Valiani o dell’intransigenza
A proposito di un libro sugli anni
di formazione di Leo Valiani
GIOVANNI STELLI
Sommario: 1. Leo Valiani o dell’intransigenza. – 2. La formazione del giovane
Valiani e l’adesione al partito comunista. – 3. Tra ortodossia e dissidenza. –
4. L’espulsione dal partito comunista e il graduale allontanamento dal socialismo
di estrema sinistra. – 5. Il partito comunista a Fiume alla fine degli anni Venti. –
6. Osservazioni critiche marginali. – 7. La difesa dell’italianità di Fiume, dell’Istria e di Zara.
1. Leo Valiani o dell’intransigenza
Io non sono qui in carcere […] per una qualche inavvertenza o
sventatezza politica, ma bensì perché sostengo indomito una durissima battaglia in difesa di una bandiera e di una libertà. È comprensibile e umano che i miei familiari, del tutto estranei alla mia
bandiera, cerchino di persuadermi alla resa e si voglia fare pressioni su di me anche attraverso di te. Simili tentativi sono però destinati a rimanere infruttuosi, perché io sono di ben altra tempra
di coloro che disertano adducendo doveri e necessità di famiglia.
Io ho dinanzi a me la strada segnata e nulla mi impedirà di percorrerla per intiero. La mia detenzione nelle carceri di questo paese
non è che una fase della battaglia in corso, una fase che può terminare in breve ma che può durare anche anni ed anni, né quest’ultima ipotesi mi impressiona. Sono pronto di [sic] passare in
carcere tutta la mia giovinezza pur di far fronte all’ardua mia missione. Se tutto ciò non ti spaventa, se senti nel cuore tuo sufficiente
amore, veste e coraggio per essere la fidanzata di un ribelle, che
ardentemente ti ama, attendimi ed io sono sicuro che l’attesa non
sarà vana. […]
Così il 14 aprile del 1928 scriveva Leo Valiani, che aveva allora
soltanto diciannove anni, alla sua fidanzata dal carcere di Fiume: alla fine di febbraio era stato fermato dalla polizia al confine tra Fiu3
me e Sušak e arrestato per aver attentato alla “sicurezza dello Stato”
ossia per attività antifascista. Il testo integrale della lettera è riportato da Andrea Ricciardi nel suo recente lavoro dedicato agli anni di
formazione del politico e storico fiumano1, lavoro importante in cui
vengono utilizzate in modo ampio e sistematico tutte le fonti archivistiche disponibili, oltre naturalmente agli scritti dello stesso Valiani.
Ricciardi cerca anche di fornire una chiave interpretativa della figura e della complessa vicenda intellettuale e politica di Valiani. Tale
chiave va individuata nell’intransigenza, di cui la lettera dal carcere
appena citata è una eloquente testimonianza. Si tratta di un’intransigenza morale prima ancora che politica; il radicalismo politico di Valiani è in effetti una conseguenza del suo radicalismo morale2. L’uomo politico fiumano concepiva l’attività politica, e più in generale la
vita, come missione3, termine che non a caso egli utilizza proprio nella lettera dell’aprile 1928 e che ha una chiara assonanza mazziniana
(pur non essendo documentata un’esplicita influenza di Mazzini sulla sua formazione culturale).
È questa intransigenza morale, che si sarebbe tentati di chiamare assoluta, a cui si accompagnano un disinteresse personale e una onestà intellettuale altrettanto assoluti, a costituire il filo rosso dell’attività politica di Valiani: dai due processi davanti al Tribunale Speciale
all’adesione al Partito comunista d’Italia (Pcd’I), dal suo abbandono
della prospettiva comunista all’adesione a “Giustizia e Libertà”, dal suo
ruolo nella Resistenza al suo ritiro dall’attività politica nel 1947.
Come è noto, Valiani viene arrestato giovanissimo per attività antifascista e subisce un primo processo nel 1928. Negli interrogatori
nega ogni addebito specifico, ma non nasconde le sue idee politiche,
anzi dichiara con orgoglio: “sono di fede socialista e professo tali sen-
1
Andrea Ricciardi, Leo Valiani. Gli anni della formazione. Tra socialismo, comunismo
e rivoluzione democratica, Milano 2007, FrancoAngeli; la lettera citata è riportata alle pp. 92 sg. Prima dell’uscita dello studio di Ricciardi, un profilo biografico di Valiani era stato fornito da Anna Pala (Leo Valiani, una vita per la democrazia, in Annali
dell’Istituto Ugo La Malfa, vol. XI, Roma 1996, pp. 147-217), autrice anche di una fondamentale intervista al politico fiumano (Dal comunismo all’azionismo. Intervista a
Leo Valiani, in ibid., pp. 219-255).
2 A. Ricciardi, Op. cit., p. 11: “[…] è proprio il radicalismo, sotto forma di intransigenza morale più che di fedeltà a un’ideologia politica, che, con l’antifascismo, rimarrà il suo tratto distintivo fino alla fine”.
3 Ibid., pp. 11 sg.
4
Leo Valiani a Roma il 4 dicembre 1982
timenti fin dalla rivoluzione ungherese di Karoly”4. Viene assolto, anche perché il Tribunale speciale sottovaluta, forse per la giovane età
dell’imputato, alcuni indizi compromettenti di una sua attività non
semplicemente giornalistica, ma cospirativa5. Viene però condannato
a quattro anni (poi ridotti a uno) di confino da scontare a Ponza, poiché la Commissione istruttoria del Tribunale speciale ritiene che egli
abbia comunque manifestato “il proposito di commettere atti diretti
a sovvertire violentemente gli ordinamenti Nazionali […] a contra-
4
5
Ibid., p. 82.
Ibid., pp. 95 sg.
5
stare e ostacolare l’azione dei Poteri dello Stato per modo da recare
nocumento agli interessi Nazionali in relazione alla situazione interna e internazionale”6.
