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Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale DI SARA MANISCALCO* Abstract Questo articolo presenta un’analisi storica e antropologica di alcune dinamiche socio-politiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica dell’Uzbekistan. L’intento ultimo è di rilettere su come lo sfruttamento del lavoro e, in particolare, dei lavoratori della terra, sia fortemente intrecciato a politiche di centralizzazione del potere, nonché direttamente legittimato dall’autorità dello Stato, tanto da poter parlare di sfruttamento istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti 2007, p. 256). L’articolo mostrerà come tale sfruttamento sia necessariamente connesso a pratiche di depauperazione ambientale. L’industria cotoniera è il mezzo tramite cui precise dinamiche di asservimento sono riprodotte attraverso l’uso del diritto e del potere esecutivo, il controllo sulla terra e sui prezzi di mercato, la costruzione della propaganda di Stato, la limitazione e il controllo delle libertà individuali. Parole chiave: Uzbekistan, cotone, sfruttamento, lavoro, autoritarismo Introduzione Le Repubbliche post-sovietiche che compongono il Centro Asia sono entità politiche relativamente giovani i cui conini vennero tracciati durante il periodo bolscevico, seguendo precise logiche coloniali. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’ascesa dei governi indipendenti presero forma nuove opportunità di mobilità sociale ed espressione culturale, come per esempio la riappropriazione della religione islamica e dell’organizzazione basata su sotto unità urbane o contadine chiamate mahalla, strutturate secondo leggi e costumi riconducibili alla tradizione islamica1. Di contro, le istituzioni nascenti rimasero profon* s.maniscalco1@campus.unimib.it 1 Dalla metà degli anni Venti alla ine degli anni Ottanta del XX secolo il potere coloniale sovietico alternò momenti in cui la religione islamica era fortemente osteggiata a momenti in cui era apertamente tollerata. Tuttavia la popolazione non rinunciò mai alla propria tradizione religiosa, continuando a seguirla nella sfera privata. Sull’ondata della democratizzazione di ine anni Ottanta inizi anni Novanta si assistette a un intenso processo di rinascita religiosa (chia- S. Maniscalco damente legate a modelli d’autoritarismo politico ed economico di stampo sovietico, che concorsero negli anni al divario tra ricchi e poveri. Le pagine che seguono propongono un’analisi storica e antropologica delle dinamiche socio-economiche legate alla produzione del cotone nella Repubblica dell’Uzbekistan, con una particolare attenzione alla questione del lavoro. Nello speciico, il nucleo centrale di tale rilessione si concentra su come lo sfruttamento del lavoro e, in particolare, dei lavoratori della terra sia fortemente intrecciato a politiche di centralizzazione del potere, nonché direttamente legittimato dall’autorità dello Stato, tanto da poter parlare di sfruttamento istituzionalizzato o sfruttamento produttivo (Viti 2007, p. 256). Attraverso alcuni nodi fondamentali dell’analisi mostro come tale sfruttamento sia necessariamente connesso a pratiche di depauperazione ambientale legate a terra e acqua, al ine di fornire un quadro dinamico e complesso dei profondi squilibri sociali e del logorio ambientale che hanno contraddistinto la nascita e il consolidamento dello Stato uzbeko. Il lavoro che presento è stato perfezionato in seguito a un viaggio nel paese tra ottobre e novembre 20142. Nel corso delle mie ricerche ho seguito un itinerario che dalla capitale, Tashkent, mi ha portato ino a Bukhara, passando per Samarcanda e Urgut, un paesino agricolo considerato il cuore del mercato agrario del Paese. Servendomi delle teorie elaborate dall’antropologia del lavoro e, soprattutto, dal ilone di ricerca legato allo studio delle nuove forme di schiavitù e degli asservimenti di tipo produttivo (Bales 2010; Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012; Kourabas 2014; Solinas 2005, 2007; Viti 2007, 2008), ho cercato di analizzare le strutture gerarchiche riprodotte all’interno dell’industria cotoniera. Ho ritenuto fondamentale, inine, collocare l’intera rilessione all’interno di una prospettiva storica per mostrare come, nonostante ci si aspetti che le strutture coloniali sovietiche non condividano nulla col sistema di stampo liberale posto in essere dal governo del presidente Islam Karimov, vi sia, invece, una continuità politico-economica che a mio parere spiega molti aspetti dell’attualità. Essendo l’Uzbekistan una nazione in piena transizione, ciò che mi preme far emergere è come, nonostante dall’indipendenza (1991) ad oggi, si siano susseguiti cambiamenti formali mato per esempio in Uzbekistan “la luna di miele” dell’Islam), in cui la religione ritornò ad essere un importante fattore della vita politica e sociale (Filatov, Malašcenko 2000). La profonda penetrazione di quest’ultima nel Paese è riscontrabile anche a livello di struttura sociale nell’esistenza dei mahalla (makhallia), un termine adottato attualmente dallo Stato uzbeko per identiicare le comunità locali. Tutt’oggi l’appartenenza a tali comunità è determinata dal quartiere di residenza (Z. Arifkhanova 2000; Filatov, Malašcenko 2000; Trevisani 2007). 2 Ho condotto questa ricerca nell’ambito della laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche dell’Università degli studi di Milano-Bicocca e in collaborazione con il progetto Shadows of Slavery in West Africa and Beyond. A Historical Anthropology (SWAB), ERC GRANT 313737. 94 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale nell’organizzazione agricola, la base della produzione del cotone e dei rapporti di sfruttamento del lavoro rimane molto simile al periodo di dominazione sovietica. Volgendo lo sguardo al settore primario uzbeko, ci si scontra, infatti, con una catena di relazioni di subalternità basate su clientelismo, quote di produzione, controllo del mercato e diseguale accesso alle risorse. Uzbekistan: ieri, oggi, domani Da queste parti il cotone si era sempre lavorato. Il tessuto di cotone è leggero, robusto e anche sano: copre e tiene freschi. Da secoli manteneva un prezzo vantaggioso, dato che se ne fabbricava poco: limite imposto allora (come oggi) dalla cronica mancanza d’acqua dei tropici. Per aumentarne la produzione si sarebbe dovuto sottrarre acqua ai giardini, tagliare i boschi, sterminare il bestiame. Ma in tal caso di che vivere, che cosa mangiare? Un dilemma millenario, noto in tutto il mondo, dall’India alla Cina, dall’America all’Africa. E Mosca? Ovviamente era noto anche a Mosca (Kapuściński 1994 p. 250). Il senso d’inquietudine lasciato da queste parole aiuta a comprendere l’uso scellerato di risorse ambientali e umane che fu essenziale all’ascesa dell’industria cotoniera. La produzione del cotone e la sua esportazione hanno, infatti, una lunga storia in Uzbekistan. Precisi avvenimenti storici portarono questa coltura a essere un elemento fondamentale per la politica e l’economia dell’Asia centrale. Con l’esplodere della guerra civile negli Stati Uniti e il successivo calo dell’esportazioni di cotone grezzo, la Russia si trovò a dover cercare alternative per soddisfare la propria domanda interna. A partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento gli zar iniziarono ad avanzare pretese sulle terre centro asiatiche, essendo luoghi dal clima favorevole alla monocoltura. Dopo la caduta dei khanati di Kokand e Khiva e dell’emirato di Bukhara, il potere coloniale iniziò a dare forma a ciò che da lì a poco divenne il principale bacino d’importazione del cotone grezzo (Buttino 2003; Filatov, Malašenko 2000). Attraverso l’imposizione delle colture commerciali (cash crop), il lungo periodo coloniale andò a intaccare gli equilibri agricoli locali. Nelle aree limitrofe ai iumi Syr Darya e Amu Darya, alla coltivazione di grano e frutteti, si sostituì quella del cotone, che iniziò a rappresentare “l’oro bianco” della regione. L’area coltivata venne espansa da 35.000 ettari a 441.000, tra il 1860 e il 1913 il raccolto passò da 0,7 tonnellate per ettaro a 1,2 (Spoor 1993). Dopo la Rivoluzione d’Ottobre il Centro Asia divenne a tutti gli efetti parte della Russia bolscevica e nel 1924 vennero costituite le cinque Repubbliche Sovietiche: Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Tagikistan e Kirghizistan – i cui conini combaciano grossomodo con le Repubbliche attuali – (Benvenuti 1999; Fedke 2007; Spoor 1999). Durante l’era sovietica il governo centrale regolò la produzione agricola attraverso un sistema capillare di