particolare sui (gruppi di) cittadini. Il fenomeno sta generando una nuova tensione tra il potere e la forza, dove il potere è informativo e viene esercitato attraverso l'elaborazione e la diffusione delle norme, mentre la forza è fisica ed esercitata quando il potere non riesce a orientare il comportamento degli agenti interessati e le norme devono essere applicate con la forza. Più i beni fisici e persino il denaro diventano dipendenti dall'informazione, più il potere informativo esercitato dai MAS acquisisce un aspetto finanziario significativo. Secondo, geografia. Le ICT de-territorializzano l'esperienza umana. Hanno reso i confini regionali porosi o, in alcuni casi, del tutto irrilevanti. Hanno anche creato, ed espandono esponenzialmente, le regioni dell'infosfera dove un numero crescente di agenti (non solo umani, cfr. Floridi (2013)) operano e trascorrono sempre più tempo, l'esperienza "onlife". Tali regioni sono intrinsecamente prive di stati. Ciò genera una nuova tensione tra la geopolitica, che è globale e non territoriale, e lo stato nazione, che definisce ancora la sua identità e legittimità politica in termini di unità territoriale sovrana, in quanto Paese. Terzo, organizzazione. Le ICT fluidificano la topologia della politica. Non si limitano a consentire ma effettivamente promuovono (attraverso la gestione e la responsabilizzazione) l'aggregazione, la disaggregazione e la riaggregazione agile, temporanea e tempestiva di gruppi distribuiti "su richiesta", attorno a interessi condivisi, attraverso i confini vecchi e rigidi rappresentati da classi sociali, partiti politici, etnia, barriere linguistiche, barriere fisiche e così via. Ciò genera nuove tensioni tra lo stato nazione, ancora inteso come una grande istituzione organizzativa, ma non più rigido bensì sempre più trasformato in un MAS molto flessibile (torneremo su questo punto più avanti), e una varietà di organizzazioni non statali altrettanto potenti, anzi a volte ancora più potenti e politicamente influenti (rispetto al vecchio stato nazione), gli altri MAS appena arrivati. Il terrorismo, ad esempio, non è più un problema che riguarda gli affari interni, come alcune forme di terrorismo nei Paesi Baschi, in Germania, in Italia o nell'Irlanda del Nord, ma un confronto internazionale con un MAS come AlQaeda, la famigerata organizzazione globale islamista militante. Il dibattito sulla democrazia diretta viene così rimodellato. Un tempo pensavamo si trattasse del modo in cui lo stato nazione poteva riorganizzarsi internamente, progettando regole e gestendo i mezzi per promuovere forme di democrazia in cui i cittadini avrebbero potuto proporre e votare direttamente le iniziative politiche, quasi in tempo reale. Abbiamo pensato a forme di democrazia diretta come alternative complementari alle forme di democrazia rappresentativa. Sarebbe stato un mondo di "politica sempre attiva". La realtà è che la democrazia diretta si è trasformata in una democrazia basata sui mass media nel senso ICT dei nuovi social media. In tali democrazie digitali, i MAS (intesi come gruppi distribuiti, temporanei e tempestivi, aggregati attorno a interessi condivisi) si sono moltiplicati e diventano fonti di influenza esterne allo stato nazione. I cittadini votano per i loro rappresentanti ma li influenzano tramite sondaggi d'opinione quasi in tempo reale. La costruzione del consenso è diventata una preoccupazione costante basata sull'informazione sincronica. A causa dei tre precedenti motivi, potere, geografia e organizzazione, la posizione unica dello stato storico come il solo agente dell'informazione viene minata dal basso e scavalcata dall'alto dall'emergere di MAS che hanno i dati, il potere (e talvolta anche la forza, come nei casi molto diversi delle Nazioni Unite, delle minacce informatiche da parte di gruppi o degli attacchi terroristici), lo spazio e la flessibilità organizzativa per erodere il peso politico dello stato moderno, per appropriarsi (in parte) della sua autorità e, a lungo termine, renderlo ridondante in contesti in cui un tempo era l'unico o il predominante agente informativo. La crisi greca, iniziata alla fine del 2009, e gli agenti coinvolti nella sua gestione offrono un buon modello: il governo greco e lo stato greco hanno dovuto interagire "sopra" con l'UE, la Banca centrale europea, il FMI, le agenzie di rating ecc. e "sotto" con i mass media greci e le persone in piazza Syntagma, con i mercati finanziari e gli investitori internazionali, con l'opinione pubblica tedesca e così via. Naturalmente, lo stato nazionale storico non rinuncia al suo ruolo senza combattere. In molti contesti, tenta di rivendicare il suo primato come superagente dell'informazione che governa la vita politica della società che organizza. In alcuni casi, il tentativo è sfacciato. Nel Regno Unito, il governo laburista ha introdotto la prima legge sulle carte d'identità nel novembre 2004. Dopo diverse fasi intermedie, l'Identity Cards Act è stato finalmente abrogato dall'Identity Documents Act 2010, il 21 gennaio 2011. Il piano fallito di introdurre la carta d'identità obbligatoria nel Regno Unito deve essere letto da una prospettiva vestfaliana moderna. In molti casi, si tratta di una "resistenza storica" sotto traccia, come quando una società dell'informazione, caratterizzata dal ruolo essenziale svolto da beni intellettuali, intangibili (economia basata sulla conoscenza), da servizi ad alta intensità di informazioni (servizi aziendali e immobiliari, finanza e assicurazioni) e dai settori pubblici (in particolare l'istruzione, la pubblica amministrazione e l'assistenza sanitaria), è in gran parte gestita dallo stato, che semplicemente mantiene il suo ruolo di principale agente informativo non più solo legalmente, sulla base del suo potere sulla