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Stato, società e libertà. Dal liberalismo al neoliberalismo.pdf

Questo lavoro indaga l’evoluzione della teoria liberale contemporanea guardando al suo rapporto con espressioni storiche e politiche che ad essa si sono richiamate. Con riferimento alla lezione di Foucault, si muove dalla convinzione che per capire la filosofia politica del (neo)liberalismo sia necessario investigare come essa sia passata, e per quella via sia stata ripensata, attraverso associazioni, think-tank e soprattutto alcune esperienze politiche di governo. Se da un lato l’obiettivo del neoliberalismo non è stato sottomettere la società al mercato, ma anzi usare il mercato per «educare» l’uomo ad essere libero, dall’altro le «pratiche liberali» hanno riproposto, in un apparente paradosso, il primato della politica per affrontare il vero (e nuovo) problema: non più solo limitare la crescita del potere dello Stato, bensì tornare indietro da una situazione nella quale il potere politico era già cresciuto troppo.

€ 19,00 Antonio Masala attualmente svolge attività di ricerca presso la Yildiz Technical University di Istanbul, è stato ricercatore di Filosofia Politica all’IMT Alti Studi Lucca e Visiting Research Fellow alla Queen Mary University of London. Tra i suoi interessi vi sono la filosofia politica liberale contemporanea, il conservatorismo, la biopolitica. È autore di vari saggi in italiano, inglese, francese e dei due volumi Il liberalismo di Bruno Leoni e Crisi e rinascita del liberalismo classico. Antonio Masala Stato, società e libertà Questo lavoro indaga l’evoluzione della teoria liberale contemporanea guardando al suo rapporto con espressioni storiche e politiche che ad essa si sono richiamate. Con riferimento alla lezione di Foucault, si muove dalla convinzione che per capire la filosofia politica del (neo)liberalismo sia necessario investigare come essa sia passata, e per quella via sia stata ripensata, attraverso associazioni, think-tank e soprattutto alcune esperienze politiche di governo. Se da un lato l’obiettivo del neoliberalismo non è stato sottomettere la società al mercato, ma anzi usare il mercato per «educare» l’uomo ad essere libero, dall’altro le «pratiche liberali» hanno riproposto, in un apparente paradosso, il primato della politica per affrontare il vero (e nuovo) problema: non più solo limitare la crescita del potere dello Stato, bensì tornare indietro da una situazione nella quale il potere politico era già cresciuto troppo. Antonio Masala Stato, società e libertà Dal liberalismo al neoliberalismo Università Antonio Masala Stato, società e libertà Dal liberalismo al neoliberalismo a Dario Batu Introduzione La letteratura internazionale sulla teoria liberale contemporanea ha visto, nell’ultimo decennio, una ioritura di lavori tra loro assai diversi, che analizzano pregi e limiti di quella teoria, investigando anche la continuità e le novità rispetto al passato di una tradizione di pensiero articolata e diversiicata. All’interno di questa ampia letteratura è emersa distintamente una corrente di studi che vede il liberalismo contemporaneo, o almeno una parte importante di esso, come un fenomeno radicalmente nuovo rispetto alla «vecchia» tradizione, tanto che ormai sembra essersi afermato nell’uso comune il termine «neoliberalismo». Personalmente continuo a preferire la locuzione «liberalismo classico», che ho adottato in alcuni studi precedenti, e le ragioni che mi portarono a quella scelta terminologica, e che fanno capo alla riscoperta (e rivisitazione) da parte della teoria liberale contemporanea di alcuni fondamentali principi della tradizione classica, mi appaiono ancora oggi difendibili. Quello che però sono andato maturando con le mie ultime ricerche è la convinzione, per usare un’espressione volutamente paradossale, che non basti studiare la teoria liberale per capire la teoria liberale. Se infatti ci fermiamo alla lettura delle pagine dei pensatori liberali contemporanei possiamo avere un quadro chiaro ma solo parziale di cosa sia stata la ilosoia politica liberale nel Novecento. Per capirla in tutta la sua portata mi è parso necessario integrare le mie analisi precedenti in una duplice direzione. Da un lato estenderle sia