controllo che Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 95 S. Maniscalco si basava sull’imposizione di prezzi di mercato interni, sulla vendita dei servizi necessari al raccolto (mezzi pesanti, sementi, diserbanti, carburanti ecc.), sui sistemi d’acquisto e distribuzione della materia prima, sul controllo capillare dei processi di crescita e coltivazione delle piante e sull’imposizione di quote di produzione annue (Djanibekov, Rudenko, Lamers and Bobojonov 2010). Sotto la guida di Stalin, al ine di limitare le importazioni di cotone estero, vennero promosse sostanziali riforme agrarie volte alla collettivizzazione massiva delle aziende agricole. Dalla ine del 1932, circa il 77,5% di tutte le famiglie rurali furono incorporate in 9734 kolchoz (fattorie collettive) e in 94 sovkhoz (grandi aziende agricole statali) (Kandiyoti 2002), sancendo così la ine della struttura produttiva locale. All’interno di quest’ottica di produzione smisurata, volta ad arricchire le tasche di industrie tessili russe e politici corrotti, le ricadute a livello economico, sociale ed ecologico sulla popolazione furono devastanti. Dal 1960 le terre coltivate a cotone costituirono circa il 61% delle terre arabili e, dalle tre tonnellate di cotone per ettaro si arrivò ad una rendita di cinque tonnellate nel 1980, dieci volte superiore ai dati riportati nel 1913 (Djanibekov, Rudenko, Lamers and Bobojonov 2010; Spoor 1993). L’ espansione dirompente della monocoltura non avvenne certo senza pesanti ripercussioni sociali e ambientali. Il Novecento fu contraddistinto, infatti, dagli anni del cosiddetto “socialismo scientiico”, quando la tecnologia e la scienza divennero gli strumenti per trasformare la realtà naturale, biologica e sociale, modellandola sui principi dell’ideologia3 (Gianmaria 2009). Nel caso in questione il piano di sfruttamento delle acque dei iumi a scopo agricolo fu al centro degli obiettivi di Mosca. L’ingegnere Grigory Voropaev, durante una conferenza sui lavori in corso d’opera, dichiarò consapevolmente che le conseguenze ecologiche sarebbero state nefaste e che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral” (Westerman 2006). “Come in altri contesti la gestione di popolazioni e territori rurali ha seguito le vie della canalizzazione di larga scala” (Ibidem, p. 7), e anche in Uzbekistan la brama sovietica di diventare il principale produttore di cotone al mondo portò al 3 Allargando lo sguardo oltre il caso speciico in esame si nota come, proprio in nome della modernizzazione, la gestione di territorio e risorse naturali sia spesso divenuta il mezzo per implementare tecniche di governo volte alla dominazione delle popolazioni. In molti casi, e in particolar modo nel caso dell’Aral, quanto detto sopra avviene privando le popolazioni locali del diritto di sfruttamento e di accesso alle risorse naturali (Foucault 2005; Agrawal 2005, cit. in Rossi e D’Angelo 2012). In accordo con le teorie della New Ecological Anthropology (Kottak 1999), risulta chiaro come gli interventi ingegneristici sovietici, in particolar modo dell’ingegneria idraulica legata al sistema d’irrigazione dei campi, portarono a un disastro ecologico su larga scala, i cui danni sono abbondantemente visibili nell’Uzbekistan contemporaneo. In quelle terre, come in molti altri luoghi, modernizzare l’acqua mirò a controllare il territorio e le nuove frontiere, escludendo la gestione locale in nome di una missione civilizzatrice dell’innovazione tecnica. Anche in Uzbekistan nell’acqua andò diluendosi in un ampio progetto politico (Van Aken p. 111, in Viti 2008). 96 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale concretizzarsi, sotto la guida di Stalin, dei piani quinquennali e, successivamente, del progetto degli anni Cinquanta “Terra Vergine”4 (“Virgin Land”), promosso da Khrushchev. La prima mossa fu quella di appropriarsi della gestione delle risorse idriche; una volta sottratta alle istituzioni locali, questa venne posta sotto il controllo di una leadership centralizzata (Szőke 2013, p. 135). Nel decennio tra il 1930 e il 1940 la sostenibilità dell’irrigazione emica fu deinitivamente spazzata via quando le piccole aziende agricole locali, quasi sempre a conduzione familiare, furono accorpate in grandi aziende collettive (Kolchoz - Sovchoz) che, a causa dell’enorme richiesta d’acqua, necessitarono un nuovo sistema d’irrigazione. In risposta alla “sete” di un’agricoltura così strutturata, il governo iniziò a deviare il corso dei due maggior aluenti dell’Aral in un’intricata ragnatela di fossati a cielo aperto, il tutto per far conluire l’acqua nelle steppe e nelle zone desertiche al ine di renderle fertili (Micklin 2007; Spoor 1993). Per prima cosa vennero fatti venire i bulldozer da tutto il paese. Poi i grossi scarafaggi di metallo rovente si sparpagliarono sulle distese sabbiose. Partendo dalle rive del Syr Darja e dell’Amu Darja, gli arieti d’acciaio cominciarono a scavare nella sabbia canali e fossati, dove poi venne fatta scorrere l’acqua dei iumi. Ne dovettero scavare un numero ininito […] Lungo quei canali i kolchoziani dovevano ora coltivare il cotone (Kapuściński 1994, p. 250). Questo sistema di canali è ancora oggi visibile a chiunque viaggi per l’Uzbekistan: durante i miei spostamenti in treno il panorama incorniciato dal inestrino consisteva per lo più da una continua alternanza di aree aride solcate da canali, piccoli villaggi contadini e piantagioni di cotone. Nell’arco di settantacinque anni la produzione di cotone è aumentata di circa 12 volte (Szőke 2013) e i territori interessati dal sistema d’irrigazione passarono da 3 milioni di ettari (1900), a 5 milioni (1960) ino a 6,5 milioni (1980). L’impatto che tale cambiamento ebbe sull’ecosistema della regione, tuttavia, non fu visibile ino agli anni ‘60, quando il bacino del lago Aral iniziò a ritirarsi rapidamente. Tale processo rese evidente che un sistema di sfruttamento delle risorse di quell’entità risultava essere totalmente insostenibile a livello ecologico (Micklin 2007). A causa delle numerose deviazioni degli aluenti, l’acqua che avrebbe dovuto alimentare il bacino iniziò a diminuire drasticamente e la distesa originaria (68.000 km2) si ridusse, in pochi anni, ad appena un quarto dell’area iniziale. Nel 1987-1989 l’Aral si divise in due corpi separati: il “piccolo Aral” a nord, situato in Kazakhstan, e il “grande 4 Nel 1956 Mosca intraprese un progetto di irrigazione e appropriazione delle terre vergini delle steppe Golodnaya nella R.S.S. Uzbeka e in quella Kazaka per l’implemento della produzione di cotone, un progetto che originariamente fu elaborato per l’aumento delle colture di grano in Russia, ma che successivamente fu esportato nelle colonie e applicato al cotone (Matley 1970, cit. in Szöke 2013). Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 97 S. Maniscalco Aral” a sud, situato in Uzbekistan. Ma l’evaporazione del lago fu solo la più visibile conseguenza derivata dal mercato di quell’agognato oro bianco. Gli efetti di tale abuso, infatti, furono presto visibili nei loro molteplici aspetti: 1) salinizzazione del suolo, vaste aree di dorata terra uzbeka si trasformarono in lucida crosta salina del tutto inservibile (Kapuściński 1994; Micklin 2007; Strickman, Porkka 2008); 2) inquinamento delle falde acquifere e del terreno: laddove l’Aral si è ritirato, l’antico fondale, saturo di sostanze inquinanti derivate da concimatura e fertilizzazione (metalli pesanti, fertilizzanti, pesticidi, ecc.), venne esposto ai venti con gravi ripercussioni sull’ecosistema e sulla salute della popolazione locale (Piastra 2009.). Da dati UNEP del 2005 si stima che circa il 66% delle acque in Uzbekistan sia contaminato; 3) cambiamenti climatici: venuta meno l’azione mitigatrice dell’Aral, il clima ha visto negli anni un accentuarsi del suo carattere continentale, sperimentando estati più calde e secche e inverni più freddi con temperature che possono raggiungere anche i -20° (Piastra 2009); 4) rapida progressione della desertiicazione; 5) perdita della varietà di fauna e lora; 6) ripercussioni sanitarie e socio-economiche sulla popolazione stanziata in quelle zone (Micklin 2004, 2007; Spoor 1993; Strickman, Porkka 2008): agli inizi degli anni Ottanta si veriicò il deinitivo collasso dell’economia ittica che da sempre rappresentava il sostentamento principale della popolazione stanziata sulle sponde del lago. A seguito del disfacimento dell’ecosistema ittico si stimò che, nel Karakalpakstan - regione maggiormente colpita - circa 60.000 persone persero i propri mezzi di sussistenza; molte di loro, circa 10.000, furono costrette