Nuovamente arrestato alla fine del febbraio 1931, Valiani subisce
un secondo processo davanti al Tribunale speciale. Dopo aver aderito alla fine del 1928, mentre era a Ponza, al Pcd’I, è diventato il principale punto di riferimento dell’organizzazione comunista di Fiume e
il capo della cellula da lui stesso costituita nella Banca Mobiliare dove lavora. L’arresto di Valiani è parte di una vasta azione di polizia
che smantella l’organizzazione comunista fiumana. Anche in questa
circostanza il comportamento del ventiduenne rivoluzionario è limpido e coerente: “Sono da parecchi anni militante comunista”, dichiara ai funzionari di polizia che lo interrogano, “e per conseguenza non sono disposto a rispondere alle eventuali contestazioni che mi
venissero fatte”. Ammette di essersi procurato una pistola dietro ordine del Partito, perché bisogna “essere preparati. Ed io sono preparato”7. Nega naturalmente gli addebiti specifici, ma in seguito alle ammissioni del collega di lavoro e di cellula Stefancich, si assume
pienamente le sue responsabilità8. Davanti al Tribunale speciale dichiara: “Confesso di aver commesso tutti i reati che mi vengono contestati […]. Confermo specificatamente di essere stato il dirigente del
movimento comunista in Fiume e provincia”. Con sentenza del 26 novembre 1931 Valiani viene condannato a 12 anni e 7 mesi di reclusione e a 5 anni di libertà vigilata, una pena molto più dura di quelle inflitte agli altri imputati9.
2. La formazione del giovane Valiani e l’adesione al partito comunista
La formazione culturale e politica, precocissima, di Valiani, continua a presentare, nonostante le preziose indagini di Ricciardi, parecchi punti oscuri, forse destinati ormai a restare tali. È evidente, in
ogni caso, che il filo rosso è costituito da una prospettiva rivoluzio-
6
7
8
9
6
Ibid.,
Ibid.,
Ibid.,
Ibid.,
p. 103.
p. 121.
pp. 125 sgg.
pp. 130 e 133 sg.
naria radicale che trova col passare del tempo e il mutare delle vicende storiche diverse espressioni politiche: dall’iniziale socialismo influenzato dal sindacalismo rivoluzionario di Sorel – nel 1926 Valiani
“evoca addirittura il «terrore sindacale» come elemento fondamentale per l’affermazione delle istanze del proletariato”10 – al comunismo
leninista del Pcd’I, di cui più che l’ideologia lo affascina la capacità di
combattere (“Quando li [sc. i comunisti] ho conosciuti mi sembrava
che fossero più capaci di combattere, dei socialisti”11), fino al radicalismo democratico-rivoluzionario di “Giustizia e Libertà” prima e del
Partito d’Azione poi.
È sempre questa intransigenza che spiega il fascino esercitato sul
giovane Valiani da alcuni personaggi, a cominciare dal socialista triestino Ermanno Bartellini, uomo di vasta cultura, che lo spinse a leggere le opere complete di Marx e di Engels, ma soprattutto oppositore e cospiratore antifascista alla guida di un gruppo che si richiamava
a Gobetti e a Carlo Rosselli e si raccoglieva attorno alla rivista Pietre,
pubblicata a Genova negli anni 1926-192812.
Nel periodo del confino a Ponza fu Giuseppe Berti, allora dirigente giovanile del partito comunista, ad influenzare il giovane rivoluzionario fiumano, prospettandogli la necessità “di dar vita a un’organizzazione clandestina per continuare la lotta in Italia, oltre che
all’estero” e convincendolo ad iscriversi al partito13. A Ponza Valiani
conosce anche Lelio Basso e Amadeo Bordiga, due figure su cui Ricciardi non si sofferma, anche se la loro influenza, per così dire, in negativo su Valiani non ci sembra da sottovalutare. Di Basso, convinto
rivoluzionario e marxista non leninista (sarà Basso nel dopoguerra a
far conoscere in Italia gli scritti di Rosa Luxemburg e a dirigere la rivista marxista eterodossa Problemi del socialismo), Valiani non riusciva a comprendere quella che gli sembrava un’incoerenza inaccettabile in un periodo di lotta illegale contro il regime:
Lelio Basso era un rivoluzionario, e io gli dicevo: “Ma allora perché non aderisci al partito comunista?”. Infatti lui esitò, poi non
aderì mai, rimase sempre un socialista di sinistra. Ma, invece, mi
10
11
12
13
Ibid., p. 73.
A. Pala, Dal comunismo all’azionismo. Intervista a Leo Valiani cit., p. 225.
A. Ricciardi, Op. cit., pp. 78, 86 sgg.
Ibid., p. 111. ì
7
sembrava che, o si andava con i socialdemocratici riformisti, o tanto valeva aderire al partito comunista.14
Ciò che lo allontanò da Bordiga fu invece la tesi attendista sostenuta dal dirigente comunista napoletano, il quale “non era per la lotta clandestina, ma solo per un apparato clandestino che stesse fermo
ad aspettare il momento della rivoluzione, […] che avrebbe agito nel
momento in cui le masse fossero insorte”, mentre Berti, seguace delle
idee di Gramsci, sosteneva la necessità di un lavoro politico clandestino costante e deciso fra le masse operaie. Valiani fu quindi subito
gramsciano, senza conoscere Gramsci, come ha scritto lui stesso:
[…] i gramsciani dicevano che ci sarebbe voluto un tentativo costante, uno sforzo costante di penetrare fra le masse operaie con
le cellule. A me sembrava giusta questa tesi di Gramsci. Più che le
idee di Gramsci, che conoscevo appena superficialmente, proprio
le direttive organizzative di Gramsci: formare delle cellule, cercare di essere presenti fra gli operai, anche eventualmente fra gli altri ceti, se possibile. Mi sembrava giusto e mi sembra giusto anche
retrospettivamente.15
E nel 1932 fu Pietro Secchia, incontrato nel carcere di Lucca, a
colpire profondamente il rivoluzionario fiumano: fu in qualche modo
l’incontro di due intransigenze. Ha scritto a tal proposito lo stesso
Valiani:
Botte [sc. Secchia] tracciava il programma di vita per tutti. Era
molto semplice: appena si sono finiti gli anni di carcere, si ricominciava a combattere. Chi ritorna in libertà, prende il posto di chi
è arrestato. Si forma così una catena circolare, che il fascismo non
riuscirà a spezzare. Un giorno o l’altro, il fascismo si troverà in crisi, per ragioni internazionali o economiche. Quel giorno la nostra
catena lo paralizzerà, lo serrerà alla gola. Erano le stesse cose che
da Rosselli avevo appreso nel 1926, ma Rosselli ne faceva una teoria di élite […]. Botte ne faceva una norma di vita di migliaia di
giovani operai, impiegati, contadini.16
14
15
16
8
A. Pala, Dal comunismo all’azionismo. Intervista a Leo Valiani cit., p. 225.
Ibid., pp. 226 sg. e 227.
A. Ricciardi, Op. cit., pp. 140 sg.; cfr. anche p. 20.
Interessante in questa testimonianza è il riferimento a Carlo Rosselli; alle posizioni di Rosselli – la cui matrice ideologica restò sempre, al di là di oscillazioni e mutamenti, non marxista – Valiani “ritornerà” in qualche modo dopo la fuoriuscita dal partito comunista.
