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Presentazione, Parolechiave n° 46, Migranti

2011, Parolechiave

Presentazione Nel 0(( “Problemi del socialismo” dedicava un numero al tema Immigrati, non cittadini. A quasi un quarto di secolo di distanza, “Parolechiave” torna a interrogarsi sull’argomento con un numero che si propone di esplorare il lemma “migranti”. A essere cambiata, ovviamente, non è solo la parola intorno alla quale sono organizzati i contributi degli autori. Cambiamento peraltro sostanziale, quello lessicale: le parole non sono innocenti, come ci ricorda Carla Pasquinelli nel ripercorrere la storia dei termini con i quali si è identificato, letto, interpretato il fenomeno migratorio negli ultimi decenni; e il passaggio da immigrati a migranti non è una semplice sostituzione di lemmi, dettata magari da preoccupazioni di correttezza politica, ma il segno di un cambiamento di contesto, di prospettive e di problemi. A essere mutato è, innanzitutto, il contesto storico in cui si inserisce la riflessione sul tema delle migrazioni e sulla loro rilevanza sociale, politica, economica, culturale. Pur essendo indubbiamente vero che, nell’ambito della globalizzazione neoliberista, gli esseri umani circolano con assai più difficoltà delle merci e dei capitali, negli ultimi due decenni i movimenti migratori sono nondimeno notevolmente cresciuti per dimensioni e complessità, contribuendo a fare dell’esperienza migratoria uno degli aspetti più rilevanti della contemporaneità e della presenza dei migranti un dato di esperienza piuttosto comune in molte parti del mondo. Al cambiamento di contesto si è accompagnata una sempre più diffusa presenza del tema delle migrazioni internazionali nel dibattito politico, in particolare in Europa, dove sono anche proliferate formazioni politiche che, creando e alimentando un clima di forte allarme sociale, hanno fatto dell’ostilità verso i migranti un argomento centrale nella ricerca del consenso, e dove sono state elaborate e messe in atto nei confronti dei migranti politiche sempre più restrittive. Sono cambiate, infine, le categorie interpretative con le quali diversi saperi si accostano alle esperienze migratorie e ai loro molteplici e complessi significati. Delineare un quadro generale delle migrazioni contemporanee è operazione estremamente complessa, come sostiene Salvatore Strozza, che la paragona, citando Hoffman e Lawrence, a «comporre un grande puzzle basato su VII PRESENTAZIONE fotografie di una realtà in rapida evoluzione, con importanti tessere mancanti e molte di quelle disponibili condizionate da non trascurabili limiti di messa a fuoco». Dal punto di vista demografico e statistico, i fenomeni di cui i migranti sono attori, le migrazioni, si presentano come un «concetto sfocato», dal momento che risulta piuttosto difficile «distinguere tra tutti gli spostamenti delle persone quelli che sono migrazioni da quelli che non lo sono». Numerose sono infatti le variabili che entrano in gioco, dall’ampiezza dello spostamento, all’attraversamento di confini politici, alla durata della permanenza nel luogo di destinazione, rendendo difficile una definizione precisa che permetta di rendere comparabili e omogenei i dati raccolti a fini statistici. Difficoltà concettuale che è accentuata dall’uso di metodi, strumenti empirici, aggregati statistici, fonti diverse ed eterogenee, per calcolare le presenze nei diversi paesi. Di particolare rilievo è la tensione, messa in evidenza da Strozza, tra due criteri fondamentalmente diversi ed eterogenei, quali la cittadinanza e l’origine, nei calcoli relativi alla presenza dei migranti. I due aggregati, “stranieri” e “nati all’estero”, non coincidono necessariamente, e tendono sempre meno a coincidere in pratica, in particolare per via della diffusa presenza in tutti i paesi europei di appartenenti alle cosiddette “seconde generazioni”, che “migranti” possono essere considerate solo in virtù di una convenzione linguistica di dubbia legittimità, ma “straniere” possono invece essere oppure