STUDI
RINASCIMENTALI
Rivista internazionale di letteratura italiana
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STUDI
RINASCIMENTALI
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15 · 2017
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SOMMARIO
CULTURE DEL RINASCIMENTO. STUDI PER MATTEO PALUMBO
A cura di Giancarlo Alfano, Pasquale Sabbatino
Giancarlo Alfano, Pasquale Sabbatino, Presentazione
Amedeo Quondam, La fondazione di una tipologia etica e politica: il trionfo di Cesare
(e non solo)
Jean-Louis Fournel, Jean-Claude Zancarini, La forma-ricordo di Matteo Palumbo dagli «orizzonti della verità» alle «mutazioni delle cose»
Tobias Roth, Petrarkistische contrarii und amor mutuus in Giovanni Gioviano Pontanos Hendecasyllaborum libri
Andrea Salvo Rossi, «Civitatem divisam arbitror»: una fonte ‘sallustiana’ per Discorsi 1.4
Luca Ferraro, Dal libro di Atlante a quello di Logistilla: una lettura dei canti xiv-xx
del Furioso
Lorenzo Battistini, Spazi ‘segreti’ e ‘legittimati’. La scrittura dell’io in Francesco
Guicciardini dopo la crisi del ’27
Paola Moreno, Francesco Guicciardini e l’instaurazione del principato a Firenze nel 1532.
Su alcuni documenti nuovamente contestualizzati
Gennaro Maria Barbuto, Utopia e anti-utopia nel pensiero di Guicciardini
Giancarlo Alfano, Tra ecfrasi e meditazione. Il caso di un poemetto cinquecentesco
siciliano
Adriana Mauriello, Schemi compositivi nel teatro senese del Cinquecento
Pasquale Sabbatino, Le lingue «tutte italiane» in scena a Firenze (Sala del Duca, 1º
maggio 1569). La vedova del Cini e l’Apoteosi di Cosimo I del Vasari
Claudio Gigante, Un epigramma di Luca Scalabrino
Vincenzo Caputo, L’implosione del dialogo. Appunti su ‘Nifo’ e ‘Porzio’ di Torquato
Tasso
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25
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51
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69
83
95
109
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133
139
CIVITATEM DIVISAM ARBITROR: UNA FONTE “SALLUSTIANA” PER DISCORSI 1.4
1. «CONTRO LA OPINIONE DI MOLTI»: LA TEORIA DEL TUMULTO E LA TRADIZIONE ANTI-ROMANA.
Il quarto capitolo del primo libro dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio ha da sempre
rappresentato uno dei più celebri rovelli della critica machiavelliana. Continuando il suo discorso
sullo sviluppo delle istituzioni di Roma dopo la fine del periodo monarchico, come è noto,
Machiavelli discute in questo capitolo l’ipotesi «che la disunione tra plebe e senato fece libera e
potente quella repubblica»1. L’argomentazione in sé è fin troppo nota perché ci sia bisogno di
ricapitolarla analiticamente. In estrema sintesi, l’idea sviluppata da Machiavelli in questo capitolo è
che - contro la opinione di quanti condannano il modello repubblicano di Roma, infestato da così
tanti tumulti da essere sempre sull’orlo dell’implosione - sia stato proprio il conflitto intestino tra
plebei e patrizi a dotare Roma di quel dinamismo istituzionale in grado sottrarre i propri ordinamenti
a quella cristallizzazione che, prima o poi, risulta fatale:
Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte de' Tarquinii alla creazione de'
tribuni, e di poi alcune cose contro la opinione di molti che dicono Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena
di tanta confusione che, se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a' loro difetti, sarebbe stata inferiore
a ogni altra republica. Io non posso negare che la fortuna e la milizia non fossero cagioni dell'imperio romano; ma e' mi
pare bene, che costoro non si avegghino, che, dove è buona milizia, conviene che sia buono ordine, e rade volte anco
occorre che non vi sia buona fortuna. Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i
tumulti intra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che
considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e'
non considerino come e' sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come tutte le
leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in
Roma; perché da' Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e
radissime sangue. Né si possano per tanto, giudicare questi tomulti nocivi, né una republica divisa, che in tanto tempo per
le sue differenzie non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora ne
condannò in danari. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove siano tanti esempli di
virtù; perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione, dalle buone leggi; e le buone leggi,
da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché, chi esaminerà bene il fine d'essi, non troverrà ch'egli
abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica
libertà.2
La critica machiavelliana ha ormai chiarito a quale tradizione pensi Machiavelli quando riferisce
l’opinione di molti che il suo capitolo vuole correggere. Quello della concordia è uno dei temi
strutturali dell’umanesimo politico che, nella coesione sociale, vede un fondamento imprescindibile
del modello organicistico con il quale è necessario pensare la società:
L’amore, la mutua caritas tra il princeps e il popolo o – se si vuole – tra la direzione della civitas e il resto del suo corpus,
diviene uno degli assi portanti della teoria politica dell’umanesimo, risalente a Petrarca e ampiamente elaborato nel corso
del Quattrocento […] la dottrina della mutua caritas configura l’autentico architrave concettuale dell’umanesimo politico.