a tradizioni di pensiero che talvolta, e credo erroneamente, non vengono considerate come strettamente appartenenti alla ilosoia politica, perché composte da economisti in senso stretto (il riferimento è soprattutto a Milton Friedman e alla Chicago School), sia a correnti il cui impatto è stato talvolta sottovalutato nell’evoluzione della teoria e della pratica del liberalismo del Novecento (e il riferimento qui è soprattutto a Röpke e all’ordoliberalismo). Dall’altro lato mi è parso anche necessario fare un’operazione più ampia e per alcuni aspetti «pericolosa», ossia andare a studiare come il contesto nel quale le 7 idee politiche hanno preso forma sia stato determinato da quelle idee, ma al contempo abbia determinato l’evoluzione di quelle idee. Se infatti è vero che «le idee hanno conseguenze», e la ilosoia politica del liberalismo ha avuto conseguenze, è anche vero che le conseguenze delle idee hanno poi una loro vita indipendente, e agendo nella realtà circostante hanno un impatto «di ritorno» sulla stessa elaborazione ilosoico-politica, ponendola di fronte a nuovi problemi e trasformandola. Le idee calate nella realtà assumono dunque una vita propria, e seguendole nel loro divenire è forse possibile vedere una serie di problemi che altrimenti non potrebbero essere diagnosticati correttamente, problemi i quali hanno verosimilmente imposto alla ilosoia politica che tali idee aveva ispirato un ripensamento di alcuni suoi fondamentali assunti. Questo è quello che mi sembra essere avvenuto in maniera determinante nel caso della ilosoia politica liberale, e di qui questo studio, nato dalla convinzione che per capire quella ilosoia politica sia necessario anche indagare come essa sia passata – e per quella via sia stata ripensata – attraverso associazioni e think-tank (in particolare la Mont Pèlerin Society e i think-tank americani e britannici), ma anche attraverso alcune esperienze politiche concrete (il riferimento è ai governi di Ludwig Erhard e Margaret hatcher). Questi passaggi hanno cambiato non solo la percezione difusa di cosa fosse il liberalismo, ma hanno anche posto side che la ilosoia politica liberale non poteva più eludere, e che la avrebbero trasformata in maniera assai signiicativa. Uno studio così impostato è, come dicevo, «pericoloso» nel senso che si presta a diversi rischi, i quali tuttavia sono «rischi da correre». Il primo è quello di trattare i leader politici come se fossero ilosoi politici; questo sarebbe certamente un errore, da evitare con attenzione, tuttavia il rischio di cadere in quell’errore non può portarci a negare che sia utile o anche necessario ricostruire la ilosoia politica di personaggi che non erano certo ilosoi di professione, ma la cui visione del mondo ebbe uno straordinario impatto sulla teoria politica oltre che sulla storia politica. Si tratta dunque non solo di analizzare ciò che essi hanno fatto, ma anche, per quanto possibile, le loro idee, le loro reali intenzioni e dunque la loro visione del mondo, per cercare poi di collocarle nel più ampio quadro della tradizione liberale e della sua trasformazione. Un secondo rischio, speculare al primo, è quello di confondere ideologia e teoria politica. Se questa confusione va evitata bisogna tuttavia ammettere come la distinzione tra le due non sia sempre semplice, e molto dipende da cosa si intende per ideologia. Quando non assume una connotazione negativa e deteriore l’ideologia infatti può essere considerata come 8 l’utilizzo che i politici fanno delle idee politiche (e dunque della teoria politica stessa), e quindi anche il modo in cui le idee politiche guidano le scelte politiche, dei leader politici come delle persone comuni. In questo senso l’ideologia ha certamente delle componenti «irrazionali» (miti e simboli) e non ha la dimensione di elaborazione scientiica di principi e idee che ha la teoria politica, tuttavia in ultima analisi essa fa sempre riferimento a una visione della società, a dei valori che ne stanno alla base e ai quali le scelte politiche si devono uniformare. Il terreno delle implicazioni delle idee è sempre per alcuni aspetti un terreno comune alla teoria politica e all’ideologia, nel senso che anche la teoria politica non si può mai del tutto afrancare dalla necessità