a migrare in cerca di lavoro, molte altre furono assorbite dall’industria cotoniera come manodopera a basso costo (UNEP 2005 cit. in Strickman, Porkka 2008, p. 111). Particolarmente appropriate appaiono qui le parole dello storico Boriz Rumer il quale aferma: “L’Uzbekistan ha intrapreso un lungo e tragico esperimento – che ha messo in luce la capacità della monocoltura di corrodere non solo l’agricoltura, ma anche l’industria, l’educazione, la salute e inine la moralità pubblica” (Rumer 1987, p. 82 in Spoor 1993, p. 12). Al momento del crollo dell’Unione Sovietica e della successiva proclamazione della Repubblica indipendente uzbeka (1991) l’agricoltura era il settore più sviluppato (33%), seguito poi dal settore industriale (27%). Dopo l’indipendenza la gestione agricola, e in particolar modo quella legata alla produzione del cotone, rimase un punto centrale delle strategie politiche del nuovo governo, ciò grazie agli elevati introiti derivanti dell’esportazione della materia (Djanibekov, Rudenko, Lamers and Bobojonov 2010). Ancor oggi l’allevamento e in misura maggiore l’agricoltura sono le attività economiche predominanti nell’Uzbekistan post-sovietico (Ilkhamov 1998). La supericie agricolo-pastorale uzbeka è di esclusiva proprietà dello Stato (Buttino 2008, pp. 11-12). Il governo, di stampo autoritario, sorto dalle ceneri dell’ex Partito Comunista, guidato per 25 anni dalla carismatica igura del presidente Islam Karimov, riesce a mantenere un forte controllo sulle superici rurali e sulla 98 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale loro produzione. Per motivazioni economiche, e per avvicinarsi all’auto-suicienza alimentare nazionale, nei primi anni post-indipendenza le scelte maturate dallo Stato si orientarono verso una poco incisiva conversione delle colture industriali: alcune aree riservate alla monocoltura cotoniera vennero destinate alla policoltura vegetale e si procedette all’aumento degli appezzamenti privati, i tomorka. (Buttino 2008; Zinzani 2011; Kandiyoti 2002). Con la graduale diversiicazione degli export avvenuta negli ultimi vent’anni la porzione occupata dall’esportazione cotoniera è andata via via diminuendo e, attualmente, viene aiancata dalla vendita di gas, combustibile e grano. Ciò nonostante, le quote di produzione annua e i prezzi interni determinati dallo Stato rimangono una fonte d’introito sostanziale per il PIL del paese, più del 50% della terra coltivata, infatti, è ancora attribuita alla produzione di questa coltura commerciale (Műller 2006 in Djanibekov, Rudenko, Lamers and Bobojonov 2010). In base agli studi svolti a riguardo dall’antropologa Deniz Kandiyoti (2002), risulta evidente che nel Paese non si veriicò mai un vero e proprio processo di privatizzazione della terra e delle risorse idriche, ciò che avvenne fu piuttosto un processo di decentralizzazione dei poteri. Il decentramento politico-economico è, infatti, il fattore chiave per comprendere il quadro attuale relativo alla gestione delle risorse e delle superici agricolo-pastorali del paese. Dopo la chiusura dei sovkhoz e la conversione dei kolchoz5 in shirkat (cooperative di produzione), il paese si avviò verso una sorta di “liberalizzazione” delle attività agricole concedendo l’aitto delle terre statali ai privati. Inoltre, una signiicativa decentralizzazione dei poteri dallo Stato alle regioni comportò l’ascesa degli hokim, forti governatori regionali politicamente inluenti, che oggi godono del pieno controllo delle superici e delle relative produzioni (Zinzani 2011). Come mostrerò in seguito, questa liberalizzazione nella gestione delle superici agricole si è composta di un ridotto grado di libertà. Gli anni di riforme agrarie portarono all’uicializzazione di nuovi “soggetti produttivi” del settore primario: con la legge del 1998, infatti, si iniziò a parlare di fermer (dal russo, agricoltore) e dekhon (dall’uzbeko, agricoltore). È ovvio che la situazione attuale della Repubblica dell’Uzbekistan sia no- 5 Azienda agraria collettiva, considerata da Lenin uno strumento indispensabile del passaggio dalla coltivazione privata della terra alla socializzazione. Invece che sul possesso della terra, il kolkhoz si fondava sull’accordo di persone isiche ed era disciplinato da un regolamento interno, concordato in armonia con i principi generali del codice agrario sovietico. Operava all’interno degli schemi produttivi generali issati dallo Stato per mezzo dei piani quinquennali nazionali, godendo però, di una certa autonomia relativa ad alcune scelte economiche interne. La terra era ceduta in uso perpetuo dallo Stato al kolkhoz, assieme ai mezzi impiegati per la produzione. Con la riforma agraria iniziata nel 1990, nel quadro generale del processo di privatizzazione del terreno agricolo, queste aziende collettive vennero da prima modiicate e successivamente soppresse, dopo un periodo di transizione di diferente durata che vide protagoniste le cinque Repubbliche post sovietiche (Enciclopedia Treccani 2012, disponibile al link www.treccani.it/enciclopedia/ kolkhoz). Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 99 S. Maniscalco tevolmente cambiata rispetto all’età coloniale, tuttavia essa è ancora fortemente legata alla produzione cotoniera, la quale rimane uno dei monopoli di Stato più redditizi. Come si leggerà nei paragrai successivi, nel paese perdura una condizione di asservimento della classe contadina perpetrata tramite politiche agricole e di concessione terriera fortemente coercitive, nonché tramite l’uso del lavoro forzato durante i mesi della raccolta. Nelle aree maggiormente colpite dal disastro ecologico dovuto al prosciugamento del lago Aral, permangono grandi sacche di povertà e notevoli problemi di carattere sanitario legati all’inquinamento. Inoltre, con la morte del presidente Islam Karimov6, avvenuta il 2 settembre 2016, il paese è stato sbalzato in uno stato di precarietà politica senza eguali. Karimov non ha mai reso pubblico un progetto di transizione uiciale. A tal proposito il giornale britannico he Economist7 scrive, all’indomani della dipartita del presidente: Da anni i clan dell’Uzbekistan tramano nell’ombra in vista della successione, al ine di conservare i privilegi economici accumulati durante il lungo regime di Karimov. […] è probabile che le lotte di potere aumenteranno d’intensità e che alcune potenze straniere tenteranno d’intromettersi. La Russia, ex potenza coloniale, sarà ansiosa di riafermare i suoi interessi nel paese che il Cremlino considera ancora un suo distretto all’estero. La Cina, con un approccio più commerciale, vorrà garantirsi le importazioni di gas. Gli Stati Uniti continueranno a corteggiare l’Uzbekistan, considerandolo un suo alleato nella lotta al terrorismo, consapevoli del conine che il paese condivide con l’Afghanistan. […] Ma la presidenza potrebbe comunque rimanere in famiglia, grazie alla più giovane delle iglie del presidente, Lola, oppositrice di Gulnara, primogenita, […] Sono, forse, i due “insider” di lunga data ad avere le possibilità più accreditabili: il primo ministro Shavkat Mirziyoyev e Rustam Azimov, il suo vice, anche se alcuni dicono che quest’ultimo sia stato arrestato. Altri sostengono che la decisione inale spetterà a Rustam Inoyatov, 6 Islam Karimov governava il paese di fatto dal 1989, quando diventò segretario del Partito Comunista dell’Uzbekistan, all’epoca una delle Repubbliche socialiste che componevano l’Unione Sovietica. Dopo la ine della Guerra Fredda e ottenuta l’indipendenza, nel 1991, vinse le prime elezioni presidenziali della storia del Paese, che si svolsero secondo molte organizzazioni internazionali in modo non democratico. Karimov estese il suo mandato ino al 2000 con un referendum tenuto nel 1996, anche questo giudicato non democratico dagli osservatori: per tutti gli anni Novanta cercò di liberarsi delle opposizioni politiche imponendo rigide regole riguardo alla registrazione delle forze politiche nel paese. Nel 2000 vinse delle nuove elezioni, poi di nuovo nel 2007 – nonostante il limite costituzionale dei due mandati presidenziali – e di nuovo nel 2015, in tutti casi ottenendo oltre l’85% dei voti. (disponibile al link http://www.ilpost.it/2016/09/02/islam-karimov-uzbekistan-morto) 7 “Uzbekistan’s president. An ailing despot. As their tyrant nears his end, the people of Uzbekistan hold their breath”. Pubblicato il 3 settembre 2016. Data di accesso: 17 settembre 2016. Disponibile al link http://www.economist.com/news/asia/21706185-their-tyrantnears-his-end-people-uzbekistan-hold-their-breath-ailing-despot. Tutte le citazioni riportate in questo lavoro, trascritte