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L’ICONOGRAFIA DI IUNO SOSPITA E LA STATUA DEI MUSEI VATICANI (1) La descrizione letteraria più completa degli attributi distintivi della dea poliadica di Lanuvio è fornita, come è noto, da Cicerone (2), per il quale l’immagine di Iuno Sospita (3) era caratterizzata sostanzialmente dalla pelle caprina, dallo scudo e dai calcei repandi. Tali elementi, spesso accompagnati dalla presenza del serpente ai piedi della divinità armata, sono riconoscibili nell’ambito del territorio italico attraverso rafigurazioni su oggetti bronzei e ceramici databili in dall’età arcaica (4). Come vera Promachos, dea guerriera e dunque propiziatrice e salviica, appare inizialmente accoppiata o in antagonismo con Eracle (5), a tal proposito è stato ipotizzato che l’associazione sia originata da una assimilazione della Sospita ad Athena/Mnerva, da cui il protettorato nei confronti del (*) Musei Vaticani, Reparto di Antichità Greche e Romane. Sono grata a Emiliano Antonelli, autore della tavola graica con l’indicazione dei restauri e di gran parte delle fotograie relative alla statua vaticana; con lui ho proicuamente discusso gli aspetti relativi agli interventi di restauro. Utili suggerimenti sono arrivati anche da Giandomenico Spinola e da Guy Devreux. Simona Feci mi ha invece generosamente introdotto nel complesso mondo dei documenti relativi alla famiglia Mattei di Paganica. (2) de Nat. Deor. I 29, 82-83: … illam vestram Sospitam, quam tu numquam ne in somnis quidem vides nisi cum pelle caprina, cum hasta, cum scutulo, cum calceolis repandis. (3) Altre epiclesi note sono Sispita e Sospes, colei che assiste o che soccorre; per la etimologia si veda Radke 1979, s.v. Sispes. La forma arcaistica Sispita è presente sulle monetazioni di Antonino Pio e di Commodo, cf. Gordon 1938, p. 34, note 70-71 (per il culto di Iuno Sospita cf. pp. 23-41). Più volte è stata sottolineata la molteplicità delle deinizioni della Iuno lanuvina, detta anche Mater Regina (CIL XIV, 2088, 2089, 2091, 2121); cf. Dumézil 1974, pp. 305-306. (4) La Rocca 1990, pp. 819-822. Vasta è la bibliograia in merito alle origini e alla diffusione del culto di Iuno Sospita per cui si rimanda ad altri contributi contenuti nel volume, per gli aspetti iconograici si veda soprattutto Douglas 1913; Pansa 1913; Hafner 1966; DuryMoyaers 1986; Winther Jacobsen 2000. (5) Per il rapporto tra Hera ed Herakles, divinità argive per antonomasia, si veda Bayet 1926; è stato anche notato come la forma e la disposizione della pelle di capra corrispondano a quella della leontè erculea, Dury-Moyaers 1986, p. 85. (1) COPIA PER CONSULTAZIONE Claudia Valeri * suo prediletto Herakles/Hercle (6). Un vero e proprio combattimento sembra quello rafigurato sul registro principale di un’anfora etrusca “pontica”, conservata a Londra (7) e attribuita al Pittore di Parigi (530-520 a.C.). Una igura femminile, trattenuta per un braccio da Neptunus che è proprio alle sue spalle, indossa un chitone e una pelle di capra dalle lunghissime corna, con la mano destra brandisce una lancia e con la sinistra imbraccia uno scudo circolare. La lotta tra Eracle e Iuno Sospita è rappresentata anche su una applique bronzea (8); le due divinità impugnano rispettivamente una clava e una spada e la panoplia di Iuno è completata anche qui da uno scudo circolare. Fig. 1 – Monaco di Baviera. Antikensammlung. Thymiaterion da Castel San Mariano (da Hafner 1966). (6) Winther Jacobsen 2000, pp. 24-26. British Museum 39.2-14.71 (B57); La Rocca 1990, p. 820 n.1; cf. anche Douglas 1913, p. 64, n. 5, ig. 1; Winther Jacobsen 2000, pp. 24-25, ig. 1. (8) Parigi, Louvre inv. 1681; La Rocca 1990, p. 821, n. 15; cf. anche Douglas 1913, p. 65, n. 7; Dury-Moyaers 1986, p. 85, ig. 3. (7) COPIA PER CONSULTAZIONE — 64 — La dea compare afiancata a Ercole, piuttosto che in contrasto, sul castone di un anello etrusco (9) e su un thymiaterion bronzeo del VI secolo a.C. (ig. 1) che, ritrovato nel territorio perugino (Castel San Mariano), è ora conservato a Monaco (10). Sui tre lati sono rafigurati Eracle, una igura femminile velata (forse Afrodite o Ebe) e Iuno Sospita, vestita di un lungo e attillato chitone sul quale posa la pelle di capra che le copre la testa e con le zampe arriva a raggiungere il lembo inferiore della veste; la dea, che indossa i calcei repandi, sembra afferrare e stringere con la mano destra la parte delle zampe anteriori della capra annodate sul petto, mentre con la mano sinistra regge uno scudo a “otto”. Questo rafinato rilievo ci offre l’immagine della Sospita così come tramandata da alcune monete romane, coniate a partire dalla ine del II secolo a.C., e con una particolare concentrazione nel corso del I secolo a.C., per iniziativa di magistrati monetali di origine lanuvina. La documentazione numismatica che ha per protagonista la dea lanuvina può essere così sinteticamente classiicata. Innanzitutto una serie di denarii che mostrano sul dritto la sola protome della dea con la pelle di capra a mo’ di elmo: una moneta di L. Thorius Balbus (105 a.C.) con legenda I(uno) S(ospita) M(ater) R(egina) e sul rovescio un toro (11), un denario di Lucius Papius (79 a.C.) con un grifo sul rovescio (12), i denarii di Lucius Roscius Fabatus (64 a.C.(13), che sul rovescio recano una fanciulla offerente una focaccia al serpente (ig. 2), chiaro riferimento ad un aspetto molto particolare del culto lanuvino, così come narrato da Properzio (14) e per cui si rimanda al saggio di Giulia Piccaluga in questo stesso volume. Inine il denario di Lucius Papius Celsus, iglio del Papius del 79 a.C. che, nel 45 a.C., emette un denario con protome di Iuno Sospita sul dritto, mentre sul rovescio, signiicativamente, appare una lupa affrontata ad un’aquila (15). La testa della dea lanuvina compare anche su un denario di L. Procilius dell’80 (9) Londra, Victoria and Albert Museum 445-1871; La Rocca 1990, p. 820, n. 2; cf. anche Douglas 1913, p. 65, n. 9. (10) Antikensammlung inv. 720g; La Rocca 1990, pp. 820-821, n. 14; cf. anche Hafner 1966, p. 194, ig. 8. (11) La Rocca 1990, p. 821, n. 17; cf. anche Pansa 1913, spec. pp. 339 ss. (12) La Rocca 1990, p. 821, n. 20. (13) La Rocca 1990, p. 821, n. 21. (14) Cf. Properzio IV 8, 3-16: Lanuvium annosi vetus est tutela draconis / hic tibi tam rarae non perit hora morae / qua sacer abripitur caeco descensus hiatu, / qua penetrat (virgo, tale iter omne cave!) / ieiuni serpentis honos, cum pabula poscit / annua et ex ima sibila torquet humo. / talia demissae pallent ad sacra puellae, / cum temere anguino creditur ore manus. / ille sibi admotas a virgine corripit escas: / virginis in palmis ipsa canistra tremunt. / si fuerint castae, redeunt in colla parentum, / clamantque agricolae “Fertilis annus erit.” / huc mea detonsis avecta est Cynthia mannis: / causa fuit Iuno, sed mage causa Venus. (15) La Rocca 1990, p. 821, n. 22. COPIA PER CONSULTAZIONE — 65 — — 66 — Fig. 2 – Denario