POLITICA & SOCIETÀ
3/2012, 351-374
ISSN 2240-7901
© Società editrice il Mulino
Come è possibile
una coscienza falsa?1
Matteo Bianchin
How can consciousness be false?
The phenomenology of alienation is rich, yet it is far from clear how to account for a
paradox it raises about consciousness. Consciousness cannot be said to be false in the
same way beliefs can be. Talks of alienation rather suggest that we may happen to undergo experiences that look as if they are not ours. The paradox is therefore different,
and far deeper, than paradoxes and irrationalities affecting beliefs in self-deception,
wishful thinking and the like. As a consequence, explanations working at the level of
beliefs and their etiology seem at least incomplete. I argue that a complete account
may involve the distortion of mechanisms operating in social cognition. Simulation
theories of mind reading, in particular, seem to provide the theoretical tools to explain how subjective experience can turn out to look alienated or “false”.
Keywords: Authenticity; Consciousness; Emotion; Mindreading; Social cognition.
1. Introduzione
Conosciamo una ricca fenomenologia dell’alienazione e diversi
modi di leggerne la natura, legati per un verso alla tradizione hegelo-marxista della teoria critica, per un altro alle analisi esistenziali di
Heidegger e Sartre2. Quello che accomuna i casi analizzati da Jaeggi a
Una versione precedente di questo lavoro è stata presentata al XXII incontro del Seminario permanente di teoria critica a Cortona e vorrei ringraziare per i loro commenti
in particolare Franco Crespi, Alessandro Ferrara, Ingrid Salvatore, Italo Testa – e
René Capovin, che ha commentato in absentia.
2
Il riferimento è ovviamente all’analisi heideggeriana dell’inautenticità e a quella sar-
1
Matteo Bianchin, Università di Milano-Bicocca, Dipartimento di Scienze Umane, Piazza
dell’Ateneo Nuovo, 1, 20126 Milano - matteo.bianchin@unimib.it.
Matteo Bianchin
partire da questa doppia tradizione è un’esperienza singolarmente paradossale di estraneità a sé: il senso di non vivere la propria vita, l’incapacità di identiicarsi nelle proprie azioni, la dificoltà a riconoscersi
nella propria esistenza; la fonte dell’alienazione qui è la distorsione
di una relazione con sé, con il mondo, con gli altri che si manifesta
in una costellazione sentimentale di impotenza, indifferenza, distacco
emotivo3. Ma è dificile rendere conto di come accada questo paradosso. Come si può essere “divisi da sé” in modo che le azioni, i desideri,
le credenze che intratteniamo possano ad un tempo «essere nostri e
non esserlo (appartenerci e non appartenerci)»4. La formulazione suggerisce che la distorsione non tocca semplicemente ciò che l’agente
desidera o crede, ma il senso di sé che ne accompagna l’esperienza, le
credenze, le azioni. In questo il paradosso appare diverso, e più profondo, di quello normalmente ascritto, per esempio, all’autoinganno5.
triana della malafede; sulla loro assimilazione nella teoria critica così Jaeggi: «[…]
Possiamo distinguere due linee di pensiero, quella ‘esistenzialista’ e quella ‘hegelomarxista’, la prima porta da Kierkegaard a Heidegger e Sartre, la seconda ha origine
in Rousseau e porta da Hegel e Marx ino al marxismo occidentale e alla teoria critica
del secolo scorso. Il ‘contenuto di esperienza’ del concetto (intendendo l’esperienza
storica e sociale cristallizzata in un concetto del genere e il ruolo che ha svolto per la
rilessione individuale e collettiva […]) è presente in entrambe le tradizioni e tanto le
connotazioni teoriche quanto le connotazioni pratiche sono state importanti e si sono
intrecciate in diversi modi» (R. Jaeggi, «Alienation and social critique», ms., p. 3).
La combinazione è del tutto esplicita in R. Jaeggi, Entfremdung. Zur Aktualität eines
sozialphilosophisches Problem, Campus, Berlin 2005, il tentativo di conciliarne le fonti
è centrale in A. Honneth, Reiicazione, Meltemi, Roma 2007. A spiegare la convergenza potrebbe servire la comune origine romantica, su cui si veda per esempio Ch.
Larmore, L’eredità romantica, Feltrinelli, Milano 1996, in particolare pp. 77 ss. Nelle
prossime pagine non mi occupo di distinguere tra le varianti della questione – alienazione, inautenticità, malafede e così via; quello che mi interessa è quel che hanno in
comune, l’idea che l’esperienza di sé possa essere radicalmente estraniata.
3
Cfr. R. Jaeggi, Entfremdung, cit., pp. 21 ss.
4
R. Jaeggi, «Alienation and social critique», cit., p. 7.
5
Il paradosso dell’autoinganno viene di solito risolto postulando, in maniera più o
meno radicale, la partizione del sé o delle credenze in conlitto come nel caso di D. Davidson, Deception and Division, in J. Elster (ed.), The Multiple Self, Cambridge University Press, Cambridge 1987, pp. 79-92; da questo punto di vista i modi nei quali inganniamo noi stessi non sono diversi da quelli nei quali inganniamo gli altri – nascondendo
o dimenticando informazioni, selezionando selettivamente quelle che forniamo e così
via: cfr. W. von Hippel, R. Trivers, «The evolution and psychology of self-deception»,
in Behavioral and Brain Sciences (34)1, pp. 1-16. Ma nel caso che stiamo considerando
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In assenza di un resoconto è dificile sottrarsi alla tentazione di
eludere il paradosso interpretando i fenomeni come semplici manifestazioni di incoerenza morale o di patologie psichiche ordinarie. In
fondo, il vocabolario dell’alienazione potrebbe essere solo il rilesso
di una mitologia storicamente recente dell’integrazione del sé – e non
è forse un caso che sia pressoché assente nel mondo classico, dove
prevale la questione della parrèsia6. Il tramonto del soggetto sarebbe allora anche il tramonto delle sue presunte deformazioni. Ma
l’obiezione è anche più semplice. Il senso di estraneità, impotenza,
indifferenza putativamente correlati all’alienazione potrebbero essere
spiegati semplicemente come sintomi depressivi, la rigidità nell’identiicazione con il ruolo sociale come tratti di una personalità ossessivocompulsiva che non richiede una teoria sui generis. Non è dificile
cioè immaginare che potrebbero essere ridotti a fenomeni psicologici
noti in modo da eliminare il vocabolario ilosoico dell’alienazione,
mostrando che non gli corrisponde alcuna realtà speciica. Questo è
dunque il problema: poiché la realtà dell’alienazione non è ovvia, si
tratta di mostrare come può esistere una coscienza falsa7.
2. Meccanismi e fenomeni mentali
Il dilemma al quale ci troviamo di fronte è che, per un verso, la
falsa coscienza non sembra poter essere spiegata nei termini della falquello che dovrebbe accadere è più simile a certe forme di delirio psicotico: l’agente
non crede semplicemente di essere qualcun’altro: si sente qualcun altro.
6
Cfr. per tutti M. Foucault, Discorso e verità, Donzelli, Roma 1996.