legislazione e la sua attuazione, ma ora anche economicamente, sulla base del suo potere sulla maggior parte dei lavori basati sull'informazione. La presenza intrusiva del cosiddetto capitalismo di stato con le sue SOE (State Owned Enterprises, imprese di proprietà dello stato) in tutto il mondo, dal Brasile, alla Francia, alla Cina, è un sintomo ovvio di anacronismo iperstorico. Forme simili di resistenza sembrano solo in grado di ritardare l'inevitabile ascesa dei MAS politici. Purtroppo possono comportare enormi rischi, non solo a livello locale, ma soprattutto globale. Ricordiamo che le due guerre mondiali possono essere considerate la fine del sistema vestfaliano. Paradossalmente, mentre l'umanità si sposta in un'età iperstorica, il mondo assiste all'ascesa della Cina, attualmente uno stato sovrano estremamente "storico", e al declino degli Stati Uniti, uno stato sovrano che più di ogni altra superpotenza in passato aveva già avuto una vocazione iperstorica e multiagente nella sua organizzazione federale. Potremmo passare da un consenso di Washington a un consenso di Pechino, descritto da Williamson come un composito di riforme incrementali, innovazione e sperimentazione, crescita guidata dalle esportazioni, capitalismo di stato e autoritarismo. Tutto ciò è rischioso, perché lo storicismo anacronistico di alcune politiche cinesi e il crescente iperstoricismo dell'umanità si avviano verso uno scontro. Potrebbe non essere un conflitto, ma l'iperstoria è una forza il cui tempo è arrivato e, sebbene sembri molto probabile che sarà lo stato cinese a emergerne profondamente trasformato, si può solo sperare che l'inevitabile attrito sia il più indolore e pacifico possibile. Le crisi finanziarie e sociali che le società di informazione più avanzate stanno attualmente affrontando potrebbero in realtà essere il prezzo molto doloroso, ma ancora pacifico, che occorre pagare per l'adattamento a un futuro post-consenso di Washington. La precedente conclusione vale per lo stato storico in generale: in futuro vedremo i MAS politici acquisire sempre maggiore risalto, mentre lo stato progressivamente abbandona la sua resistenza ai cambiamenti iperstorici e si evolve esso stesso in un MAS. Buoni esempi sono forniti dalla devoluzione o dalla crescente tendenza a rendere le banche centrali, come la Banca d'Inghilterra o la Banca centrale europea, organizzazioni pubbliche indipendenti. È giunto il momento di considerare più da vicino la natura del MAS politico e alcune delle domande che il suo emergere sta già ponendo. 2. I MAS POLITICI Il MAS politico è un sistema costituito da altri sistemi,15 che, come singolo agente, è: 15 Per un'analisi più dettagliata cfr. Floridi (2011). a) teleologico: il MAS ha uno scopo, o obiettivo, che persegue attraverso le sue azioni; b) interattivo: il MAS e il suo ambiente possono agire l'uno sull'altro; c) autonomo: il MAS può cambiare le sue configurazioni senza una risposta diretta all'interazione, eseguendo transizioni interne per cambiare i suoi stati. Ciò conferisce al MAS un certo grado di complessità e indipendenza dal suo ambiente; e infine d) adattabile: le interazioni del MAS possono cambiare le regole con cui il MAS cambia i suoi stati. L'adattabilità garantisce che il MAS apprenda la propria modalità di funzionamento in un modo che dipende fondamentalmente dalla sua esperienza Il MAS politico diventa intelligente (nel senso di "smart") quando implementa le funzionalità (a) - (d) in modo efficiente ed efficace, riducendo al minimo le risorse, gli sprechi e gli errori, massimizzando al contempo i ritorni delle proprie azioni. L'emergere di MAS intelligenti e politici pone molte domande serie, cinque delle quali meritano un esame qui, anche se solo rapidamente: identità e coesione, consenso, spazio sociale e spazio politico, legittimità e trasparenza (il MAS trasparente). 1) Identità e coesione. In tutta la modernità, lo stato ha affrontato il problema di stabilire e mantenere la propria identità lavorando sull'equazione stato = nazione, spesso attraverso i mezzi legali della cittadinanza e la retorica narrativa dello spazio (la terra madre / la patria) e del tempo (storia nel senso delle tradizioni, celebrazioni ricorrenti di eventi passati di costituzione della nazione ecc.). Consideriamo, ad esempio, l'invenzione del servizio militare obbligatorio durante la Rivoluzione francese, la sua crescente popolarità nella storia moderna, ma poi il numero decrescente di stati sovrani che ancora oggi lo impongono. La coscrizione ha trasformato il diritto di fare la guerra da un problema eminentemente economico (i banchieri fiorentini finanziarono i re inglesi durante la Guerra dei cent'anni (1337-1453), ad esempio) anche a un problema giuridico: il diritto dello stato di inviare i suoi cittadini a morire per suo conto, rendendo così la vita umana il penultimo valore, disponibile per il sacrificio estremo, in nome del patriottismo. "Per il re e il paese": è un segno di moderno anacronismo che, nei momenti di crisi, gli stati sovrani continuino a cedere alla tentazione di alimentare il nazionalismo su zone geografiche prive di senso, spesso alcune piccole isole indegne di qualsiasi perdita umana, dalle isole Falkland o isole Malvinas alle isole Senkaku o Diaoyu. L'equazione tra stato, nazione, cittadinanza e terra/tradizione ha avuto l'ulteriore vantaggio di fornire una risposta a un secondo problema, quello della coesione, perché rispondeva non solo alla domanda su chi o che cosa sia lo stato, ma anche alla domanda di chi o che cosa appartenga allo Stato e quindi possa essere soggetto alle sue norme, politiche e azioni. I nuovi MAS politici non possono fare affidamento sulla stessa soluzione. Anzi, affrontano l'ulteriore problema di dover affrontare il disaccoppiamento della