di L. Roscius Fabatus. Fig. 3 – Denario di L. Procilius. (16) La Rocca 1990, p. 821, n. 18. La Rocca 1990, p. 821, n. 24. (18) A tal proposito si ricorda il passo di Varrone, de lingua latina V, 116: balteum: quod cingulum e corio habebant bullatum, balteum dictum. (17) COPIA PER CONSULTAZIONE a.C. (16) sul cui rovescio è rafigurata armata di scudo trilobato e lancia, mentre conduce una biga in corsa al di sotto della quale è rafigurato un serpente (ig. 3). Simile scena ritorna anche su un denario di M. Mettius del 44 a.C. (17) (con ritratto di Cesare al dritto), dove la dea ha un aspetto ancora più aggressivo (ig. 4); lo scudo, questa volta bilobato, ha la supericie ricoperta da bullae, così come l’egida (18). Fig. 4 – Denario di M. Mettius. L’iconograia della statua di culto del tempio poliadico lanuvino ci viene con ogni probabilità trasmessa piuttosto fedelmente ancora da una serie di conii monetali per lo più databili nel corso del I secolo a.C. Innanzitutto un denario di Lucius Procilius dell’80 a.C. (19), sul cui rovescio la dea è gradiente verso destra e preceduta da un serpente, la pelle di capra sul capo e lungo il busto a formare elmo e corazza, il chitone disposto in pieghe di gusto arcaizzante, i calcei repandi, la lancia brandita con la mano destra, mentre la sinistra regge il tipico scudo «a otto», in questo caso trilobato (ig. 5). L’iconograia si ripete pressoché identica su monete coniate durante il regno di Antonino Pio (140-143 d.C.), così come di Marco Aurelio e di Commodo (ig. 6) (20). Una citazione particolare merita l’aureo (21) di Quintus Cornuicius Augur che, governatore della provincia d’Africa tra il 44 e il 42 a.C., conia serie monetali che presentano al dritto alternativamente una protome di Giove Ammone, di Cerere o di Africa e al rovescio la medesima scena: Iuno Sospita che, gradiente verso sinistra e caratterizzata dalla consueta panoplia con l’aggiunta di un corvo sulla spalla (22), incorona lo stesso augure Cornuicius (23). (19) La Rocca 1990, p. 821, n. 19. La Rocca 1990, p. 821, nn. 26-27. (21) La Rocca 1990, p. 821, n. 23. (22) L’animale è certamente consono alla igura dell’augure, ma vale la pena ricordare che, tra i nefasti prodigi occorsi durante la seconda guerra punica, Livio ricorda l’ingresso di un corvo nella cella del tempio di Iuno Sospita poco dopo che la lancia della statua di culto si era violentemente mossa (XXI, 62). (23) Da ricordare che dalla stipe di Pantanacci proviene un mattone che reca una iscrizione incisa a crudo di una liberta Cornuicia/Corniicia; cf. Attenni 2014 , p. 36. (20) COPIA PER CONSULTAZIONE — 67 — Fig. 5 – Denario di L. Procilius. Fig. 6 – Denario di Antonino Pio. Si contano una quarantina di rafigurazioni di Iuno Sospita (24), contemplando anche le versioni scultoree, nella bronzistica e nella scultura in marmo, e le diverse tipologie di anteisse. Dal territorio etrusco proviene un rafinato bronzetto (ig. 7), ora nel Museo Archeologico di Firenze, databile ai primi decenni del V secolo a.C. (25), che riproduce la dea in veste di Promachos, con la pelle di capra annodata sul petto a coprire un attillato chitone che non arriva alle caviglie, mentre in origine doveva reggere uno scudo con la mano sinistra e una lancia con la destra, attributi ora entrambi perduti. Simile atteggiamento caratterizza un bronzetto romano di mediocre fattura, ora conservato a Stoccarda (26), e una statuetta, oggi dispersa, forse ritrovata nell’area del santuario di Cupra Marittima (27). Per quanto riguarda le anteisse con testa di Iuno Sospita, spesso rinvenute in associazione con quelle a protome silenica, per cui si rimanda all’articolo di Patricia Lulof in questo volume, basterà qui ricordare la loro pressoché esclusiva provenienza dai centri latini (Antemnae, Fidenae, Lavinium, Norba, Roma, Satricum, Signia e la falisca Falerii Veteres) e la datazione tra la ine del VI e tutto il V secolo a.C. (24) (25) (26) (27) Winther Jacobsen 2000, p. 23. La Rocca 1990, p. 821-822, n. 29. La Rocca 1990, p. 822, n. 30. La Rocca 1990, p. 822, n. 31. COPIA PER CONSULTAZIONE — 68 — Fig. 7 – Statuetta in bronzo di Iuno Sospita (da La Rocca 1990). Analizzando rapidamente i caratteri distintivi della dea lanuvina: la pelle di capra sembra alludere al primitivo aspetto teriomorfo della divinità, con una valenza sostanzialmente agraria che riconduce le radici del culto all’età protostorica del territorio laziale (28), allo stesso tempo ne è evidente la valenza (28) Da ricordare anche l’epiclesi di Iuno Caprotina. Le sue feste si svolgevano a Roma il 7 luglio con sacriici sotto un ico selvatico e un rituale con schermaglie da parte dei Luperci che, vestiti con pelli di capro, sferzavano le ancelle della dea con un chiaro riferimento alla fecondità della natura e alla sfera sessuale. Cf., tra gli altri, Varrone VI, 18: Nonae Caprotinae, quod in eo die in Latio Iunoni Caprotinae mulieres sacriicant et sub capriico faciunt; Dumézil 1974, pp. 301-302. Alcuni identiicano Iuno Caprotina con la divinità ritratta su denarii di età repubblicana alla guida di un cocchio trainato da due capri; cf. il conio di C. Renius (138 a.C.), Crawford 1974, n. 231/I, tav. 35,17. Alternativamente identiicata con Iuno Caprotina o con Iuno Sospita è invece la igura su un rilievo di età giulio-claudia nella collezione di Chatsworth, cf. Boschung 1997, p. 75, n. 72, tav. 66,1. COPIA PER CONSULTAZIONE — 69 — totemica. Si ricorda a tal proposito che la capra è animale inviso alla Giunone di Falerii, durante le cui feste una capretta veniva cacciata a colpi di pietra (29); tale rituale è stato messo in relazione anche con l’epiteto greco Aigofagos, attribuito alla Hera venerata a Sparta (30), e al sacriicio di una capra durante le feste di Hera Akraia a Corinto (31). Da più parti è stato messo in luce lo stretto legame tra il culto della Iuno latina e quello della Hera greca, in particolare argiva, che si estrinseca soprattutto nell’aspetto guerriero della dea in quanto protettrice della città; in questo contesto va ricordato che la Sospita di Lanuvio era appunto detta Hera Argolis (32), mentre la Hera di Argo era deinita anche Basileia (33), che non può non ricordare la Mater Regina lanuvina. Il serpente, quasi sempre presente nelle rafigurazioni di Iuno Sospita, individua invece il carattere ctonio del culto ed è esplicito riferimento al celebre rito lanuvino attraverso cui si riteneva possibile prevedere la fecondità o meno di una annata. Per quanto riguarda il motivo dello scudo bilobato, rimane fondamentale guida uno studio di Giovanni Colonna (34), che ampiamente ne indaga le radici iconograiche partendo da alcune sepolture dell’Italia centrale (Lazio ed Etruria meridionale), dove tale forma di scudo è ottenuta mediante la sovrapposizione di due o tre dischi circolari (35). L’esempio più chiaro è fornito da Veio con la eccezionale tomba 1036 di Casale del Fosso (36), sempre collocabile nell’orizzonte culturale e cronologico del villanoviano evoluto. Alla ricchezza della panoplia bronzea, esaltata dalla presenza di ibule “a drago” con ornati in iligrana e di uno “scettro” in ferro impreziosito da piccoli cilindri in ambra e lamina d’oro, si aggiungeva la particolare modalità della (29) Cf. Ovidio, Amores, III 13, 18-20: invisa est dominae sola capella deae. Illius indicio silvis inventa sub altis dicitur inceptam destituisse fugam; Douglas 1913, pp. 68-69. (30) Paus. III 15, 7. Questa epiclesi della dea è stata anche messa in relazione con Iuno Sospita, Festo riteneva che l’epiteto Sospita derivasse dal greco swzein. (31) Douglas 1913, p. 68, nota 7. (32) Ail. nat. 11, 16. Bayet 1926, pp. 74 ss. La Hera di Argo era detta Oplosmia, cf. Lycophr. 