La massima coesione è infatti la linfa che tiene in vita il sistema, non solo e non tanto in un senso pragmatico, utilitaristico,
ma come elemento strutturale che consente e giustifica l’esistenza stessa della comunità politica, la quale dev’essere
fondata, assiomaticamente, sull’armonia e la concordia generali. 3
1
NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di Francesco Bausi, Roma, Salerno Editrice, p. 33
Ivi, pp. 33-35
3
GUIDO CAPPELLI, Ma hiavelli, l U a esi o e l a ore politi o, «Engramma. La tradizione classica nella memoria
occidentale», n. 134, Marzo 2016. La nozione di «umanesimo politico» cui faccio riferimento è sempre di Cappelli ed è
stata sviluppata in una serie di contributi specifici sul tema. Per quanto concerne i temi del presente contributo, cfr.
almeno: GUIDO CAPPELLI, Umanesimo politico. La monarchia organicista nel IV libro del De obedientia di Giovanni Pontano,
«California Italian Studies», 3 (1) 2012, pp. 1-21; IDEM, "Corpus est res publica". La struttura della comunità secondo
l'umanesimo politico, IN LORENZO GERI, Principi prima del Principe, Roma, Bulzoni, 2012, pp. 117-132; IDEM, Machiavelli e
2
Già Gennaro Sasso, in un ampio saggio di analisi di questo capitolo dei Discorsi, identifica nei molti
con cui Machiavelli polemizza i contemporanei sostenitori della stabilità politica come
imprescindibile prerequisito di sopravvivenza dello stato. Il riferimento preciso è a quelle trattazioni
politiche che, su questo tema, avevano costruito il mito della costituzione veneziana come esempio
di stabilità, da contrapporre ai tumultuosi sviluppi della repubblica di Roma:
[…] rimane problematico stabilire su un piano di più stretta positività se, scrivendo il quarto capitolo del primo libro dei
Discorsi, Machiavelli avesse in mente testi precisi, o invece si riferisse, genericamente, ad un’opinione aristocratica da
lui sperimentata, nel corso della sua esperienza delle cose antiche e moderne, in una larga e varia tonalità di accenti. Ma
fossero testi precisi o generiche reminiscenze, non sembra contestabile, dopo questa lunga analisi, che l’oggetto polemico
di Discorsi, I 4 sia da individuare in un’opinione degli antichi ed anche, sopra tutto, in una dei moderni; e che questi
ultimi fossero tanto critici (potenziali o no) di Roma e delle sue lotte interne, quanto esaltatori di Venezia e della sua
pace.4
Dobbiamo a Gabriele Pedullà5 la più approfondita e aggiornata analisi sull’argomento, nella quale
sono riannodati i mille fili della tradizione di quello che lui definisce un ideale politico europeo (la
concordia), nelle sue derivazioni classiche6 e nelle sue articolazioni moderne, fuori e dentro Firenze.
Da sempre più problematica, invece, è l’identificazione della tradizione e degli auctores che potessero
suggerire a Machiavelli l’interpretazione positiva, energetica delle lotte intestine. Anche il mito,
consolidato nella tradizione politica e storiografica tardo-repubblicana e imperiale,
dell’ineguagliabile virtù degli inizi della repubblica di Roma, tutt’altro che enfatizzare le turbolenze
sociali in cui essa si andò sviluppando, si fondava proprio sull’idea che – prima della definitiva
disfatta di Cartagine – la paura dei nemici esterni consentisse la coesione interna della città e che
fosse poi la fine di questa paura e l’affermazione della supremazia romana a consentire lo sviluppo
delle lacerazioni intestine, delle factiones, dei conflitti interni che decretarono l’inizio della sua
decadenza. Il più compiuto svolgimento di questo tema si trova, come noto, nel De coniuratione
Catilinae di Sallustio, prima monografia dell’autore, aperta con una sorta di archeologia del bellum
civile a Roma, che funge da principale fattore di contestualizzazione storica necessario ad inquadrare,
in una prospettiva di lunga durata, il tentativo di affermazione politica di Lucio Catilina come
momento di una più vasta sintomatologia della crisi repubblicana. Non è un caso che proprio Sallustio
sia indicato da Pedullà come il principale riferimento classico sul tema della concordia per la
trattatistica politica medievale e umanistica, ancor più rilevante di Aristotele, tanto che la sua massima
«concordia parva res crescunt, discordia maxume dilabuntur», contenuta nel De bello iugurthino,
assurge a titolo di proverbio aureo, seguendo la fortuna del quale è possibile ricostruire gli sviluppi
del tema in epoca premoderna.