in italiano e non in lingua originale sono state tradotte da me. 100 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale capo del servizio di sicurezza nazionale, l’istituzione più potente e temuta del paese, che potrebbe anche fare emergere un candidato meno noto (he Economist 03/09/2016). Comunità rurali in transizione In Uzbekistan il 64% della popolazione vive in aree rurali e il 32% della forza lavoro è impegnata nel settore primario, con un contributo di circa il 25% al prodotto interno lordo. (dati Governativi dell’Uzbekistan 2007, cit. in Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012). Ciò che caratterizza il sistema rurale dai tempi dell’indipendenza ad oggi è una continua e costante trasformazione. Le riforme agrarie, infatti, sono il fulcro del pacchetto di misure politiche inserito nella transizione economica del paese. Dopo il disfacimento dell’URSS, il nuovo apparato governativo cercò di elaborare una forma di organizzazione della produzione agricola che si adattasse alle necessità della Repubblica indipendente (Ilkhamov 2007; Veldwisch, Bock 2006). L’allontanamento dalla politica collettivista, tuttavia, fu un processo lento e problematico e la gradualità con cui venne promosso fu una scelta politica volutamente sponsorizzata dal governo. Se nella maggior parte dei paesi post-sovietici il rovesciamento del sistema politico ed economico venne accompagnato dal fenomeno di decollettivizzazione agricola, in Uzbekistan ciò accadde solo in parte. Le terre non furono mai totalmente privatizzate, così come la gestione delle risorse idriche8, inoltre il controllo statale sulla produzione e sul commercio rimane, ad oggi, una peculiarità del sistema agrario (Veldwisch, Bock 2006). La decollettivizzazione che avrebbe dovuto far emergere il settore privato a scapito di quello collettivista non fece altro che trasferire i meccanismi di dipendenza e asservimento dalla vecchia organizzazione alla nuova (Ilkhamov 2007; Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch 2008). Esclusi e inclusi dell’agricoltura post-collettiva andarono gradualmente acquisendo una loro speciicità, costituendosi come categorie ben distinte: quella dei fermer e quella dei dekhon9 (vedi Tabella n.1) (Trevisani 2007; Zinzani 2011). Il 90-95% delle famiglie rurali con- 8 Attualmente in Uzbekistan la gestione delle acque irrigue e domestiche è aidata alle Waters Users Associations (WUAs). Nella sua deinizione formale una Water Users Association è un’associazione non-governativa, amministrata dai rappresentati degli utenti che ne usufruiscono. In realtà, però, essa è strettamente vincolata al controllo statale, entrando a far parte di una rigida struttura gerarchica subordinata al volere governativo (Abdullayev, Nurmetova, Abdullaeva and Lamers 2008; Veldwish et al. 2012). 9 Come descritto dal codice di regolamentazione della terra del 1998 (Trevisani 2007, p. 197). Con un decreto legge del 1998 venne uicializzata la distinzione tra i possessori di un piccolo appezzamento di terra inalizzato alla sussistenza (dekhon) e i contadini indipendenti (fermer) (Zinzani 2011). Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 101 S. Maniscalco luì nella categoria dei dekhon, mentre il 5-10% della popolazione divenne fermer10. In linea di principio ciò che avvenne fu una riorganizzazione del settore agrario in cui i kolkhozink (manodopera delle aziende collettive) divennero dekhon e la nomenklatura rurale11 converse nella igura del fermer (Markowitz 2008; Trevisani 2007; Veldwisch 2008). Tabella n.1 – Caratteristiche dei fermer e dei dekhon (Cfr. Kandiyoti 2002, p. 12) Il 5-10% dei fermer gestisce circa il 70-80% delle terre coltivabili (Veldwisch 2008, p. 74) relegando la popolazione contadina alla sola proprietà di piccoli appezzamenti appena suicienti all’autosussistenza (tamorka – 10 La categoria dei fermer divenne il naturale bacino d’accoglienza di tutta una serie di amministratori, dirigenti, agricoltori, capi di brigata ecc. delle ex-aziende collettive, i quali, spesso, erano accomunati da una itta rete di relazioni e buoni rapporti con gli hokims distrettuali e provinciali (Veldwisch 2008). 11 In periodo sovietico venne soprannominata nomenklatura rurale (Spoor 1993) l’élite rurale. Uicialmente, nel Paese, le persone che ricoprono una posizione governativa non potrebbero essere allo stesso tempo fermer. Di fatto, però, attraverso raggiri di ogni sorta, risulta che molti funzionari governativi siano proprietari di aziende agricole private (Veldwisch 2008). Il termine si riferisce inoltre alla nomenklatura del cotone, un sistema fatto di “baroni del cotone” spesso appartenenti all’élite politica locale, di corruzione e falsiicazione dei dati sul raccolto e della perpetrazione di pratiche di lavoro forzato, soprattutto a fronte della raccolta in autunno (Spoor 1993). 102 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale ko’sumcha tamorka). Tale situazione dà origine a una relazione tra fermer e dekhons asimmetrica e basata sull’accesso limitato e disuguale alle risorse (Valdwisch, Bock 2011). In tal modo i fermer divengono il punto focale di tutta una serie di strategie economiche necessarie alla vita della popolazione rurale, compreso l’aspetto sociale del welfare. L’insieme relazionale dei due soggetti produttivi si compone di un livello formale, caratterizzato dalla stipula di contratti lavorativi (colloquialmente deiniti ancora oggi pudrat) e di un livello informale, fatto di accordi verbali. I rapporti di iducia creatisi attorno al fermer divengono facilmente vere e proprie reti clientelari che veicolano una moltitudine di scambi diferenti e di dipendenze reciproche, in cui, ovviamente, è l’agricoltore privato a detenere la posizione di potere. Le interviste riportate di seguito sono un valido esempio della natura multiforme del panorama di relazioni possibili: Kizlarkhon: “Coltivo cotone su di un campo di un ettaro, butto il diserbante, curo la potatura e la raccolta. Se non raggiungo le quote di produzione, devo pagare per questo. È da primavera che non ci pagano il salario. Al posto del denaro mi hanno dato 1 kg di burro, 2 kg di riso, 5 kg di pasta e 100 kg di grano.” (Kandiyoti 2002 p. 29) Intervistatore: “Per quanto riguarda i tuoi igli? Per chi lavoreranno?” Dekhon: “Uno di loro lavorerà qui [in agricoltura, nel villaggio], mio iglio minore, ma non gli ho ancora permesso di irmare [un contratto] con alcun fermer. Penso che probabilmente lavorerà per il fermer proprietario del campo di riso per cui io ho sempre lavorato. Abbiamo una sorta di accordo verbale riguardo a ciò. […] In cambio di questo lavoro alla piantagione di riso, mio iglio lavorerà anche per il suo campo di cotone, avendo il permesso di accedere a 1-1.5 ha di rovi secchi da ardere per il fuoco. (Veldwisch 2008 p. 78) Più ci si addentra nell’analisi dei sistemi produttivi del Paese, più risulta evidente come la relazione dekhon-fermer abbia forti parallelismi con la relazione Stato-fermer (Veldwisch 2008). Nonostante i fermer godano di una posizione privilegiata rispetto ai dekhon, essi sono a loro volta coinvolti in rapporti di dominio e dipendenza in relazione alla macchina statale. Di conseguenza, come i dekhon si trovano obbligati a svolgere lavori duri e spesso non retribuiti nelle piantagioni di cotone dei fermer per poter accedere a risorse e protezione necessarie al mantenimento di uno standard di vita dignitoso, così i fermer si trovano obbligati al soddisfacimento delle quote di produzione imposte dal governo su grano e cotone con una rendita pressoché nulla, per poter accedere al mercato del riso o di altre colture notevolmente più proicue12. 