7
Si potrebbe obiettare che l’alienazione è una categoria sociologica, non psicologica,
ma assumo – e in questo contesto non posso giustiicare – che qualsiasi evento o processo sociale sia realizzato psicologicamente al livello personale degli individui coinvolti. Per una discussione rinvio a M. Bianchin, Ragioni e interpretazioni. Fenomenologia, società, politica, Meltemi, Roma 2006, pp. 107 ss., ma in primo luogo Ph. Pettit,
The Common Mind: An Essay on Psychology, Society, and Politics, Oxford University
Press, Oxford 1993, in part. pp. 117 ss. Non è necessario che le proprietà e le regolarità sociali siano riducibili a proprietà o regolarità psicologiche, e quindi nemmeno
disporre delle leggi sociologiche e psicologiche che dovrebbero essere oggetto della
riduzione: basta che esistano meccanismi psicologici sottostanti ai fenomeni sociali;
l’idea che le spiegazioni psicologiche e sociali siano spiegazioni per meccanismi è di J.
Elster, Come si studia la società, Il Mulino, Bologna 1999.
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sità di un particolare insieme di credenze, ovvero di una concezione
di sé che non corrisponde ai fatti – qualunque cosa siano in questo
caso; per un altro le credenze sono tra le poche cose al mondo a poter
essere false e pare dificile rendere conto altrimenti di cosa sia falso
nella falsa coscienza.
Considerando la concezione di sé, troveremo che ciascuno può
credere de se qualcosa che è falso, attribuendosi proprietà che non
possiede. Ma credere qualcosa di falso non ha di per sé a che fare
con l’autenticità, l’alienazione, la falsa coscienza. Le credenze sono
solo credenze: qualche volta vere, qualche volta false. E naturalmente
possiamo sbagliarci su noi stessi come su qualsiasi altra cosa. Forse si
può essere tentati di considerare che il numero possa fare la differenza: una cosa è credere qualcosa di falso, un’altra avere una concezione
distorta di sé. Ma è dificile dire quante credenze dovrebbero essere
false, per questo, o quali: è dificile dare un criterio capace di individuare le credenze rilevanti, e in ogni caso è dificile dire in che modo
la loro falsità sia diversa da quella di qualsiasi altra credenza – perché
dovrebbe essere diversa dall’errore su questioni più volatili o banali.
Un’altra dificoltà è che l’effetto cognitivo delle credenze – in
particolare, il ruolo che hanno nell’azione – può essere compreso soltanto considerando i costituenti indessicali di quello che crediamo.
Nel nostro caso, specialmente il pronome “io”: immaginiamo di vedere rilesso nella vetrina di un supermercato qualcuno che sta perdendo
la spesa e di pensare che stia combinando un guaio. E immaginiamo di
realizzare in seguito che quello siamo noi; soltanto a questo punto acquisteremo la credenza de se che sono io a perdere la spesa e sarà questa credenza a spiegare il nostro imbarazzo e i tentativi di riparare al
danno8. Il punto non è l’inerzia motivazionale tradizionalmente ascritta alle credenze – il fatto che le credenze contribuiscono alle ragioni
per agire soltanto combinate con i desideri9. È che l’informazione che
veicolano ha un ruolo nell’economia cognitiva dell’agente soltanto se
è connessa alla conoscenza diretta di sé espressa indessicalmente dal
pronome personale, una conoscenza che è essenzialmente indessicale
8
Cfr. J. Perry, «The Problem of the Essential Indexical» in Nous, XIII (1979) 1, pp.
3-21 (ho modiicato leggermente l’esempio).
9
Si veda per tutti D. Davidson, Actions, Reasons, and Causes, in Id., Essays on Action
and Events, Oxford University Press, Oxford 1980, pp. 3-21.
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perché non può essere sostituita da una conoscenza descrittiva di sé,
dal momento che per qualsiasi descrizione varrebbero le medesime
considerazioni10. Da questo punto di vista “io” è referenziale, non
espressivo, e non di meno è prioritario rispetto all’identiicazione rilessiva di sé nell’accezione per esempio di Mead. Un’ipotesi naturale
è che riletta il modo nel quale ciascuno è prerilessivamente cosciente
di sé in prima persona come soggetto di esperienze, pensieri, azioni11.
Se si considera la questione da questo punto di vista pare chiaro
che la falsa coscienza coinvolta nell’alienazione non può essere spiegata esclusivamente da meccanismi cognitivi che operano sull’eziologia delle credenze come l’illusione, l’autoinganno, la riduzione della
dissonanza cognitiva12. In primo luogo, si tratta di fenomeni locali,
mentre l’alienazione è una condizione pervasiva. In secondo luogo la
spiegazione degli effetti di indifferenza, impotenza, distacco emotivo
caratteristici di un’esperienza estraniata ha che fare con la distorsione
del senso di sé, ma questi meccanismi non rendono la fenomenologia
soggettiva dell’alienazione. In terzo luogo il loro funzionamento presuppone la capacità di intrattenere pensieri de se, dal momento che
le credenze distorte devono essere integrate nell’economia cognitiva
dell’agente per produrre autoinganno, illusione, riduzione della dissonanza cognitiva. Inine, in questi meccanismi non è cruciale la falsità
della credenza, ma il modo nel quale è prodotta13.
Il primo corno del dilemma è dunque che da questo punto di
vista qualsiasi credenza è (a) anonima e (b) cognitivamente inerte,
se non viene ricondotta alla prospettiva egocentrica dell’agente. Per
Cfr. J. Perry, Identity, Personal Identity, and the Self, Hakett, Indianapolis 2002,
pp. 192 ss.
11
Per una discussione si veda G. Colombetti, «Varieties of Pre-relective Selfawarenes: Foreground and Background Bodily Feelings in Emotion Experience»,
in Inquiry LIV(2011) 3, pp. 293-131; per una ricostruzione del dibattito D. Zahavi,
Subjectivity and Selfhood, MIT Press, Cambridge 2005, pp. 13 ss.
12
Cfr. J. Elster, Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 170 ss.
13
Cfr. Ibid., p. 182: si può credere che si sarà promossi perché si desidera esserlo e
questa credenza può rivelarsi vera senza smettere di avere un’eziologia irrazionale;
quello che vale per l’illusione vale naturalmente anche per l’autoinganno e per la
riduzione della dissonanza cognitiva – che si possa ingannare dicendo la verità lo
sapeva già Agostino, e l’uva acerba della favola potrebbe essere effettivamente acerba.
10
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dare conto della frattura di un’esistenza estraniata, per converso, dovremmo considerare credenze de se che in un senso per ora elusivo è come se non fossero “nostre”, sicché la “falsità” della coscienza
consista nell’esperienza peculiare di sentirsi un altro, più che nella
mancata corrispondenza con la nostra essenza, natura, identità pratica. Per spiegare la soggettività dell’esperienza e la rilevanza pratica
dell’alienazione, quello che crediamo dev’essere sentito in prima persona come quello che siamo, non semplicemente rappresentato come
una descrizione più o meno adeguata14. Il resoconto sembra dover essere formulato al livello della coscienza prerilessiva, di primo ordine,
piuttosto che soltanto attraverso la caratterizzazione descrittiva di sé.
La falsa coscienza deve essere spiegata come coscienza falsa.
Si fa qualche passo avanti se si estende l’autoinganno agli atteggiamenti pratici, per esempio ammettendo che ci inganniamo riguardo
a desideri, valori, emozioni, stili di vita così come riguardo alle credenze, e in modo sostanzialmente analogo – trascurando le alternative,
ignorando l’evidenza, sopprimendo i dubbi e così via15. La casistica è
singolarmente analoga a quella offerta da Jaeggi per l’alienazione: sempliicando, si tratta di situazioni nelle quali una condizione di conlitto
pratico tra ragioni per agire viene superata adottando una strategia per
ingannarci riguardo alle motivazioni che abbiamo16. Il paradosso che
l’autoinganno genera in questi casi è quindi analogo a quello suscitato dall’alienazione perché anche nel caso degli atteggiamenti pratici la
verità non può funzionare come criterio di valutazione. I desideri, le
Sulla complessa questione del rapporto tra autoappropriazione e autenticità, che in
questa sede non è possibile nemmeno toccare, si veda ancora R. Jaeggi, Entfremdung,
cit., pp. 189 ss., 236 ss.