A ben vedere, la distanza tra la concezione marxista-leninista di Secchia e quella di Rosselli è minore di quanto non appaia a prima vista
e di quanto lo stesso Valiani non sembri ritenere nel passo appena citato. Al di là delle differenze di analisi economica e politica, in entrambi i casi si tratta infatti della visione di una rivoluzione guidata
da una élite: nel caso del comunista Secchia la rivoluzione è guidata
dal partito comunista che, in quanto “reparto di avanguardia del proletariato”, porta dall’esterno, secondo l’insegnamento di Lenin, la coscienza rivoluzionaria alle masse, capaci di per sé della sola coscienza di classe ossia sindacale; nel caso di Rosselli, di “Giustizia e Libertà”
e del Partito d’azione, la rivoluzione è guidata da ristretti gruppi di
intellettuali detentori di una conoscenza e di una moralità “superiori” in grado di “illuminare” e guidare le masse17.
3. Tra ortodossia e dissidenza
Centrale nella vicenda politica e umana di Valiani è indubbiamente il suo abbandono della prassi politica e della ideologia comuniste, maturato nel corso degli anni Trenta e sancito ufficialmente dalla sua espulsione dal partito nel 1939. L’itinerario che portò a questo
esito fu tuttavia, come Ricciardi mette minuziosamente in luce, assai
sofferto e complesso e l’esito stesso ebbe in un primo tempo il significato di un allontanamento politico più che di una vera e propria “rottura” ideologica.
Che già nel periodo del confino a Ponza, ossia proprio nel momento della sua adesione al partito, Valiani potesse nutrire dei dubbi, per esempio sulle accuse rivolte a Trockij dal gruppo dirigente del-
17 Questo aspetto è parzialmente evidenziato da Antonello Venturi nella sua testimonianza riportata da Ricciardi (ibid., p. 15 n. 10): ancora negli anni Sessanta Valiani avrebbe conservato una “mentalità vetero-rivoluzionaria, nel senso che egli non
aveva smesso di provare a indirizzare dall’alto la società, quasi come se un piccolo
gruppo di uomini «giusti» e determinati potesse ancora «fare la rivoluzione»; s’intende una rivoluzione diversa da quella degli anni Venti e Trenta”.
9
l’URSS guidato da Stalin, ha scarsa importanza: si trattava di dubbi
politici, condivisi da molti militanti comunisti, che non intaccavano
minimamente la fiducia nella “patria del socialismo” e nella politica
dell’Internazionale Comunista18.
Il percorso che porterà Valiani a mettere in questione la sua appartenenza politica ha inizio invece nel periodo della sua permanenza in Francia. In seguito a vari provvedimenti di clemenza e di riduzione della pena il rivoluzionario fiumano (che è ufficialmente
apolide, quindi straniero in Italia, e in possesso di un passaporto ungherese) esce dal carcere di Civitavecchia il 7 marzo 1936 con un decreto di espulsione dal paese. Di lì a poco lo troviamo a Parigi, giornalista e militante politico; nell’estate del 1936 è inviato in Spagna
come corrispondente del Grido del popolo19, giornale comunista per
gli emigrati italiani in Francia. E proprio a partire dall’autunno del
1936, per quanto ufficialmente allineato sulle posizioni dell’Internazionale, dalla cosiddetta svolta a sinistra alla “controsvolta” dei fronti popolari, Valiani collabora a due periodici comunisti dissidenti, Que
faire? e Drapeau rouge, firmando i suoi articoli con lo pseudonimo di
Paul Chevalier20.
Di che natura era questa dissidenza di Valiani? Che avesse anche
una dimensione organizzativa sembra poco plausibile, nonostante
lo stesso Valiani abbia sostenuto vent’anni dopo, in una lettera ad
Ernesto Rossi sul XX Congresso del Pcus e il rapporto segreto di Kusciov, di aver organizzato “nel lontano 1936” con André Ferrat, fondatore e direttore di Que faire?, una “associazione segreta anti-staliniana”, senza peraltro entrare nei particolari21. Si trattava molto
probabilmente di contatti, magari frequenti e periodici, tra dissiden-
18
A. Pala, Leo Valiani, una vita per la democrazia cit., p. 173.
A. Ricciardi, Op. cit., p. 178.
20 Ibid., pp. 184 sgg.; queste collaborazioni di Valiani erano state ricordate già dalla
Pala (Leo Valiani, una vita per la democrazia cit., p. 184 sgg.); Ricciardi (ibidem)
precisa il retroterra ideologico della rivista mensile Que faire?, che non era affatto
trockijsta – come ha scritto Arturo Colombo (Un trotzkista chiamato Chevallier [sic],
il futuro Leo Valiani, in Corriere della sera, 26.6.2007), considerando trockista lo stesso
Valiani –, tanto è vero che era accusata dai trockisti autentici di “stalinismo di sinistra”: gli animatori di Que faire? erano comunisti che non condividevano le analisi di
Trockij sulla natura dell’Unione Sovietica, ma erano in profondo disaccordo con l’appiattimento del Comintern sulle scelte politiche di Stalin.
21 A. Ricciardi, Op. cit., pp. 185 sg..
19
10
ti, ma nulla di più. Sul piano dei contenuti, le posizioni espresse da
Valiani sono del tutto interne al marxismo rivoluzionario e si collocano a sinistra della politica seguita dai partiti comunisti e dall’Internazionale; ciò risulta soprattutto dalle critiche al partito comunista spagnolo, considerato, da una parte, troppo conciliante verso la
media e piccola borghesia e, dall’altra, violento e prevaricatore nei
confronti degli alleati del fronte popolare, propenso ad instaurare una
dittatura burocratica22. In questa prospettiva di “estrema sinistra” viene denunciata, come si vede, anche la vocazione autoritaria e violenta dei partiti comunisti, denuncia che assume un carattere profetico,
perché la resa dei conti in Spagna avverrà di lì a poco con la persecuzione scatenata dai comunisti filosovietici contro i loro avversari all’interno del fronte popolare23.