È noto che anche nel sistema machiavelliano esiste una condanna della lotta tra fazioni – basti pensare
all’incipit delle Istorie fiorentine – e sembra molto probabile che l’impostazione del problema risenta
dell’influenza sallustiana. Un modo per spiegare la teoria del tumulto è sostenere che Machiavelli
interpreti i silenzi del pensiero classico sull’argomento e, nella condanna delle lacerazioni intestine
del primo secolo – ben presente in Sallustio come in tutta la riflessione tardo-repubblicana, Cicerone
in testa – individui una più o meno implicita approvazione delle lotte sociali dei secoli precedenti. 7
l'umanesimo politico del Quattrocento, «Res Publica. Revista de Historia de las Ideas Políticas», Vol 20, No 1 (2017) pp.
81-92
4
GENNARO SASSO, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, VOL. I, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1987, p. 534
5
GABRIELE PEDULLÀ, Machiavelli in tumulto, Roma, Bulzoni, 2011
6
Per il mito della concordia in età classica resta ancora fondamentale la monografia di Nicole Loraux sui dispositivi
retorici e i rituali sociali di forclusione del conflitto sociale: NICOLE LORAUX, La cité divisée, Paris, Payot, 1997
7
È, dopo tutto, una posizione che riguarda anche alcune prospettive degli studi sallustiani propriamente detti, cfr ad
esempio ANTOINETTE NOVARA, Rome et ses progrè selon Salluste: le terme de 146, in EAdem, Les idées romaines sur le
progrès, Paris, Les Belles Lettres, 1983
Questa considerazione di ordine generale, però, ha dovuto fare i conti con un’oggettiva difficoltà nel
reperimento di testi in cui siano esplicitamente connesse le tensioni sociali e la tenuta dello stato
repubblicano. Si è provato ad esempio a vedere nel seguente passaggio del De coniuratione Catilinae.
un accenno alla positività dei dissidi interni a Roma agli inizi della repubblica:
Igitur domi militiaeque boni mores colebantur; concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non
legibus magis quam natura valebat. Iurgia, discordias, simultates cum hostibus exercebant, cives cum civibus de virtute
certabant.8
In quel «de virtute certare» si potrebbe identificare un’allusione alla moderazione con cui i contrasti
politici si erano sviluppati in quel momento storico. È ad esempio quanto dice Sasso, sempre nel suo
saggio di analisi di Discorsi I 4:
[…] la valutazione sallustiana delle più antiche contese patrizio-plebee è positiva, non negativa, perché concordia, virtù,
moderazione vi regnavano sovrane nell’età in cui esse ebbero luogo. Se dunque ne intese con precisione il pensiero, non
può ammettersi che Machiavelli includesse Sallustio nel numero dei detrattori di Roma e delle sue prime lotte sociali. 9
Va però precisato che, nella sua corposa argomentazione, lo studioso si chiede in prima battuta con
quali autori antichi e moderni Machiavelli potesse polemizzare, dichiarando di andare «contro la
opinione di molti»: l’obiettivo del saggio di Sasso è quello di sottrarre Sallustio dai possibili ispiratori
della tradizione anti-romana cui Machiavelli fa riferimento, piuttosto che segnalarlo come fonte della
teoria del tumulto. In questo senso, se la tradizione di condanna della Roma repubblicana cui
Machiavelli rapidamente allude non può annoverare Sallustio tra i suoi campioni, resta ferma l’idea
che ciò che lo storico romano elogia non sono i tumulti in sé, quanto piuttosto la moderazione e la
prudenza con le quali essi venivano gestiti10.
Così stando le cose, si è cercata altrove la possibile radice di questa teoria. A chi scrive sono note due
ipotesi micro-testuali11.