15
E. Funkhauser, «Practical Self-deception», in Humana.mente n. 20 (2012), pp. 8697.
16
Ibid., pp. 93 ss. Ci può essere una pressione sociale a favore di certe professioni,
valori, orientamenti sessuali, stili di vita in conlitto almeno prima facie con i nostri desideri, le nostre inclinazioni, i nostri giudizi, ma possiamo ingannarci anche per altre
ragioni: così può capitare di sopprimere i propri giudizi di valore per conformarsi ad
aspettative sociali, ma ci si può anche forzare a sentirsi felici per superare un’esperienza luttuosa, così come l’incapacità di accettare l’omosessualità può indurci a manipolare i nostri desideri o lo stile di vita che adottiamo essere legato a una scelta
professionale condizionata dalla tradizione familiare. In questi casi si suppone che ci
inganniamo sulle ragioni che abbiamo per agire piuttosto che su quello che crediamo
(cfr. pp. 88-90 per una discussione degli esempi).
14
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emozioni, gli stili di vita non sono veri o falsi come le credenze, e quello
che facciamo per ingannarci a riguardo non ha quindi a che fare con la
verità: consiste piuttosto nel forzarci ad avere ragioni per fare qualcosa
che non abbiamo ragione di fare. Il criterio dell’autoinganno è cioè
l’autenticità più che la verità: il fatto che qui i nostri desideri, emozioni,
stili di vita in certo senso non sono davvero nostri.
Due cose sono importanti. La prima è che non è necessario essere
realisti sui valori o difendere una concezione essenzialista dell’identità
per imputare inautenticità in questo senso. È suficiente credere che
possiamo avere ragioni per agire e che possiamo ingannarci riguardo
alle ragioni che abbiamo17. La seconda è che l’effetto dell’autoinganno
riguarda il modo nel quale facciamo esperienza di desideri, emozioni,
stili di vita, valori come propri o estranei, autentici o inautentici, spontanei o coatti. Questo suggerisce che il resoconto richieda un ingrediente soggettivo ulteriore rispetto ai meccanismi dell’autoinganno,
in ipotesi del tutto analoghi qui e nel caso delle credenze. In una formulazione più allusiva: qualsiasi resoconto si basi esclusivamente sui
meccanismi dell’autoinganno risulterà incompleto proprio perché la
spiegazione deve rilettere la frattura di un’esistenza inautentica piuttosto che la falsità di una rappresentazione. Un resoconto completo
deve rendere la fenomenologia dell’alienazione.
3. Emozioni e coscienza
La coscienza si dice in molti modi, ma la distinzione fondamentale è tra la capacità di rappresentare i contenuti dei propri stati interni
così da renderli disponibili ai processi di ragionamento e deliberazione – o coscienza di accesso – e l’esperienza soggettiva di trovarsi
in un certo stato – o coscienza fenomenica: l’esperienza di come ci si
sente a provare dolore, ricordare Parigi, desiderare che piova, perdere
l’equilibrio18. Intesa in questo secondo senso, la coscienza è data dalla
fenomenologia in prima persona degli eventi e dei processi mentali ai
Ibid., p. 92.
Cfr. N. Block, «On a Confusion about a Function of Consciousness», in Behavioral
and the Brain Sciences XVIII (1995) 2, p. 231; T. Nagel, «What is like to Be a Bat», in
Philosophical Review LXXXIII (1974) 4, pp. 435-450.
17
18
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quali siamo soggetti19. Questo non signiica tuttavia che sia costituita
di proprietà puramente qualitative, non intenzionali. Al contrario: è
del tutto naturale legare il senso intransitivo nel quale i fenomeni sono
coscienti per qualcuno al senso transitivo nel quale sono fenomeni di
qualcosa. Si tratta soltanto di non confondere l’esperienza di primo
ordine di trovarsi in un certo stato mentale con la rappresentazione di
questo stato, vale a dire con uno stato mentale di secondo ordine: la
fenomenologia non è ciò di cui siamo coscienti, ma quello che ci rende coscienti di qualcos’altro20. Originariamente formulata per cogliere
quello che della mente è almeno prima facie irriducibile, questa caratterizzazione prerilessiva, fenomenologica della coscienza è stata nel
frattempo assimilata dalle neuroscienze cognitive. Da questo punto di
vista la qualità soggettiva dell’esperienza può essere concepita come il
sentimento del modo nel quale un organismo è modiicato da un oggetto, così che il senso di sé che accompagna i fenomeni mentali risulta generato con la coscienza dell’oggetto inteso: nel rendere cosciente
l’atto di rappresentare qualcosa viene resa cosciente l’appartenenza
della rappresentazione all’individuo21. La coscienza è il sentimento di
ciò che (ci) accade22.
Questa lettura ha più di un precedente nell’elaborazione fenomenologica della nozione enigmatica di autoaffezione e nell’idea, sviluppata da Henrich a partire dalla ilosoia classica tedesca, che l’autocoscienza presuppone un genere peculiare di familiarità prerilessiva con
sé che non può essere riportato all’identiicazione rilessiva di soggetto
e oggetto23. L’origine di questo senso prerilessivo di sé non è tuttaPer la collocazione della concezione fenomenologica della coscienza tra le teorie “a
un solo livello” si veda D. Zahavi, Subjectivity and Selfhood, cit., pp. 20 ss..
20
Questa formulazione è neutrale rispetto al dibattito sulla possibilità di naturalizzare la fenomenologia, come dimostra la convergenza a riguardo di E. Husserl, Ricerche
logiche, vol. 2, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 142; F. Dretske, Naturalizing the Mind,
MIT Press, Cambridge (MA) 1997, pp. 116 ss.
21
Cfr. A. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000, pp. 21-26: in altri
termini «[l]e conigurazioni neurali e le immagini necessarie afinché vi sia coscienza
sono quelle che fungono da sostituti dell’organismo, dell’oggetto e della relazione
tra i due. In questo quadro di riferimento, comprendere la biologia della coscienza
signiica scoprire in che modo il cervello può costruire la mappa tanto dei due attori
quanto della relazione tra loro» (ibid., p. 35).
22
Ibid., p. 30.
23
Per la prima si veda per esempio D. Zahavi, Subjectivity and Selfhood, cit., pp. 65
19
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via impenetrabile. Damasio per esempio elude il paradosso implicito nell’idea che avere coscienza richiede la capacità di rappresentarsi
come soggetto dei fenomeni, perché non afida la rappresentazione
della relazione tra l’organismo e l’oggetto che costituisce il nucleo della coscienza a un atto intenzionale, ma a meccanismi subpersonali.
