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ARCHITETTURA www.ilgiornaledellarchitettura.com UMBERTO ALLEMANDI & C. TORINO~LONDRA~VENEZIA~NEW YORK MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA ANNO 11 N. 111 DICEMBRE 2012 EURO 5 Notizie (1-7) Museum of Contemporary Art a Cleveland Waterfront di Saline Joniche Rogers ripensa Vernazza Campidoglio 2 a Roma Borsa valori a Teheran Case galleggianti Rivisitati: i ponti di Calatrava a Reggio Emilia Professioni (8-10) Resoconti da Saie e Made Focus costruzioni in X-lam e legno lamellare Design (12) Report dai Saloni WorldWide a Mosca e Orgatec a Colonia Progetto del mese (16) Ampliamento di una chiesa a Gavassa (Reggio Emilia) Cultura (19-23) Schinkel a Berlino Social housing a Londra I villaggi Olimpici dal 1924 al 2012 Intervista a Marcus Fairs fondatore di Dezeen IN ALLEGATO IL GIORNALE DELL’ARCHITETTURA IL GIORNALE DELL’ARCHITETTURA IL GIORNALE DELL’ Inchiesta a 50 anni dal Concilio Vaticano II Le chiese della Chiesa Alla crisi del cristianesimo che caratterizza quest'epoca corrisponde un gran numero di opere realizzate. Ma con quali criteri e strumenti si stanno progettando gli spazi per la liturgia dagli anni sessanta a oggi? I risultati non sembrano sempre all'altezza delle attese Il grande numero di chiese realizzate va messo in relazione all’altrettanto ingente numero di parrocchie, cappelle e cimiteri abbandonati sugli Appennini o nelle campagne. I relitti della fede del mondo preindustriale sono stati sostituiti, nei quartieri suburbani in cui le comunità sono state «impilate», da chiese disegnate troppo spesso solo per consolare il tradizionale assetto centripeto della forma urbis occidentale. Paradossalmente l’età in cui si sono costruite più chiese è anche quella della più severa contrazione del cristianesimo. Fomenta il paradosso la confusione, non ancora risolta, tra valore cultuale e valore culturale dello spazio ecclesiale, per cui si equivoca la sacralità trascendente che deriva all’oggetto dalla liturgia che in esso si celebra, dalla sacralità immanente che esso desume come deposito di arte e cultura nella città occidentale. Così, anche le episodiche venature di storicismo che talvolta compaiono nelle chiese contemporanee, più che un richiamo alla tradizione sono da considerarsi come l’imbalsamazione di un suo momento, arbitrariamente innalzato ad apogeo del cristianesimo.  Luigi Bartolomei SEGUE A PAG. 15 L’Ottocento francese al centro dell’attenzione SPEDIZIONE IN A.P. - 45% D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1, DCB TORINO MENSILE N. 111 DICEMBRE 2012 GAE AULENTI (1927-2012) Gae voleva «Costruire dentro» di Carlo Olmo © CRISTOBAL PALMA Le ricerche di Don Giancarlo Santi, già direttore del Servizio Nazionale Cei per l’edilizia di culto, testimoniano come i complessi parrocchiali costruiti in Italia dalla chiusura del Concilio Vaticano II a oggi, siano più di 5.000. Questo numero, già sbalorditivo, aumenta di centinaia se si aggiungono i santuari, le cappelle e gli adeguamenti liturgici di edifici esistenti. La seconda metà del XX secolo è stata pertanto il tempo del più grande fervore costruttivo nella bimillenaria storia della Chiesa. Ciò non corrisponde però a un uguale e diffuso fervore nella religiosità e nella pratica della fede. Paradossalmente, infatti, proprio a partire dagli anni sessanta, si è registrata in Occidente una crescente e massiva disaffezione dei fedeli verso la chiesa cattolica, con un processo incrementale ancora potentemente in atto. Da una prima fase di secolarizzazione, tempo di un sacro eclissato, si è passati all’attuale fase di post-secolarizzazione in cui il sacro è nuovamente esondato in un baluginare di esperienze disperse, a carattere personale e privato, spesso affascinate da esoterismi ed esotismi e comunque coese nel rifiuto delle religioni tradizionali. Di tale caleidoscopio di spiritualità la città contemporanea è privilegiato habitat e crogiolo. La Capilla del Ritiro a Valle de Los Andes (Cile, 2009) di Christian Undurraga, vincitrice del Premio Internazionale di Architettura Sacra 2012, istituito dalla Fondazione Frate Sole di Pavia (www.fondazionefratesole.org) Premio di Architettura Città di Oderzo La sfida cinese Un ponte, tre storie 838 metri in 210 giorni © MUSÉE D’ORSAY/SOPHIE BOEGLY Ha vinto un intervento di rivalutazione e musealizzazione in Val Pusteria (Bolzano) di Willeit Architektur e Sulzenbacher & partners A Parigi due mostre dedicate a due protagonisti (coetanei) della storia architettonica e urbana della capitale francese a cavallo tra gli anni trenta e settanta: Henri Labrouste (1801-1875) e Victor Baltard (1805-1874, sopra, una veduta del suo progetto per le Halles a Parigi). Articolo a pag. 19 Oderzo (Treviso). Il 24 novembre si è tenuta la cerimonia di chiusura della tredicesima edizione del Premio di Architettura Città di Oderzo riservato a opere realizzate nell’ambito triveneto. Il premio di questa edizione è stato assegnato alla «Rivalutazione e musealizzazione del ponte storico in pietra» a Rasun di Anterselva di Willeit Architektur e Sulzenbacher & partners. La realizzazione di un nuovo ponte carrabile che rettifica il precedente tracciato non abbandona, come è consuetudine troppo spesso praticata, il tratto non più in uso e lo restituisce come luogo di sosta e informazione sul sistema territoriale circostante e sulle tecnologie stradali. Nell’ansa della valle si possono cogliere in visione unitaria, dal basso verso l’alto, il ponte pedonale in legno, il ponte in pietra e quello attuale in acciaio. Tutto ciò suggerisce, nel consentire la sosta, di riflettere anche sulla velocizzazione dei nostri percorsi come modo di consumare una  Carlo Magnani CONTINUA A PAG. 8 Sky One City: il grattacielo dei record Changsha. Tiankong Chengshi, il nuovo Sky One City, uno dei progetti architettonici più ambiziosi nella storia della costruzione mondiale, sta per essere costruito a Changsha, nel sudest della Cina. Manca solo il lasciapassare del governo cinese che ha già ritardato l’apertura del cantiere di un mese e ridimensionato i tempi di costruzione da 90 giorni a 210, tuttavia ancora un ventesimo dei 1.931 giorni che sono stati necessari per innalzare il Burj Khalifa a Dubai, gratta Lara Monacelli CONTINUA A PAG. 4 Non si può uscire dal Museo d’Orsay senza sentire pareri contrastanti. Come ogni architettura che segna un tempo, anche la ristrutturazione dell’antica stazione ferroviaria parigina divide i suoi visitatori. Lo fece da subito, perché l’allestimento inaugurato nel 1986 andava ben al di là dell’ordinamento di pur famosissime opere d’arte: costruiva dentro uno spazio una sua architettura. Lo faceva mutando radicalmente il volto dell’architettura di Victor Laloux. Imponendosi con strutture che erano, anche formalmente, il contrario dell’architettura in ferro e vetro che la precedeva. Gae Aulenti aveva un segno forte come architetto. E «costruire dentro» rimase una sua scelta progettuale e formale, come testimonia, forse con ancor più evidenza, il Palavela di Torino, realizzato per le Olimpiadi torinesi del 2006 e tutt’altro che mimetizzato sotto la vela di Franco Levi. Un edificio che ha generato prese di posizioni forse ancor più radicali. A Torino aleggia ancora la nostalgia per quei pochi mesi in cui la vela era stata liberata dal progetto di Annibale e Giorgio Rigotti e si stagliava monumento, non architettura, nei prati, un po’ desolati, di Italia ’61. Un segno forte che trova forse la sua espressione più compiuta nel Museu National d’Art de Catalunya di Barcellona. Questo museo dalla lunga gestazione, dal 1985 al 2004, fondamentale per la sempre più CONTINUA A PAG. 8 IL GIORNALE DELL’ARCHITETTURA Numero 111, dicembre 2012 15 Inchiesta: chiese L’adeguamento liturgico al contemporaneo L’opinione dell’architetto monsignor Giancarlo Santi Cari vescovi e care diocesi, siate veri committenti Il rischio che il nuovo sia fine a se stesso Un raffronto tra i numerosi interventi che hanno riguardato