loro identità politica e della coesione. L'identità politica di un MAS può essere molto forte e tuttavia non correlata alla sua coesione temporanea e piuttosto lasca, come nel caso del movimento Tea Party negli Stati Uniti. Sia l'identità sia la coesione di un MAS politico possono essere piuttosto deboli, come nel movimento internazionale Occupy. Oppure si può riconoscere una forte coesione e tuttavia un'identità politica poco chiara o debole, come per la popolazione dei "tweeting" e il loro ruolo durante la primavera araba. Sia l'identità sia la coesione di un MAS politico sono stabilite e mantenute attraverso la condivisione delle informazioni. La Terra è virtualizzata nella regione dell'infosfera in cui opera il MAS. Quindi la Memoria (le registrazioni recuperabili) e la Coerenza (aggiornamenti affidabili) del flusso di informazioni consentono a un MAS politico di rivendicare una qualche identità e una certa coesione, perciò offrono un senso di appartenenza. Ma sono, soprattutto, la progressiva scomparsa dei confini tra online e offline, la comparsa dell'esperienza onlife, e quindi il fatto che l'infosfera virtuale può influenzare politicamente lo spazio fisico, a rafforzare il senso del MAS politico come un vero agente. Se Anonymous avesse solo un'esistenza virtuale, la sua identità e la sua coesione sarebbero molto meno forti. Le azioni costituiscono una controparte essenziale del flusso di informazioni virtuale al fine di garantire la coesione. Un'ontologia delle interazioni sostituisce un'ontologia di entità o, con un gioco di parole, gli ing (come in interact-ing, process-ing, network-ing, doing, be-ing ecc.) sostituiscono le cose. 2) Consenso. Una conseguenza significativa della rottura dell'equazione "MAS politico = stato nazione = cittadinanza = terra = tradizione" e del disaccoppiamento di identità e coesione in un MAS politico è che l'antico problema teorico del governo del consenso da parte di un'autorità politica si sta capovolgendo. Nel quadro storico della teoria del contratto sociale, la presunta posizione predefinita consiste in un opt-out legale: esiste una sorta di consenso (da specificare) a priori, il consenso originale, presumibilmente dato (per una serie di ragioni) da qualsiasi individuo soggetto allo stato politico, a essere governato da quest'ultimo e dalle sue leggi. Il problema è capire come viene dato tale consenso e che cosa succede quando un agente, in particolare un cittadino, lo revoca (il fuorilegge). Nella struttura iperstorica, la posizione predefinita prevista è un opt-in sociale, che viene esercitato ogni volta che l'agente si sottopone al MAS politico condizionatamente, per uno scopo specifico. Semplificando all'estremo, si passa dall'essere parte del consenso politico al parteciparvi, e tale partecipazione è sempre più "just in time", "on demand", "orientata all'obiettivo", tutt'altro che permanente o a lungo termine e stabile. Se fare politica sembra sempre più simile a fare affari, è perché, in entrambi i casi, l'interlocutore, il cittadino-cliente, deve essere convinto nuovamente ogni volta. L'appartenenza fedele non è la posizione predefinita e deve essere costruita e rinnovata allo stesso modo sia per i prodotti politici sia per quelli commerciali. Raccogliere il consenso su specifiche questioni politiche diventa un processo continuo di rinnovo dell'impegno. Non è una questione di attenzione politica (la denuncia generica secondo cui "le nuove generazioni" non riescono più a prestare attenzione ai problemi politici è infondata; sono, dopo tutto, le generazioni sempre davanti alla TV) ma di continuare a motivare l'interesse, senza incorrere nell'inflazione semantica (ancora una crisi, ancora un'emergenza, ancora una rivoluzione, ancora una...) e nella stanchezza politica (quante volte dobbiamo intervenire con urgenza?). Il problema è quindi capire che cosa possa motivare ripetutamente o addirittura forzare gli agenti (di nuovo, non solo i singoli esseri umani, ma tutti i tipi di agenti) a dare tale consenso e a impegnarsi, e che cosa succeda quando tali agenti, non impegnati per definizione (attenzione, non disimpegnati, perché il disimpegno presuppone un precedente stato di impegno), preferiscono tenersi lontano dalle attività del MAS politico, vivendo in una sfera sociale di "non-identità" civile ma apolitica (mancanza di anonimato). Non riuscire a cogliere la trasformazione precedente dall'opt-out storico all'opt-in iperstorico significa avere minori probabilità di comprendere l'apparente incoerenza tra il disincanto degli individui verso la politica e la popolarità dei movimenti globali, le mobilitazioni internazionali, l'attivismo, il volontariato e altre forze sociali dalle enormi implicazioni politiche. Ciò che è moribondo non è la politica tout court ma la politica storica, quella basata su partiti, classi, ruoli sociali fissi e lo stato nazione, che cercava la legittimazione politica una sola volta e la spendeva fino alla revoca. L'avvicinamento al cosiddetto centro da parte dei partiti nelle democrazie liberali in tutto il mondo e le strategie "ottieni il voto" (GOTV è un termine usato per descrivere la mobilitazione di elettori come sostenitori per garantire che coloro che possono votare effettivamente votino) confermano che l'impegno deve essere costantemente rinnovato e ampliato per vincere le elezioni. L'appartenenza al partito (e al sindacato) è una caratteristica moderna che rischia di diventare sempre meno comune. 