Dal 1936 al 1939 Valiani si muove, come sottolinea Ricciardi,
“su due dimensioni sempre più distanti tra loro: quella dell’ortodossia filosovietica e quella del marxismo dissidente ed eretico, ostile alla prassi politica dei partiti comunisti inquadrati nel Comintern
e all’impianto dottrinario staliniano”24. Questa distanza crescente non
diventa tuttavia una contraddizione dirompente e ciò per due ragioni: in primo luogo, perché agli occhi di Valiani, e di molti antifascisti
anche non comunisti, la lotta antifascista mantiene la priorità su ogni
altro problema e l’Unione Sovietica è vista come un alleato indispensabile, se non addirittura un baluardo, in questa lotta; in secondo luogo, perché il regime sovietico viene considerato, nonostante tutto, riformabile. Che Valiani non abbia abbandonato il partito in questi anni
si spiega quindi con la posizione complessiva del rivoluzionario fiumano, le cui critiche non investivano la sostanza ideologica e politi-
22
Ibid., pp. 187 sg., 189, 191, 198 sg.
Ibid., pp. 192 sg.
24 Ibid., p. 194. Di questa sorta di doppio binario aveva parlato anche la Pala, enfatizzando, più di Ricciardi e, a nostro avviso, forse più del dovuto, “le aspre critiche
al Partito comunista spagnolo” che avrebbero nascosto “la disapprovazione nei confronti del Pcd’I e dell’Unione Sovietica ormai stalinizzata” (Leo Valiani, una vita per
la democrazia cit., p. 188). Che nel clima di sospetto di quegli anni, che si traduceva
in una sorveglianza quasi poliziesca sui militanti, i vertici del Pcd’I fossero del tutto
all’oscuro della collaborazione di Valiani a periodici dissidenti è poco plausibile. Forse, come ipotizza Ricciardi, Valiani fu coperto proprio dall’ultraortodosso Berti, che
intendeva così salvare se stesso, essendo stato lui nel 1928 ad indurre il giovane fiumano ad entrare nel partito (Ibid., pp. 211, 213)!
23
11
ca del comunismo marxista-leninista; i consigli “entristi” degli animatori di Que faire?, che si proponevano di fare una opposizione interna all’Internazionale, fino a quando “al posto di Stalin ci sarà qualcun altro e si rigenererà l’Internazionale” erano quindi coerenti con
tale posizione e furono pertanto accettati da Valiani senza alcuna difficoltà25.
Altri fattori giocarono un ruolo decisivo nella maturazione di un
atteggiamento sempre più critico di Valiani nei confronti del comunismo. Un primo fattore, culturale e politico insieme, è costituito dalla conoscenza, avvenuta nella primavera del 1937 e diventata rapidamente solida amicizia, di Franco Venturi e di Aldo Garosci, decisi
oppositori del fascismo e valenti studiosi di matrice non marxista. È
sotto la loro influenza che Valiani comincia lentamente a distaccarsi
sul serio dal comunismo e a sostituire la rivoluzione comunista con
la rivoluzione democratica26.
La posizione assunta allora da “Giustizia e Libertà” (GL), di cui facevano parte Venturi e Garosci, era la più adatta a favorire un distacco
“morbido” di Valiani dal partito comunista: il politico fiumano, che
continuava ad avere una prospettiva rivoluzionaria di tipo socialista
e a considerare fondamentale l’unità con i comunisti nella lotta antifascista, poteva guardare con simpatia a GL che, ribattezzatasi da poco “movimento di unificazione socialista”, era favorevole all’unità di
azione con i comunisti27. In tal modo il distacco politico di Valiani dal
partito poteva maturare senza traumi, mentre Venturi e Garosci, che
non erano ideologicamente marxisti ed avevano una grande apertura
culturale, contribuivano alla graduale trasformazione delle sue convinzioni ideologiche di fondo in senso liberaldemocratico.
È con Venturi e Garosci che Valiani discute, per esempio, la tesi
allora del tutto controcorrente del filosofo e storico Élie Halévy “secondo cui il socialismo rappresenterebbe la vittoria dello stato centralizzato, capace di controllare attraverso la burocrazia anche la vita economica,e approderebbe inevitabilmente a una tirannide […] per
alcuni aspetti avvicinabile a fascismo e nazismo e, quindi, incapace
di salvaguardare le libertà individuali”28. Si tratta di letture e discus-
25
26
27
28
Cfr. A. Pala, Dal comunismo all’azionismo. Intervista a Leo Valiani cit., p. 235.
A. Ricciardi, Op. cit., pp. 196 sgg. e soprattutto 214 sgg.
Ibid., pp. 219 sg.
Ibid., p. 221.
12
Aldo Garosci
Franco Venturi
sioni che non hanno una influenza immediata, poiché Valiani in quegli anni crede ancora nella possibilità di una trasformazione democratica dell’Unione Sovietica29, ma che fanno comunque vacillare certezze acquisite e produrranno tutti i loro effetti più tardi. Nella critica
del Valiani degli ultimi anni alle nazionalizzazioni e all’idea del governo come unico datore di lavoro è senz’altro ravvisabile, anche se
non menzionata, l’influenza di autori come Halévy30.
In ogni caso ancora nel 1939, l’anno della sua espulsione dal
partito, Valiani si definiva “un rivoluzionario socialista”, assai lontano dal riformismo e gradualismo socialista. Come osserva puntualmente Ricciardi, “[a]lla vigilia della guerra Valiani non si può considerare certamente un liberaldemocratico bensì una sorta di comunista
libertario, che sta cercando una strada per superare concretamente il
dogmatismo filosovietico del Pcd’I ma non è ancora arrivato alla
29
Idea questa che sarà peraltro condivisa dal Partito d’Azione e da Venturi anche nel
dopoguerra, soprattutto dopo l’avvento di Krusciov, ma non da Garosci e nemmeno
dal Valiani maturo che, a partire dalla fine degli anni Quaranta, abbandonerà ogni
illusione a tal proposito; cfr. ibid., pp. 221 sg., n. 132.
30 Cfr. A. Pala, Dal comunismo all’azionismo. Intervista a Leo Valiani cit., p. 253: “[…]
se l’unico datore di lavoro è il governo, viene la tirannide, perché se non sei d’accordo ti licenziano, e non puoi trovare un’altra occupazione perché è tutto statizzato,
quindi fai la fame”.
13
piena teorizzazione di quella rivoluzione democratica che […] sarà il
cavallo di battaglia del Pda [sc. Partito d’Azione] del Nord Italia,
guidato proprio da Valiani a partire dal 1943” e che comporterà il superamento della lotta di classe “in una più ampio disegno di guerra
interclassista di liberazione nazionale”31.