614, e una connotazione guerriera caratterizza anche il culto di Hera a Sicione (dove viene detta ¢lex£ndroj, Schol. Pind. Nem., IX, 30), a Micene (Paus. II 17.3), mentre a Olimpia (Lycophr. 857-858) e a Krissa nella Focide (R.E. VIII, 1, 370) il culto di Hera sembra in stretta associazione con quello di Athena. Piuttosto incerta l’interpretazione di una moneta di Argo coniata sotto il regno di Settimio Severo dove forse è rafigurata la testa di Hera coperta da una pelle di capra, cf. Imhoof–Blumer–Gardner 1885, p. 41, n. 26. (33) Solima 1998, pp. 381-392. (34) Colonna 1991. (35) Colonna prende spunto dal corredo di una tomba di Norchia che, oggetto di uno scavo clandestino, era stato fortunosamente ritrovato nel 1967. I bronzi qui ritrovati sono pertinenti a uno «scudo, composto da due (o tre) dischi tenuti insieme da una (o due) piastre di raccordo saldamente ad essi imperniate» (p. 63). Nell’ambito del territorio laziale, l’unico confronto possibile viene individuato con uno scudo miniaturistico rinvenuto nella tomba 21 di Lavinio. (36) Colonna 1991, pp. 69 ss.; cf. anche Torelli–Moretti Sgubini (a cura di) 2008, pp. 265-266. COPIA PER CONSULTAZIONE — 70 — sepoltura per cui il defunto risultava coperto dalle ginocchia alla testa sotto sei scudi circolari, quattro di formato maggiore e due di minori dimensioni. Come sottolinea Colonna, la forma bilobata risultante da tale giustapposizione è ben presente nella tradizione letteraria e igurativa degli scudi romani, si tratta dell’ancìle, ossia lo scutum breve di più antica tradizione rispetto al clipeus, il sacro scudo caduto dal cielo all’epoca del regno di Numa Pompilio e che in epoca storica sopravviveva come una sorta di totem, afidato alle cure del collegio dei Salii. Per la rafigurazione degli ancilia (37) ci soccorre in gran parte ancora una volta la documentazione numismatica. Tra le monete di età repubblicana ritroviamo signiicativamente i denari di L. Papius (79 a.C.(38) e di L. Roscius Fabatus (64 a.C.(39), personaggi già citati a proposito dei conii con rafigurazioni di Iuno Sospita; forse una delle rappresentazioni più chiare è offerta dai denari di P. Licinius Stolo (40), da mettere in relazione verosimilmente con i ludi saeculares del 17 a.C. Ai lati di un apex compaiono gli ancilia, costituiti appunto da due dischi uguali e pressoché tangenti, dal margine rilevato, uniti da una placca ovale issata in tre punti. Da notare il riaffacciarsi del motivo iconograico su coni monetali di Antonino Pio, un asse del 143-144 d.C. presenta infatti la coppia degli scudi, con relativa legenda, ma con un aspetto radicalmente diverso: la placca centrale risulta ora notevolmente ingrandita a svantaggio dei dischi e tutto l’insieme restituisce l’impressione di un oggetto piuttosto decorativo, per un utilizzo da parata (41). Come riafferma Colonna, l’ancile deriverebbe dallo scudo “a otto” di tradizione micenea, e sarebbe originariamente consistito in una «pelle di animale montata su un’armatura lignea o di canne, stretta lateralmente a metà da una (o due) corregge e rinforzata sul davanti da una spina di incerta natura...» (42), mentre parallele versioni in metallo si sarebbero diffuse nel territorio poi etrusco durante le fasi più avanzate del bronzo inale. Tutti questi elementi, pelle di capra, lancia, scudo, calcei repandi, in parte frutto di un restauro “ilologico” come vedremo tra breve, distinguono l’iconograia della monumentale statua femminile collocata in una nicchia della Sala Rotonda del Museo Pio Clementino in Vaticano (43) (ig. 8). La (37) Cf. Borgna 1993, con raccolta delle fonti iconograiche e documentarie e ampia discussione sulla storia degli studi. (38) Crawford 1974, p. 398 ss., n. 60, tav. 66. (39) Crawford 1974, p. 439 ss., n. 412, tav. 69. (40) Mattingly 1968, p. 262, nn. 1629-1631, tav. 39,5; Hafner 1966, p. 167, ig. 13. (41) Per l’evoluzione della forma dello scudo dal tipo “Veio” a quella poi testimoniata dagli ancilia di età imperiale si veda Colonna 1991, pp. 84 ss. (42) Colonna 1991, pp. 100-102. (43) Inv. 241. Douglas 1913, p. 62; Lippold 1939, pp. 142-144, n. 552, tav. 37; Helbig 1963, pp. 39-40, n. 48 (E. Simon); Hafner 1966, p. 197 ss., ig. 14; Martin 1987, p. 112 ss., ig. 28; La Rocca 1990, p. 821, n. 28; Spinola 1999, p. 264, n. 19. COPIA PER CONSULTAZIONE — 71 — COPIA PER CONSULTAZIONE — 72 — Fig. 8 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita (foto Musei Vaticani). statua, che supera di poco i tre metri, è caratterizzata da una ponderazione arcaizzante, con la gamba sinistra leggermente avanzata rispetto all’altra ed entrambe le piante dei piedi ben appoggiate al suolo. La dea è vestita di un lungo chitone che ricade sino a terra e di un peplo un poco più corto, inoltre è coperta da una pelle di capra che, annodata sul petto e stretta in vita, costituisce una sorta di egida per una vera e propria Promachos. La statua venne venduta ai Musei nel 1782 dal Duca Giuseppe Mattei di Giove (44); sono gli anni del pontiicato di Pio VI Braschi (1775-1799), durante i quali fervono i lavori per la costruzione delle nuove fabbriche del Museo Pio Clementino (45), e alla Sala Rotonda, la cui architettura era stata da poco ultimata, la statua venne sin dal principio destinata, soprattutto in virtù delle sue dimensioni. Per questo, il restauro fu subito afidato a Giovanni Pierantoni (1742-1817) che in quegli anni, dopo la morte di Gaspare Sibilla e sotto la costante e abile guida dei fratelli Filippo Aurelio ed Ennio Quirino Visconti, sovrintendeva ai restauri delle sculture destinate al nuovo Museo (46). Qualche anno prima della vendita al papa, il Winckelmann notava la grande scultura «collocata nel cortile della casa Paganica» (47); si tratta del Palazzo Mattei di Paganica situato in via Paganica 4 e attuale sede dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. L’ediicio fu costruito tra il 1541 e il 1548 per volontà di Ludovico II Mattei, iglio di Pietro Antonio, insistendo parzialmente sui resti del teatro di Lucio Cornelio Balbo, in particolare sulla metà settentrionale della cavea (48). Esecutore del progetto fu l’architetto e scultore iorentino Giovanni di Bartolomeo Lippi, detto Nanni