Rinaldo Rinaldi ritiene che Machiavelli ricavi la sua distinzione tra tumulti “buoni” e tumulti “cattivi”
da una pagina degli Exemplorum libri di Sabellico. Val la pena di riportare una parte della citazione
utilizzata da Rinaldi:
Est, scio, a multi quaesitum dissensio animorum et velut simultas, quae saepe in his extitit quibus domi forisve summa
est reipublicae credita, conducibilis ne sit civitati an calamitosa potius. Sunt non pauci reperti, qui civilem probent
disceptationem, si citra ferrum id fiat, ut quae sit in honesti et utilis disquisitione posita, quod saepe in senatu acciditi
publicisque conciliis, cum de summa rei consultatio incidit, ubi quo plures sententiae dicuntur magisque inter se diversae,
eo accuratius omnia decernuntur, cum quid verum sit, quid conducibile magis liquescat. 12
8
GAIO CRISPO SALLUSTIO, De coniuratione Catilinae, in IDEM., La congiura di Catilina. La guerra giugurtina. Orazioni e
lettere, testo latino e traduzione in italiano a cura di Giuseppe Lipparini, Bologna, Zanichelli, 1957, p. 10
9
GENNARO SASSO, Machiavelli e gli antichi, cit., p. 455
10
«Ma chi spinga più a fondo lo sguardo non dovrebbe tuttavia durar fatica a comprendere che le più antiche lotte
romane sono apprezzate da Sallustio per la virtus e la modestia che, intrinseche ad esse, le rendevano espressione
piuttosto di concordia che di autentico e vigoroso contendere politico e sociale: ciues cum ciuibus de virtute certabant.
Si h , da uesto pu to di vista, ’ l’app ezza e to della ode azio e, o delle lotte […]» (Ibidem)
11
Con ciò intendo ipotesi che propongono di rintracciare segmenti testuali precisi, di opere che Machiavelli aveva
verosimilmente letto prima di mettere mano ai Discorsi, come fonte ed ispirazione della teoria del tumulto, al di là della
generica trattazione topica della morigeratezza degli antichi nella gestione dei dissidi interni. Di questi luoghi Francesco
Bausi dà precisi riferimenti nel suo commento in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., p.
34
12
MARCO ANTONIO SABELLICO, Exemplorum libri X, in IDEM., Rapsodiae Historicae Enneadum XI-Exemplorum libri X, Basileae,
ex Officina Hervagiana, 1538, vol. II p. 99. Rinaldi discute questo luogo di Sabellico in un più ampio studio di
o pa azio e t a l’auto e ve ezia o e il siste a concettuale di Machiavelli: RINALDO RINALDI, “a elli o Ma hiavelli o ?,
in «Interpres: Rivista di Studi Quattrocenteschi», Volume 23 (2004), pp. 143-181
È evidente che, se anche esistono degli spunti lessicali interessanti, ci troviamo di fronte a una
situazione completamente diversa: la discordia civile di Sabellico è il confronto, all’interno del
Senato e delle assemblee pubbliche, di opinioni diverse, grazie alle quali è possibile una più accurata
ricerca della posizione migliore all’interno di un processo deliberativo di tipo dialogico. Niente a che
vedere con la dimensione sociale del conflitto che interessa Machiavelli, né sarebbe potuto essere
altrimenti in un autore filoveneziano, per quello che siamo venuti ricordando – dietro Sasso e Pedullà
– sull’opposizione tra Roma e Venezia. Se anche, come pare probabile, Machiavelli conosceva questo
luogo, non è allora immediato pensare che lo utilizzasse come testo fonte di Discorsi 1.4, il cui oggetto
sono gli scontri tra governanti e governati e non – come accade in Sabellico - le diatribe tra senatori,
faccenda evidentemente interne alla classe di governo.
Molto più convincente, in questo senso, la proposta – ancora una volta – di Gabriele Pedullà, che
cerca un antecedente puntuale del ragionamento machiavelliano nelle Antiquitates di Dionigi
d’Alicarnasso, cui Machiavelli poteva avere accesso tramite la versione latina di Lampugnino Birago
di Firenze. Gabriele Pedullà non è il primo a fare il nome dello storico d’età augustea: già Sasso
utilizzava Dionigi come uno degli autori che sviluppano il problema della composizione delle tensioni
sociali nel ripercorrere la topica trattazione storiografica dei primordi repubblicani di Roma. Suo
invece il merito di aver spostato l’attenzione dei lettori dal settimo libro delle Antiquitates – in cui il
tema dei primi conflitti sociali a Roma è ancora svolto per enfatizzarne la gestione moderata, sempre
attenta al mantenimento della coesione sociale, piuttosto che indagarne gli eventuali effetti benefici
in sé – al capitolo terzo e, precisamente, al lungo discorso pronunciato da Tullio Ostilio prima di
condannare a morte Fufezio, re degli Albani. Riporto il passo tradotto dall’edizione curata dallo stesso
Pedullà:
In rapporto alla nostra tendenza alla sedizione, poiché anche questo tu mettevi sotto accusa, Fufezio, essa non provoca né
rovina né crisi delle pubbliche istituzioni, ma al contrario sicurezza e rafforzamento. Presso di noi infatti i più giovani
sono in competizione con gli anziani, gli stranieri con coloro che li hanno fatti venire, tentando di primeggiare nel fare di
più e di meglio per lo stato.13
Machiavelli, dice Pedullà, sviluppa fino alle estreme conseguenze le implicazioni di questo episodio.