di comprendere quali siano le sue implicazioni in termini di valori e di azione politica concreta. Quando la teoria politica, e nel Novecento il problema si è posto ripetutamente e con forza, sente l’esigenza di essere «normativa», essa inevitabilmente assume la funzione di guida dell’azione politica, e si va a sovrapporre all’ideologia. Ecco perché, pur consapevole dei rischi che questa scelta comporta, non mi sono sottratto all’analisi in chiave di ilosoia politica di alcuni fenomeni che sono talvolta stati considerati come meramente ideologici, nella convinzione che la loro analisi fosse necessaria proprio per chiarire la ilosoia politica del liberalismo. Vi è inine, in un’indagine di questo tipo, un terzo rischio che si deve correre, rappresentato dal non poter avere un terreno di indagine, e una metodologia di indagine, completamente predeiniti. Questo lavoro si muove necessariamente in modo trasversale tra la ilosoia politica, la storia delle idee politiche (quando non la storia politica tout court) e la storia della ilosoia politica. Ho cercato di tenere insieme questi aspetti nella convinzione che ricondurli a unità fosse comunque la domanda iniziale, ossia come la ilosoia politica liberale sia stata trasformata dal modo con il quale le sue idee si sono calate nella realtà. In tal senso, e nonostante vi siano alcune parti nella quali si concede attenzione a delle vicende storiche, questo rimane un lavoro di ilosoia politica, poiché nasce da un problema relativo a quella disciplina (ossia qual è la risposta della ilosoia politica liberale al problema del giusto ordine politico) e poiché la sintesi che se ne trae è un tentativo di risposta a quel problema. Il metodo con cui si è svolta questa indagine, e l’indagine stessa, sono stati fortemente inluenzati dalla lettura di Naissance de la biopolitique di Michel Foucault, un libro che si confronta, come anche più modestamente si tenta di fare qui, con la pratica e con la teoria del liberalismo del Novecento, individuandone una straordinaria novità non solo rispetto alla tradizione liberale precedente, ma più in generale rispetto a quello 9 che Foucault giudica il problema (o se si vuole il miraggio) fondamentale della politica, ossia il «governo degli uomini». Foucault si proponeva di «far passare gli universali per le griglie delle pratiche concrete», e per molti aspetti, in un’indagine pur diversa, è quello che ho tentato di fare in questo lavoro. Proprio dall’analisi di come lo sviluppo storico del liberalismo abbia avuto un impatto sulla teoria, da come la teoria del liberalismo classico sia stata trasformata dai problemi che la pratica liberale ha posto, sembra emergere la principale novità del liberalismo del Novecento, una novità che ha indotto alcuni a utilizzare il termine «neoliberalismo». Il neoliberalismo (per quanto io non sia ancora convinto dell’opportunità di usare questo temine, afermatosi nella letteratura internazionale con una connotazione che talvolta ha poco o nulla di scientiico), quando viene analizzato rispetto alla tradizione liberale classica, si propone peraltro come un puzzle straordinariamente complicato, nel quale alcuni pezzi si intrecciano sorprendentemente e inaspettatamente con altri, ossia dove le diferenti e (se osservate solo con le lenti della teoria politica) concorrenti concezioni liberali trovano una sintesi nuova e per certi versi paradossale. Questo per alcuni aspetti era stato colto proprio da Foucault, quando nella sua analisi afronta il tema della biopolitica del liberalismo, dicendoci che il liberalismo è biopolitica, e che solo dopo aver compreso il liberalismo si può comprendere la biopolitica. Il limite di quello studio per molti versi geniale, proposto nel suo corso al Collège de France nell’anno accademico 1978-1979, era in parte in una conoscenza della tradizione liberale parziale e prevalentemente indiretta, ma anche (per quanto questa non sia una colpa ma un merito) il suo essere arrivato «troppo presto», ossia quando ancora non si erano dispiegate quelle che lui avrebbe chiamato le «pratiche liberali» degli anni Ottanta. Questo lavoro ha tra le sue ambizioni anche quello di confrontarsi con lo studio proposto dal ilosofo francese dell’evoluzione della tradizione (neo)liberale, estendendo la sua analisi a fenomeni che lui allora non aveva potuto analizzare, ma anche confrontandosi criticamente con alcune delle sue conclusioni. Questo viene fatto in particolare nella parte inale di questa ricerca, nella quale si tirano le ila riguardo all’evoluzione della teoria e della pratica liberale proposta nei diversi capitoli, cercando di rispondere all’interrogativo riguardo alla reale esistenza di un «neoliberalismo» e la sua relazione con la ilosoia politica del liberalismo. Articolare una risposta a quell’interrogativo sembra essere importante proprio per capire la vera «natura» del liberalismo del Novecento, un problema che ha appassionato e appassiona molti studiosi. Le opinioni su 10 come considerare il neoliberalismo sono varie ed articolate, ma volendo sempliicare si possono dividere in due iloni. Da una parte vi è chi ritiene che esso sia nato come un progetto politico per difendere il capitalismo, un «credo» dal quale è poi scaturito non solo un programma di riforme economiche ma più in generale uno spostamento del cuore della tradizione liberale dalla politica all’economia, e dunque un sostanziale assoggettamento della teoria del liberalismo alle mere esigenze del funzionamento del mercato. Dall’altra vi è invece chi ritiene che esso sia la risultante di un percorso intellettuale variegato e condizionato da episodi speciici, che però non è certo nato con delle sole inalità economiche, ma con l’obiettivo generale, e imprescindibile nella tradizione liberale, di promuovere una maggiore libertà individuale, vedendo il mercato come un tassello fondamentale di un percorso più ampio. La prima versione è sostenuta da chi, pur con diverse sfumature, muove pesanti critiche al neoliberalismo, bollato come un progetto ideologico che avrebbe partorito un movimento politico che ha come unico obiettivo quello di difendere il capitalismo e i capitalisti. Pur avendo prodotto studi talvolta documentati, che peraltro non sempre sottovalutano le diferenze presenti all’interno del neoliberalismo, questa corrente di pensiero pare «ossessionata» dalla volontà di attribuire una matrice ideologica e militante alla tradizione neoliberale, arrivando nei casi più estremi (si pensi agli scritti di Philip Mirowski o di David Harvey) a negarne una vera dimensione teorica e inendo così per assumere essa quel carattere «ideologico» che vorrebbe invece attribuire al neoliberalismo. Il mio obiettivo in questo lavoro non è quello di sconfessare quella che è stata chiamata la «leggenda nera» del neoliberalismo, visto come un’organizzazione potentissima capace di condizionare le sorti del mondo e responsabile dunque dei mali della nostra società. Quello che mi propongo è invece di dimostrare come sia possibile e opportuno lavorare per ricostruire una ilosoia politica del neoliberalismo (se davvero si vuole optare per questo termine), inscindibile dalla tradizione del liberalismo classico, rispetto alla quale vi sono forti elementi di novità ma anche aspetti di continuità. In sintesi la mia idea è che il liberalismo del Novecento sia stato straordinariamente ricco e plurale nelle sue posizioni, abbia saputo trovare luoghi di incontro per discutere di queste diferenze e si sia anche, come tutte le teorie politiche, posto il problema di come promuovere la condivisione delle proprie idee e di come inluenzare opinion makers e politici perché quelle idee attecchissero nella realtà. Il fatto che sia stato capace di farlo (peraltro agevolato in questo compito dalle circostanze storiche e dai fallimenti delle idee concorrenti) in maniera sistematica, e riuscendo 11 in varie circostanze a mettere in secondo piano le importanti diferenze teoriche presenti tra i suoi diversi esponenti, non ne fa un’ideologia militante, ma una tradizione di ilosoia politica che merita di essere studiata come tale, e forse anche per questo sarebbe opportuno riiutare il termine «neoliberalismo», ormai fortemente compromesso dalla visione di chi lo ritiene un fenomeno solo ideologico. Peraltro quel tentativo di inluenzare la realtà, come si è già accennato, ha prodotto dei risultati talvolta sorprendenti, che hanno posto alla teoria liberale una serie di problemi e la hanno per certi versi costretta a ripensarsi. E