Più radicalmente ancora, nella lettura enattiva di Thompson o Noe il
paradosso è eluso riconducendo la coscienza a un genere di know how
legato all’interazione pratica del sistema sensomotorio con il mondo
piuttosto che a qualcosa come la rappresentazione di sé24. Quello che
importa in questo contesto è che, comunque sia intesa, questo genere
di coscienza è una condizione necessaria, anche se non suficiente,
della coscienza autobiograica che si condensa nel tempo in un’identità narrativa, perché è la base del senso di appartenenza, o di ownership, che accompagna gli eventi e i processi mentali dei quali facciamo
esperienza in prima persona, il senso per il quale sono dati a ciascuno
come “propri” o immediatamente attribuiti a sé stessi25.
Gli aspetti interessanti sono tre. Il primo è che questo concetto
fenomenologico della coscienza rilette un genere di coscienza prerilessiva legata all’unità dell’esperienza in prima persona piuttosto che
all’identiicazione rilessiva di sé. Il secondo è che da questo punto di
vista la coscienza è caratterizzata sentimentalmente dall’effetto che fa
trovarsi in un certo stato psicologico. La terza è che disegna la prospettiva egocentrica rilevante per spiegare l’azione. Che l’io non sia
rappresentato tra i contenuti dell’esperienza non implica, in questa
prospettiva, che sia assente o noumenico. Da un lato, la fenomenoloss., per la seconda D. Henrich, Selbstverhältnisse, Reclam, Frankfurt am Main 1982,
pp. 59 ss.
24
In questo senso, la coscienza è «qualcosa che facciamo, che mettiamo in atto con
l’aiuto del mondo» (A. Noë, Out of Our Head: Why You Are not Your Brain and
Other Lessons from the Biology of Consciousness, Hill & Young, New York 2009, p.
64). Anche nel caso paradigmatico della visione, per esempio, «vedere non è qualcosa
che succede dentro di noi. Non è qualcosa che succede a noi o nei nostri cervelli. È
qualcosa che facciamo. È un’attività di esplorazione del mondo che adopera la nostra
familiarità pratica con i modi nei quali i nostri movimenti guidano e modulano l’incontro sensibile con il mondo. Vedere è un’abilità» (ibid., p. 60).
25
Damasio distingue in questo senso tra coscienza nucleare e coscienza autobiograica: la prima è comune a tutti gli organismi dotati di un sistema nervoso centrale
abbastanza complesso, la seconda richiede memoria a lungo termine e linguaggio
(Emozioni e coscienza, cit., pp. 237 ss.).
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gia attesta l’appartenenza dei fenomeni mentali a un “io” che accompagna la rappresentazione e l’azione – da questo punto di vista non
mancano i tentativi di privilegiare la continuità fenomenologica su
quella psicologica come criterio per l’identità personale26. Dall’altro
la possibilità di distinguere questa unità dai contenuti della coscienza
non implica che la prima costituisca un’entità indipendente, formale e
vacua27. Di conseguenza:
a) la soggettività della coscienza lega le credenze de se all’autoriferimento indessicale di “io” perché l’occorrenza di eventi e processi
mentali in prima persona è accompagnata da un senso di ownership
che permette di riconoscerli come propri.
b) il senso di sé che caratterizza questa ownership non implica
che i contenuti della coscienza non siano legati a una biograia, a una
narrazione, all’interazione sociale e così via, non implica cioè una concezione essenzialista e prerilessiva di qualcosa come un “vero” sé e
lascia aperto cosa conti da questo punto di vista per un’identità riuscita28.
c) questa lettura non richiede una gerarchizzazione del sé in un
individuo empirico prono alle inclinazioni e un agente che governa
l’azione attraverso la volontà o qualcosa come dei desideri o delle credenze di secondo ordine29.
Si veda per esempio B. Dainton, The Phenomenal Self, Oxford University Press,
Oxford 2008; T. Magri, First Persons, ms..
27
La fonte classica di queste considerazioni è naturalmente E. Husserl, Idee per una
fenomenologia pura e una ilosoia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, p. 201: «In
questo suo caratteristico intrecciarsi con tutti i “suoi” vissuti, l’io che li vive coscienzialmente non è tuttavia qualcosa che possa essere considerato separatamente e fatto
oggetto di una ricerca a parte. Se prescindiamo dai suoi “modi di relazione” o di
“comportamento” esso manca completamente di componenti essenziali»; l’analisi
presentata in queste pagine riguardo alla struttura fenomenologica della soggettività
conserva la propria validità indipendentemente dalla peculiare concezione trascendentale della fenomenologia caratteristica delle Idee.
28
Per una critica persuasiva alle concezioni tradizionali dell’autenticità, che presuppongono qualcosa come un sé “vero” caratterizzato da proprietà essenziali o spontaneità
espressiva cfr. A. Ferrara, Authenticity Without a True Self, in Ph. Vannini, P. Williams
(eds.), Authenticity in Culture, Self and Society, Ashgate, Burlington 2009, pp. 27 ss.
29
Cfr. Ibid., pp. 24-25; la segregazione gerarchica delle ragioni per agire pare meno
realistica di una lettura nella quale è centrale il giudizio prudenziale sulla congruenza
di una biograia e quello che conta a favore di un’azione dipende piuttosto da con26
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A questo punto, potremmo pensare di avere una base per una
teoria della coscienza falsa. Il legame tra una nozione normativamente
impegnativa di autenticità, che può essere espressa per esempio nei
termini di un’etica eudaimonistica30, e il requisito della ownership potrebbe infatti essere ricondotto alla connessione tra la condizione emotiva che soggiace al senso di sé e la concezione che abbiamo di quello
che siamo almeno nel senso che si può adoperare la prima come test
per la seconda. I vincoli dell’autenticità possono essere espressi eficacemente attraverso le parole con le quali la leggenda vuole che Lutero
riiutasse di abiurare di fronte alla dieta di Worms – «non posso fare
altrimenti»31. Ma naturalmente potremmo scoprire che è vero il contrario: che non siamo particolarmente fermi nelle nostre convinzioni
o fedeli agli impegni che dichiariamo. La concezione che abbiamo
di quello che siamo è una narrazione che può rivelarsi falsa e viene
messa costantemente alla prova dai modi nei quali rispondiamo o risponderemmo emotivamente a situazioni moralmente esigenti. Nella
misura in cui informano le nostre scelte, le emozioni dicono qualcosa
di noi32. Perciò, possono essere indicatori afidabili dell’attendibilità
delle nostre narrazioni.
Questo ci riporta al dilemma iniziale. Il primo corno del dilemma
era che la coscienza non può essere falsa nel senso nel quale possono
esserlo le credenze. Il secondo corno è che dal punto di vista appena
considerato l’idea di una coscienza falsa appare paradossale. La cosiderazioni di coerenza complessiva; da questo punto di vista un desiderio recalcitrante può essere rigettato alla luce di desideri più centrali, che ne governano altri,
ma può anche indurci a rivedere questi desideri; che cosa deve essere rivisto dipende
dall’equilibrio ottimale tra le diverse dimensioni lungo le quali è valutata complessivamente la realizzazione di un’identità autentica. Per un’elaborazione in proposito si
veda ancora A. Ferrara, Autenticità rilessiva, Feltrinelli, Milano 1998, in part. pp. 45
ss. e pp. 83 ss. e 124 ss.
30
Cfr. Ibid., cit., pp. 111 ss.
31
Ibid., pp. 241 ss.
32
Cfr. C. Castelfranchi, F. Giardini, F. Marzo, «Relationships Between Rational Decision, Human Motives, and Emotions» in Mind & Society V (2006) 2, pp. 173-197: pp.