di Baccio Bigio; il disegno originale si deve forse a Giovanni Mangone, mentre alcuni ipotizzano un’attribuzione al Vignola (49). La proprietà dell’ediicio, una volta estintosi il ramo dei Mattei di Paganica, fu oggetto, insieme ad altre proprietà, di una lunga vertenza che coinvolse le famiglie Conti, Santacroce e Mattei di Giove; nel 1740 moriva infatti, privo di igli maschi, l’ultimo duca di Paganica Giuseppe (44) Archivio di Stato di Roma, Camerale II, Antichità Belle Arti, bb. 22-25; cf. Pietrangeli 1987, p. 138, n. 552. (45) Consoli 1996. (46) La carica di Sovrintendente, fortemente caldeggiata dai fratelli Visconti, arrivò per Pierantoni nel giugno 1782. A testimonianza del ruolo preminente ormai raggiunto nell’ambito del panorama romano sarebbe arrivata anche l’elezione come accademico di San Luca il 16 novembre 1783. Sulla igura di Pierantoni cf. Carloni 2005, ma soprattutto Piva 2007 (con ampia bibliograia di riferimento), che ne ha esaustivamente ricostruito la carriera professionale e il suo gran lavoro al servizio di Pio VI per l’erigendo Museo Pio Clementino. (47) Winckelmann 1767, p. 15. (48) La corretta identiicazione delle antiche strutture inglobate nel palazzo si deve a Guglielmo Gatti; cf. Gatti 1960, Gatti 1979 e, più di recente, Cairoli Giuliani 1996, pp. 123-134. (49) Sulla fabbrica cinquecentesca cf. Marchetti Longhi 1932, che ancora identiicava i resti antichi con il Circo Flaminio, sulla scorta di Pomponio Leto, Andrea Fulvio e Pirro Ligorio, e il più recente Samperi 1996, pp. 191-216 (con ampia bibliograia). COPIA PER CONSULTAZIONE — 73 — II Mattei «per un incidente apoplettico» (50). In base al fedecommesso stilato alla ine del XV secolo da Ludovico I, e sempre ribadito dai suoi successori, che sanciva una reciproca sostituzione della linea di primogenitura della famiglia, i Mattei di Giove ereditarono il patrimonio dei Paganica, anche se gravato da ingenti debiti contratti con le famiglie Conti e Santacroce, mentre il palazzo veniva destinato alla locazione per far fronte ai creditori (51). Come attestano alcuni inventari secenteschi, in casa Paganica erano presenti antichità (statue, busti, rilievi, urne, iscrizioni) concentrate per lo più negli spazi del cortile al pianterreno, disposte entro le nicchie dei prospetti architettonici e lungo le scale di accesso agli appartamenti nobili. Nell’inventario redatto nel 1621 alla morte di Mario Mattei vengono menzionate solo alcune statue (52), mentre i due inventari relativi al patrimonio del cardinale Gaspare, redatti intorno al 1650, sembrano testimoniare una più ricca collezione ed è forse questo il suo momento di auge. L’Inventario della Guardarobba dell’Emin.mo Sig.r Card. Gasparo Mattei (53) comprende alcune pagine dedicate alle “Statue di Marmo”; più dettagliato, ma non del tutto coincidente, l’inventario conservato in un codice della Biblioteca Angelica (54) che, oltre a citare iscrizioni ed elementi architettonici, fornisce anche l’indicazione delle collocazioni: «nel Cortiletto segreto, dove è la fontana», «nel primo Cortile a entrare del Palazzo»; «nella ringhiera sopra la porta del Palazzo», «nel Corridoio delle Stanze… ». In particolare nel c.d. Cortiletto segreto vengono annotate alcune statue di «statura grande», ma nessuna descrizione combacia (50) Valesio 1871, vol. VI, libro undicesimo, pp. 347-348. Il cronachista afferma che l’eredità fu divisa tra il duca di Giove, la famiglia Sciamanna, per il patrimonio Vigevani, e la iglia di Giuseppe Faustina. (51) Sulla famiglia Mattei di Paganica cf. Raffaeli 1985; Feci 2011. Il nome deriva dal feudo abruzzese di Paganica acquistato da Mario Mattei, nipote di Ludovico II, nel 1612. Il titolo ducale fu concesso nel 1633 al iglio di questi, Giuseppe, distintosi al servizio nel reggimento di cavalleria di Ottavio Piccolomini durante la fase svedese della guerra dei Trent’anni, ma i Mattei di Paganica poterono fregiarsene solo dal 1664 (ASR, Archivio Santacroce, b. 100, c. 613r). Sull’estinzione del ramo di Paganica cf. Finocchi Vitale 1996, pp. 239-241. (52) ASV, Archivio Ruspoli-Marescotti, 669 (busta n. 11, Posiz. N. 176) Inventario dei beni, ed effetti lasciati dal fù Eccmo D. Mario Mattei, fatto di istanza dagli Eccmi suoi Figli, ed Eredi D. Gaspare, Giuseppe, Fabio e Carlo Mattei - Bonanni Domenico Not.°. Si tratta di una statua di Bacco con il braccio destro appoggiato a un tronco e «che tiene nella man destra un graspo»; di un probabile Meleagro così descritto: «un giovane che tiene nella man destra un corno da sonare» con ai piedi la igura di un cane «et dietro un altro animale iero»; di «una statua di marmo di Cesare Augusto che tiene in mano della sinistra il mondo ciò è una palla Item un’altra statua di Aureliano imperatore con il mondo pur nella mano sinistra tutte due di integra grandezza di huomo»; di «un’altra statua di marmo minore sopra la porta del cortile et rappresenta una donna Item doi mensole di travertino…». (53) ASR, Archivio Santacroce, b. 704. (54) Nota et Inventario delle Statue di marmo, urne et altri pezzi con le descritt.ni e con bassi rilievi, tanto piccole, come grandi, tanto movibili, come allocate, le quali sono nel Palazzo di Monsig.r Ill.mo Gasparo Matthei in Roma e p.ma. Una trascrizione è in Narducci 1892. COPIA PER CONSULTAZIONE — 74 — con la Sospita dei Musei Vaticani e si può dunque ritenere che intorno alla metà del Seicento la statua non fosse presente nel palazzo Mattei di Paganica. Negli anni venti del Settecento esistono ancora antichità negli ambienti del palazzo, così come descritto da un documento redatto nel 1722 (55), ma già doveva essere cominciata una certa dispersione della collezione. Del resto, sin dalla ine del Seicento, le vicende familiari avevano imposto qualche cambiamento nell’architettura del palazzo, decretando un uso sempre più funzionale, e meno di rappresentanza, degli spazi situati al pianterreno. Questo cambiamento della destinazione d’uso dovette causare una certa negligenza nei confronti dei marmi antichi lì conservati (56). Di certo il duca Giuseppe, l’ultimo della famiglia Paganica, nel 1740, poco prima della morte, vendette almeno quattro sculture al conte Henry Howard, tramite la mediazione di Francesco de’ Ficoroni. Le statue possono essere rintracciate negli inventari secenteschi: una statua femminile seduta con grande cornucopia sulla destra (57), menzionata in uno solo degli inventari di Gasparo Mattei descritta come «Una igura di Marmo, che stà à sedere con un cornucopio alla mano destra, e la med.ma igura posta sopra un piedestallo di legno tinto di colore di pietra con Arma Mattei con il cappello» (58); una statua di Igea (59), una statua di Hermes restaurata come Augusto (60) e una statua maschile stante con mantello intorno al collo (61). (55) ASR, Archivio Santacroce, b. 719, fasc. 3. Si tratta di una descrizione redatta l’11 marzo 1772 dove vengono descritte alcune statue del cortile e della scala