L’orazione di Tullio Ostilio è costruita in modo da rovesciare completamente di segno le parole di
Fufezio. Egli non cerca di smentire la descrizione di Roma fatta dall’avversario, ma – invece – di
dimostrare che gli elementi condannati, lungi dall’essere difetti, sono in realtà le precipue qualità di
Roma. È evidente che quest’impostazione del discorso ricorda da vicino quella machiavelliana:
Ma vegnamo agli altri particulari di quella città. Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare
che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida
che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano. 14
La pagina di Dionigi, che non riporto per intero, contiene in effetti diversi spunti in cui un lettore di
Machiavelli non fatica a riconoscere tracce seminali di molte pagine dei Discorsi: dal rapporto tra
moltitudine e forza militare, alla differenza tra le città che non vogliono ingrandirsi e quelle che invece
sviluppano progetti espansionistici. Portare alle estreme conseguenze quell’orazione vuol dire,
segnatamente:
1. Isolare il riferimento qualitativo che Tullio Ostilio propone per le seditiones dalla loro
successiva descrizione, che ne attenua innegabilmente il valore sociale, riconducendole alla
competizione individuale tra cittadini.
DIONIGI D’ALICARNASSO, Le antichità romane, a cura di Francesco Donaldi e G. Pedullà, Torino, Einaudi, 2010, Libro III, p.
10.
14
NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi, cit., p. 33
13
2. Decontestualizzare l’orazione – il cui retroterra storico è evidentemente la monarchia e non
la repubblica – per utilizzarla come strumento d’analisi per leggere i conflitti sociali del quarto
secolo e il loro ruolo nell’istituzione del tribunato della plebe.
Bisogna precisare che l’isolamento e la risemantizzazione dei testi storiografici, rispetto ai quali
Machiavelli è più interessato a costruire riusi politici che non interpretazioni filologicamente accurate,
fanno parte strutturalmente della strategia testuale con la quale i Discorsi si situano rispetto alle
proprie fonti, inscrivendo così appieno Machiavelli in quel particolare momento fiorentino degli
studia humanitatis di quanti - sul palcoscenico delle guerre d’Italia – si rivolgevano alla tradizione
classica non con gli strumenti dell’ecdotica, ma con le urgenze della riflessione politica e che è stato
definito «umanesimo critico»15. Le operazioni condotte sulle fonti rientrano in questi schema. Citando
da un importante contributo, ancora una volta di Rinaldi:
Se invece paragoniamo il libro senza tracce del filologo e il risultato del suo sofisticato restauro con i libri letti e ‘lavorati’
da Niccolò Machiavelli, misuriamo una clamorosa differenza: Machiavelli è un lettore infedele, capace di reagire a ogni
suggerimento del testo per prolungarlo in nuova scrittura, pronto a deformare il suo oggetto contaminandolo con il proprio
punto di vista. È un lettore che lascia segni vistosi del suo passaggio e ci restituisce un libro spesso scardinato nelle sue
interne ragioni, frammentato e ricomposto secondo una personalissima logica. Questo uso o meglio abuso degli auctores,
lontano mille miglia da ogni buona educazione filologica, è particolarmente evidente (come ha ben notato la critica) nel
trattamento fatto subire al testo liviano durante la stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio.16
Ricapitolando: siamo partiti dalla condanna sallustiana dello scontro tra fazioni dopo la fine della
terza guerra punica nel 146 a.C. e, muovendoci da quel che resta implicito nelle pagine di Sallustio,
abbiamo cercato il pezzo mancante, ossia l’idea che la contesa sociale a Roma, prima della corruzione
etica e politica della repubblica, potesse invece essere oggetti di approvazione. Sarebbe certo più
facile se esistesse qualche testo che, esplicitamente, contenesse ciò che in Sallustio resta implicito,
ossia l’indicazione di una differenza qualitativa tra i primi tumulti sociali di Roma e quelli successivi
al 146. La mia ipotesi è, in effetti, che questo testo esista. Un testo che Machiavelli poteva aver letto
e il cui autore si accorda sorprendentemente al ragionamento che abbiamo portato avanti fin ora: Gaio
Crispo Sallustio.