le chiese cattedrali nell’ultimo quinquennio tanta e poi anche nei novanta mi sono reso conto che qualche spiraglio esisteva. Perciò mi è stato possibile organizzare qualche mostra, convegni e promuovere un concorso. Lavorando a Roma, negli uffici della Cei dal 1995 al 2005, si è aperta qualche altra finestra. I segretari della Cei (Dionigi Tetta- Ritiene che l’intuizione dei concorsi pilota sia ancora attuale? Occorre apportarvi migliorie? Sono consapevole che la formula dei concorsi a invito adottata nel 1997 non sia la migliore in assoluto, ma solo una possibile opzione. È stata scelta perché ritenuta la più adatta alla situazione italiana, cioè alle effettive capacità delle diocesi nella gestione dei concorsi. A distanza di 15 anni sono tuttavia convinto che la scelta sia stata buona e, proprio per questo, che si possa bandire un maggior numero di concorsi, purché lo si faccia in modo responsabile e trasparente evitando equivoci e semplificazioni. La meta finale cui puntare è ambiziosa: che a ogni iniziativa, anche modesta, corrisponda un concorso, come avviene da decenni in Germania, Francia e Finlandia, per citare i casi europei più noti. Non pensa che la formula del concorso a inviti possa essere restrittiva nei confronti di alcuni professionisti che, pur avendo i requisiti, sono conosciuti solo a livello locale? Condivido la sua preoccupazione. Effettivamente i concorsi a inviti sono restrittivi. Ribadisco però che questa scelta è stata fat- Pensa che la formazione di un architetto che progetta una chiesa debba avere delle prerogative particolari? Quanto oggi la Chiesa è committente di architettura? Sono convinto che progettare una chiesa oggi non sia semplice, non più di quanto lo fosse in altri tempi. Ritengo che per farlo non sia necessaria una preparazione speciale (per affrontare i problemi specifici un buon architetto sa che deve cercare un consulente). Ciò che occorre è saper scegliere un buon architetto in grado di affrontare con competenza questo specifico progetto, per una comunità committente, con le risorse finanziarie effettivamente disponibili. Ma, ancor prima, il problema fondamentale è quello della committenza. In Italia, la Chiesa, che pure dopo il Concilio Vaticano II intende aprirsi alla cultura contemporanea, continua a essere un committente poco consapevole e poco preparato: vorrebbe inoltrarsi nel campo dell’architettura e dell’arte ma non ha le conoscenze e le competenze per farlo e non se ne rende ancora del tutto conto. Continua a compiere molti passi falsi e, di conseguenza, delude, è delusa, sta lasciando dietro di sé una serie impressionante di occasioni perdute. Direi che si tratta di un committente che ha bisogno di maturare. Se mi fossero concessi un paio di suggerimenti ai vescovi direi così. Il primo passo da compiere consiste nell’affidare la scelta dei progettisti e degli artisti a persone realmente competenti sottraendola all’apparato amministrativo curiale (gli economi diocesani, validi nel loro campo ma del tutto impreparati in materia di arte e architettura) o alla buona volontà dei parroci. Con l’aiuto di persone competenti i vescovi tornino, con coraggio, a essere i reali (non nominali) committenti e a bandire concorsi, in modo continuativo, non in solitudine, con la consulenza degli uffici nazionali e operando in rete regionale. Sono convinto che queste due decisioni sarebbero la migliore «enciclica» della Chiesa sull’arte e la migliore «lettera» agli artisti all’inizio del terzo millennio.  