12 Nonostante quest’ultima afermazione, è essenziale tenere in considerazione che la rete di dipendenze emersa inora è un fenomeno molto complesso che non si articola in una Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 103 S. Maniscalco Politiche di produzione del cotone I quattro più importanti esportatori di cotone sul panorama mondiale ino al 2003 erano Stati Uniti, Uzbekistan, Mali e Australia, a rappresentanza dei due terzi delle esportazioni mondiali totali. I dati aggiornati ad Aprile 2015, tuttavia, denotano un lieve cambio di tendenza per l’Uzbekistan che, dalla seconda posizione, si ritrova oggi in quinta posizione, e in sesta per quanto riguarda invece le potenze produttrici della materia prima (dati Cotton Incorporated 201513). Circa il 40% del cotone prodotto nel paese è acquistato da società russe, il restante conluisce nel mercato occidentale, cinese, indiano e pakistano oltre che in Bangladesh, Sud Corea e EAU (Rapporto congiunto Ambasciata italiana 2013). Come intuibile dai dati forniti sopra, la politica dell’Uzbekistan in merito al cotone è orientata prevalentemente all’esportazione e inalizzata a generare consistenti introiti per le casse dello Stato (Bafes, Badiane, Nash 2004; Guadagni 2005, cit. in Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012, p.105). Di base, la legge statale impone che il 60% della superice totale in concessione ad un fermer debba essere coltivata a cotone. Tuttavia, tale percentuale ha margini di variabilità relativi alle caratteristiche del suolo e al programma di rotazione delle colture. Si può sostenere, dunque, che la percentuale di cotone imposta all’agricoltore è il risultato di una negoziazione in merito al piano di produzione tra il fermer e le organizzazioni governative, in particolar modo tra fermer e Ministero dell’Agricoltura (Veldwisch 2008, p.91). Fermer: “Le fabbriche di lavorazione del cotone stipulano, annualmente, un contratto con il Ministero dell’Agricoltura sulla quantità di cotone di cui necessitano. Se la fabbrica necessita l’80%, il Dipartimento chiede 80% ai fermer.” Intervistatore: “Quanto te ne hanno imposto di piantare quest’anno?” Fermer: “Quest’anno mi hanno detto di piantare 12 ha a cotone, e così ho fatto.” Intervistatore: “Mi hai detto che ti hanno imposto di piantare a cotone circa il 70% dei campi, ma ne hai piantato molto di più, circa il 90% , perché?” Fermer: “Non mi hanno detto di piantarne il 70%, mi hanno detto di piantarne minimo il 70%, che signiicherebbe dal 75% all’85%. Mi sono fatto il piano di produzione da solo, con la maggior area piantata a cotone che semplice struttura gerarchica piramidale. È certamente chiara la riproduzione di relazioni fortemente asimmetriche, ma la divisione dei poteri non può essere inquadrata all’interno di modelli statici. Ciò è principalmente dovuto al fatto che, come accennato a inizio paragrafo, in Uzbekistan, la trasformazione del sistema economico è attualmente ancora in corso (Kandiyoti 2002; Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012; Veldwisch, Bock 2011; Veldwisch 2008). 13 Dati disponibili al link http://www.cottoninc.com/corporate/Market-Data/MonthlyEconomicLetter/ . 104 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale potevo sostenere, poi sono andato dal distretto e ho chiesto l’autorizzazione.” (Veldwisch 2008, p.91) L’intromissione statale nella coltivazione cotoniera non si limita esclusivamente all’imposizione delle quote di produzione, lo Stato si fa garante di tutto un sistema di controllo che si insinua in nei più piccoli aspetti gestionali della produzione: profondità e data della semina, tipo e modalità di fertilizzazione, potatura, quantità d’irrigazione. Le frequenti visite di funzionari incaricati dall’hokim distrettuale hanno il compito di veriicare che i processi standard di coltivazione vengano rispettati (Veldwisch, Bock 2011). A sostegno della produzione lo Stato fornisce agli agricoltori privati lo stretto necessario al raccolto, ciò attraverso particolari crediti bancari da spendere per l’acquisto di prodotti di vario genere: fertilizzanti, macchinari per l’aratura, sementi, diserbanti chimici, carburante ecc.14 Tali beni sono acquistabili grazie alla formula del credito bancario, ma solo presso determinate organizzazioni, quasi sempre semi-statali. Il risultato di tale meccanismo è che, in Uzbekistan, lo Stato vincola gli agricoltori a quantità e modalità di produzione del cotone, detenendo, inoltre, il pieno possesso dei canali di commercializzazione e distribuzione di tutti gli elementi fondamentali all’agricoltura (Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch, Bock 2011; Zanca 2011). Nonostante le negoziazioni e la rete di rapporti clientelari che lega i produttori privati alle organizzazioni statali, il business del cotone non è afatto redditizio. Molti fermer sostengono, addirittura, di arrivare a perdere denaro per la cura delle piantagioni (Trevisani 2007). La questione fondamentale per comprendere le dinamiche sopra afrontate si compone essenzialmente di due passaggi: 1.) lo Stato si costituisce come unico acquirente della materia prima, essendo quest’ultima monopolio esclusivo; 2) il prezzo d’acquisto del cotone viene deciso esclusivamente dal Ministero dell’Agricoltura e risulta di gran lunga inferiore al mercato internazionale. Negli ultimi anni, al ine di diminuire tale divario gli organi governativi hanno aumentato il prezzo del cotone grezzo15. Se nel 1997 il prezzo mondiale della ibra era del 67% più 14 I fertilizzanti per il cotone costano la metà di quelli destinati al resto dell’agricoltura, vengono distribuiti dal Dipartimento di Agro-Chimica, che ha sedi in tutti i distretti del Paese. I semi del cotone sono solitamente di tre varietà diferenti, la scelta del seme varia dalle caratteristiche ambientali di ogni provincia e vengono distribuiti da iliali del Dipartimento dell’Agricoltura. Per quanto riguarda i trattori, la maggior parte dei fermer dipende totalmente dalle organizzazioni statali, la Motor Tractor Parks (MTPs) è l’organizzazione più inluente nel settore (Veldwisch 2008). 15 Si noti che in Uzbekistan, in linea con l’economia di comando che ad oggi governa il settore cotoniero, gli agricoltori vengono pagati dallo Stato per il prezzo del cotone grezzo, in seguito lo Stato provvederà alla lavorazione e all’esportazione della ibra di cotone. Sul mercato mondiale non esiste un prezzo per il cotone grezzo, ma solo per la ibra lavorata Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 105 S. Maniscalco alto del prezzo pagato ai fermer dal 2007 il divario si è stabilizzato attorno al 17% (Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012, p. 105). In relazione a quanto detto, si può dedurre che il vero proitto dei coltivatori di cotone non sia riconducibile all’ambito economico. Produrre cotone è, in primis, il prerequisito fondamentale per accedere a grandi aree terriere e al permesso di inserire nei propri piani produttivi (che, ricordiamo, devono essere approvati dal Ministero dell’Agricoltura) una varietà di coltivazioni diferenti ed enormemente più vantaggiose, specialmente il riso. Inoltre, tali autorizzazioni vengono spesso viste come una sorta di “ricompensa” per la fedeltà dimostrata all’hokimiyat regionale attraverso l’impegno al raggiungimento delle quote di produzione. In Uzbekistan, il cotone è, infatti, uno degli indicatori più evidenti dei rapporti di fedeltà tra le parti in gioco (Kandiyoti 2002). Se per i fermer la produzione del cotone è tutt’altro che redditizia, anche per i dekhon lavorare nelle piantagioni non è afatto lucrativo. Quasi tutti i fermer organizzano il lavoro stipulando contratti pudrat, ossia legando a sé famiglie dekhon attraverso rapporti di mezzadria che, solitamente, prevedono la gestione di 1-2 ha di cotone (una consuetudine molto simile a ciò che avveniva nelle aziende collettive). La predilezione dei fermer per questo tipo di rapporto lavorativo è spesso giustiicata dalla possibilità di delegare ad altri il reperimento della forza lavoro necessaria in momenti onerosi quali la raccolta. Il dekhon, con la stipula del contratto, diviene il solo responsabile della manodopera necessaria alla produzione (Trevisani 2007; Veldwisch, Bock 2011; Zanca 2011). Le condizioni di remunerazione della famiglia contadina assunta dal fermer vengono solitamente negoziate durante l’arco della stagione. Alcune relazioni prevedono una misera retribuzione salariale, ma nella maggior parte dei casi i pagamenti in denaro giocano un ruolo secondario. Di norma i pagamenti vengono fatti attraverso generi alimentari o beneici di vario tipo. Di seguito riporto una conversazione con un fermer in merito alla retribuzione dei suoi lavoratori: Intervistatore: “Come dividi il lavoro delle piantagioni di cotone tra i tuoi lavoratori?” Fermer: “I 10 pudrats che lavorano per me, hanno 1-2 ha di cotone a testa di cui prendersi cura” Intervistatore: “Cosa dai loro in cambio?” Fermer: “Concedo loro uno stipendio mensile, come stipulato nel contratto. Lavorano da marzo a dicembre.[…] Riconosco loro 8.000 sum al mese [circa 8$] per quattro mesi. Oltre a questo talvolta li pago con angurie e meloni. Quest’anno ci sono 7 lavoratori con 3,5 ha a testa […] Ma la paga è forfettaria, 8.000 sum (Velwisch, Bock 2011, p. 13). (Djanibekov, Bobojonov and Lamers 2012). 