3) Spazio sociale e spazio politico. Capire l'inversione delle posizioni predefinite di cui sopra significa affrontare un problema ulteriore. Semplificando all'estremo ancora una volta, nella preistoria, gli spazi sociali e gli spazi politici si sovrappongono perché, in una società senza stato, non esiste una differenza reale tra le relazioni sociali e quelle politiche e quindi interazioni. Nella storia, lo stato cerca di mantenere tale co-estensione occupando politicamente, come un MAS informativo, tutto lo spazio sociale, stabilendo così la supremazia del politico sul sociale. Questa tendenza, se incontrollata e squilibrata, rischia di condurre a totalitarismi (ad esempio l'Italia di Mussolini), o almeno a democrazie spezzate (come l'Italia di Berlusconi). Abbiamo visto in precedenza che tale co-estensione e il suo controllo possono essere basati su strategie normative o economiche, attraverso l'esercizio del potere, della forza e della creazione di norme. Nell'iperstoria, lo spazio sociale è lo spazio originale, predefinito, da cui gli agenti possono spostarsi per (acconsentire a) unirsi allo spazio politico. Non è casuale che concetti come società civile (nel senso posthegeliano di società non politica), sfera pubblica (anche in senso nonHabermasiano) e comunità diventino sempre più importanti quanto più ci spostiamo in un contesto iperstorico. Il problema è capire un tale spazio sociale in cui si suppone che interagiscano agenti di vario genere e che dà origine al MAS politico. Ciascun agente, come descritto in precedenza, ha alcuni gradi di libertà. Con ciò non intendo la libertà, l'autonomia o l'autodeterminazione, ma piuttosto, nel senso robotico, più umile, alcune capacità o abilità, supportate dalle risorse pertinenti, di impegnarsi in azioni specifiche per uno scopo specifico. Per usare un esempio elementare, una macchina da caffè ha un solo grado di libertà: può fare il caffè, una volta che sono stati forniti gli ingredienti giusti e l'energia. La somma dei gradi di libertà di un agente è la sua "agenzia". Quando l'agente è solo, esiste ovviamente solo l'agenzia, ma nessuno spazio sociale e tanto meno politico. Immaginiamo Robinson Crusoe nella sua "Isola della Disperazione". Tuttavia, non appena c'è un altro agente (Venerdì sull'Isola della Disperazione), o magari un gruppo di agenti (i cannibali nativi, gli spagnoli naufragati, gli ammutinati inglesi), l'agenzia acquisisce l'ulteriore valore dell'interazione multiagente (cioè sociale): le pratiche e poi le regole per il coordinamento e il vincolo dei gradi di libertà degli agenti diventano essenziali, inizialmente per il benessere degli agenti che costituiscono il MAS e poi per il benessere del MAS stesso. Notare lo spostamento del livello di analisi: una volta che nasce lo spazio sociale, iniziamo a considerare il gruppo come un gruppo, ad esempio come una famiglia, o una comunità, o una società, e le azioni dei singoli agenti che lo costituiscono diventano elementi che portano al MAS nuovi gradi di libertà, o agenzia. Il semplice esempio precedente può ancora essere utile. Consideriamo ora una macchina da caffè e un timer: separatamente, sono due agenti con agenzia diversa, ma se sono correttamente uniti e coordinati in un MAS, l'agente che ne risulta ha la nuova agenzia di preparare il caffè in un determinato momento. Ora è il MAS che ha una capacità più complessa e può funzionare o meno. Uno spazio sociale è quindi la totalità dei gradi di libertà degli agenti residenti che si desidera prendere in considerazione. Nella storia, tale considerazione, che in realtà è solo un altro livello di analisi, era per lo più determinata fisicamente e geograficamente, in termini di presenza in un territorio, e quindi da una varietà di forme di vicinato. Nell'esempio precedente, tutti gli agenti che interagiscono con Robinson Crusoe sono presi in considerazione a causa delle loro relazioni (presenza interattiva in termini di grado di libertà) con la stessa "Isola della Disperazione". Abbiamo visto che le ICT hanno cambiato tutto questo. Nell'iperstoria, dove tracciare la linea per includere, o addirittura escludere, gli agenti rilevanti i cui gradi di libertà costituiscono lo spazio sociale è diventata sempre più una questione di scelta almeno implicita, quando non di una decisione esplicita. Il risultato è che il fenomeno della moralità distribuita, comprendente quello della responsabilità distribuita, diventa sempre più comune. In entrambi i casi, storia o iperstoria, scegliere ciò che va considerato uno spazio sociale può essere una mossa politica. La globalizzazione è una deterritorializzazione in questo senso politico. Se ora ci rivolgiamo allo spazio politico in cui operano i nuovi MAS, sarebbe un errore considerarlo uno spazio separato, al di là e al di sopra di quello sociale: entrambi sono determinati dalla stessa totalità dei gradi di libertà degli agenti. Lo spazio politico emerge quando la complessità dello spazio sociale, intesa in termini di numero e tipi di interazioni e di agenti coinvolti, nonché di grado di riconfigurazione dinamica sia degli agenti sia delle interazioni, richiede la prevenzione o la risoluzione di potenziali divergenze e il coordinamento o la collaborazione su potenziali convergenze. Entrambi sono cruciali. E in ogni caso sono richieste maggiori informazioni, in termini di rappresentazione e deliberazione su una complessa moltitudine di gradi di libertà. Il risultato è che lo spazio sociale diventa politicizzato attraverso la sua informatizzazione. 