Intervista di Carla Zito Grandi raduni e spazi liturgici: quando la piazza diventa una chiesa La questione delle grandi riunioni liturgiche in spazi pubblici non è di oggi: ben prima che l’amplificazione mediatica por tasse in evidenza il valore simbolico di tali adunanze, la Chiesa ha avver tito la necessità di predisporre grandi spazi, allestiti per eventi straordinari. Processioni ed eventi eucaristici, ostensioni e raduni religiosi legati a feste liturgiche e ad avvenimenti speciali (nella foto, la messa di Benedetto XVI a Cuatro Vientos, durante le Giornate mondiali della gioventù Madrid 2011) hanno fatto da lungo tempo discutere sulle strategie necessarie per trasformare una folla in un’assemblea liturgica. Dal punto di vista della liturgia, le questioni che si pongono, oggi come allora, sono le seguenti: fino a che punto è possibile parlare di un’assemblea unica, là dove il contatto visivo è inevitabilmente sfocato o del tutto interrotto? Fino a che punto è possibile per i sacerdoti concelebranti sentirsi par tecipi e coprotagonisti dei gesti rituali essenziali? Fino a che punto si può celebrare in un luogo qualsiasi, che non faccia riferimento a una scena celebrativa chiaramente connotata dal punto di vista religioso? Di fronte a tali questioni, il compito della progettazione è quello di predisporre tutti gli elementi necessari alla composizione della «scena rituale». La configurazione del luogo celebrativo rappresenta infatti l’esito felice della composizione di tutti gli elementi (architettonici, prossemici, gestuali, iconografici) atti a trasformare uno spazio pubblico in un luogo comunitario adatto per una grande celebrazione. La recensione delle diverse esperienze, in luoghi aper ti o chiusi (piazze, stadi, palazzi dello spor t o impianti fieristici), nel cuore della città o in spazi più neutri, segnala le diverse strategie volte a favorire il senso dell’unità del sito cerimoniale. Fondamentale è l’orientamento dello spazio verso il luogo centrale della celebrazione, rappresentato dal presbiterio, cioè dalla pedana su cui sono disposti i poli liturgici fondamentali (altare, ambone, sede, crocifisso); ugualmente impor tante è la disposizione dei concelebranti e del coro, in funzione di cerniera tra il presbiterio e la grande assemblea. Quanto al senso di unità dello spazio assembleare, può essere ricercato attraverso il ricorso a suppor ti video, banners e altri elementi che funzionino come marcatori dello spazio, nell’attenzione a garantire quel minimo contatto visivo, atto a garantire la «presenza reale» e la partecipazione all’evento. Alla necessità di assolvere ad alcune esigenze par ticolari di tipo liturgico (cappelle eucaristiche, sacrestia per concelebranti, presbiterio sufficientemente coper to…) e funzionale (cabina di regia, spazi di scorrimento, uscite di sicurezza…), si associa l’impor tanza di svolgere temi quali il rappor to con l’ambiente del paesaggio e del costruito; l’attenzione all’impatto ecologico e alla sostenibilità economica. Come sempre, è nella difficile ar te di mediare tra le diverse istanze ed esigenze che si gioca la par tita.  Paolo Tomatis Direttore Ufficio liturgico Torino La liturgia è un «porto di salvezza» (Sant’Ambrogio) nel mare della vita. Essa ricerca stabilità e ordine, per non cadere «in balia delle onde» (Lettera di San Paolo agli Efisini 4,14); per contro, richiede un ambiente arioso e trasparente, capace di far-spazio all’azione celebrativa. Solo da tale cognizione matura la scelta di adeguare i presbitéri delle chiese storiche, relazionando in modo organico i poli liturgici, così da mostrare l’assemblea dei fedeli coinvolta nella celebrazione e orientata alla presenza divina. Nell’ultimo quinquennio diversi luoghi legati all’adeguamento di chiese cattedrali sono ricorrenti nelle cronache: un’attenzione variegata è suscitata dalle proposte e dalle realizzazioni, avendo come estremi, da un canto il dileggio di coloro che propugnano la tesi del non-intervento e, dall’altro, soluzioni portate a isolare la questione nei soli termini di una conquistata espressività contemporanea. La collocazione all’interno della fabbrica storica è, in effetti, fattore altamente significativo nella progettazione di un nuovo intervento, ma va da sé che all’attenzione verso la continuità culturale e simbolica dell’edificio si aggiunga la prassi sensibile alle esigenze di tutela del manufatto; per questo è altresì chiaro che la straordinaria unità presentata ai nostri occhi da una