106 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale Nella rosa dei beneici indiretti derivati da questa relazione clientelare vi sono: il permesso di utilizzare i terreni per la produzione di riso, i diritti di pascolo, il supporto inanziario per eventi importanti quali il matrimonio di un iglio o per momenti di diicoltà, la possibilità di utilizzare gli steli secchi del cotone come combustibile per il fuoco e forme minime di salario (Kandiyoti 2002; Trevisani 2007; Veldwisch 2008; Veldwisch, Bock 2011). Lavorare come pudrat nelle piantagioni di cotone ofre alle famiglie dekhon determinati beneici ai quali sarebbe altrimenti impossibile accedere (Veldwisch, Bock 2011). Generalmente, la categoria dei dekhon, essendo maggiormente dipendente dalla produzione agricola è più vulnerabile a problemi quotidiani legati al riscaldamento nelle stagioni fredde, all’accesso all’acqua, all’andamento positivo o negativo dei raccolti. Ciò fa in modo che, attualmente, le famiglie rurali siano molto più dipendenti dagli agricoltori privati di quanto non lo fossero i loro antenati impiegati nelle aziende collettive, quando ancora vi era un reddito garantito. Ancor più che nel passato sovietico, oggi, il sistema retributivo è caratterizzato da enormi falle che ne vaniicano l’eicienza (Veldwisch 2008; Trevisani 2007; Zanca 2011). Lavoro forzato e nuove forme di schiavitù Nonostante l’Uzbekistan sia tra i irmatari dei tre trattati internazionali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) che condannano la coercizione lavorativa, oltre che della Convenzione sui Diritti dei Bambini, il sesto produttore di cotone al mondo continua a costruire la sua grandezza economica sull’utilizzo di più di un milione di minori e adulti costretti ai lavori forzati (Ferrero 2013). L’ingente proitto derivato da questo monopolio di Stato è ottenuto, oltre che con lo sfruttamento a monte della classe contadina, costringendo parte dei cittadini a partecipare alla raccolta in cambio di una remunerazione insigniicante (circa sei centesimi di dollaro per kg). Nel 2013, sono stati circa cinque milioni i cittadini uzbeki (circa il 16% della popolazione) mobilitati per la raccolta del cotone (Kourabas 2014). Il reclutamento avviene per lo più all’interno dell’amministrazione pubblica, del settore sanitario (infermieri, medici), in grosse aziende e soprattutto in scuole e università. Chi viene chiamato può trascorrere un periodo compreso tra uno e tre mesi lontano da casa e dalle proprie mansioni lavorative, il tempo necessario a soddisfare la quota di cotone dovuta al governo. Ogni cittadino uzbeko, infatti, nasce con un “debito congenito” che lo obbliga, se scelto dalle autorità, ad andare a raccoglie cotone gratuitamente o con un misero compenso. Nel 2014 tale quota variava dai 50 agli 80 kg di cotone Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 107 S. Maniscalco giornalieri (Ibidem)16. Malvina, un’infermiera di una clinica di Tashkent obbligata assieme a molti suoi colleghi alla raccolta nel 2012, aferma: Ho più di cinquant’anni e sofro d’asma, ma devo comunque raccogliere il cotone con le mani, e nessuno mi paga per fare questo. Il lavoro è stato duro. Alcune persone hanno telefonato chiedendo del nostro chirurgo, ma lui era a lavorare nei campi assieme a noi. La donna prosegue sottolineando di aver fatto il possibile per scampare alla chiamata e di essere partita a seguito di una minaccia di licenziamento (Asianews 18/10/2016)17. Per molti uzbeki la raccolta del cotone è un onere insostenibile. Si pensi, per esempio, al caso di un’insegnante di Samarcanda che, non essendo in condizioni isiche per poter andare a lavorare nei campi, cercò di raggirare il sistema ofrendo 100 dollari a un contadino per essere sostituita nella raccolta. Quando la vicenda fu scoperta l’insegnate si vide temporaneamente sospeso lo stipendio (Ibidem). Secondo il Forum uzbeko-tedesco per i diritti umani (UGF) la coercizione costituisce l’elemento centrale del sistema di produzione del cotone in Uzbekistan. L’istigazione al raggiungimento della quota pro capite, infatti, può essere perseguita con l’utilizzo di percosse e umiliazioni pubbliche (Kourabas 2014). Durante il mio viaggio attraverso il paese, intrattenendo conversazioni informali con alcune persone riguardo la pratica della raccolta forzata, ho potuto constatare che, nonostante quanto riportato sopra, esistono tra i cittadini atteggiamenti del tutto contrastanti. C’è chi la ritiene un giusto aiuto all’economia del paese, come il proprietario di un piccolo uicio postale di Samarcanda che mi spiegò: La raccolta del cotone è un contributo che diamo al nostro Stato, non tutti devono farlo. Se lavori in un’impresa puoi essere chiamato, se sei proprietario di una ditta con più di cinque o sei dipendenti devi mandare un tot di quota lavoro, se sei un lavoratore autonomo con pochi dipendenti o sei solo non devi andare. E comunque quelli che vengono chiamati sono pagati; puoi anche ofrirti volontario se vuoi18. In alcuni casi, invece, essa è percepita come un’ingiustizia legalizzata. Un ragazzo diciottenne, iglio del proprietario di una guesthouse in cui ho soggiornato a Samarcanda, mi conidò che fortunatamente quell’anno la sua 16 Per una discussione sul concetto e sulle implicazioni del debito si vedano tra i molti: Bales (2010); De Lauri (2015); Solinas (2005, 2007). 17 “Milioni di uzbeki schiavi per il cotone e per “fare grande la nazione”, pubblicato il 18 ottobre 2012. Consultato il 10 luglio 2016. Disponibile al link http://www.asianews.it/ notizie-it/Milioni-di-uzbeki-schiavi-per-il-cotone-e-per-fare-grande-la-nazione-26123.html. 18 Conversazione del 24 ottobre 2014, Samarcanda. 108 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale classe non era stata chiamata, ma che se l’anno seguente fosse stato ammesso alla Facoltà di Medicina sarebbe dovuto partire sicuramente. Secondo il giovane, si tratta di “una cosa negativa, prima di tutto perché il lavoro è duro, e soprattutto perché non ci si può in alcun modo astenere”19. C’è inine chi non se ne cura arrivando ino a sminuire la questione. Una mattina, al bazar, un uomo sulla sessantina, padre di famiglia, commerciante di zaferano iraniano e cumino selvatico di montagna mi disse: “Un tempo sì che c’erano i lavori forzati, ma oggi?! Oggi poca gente va a raccogliere il cotone. Sono perlopiù studenti, ma non fanno niente, vanno in vacanza. Qui si dice sempre «il controllo dello Stato, non è un vero controllo»”20. Considerando il tema del lavoro da un punto di vista più ampio e constatata l’esistenza di opinioni convergenti in merito alla perpetrazione di questa pratica forzata, ritengo21 che le dinamiche di sfruttamento lavorativo che maggiormente caratterizzano l’Uzbekistan contemporaneo vadano ricercate a un livello d’analisi più profondo. Pur considerando il lavoro forzato una pratica aberrante, nonché un gravoso problema di carattere umanitario, reputo la condizione di perpetuo asservimento della classe contadina analizzata nei paragrai precedenti, la sede principale dei problemi di sfruttamento lavorativo del paese. Essa, di fatto, risulta essere l’ultimo tassello di una catena di rapporti di potere inseriti in un’economia di comando “sopravvissuta” al periodo sovietico. Fabio Viti, in Schiavi, servi e dipendenti (2007) sostiene che, a esclusione di forme criminali o marginali di dipendenza ottenuta con la forza, il rapimento o il traico di esseri umani, la maggior parte dei casi descritti oggi come riduzione in schiavitù risulta corrispondere a forme alienanti di sfruttamento produttivo. Uno sfruttamento messo in atto, nella maggior parte dei casi, in contesti di arretratezza tecnologica, in cui il lavoro manuale ricopre ancora un ruolo considerevole. È proprio in questi contesi che i lavoratori invisibili, come li deinisce Viti, privati dei propri diritti, divengono in larga misura “volontari”, costretti in un certo modo dalle condizioni economiche e sociali degradate, ma mai oggetto di appropriazione violenta da parte della igura dominante. Citando le parole di Bormans (1996, p. 795), l’autore analizza poi la diferenza tra schiavitù e “schiavitù moderna”: 19 Conversazione del 25 ottobre 2014, Samarcanda. Sono da poco venuta a sapere che i sogni di questo ragazzo si sono realizzati: attualmente studia presso la Facoltà di Medicina, ma ha preferito, come molti suoi coetanei, migrare in Russia per l’intero periodo di studi. 20 Conversazione del 23 ottobre 2014, Samarcanda. Interessante l’espressione utilizzata dal venditore di spezie: “Government control, is not control”. 21 In accordo coi molti ricercatori che si sono occupati di cotone in Uzbekistan: Ilkhamov (2007); Djanibekov, Bobojonov and Lamers (2012); Kandiyoti (2002); Markowitz (2008); Spoor (1993); Trevisani (2007); Zanca (2011); Zinzani (2011); Veldwisch (2008); Veldwisch, Bock (2011). Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 109 S. Maniscalco La grande diferenza tra schiavitù e “schiavitù moderna” sta nella “partecipazione” del lavoratore al dispositivo di asservimento. Nella schiavitù lo schiavo è spersonalizzato e deresponsabilizzato, ridotto letteralmente a “cosa”. Nella “schiavitù moderna” si “attira” l’attenzione o l’intelligenza del futuro lavoratore, facendogli intravedere un salario e condizioni di lavoro accettabili, cosicché “tutto il meccanismo della messa a lavoro fa appello alla personalità stessa di questo lavoratore, giocando del resto su tutte le sue debolezze (Bormans 1996, p. 795, cit. in Viti 2007, p. 256). L’asservimento volontario, come lo deinisce Pier Giorgio Solinas (2007), è un fenomeno polimorico, mutevole e diicilmente deinibile. Gli esempi contemporanei di lavoro asservito sono riscontrabili in numerose fonti: agenzie internazionali, ONG, inchieste governative, studi sindacali; possono riguardare aree marginali, situazioni di illegalità o semi-illegalità, ma anche settori e luoghi perfettamente integrati nei circuiti del mercato internazionale: questo il caso della ibra uzbeka come delle grandi manifatture difuse nell’ Asia del Sud (India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka) e nel Sud-Est asiatico (Solinas 2007). Una legittimazione sempre più difusa delle nuove forme di schiavitù, si riconduce oggi all’uso di sistemi pienamente accettati di formalizzazione del rapporto lavorativo, come i contratti di lavoro fraudolenti (per esempio i contratti pudrat stipulati tra dekhons e fermer), volti a mascherare rapporti sbilanciati e fortemente coercitivi. Ecco che tali contratti ricoprono una doppia funzione per il datore di lavoro: intrappolano e occultano (Bales 2010). Le misure legali che dovrebbero far osservare il divieto di esercitare ogni forma di proprietà su altri esseri umani sono, ormai, ineicaci. Schiavitù e controllo vengono, infatti, praticati al di fuori di un rapporto di proprietà. Di fatto, quando il possesso non è più considerabile l’unica conditio sine qua non della schiavitù, essa diviene “facilmente” mistiicabile attraverso normali contratti di lavoro (Ibidem). Rilettendo sulle nuove forme di asservimento si percepisce subito una sorta di inquietudine riferita alla partecipazione consensuale dei lavoratori alla cattività economica, un fenomeno che: “spiazza il comune sentire di giustizia, e il concetto naturale di libertà” (Solinas 2007, p. 21). Bisogna dunque interrogarsi sul perché quelle stesse persone che sono le principali vittime di una forma di sfruttamento fanno proprie le regole in base alle quali vengono sottoposti a dominio. Ritengo che queste ultime rilessioni siano il giusto iltro interpretativo per guardare alla condizione della classe contadina della Repubblica dell’Uzbekistan, e in particolar modo, a chi, per necessità, ha dovuto intrecciare la sua vita con quella del “white gold”. 110 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale Stato di Controllo Una chiave di lettura teorica interessante, relativa alla situazione politica attuale della Repubblica uzbeka, è fornita dagli studi sul neo-patrimonialismo22. Nonostante la presenza di istituzioni formalmente democratiche, nessuna delle Repubbliche centrasiatiche può, infatti, essere deinita una democrazia (Reeves, Rasanayagam and Beyer 2014). Nei loro sistemi politici permangono leader autoritari, repressione delle opposizioni, difusa corruzione e un debole avvicinamento alla rule of law (Paiziev 2014). Nonostante l’utilizzo delle elezioni come mezzo di legittimazione politica, la leadership, nella realtà dei fatti, viene rinnovata attraverso votazioni falsiicate e decise a tavolino. È consuetudine, infatti, che le élite locali sviluppino continuamente nuove tecniche di manipolazione per mantenere il potere, alterando i risultati elettorali secondo accordi legati alla rete clientelare23 (De Lauri 2014). Le ultime elezioni presidenziali del Paese si sono svolte agli inizi del 2015. Durante il mio periodo di permanenza, tra ottobre e novembre 2014, l’Uzbekistan era in piena campagna elettorale. Molte delle persone con cui ho avuto modo di parlare mi confessarono il timore che vi fosse un passaggio d’incarico e che, quindi, Islam Karimov non fosse riconfermato. Una tra le frasi più comuni a legittimazione del desiderio che l’attuale Presidente restasse in carica fu “meglio che rimanga lui, chi lo sa come potrebbe essere il suo sostituto?!”. Ho potuto, dunque, riscontrare in molti dei miei interlocutori una sorta di abitudine rassicurante nella igura di Karimov24. Il ruolo a cui Islam Karimov è assurto dal 1991 è paragonabile a quel22 In un regime neo-patrimonialista meccanismi formali e informali, inseriti spesso in sistemi democratici consolidati, concorrono per mantenere sottomissione e fedeltà all’élite dominante. Essi sono basati non solo su valori e norme patriarcali, ma anche sullo scambio razionale di beneici e interessi clientelari (Ilkhamov 2007; Veldwisch, Bock 2011). La legittimità del leader in regimi di questo tipo non deriva direttamente dalle strutture, dai processi e dalle ideologie democratiche, ma piuttosto da un forte culto della personalità e da un’eicace rete di relazioni clientelari che lega l’élite nazionale al popolo (Paiziev 2014). 23 Come nota l’antropologo Antonio De Lauri (2014), in relazione alle elezioni svoltesi in Afghanistan del 2014, la gloriicazione dei processi elettorali in Paesi in transizione condensa molti dei miti, certamente legati al tema della libertà, dell’“era della democrazia”. Due di questi possono essere rintracciati nell’idea che le elezioni siano l’espressione massima della libertà politica, e nella rappresentazione della democrazia come una sorta di mantra moderno, veicolo preferenziale di immagini e ideologie politiche e non solo. Fissandosi, tuttavia, sull’immagine illusoria comunicata dalle elezioni, ossia il veriicarsi di un passaggio dal “prima” al “dopo”, si rischia, secondo l’autore, di perdere di vista il fatto che, in contesti particolari quali l’Afghanistan (o l’Uzbekistan), l’elezione diventa un modo per trasportare il “prima” nel “dopo”. In altre parole, esse, hanno il potere di riprodurre forme prestabilite di gerarchia sociale in un (solo apparente) nuovo ordine. 24 Ancora una volta i timori per la successione al trono furono dissipati rapidamente: le elezioni del 29 marzo 2015 si conclusero con la schiacciante vittoria dell’ultraottantenne Islam Karimov che, per la quarta volta in ventiquattro anni, venne riconfermato alla guida del Paese. Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 111 S. Maniscalco lo di autentico “padre della Patria”: l’identiicazione tra il percorso storico dell’Uzbekistan indipendente e la sua stessa persona è tale da renderne la igura pressoché incontestata. Se la sua riconferma ai vertici della repubblica centroasiatica appariva dunque di gran lunga prevedibile, sarebbe stata auspicabile, quantomeno dal punto di vista della comunità internazionale, una vittoria con percentuali meno clamorose, per testimoniare la crescita di consenso verso gli altri candidati (e dunque l’aumento della competizione politica reale), accanto a quello che si conigura come un processo di democratizzazione in transizione (Citati 2015)25. Ma è proprio in tal modo che il regime di autoritarismo presidenziale infonde la percezione di prevedibilità del sistema: evitando elezioni competitive assicura che il circuito politico resti chiuso in sé stesso (Cummings 2012, p. 69). In accordo con Harvey (2005, cit. in Reeves, Rasanayagam and Beyer 2014) e con un’ampia serie di antropologi che si sono occupati di Stato, tra cui Gupta (1995), Geertz (2004), Bourdieu (2013), Appadurai (2012) ritengo che la prospettiva antropologica sia in grado di problematizzare l’immagine dello Stato come comunemente percepita, ossia come un’entità separata dalla società, e possa mettere in luce le pratiche e i discorsi attraverso cui esso è costruito e immaginato. Lo Stato può essere vissuto come un’istituzione oppressiva e può essere condannato come assente o carente, così come può essere immaginato in modi idealizzati o invocato coma una solida e benevola struttura di potere (Reeves, Rasanayagam and Beyer 2014). Le antropologhe Veena Das e Deborah Poole (Das, Poole 2004) criticano la presunta trasparenza delle strutture statali, mostrando come lo Stato, spesso attraverso documenti scritti riconosciuti istituzionalmente, crei un “alone di legalità” attorno ad atti apertamente illegali e spesso violenti. Sulla base di