4) Legittimazione. È quando gli agenti nello spazio sociale accettano di concordare come affrontare le loro divergenze (conflitti) e le loro convergenze che lo spazio sociale acquisisce la dimensione politica cui siamo così abituati. Tuttavia, qui ci attendono due potenziali errori. Il primo, chiamiamolo hobbesiano, è considerare la politica semplicemente come la prevenzione della guerra con altri mezzi, per invertire la famosa frase di Carl von Clausewitz, secondo cui "la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi". Non è questo il caso, perché anche una società complessa di angeli (homo hominis agnus) necessiterebbe ancora di regole per favorirne l'armonia. Anche le convergenze hanno bisogno di politica. Fuor di metafora, la politica non riguarda solo i conflitti dovuti all'esercizio del loro grado di libertà da parte degli agenti quando perseguono i loro obiettivi. È anche, o almeno dovrebbe essere, soprattutto, la promozione del coordinamento e della collaborazione dei gradi di libertà con mezzi diversi dalla coercizione e dalla violenza. Il secondo errore potenziale, che si potrebbe definire rousseauiano, è che può sembrare che lo spazio politico sia quindi solo quella parte dello spazio sociale organizzato dalla legge. In questo caso, l'errore è più sottile. Di solito associamo lo spazio politico a regole o leggi che lo disciplinano, ma queste ultime non sono costitutive, da sole, dello spazio politico. Confrontiamo due casi in cui le regole determinano un gioco. Negli scacchi, le regole non limitano semplicemente il gioco, sono il gioco perché non sovrintendono a un'attività precedente: piuttosto, sono le condizioni necessarie e sufficienti che determinano tutte e solo le mosse che possono essere fatte legittimamente. Nel calcio, tuttavia, le regole sono vincoli sovrapposti perché gli agenti godono di un precedente e basilare grado di libertà, consistente nella loro capacità di calciare una palla con il piede per segnare un gol, che le regole sono intese disciplinare. Mentre è fisicamente possibile, ma non ha senso, piazzare due pedoni sullo stesso quadrato di una scacchiera, nulla ha impedito a Maradona di segnare un gol falloso usando la mano nella partita di calcio tra Argentina e Inghilterra (Coppa del mondo FIFA 1986), considerato valido da un arbitro che non ha visto l'infrazione. Una volta evitati i due errori precedenti, è più facile vedere che lo spazio politico è quell'area dello spazio sociale vincolata dal consenso a concordare la risoluzione delle divergenze e il coordinamento delle convergenze. Ciò porta a un'ulteriore considerazione, riguardante il MAS trasparente, specialmente quando, in questo tempo di transizione, il MAS in questione è ancora lo stato. 5) Il MAS trasparente. Esistono due sensi in cui il MAS può essere trasparente. Non sorprende che entrambi provengano da ICT e informatica (Turilli e Floridi (2009)), un altro caso in cui la rivoluzione informatica sta cambiando i nostri quadri mentali. Da un lato, il MAS (si pensi allo stato nazionale, e anche alle persone giuridiche, alle multinazionali, alle istituzioni sovranazionali ecc.) può essere trasparente nel senso che passa dall'essere una scatola nera a essere una scatola bianca. Altri agenti (i cittadini, quando il MAS è lo stato) non solo possono vedere input e output, ad esempio, i livelli di gettito fiscale e di spesa pubblica, possono anche monitorare come (nel nostro esempio corrente, lo stato in qualità di) un MAS lavora internamente. Non è affatto una novità. Era un principio già diffuso nel 19° secolo. Tuttavia, è diventato una caratteristica rinnovata della politica contemporanea a causa delle possibilità offerte dalle ICT. Questo tipo di trasparenza è anche noto come governo aperto. D'altra parte, e questo è il senso più innovativo che desidero sottolineare qui, il MAS può essere trasparente nello stesso senso in cui lo è una tecnologia (ad esempio un'interfaccia): invisibile, non perché non sia lì, ma perché offre i suoi servizi in modo così efficiente, efficace e affidabile che la sua presenza è impercettibile. Quando qualcosa funziona al meglio, dietro le quinte per così dire, per essere certi di poter operare nel modo più efficiente e fluido possibile, abbiamo un sistema trasparente. Quando il MAS in questione è lo stato, questo secondo senso di trasparenza non deve essere visto come un modo surrettizio di introdurre, con una terminologia diversa, il concetto di "small state" o "small governance". Al contrario, in questo secondo senso, il MAS (lo stato) è trasparente e vitale quanto l'ossigeno che respiriamo. Si sforza di essere il maggiordomo ideale.16 Non esiste una terminologia standard per questo tipo di MAS trasparente che diventa percepibile solo quando è assente. Forse si può parlare di governo gentile. Sembra che i MAS siano tanto più in grado di supportare il giusto tipo di infrastruttura etica (ci torneremo in seguito) quanto più trasparente, cioè aperto e gentile, è il modo in cui svolgono il gioco negoziale attraverso il quale si prendono cura della res publica. Quando questo gioco negoziale fallisce, il risultato possibile è un conflitto sempre più violento tra le parti coinvolte. È una tragica possibilità che le ICT hanno seriamente riconfigurato. Tutto ciò non vuol dire che l'opacità non abbia le sue virtù. Bisogna prestare attenzione affinché il discorso sociopolitico non sia ridotto alle sfumature di quantità, qualità, intelligibilità e usabilità delle informazioni superiori e alle ICT. "Più è meglio" non è la sola, né sempre la migliore, regola empirica. Perché la non divulgazione delle informazioni può spesso fare una differenza positiva e significativa. Abbiamo già menzionato la divisione di Montesquieu dei poteri 16 Sul buon governo e sulle regole del gioco politico e globale, cfr. Brown e Marsden (2013). politici dello stato. Ciascuno di loro potrebbe essere attentamente opaco nel modo giusto per gli altri due. Per qualcuno potrebbe essere necessario non avere (o impedirsi intenzionalmente di accedere ad) alcune informazioni al fine di raggiungere obiettivi desiderabili, come la protezione dell'anonimato, il miglioramento di un trattamento equo o la messa in atto di valutazioni imparziali. Notoriamente, in Rawls (1999), il "velo dell'ignoranza" sfrutta proprio questo aspetto dell'informazione per sviluppare un approccio imparziale alla giustizia. Essere informati non è sempre una benedizione e potrebbe anche essere pericoloso o sbagliato, distraente o paralizzante. Il punto è che l'opacità non può essere considerata una buona caratteristica di un sistema politico a meno che non sia adottata esplicitamente e consapevolmente, dimostrando che non si tratta di un semplice errore. 