chiesa storica nasce nella sedimentazione del costruito attraverso il tempo. Soprattutto, quest’armonia è unità del saper-fare e del voler-esprimere al meglio la figura della comunità che attorno e dentro la chiesa si raccoglie. Gli esempi ci aiutano a tentare una casistica dei modi in cui l’adeguamento liturgico è stato concepito: registriamo in primis le occasioni che vedono la costruzione adeguativa basata sul singolo apporto artistico (di Giuliano Vangi nelle cattedrali di Pisa e Arezzo, di Robert Morris a Prato, dell’architetto catalano Jaume Bach nel Duomo di Parma), dove cioè si mira al caricamento espressivo dei poli liturgici (altare, cattedra, ambone) ma, di fatto, ne viene sovrastata l’articolazione spaziale (a Prato e Sopra, cattedrale di Parma: adeguamento del presbiterio di Jaume Bach (2009). A lato, cattedrale di Alba: adeguamento di Massimiliano Valdinoci, Maicher Biagini, Andrea Cavicchioli, Cristiano Cossu e Ada Toni, Andrea Ricci (2008) Arezzo pur studiata dall’architetto Paolo Bedogni) senza raggiungere un’efficace leggibilità né dei nessi con il passato, né di una distanza da esso capace di permettere una limpida storicizzazione dell’intervento. Nei casi in cui l’agire è stato conseguenza di massicci eventi restaurativi (cattedrale di Reggio Emilia) o ricostruttivi (cattedrale di Noto) si è in maggior misura cercata una legittimazione nella specificità del sito, prendendo le mosse dalle condizioni spaziali rinvenutevi, tra le quali vengono individuati concreti luoghi sacramentali lungo chiare direzioni, predisponendo uno svolgimento simbolico e una presenza stabile verso cui i fedeli possano orientarsi attivamente. Individuato questo fraseggio topografico, la risoluzione ottica torna a basarsi sulla mano dell’artista, per cui ciò che si impone è una determinante formale (quella che maggiormente scatena lusinghe e detrimenti) curiosamente unita, pur nella distanza sti- La confusione delle chiese è confusione della Chiesa SEGUE DA PAG. 1 La rivendicazione di un aspetto magniloquente per le chiese è quindi perlopiù la difesa di una determinazione storica del paesaggio, istanza estrinseca al cristianesimo e tardiva anche rispetto al nuovo policentrismo religioso, da vent’anni ormai affermato anche in Italia. Per il resto, l’esito di molte realizzazioni, sia che si risolva in una confusa accozzaglia stilistica o nella gratuita originalità di un gesto autoreferenziale, è il riflesso dell’imbarazzo che si cela dietro all’incapacità di dare una forma all’elemento più emblematico dei transiti dei sistemi di valori del nostro tempo. Questa responsabilità deve essere almeno condivisa con la committenza ecclesiale che si mostra incapace di accompagnare i progettisti in un tema che non è più patrimonio diffuso ma che è anzi diventato ambito specialistico. L’assetto plurale in cui si è configurata la Chiesa erede di Giovanni Paolo II enfatizza le differenze e tende a sostituire alla liturgia le liturgie. Nello sciamare di associazioni, gruppi e movimenti, ciascuno pretende celebrazioni riservate in cui esprimere privatamente il proprio carisma e rafforzare l’unità tra i componenti, fino a giungere, in taluni casi, alla riconfigurazione dello spazio liturgico attorno ad arredi mobili, indipendentemente dalla presenza e posizione dell’altare consacrato. La diffusione di riti e gestualità proprie rischia di segmentare il popolo di Dio fino a ridurlo a una massa di vicendevoli estranei. Nel coacervo di tali diversità anche il Motu proprio di Benedetto XVI «Summorum Pontificum» ha complicato ulteriormente la concezione dello spazio per la liturgia, reintroducendo il rito di San Pio V e quindi anche la relativa e sottesa configurazione spaziale. La confusione delle Chiese è almeno in parte confusione della Chiesa. Dal canto suo, la storia non suggerisce né l’autorità di un modello né quella di una editio typica. Da un lato infatti l’esegesi neotestamentaria ha già ampiamente argomentato l’assenza di una problematica spaziale