nel loro sito. «Due statue nel cortile dentro le nicchie al paro delle inestre dell’appartamento (…). Altra statua nel cortile dentro altra nicchia rappresentante un ammazone in cattivo stato». (56) Finocchi Vitale 1996. (57) Borg et al. 2005, pp. 47-49, n. 11, tavv. 13-15. (58) ASR, Archivio Santacroce, b. 704. (59) Borg et al. 2005, pp. 43-44, n. 8, tavv. 9,1-2; 10,1-2. Può essere identiicata con una statua presente nell’inventario sopra citato: «Una igura di marmo dritta in piede, che tiene nella mano destra un serpe posta sopra una piedestallo di legno tinto di pietra con arma Mattei con il cappello». Nell’inventario della Biblioteca Angelica, edito in Narducci 1892, compaiono due statue di Igea. L’esemplare ora a Castle Howard può essere identiicato con una «statua di giusta statura, che mostra esser vestita, la quale mostra havere un serpe nella man dritta, e dall’altra mano una concolina, e la testa di d.o serpe è rotta»; l’altra statua di Igea menzionata in quest’ultimo inventario come una «statua di statura mezzana, che mostra esser vestita con un serpe nella man dritta, e tutte due le mani son rotte, et anco è rotto il naso…» è quella tutt’ora esistente nel Palazzo, nella sala del pianterreno che, ricavata da una chiusura del cortile, è detta appunto dell’Igea. Cf. Matz–Duhn 1881, I, n. 861. (60) Borg et al. 2005, pp. 45-46, nn. 9 e 9a, tavv. 9,3 e 10, 3-4. Forse si tratta della «statua, ò sia igura di marmo che tiene nella mano manca una palla tonda senza il piedestallo» (ASR, Archivio Santacroce, b. 704). La scultura è forse riconoscibile anche nell’inventario conservato in un codice della Biblioteca Angelica: «statua di statura grande, che mostra havere addosso come un ferraiolo, e mostra mezza nuda, e mezza vestita, a man dritta mostra un tronco dove stà involto un serpe, et un dito della man dritta è rotto». (61) Borg et al. 2005, pp. 56-57, n. 18, tavv. 19,2-3 e 20, 1-2. Più incerta è la sua identiicazione attraverso gli inventari noti. COPIA PER CONSULTAZIONE — 75 — Il controllo nei documenti della famiglia Mattei di Paganica non ha purtroppo fornito per il momento elementi sulla originaria provenienza della statua di Iuno Sospita ora nei Musei Vaticani; come anticipato, il suo ingresso nel cortile del palazzo dovette avvenire in un momento successivo alla metà del XVII secolo, mentre la prima menzione certa della statua resta quella del Winckelmann. Nel secondo volume dei Monumenti antichi inediti pubblicato a Roma nel 1767, questi scrive a proposito della iconograia della dea Giunone: «Non posso tralasciare di mentovare una statua donnesca di quelle che diciamo mezzo colossali, collocata nel cortile della casa Paganica; il cui capo è coperto col muso d’una pelle di leone, ed il rimanente della pelle, che mostra di essere concia, ricuopre la vita di quella igura a guisa di giubbone oltramontano: foggia di vesti che non osservasi in verun’altra igura. Questa pelle le si accosta sul petto legata con una larga fascia (fascia simile è accennata da me nel Cap. XIX al Num. 46) (62) e arriva a mezza vita. Questa statua ha l’aria di deità, ed io sarei inclinato a crederla Giunone in conformità di una statua di questa Dea a Argo nella Grecia, a’ piedi della quale era nella scultura come battuta una pelle di leone: e per avventura sarà questa la Giunone da Euforione nominata Reiwnh (parola da nessuno spiegata) derivando questo cognome da Rion (cuoio), ed in questo caso dovrebbe essa dirsi Reiwnh o Rinwnh, cioè, Giunone vestita di cuojo» (63). Winckelmann non coglie la corretta identiicazione del soggetto, ma curiosamente instaura un parallelismo con la Hera di Argo che, come è stato detto, molto sembra avere in comune con la divinità lanuvina, a partire dal carattere poliadico del culto e da alcuni aspetti iconograici, per cui una versione della Hera di Argo prevedeva la dea armata di lancia e scudo. (62) Si tratta di un rilievo che rafigura una Musa mentre strappa le penne dall’ala di una Sirena. Winckelmann scrive che il rilievo, disegnato dal «Cav. Pier Leone Ghezzi», era conservato a Roma in casa Odam, e nota come la Musa indossasse sopra le vesti una «insolita» cinta «legata sopra le anche» che: «per essere tanto larga sembra una specie di panno; una cintura simile a questa e legata tanto bassa non vedesi a Roma che in una statua donnesca mezzo colossale nel palazzo Paganica ch’io tengo per una Giunone…». In realtà il confronto non appare così calzante e la Musa sembra piuttosto indossare un chitone altocinto; il rilievo fu poi inserito nel lato posteriore dell’urna funeraria di Iulia Orge che, ritrovata lungo la via Cassia presso la tenuta di Acquatraversa e disegnata da G.B. Piranesi (Vasi, candelabri cippi sarcophagi tripodi lucerne ed ornamenti antichi, 1778, I vol., tav. 41), è ora conservata all’Ermitage. Cf. CIL VI, 20588; Altmann 1905, pp. 90-91, n. 58, pp. 293-294, ig. 208; Fassbender 2005, p. 366, n. 777. Per il disegno di Piranesi cf. da ultimo Ficacci 2000, p. 609, ig. 771 (con bibliograia). Per il disegno di Pier Leone Ghezzi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana (Ottob. lat. 3107, f. 169), cf. Guerrini 1971, pp. 112-113, tav. 69,1. (63) Winckelmann 1767, p. 15. Lo studioso tedesco forza l’etimologia della parola greca, mentre la citazione di una statua di Hera ad Argo non è in argomento poiché, come dice Tertulliano (de corona militis, p. 104, ed. Paris 1675) la pelle di leone non era indossata, ma appunto calpestata dalla dea in disprezzo a Ercole. COPIA PER CONSULTAZIONE — 76 — Fig. 9 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio del muso di capra (foto E. Antonelli). La scultura arrivò in Vaticano «assai malconcia dall’incuria di chi la custodiva, e dal tempo», così riporta Ennio Quirino Visconti nel secondo volume della pubblicazione dedicata al Museo Pio Clementino (64), dove non esita a correggere il Winckelmann, che aveva sì giustamente riconosciuto una Giunone, senza però accorgersi che la pelle di animale era in realtà di capra e non di leone, forse perché «uomo com’egli era, più nelle Greche antichità versato che nelle Romane… non gli venne fatto di riconoscere col confronto delle monete romane il proprio carattere, sotto cui veniva espressa». La presenza delle corna che, benché rotte, erano abbastanza evidenti sulla pelle sopra la testa, aveva invece giustamente orientato il Visconti verso l’identiicazione della statua con una Giunone Sospita (ig. 9). Di conseguenza, e come era prassi negli anni di allestimento del Museo di papa Braschi, lo stesso Visconti dovette guidare l’intervento del restauratore, di certo in armonia con il fratello Filippo Aurelio, nominato “coadiutore” del Commissario delle Antichità nel 1782 per volontà del padre Giovan Battista, già molto malato: «non si esitò dunque nel rintracciar l’azione, e gli ornamenti, che dovean col ristauro supplirsi, essendo mancante di ambe le braccia e de’ piedi». Al Pierantoni toccò anche il