191 ss. Possiamo trovarci in situazioni nelle quali non rispondiamo come dovremmo,
se fossimo come crediamo, ma anche immaginare come risponderemmo in una situazione ipotetica per mettere alla prova l’accuratezza dei vincoli che ci ascriviamo,
come nell’analisi smithiana del dovere (A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, Rizzoli,
Milano 1995, pp. 251 ss.).
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scienza è qualcosa che possiamo avere o non avere, ma come potrebbe
essere falsa? E la stessa cosa si può dire delle emozioni. L’idea che le
emozioni mettono alla prova l’autenticità del modo nel quale ci rappresentiamo suggerisce un’idea di trasparenza e infallibilità sui generis
perché le emozioni sembrano cose per le quali la “verità” coincide
con il possesso: come può essere falsa un’emozione che effettivamente
sentiamo? E tuttavia. Nella misura in cui ci danno informazioni su di
noi, le emozioni possono essere valutate rispetto alla attendibilità o
alla correttezza di quello che rivelano – oltre che alla loro razionalità
e forse anche a qualcosa di analogo alla verità, il successo della loro
funzione nell’orientare le decisioni33. La questione non è quindi se, ma
come possiamo sbagliarci a riguardo. E questa è ora la fonte del paradosso, perché da questo punto di vista l’unico modo nel quale pare
sensato parlare di coscienza o emozioni “false” è l’idea apparentemente assurda che possiamo essere soggetti a emozioni o episodi di coscienza che è come se non fossero davvero “nostri”. La falsa coscienza
consisterebbe in, o corrisponderebbe a una condizione emotiva inautentica, ma per rendere questa condizione dobbiamo ammettere di
poter avere in prima persona l’esperienza di qualcun altro. Parlare
di alienazione e falsa coscienza ha senso solo se c’è un’accezione non
metaforica nella quale è possibile qualcosa del genere.
L’ipotesi, per riassumere, è che per parlare di “alienazione” dovremmo trattare la coscienza nei termini della fenomenologia in prima
persona. Guardare alla struttura soggettiva della falsa coscienza dovrebbe permetterci di cogliere il senso elusivo nel quale l’estraneazione è un’esperienza vissuta, in modo da rendere l’inautenticità esistenziale di una condotta di vita piuttosto che semplicemente della falsità
delle credenze che la informano. La falsa coscienza rilette l’adesione
a una concezione di sé che non corrisponde ai “fatti”, ma quello che
è cruciale è come diventi parte del modo nel quale ci sentiamo, così
da toccare l’esperienza e l’azione. La distorsione nell’eziologia delCfr. De Sousa, «Truth, Authenticity, and Rationality», in Dialectica LVI (2007) 3,
pp. 323-345. Il problema sottostante è che le emozioni non sono letteralmente vere
o false di qualcosa anche se sono concepite come atteggiamenti proposizionali o comunque come stati intenzionali: la paura dei cani è “diretta” ai cani. Ma da questo
punto di vista quello che si può dire di un’emozione è se sia appropriata o inappropriata rispetto alla propria causa, più che vera o falsa dell’oggetto inteso (A. Smith,
Teoria dei sentimenti morali, cit., p. 97).
33
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Come è possibile una coscienza falsa?
le credenze o dei desideri, da questo punto di vista, può spiegare la
formazione dei contenuti espressi da una certa concezione di sé o da
un particolare set motivazionale – e può essere ricostruita sfruttando
meccanismi noti, come la riduzione della dissonanza cognitiva, l’illusione, l’autoinganno: di qui il legame tra falsa coscienza e ideologia34.
Ma l’alienazione non è solo una concezione distorta di sé. Quello che
le è speciico è rilettere l’inautenticità di un’esperienza estraniata, il
fatto che «[…] chi è alienato nel proprio ruolo, o attraverso di esso,
svolge non di meno egli stesso quel ruolo; chi è guidato da desideri
estranei, ha non di meno questi desideri»35.
In un certo senso, si tratta di distinguere tra l’irrazionalità delle
credenze e dei desideri che delineano i contenuti della coscienza alienata, dall’inautenticità dell’esperienza di sé che ne forma la struttura
soggettiva – tra meccanismi che agiscono sull’eziologia delle credenze
e qualcosa che deve spiegare come possiamo non sentirci noi stessi, vivere la nostra vita come se fosse quella di un altro. L’adesione
a una concezione falsa di sé spiega l’alienazione solo se può essere
trattata come l’identiicazione con qualcun altro. Ma non c’è un senso
letterale nel quale possiamo avere le esperienze di altri. C’è tuttavia
un senso quasi letterale nel quale può accadere di sentirci come se
fossimo altri – qualcosa che è una nostra esperienza, ma non propriamente un’esperienza nostra: piuttosto, è un’esperienza simulata, la
simulazione di ciò che sentiremmo se fossimo al posto di un altro.
Immaginiamo qualcuno che ha di sé una narrazione falsa – un professore con uno spirito rivoluzionario ma radicate abitudini borghesi,
un provinciale che si sente un artista maledetto ma è poco disposto
ai rischi della maledizione. Sono autentiche le loro esperienze? Dopotutto, sono le esperienze che hanno. E tuttavia non sono proprio
le loro esperienze, ma quelle di chi immaginano di essere: esperienze
simulate, prodotte dall’identiicazione immaginaria con qualcun altro.
Se siano più lebili, occasionali, instabili, o non abbiano esattamente
il ruolo causale delle emozioni autentiche nel governare i comportamenti è una questione empirica. Quello che si tratta di spiegare è
come possano essere sentite come proprie.
Cfr. J. Elster, Uva acerba, cit., pp. 172 ss., cfr. Id., Making Sense of Marx, Cambridge University Press, Cambridge 1999, pp. 476 ss.
35
R. Jaeggi, Entfremdung, cit., p. 42.
34
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Matteo Bianchin
Con questo abbiamo scoperto le carte. L’idea che possiamo sentirci “come se” fossimo al posto di un altro, l’idea che possiamo “identiicarci” con altri attraverso l’immaginazione, l’idea che possiamo simulare stati mentali rilettono i meccanismi che sono tradizionalmente
considerati responsabili della cognizione sociale36. Nel costruire un
resoconto dell’alienazione centrato sulla distorsione di questo genere
di meccanismi, il punto è spiegare come gli eventi e i processi mentali
ai quali siamo soggetti possano risultarci estranei senza smettere di
essere “nostri”, in modo da consentirci di ammettere l’esistenza di
esperienze inautentiche in senso quasi letterale.
4. Simulatori
Ho osservato poc’anzi che il concetto di alienazione sembra diventare discutibile quando gli individui si identiicano con l’esistenza che è loro imposta
e trovano in essa compimento e soddisfazione. Questa identiicazione non è
illusione ma realtà. La realtà, d’altra parte, costituisce uno stadio più avanzato
di alienazione. Quest’ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto
dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V’è soltanto una
dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma. E realizzazioni
del progresso si sottraggono sia all’accusa che alla giustiicazione ideologica;
dinanzi al loro tribunale, la “falsa coscienza” della loro razionalità diventa la
coscienza autentica37.
In Marcuse la teoria dell’alienazione sembra divenire problematica nel momento in cui la falsa coscienza si rende immune alla propria
falsità. La diagnosi è storica ma, come Jaeggi sottolinea, ha un interesse generale: la coscienza alienata non è per questo meno propria,
l’esperienza estraniata è non di meno la mia38. E allora, come si può
36
Si vedano per fare soltanto qualche esempio A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., pp. 81 ss., E. Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1988, pp.