proprio per questo il presente lavoro si propone con un’alternanza di analisi di quelle che sono state da un lato le principali novità teoriche e dall’altro le più signiicative esperienze storiche (politiche e «associative») del liberalismo, con l’intento di leggerne insieme i problemi in chiave di ilosoia politica. Guardando alla «pratica liberale» l’aspetto più interessante è forse che essa ha diagnosticato nitidamente quello che la teoria politica non sempre vedeva con chiarezza, ossia che il problema del liberalismo non era più semplicemente quello di limitare la crescita del ruolo dello Stato. Il potere politico era infatti già cresciuto a dismisura, e come conseguenza erano cambiate le aspettative della società e dell’opinione pubblica, ormai trasformatesi in qualcosa di assai diverso da quello che erano nell’epoca del liberalismo classico. Ecco perché il problema principale diventava non quello di limitare la crescita del potere politico (già cresciuto troppo), ma quello di ripristinare le condizioni perché esso potesse essere limitato, e perché gli individui e la società lo volessero limitato; questo potrebbe essere deinito il problema di come «tornare indietro» non soltanto rispetto a una politica non favorevole alla libertà, per come intesa nella tradizione liberale, ma soprattutto rispetto a una società nella quale la «passione» per la libertà individuale sembrava ormai assopita. Rispetto a questo problema, che è certamente anche un problema ilosoico-politico, la tradizione liberale non aveva una risposta, o meglio aveva una risposta parziale, che si andò poi chiarendo e riarticolando attraverso le pratiche liberali. Il problema di come tornare indietro, di cosa signiicasse esattamente tornare indietro, dato che un ritorno identico al passato non è mai possibile né, almeno in chiave liberale, auspicabile, e di quale fosse il ruolo del potere politico in un processo di questo tipo, era (ed è) un problema ineludibile per la teoria liberale, il quale pone anche, come vedremo, delle diicoltà così grandi da rischiare di farne vacillare l’impianto stesso. È prevalentemente intorno a questi problemi che si articolano i diversi capitoli di questo lavoro. 12 Nel primo di essi si cerca di mostrare come nel periodo tra le due guerre mondiali, ma in parte anche dalla ine dell’Ottocento, la ilosoia politica liberale si trovasse davanti alla necessità di fare i conti con quella che veniva considerata, anche dai liberali stessi, una inadeguatezza della sua teoria. La concezione dell’ordine sociale sottesa all’età del laissez-faire appariva inevitabilmente compromessa, ed era anzi ritenuta una concausa della crisi del mondo circostante. Ad essere venuta meno era la iducia nell’idea che un libero mercato non regolato potesse funzionare adeguatamente, e dunque l’idea stessa, centrale nella tradizione liberale classica, che esso fosse un qualcosa di «naturale», non solo capace di autoregolarsi ma anche di promuovere, oltre al miglioramento economico, anche un miglioramento «sociale» e una maggiore razionalità dell’agire individuale. Il liberalismo di quegli anni si trasforma e si ripensa radicalmente rispetto a tale problema, e a diventare dominante in Gran Bretagna è la corrente del New Liberalism, che introduce elementi etici nella concezione dello Stato e dei suoi compiti, e ha inine in Keynes, che con il suo lavoro di economista si proponeva di superare le instabilità intrinseche del sistema capitalistico, la sua espressione più compiuta. Il quadro della situazione di quegli anni serve a mostrare quale fosse il punto di partenza teorico con il quale il liberalismo del secondo dopoguerra avrebbe poi dovuto fare i conti, e si vedrà nel prosieguo dell’analisi come nel New Liberalism vi fossero una serie di ambizioni e obiettivi che sarebbero poi stati rivisitati dal «neoliberalismo», o almeno di una parte di esso. Il riferimento è, in particolare, a un progetto di conquista del consenso che si concretizzasse attraverso un’inluenza diretta sui decision makers politici, ma anche a una crescente importanza dell’economia che assurgeva, proprio con la igura di Keynes, al ruolo di nuova ilosoia. Il secondo capitolo è dedicato alla ricostruzione della tradizione tedesca dell’ordoliberalismo, nelle