compito di aggiungere (64) Visconti 1782-1807, vol. II, pp. 46-48. COPIA PER CONSULTAZIONE — 77 — COPIA PER CONSULTAZIONE — 78 — Scala: 1:16 LEGENDA Età imperiale Età tardo-repubblicana Restauro Giovanni Pierantoni (1783) Fig. 10 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita: tavola grafica con le indicazioni dei restauri (foto E. Antonelli). Fig. 11 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio della porzione inferiore (foto autore). lo scudo, la lancia, e i calzari ricurvi «attrezzi senza de’ quali, dice Tullio, che nessuno si rappresentava Giunone Lanuvina, neppur sognando. Non si è fatto in ciò altro che copiar le medaglie: e l’indicazione della mossa delle braccia così bene si prestava al divisato ristauro, che non dubitiamo punto, che quale oggi il simulacro si offre a’ nostri occhi, tale anticamente si venerasse. Il serpe aggiuntole a’ piedi è stato tratto dagli stessi esemplari… » (65). Queste parole ben rappresentano il pensiero dello studioso in materia di restauro scultoreo, necessario e positivamente valutato qualora sia preceduto da una approfondita analisi degli aspetti iconograici e stilistici (66). Come meglio evidenziato dalla tavola graica (ig. 10), Giovanni Pierantoni integrò dunque entrambe le braccia, inserendo la lancia e lo scudo in bronzo, la parte inferiore della statua con il bordo della veste, i piedi, il serpente e il puntello a forma di tronco d’albero (ig. 11), nonché realizzò numerosissime porzioni, più o meno ampie, del panneggio e della pelle di capra: il grande cannello centrale del chitone e piccoli risarcimenti sulle maniche; le zampe della pelle, e vari suoi orli con gran parte del muso. Ini(65) Visconti 1782-1807, vol. II, p. 47. Sul tema cf. Gallo 1991 (con ampia bibliograia). Sulla igura di Ennio Quirino Visconti cf. anche Vian 1996, pp. VII-XLIII; Rossi Pinelli 2003, pp. 123-130; Calcani 2005, pp. 103-113. (66) COPIA PER CONSULTAZIONE — 79 — Fig. 12 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio della testa (foto E. Antonelli). ne risarcì, con assoluta perizia, il volto (naso, guance, labbro inferiore, una parte del mento), colmando piccole lacune nel diadema e tra le ciocche dei capelli (ig. 12). In particolare, l’inserimento dei due tasselli triangolari delle guance appare magistrale (igg. 13-14): non a caso Ennio Quirino Visconti riteneva che il Pierantoni avesse «per ristabilire le teste antiche, anche che sieno in cattivo stato, un’abilità sorprendente e forse unica» (67). La scultura aveva di certo subito un precedente intervento di restauro che, allo stato attuale, è solo intuibile. La statua infatti, a prescindere dalle integrazioni tardo-settecentesche, risulta ricomposta da più frammenti: la testa (fratturata sotto il mento), la parte superiore del busto ino alla vita, quella inferiore del busto ino all’inguine e le gambe. Il Pierantoni dovette smontare e rimontare le varie porzioni – sue sono le integrazioni marmoree per coprire le lunghe e invasive staffe di raccordo, ben visibili sul retro e (67) La citazione è tratta da Piva 2007, p. 25, nota 55. COPIA PER CONSULTAZIONE — 80 — Fig. 13 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio del lato destro del volto (foto E. Antonelli). Fig. 14 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio del lato sinistro del volto (foto E. Antonelli). COPIA PER CONSULTAZIONE — 81 — sui ianchi della statua (igg. 15-17) – seguendo però le orme di un restauro precedente. Il Visconti scrive che la statua era «malconcia», ma non sappiamo quanto effettivamente Pierantoni rimosse delle antecedenti integrazioni; di certo la statua doveva stare in piedi (così la vide già Winckelmann) e dunque, almeno per la parte inferiore, possiamo ipotizzare una qualche soluzione alternativa. Ciò presupposto, resta troppo evidente la cesura all’altezza dell’inguine (ig. 18), una frattura dall’andamento pressoché orizzontale, in parte mimetizzata da stuccature e patinature, che attraversa tutta la scultura e corrisponde a una evidente differenza del marmo, sì da far ritenere che la statua già in antico risultava composta da almeno due blocchi separatamente lavorati (68). La porzione inferiore (ig. 19) sembra realizzata in un marmo a cristalli medio-piccoli e dal colore piuttosto caldo, direi un marmo greco, forse pentelico; la porzione superiore (ig. 20) è caratterizzata invece da un marmo a piccoli cristalli, dal colore bianco livido con venature grigiastre, verosimilmente lunense (69). La circostanza di utilizzare un marmo più pregiato, ed evidentemente di maggiore qualità, non per la parte solitamente privilegiata, ossia la porzione superiore con la testa, ha fatto sorgere una prima perplessità. A questa si è aggiunta l’annotazione di una discrepanza stilistica tra le due parti antiche: la porzione superiore, soprattutto per il rendimento della capigliatura che conserva elementi “datanti”, può essere collocata nel pieno II secolo d.C. I residui di lavorazione del trapano corrente tra una ciocca e l’altra, i c.d. ponticelli, possono indirizzare verso una datazione tra la tarda età adrianea e l’età antonina. Riferibile a un orizzonte cronologico più antico appare invece la porzione delle gambe, caratterizzata da un più plastico rendimento dei volumi e da un aspetto più morbido e meno raggelato. Le superici delle due porzioni presentano anche un diverso stato di alterazione, più corrosa la parte inferiore con presenza di picchiettature puntinate, che invece sono assenti nella zona superiore. Tale differenza può dipendere dal diverso marmo utilizzato, ma più verosimilmente, da vicende conservative diversiicate. La statua è caratterizzata da una rigida ponderazione frontale di sapore arcaistico, mentre il volto, dai morbidi contorni incorniciati da voluminose ciocche di capelli scriminati al centro, la presenza del diadema, nonché il modellato del corpo e del panneggio del chitone richiamano rafigurazioni di divinità matronali della piena età classica. Il tipo di scultura, date anche le ragguardevoli dimensioni, è dunque quello che ci aspetteremmo nella cella di un tempio e infatti come statua di culto è da sempre interpretata. (68) Già Ennio Qurino Visconti aveva notato che la statua appariva lavorata «in più pezzi». Si deve precisare che non sono state effettuate analisi, si tratta dunque di pure congetture. Le attuali condizioni della supericie della scultura, cui sono stati sovrapposti molteplici strati di patinature ormai cromaticamente alterate, non facilitano il compito. (69) COPIA PER CONSULTAZIONE — 82 — — 83 — a) b) c) Figg. 15-17 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio delle staffe: sul retro (a); sul fianco destro (b); sul retro della testa (c) (foto E. Antonelli). COPIA PER CONSULTAZIONE Fig. 18 – Città del Vaticano. Museo Pio Clementino. Statua di Iuno Sospita, dettaglio (foto E. Antonelli). Resta ignoto il luogo di ritrovamento della nostra statua (70), ma l’ipotesi dai più condivisa