relativa ai luoghi di culto nella predicazione del Cristo e ha mostrato come fossero invece le case e le strade gli ambiti tipici della nuova religione. Contro poi la ripresa di qualsiasi modello del passato, occorre osservare che la Chiesa, nel suo esse- re storico, vive un tempo tutto orientato all’eschaton, la cui compiutezza avverrà solo alla fine dei tempi, dopo un cammino di progressiva autorivelazione che come suo apice ha, giorno per giorno, solo il presente. La chiesa ne deriva pertanto una forma aperta, suscettibile di una necessaria e continua sperimentazione che più e più tenti di approssimarsi al mistero che in essa viene celebrato. Architettura in limine nell’esperienza umana, essa favorisce costitutivamente il gesto poetico e lo slancio creativo, pur vincolandolo a una precisa estetica teologica che nell’azione liturgica vede il «culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù». [Sacrosantum Concilium,10]  Luigi Bartolomei listica (votata alla povertà dell’objet trouvé a Reggio, con le opere di Parmeggiani, Kounellis e Spalletti, e al convinto barocchismo di Giuseppe Ducrot a Noto), da un distacco retrospettivo. Dove si è agito con concorsi aperti, più attivo risulta essere il ruolo dell’architetto selezionato a capo del gruppo di progettazione (cattedrali di Alba, con successo e realizzazione di Massimiliano Valdinoci, e Acerra, vittoria, finora senza seguito, di Andrea Marcuccetti); di conseguenza si danno situazioni nelle quali il procedimento assume come aspetto qualificante il mantenimento inalterato delle condizioni iniziali, poiché il processo integrativo dello spazio liturgico non è di trasformazione, bensì di modificazione e i nuovi elementi appaiono laddove un dispositivo significante appare pronto ad accoglierli. I rischi che questo approccio sembra correre sono quelli di un’eccessiva geometrizzazione del rapporto tra i poli liturgici; di una sovrabbondante consonanza simbolica tra quest’ultimi (poiché, contrariamente a quanto prima notato, l’apporto artistico tende a mimetizzarsi in una reiterazione di motivi decorativi). In conclusione, possiamo sostenere che l’inserzione contemporanea assume un proprio valore quando il nuovo rinuncia a darsi un valore solo per se stesso. La materia sensibile assume così una «giustezza oggettiva» non rimanendo sospesa nell’astrazione ma reggendosi sulla concreta unità degli opposti; nella coesistenza di successione temporale e simultaneità percettiva.  Tino Grisi © RIPRODUZIONE RISERVATA Giancarlo Santi ha recentemente pubblicato «L’architettura delle chiese in Italia. Il dibattito, i riferimenti, i temi» (Qiqajon Edizioni, Comunità di Bose, 2012, pp. 138, euro 16). A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, l’autore mette in dialogo chiesa, architettura e arte contemporanea per fare il punto sull’adeguamento di chiese esistenti e sulla progettazione di quelle nuove. Ampio spazio è dedicato all’apparato bibliografico. Quali risultati si aspettava e quali possono oggi ritenersi realizzati? La mia preoccupazione è stata in primo luogo di venire in aiuto alle diocesi. In pratica, con i corsi, la mia intenzione era d’informare, formare, mettere in contatto tra loro le persone e i professionisti che operavano negli uffici delle diocesi e nelle commissioni diocesane. In secondo luogo, con i convegni, intendevo riaprire il dialogo con i professionisti e con gli ordini. In terzo luogo, con i concorsi e i loro cataloghi, ho cercato di riaprire la comunicazione tra Chiesa e le facoltà di architettura. Con i progetti pilota intendevo aiutare le diocesi a riprendere dimestichezza con lo strumento del concorso, largamente utilizzato in passato ma del tutto trascurato nel XX secolo. I risultati non sono mancati e sono stati incoraggianti, tanto è vero che chi è venuto dopo di me ha continuato a camminare su tale strada. Ma sono del tutto consapevole che il mio è stato solo uno spunto iniziale, e che nella Chiesa la mentalità non è ancora cambiata. Per questo