3. INFRAETICA Parte degli sforzi etici generati dalla nostra condizione iperstorica riguarda la progettazione di ambienti che possano facilitare le scelte, le azioni o il processo etico dei MAS. Non è lo stesso concetto di etica per progetto. È piuttosto progetto pro-etico, come spero diventerà più chiaro nelle pagine seguenti. Entrambi sono liberali, ma il primo può essere leggermente paternalista, in quanto privilegia la facilitazione del giusto tipo di scelte, azioni, processi o interazioni per conto degli agenti coinvolti, mentre il secondo non necessariamente lo è, nella misura in cui privilegia la facilitazione della riflessione da parte degli agenti coinvolti sulle loro scelte, azioni o processi.17 Ad esempio, il primo può consentire alle persone di rinunciare alla preferenza predefinita in base alla quale, ottenendo una patente di guida, si è disposti anche a diventare donatori di organi. Il secondo può non consentire di ottenere una patente di guida a meno che non si decida se si desidera essere un donatore di organi. In questa sezione, chiamerò infrastruttura etica, o infraetica, gli ambienti che possono facilitare scelte, azioni o processi etici. Richiamerò l'attenzione del lettore sul problema del modo di progettare il giusto tipo di infraetica per i MAS emergenti. In diversi contesti o casi, la progettazione di un'infrastruttura liberale può essere più o meno paternalistica. La mia tesi è che dovrebbe essere tanto poco paternalistica quanto le circostanze lo consentano, sebbene non meno. 17 Ho cercato di sviluppare un'etica delle informazioni in (2010). Floridi (2013). Per un testo più introduttivo cfr. Floridi È un segno dei tempi il fatto che, quando parlano di infrastrutture al giorno d'oggi, i politici spesso pensano alle ICT. Non hanno torto. Dalle fortune imprenditoriali ai conflitti, ciò che fa funzionare le società contemporanee dipende sempre più dai bit piuttosto che dagli atomi. Abbiamo già visto tutto questo. Ciò che è meno ovvio, e filosoficamente più interessante, è che le ICT sembrano aver svelato un nuovo tipo di equazione. Consideriamo l'enfasi senza precedenti che le ICT hanno posto su fenomeni cruciali quali fiducia, privacy, trasparenza, libertà di espressione, apertura, diritti di proprietà intellettuale, lealtà, rispetto, affidabilità, reputazione, stato di diritto e così via. Questi sono probabilmente meglio compresi in termini di un'infrastruttura che esiste per facilitare o ostacolare (la riflessione su) il comportamento im/morale degli agenti coinvolti. Così, mettendo le nostre interazioni informatiche al centro della nostra vita, le ICT sembrano aver scoperto qualcosa che, naturalmente, è sempre esistito, ma in modo meno visibile: il fatto che il comportamento morale di una società di agenti è anche una questione di "infrastruttura etica" o semplicemente infraetica. Un aspetto importante delle nostre vite morali è sfuggito a gran parte della nostra attenzione e in effetti molti concetti e fenomeni correlati sono stati erroneamente trattati come se fossero solo etici, quando in realtà sono probabilmente per lo più infraetici. Per usare un termine dalla filosofia della tecnologia, hanno una natura a duplice uso: possono essere moralmente buoni, ma anche moralmente malvagi (riprenderemo questo concetto tra poco). La nuova equazione indica che, nello stesso modo in cui i sistemi aziendali e amministrativi, in una società economicamente matura, richiedono sempre più infrastrutture (trasporti, comunicazioni, servizi ecc.), anche le interazioni morali richiedono sempre più un'infraetica, in una società informatizzata matura. L'idea di un'infraetica è semplice, ma può essere fuorviante. L'equazione precedente aiuta a chiarirlo. Quando gli economisti e gli scienziati politici parlano di uno "stato fallito", possono riferirsi al fallimento di uno stato in quanto struttura nell'adempiere ai suoi ruoli fondamentali, come esercitare il controllo sui suoi confini, riscuotere tasse, far rispettare le leggi, amministrare la giustizia, fornire istruzione e così via. In altre parole, lo stato non riesce a fornire beni pubblici (ad esempio difesa e polizia) e di merito (ad esempio assistenza sanitaria). Oppure (un oppure troppo spesso inclusivo e intrecciato) possono riferirsi al crollo di uno stato in quanto infrastruttura o ambiente, che rende possibile e promuove il giusto tipo di interazioni sociali. Ciò significa che potrebbero riferirsi al crollo di un substrato di aspettative predefinite sulle condizioni economiche, politiche e sociali, come lo stato di diritto, il rispetto dei diritti civili, un senso di comunità politica, un dialogo civile tra persone dalla mentalità diversa, modi per raggiungere risoluzioni pacifiche di tensioni etniche, religiose o culturali e così via. Tutte queste aspettative, atteggiamenti, pratiche, in breve una simile "infrastruttura socio-politica" implicita, che si potrebbe dare per scontata, costituiscono un ingrediente vitale per il successo di qualsiasi società complessa. Svolgono un ruolo cruciale nelle interazioni umane, paragonabile a quello che ora siamo abituati ad attribuire alle infrastrutture fisiche in economia. Quindi, l'infraetica non dovrebbe essere intesa in termini di teoria marxista, come se fosse un semplice aggiornamento della vecchia idea di "base e sovrastruttura", perché gli elementi in questione sono completamente diversi: abbiamo a che fare con azioni