2. EPISTULAE AD CAESAREM SENEM DE RE PUBLICA
All’interno del corpus sallustiano esistono alcuni testi che, dopo aver prodotto un secolare dibattito
circa il proprio statuto, sono stati definitivamente riconosciuti come spuri, così da essere
definitivamente stipati nel caotico armadio della letteratura apocrifa. È il caso delle invettive contro
Cicerone e, per quel che riguarda la nostra argomentazione, delle due epistole a Cesare sullo stato.
15
Derivo questa categoria, ricevendola senza riserve, dagli studi di J.L. Fournel e J.C. Zancarini che, nel loro lavoro di
traduttori ed esegeti di autori cruciali della Firenze di fine Quattrocento e inizio Cinquecento (Machiavelli, Guicciardini,
Savonarola), hanno efficacemente proposto di leggere con una lente specifica gli scrittori fiorentini che operano a
cavallo delle guerre d'Italia (tra il 1494 e, per quello che riguarda strettamente Firenze, il 1530) poiché nelle loro opere
sarebbe rintracciabile un vero e proprio laboratorio in cui, alla luce della crisi bellica, le parole e i discorsi della politica
vengono ridefiniti. Soffermarsi sulla frattura del 1494 - e coniare a partire da essa la nozione di umanesimo critico significa esplicitamente rinunciare ad interpretazioni che valorizzano l'omogeneità e la lunga durata nell'analisi del
discorso politico, con particolare riferimento a quel filone di studi da cui proviene, invece, la nozione di umanesimo
civile. Su questo cfr. almeno JEAN-CLAUDA ZANCARINI, JEAN-LOUIS FOURNEL, Codes, langages, langues et traditions
républicaines a Florence, in IIDEM, La grammaire de la Republique. Langage de la politique chez Francesco Guicciardini
(1483-1540), Genève, Librairie Droz, 2009, pp. 7-40
16
RINALDO RINALDI, Le ragio i della forzatura. L altro Livio di Ma hiavelli, «Parole rubate: rivista internazionale di studi
sulla citazione», Fascicolo 13, 2016, p. 66
La storia di queste epistole si riassume brevemente. Esse sono testimoniate da un solo codice – il
Vaticano Latino 3864 – composto dall’unione di tre diversi manoscritti. Riporto la descrizione di
Luciano Canfora:
Il terzo è tutto "sallustiano": contiene infatti l'antologia di Orationes et Epistolae ricavate dalle tre opere storiche di
Sallustio (disposte secondo il "genere": prima tutti i discorsi, poi tutte le lettere, ogni volta secondo la successione Catilina
- Giugurta - Historiae), seguite appunto dalle due Suasoriae, recanti l'intestazione - un'unica intestazione al principio
della prima "epistola" -: "Ad Caesarem senem de republica incipit feliciter"17
La princeps di questi scritti viene stampata a Roma nel 1475. Altri due manoscritti, copia della
stampa, contengono quest’antologia e si ritiene che essi siano stati commissionati da Pomponio Leto
ad alcuni suoi allievi, per i lavori di preparazione all’edizione dell’intero corpus sallustiano, curata
dall’umanista campano nel 1490. Da questo momento in poi le due epistole si accoderanno
sostanzialmente al destino generale di pubblicazione dell’opera di Sallustio (e alla grande fortuna che
caratterizzò quest’autore in età rinascimentale), finendo in coda agli estratti di orazioni e lettere che,
nelle edizioni a stampa, seguono le due monografie18. Le ritroviamo così nell’edizione Manuzio del
1509. Soprattutto, le ritroviamo nell’edizione Giunta del giugno 151319, un anno che sappiamo essere
decisivo per la formazione machiavelliana. È l’anno, per intenderci, della famosa epistola al Vettori
in cui Machiavelli racconta il suo continuo impegno nella lettura dei classici come strumento di
elaborazione del disastro politico che aveva colpito la repubblica di Firenze.
In questo momento storico – e sarebbe stato così per tutto il secolo – le due lettere facevano parte,
senza alcuna perplessità, del corpus sallustiano. Sicuramente non problematiche sarebbero apparse a
un lettore come Niccolò Machiavelli, che di castigationes filologiche non fu mai un appassionato e
che – nella scelta delle sue fonti – non andava tanto per il sottile, soffermandosi senza troppe
sottigliezze su epitomi (almeno quella di Giustino a Pompeo Trogo20, oltre ovviamente alle periochae
liviane), volgarizzamenti (almeno Polibio21 e Tucidide22) e, insomma, tutto quel vasto assortimento
di testi che noi oggi definiremmo ‘bibliografia di seconda mano’.