sue due varianti della Scuola di Friburgo e dell’ordoliberalismo «sociologico» di Rüstow e Röpke, delle quali si cerca di indagare la continuità ma anche le signiicative diferenze. La rilevanza dell’ordoliberalismo nella ilosoia politica del Novecento è stata a lungo sottovalutata e per alcuni versi fraintesa. La Scuola di Friburgo appare importante perché per prima, già negli anni Trenta, propone un superamento del laissez-faire guardando all’intervento dello Stato per produrre ciò che il mercato non aveva saputo (o gli era stato impedito di) produrre: delle regole ainché il sistema di libero mercato, visto come basato sul principio di concorrenza, non fallisca, ossia non cada vittima di quegli attori economici che, raggiunta una posizione dominante, riescono ad anestetizzare il principio della concorrenza. Il problema non è dunque, 13 come in quegli anni era per Keynes, quello di far funzionare il mercato con l’intervento statale, ma principalmente quello di issare delle regole perché il processo di mercato rimanga aperto e non sia alterato o annullato da coloro che vi partecipano. L’ordine di mercato deve dunque essere aiancato da un ordine giuridico prodotto da uno Stato forte ma limitato, che ha come compito principale proprio quello di produrre le norme per far funzionare il mercato. A queste due dimensioni, economica e giuridica, Rüstow e Röpke ne aggiungono una terza, quella «morale». A loro giudizio perché il mercato funzioni sono necessari una serie di «riserve morali» che esso non crea, ma anzi consuma. Il problema principale diventa allora cosa fare per salvaguardare, o far rivivere, quelle «riserve», e in questo senso il loro oggetto di studio diventa il tipo di intervento necessario per modiicare i valori difusi nella società, dove la morale viene vista nella sua interdipendenza con il diritto e con l’economia. In questo vi è un approccio rivoluzionario per la tradizione liberale, approccio nel quale può forse essere individuato un fondamentale tassello di quello che viene chiamato «neoliberalismo», senza dimenticare però che nella visione dei due pensatori tedeschi non vi è nulla che lasci pensare che si debba modiicare la società in funzione del libero mercato, il quale viene anzi visto, soprattutto nella versione di Rüstow, in posizione «servente» rispetto alle esigenze ben più ampie della vita in società. Il terzo capitolo si occupa del modello dell’economia sociale di mercato, indagandone insieme la dimensione storico-politica, concretizzatasi nelle riforme politiche ed economiche che diedero luogo al Wirtschatswunder, il miracolo economico tedesco, e la dimensione ilosoico-politica. Da questa indagine emerge come nell’economia sociale di mercato, che fu appunto un modello ilosoico-politico prima ancora che economico, vi fosse una tensione irrisolta tra due visioni del liberalismo e due diverse concezioni del ruolo del potere politico per la realizzazione di un buon ordine sociale. A questo proposito vengono analizzate l’opera politica ma soprattutto le idee e la visione ilosoica delle due igure chiave dell’economia sociale di mercato, Ludwig Erhard e Alfred Müller-Armack, le quali vanno inquadrate sia in riferimento all’analisi svolta sull’ordoliberalismo sia rispetto alla tradizione del liberalismo classico. Il fallimento dell’economia sociale di mercato, nonostante gli straordinari successi economici inizialmente raggiunti, è il fallimento dell’ennesimo tentativo nella tradizione liberale di far convivere libero mercato e crescente ruolo dello Stato, nell’illusione che un accrescimento dei compiti dello Stato secondo il criterio dell’«intervento politico liberale» potesse sia generare, o agevolare, l’integrazione sociale, sia in ultima analisi raforzare lo spirito di libera 14 iniziativa e le radici del libero mercato. Da quel fallimento, ilosoico prima che economico, il liberalismo avrebbe tratto delle importanti lezioni che ne avrebbero condizionato lo sviluppo futuro. Nel quarto capitolo l’attenzione si sposta su quelli che sembrano essere due elementi chiave nell’evoluzione del liberalismo del Novecento, e della sua supposta trasformazione in «neoliberalismo»: l’organizzazione del network liberale (prevalentemente) attraverso la fondazione della Mont Pèlerin