morali e facilitatori "non ancora morali" di tali azioni morali. Né dovrebbe essere intesa in termini di una sorta di discorso normativo di secondo ordine sull'etica, perché è il quadro non ancora etico delle aspettative implicite, degli atteggiamenti e delle pratiche che può facilitare e promuovere decisioni e azioni morali. Allo stesso tempo, sarebbe anche sbagliato pensare che un'infraetica sia moralmente neutra. Piuttosto, ha una natura a duplice uso, come ho anticipato in precedenza: può sia facilitare sia ostacolare le azioni moralmente buone e quelle malvagie, e può farlo in diversi gradi. Al suo meglio, è il grasso che lubrifica il meccanismo morale. È più probabile che ciò accada ogni volta che la natura del "duplice uso" non significa che ogni uso è ugualmente probabile, cioè che l'infraetica in questione sia ancora non neutra, né semplicemente positiva, ma tenda a fornire più bene che male. Se questo è fonte di confusione, pensiamo a una natura a duplice uso non in termini di equilibrio, come una moneta ideale che può indicare sia testa sia croce, ma in termini di una compresenza di due risultati alternativi, uno dei quali è più probabile dell'altro, come in una moneta truccata che ha più probabilità di indicare testa che croce. Quando un'infraetica ha una natura di "duplice uso tendenziale", è facile scambiare l'infraetica con l'etica, dal momento che qualsiasi cosa aiuti la bontà a prosperare o il male a mettere radici partecipa alla loro natura. Qualsiasi società complessa di successo, sia questa la Città dell'Uomo o la Città di Dio, fa affidamento su un'infraetica implicita. Questo è pericoloso, perché la crescente importanza di un'infraetica può comportare il seguente rischio: che la legittimazione del fondamento etico si basi sul "valore" dell'infraetica volta a supportarlo. Supporto è scambiato per fondamento e potrebbe anche aspirare al ruolo di legittimante, portando a ciò che Lyotard ha criticato come mera "performatività" del sistema, indipendentemente dai valori reali apprezzati e perseguiti. L'infraetica è la sintassi vitale di una società, ma non è la sua semantica, per usare una distinzione popolare nell'intelligenza artificiale. Riguarda la forma strutturale, non i contenuti di significato. Abbiamo visto prima che persino una società in cui l'intera popolazione sia composta da angeli, cioè da agenti morali perfetti, ha ancora bisogno di norme per la collaborazione. Teoricamente, cioè, quando si assume che i valori moralmente buoni e l'infraetica che li promuove possano essere tenuti separati (un'astrazione che non si verifica mai nella realtà ma che facilita la nostra analisi), potrebbe esistere una società in cui l'intera popolazione è composta di fanatici nazisti che possono contare su alti livelli di fiducia, rispetto, affidabilità, lealtà, privacy, trasparenza e persino libertà di espressione, apertura e concorrenza leale. Chiaramente, ciò che vogliamo non è solo il meccanismo di successo fornito dalla giusta infraetica, ma anche la combinazione coerente tra questa e valori moralmente buoni, come i diritti civili. Ecco perché un equilibrio tra sicurezza e privacy, ad esempio, è così difficile da raggiungere, a meno che non chiariamo in primo luogo se stiamo affrontando una tensione all'interno dell'etica (sicurezza e privacy come diritti morali), all'interno dell'infraetica (entrambe sono intese come facilitatori non ancora etici), o tra infraetica (sicurezza) ed etica (privacy), come io sospetto. Affidiamoci a un'altra analogia: i tubi migliori (infraetica) possono migliorare il flusso ma non migliorano la qualità dell'acqua (etica), mentre l'acqua della migliore qualità è sprecata se i tubi sono arrugginiti o perdono. Quindi creare il giusto tipo di infraetica e conservarlo è una delle sfide cruciali del nostro tempo, perché un'infraetica non è moralmente buona in sé, ma è ciò che ha maggiori probabilità di produrre bontà morale se adeguatamente progettata e associata con i giusti valori morali. Il giusto tipo di infraetica dovrebbe essere presente per sostenere il giusto tipo di assiologia (teoria del valore). È certamente una parte fondamentale del problema riguardante la progettazione dei MAS giusti. Più una società diventa complessa, più importante e quindi saliente è il ruolo di un'infraetica ben progettata, eppure questo è esattamente ciò che sembra mancare. Si consideri il recente accordo commerciale anticontraffazione (ACTA), un trattato multinazionale riguardante gli standard internazionali per i diritti di proprietà intellettuale. Concentrandosi sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (IPR), i sostenitori dell'ACTA non si sono assolutamente accorti che ne sarebbe stata minata la stessa infraetica che speravano di favorire, ovvero ciò che promuove alcuni degli aspetti migliori e di maggior successo della nostra società dell'informazione. Avrebbe promosso l'inibizione strutturale di alcune delle libertà positive più importanti delle persone e la loro capacità di partecipare alla società dell'informazione, realizzando così il loro potenziale in qualità di organismi informativi. In mancanza di una parola migliore, ACTA avrebbe promosso una forma di informismo, paragonabile ad altre forme di inibizione dell'agenzia sociale come il classismo, il razzismo e il sessismo. A volte una difesa del liberalismo può essere inavvertitamente illiberale. Se vogliamo fare meglio, dobbiamo capire che questioni come i diritti di proprietà intellettuale fanno parte della nuova infraetica per la società dell'informazione, che la loro protezione deve trovare il suo posto attentamente equilibrato all'interno di una complessa infrastruttura legale ed etica già esistente e in continua evoluzione e che tale sistema deve essere messo al servizio dei giusti valori