è che questa possa provenire dal tempio urbano dedicato a Iuno Sospita noto in età imperiale, quello del Foro Olitorio, le cui rovine sono unanimemente riconosciute in quelle inglobate nella chiesa di San Nicola in Carcere. Un luogo di culto dedicato a Iuno Sospita alle calende di febbraio era anche sul Palatino in prossimità di quello di Magna Mater, ma esso risulta già scomparso in età augustea (Ovidio, Fasti, 2.55-61). Piuttosto convincente appare la proposta di identiicare il tempio di Iuno Sospita sul Palatino con quello ritrovato nell’area tra il c.d. Auguratorium, molto probabilmente il tempio di Victoria Virgo, e il tempio della Vittoria. A questo ediicio, periptero sine postico, che sembra avere continuità di vita tra l’inizio del V e la ine del IV secolo a.C., sarebbero pertinenti le anteisse con testa di Iuno Sospita e di Sileno (71). Il tempio del Foro Olitorio, votato nel 198-197 dal console C. Cornelius Cethegus durante la guerra contro gli Insubri, venne inaugurato nel 194 (70) Priva di fondamento l’ipotesi di una provenienza dal Palatino. Lo stesso E.Q. Visconti, pur ricordando che «su quel colle possedeva orti la famiglia Paganica», non vi credeva; la tradizione resiste però ancora nel corso dell’Ottocento e ancora nei primi decenni del secolo scorso, cf. Galieti 1928, p. 248, nota 1. (71) Cf. Coarelli 2012, pp. 219-226 (con bibliograia di riferimento). COPIA PER CONSULTAZIONE — 84 — a.C. (72) La costruzione dell’ediicio avvenne nel quadro di una generale ripianiicazione urbanistico-edilizia dell’area che, poco prima nel 213 a.C., era stata colpita da un grave incendio (73). Come è ben noto, l’ediicio venne restaurato durante il consolato di L. Iulius Caesar e di P. Rutilius, nel 90 a.C., in seguito a un sogno occorso alla iglia di Quinto Metello il Balearicus, Cecilia (74). Un incendio è attestato nel 31 a.C. (75), ma più grave dovette essere quello di età adrianea che, noto da una iscrizione del 135-138 d.C. (CIL VI, 979) ritrovata agli inizi del XVI secolo nei pressi della chiesa di S. Nicola in Carcere, impose il restauro dei tre templi del Foro Olitorio de(72) Livio XXXII 30, 10: principio pugnae vovit aedem Sospitae Iunonis, si eo die hostes fusi fugatique fuissent; Livio, XXXIV, 53, 3: Aedes eo anno aliquot dedicatae sunt: una Iunonis Matutae in foro Holitorio, vota locataque quadriennio ante a C. Cornelio Cethego consule Gallico bello; censor idem dedicavit; l’epiclesi Matuta in luogo di Sospita si deve a una confusione con il vicino tempio di Mater Matuta. (73) Coarelli 1995. (74) Cicerone, De divinat. I 2, 4; I 44, 99. Sull’episodio e la sua interpretazione politica cf. Schultz 2006. Il legame tra i Metelli e la divinità lanuvina non è rintracciabile prima di questa data, ma è interessante ricordare invece la presenza di un trofeo con scudo trilobato scolpito a rilievo sopra l’iscrizione del mausoleo di Cecilia Metella sulla via Appia, iglia del Metello che trionfò sui Cretesi nel 62 a.C. Cf. Colonna 1991, ig. 37, nota 84; Borgna 1993, p. 14. (75) Cassio Dione, 50, 10.3. COPIA PER CONSULTAZIONE — 85 — dicati a Ianus, Spes e Iuno Sospita (76). Questi, separati tra di loro da angusti vicoli pavimentati con lastre di travertino, avrebbero sin da allora presentato un allineamento delle fronti con orientamento a est. Il tempio di Iuno Sospita, riconosciuto dunque in quello centrale dei tre, era periptero, con colonne in peperino poggianti su plinti quadrati, sei sulle fronti e undici sui lati lunghi. Vi si accedeva da una scalinata tra guance laterali, divisa in due rampe, al centro della quale sono ancora visibili i resti dell’altare. Della cella, in blocchi di peperino, si conservano ancora gli stipiti marmorei, appartenenti a un restauro di età imperiale (77). Come già detto, non sono emersi dati che possano collegare con certezza la statua vaticana al tempio urbano di Iuno Sospita che, inglobato appunto nella chiesa di San Nicola in dal XII secolo, venne progressivamente trasformato e alterato in occasione dei lavori di ampliamento e rifacimento dell’ediicio cristiano (78). Notizie di sterri nella zona si hanno a partire dagli inizi del Cinquecento (79), a seguito dei quali probabilmente vennero messe maggiormente in luce le strutture antiche allora ancora superstiti, in particolare del c.d. tempio dorico, che soprattutto attirò l’attenzione di alcuni dei più celebri architetti del tempo: Baldassarre Peruzzi, Antonio e Giovan Battista da Sangallo, Andrea Palladio, Pirro Ligorio. Le vicissitudini del tempio potrebbero aver imposto sostituzioni e riparazioni della statua di culto. Ammettendo, seppur in via ipotetica, l’identiicazione della Sospita dei Musei Vaticani con il simulacro del tempio del Foro Olitorio, si potrebbe ricondurre la porzione delle gambe alla statua eventualmente eseguita in occasione del restauro del 90 a.C.; questa, danneggiatasi per l’incendio in età adrianea, sarebbe stata sostituita nella sola porzione superiore con un completamento ex novo. È stato notato che le rafigurazioni di Iuno Sospita in età romana, piuttosto fedelmente ispirate alla tradizione iconograica dell’Etruria arcaica (80), sono numericamente circoscritte e relegate soprattutto alla classe numismatica, comunque rarissime nella scultura a tutto tondo (81). Da tempo risulta espunta dal repertorio la statua femminile nell’Atrio del Museo Capitolino, sulla cui base compare l’iscrizione moderna “Iuno Lanuvina” dovuta a una invenzione antiquaria ligoriana; l’identiicazione corretta è con una Demetra- (76) All’età adrianea va ricondotto un atto evergetico dell’imperatore anche nel santuario lanuvino dove, nel 136 d.C., viene donato un simulacro in oro e in argento, cf. CIL XIV, 2088. (77) Sui templi del foro olitorio si veda: Delbrück 1903; Hülsen 1906; Fasolo 1925; Crozzoli Aite 1981; Ziolkowski 1993, pp. 77-79; Coarelli 1997, pp. 447-451. Sul tempio di Iuno Sospita cf. anche Coarelli 1996, pp. 128-129. (78) Palombi 2006. (79) Lanciani I, p. 185. (80) Dury-Moyaers 1986, p. 85. (81) Douglas 1913, p. 62. COPIA PER CONSULTAZIONE — 86 — Fig. 21 – Già Lanuvio. Villa Frediani Dionigi; ora dispersa. Testa acrolitica femminile (da Hafner 1966). Cerere per la presenza di una pelle suina indossata sopra il peplo (82). Non può essere considerata efigie di Sospita una statua, già nella collezione Vescovali e attualmente non rintracciabile, rafigurante una divinità femminile stante, con diadema e vestita di un lungo peplo altocinto con una pelle apparentemente di capra che, allacciata sulla spalla sinistra, le attraversa il torso (83). Era pertinente a una statua di tipo acrolitico rafigurante Iuno Sospita la testa di provenienza lanuvina, già a Villa Frediani Dionigi e ora dispersa (ig. 21), verosimilmente databile intorno alla metà del I secolo a.C. (84) L’identiicazione è sostanzialmente condizionata dalla provenienza, infatti i fori sulla testa e la sua particolare lavorazione testimoniano sì un ingombrante