4. L’espulsione dal partito comunista e il graduale allontanamento
dal socialismo di estrema sinistra
Il fattore immediato che portò il rivoluzionario fiumano alla decisione di abbandonare il partito comunista fu il patto RibbentropMolotov. Già i processi di Mosca, il cui triennio si chiude nel 1938,
avevano prodotto all’interno del Pcd’I gravi lacerazioni seguite da
un’ondata di epurazioni e per la prima volta Valiani si era pubblicamente dissociato da Berti, che aveva messo sotto accusa Sereni32. Ma
è il patto che rivela a Valiani, come sottolinea Ricciardi, il vero volto
dell’Urss, “quello di una potenza imperiale capace di allearsi, sia pure per fini tattico-strategici, con il regime che fino a quel momento è
stato identificato come il peggior nemico del proletariato”33. Il patto,
che provoca opposizioni ed espulsioni in diversi partiti comunisti europei (dal Pcd’I vengono espulsi Terracini e Ravera), viene vissuto da
Valiani come un tradimento dell’antifascismo34 che rende impossibile la sua permanenza nel partito. Ma il suo comportamento è caratteristico: potrebbe abiurare e sottrarsi così alle misure decise dal governo francese che scioglie le organizzazioni comuniste e manda i
comunisti in campi di internamento, ma non vuole essere sospettato
di opportunismo; decide quindi di restare nel partito e di lasciarlo
solo “quando si fosse trovato in galera e quindi in una situazione
identica a quella di molti compagni con cui aveva fin lì condiviso
una parte importante della sua esistenza e da cui era stato aiutato
anche materialmente”35. Ricorderà oltre quarant’anni dopo lo stesso
Valiani:
31
32
33
34
35
A. Ricciardi, Op. cit., p. 235.
Ibid., pp. 209 sgg.
Ibid., pp. 236 e sgg.
Ibid., p. 237.
Ibid., p. 239.
14
Mi sembrava una viltà uscirne [sc. dal partito] per restare libero.
Capisco che oggi sembra persino ridicolo, ma io ero sentimentalmente legato al partito, nel quale militavo da dieci anni, sei dei quali trascorsi in prigione. Decisi di tacere per il momento, di aspettare di essere inviato in campo di concentramento anch’io come
tutti i comunisti italiani, e poi uscire dal partito; e così feci.36
Valiani viene arrestato dalla polizia francese alla fine di settembre 1939, rinchiuso per una decina di giorni al Roland Garros e poi
inviato, insieme a molti comunisti italiani, nel campo di internamento di Le Vernet d’Ariège sui Pirenei. Qui manifesta finalmente il suo
dissenso ai capi del partito, inviando loro dei bigliettini in cui esprime le sue critiche alla linea del partito e dell’Internazionale. Viene
espulso soprattutto per la sua posizione su Trockij; amici e vecchi
compagni di carcere gli tolgono il saluto; un militante si reca addirittura dalla moglie Nidia per convincerla, per fortuna senza successo,
a lasciare il marito considerato ormai un traditore37!
È sempre nel campo di Fernet che Valiani, in occasione di una
visita di Venturi, aderisce ufficialmente a “Giustizia e Libertà”38. L’allontanamento dal partito non significa affatto per il rivoluzionario fiumano un allontanamento dalla politica attiva, bensì semplicemente
(anche se non è poco) una ridefinizione della propria collocazione politica: da non comunista, egli sostiene ora la necessità di allearsi con
i comunisti nella lotta antifascista.
In effetti nel 1939 Valiani ha maturato un deciso distacco politico dal partito comunista, ma non è ancora pervenuto a un autentico
distacco ideologico dal comunismo. Si tratta di un processo che si svilupperà nel corso degli anni successivi, per raggiungere una definitiva chiarezza nell’immediato dopoguerra, alla fine degli anni Quaranta. Su questo distacco ideologico influiranno, oltre naturalmente alle
discussioni con Venturi e Garosci e alle suggestioni di varie letture,
come quella, menzionata in precedenza, degli scritti di Halévy, la conoscenza personale di alcuni grandi “fuoriusciti” del comunismo, come
36
Ibid., pp. 240 sg. Anche altri comunisti in dissenso col patto, come Parodi e Di Vittorio, si comportarono allo stesso modo (cfr. A. Pala, Dal comunismo all’azionismo.
Intervista a Leo Valiani cit., pp. 240 sg.).
37 A. Ricciardi, Op. cit., pp. 241 sgg.; in particolare pp. 245 sg.
38 Ibid., p. 248.
15
Arthur Koestler, e di “eretici” perseguitati come Victor Serge e Julián
Gorkin, esponente del Poum (Partito operaio di unificazione marxista) spagnolo annientato dai comunisti staliniani.
È nel periodo del suo internamento al Roland Garros e a Le Vernet
che Valiani incontra Arthur Koestler, che ha ormai rotto col comunismo
in un modo ben più radicale di quanto non abbia fatto il fiumano, e discute con lui il suo percorso politico39. Conosce invece Victor Serge e Julián Gorkin in Messico, dove si è rifugiato dopo la sua fuga dal campo
di Fernet40. Le conversazioni con Serge e Gorkin furono con ogni probabilità decisive nella evoluzione ideologica di Valiani41. Ma in Messico
legge anche le opere di Keynes e discute del New Deal di Roosevelt, “una
scoperta rivelatrice”, secondo la sua stessa testimonianza42.
Il periodo 1940-1943 è quindi il periodo in cui avviene il definitivo
distacco ideologico di Valiani dal socialismo di estrema sinistra e dal
marxismo. Anche se Ricciardi segnala come ancora nel 1941, in una
lettera a Montagnana, Valiani manifesti una posizione oscillante e, aggiungiamo noi, una concezione quasi religiosa del partito da cui è stato espulso due anni prima43, non sembra potersi dubitare della sostanziale veridicità della testimonianza resa dallo stesso politico fiumano:
[…] in tre anni, dal ’40 al ’43, lessi un sacco di cose che prima non
avevo letto, cioè tutta la letteratura antistaliniana, non solo trockijsta ma anche liberale e democratica, quindi quando entrai nel
Partito d’Azione [nel 1943, NdR], tre anni e mezzo dopo essere uscito dal Pcd’I, mi ero convinto che il socialismo di estrema sinistra
non funzionasse. Capii che aveva avuto ragione Rosselli, che il socialismo deve essere socialismo liberale, democratico, non di estrema sinistra.44
Ricciardi non si occupa, dati i limiti cronologici del suo lavoro,
del ruolo svolto da Valiani nella Resistenza e nell’immediato dopoguerra. Vogliamo qui soltanto accennare al ritiro di Valiani dalla vita
politica attiva, poiché questo ritiro ci sembra documentare ulterior-
39
40
41
42
43
44
Ibid., p. 244.
Ibid., pp. 249 sgg.
Ibid., pp. 265 sg.
Ibid., p. 263.