137-139, A. Schutz, Th. Luckmann, Strukturen der Lebenswelt, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1979, pp. 87-88, M. Davies, T. Stone (eds.), Mental Simulation, Blackwell,
Oxford 1995.
37
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 19994, p. 25.
38
Cfr. Jaeggi, Entfremdung, cit., pp. 45-46; per converso, nella coscienza dell’alienazione ci deve essere già il principio dell’autenticità: la coscienza della falsa coscienza
è una coscienza vera, e anche solo i sintomi sofferti dell’alienazione presuppongo-
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Come è possibile una coscienza falsa?
dire di qualcuno che i suoi desideri siano alienati o conduca nell’insieme un’esistenza alienata, se sente propri quei desideri e afferma di
condurre la vita che intende condurre? Come dire di un’esistenza che
è alienata, se l’alienazione non è percepita? 39 Può sembrare piuttosto
che sia la teoria a rendersi immune alla confutazione postulando la
possibilità assurda di essere e non essere sé stessi, la possibilità che la
nostra esistenza possa esserci estranea. E si noti che non siamo di fronte all’ovvia considerazione che esistono credenze e desideri inconsci:
siamo impegnati a dire che le nostre credenze e i nostri desideri coscienti potrebbero non essere nostri. Né stiamo semplicemente osservando che ci possiamo ingannare riguardo a quello che crediamo o
desideriamo: stiamo dicendo che non abbiamo le credenze e i desideri
che abbiamo (o viceversa). Stiamo dicendo, appunto, che i fenomeni
mentali ai quali siamo soggetti possono «essere nostri e non esserlo
(appartenerci e non appartenerci)»40.
Abbiamo accennato al fatto che un modo di avvicinare questo
paradosso è guardare alle teorie della cognizione sociale e queste si dividono normalmente in due generi: quelle che vedono la comprensione degli altri come l’elaborazione in terza persona di una teoria della
mente analoga a una qualsiasi teoria scientiica e quelle che considerano centrale la capacità soggettiva di adottare la prospettiva di altri
e immaginare in prima persona gli stati mentali ai quali saremmo soggetti nei loro panni. Nelle prime gli stati attribuiti all’agente igurano
come entità teoriche introdotte nella spiegazione del comportamento
quali intermediari causali nel processo che porta all’azione, nelle seconde le risorse cognitive dell’interprete sono mobilitate per simulare
in prima persona stati e processi mentali in modo da formulare la previsione del comportamento41.
no il sentimento, per quanto oscuro, della deformazione. Forse si può distinguere
l’alienazione perfetta, che dev’essere coperta dalla falsa coscienza, dall’espressione
sintomatica dell’alienazione, che può convivere più o meno apertamente con la coscienza della deformità. E forse soltanto la prima è davvero paradossale. Ma entrambe
richiedono una spiegazione, perché anche nel secondo caso l’alienazione si esprime in
sintomi dei quali all’agente sono per principio opache le ragioni o le cause.
39
R. Jaeggi, Entfremdung, cit., p. 46.
40
R. Jaeggi, «Alienation and Social Critique», cit., p. 7.
41
Per una rassegna classica si veda M. Davies, T. Stone (eds.), Folk Psychology. The
Theory of Mind Debate, Blackwell, Oxford 1995.
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Matteo Bianchin
Anche se la contrapposizione tra “teorie della teoria” e “teorie
della simulazione” è per molti versi obsoleta – la maggior parte delle
versioni in circolazione mescola elementi di entrambe – quello che
rimane caratteristico delle seconde è vedere il nucleo centrale della
cognizione sociale nella capacità di simulare gli eventi e processi mentali che ha successo se gli stati e i processi dell’interprete duplicano
stati e processi reali dell’agente. Al livello più elementare, la capacità
di riprodurre azioni e emozioni altrui già osservata da Hume viene
spiegata oggi dall’attività dei neuroni specchio42. Ma per quanto discriminino sottilmente tra diversi tipi di azione, sembra chiaro che
i neuroni specchio colgono soltanto le intenzioni leggibili nei movimenti osservati: vedono le intenzioni in azione, non le intenzioni
anteriori a un’azione – le credenze e i desideri che la informano e
la motivano, le ragioni per agire43. La cognizione sociale deve quindi
prevedere un genere di simulazione di livello superiore, nella quale
interviene essenzialmente l’immaginazione di ciò che faremmo noi “al
suo posto”, in un’accezione largamente anticipata dalla teoria smithiana della simpatia:44
Dal momento che non abbiamo esperienza diretta di ciò che gli altri uomini provano […] è solo attraverso l’immaginazione che possiamo concepire
quali siano le [loro] sensazioni. E tale facoltà non può aiutarci, in questo, altro
che con il rappresentarci quali sarebbero le nostre sensazioni se fossimo noi al
Per una presentazione generale si veda G. Rizzolati, C. Sinigaglia, So quel che fai,
Cortina, Milano 2006, per l’intuizione originaria, naturalmente, D. Hume, Trattato
della natura umana, Laterza, Roma-Bari 19933, p. 609: «Quando vedo gli effetti di
una passione nella voce e nei gesti di una persona, la mia mente passa subito da questi
effetti alle loro cause, e si forma della passione un’idea che è tanto viva da mutarsi
subito nella passione stessa»; in verità, nelle teorie dei neuroni specchio le cose vanno
al contrario: il cervello riproduce, per usare le parole di Hume, la passione stessa, e
da questa si forma l’idea della passione.
43
Cfr. P. Jacob, M. Jannerod, «The Motor Theory of Social Cognition: A Critique»,
in Trends in Cognitive Science IX (2005) 1, pp. 21-25, la distinzione tra intenzioni in
azione e intenzioni anteriori è stata introdotta da J. Searle, Dell’intenzionalità, Bompiani, Milano 1983, pp. 85 e ss.; sulle relazioni tra teorie sensomotorie e simulative
della cognizione sociale si veda per esempio V. Gallese, A. Goldman, «Mirror Neurons and The Simulation Theory of Mindreading», in Trends in Cognitive Science II
(1998) 12, pp. 493-501.
44
Cfr. A. Goldmann, Simulating Minds. The Philosophy, Psychology and Neuroscience
of Mindreading, Oxford University Press, Oxford 2006, pp. 147 ss.
42
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Come è possibile una coscienza falsa?
posto [loro]. Sono solo le impressioni dei nostri sensi, non quelle dei [loro],
che le nostre immaginazioni copiano. Con l’immaginazione noi ci mettiamo
nella [loro] situazione, ci rappresentiamo mentre proviamo tutti i [loro] stessi
tormenti, come se entrassimo nel [loro] corpo, e diventiamo in una certa misura la [loro] stessa persona, e di qui ci formiamo qualche idea delle [loro]
sensazioni e proviamo pesino qualcosa che, nonostante di grado più debole,
non è del tutto diverso da esse45.
Questo presuppone la capacità di adottare la prospettiva di alter,
ma non implica un’inferenza per analogia fondata nella somiglianza
somatica: di solito l’assunzione di una somiglianza non è presente e
non è necessaria in linea di principio, come mostra il fatto che il medesimo processo ha luogo per esempio anche riguardo a oggetti inanimati che non hanno alcuna somiglianza con un corpo animale, nel
caso esibiscano i comportamenti tipicamente associati alla capacità di
agire – per esempio traiettorie anomale46. Quello che importa è che sia
attendibile la riproduzione degli stati e dei processi interni all’agente.