e comportamenti morali. Ciò significa trovare un compromesso, a livello di infraetica liberale, tra coloro che vedono la nuova legislazione (come ad esempio ACTA) come un semplice adempimento degli obblighi etici e legali esistenti (in questo caso degli accordi commerciali) e coloro che lo vedono come una fondamentale erosione delle libertà civili etiche e legali esistenti. Nelle società iperstoriche, qualsiasi regolamentazione che influisce sul modo in cui le persone trattano le informazioni è ora destinata a influenzare l'intera infosfera e l'habitat onlife in cui vivono. Quindi il rispetto dei diritti (come i diritti di proprietà intellettuale) diventa un problema ambientale. Ciò non significa che qualsiasi legislazione sia necessariamente negativa. La lezione qui riguarda la complessità: dal momento che diritti come i diritti di proprietà intellettuale fanno parte della nostra infraetica e influenzano l'intero ambiente inteso come infosfera, le conseguenze previste e non previste della loro applicazione sono diffuse, correlate e di ampia portata. Queste conseguenze devono essere attentamente considerate, perché gli errori genereranno enormi problemi che avranno costi a cascata per le generazioni future, sia eticamente sia economicamente. Il modo migliore per affrontare gli "ignoti noti" o le conseguenze non intenzionali è essere attenti, stare all'erta, monitorare lo sviluppo delle azioni intraprese ed essere pronti a rivedere rapidamente la propria decisione e strategia non appena inizia a comparire il tipo sbagliato di effetti. Festina lente, "maggiore è la fretta, minore è la velocità", come suggerisce il classico adagio. Non esiste una legislazione perfetta, ma solo una legislazione che può essere perfezionata più o meno facilmente. Buoni accordi sulla modellazione della nostra infraetica dovrebbero includere clausole sul loro aggiornamento tempestivo. Infine, è un errore pensare che siamo come estranei che governano un ambiente diverso da quello in cui abitiamo. I documenti legali (come ACTA) emergono dall'infosfera che influenzano. Costruiamo, restauriamo e ristrutturiamo la casa dall'interno, o si potrebbe dire che stiamo riparando la zattera durante la navigazione, per usare la metafora introdotta nella prefazione. Proprio perché l'intero problema del rispetto, della violazione e dell'applicazione dei diritti (come i diritti di proprietà intellettuale) è un problema infraetico e ambientale per le società dell'informazione avanzate, la cosa migliore che possiamo fare, per trovare la soluzione giusta, è applicare al processo stesso proprio la struttura infraetica e i valori etici che vorremmo che il processo promuovesse. Ciò significa che l'infosfera deve regolarsi dall'interno, non da un impossibile esterno. 4. CONCLUSIONE: L'ULTIMA DELLE GENERAZIONI STORICHE? Seimila anni fa, una generazione di umani assistette all'invenzione della scrittura e all'emergere delle condizioni che resero possibili città, regni, imperi e stati nazione. Questo non è casuale. Le società preistoriche sono prive di ICT e di stati. Lo stato è un fenomeno tipicamente storico. Emerge quando i gruppi umani smettono di vivere un'esistenza alla giornata in piccole comunità e iniziano a vivere con la coscienza del futuro, quando le grandi comunità diventano società politiche, con divisione del lavoro e ruoli specializzati, organizzati sotto una qualche forma di governo che gestisce le risorse attraverso il controllo delle ICT, compreso quel tipo di informazione molto speciale chiamato "denaro". Dalle tasse alla legislazione, dall'amministrazione della giustizia alla forza militare, dal censo alle infrastrutture sociali, lo stato è stato per lungo tempo il massimo agente dell'informazione e così ho suggerito che la storia, e soprattutto la modernità, sia l'era dello stato. Quasi a metà strada tra l'inizio della storia e ora, Platone stava ancora cercando di dare un senso ai due cambiamenti radicali: la codifica dei ricordi attraverso simboli scritti e le interazioni simbiotiche tra individui e polis, lo stato. Tra cinquant'anni, i nostri nipoti potrebbero considerarci l'ultima delle generazioni storiche organizzate dallo stato, non così diversamente dal modo in cui guardiamo le tribù amazzoniche, menzionate all'inizio di questo capitolo, come l'ultima delle società preistoriche prive di stato. Può essere necessario molto tempo prima che arriviamo a comprendere pienamente tali trasformazioni. Questo è un problema, perché non abbiamo altri sei millenni di fronte a noi. Non possiamo aspettare un altro Platone tra qualche millennio. Stiamo giocando una scommessa ambientale con le ICT e abbiamo solo poco tempo per vincere la partita, perché è in gioco il futuro del nostro pianeta. Meglio agire ora. Luciano Floridi Professor of Philosophy and Ethics of Information Director, Digital Ethics Lab Oxford Internet Institute | University of Oxford Faculty Fellow | Chair of the Data Ethics Group The Alan Turing Institute, London PA Ms Jessica Antonio FIGURE Figura 1 Dalla preistoria all'iperstoria Figura 2 Dallo stato ai MAS Riferimenti Brown, I., & Marsden, C. T. (2013). Regulating code : Good governance and better regulation in the information age. Cambridge, Mass.: MIT Press. Clarke, R. A., & Knake, R. K. (2010). Cyber war : The next threat to national security and what to do about it. New York: Ecco. Floridi, L. (2011). The philosophy of information. Oxford: Oxford University Press. Floridi, L. (2013). The ethics of information. Oxford: Oxford University Press. Floridi, L. (Ed.). (2010). The cambridge handbook of information and computer ethics. Cambridge: Cambridge University Press. Floridi, L., & Taddeo, M. (Eds.). (forthcoming). The ethics of information warfare. 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