Non è strano pensare che, mentre maneggiava una delle antologie sallustiane disponibili a Firenze in
quel momento, Machiavelli venisse attratto da due lettere scritte a Cesare da un autore come Sallustio,
con il quale esisteva tra l’altro una sorta di affinità elettiva: anche lo storico latino era stato prima di
tutto un uomo politico, costretto all’otium dal tracollo del sistema cesariano e persuaso che le
meditazioni politiche e storiografiche fossero un modo, l’unico disponibile, per continuare a servire
lo stato. Non è strano pensare, soprattutto, che, mentre lavorava al suo trattato sulle repubbliche,
Machiavelli – che di Sallustio era stato sicuramente lettore attentato – si attardasse su due epistole il
cui titolo nelle edizioni a stampa era «Ad Caesarem senem de re publica»
Veniamo, dunque, al contenuto di queste lettere. Esse sono due suasoriae, cioè due testi di carattere
persuasivo che, nella fattispecie, avevano la finalità di orientare la politica cesariana nella gestione
dello stato successiva alla disfatta di Pompeo: come comportarsi con i nemici sconfitti, come
LUCIANO CANFORA, Sallustius Crispus autore delle “uasoriae ad Caesare se e ? in IDEM, Studi di storia della
storiografia romana, Bari, Edipuglia, 1993, p 132
18
Sulla storia della tradizione del corpus sallustiano cfr. la voce «Sallust» in PAUL O. KRISTELLER et alii, Catalogus
Translationum et Commentariorum, vol. VIII, pp. 183 - 326
19
GAIUS CRISPUS SALLUSTIUS, Quae in hoc enchiridio contineantur. C. Crispi Sallustii De coniuratione Catilinae. Eiusdem De
bello Iugurthino. Eiusdem oratio contra M.T. Ciceronem. M.T. Ciceronis oratio contra C. Crispum Sallustium. Eiusdem
orationes quatuor contra Lucium Catilinam. Porcii Latronis Declamatio contra Lucium Catilinam. Orationes quaedam ex
libris historiorum C. Crispi Sallustii., Florentiae, sumptibus Philippi de Giunta Florentini, mense Iunio 1513
20
Cfr. RONALD T. RIDLEY, E hoes of Justi i Ma hiavelli s Dis orsi , «Critica Storica», XXV 1988, pp. 113-118
21
GENNARO SASSO, La teoria dell'anacyclosis, in IDEM, Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967, pp. 161-22 e Polibio e
Machiavelli: costituzione, potenza, conquista, Ivi, pp. 223-280
22
Cfr. LUCIANO CANFORA, Tucidide e Machiavelli, «Rinascimento», XXXVII, 1997, pp. 29-44; MARCELLO SIMONETTA,
Machiavelli lettore di Tucidide, «Esperienze Letterarie», XXII, 1997, pp. 210-235
17
riformare l’istituzione senatoria, quali provvedimenti prendere contro la corruzione prodotta da
un’iniqua accumulazione di ricchezze, quale politica agraria tenere nei confronti della plebe e dei
reduci di guerra. La seconda, in particolare, sviluppa una ricostruzione genealogica a ritroso della
guerra civile a Roma, così come abbiamo visto accadere nel De coniuratione, passando in rassegna
la politica (nefasta, va da sé) di Pompeo, poi la dittatura di Silla e arrivando, infine, ai primordi della
vita repubblicana. Leggiamo, allora, il passo che ci interessa:
In duas partes ego civitatem divisam arbitror, sicut a maioribus accepi, in Patres, et plebem. Antea in Patribus summa
auctoritas erat, vis multo maxuma in plebe. Itaque saepius in civitate secessio fuit; semperque nobilitatis opes deminutae
sunt, et ius populi amplificatum. Sed plebes eo libere agitabat, quia nullius potentia super leges erat; neque divitiis, aut
superbia, sed bona fama factisque fortibus nobilis ignobilem anteibat: humillumus quisque in arvis, aut militia, nullius
honestae rei egens, satis sibi, satisque patriae erat.23
Finalmente in questo testo Sallustio (o chi, a buon diritto, Machiavelli ritenne essere Sallustio)
esplicita ciò che nelle sue altre opere era sempre rimasto sottinteso: è esistito, in effetti, un tipo di
seditio positiva, grazie al quale la plebe poté arginare i tentativi di sopraffazione della nobiltà.
Le consonanze tra questo testo e la concezione machiavelliana dei tumulti sono diverse:
1. La divisione della città è un presupposto (in duas partes ego civitatem divisam arbitror), non
una malattia che sopraggiunge a dividere il corpo unico della civitas. Essa rappresenta la sua
naturale dinamica, quella che Machiavelli descriverà utilizzando metaforicamente della teoria
degli umori.
2. Al di là dell’auctoritas patrizia, la vis della città è incarnata dalla plebe. Questo squilibrio tra
autorità e forza, tra potere e potenza, genera il conflitto (itaque saepius in civitate secessio
fuit).