Il primo passo compiuto dall’interprete è generare attraverso
l’immaginazione degli stati psicologici ittizi da attribuire all’agente
come input di un meccanismo deliberativo che si suppone universale. Il processo di deliberazione è poi fatto operare dall’interprete off
line, senza impegnarsi effettivamente nell’elaborazione di un’azione,
in modo da produrre come output una decisione. Inine, la previsione
del comportamento viene formulata ipotizzando un’azione coerente con l’esito della deliberazione. La caratteristica fondamentale di
questo genere di simulazione è che riguarda sistemi funzionalmente analoghi. Perciò la simulazione non è guidata da una teoria che il
primo elabora del secondo, ma dai processi che operano nel primo
e rilettono funzioni condivise: il simulatore per così dire adopera se
stesso come un modello dell’agente, piuttosto che costruire una teoria
A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, cit., pp. 81-82; e ancora «[q]uando vediamo
che la gamba o il braccio di un’altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo
cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vittima. La
folla, quando guarda in altro verso il funambolo che danza, istintivamente si contorce
e oscilla i corpi, come vede fare a lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua
situazione» (ibid. p.83). Per una discussione cfr. R. Gordon, «Sympathy, Simulation
and the Impartial Spectator», in Ethics, CV (1995) 4, pp. 727-742.
46
Cfr. A. Goldman, Simulating Minds, cit., p. 31
45
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Matteo Bianchin
dell’azione – anche se può sfruttare teorie sottostanti come una teoria
della decisione innata: quello che conta è che gli stati ittizi e i meccanismi o processi ipotizzati siano dello stesso genere nei due sistemi47.
Per quello che ci interessa è cruciale soprattutto il genere di immaginazione coinvolta. L’immaginazione può essere concepita come
un atteggiamento proposizionale, un genere di atti intenzionali, la cui
speciicità consiste nel fatto che lo stato di cose rappresentato è ittizio, ovvero non è “posto” come reale48. Ma da questo punto di vista
una credenza, un desiderio, un’emozione immaginati non sarebbero
essi stessi stati intenzionali immaginari di credenza, desiderio, emozione, bensì oggetti di un’intenzione ulteriore: lo stato immaginato
non sarebbe simulato, ma rappresentato nell’immaginazione. Non
sarebbe quindi un’intenzione ittizia, ma un’intenzione autentica rappresentata come un oggetto ittizio. Una credenza immaginata, per
esempio, sarebbe rappresentata come una credenza autentica che ci si
immagina di avere, non una credenza ittizia. Il tipo di immaginazione
all’opera nei contesti simulativi non può quindi essere un atteggiamento proposizionale e per ragioni analoghe non può essere semplicemente equivalente alla formulazione di un’ipotesi o supposizione49.
Ma c’è un altro modo di concepire l’immaginazione nel quale
non abbiamo a che fare con un genere di stati intenzionali che prendono gli stati o i processi immaginati come oggetti, ma con un’operazione che produce la replica ittizia del medesimo stato o processo.
Goldman deinisce questo genere di immaginazione “enactive imagination” perché l’immaginazione in questo caso non consiste nel rappresentare, ma per così dire nel “mettere in scena” uno stato o un
processo mentale, nell’eseguirlo off line. Se immaginiamo l’eccitazione di un black bloc nel bruciare un blindato, per esempio, quello che
facciamo non è rappresentare che ci sentiremmo eccitati, ma attivare o
inscenare in foro interno l’eccitazione che proveremmo. Questo non
toglie naturalmente che abbiamo anche la capacità di rappresentare
Ibid., pp. 34 ss.
Questo genere di lettura ha oggi tra i suoi sostenitori S. Nichols, S. Stich, Mindreading. An Integrated Account of Pretence, Self-awareness, and Understanding Other
Minds, Oxford University Press, Oxford 2003, pp. 28 ss., ma si trova già in Husserl, seguito in questo da J.-P. Sartre, Immagine e coscienza, Psicologia fenomenologica
dell’immaginazione, Einaudi, Torino 1980, pp. 25 ss.
49
A. Goldman, Simulating Minds, cit. pp. 46-47.
47
48
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Come è possibile una coscienza falsa?
circostanze controfattuali e ricavare inferenze da questa rappresentazione – non esclude cioè che esista anche la prima specie di immaginazione50. Assume soltanto che la produzione di stati ittizi ipotizzata dalle teorie simulative richiede una capacità distinta, in virtù
della quale la comprensione degli altri avviene interpretando quello
che dicono e fanno nel senso in cui un attore interpreta una parte. Lo
stato mentale istanziato dall’interprete in questo caso non è diverso da
quello dell’agente, come nei giochi infantili o nei contesti di inzione
e diversamente da quello che accade nel discorso indiretto: lo stato
simulato nel quale si trova il primo non è cioè uno stato di secondo ordine che ha come oggetto lo stato nel quale si trova il secondo. E non
è nemmeno un tipo di stato diverso. È uno stato identico per genere
e ordine allo stato originario: immaginare che Paolo desidera nuotare
non è come credere che Paolo desidera nuotare: è sentirsi come Paolo
quando desidera nuotare51.
Da questo punto di vista c’è quindi un’accezione non metaforica
nella quale possiamo intrattenere come una nostra esperienza qualcosa che non è in effetti un’esperienza nostra. Per rendere conto di
come ciò possa generare falsa coscienza o esperienza inautentica è ora
suficiente ipotizzare che qualcosa in questo processo possa risultare distorto o manipolato in modo da rendere soggettivamente irriconoscibile la simulazione. Se la simulazione è distorta in modo da
rendere irriconoscibile il carattere ittizio degli stati simulati o la loro
attribuzione ad altri, è possibile formulare un’ipotesi su come si possa
produrre non soltanto l’alienazione perfetta ipotizzata da Marcuse,
ma più in generale il senso quasi letterale nel quale potremmo sentirci
“come se” fossimo un altro. Questo richiede qualcosa di simile alla
divisione dell’io o alla manipolazione tipici dell’autoinganno, della
dissonanza cognitiva, del wishful thinking, ma la speciicità della falsa
coscienza sarebbe operare al livello del processo simulativo legato alla
cognizione sociale. In questo caso, non è infatti distorta l’eziologia
delle credenze o dei desideri, che è del tutto corretta per l’individuo
nei panni del quale ci sentiamo. La fonte della distorsione deve trovarsi nel processo di identiicazione immaginaria e operare in modo
da inibire del tutto o in parte la consapevolezza della simulazione che
50
51
Ibid., p. 47.
Ibid., p. 48, 195 ss., 281 ss.
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produce lo stato nel quale “viviamo” l’effetto che fa essere quella persona52.
Dov’è che qualcosa può andare storto? Possiamo soltanto provare a formulare delle congetture, considerando alcuni elementi caratteristici del genere di processi che si è cercato di illustrare. Il primo è
che la simulazione presuppone l’accesso introspettivo alla psicologia:
proprio perché sfrutta risorse interne, richiede la capacità di riconoscere e classiicare in prima persona stati e processi mentali53. Ma questo non signiica che la nostra mente ci sia trasparente: non solo il
processo di simulazione non è necessariamente volontario o cosciente,
ma non c’è ragione di credere che l’introspezione sia meno fallibile di
altre funzioni cognitive. La distorsione potrebbe quindi operare in
primo luogo nel riconoscimento e nella classiicazione degli stati e dei
processi mentali. Negli atteggiamenti proposizionali ci possono essere
opache le proposizioni tanto quanto gli atteggiamenti: possiamo essere confusi su ciò che pensiamo, ma anche classiicare erroneamente un
desiderio come una credenza o viceversa. E l’opacità può essere estesa
al processo di simulazione. Come non è detto che sappiamo cosa pensiamo, così non è detto che sappiamo cosa facciamo – i processi possono esserci opachi quanto gli stati e gli eventi, compreso il processo
immaginario che produce lo stato simulato nel quale ci troviamo.