Ibid., pp. 264 sg..
A. Pala, Dal comunismo all’azionismo. Intervista a Leo Valiani cit., p. 248.
16
mente gli aspetti essenziali del suo carattere, l’intransigenza, l’assoluto disinteresse e la cristallina onestà intellettuale.
Riprendiamo le argomentazioni sviluppate dallo stesso Valiani in
una fondamentale intervista, a cui abbiamo già fatto ricorso. Con la
caduta del governo Parri alla fine del 1945, sostiene in questa intervista Valiani, la prospettiva della “rivoluzione democratica”, la prospettiva del Partito d’Azione, era definitivamente tramontata: “le
masse, se fossero state rivoluzionarie, avrebbero difeso Parri contro De
Gasperi. Non difendendo Parri dimostrarono di non essere rivoluzionarie”. Bisognava prendere atto di questa situazione, come aveva compreso La Malfa che voleva spostare il Partito d’Azione su posizioni non
rivoluzionarie, su posizioni riformiste, e così salvarlo. Ma ciò non fu
compreso dagli altri dirigenti del partito e nemmeno dallo stesso Valiani e il Partito d’Azione si dissolse45.
Esaurita la funzione storica del Partito d’azione, Valiani non trova
più una collocazione politica. Simpatizza con i socialdemocratici di Saragat, perché decisamente anticomunisti, ma non entra nel Psdi, perché
la sua scelta sarebbe stata isolata e anche perché “questo partito andava sempre più a destra”. D’altra parte, non è d’accordo con la confluenza nel Partito Socialista Italiano di ciò che resta del Partito d’Azione, perché ritiene il Psi troppo vicino al Pci46. Così, quando non ha ancora
quarant’anni, forte di un prestigio morale e politico indiscusso, Valiani
si ritira dalla vita politica attiva, per dedicarsi al giornalismo e agli studi storici, nei quali lascerà un segno profondo e duraturo47.
5. Il partito comunista a Fiume alla fine degli anni Venti
Un motivo non secondario di interesse presente nello studio di
Ricciardi è costituito dalle pagine dedicate indirettamente al partito
comunista e, più in generale, alla opposizione antifascista a Fiume
nella seconda metà degli anni Venti. Oltre a tener conto di quello che,
45
Ibid., pp. 248 sgg.
Ibid., pp. 249 sgg.; Leo Valiani, una vita per la democrazia cit., p. 202.
47 Verso la metà degli anni Cinquanta Valiani, mantenendosi comunque sempre in
una posizione “esterna”, darà il suo appoggio al Psu di Silone e Romita e alla Uil di
Viglianesi, e negli anni Sessanta si avvicinerà sempre più a Ugo La Malfa, sostenendo l’“apertura a sinistra” (A. Ricciardi, Op. cit., pp. 28 sgg.).
46
17
a nostra conoscenza, è finora l’unico studio specifico su questo tema
ossia il lavoro di Luciano Giuricin, Il Movimento operaio e comunista
a Fiume: 1924-1941 (in Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, “Quaderni”, vol. VII, Rovigno 1984), Ricciardi attinge ad una vasta documentazione archivistica, che illumina in particolare la situazione nel
periodo che va dal 1929 agli inizi del 1931, quando, come si è visto,
la polizia smantella l’organizzazione comunista fiumana.
Dalla ricostruzione di Ricciardi risulta che quando nell’agosto del
1929, dopo il confino scontato a Ponza, Valiani, ormai iscritto al Pcd’I,
rientra a Fiume e viene riassunto dalla Banca Mobiliare, si inserisce
senza difficoltà in una struttura organizzativa consolidata e abbastanza diffusa sul territorio. La federazione del partito comunista di
Fiume, di cui è segretario Candido Mihich (che Valiani rincontrerà in
Messico nel 1941) “collabora dal 1926 col Partito comunista jugoslavo di Susak [recte: Sušak], col quale ha costituito un comitato interpartitico che si impegna, in modo particolare, nell’organizzare l’espatrio clandestino di antifascisti diretti in Francia attraverso la via
Fiume-Susak-Lubiana”. L’attività dei comunisti fiumani, che hanno il
loro centro organizzativo presso la Raffineria Olii Minerali (Romsa),
consiste soprattutto nella diffusione della stampa clandestina e nella
raccolta di fondi per il Soccorso Rosso48.
L’arrivo di Valiani nella città quarnerina – insieme a quello di
Luigi Frausin, membro del Comitato centrale del Pcd’I e chiamato a
guidare il Comitato regionale delle Tre Venezie – imprime un nuovo
impulso all’attività del partito, messo a dura prova dalla pressione della polizia, che aveva costretto Mihich a trasferirsi a Sušak e a cedere
la direzione della federazione del Carnaro a Beniamino Peloso. Peloso era in realtà un infiltrato, confidente politico della Questura di Fiume, e sarà lui a contribuire allo smantellamento dell’organizzazione
comunista fiumana nel febbraio del 193149.
Nel quadro disegnato da Ricciardi non vengono menzionate altre forze antifasciste fiumane. Una ricerca su questo tema sarebbe
senz’altro opportuna, in particolare sull’atteggiamento e l’attività degli autonomisti zanelliani, nonché sui loro eventuali rapporti con altre forze di opposizione (come i repubblicani), dalla fine degli anni
Venti a tutti gli anni Trenta.
48
49
A. Ricciardi, Op. cit., pp. 113 sgg.; su Candido Mihich, cfr. ibid., pp. 114, 116 e 265.
Ibid., pp. 115, 120 sg.
18
6. Osservazioni critiche marginali
In qualsiasi studio, per quanto accurato e solidamente documentato come il lavoro di Ricciardi che ci ha indotto a questa sorta
di commento a margine, è ben difficile non imbattersi in qualche imprecisione. Si tratta in questo caso di imprecisioni non rilevanti, ma
meritevoli comunque di una breve puntualizzazione. Ricordando le
tumultuose vicende dello Stato Libero di Fiume dal 1921 al 1922, Ricciardi scrive che Zanella, presidente dell’Assemblea Costituente dello
Stato Libero di Fiume, fu costretto a dimettersi nel marzo 1922, dopo l’assalto dato al palazzo del Governo “dai fascisti guidati da Francesco Giunta” e che l’amministrazione della città “in conseguenza delle dimissioni di Zanella” venne affidata ad Aldo Depoli50. Si tratta in
realtà di Attilio Depoli (1887-1963), uomo politico e importante storico di Fiume, che era allora vice-presidente dell’Assemblea Costituente e a cui l’Assemblea stessa affidò provvisoriamente il potere.