tale rilessione le antropologhe suggeriscono di considerare lo Stato come una forma di regolamentazione oscillante tra modalità d’essere razionali e “magiche”. Ciò che Das e Poole deiniscono “magia” deriverebbe essenzialmente dall’illeggibilità dello Stato, dall’indecifrabilità delle sue leggi e dei suoi regolamenti, nonché dalla vita che essi acquisiscono nelle pratiche della comunità. Nel caso in esame, la “magia” messa in atto dal nascente Stato uzbeko per distogliere l’attenzione dal cammino autoritario preso all’indomani dell’indipendenza fu un processo di costruzione dell’ideologia nazionale, nonché 25 Nonostante in questo lavoro io non abbia l’occasione di approfondire l’argomento, sarebbe senz’altro interessante sofermarsi a rilettere sulle dinamiche di “esportazione” del sistema giuridico occidentale in Paesi che, come l’Uzbekistan, stanno vivendo una transizione politica, economica e amministrativa. Siamo in un’epoca in cui, come aferma De Lauri (2012), l’idea di rule of law (“Stato di diritto”, “governo della legittimità”) assume un carattere globale, ossia si “arroga” la possibilità di poter afermare regole universali, valide per tutti. È interessante, però, notare come tale fenomeno possa assumere anche una connotazione negativa, legata a movimenti di espansione giuridica che celano interessi di tipo economico e politico (Ibidem.). Per un ulteriore approfondimento sul tema si veda Nader, Mattei (2008). 112 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale di arbitraria riscrittura della storia uiciale. Diversamente dalla maggior parte degli Stati decolonizzati del XX secolo, l’Uzbekistan fu in parte creato e spinto alla dichiarazione d’indipendenza da Mosca, senza la volontà fervente di alcun movimento nazionalista vero e proprio (Kurzman 1999; Ilkhamov 2007; Lurelle 2010). Il nazionalismo uzbeko venne sviluppato in prima istanza dall’apparato statale che, con l’uso capillare della propaganda di Stato, celebrò una presunta continuità dell’Uzbekistan post-sovietico con una altrettanto presunta età dell’oro vissuta all’epoca della dinastia timuride (seconda metà del XIV secolo). Venne posto in essere un meccanismo che Anthony Smith (2000) rinominò “etnostoria”. Il mito della Nazione viene usato, in questo caso, non solo per legittimare il controllo sul territorio e i conini, ri-costruire una narrazione univoca della storia del paese e dei suoi abitanti e inventare un’idea di nazione, ma anche per presentare la leadership come unica garante della stabilità del paese (Ilkhamov 2007). Le istituzioni, dunque, iniziarono a costruire un’ideologia nazionale “ex novo”. Uno degli strumenti adottati in tal senso fu, e tutt’ora continua ad essere, la retorica nazionalista caratterizzata da slogan, manifesti propagandistici, fascicoli editoriali redatti dal Presidente, discorsi istituzionali ridondanti, colmi di ideologia e con inalità talvolta d’interesse economico, come nel caso riguardante il cotone. “Il sentimento per la propria patria (vatan), è la cosa più grande di tutte” recita un cartellone propagandistico di Tashkent (Kurzman 1999, p. 81). È frequente, in Uzbekistan, imbattersi in enormi manifesti, striscioni, targhe commemorative e tabelloni riportanti i colori della bandiera nazionale, slogan di propaganda nazionalista e primi piani sorridenti del presidente Islam Karimov (vedi ig. 1). (Fig.1) Materiale propagandistico riportante la scritta: “Soltanto una è la nazione sacra, ti amo, o caro Uzbekistan!”. Foto scattata a Tashkent il 30/10/2014. Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 113 S. Maniscalco Durante la mia permanenza nel paese questo materiale propagandistico era dedicato principalmente a due commemorazioni: la prima, riguardava l’anniversario del giorno dell’Indipendenza (1 settembre 1991); la seconda concerneva la proclamazione, per volere del Presidente Karimov, “dell’Anno del Bambino Sano” (he Year of Healthy Child), iniziativa giustiicata dal materiale promozionale con queste parole: Questa è la continuazione naturale e logica della politica di Stato che afronta gli aspetti sociali dello sviluppo nazionale. Fin dall’inizio, la politica dà priorità a un’educazione che faccia crescere armoniosamente i giovani con un corpo sano e una mente sana (Inlight magazine Uzbekistan airways 2014). L’ingente uso di questo materiale, talune volte molto appariscente (come si può notare dalle fotograie), rende bene il senso della connotazione data da Adams (2010, cit. in Heathershaw 2014, p. 31) agli stati del Centro Asia, descritti come “stati spettacolari” (spectacular state). Si noti come, nella retorica pubblica, si faccia spesso ricorso alla “narrazione” del giovane sano e forte (“I giovani sono il nostro futuro”, “I giovani necessitano di un’educazione che faccia loro sviluppare un corpo sano e una mente sana”). Questa narrazione potrebbe essere posta in relazione al fatto che, nell’odierno Uzbekistan, la maggior parte dei lavoratori forzati alla raccolta autunnale del cotone sono, di fatto, gli studenti. Il cartellone propagandistico qui raigurato è particolarmente emblematico (vedi ig. 2): la frase “I giovani sono il nostro sostegno e la iducia nel futuro”, campeggia sopra un gruppetto di studenti allegri e in salute, aiancati dallo stemma di Stato incorniciato da spighe di grano e batufoli di cotone. (Fig. 2) Cartellone propagandistico aisso su di un palazzo di Tashkent, la scritta riporta “i giovani sono il nostro sostegno, e la iducia nel futuro. Foto scattata il 30/10/2014. 114 Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) Cotone di Stato. Sfruttamento del lavoro, ambiente e autoritarismo nell’Uzbekistan post-coloniale La cerimoniosità della retorica nazionale, propagandata dal governo, punta molto al mantenimento degli interessi economici, arrivando a creare tutta una simbologia attorno al cotone, riscontrabile in numerosi simboli di Stato che hanno lo scopo di far sentire il cittadino profondamente connesso con la produzione “dell’oro bianco”: non a caso lo Stato spesso difonde slogan propagandistici riportanti frasi quali “Chi non ama il cotone rinnega la propria cultura” o “Il cotone è parte del cittadino uzbeko” ecc. (Zanca 2012). Come i grandi muri che circondano la città vecchia di Samarcanda, eretti per volere dell’amministrazione Karimov, nascondono al turista il degrado in cui vive la maggior parte della popolazione locale (fogne a cielo aperto, tubature obsolete con frequenti fughe di gas, ediici fatiscenti…), così, la narrazione sfarzosa della propaganda statale cela oltre le sue mura il reale declino del proprio paese. La pomposità degli slogan che ricoprono ediici, cancelli e cartelloni crea un potente contrasto con il degrado e la precarietà di molte zone dell’Uzbekistan odierno. La sensazione che ho avuto è stata quella di trovarmi in un paese in cui pomposità retorica e declino camminano mano nella mano. Ritengo che il contenuto semantico dell’ideologia nazionale accuratamente costruita e introdotta nei paesi dell’Asia Centrale, e in particolare in Uzbekistan, si basi su una combinazione di etnocentrismo, patriottismo, valori patriarcali statici, uniti ad una consistente chiusura agli standard internazionali (Ibidem). Ciò è visibile appieno nell’ambito da me trattato. All’interno del mondo contadino la retorica e l’autoritarismo statale si insinuano tanto da mascherare la raccolta coatta del cotone come “aiuto alla Nazione”. Non di rado, infatti, mi è capitato di trovare persone che, interrogate sulla questione “lavori forzati”, mi abbiano risposto in piena sintonia con l’ideologia nazionale, dichiarando che essi non sono altro che parte dei doveri di un buon cittadino. Quanto detto sopra spiega la scelta di un titolo tanto lapidario, quanto immediato, quale “Cotone di Stato”. Nei miei intenti ultimi esso deve rendere l’idea della profonda commistione tra lo Stato (neo-patrimonialista), e il iorente business del cotone grezzo. Un connubio che racchiude in sé dinamiche d’asservimento istituzionalizzato della classe contadina, nonché un intricato sistema di favoritismi, corruzione e scambi clientelari che, dall’era sovietica, infetta la sfera produttiva, la gestione delle risorse naturali e tutto l’ambito politico-amministrativa della Repubblica dell’Uzbekistan. Bibliograia Abdullayev, I., Nurmetova F., Abdullaeva F., Lamers, J., (2008), Socio-technical aspects of water management in Uzbekistan: emerging water governance issues at the grass root level, Central Asian Water, pp. 42-48. Antropologia, Vol. 4, Numero 1 n.s., aprile 2017 (pp. 93-119) 115 S. 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