Society e la riorganizzazione, se non anche rifondazione, della teoria del liberalismo attraverso gli studi di Mises e Hayek. In particolare si investiga su come il venire a contatto degli esponenti della Scuola austriaca con il mondo americano abbia per molti versi trasformato sia la cultura liberale americana sia l’evoluzione del pensiero e dell’azione di questi due autori. Se infatti le loro idee ebbero conseguenze importanti sia in termini scientiici sia in termini di impatto sull’opinione pubblica, grazie anche all’opera dei think-tank con i quali collaboravano, è altrettanto vero che il rapporto con quel mondo, e anche l’ottimismo generato dal successo che riscontravano le loro idee nel nuovo continente, seppero imprimere una svolta alla maturazione di alcune delle loro teorie, soprattutto nel caso di Hayek, e anche a una presa di coscienza delle implicazioni «politiche» che la loro revisione della teoria liberale comportava. Il quinto capitolo, in continuità con il precedente, analizza l’apporto teorico dei pensatori americani alla tradizione liberale contemporanea, guardando anche a come essi trasformarono la natura e i compiti della Mont Pèlerin Society, inluenzando (anche) per quella via i destini delle politiche liberali in America e in Europa. In realtà anche il liberalismo americano ancora negli anni del dopoguerra era molto lontano da quelle che ne diventeranno le caratteristiche a partire dagli anni Sessanta, e la transizione avviene gradualmente, anche grazie all’opera dei think-tank e al rianimarsi di una cultura politica molto più favorevole all’individualismo rispetto a quella del vecchio continente. In questo processo di trasformazione del liberalismo la igura chiave diventa certamente quella di Milton Friedman, non solo uno dei più importanti economisti del secolo scorso ma anche uno dei più brillanti divulgatori del pensiero liberale, e per molti aspetti il vero arteice della trasformazione del liberalismo. Con la sua igura la tradizione liberale ricomincia a rivendicare con orgoglio le conseguenze positive non solo in termini economici ma anche «morali» del mercato, abbandonando deinitivamente quella sorta di «senso di colpa» che l’aveva caratterizzata per un lungo periodo. La igura di Friedman (e per altri versi anche quella di James M. Buchanan) è tuttavia di estremo interesse per comprendere l’evoluzione della ilosoia politica 15 liberale anche per altri motivi, legati sia alla sua «metodologia» di studioso di economia, sia al fatto che, nonostante la sua radicalità nella difesa della libertà, egli avesse una visione del liberalismo (economico) come qualcosa di relativamente lessibile e utilizzabile anche in contesti non liberali, e soprattutto non negava afatto l’importanza del ruolo dello Stato nel «gestire» il funzionamento di alcuni processi di mercato. La igura di Friedman ci introduce a dei «paradossi» della teoria liberale contemporanea che vengono per alcuni aspetti acutizzati e per altri risolti in quella che è stata probabilmente l’esperienza politica liberale più interessante del Novecento: la Gran Bretagna di Margaret hatcher. Quell’esperienza ebbe in termini prima di tutto culturali una portata così ampia da indurre alcuni commentatori a deinire il «thatcherismo» come una sorta di nuova ideologia del liberalismo, la quale suscitò al contempo rancori e gloriicazioni. Ma al di là della sua reale connotazione ideologica, e al netto di un giudizio ancora in parte controverso sui suoi risultati economici, il thatcherismo rimane un caso di studio di straordinario interesse per comprendere l’evoluzione della teoria politica liberale. Ciò che infatti esso seppe realizzare non fu la limitazione del potere politico, ossia l’obiettivo «classico» della tradizione liberale, ma un diverso e per molti versi spregiudicato uso della politica per costringere il libero mercato a funzionare e per tentare così di raforzare o reintrodurre nella società i valori della responsabilità e della libertà individuale. Il paradosso fu nel fatto che questo processo fu portato avanti con una leadership politica carismatica che cercava un rapporto diretto con il popolo e che concepiva il cambiamento dei rapporti economici come lo strumento per realizzare un cambiamento culturale. Con