Ricciardi scrive anche che “[i]n questa fase molti ex seguaci di Zanella
[…] passano dalla parte di Mussolini e dei fascisti”51. In realtà i seguaci di Zanella, che avevano seguito il capo autonomista a Portoré
per continuare a far vivere la Costituente fiumana in esilio, rientrarono man mano a Fiume ed accettarono, loro malgrado, la nuova situazione politica ormai consolidata, rinunciando a fare opposizione
aperta al regime, ma senza passare al fascismo, restando anzi fedeli
alle loro convinzioni. Nel momento della crisi del fascismo, nel periodo 1943-1945, i vecchi capi dell’autonomia fiumana ritornarono ad
essere un punto di riferimento politico nella città (come lo stesso Ricciardi ricorda in una nota, menzionando i saggi di Luigi Peteani sul
ruolo degli ex zanelliani nella rinascita dell’antifascismo a Fiume) e
proprio i loro esponenti più rappresentativi, come Blasich, Sincich e
Skull, furono eliminati dai partigiani comunisti jugoslavi nei primi
giorni dell’occupazione.
Un’altra precisazione ci sembra opportuna a proposito di quella che – in relazione alle vicissitudini del cognome Weiczen italianizzato in Valiani da una delle sorelle del politico fiumano, Selma, ma
mantenuto nella sua forma originale dall’altra sorella Clara – viene
chiamata “forzata italianizzazione dei cognomi stranieri voluta da
50
51
A. Ricciardi, Op. cit., pp. 46 sg.
Ibid., p. 47.
19
Mussolini nell’aprile del 1927 per gli abitanti delle regioni nord-orientali da poco acquisite”52. Il provvedimento legislativo a cui qui si fa
riferimento è il regio decreto del 7 aprile 1927 n. 494 che estese alle
province orientali annesse ufficialmente dall’Italia nel 1920 quanto già
stabilito per la provincia di Trento col precedente regio decreto del 10
gennaio 1926 n. 17. Quest’ultimo prevedeva due misure: in primo luogo, la restituzione alla forma italiana dei cognomi originariamente italiani o latini “tradott[i] in altre lingue o deformat[i] con grafia straniera o con l’aggiunta di suffisso straniero” (art. 1), restituzione che
doveva avvenire d’ufficio con decreto prefettizio, contro cui era però
ammesso ricorso; in secondo luogo, “la riduzione in forma italiana
con decreto del Prefetto [dei] cognomi stranieri o di origine straniera, quando vi sia la richiesta dell’interessato” (art. 2). Nel decreto del
1927 relativo alle province nord-orientali non si faceva menzione di
Fiume annessa all’Italia soltanto nel febbraio del 1924, ma ovviamente
esso venne applicato anche alla nuova provincia del Carnaro53.
L’italianizzazione dei cognomi non fu quindi in senso letterale
“forzata”, pur essendo ormai invalso l’uso di questo termine inesatto.
Naturalmente il provvedimento era espressione di una visione ultranazionalistica volta a ridimensionare la presenza di quelli che il regime fascista chiamava assurdamente “allogeni” (sloveni e croati); le autorità fecero opera intensa di propaganda ed esercitarono pressioni,
soprattutto sui dipendenti pubblici, per indurli a chiedere il cambio
del cognome “straniero” e naturalmente le commissioni istituite per
redigere gli elenchi dei cognomi da restituire alla forma italiana non
erano composte da filologi e linguisti, ma da funzionari ben disposti
ad obbedire alle direttive superiori, per cui si verificarono abusi e prevaricazioni. Tuttavia, non soltanto alcuni ricorsi vennero accolti, ma
soprattutto il successo della campagna non fu entusiasmante; se i decreti relativi alle province di Pola e di Trieste pubblicati sulla Gazzetta
Ufficiale del 1936 furono oltre 4000 (riguardanti gli anni dal 1932 al
1935), pochi furono quelli relativi alle altre province orientali: per la
provincia di Fiume, per esempio, si contano 48 decreti nel 1935 e 76
nel 1936; per Zara 7 nel 1935 a altrettanti nel 1936. Un indice incontestabile di questo scarso successo è costituito dal fatto che dei 1305
52
Ibid., p. 35.
Il testo integrale dei decreti menzionati si può leggere in Aldo Pizzagalli, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, Trieste 1929, Treves-Zanichelli, pp. 31 sgg.
53
20
cognomi dei caduti fiumani nella seconda guerra mondiale 642 (pari
al 49%) risultano “stranieri” e dei 1169 cognomi dei caduti zaratini (o
dalmati) sono 530 (pari al 45%) a risultare “stranieri”54.
7. La difesa dell’italianità di Fiume, dell’Istria e di Zara
In una intervista pubblicata su questa rivista nel 199055, Valiani
ha ricordato il suo voto contrario, nell’Assemblea Costituente, alla ratifica del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 con cui l’Italia fu costretta a cedere l’Istria, Fiume e Zara a quella che era allora la Jugoslavia di Tito:
lo pensavo che noi dovevamo unire una protesta politica e morale
all’azione diplomatica per salvare Trieste, che in effetti fu salvata
con l’azione diplomatica condotta da De Gasperi. […] Egli diceva:
noi accettiamo, perché non possiamo rifiutarlo, il distacco dall’Italia di città italiane come Pola, Pisino, Parenzo, Rovigno, Fiume
e Zara, però Trieste deve restare questione aperta. lo invece dicevo: Prima di accettare la mutilazione dell’Italia, esprimiamo perlomeno una solenne protesta. Una protesta in Parlamento ossia nell’Assemblea Costituente, rifiutando la ratifica del Trattato di Pace;
poi, se ce lo impongono, lo accetteremo, lo subiremo, ma solo dopo aver protestato.56
La ferma difesa dell’italianità di Fiume, dell’Istria e di Zara è stata una costante dell’atteggiamento di Valiani nel corso di tutta la sua
vita e di tutto il suo difficile itinerario politico e ideologico. Ricciardi, pur nei limiti cronologici del suo studio, menziona sinteticamen-
54
Per una trattazione analitica della questione dell’italianizzazione dei cognomi
cfr. Mario Dassovich, I molti problemi dell’Italia al confine orientale, Udine 1989,
Del Bianco, vol. I, soprattutto pp. 248-259 e 276-286, da cui abbiamo tratto i dati
riportati nel testo.