3. Il conflitto ha un effetto giuridico, costituisce i nuovi perimetri del diritto, riequilibra gli
scompensi inevitabilmente inerenti il corpo diviso della città (sempreque nobilitatis opes
deminutae sunt, et ius populi amplicatum).
4. Questo rapporto tra dinamismo conflittuale della plebe e ordinamento giuridico è ribadito in
modo più generale. La libertà è una funzione della legge, è il fatto che tutti i cittadini vivano
all’interno della legge (plebes eo libere agitabat, quia nullius potentia super leges erat). Come
in Machiavelli, dunque, le seditiones dei primordi della repubblica non correvano il rischio di
dissolvere la compagine statale perché la legge tracciava il perimetro all’interno del quale
ogni cittadino si riconosceva e agiva. Non andremmo forse troppo oltre quel che è lecito
proporre a rigor filologico, se pensassimo che Machiavelli – leggendo quell’agitabat – non
pensasse a un verbo frequentativo, ma invece all’agitarsi della plebe così come agitano la
repubblica gli umori sociali in Discorsi 1.724.
I molteplici punti di contatto tra il testo pseudo-sallustiano e la teoria machiavelliana mi pare
consentano di avanzare un’ipotesi. È noto che Machiavelli riceve da Sallustio la teoria della paura
esterna del nemico come vettore di coesione sociale: il problema aperto dal De coniuratione Catilinae
è l’apparente incontrovertibilità della corruzione dello stato nel momento in cui questa paura viene
meno, così che la repubblica diventa un oggetto teorico strutturalmente aporetico, perché destinato o
a soccombere in guerra o, quando il nemico è annientato, a implodere per le lacerazioni intestine che
proprio la guerra era in grado di scongiurare. Leggendo le Epistulae ad Caesarem Machiavelli trova,
o ritiene di trovare, nello stesso Sallustio la soluzione a questa aporia: se la guerra esterna non è più
una minaccia in grado di rinsaldare il vincolo sociale, è all’interno della città, nel suo dinamismo tra
23
PSEUDO-SALLUSTE, Lettres à César. Invectives, testo stabilito, tradotto e commentato da A. Ernout, Paris, Les Belles
Lettres, 1962, p 39
24
«E pe ò o
osa he fa ia ta to sta ile e fe a u a epu li a, ua to o di a e uella i
odo he l’alte azio e
di uegli o o i he l’agita o, a ia u a via da sfoga si o di ata dalle leggi». (NICCOLÒ MACHIAVELLI, Discorsi, cit., p. 50)
Anche in questo passo Machiavelli ripropone il plesso concettuale tumulto-legge, all’i te o del uale vie e iletta la
storia dei disordini sociali di Roma.
gruppi sociali – purché esso sia giuridicamente governato – che va trovata l’energia vitale che si
oppone al deperimento della città.
Questa proposta non vuole, ovviamente, ritenere risolto il problema delle fonti di Discorsi 1.4.
Soprattutto in un autore come Machiavelli, tra l’altro, il ruolo delle fonti non è mai univoco, né
escludente. In passaggi anche molto brevi, spesso, precipitano e si mescolano le voci più diverse,
accumulandosi l’una sull’altra, senza che Machiavelli ne espliciti nessuna. È Tito Livio, in fondo, ad
armonizzare questa polifonia e a fungere – spesso – da pupazzo del ventriloquo, sotto le cui spoglie
si pronunciano le tradizioni più disparate. Ritengo, però, che le spie testuali che abbiamo messo in
luce autorizzino un approfondimento della questione, cioè un lavoro di scandaglio sul corpus
sallustiano non per come lo conosciamo noi oggi, ma per come esso poteva apparire a Machiavelli
nel secondo decennio del ’500. In particolare, mi sembra che questa proposta si integri bene con
l’analisi – svolta nel testo di Pedullà – sulla centralità di Sallustio nella riflessione storico-politica per
come essa si sviluppa tra XV e XVI secolo. Da Sallustio Machiavelli ricavò la maniera di tematizzare
il rapporto tra paura e tenuta dello stato, ridando la giusta centralità al nodo del metus punicus che
invece la storiografia umanistica aveva dovuto sacrificare per articolare una proposta di governo
basata sulla concordia come virtù e non come necessità imposta. Non è improbabile che, trovando
ancora in “Sallustio” un’ipotesi di lettura non negativa di una specifica tipologia di conflitto sociale,
Machiavelli se ne servisse per immaginare il correttivo necessario alla corruzione dello stato in
assenza di una minaccia esterna, ripiegando quel metus dal fuori della guerra al cuore della città.