copricapo, con tutta probabilità realizzato in bronzo, che non necessariamente riporta a una protome di capra; del resto le fattezze del volto non si discostano molto da altri esemplari coevi, già parte di statue acrolitiche rafiguranti per esempio Atena. Per questo motivo mi sembra invece piuttosto dubbia l’identiicazione con Iuno Sospita di una testa acrolitica ritrovata a Tusculum, dove peraltro non sono note attestazioni del culto, e ora conservata a Copenaghen (85), sempre databile nell’ambito del I secolo a.C. Inine, si dovrebbe deinitivamente espungere dal repertorio delle rafigurazioni di Iuno Sospita l’acrolito vaticano, una testa in marmo pario del 470-460 a.C. (82) Come Iuno Lanuvina compare anche in Clarac 1826-1853, nn. 418, 732; cf. da ultima Romeo 2010, p. 140, n. 8. (83) Clarac 1826-1853, nn. 419, 733; Douglas 1913, p. 63, n. 2. (84) Alt. cm. 56; Kaschnitz Weinberg 1955, pp. 2-5; Hafner 1966; Chiarucci 1982, pp. 271-285; Chiarucci 1983, pp. 68 ss., igg. 32-33; Martin 1987, pp. 118, 216-217, tavv. 15-16; La Rocca 1990, p. 822, n. 32. (85) Ny Carlsberg Glyptotek inv. 1278, cf. Moltesen-Nielsen 1996, pp. 224-226. COPIA PER CONSULTAZIONE — 87 — identiicabile con ogni probabilità con Atena e ascrivibile all’orizzonte artistico magnogreco (86). La rarità delle rafigurazioni di Iuno Sospita nella scultura a tutto tondo si spiega con la particolarità del culto. La statua vaticana e la testa acrolitica lanuvina non più rintracciabile possono essere ascritte ai simulacri dei due templi, rispettivamente nell’urbe e a Lanuvio. Le loro datazioni, in età tardo repubblicana e in età antonina, sembrano corrispondere a momenti che segnano una forte ripresa della fortuna del culto con ricadute nel rinnovamento degli apparati architettonici e decorativi dei templi. Un ricorrente richiamo al culto di Sospita nella vita tardo repubblicana è testimoniato dai numerosi conii monetali, quasi esclusivamente concentrati nel corso del I secolo a.C., dal sogno di Cecilia Metella che, svelando una profanazione del tempio urbano, tanto seriamente veniva considerato dall’autorità politica da comportare l’avvio di un restauro dell’ediicio di culto. Intorno alla metà del I secolo a.C. anche il santuario lanuvino veniva più monumentalmente riformulato; a quest’epoca dovrebbe risalire l’inserimento all’interno del suo temenos del donario equestre detto un tempo di L. Licinio Murena e che ora si preferisce ascrivere ai Metelli (87), ispirato al grandioso gruppo lisippeo del Granìco, e forse anche l’esecuzione di una nuova statua di culto di cui venne ritrovata la già citata testa. L’interesse per il culto di Iuno Sospita da parte dell’imperatore Antonino Pio, originario di Lanuvio, è ben noto da fonti letterarie e confermato da documenti epigraici e numismatici. Un monumento sul quale vale la pena soffermare da ultimo la nostra attenzione è l’ara rotonda della collezione Pamphilj (88). L’altare in marmo lunense si trovava nell’Abbazia di Grottaferrata (89), ed è verosimile un ritrovamento in una delle proprietà dei monaci; nel 1646 esso fu consegnato al cardinale Camillo Pamphilj che lo fece collocare nel viale del prato presso il (86) Museo Gregoriano Profano, inv. 905. Cf. Lippold 1956, pp. 514 ss., tavv. 234-235; Hafner 1966; Martin 1987, p. 114, igg. 29 a-b; La Rocca 1990, p. 822, n. 33; Vorster 2006, pp. 17-20, tav. 2 (con ampia bibliograia di riferimento). (87) Coarelli 1981; Cadario 2004, pp. 35-38; Papini 2004, pp. 417-418; Nonnis – Pompilio 2007, pp. 455-498. Il gruppo, i cui resti sono dispersi tra il City Museum di Leeds, il British Museum di Londra e l’Antiquarium di Lanuvio, è stato di recente unitariamente presentato nell’ambito di una mostra nei Musei Capitolini, cf. Cadario 2010, pp. 288-289. C.f. ultimo Garafolo 2014, pp. 390 ss. (88) Inv. 3320; alt. cm. 109, diam. sup. cm. 139; diam. inf. cm. 143; Hornbostel 1972, pp. 367-372; Pensabene 1977, pp. 117-120. Ringrazio Carla Benocci per la competente e gentile accoglienza nel museo comunale di Villa Doria Pamphilj dove il monumento è attualmente custodito. (89) La base compare illustrata da due disegni della raccolta dal Pozzo (Windsor Castle, RL 8357, 8358), realizzati quando il pezzo era ancora a Grottaferrata; cf. Picozzi 1998, p. 57 nota 23, con illustrazione a p. 57. COPIA PER CONSULTAZIONE — 88 — Fig. 22 – Roma. Museo Comunale di Villa Doria Pamphilj. Base rotonda, dettaglio delle figure di Antonino Pio e di Iuno Sospita (foto autore). Casino del Bel Respiro nella sua villa suburbana (90). Il monumento deve essere ricondotto con tutta probabilità agli anni subito successivi al 138 d.C., quando Antonino Pio adottò Marco Aurelio e Lucio Vero, qui riconoscibili in due igure di giovinetti togati, di cui una oggi mancante, ma verosimilmente ricostruibile in una lacuna proprio accanto all’imperatore. Una serie di divinità e di personiicazioni iancheggiano Antonino Pio rafigurato to(90) La base compare tra i disegni eseguiti per il collezionista inglese Richard Topham nei primi due decenni del Settecento. Si tratta di quattro disegni che presentano una coppia di igure ciascuno (Eton College Library, collezione R. Topham, Bm 8, foll. 94-97); cf. Palma 1998, p. 69-71. COPIA PER CONSULTAZIONE — 89 — gato: Virtus elmata e in abito amazzonico; il Genio del Senato con la mano destra sollevata in gesto di saluto verso l’imperatore il cui busto sormonta lo scettro tenuto nella destra; una igura maschile giovanile nuda, con la clamide appoggiata sulla spalla sinistra, ormai priva della testa e della gamba destra e ai cui piedi giace uno scudo circolare, forse Honos; una Venere Genitrice, il cui volto, ora molto danneggiato, è stato supposto potesse avere le fattezze di Faustina Maggiore; una Vittoria alata accanto alla quale, in corrispondenza della scalpellatura, doveva comparire la rafigurazione di un trofeo. Inine, alla sinistra dell’imperatore, è ben riconoscibile la rafigurazione di Iuno Sospita, ritratta secondo la tradizionale iconograia (ig. 22). L’altare – probabile trasposizione in ambito municipale, o residenziale certo di rango, di un monumento celebrativo urbano – commemora il delicato passaggio della successione dinastica che sembra svolgersi sotto la protezione della Sospita, divinità garante e tutelare della famiglia imperiale. La statua del Museo Pio Clementino in Vaticano sembra a tutt’oggi essere l’unica di certo attribuibile a un simulacro di Iuno Sospita; un più approfondito esame dei documenti relativi alla famiglia Mattei, e sue ramiicazioni, e una cernita sistematica delle guide di Roma redatte tra il XVII e il XVIII secolo potranno forse offrire qualche indizio sulle vicende della scultura prima dell’arrivo nel cortile di casa Paganica e sperabilmente chiarire l’originario contesto di appartenenza. Bibliografia Altmann 1905 = W. Altmann, Die römischen Grabaltäre der Kaiserzeit, Berlin 1905. Attenni 2014 = L. 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