Il secondo è che l’attendibilità della simulazione richiede di prevenire la proiezione egocentrica di credenze, desideri, emozioni idiosincratici, cosa che si ottiene postulando un meccanismo di quarantena capace di isolare i pregiudizi dell’interprete54. L’ipotesi serve a
escludere il contrario della falsa coscienza – a escludere cioè che sia
distorta la comprensione degli altri. Ma se è corretta indica che l’input
fornito alla simulazione è soggetto a operazioni anteriori all’avvio del
processo che selezionano i candidati attendibili e possono sfuggire al
controllo cosciente. A questo livello potrebbero collocarsi forme di
manipolazione relative alle credenze, ai desideri, alla raccolta e alla selezione dell’informazione simili a quelle che operano nell’autoinganno e in particolare nelle forme di autoinganno pratico che abbiamo
52
Nel ilm di S. Jonze, Being John Malkowich, l’ironia è legata al fatto che questo
accade alla lettera.
53
Cfr. A Goldman, Simulating Minds, cit., p. 148.
54
Ibid., pp. 40-41.
370
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Come è possibile una coscienza falsa?
considerato nel secondo paragrafo. Ma è interessante osservare che
opererebbero in un contesto differente da quello che abitualmente
si suppone, il contesto dei processi di immaginazione centrali nella
cognizione sociale.
Il terzo è che il meccanismo responsabile della simulazione presuppone la capacità di distinguere tra l’attribuzione dei fenomeni e
dei processi immaginati a sé o ad altri: qualsiasi sistema capace di simulare fenomeni mentali deve avere delle procedure per “etichettare”
gli stati come propri o estranei in modo da demarcare stati genuini e
ittizi – o “simulati” – e non c’è ragione di credere che questa procedura sia infallibile. Goldman è esplicito a riguardo:
L’idea è che un lettore [mindreader] che adotta la simulazione crea (o
cerca di creare) repliche degli stati del target. Si creano stati approssimativamente equivalenti agli stati genuini che occorrono negli affari cognitivi di
primo ordine. La differenza principale tra loro è nelle rispettive origini, che
possono essere dimenticate nel procedere della cognizione. Come riesce quindi il sistema cognitivo a segregare quegli stati più o meno equivalenti? Non
si rischia la confusione? […]. L’immaginazione visiva può confondersi con il
vedere genuino; l’immaginazione motoria con la pianiicazione o l’esecuzione
motoria genuina. Nella lettura della mente stati genuini possono scivolare in
una simulazione quando non le appartengono. Si era trovato che proprio questo è un problema pervasivo che produce errori egocentrici55.
Ci deve quindi essere una spiegazione del fatto che i prodotti della simulazione vengano attribuiti ad altri anziché trattati come propri,
e naturalmente anche i meccanismi responsabili di questa attribuzione
possono fallire56. Certe forme di schizofrenia sembrano dipendere per
esempio da un malfunzionamento della teoria della mente in questo
senso: un esempio tipico riportato nella letteratura è quello delle allucinazioni verbali nelle quali sono attribuite a un agente esterno intenzioni proprie, in particolare commenti, ordini, comandi che il paziente indirizza a se stesso in terza persona57. Nel nostro caso si tratterebbe
A. Goldman, Simulating Minds, cit., p. 211-212.
Cfr. M. Jannerod, E. Pacherie, «Agency, Simulation, and Self-identiication», in
Mind & Language XIX (2004) 2, pp. 132 ss.
57
Cfr. Ibid. p. 133; per una discussione cfr. P. Carruthers, «How We Know Our
Minds: The Relationships Between Mindreading and Metacognition» in Behavioral
and Brain Sciences XXXII (2009) 2, pp. 135-136, sul legame tra metacognizione e
55
56
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di trovare qualcosa di analogo, ma che funzioni nella direzione opposta, inducendo a trattare come propri pensieri e intenzioni tacitamente attribuiti ad altri, e risulti meno intrattabile o più manipolabile della
condizione patologica della schizofrenia. L’evidenza maggiore riguarda le allucinazioni visive e sensomotorie nelle quali la visualizzazione
può essere confusa con una percezione genuina, l’immaginazione di
un’azione con la sua esecuzione: in entrambi i casi le regioni cerebrali
coinvolte sono le stesse che risultano coinvolte di solito nelle diagnosi
di schizofrenia58. Ma non mancano prove che qualcosa di simile può
toccare agli atteggiamenti proposizionali e alle emozioni. L’ipotesi dovrebbe contemplare che in questi casi le distorsioni possano veriicarsi
occasionalmente e in forme non clinicamente patologiche, sicché per
esempio una condizione emotiva, una credenza, un desiderio siano
sentiti come propri quando il processo simulativo è occultato o dimenticato per una varietà di ragioni (o cause) interne o esterne, che
possono andare dalla coazione sociale di Marcuse alla manipolazione
culturale, o ancora al genere di strategie tipiche dell’autoinganno.
Inine, forse proiezioni immaginarie di questo tipo sono sempre
parte della costruzione di sé e la manipolazione può essere perseguita
almeno in parte consapevolmente. Da questo punto di vista, il rapporto tra autenticità e alienazione è complesso. Pensiamo a una conversione: all’origine troveremo un desiderio profondo di trasformazione esistenziale, poi un processo anche molto articolato nel quale si
potrebbero mescolare autentica ricerca religiosa e morale, illusione,
riduzione della dissonanza cognitiva, forse perino qualcosa come
il risentimento nietszcheano; oppure pensiamo a un comportamento mimetico nel quale il personaggio inscenato alla lunga si insinua
nell’agente e per così dire gli si impone, come se il processo immaginario di identiicazione fosse progressivamente dimenticato o la consapevolezza della simulazione divenisse inattiva. In questi casi può esmindreading si veda il commento di B. Wiffen, A. David «Metacognition, Mindreading, and Insight into Schizophrenia», in Behavioral and Brain Sciences XXXII (2009)
2, pp. 161-162; per una prospettiva diversa e parzialmente in contrasto J. Proust,
Agency in Schizophrenia from a Control Theory Viewpoint, in W. Prinz, N. Sebanz
(eds.), Disorder of Volition, MIT Press, Cambridge (MA) 2006, pp. 87-118, che distingue da questo punto di vista tra il senso della ownership e della authorship nel caso
dell’azione: il primo sarebbe presente, il secondo assente.
58
A. Goldman, Simulating Minds, cit., pp. 151 ss.
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Come è possibile una coscienza falsa?
sere dificile tracciare una linea di demarcazione netta. Per converso,
anche quando la falsa coscienza è indotta senz’altro da circostanze oggettive, l’ideologia che la sostiene deve potersi condensare in un’esperienza soggettivamente riconoscibile perché gli individui iniscano per
identiicarsi, come scrive Marcuse, con l’esistenza che è loro imposta.
I meccanismi che spiegano l’ideologia o comunque la distorsione di
quello che crediamo e desideriamo devono potersi combinare con
qualcosa che spiega la soggettività dell’alienazione.
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