55 Amleto Ballarini, Intervista con Leo Valiani, in Fiume. Rivista di studi fiumani, n.
20, II semestre 1990, pp. 5-18. Cfr. anche la lettera inviata da Valiani nel 1995 alla
Società di Studi Fiumani in occasione del Convegno su Riccardo Zanella e l’autonomia fiumana (L’autonomia fiumana (1896-1947) e la figura di Riccardo Zanella, Atti
del Convegno, Trieste, 3 novembre 1995, Roma 1997, pp. 8 sg.); un passo di questa
lettera è citato anche da Ricciardi, Op. cit., p. 45.
56 Ibid., p. 7.
21
te ma con precisione questo aspetto dell’attività di Valiani, ricordando sia nel testo sia in una densa nota soprattutto i concreti interventi dell’allora senatore a vita e Presidente onorario della Società di Studi Fiumani per assicurare il finanziamento al progetto di ricerca
italo-croato, promosso nel 1996 dalla Società stessa e dall’Istituto
Croato per la Storia, sulle vittime di nazionalità italiana a Fiume e
dintorni nel periodo 1939-1947, progetto che fu possibile realizzare57
anche e proprio per il fattivo interessamento di Valiani.
Sulla difesa dell’italianità di Fiume e delle terre perdute dall’Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale vogliamo brevemente
soffermarci, aggiungendo alcune osservazioni alle notazioni di Ricciardi. Questa difesa è tanto più significativa in quanto Leo WeiczenValiani, proveniente da una famiglia ebrea di madrelingua tedesca,
con una infanzia e una adolescenza trascorsa tra Fiume e Budapest,
per diversi anni si dichiarò apolide e nel 1928, al momento del primo
arresto, sostenne di aver iniziato le pratiche per ottenere la cittadinanza ungherese (peraltro mai ottenuta)58. Che queste dichiarazioni
avessero uno scopo chiaramente difensivo – proprio in quanto apolide Weiczen-Valiani, come abbiano ricordato in precedenza, venne
espulso dall’Italia nel 1936 – è evidente, ma è anche indubbio che sia
per la sua formazione plurilinguistica59 e pluriculturale sia per la sua
scelta ideologica e politica internazionalista il politico fiumano era del
tutto estraneo a qualsiasi forma di nazionalismo.
Nel 1939 Valiani scrisse su La Voce degli Italiani, con lo pseudonimo di L. Giuliani, un servizio in tre puntate (11 e 18 gennaio, 2 febbraio 1939) sulla situazione delle minoranze slovene e croate nella Venezia Giulia, intitolato “La sorte della minoranza slava nell’Italia
fascista”, denunciando la politica di snazionalizzazione intrapresa dal
regime: Mussolini, sosteneva Valiani, vuole “liquidare” gli slavi della
57 A. Ballarini – M. Sobolevski (a cura di), Le vittime di nazionalità italiana a Fiume
e dintorni (1939-1947), Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale
per gli archivi, Roma 2002, Libreria dello Stato.
58 A. Ricciardi, Op. cit., p. 82.
59 Ibid., p. 39; oltre all’italiano, la sua lingua di elezione, Valiani conosceva molto bene il tedesco (lingua dei suoi genitori) e l’ungherese appreso a scuola; la sua conoscenza del croato rimase invece mediocre, come ammesso da lui stesso e testimoniato da Marino Micich, che ebbe diversi colloqui con l’allora senatore a vita in
occasione del suo interessamento per il progetto di ricerca italo-croato menzionato
in precedenza.
22
Venezia Giulia, “senza porsi il fondamentale problema della loro integrazione”; ma le etnie che il fascismo considera quantitativamente
trascurabili in realtà “sono «cinque volte più numerose degli italiani
a Tunisi» e di entità «uguale alla popolazione ungherese della ex-Cecoslovacchia»”; la politica del regime nella Venezia Giulia è quindi totalmente inadeguata60.
Ed è proprio sulla base del rigoroso rispetto di un principio di
nazionalità inteso in senso culturale, e non politico, rifiutando quindi la rovinosa identificazione di nazione e Stato, che Valiani difese
sempre l’italianità di Fiume, dell’Istria e di Zara:
A Fiume la popolazione era italiana da molti secoli. Fiume non era
mai stata, prima del 1918, politicamente italiana. Però è sempre
stata culturalmente italiana. È sempre rimasta etnicamente e culturalmente italiana. Questa è una tradizione che non deve spegnersi.
Lo attestano gli elenchi anagrafici di stato civile. Fiume diventò ungherese più di due secoli or sono, ma etnicamente e culturalmente
rimase italiana.61
Così come, nella sua assoluta onestà intellettuale e a partire dal
suo limpido antifascismo, si rifiutò sempre di “giustificare” la repressione scatenata dai comunisti jugoslavi contro gli italiani (e gli oppositori in genere, italiani e slavi che fossero) nel 1945:
Molti innocenti furono uccisi. Avrei capito che i titoisti infierissero contro quelli che avevano torturato o fucilato dei partigiani. Ma
non contro Blasich, Adam, Sirola, Gigante e Bacci, che non avevano fatto nulla del genere. Come ho scritto di recente sul Corriere
della Sera, a proposito degli eccidi di Reggio Emilia e altrove, poco dopo la fine della guerra, io fui per la pacificazione essendo stato intransigentemente antifascista tutta la vita. […]
Quello che ci vorrebbe è intanto rendere noto l’elenco, quello che
si ha, dei morti delle foibe. Rendere, non singolarmente a Tizio,
Caio o Sempronio, non a quei cento perché fiumani o a quei mille perché triestini, ma all’insieme una degna sepoltura. […] Quanto agli Jugoslavi io chiederei non la riabilitazione personale di Gigante o di un altro, perché questo per loro è un problema
60
61
Ibid., Op. cit., pp. 230 sg.
A. Ballarini, Intervista con Leo Valiani cit., p. 17.
23
insolubile. Chiederei la riabilitazione in blocco di tutti gli italiani
che furono uccisi. Non una riabilitazione giuridica ma un riconoscimento storico che dica: furono degli eccidi ingiusti, commessi
per motivi di parte, per motivi nazionalisti o di classe e non per le
responsabilità, inesistenti, degli uccisi. […]
Chiederei anzitutto l’apertura degli archivi. L’apertura stessa degli
archivi renderà giustizia agli infoibati, perché risulterà che le uccisioni furono decisioni politiche e non decisioni giuridiche. Dopo
di che chiediamo quel riconoscimento storico delle sanguinose ingiustizie commesse e la riabilitazione in blocco degli uccisi, che
Gorbaciov ha concesso nell’Unione Sovietica. Lo chiediamo col diritto che ci dà l’aver condannato noi la dittatura fascista.62
62
Ibid., pp. 14 sg., 16, 17.
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