il thatcherismo dunque si solidiica deinitivamente l’idea, prima al contempo blandita e avversata dalla teoria liberale, che una leadership politica fosse necessaria per reintrodurre nella società dei valori liberali, e la ilosoia politica liberale si trova concretamente davanti a un tentativo di afrontare con strumenti nuovi dei problemi che essa aveva saputo in parte diagnosticare ma non risolvere. Nella conclusione viene riletto il percorso presentato nei diversi capitoli alla luce delle categorie foucauldiane della governamentalità e della biopolitica. L’analisi di Foucault infatti, nonostante alcune imprecisioni e delle scelte lessicali talvolta infelici, sembra straordinariamente fertile per capire la natura del liberalismo contemporaneo come progetto di cambiamento della società e dei suoi valori. Usando la lettura di Foucault, e confrontandosi con il doppio binario della teoria e della storia del liberalismo, pare possibile cogliere quelle che sono delle sorprendenti continuità tra posizioni apparentemente distanti ma anche la carica di novità che il 16 liberalismo contemporaneo ha avuto rispetto al problema del giusto ruolo della politica nella società. Ed è dunque alla luce della sua analisi che si può cercare di capire la rilevanza che un certo percorso politico del liberalismo, che forse potremmo chiamare neoliberalismo, ha avuto nel rideinire la ilosoia politica liberale, ponendo nuove (e talvolta apparentemente paradossali) side a una teoria che si era ampiamente rinnovata ma rimaneva per certi aspetti ancora inadeguata rispetto ad alcuni problemi posti da un mondo e da una politica radicalmente trasformati rispetto al passato. Le idee contenute in questo lavoro sono state discusse con tanti amici e colleghi, che talvolta le hanno condivise e altre no, e nei confronti dei quali sono profondamente debitore. Non posso ricordarli tutti, e ne ringrazio qui solo alcuni. Ömer Çaha, che supervisiona le mie ricerche alla Yildiz Technical University di Istanbul. Georgios Varouxakis e Robert Saunders, che hanno reso possibile il mio soggiorno di studio alla Queen Mary University of London, e Andrew Gamble al quale le mie ricerche sul thatcherismo devono molto. Raimondo Cubeddu, Flavio Felice, Stefan Kolev, Alberto Mingardi e Giovanni Orsina, attenti studiosi della tradizione liberale. Ad essi, e ad altri amici e studiosi che colpevolmente non cito, va la mia gratitudine. 17 Indice Introduzione 7 I. Crisi e trasformazione della tradizione liberale: tra teoria e storia politica 1. Crisi storica e incongruenze teoriche del liberalismo 2. Un nuovo liberalismo? 3. La ine del laissez-faire 4. L’eredità di Lord Keynes 19 21 26 32 40 II. Regole, ordine e società: l’ordoliberalismo tedesco 1. Regole e mercato: la Scuola di Friburgo 2. L’ordoliberalismo sociologico di Alexander Rüstow 3. Il liberalismo come politica della società: Wilhelm Röpke 4. Ordoliberalismo e neoliberalismo: fraintendimenti e realtà 45 46 58 70 87 III. L’economia sociale di mercato: la Germania di Ludwig Erhard 1. Gli efetti sociali del mercato 2. Evoluzione o trasformazione? L’economia sociale di mercato cambia strada 3. L’economia sociale di mercato e la redistribuzione: Alfred Müller-Armack 4. Una rivoluzione incompiuta 119 126 IV. La Scuola austriaca in America e il progetto della Mont Pèlerin Society 1. Il liberalismo senza compromessi di Ludwig von Mises 2. La via della schiavitù e il progetto liberale hayekiano 3. Alla ricerca dell’unità: il ruolo della Mont Pèlerin Society 4. La rifondazione della teoria liberale 131 133 142 152 162 93 94 111 V. Economia e libertà: la centralità americana 1. La Scuola di Chicago 2. Milton Friedman e il «liberalismo empirico» 3. Capitalismo e libertà: un nuovo approccio al liberalismo 4. Forze della storia o forza delle idee? Una nuova stagione del liberalismo 169 171 180 190 202 VI. Il ritorno del liberalismo in Europa: la Gran Bretagna di Margaret hatcher 1. Dal Welfare Consensus alla sida liberale 2. Mercato e democrazia: il popular capitalism come progetto (neo)liberale 3. Liberalismo, popolo e leadership politica 4. Stato e libertà: la lezione del thatcherismo 227 235 242 Conclusioni La biopolitica del (neo)liberalismo 251 Bibliograia 275 Indice dei nomi 293 209 211