motivo ritengo che sia necessario lavorare sodo, puntando sul medio e lungo periodo. Sono convinto che molto potrà venire in futuro dall’iniziativa dei laici e delle associazioni, nonché dalla collaborazione tra enti e istituzioni. ta in modo consapevole per tenere conto realisticamente delle effettive capacità gestionali delle diocesi italiane che non dispongono di un ufficio concorsi e per di più operano in totale isolamento. Come è noto, infatti, solo due delle 226 diocesi italiane negli ultimi anni stanno bandendo «concorsi» con una certa regolarità (ma in modo poco trasparente): Roma e Milano. Le altre 224 non lo fanno mai o lo fanno raramente e tra molte difficoltà. Evidentemente non hanno ancora capito qual è il senso e l’utilità di un concorso. Dal punto di vista gestionale, tutto sarebbe più semplice se, considerata la cronica debolezza finanziaria e organizzativa delle diocesi, i concorsi fossero banditi e gestiti a livello di regione ecclesiastica, anziché a livello di singola diocesi. Ma questa idea è ancora poco condivisa. © RIPRODUZIONE RISERVATA La carta d’identità manzi e Ennio Antonelli, entrambi cardinali) mi hanno incoraggiato a dare vita a iniziative formative e a organizzare concorsi, mettendo a disposizione le risorse finanziarie. A queste condizioni, grazie all’aiuto di alcuni amici, come don Aldo Marengo e Roberto Gabetti, sono potute nascere molte iniziative. La macchina, ferma da tempo, ha mostrato lentamente di sapersi muovere di nuovo. © RIPRODUZIONE RISERVATA Monsignor Santi, contestualmente alla nascita dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici della Cei, è iniziata nel 1995 la sua attività di direttore, proseguita fino al 2005, con la promozione di convegni, corsi di formazione e il finanziamento di pubblicazioni e iniziative di ricerca. A partire dal 1997 è stato promotore dei concorsi pilota; che cosa l’ha spinta a mettere in moto questa grande macchina? In primo luogo la mia personale convinzione maturata nel corso degli anni. Fin dai tempi dell’università mi sono reso conto che il notevole impegno per l’architettura da parte della Chiesa italiana era quasi esclusivamente di natura pragmatica (costruire molto e in fretta). Si trattava di un atteggiamento dettato da comprensibili motivi di carattere pastorale (dare una chiesa a chi non l’aveva) che, tuttavia, non dava alcun peso (o dava scarso peso) alla qualità, fatte pochissime eccezioni. Ero convinto che questa situazione non si potesse più accettare passivamente come un fatto inevitabile, occorreva una reazione positiva. Questa consapevolezza, però, non sarebbe stata sufficiente se non ci fossero stati spazi di azione. Lavorando nella curia di Milano dal 1971 al 1994, a partire dagli anni ot- Il sacro premiato Con un premio in denaro di ben 30.000 euro al primo classificato e 10.000 al secondo e al terzo, il Premio Internazionale di Architettura Sacra, istituito nel 1996 da padre Costantino Ruggeri, è di Pavia, dove ha sede la Fondazione Frate Sole che premia ogni 4 anni la più convincente architettura cristiana, secondo criteri che privilegiano lo spazio mistico, la semplicità francescana e, quindi, il minimalismo. Tra 116 progetti pervenuti da tutti i continenti (38 italiani) il 4 ottobre è stato laureato l’architetto cileno Christian Undurraga per la Capilla del Ritiro ultimata nel 2009 a Valle de Los Andes, in Cile (nella foto). Il secondo premio è andato a un’altra opera dalla particolare valenza tettonica: il complesso parrocchiale di San Bartolomeo realizzato dal 1993 al 2008 a Portalegre (Portogallo) da João Luis Carrilho da Graça. Terzo classificato, un progetto italiano al femminile dello studio x2 architettura (illustrato alla pagina seguente): la nuova aula liturgica della parrocchia di San Floriano di Gavassa a Reggio Emilia, addizione della chiesa seicentesca. © CRISTOBAL PALMA Secondo il promotore dei Progetti pilota Cei e presidente dell’Associazione Musei ecclesiastici italiani occorre puntare di più sui concorsi