no, a seconda delle leggi vigenti sulla cittadinanza. Argomento di rilievo non solo statistico, quello della cittadinanza dei figli di migranti nati e residenti in Italia, che è oggi al centro di un dibattito inaugurato dagli autorevoli interventi del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Nonostante le difficoltà, è però possibile evidenziare alcune chiare tendenze nella storia delle migrazioni in Europa in età contemporanea. Nella seconda metà del XIX secolo, ai tempi della “prima globalizzazione”, l’Europa era il principale bacino dell’emigrazione di massa verso le Americhe. Nel secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta, sono stati soprattutto i cittadini del Sud Europa, dell’area mediterranea e delle ex colonie a migrare verso i paesi del Nord Europa, che richiedevano mano d’opera per le loro industrie in espansione (cui corrispondeva, in Italia, anche un ampio movimento migratorio interno: dal sud al nord, dalle campagne alle città). Negli ultimi due decenni, invece, è proprio il Sud Europa ad avere avuto esperienza dei più consistenti movimenti migratori in entrata, diventando una delle principali destinazioni a livello mondiale, e raggiungendo in breve tempo livelli di presenze straniere comparabili con quelle dei paesi di più lunga storia ricettiva, come quelli del Nord Europa. Può sembrare un paradosso che il numero dei migranti residenti nei paesi dell’Unione Europea sia cresciuto notevolmente proprio nel momento in cui venivano adottate le più severe e restrittive misure di chiusura delle frontiere, quelle che hanno indotto a coniare l’espressione «fortezza Europa». Oppure VIII PRESENTAZIONE può indurre a porsi qualche domanda non solo sulla efficacia delle politiche, ma anche sull’esistenza di finalità dell’azione diverse da quelle ufficialmente proclamate. Diversi contributi mettono in effetti in evidenza, con accenti peraltro assai differenti, il fatto che la «politicizzazione delle migrazioni» non risponda tanto all’obiettivo irrealistico di arrestare i flussi migratori, quanto piuttosto a quello più realistico di gestire l’«inclusione differenziale» dei migranti nel mercato del lavoro europeo. Il fatto che, dopo due decenni di crescente chiusura, la presenza dei migranti sia tutt’altro che in diminuzione è certo segno della palese inefficacia delle politiche ispirate allo slogan «stop all’immigrazione», ma invita anche a chiedersi se non sia proprio la produzione di pura forza lavoro, priva di diritti e tutele, la vera posta in gioco dell’accanimento normativo contro i migranti. L’aver collegato il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, come avvenuto nella più recente normativa italiana, sembra andare esattamente in questo senso, rendendo la forza lavoro dei migranti «merce diversamente disponibile» (secondo l’espressione di De Genova citata da Mellino), e i migranti puri dispensatori di forza lavoro, i cui diritti e le cui esistenze sono subordinati alle fluttuazioni della domanda della “merce” cui i loro corpi vivi accade siano attaccati (per riprendere la nota e iperbolica immagine di Marx). Le interpretazioni economiche delle migrazioni, del resto, hanno tradizionalmente visto nei migranti i dispensatori di forza lavoro, e hanno analizzato i loro movimenti in relazione a fattori di spinta o di attrazione relativi al lavoro. Meccanismo di compensazione degli squilibri generati dall’espansione capitalistica nelle interpretazioni marxiste, funzione dei differenziali salariali nelle teorie neoclassiche, o dei differenziali dei tassi di disoccupazione in quelle keynesiane, le migrazioni sono state poste dalla teoria economica in una relazione diretta con alcuni fondamentali indicatori economici, che solo le più recenti teorie dello sviluppo umano, sostengono Salvatore Monni e Federica Zaccagnini, hanno rimesso radicalmente in discussione. Per quanto sicuramente rilevanti, i vari fattori di spinta o di attrazione contemplati dalle teorie economiche tradizionali non sono da soli sufficienti a rendere conto di un fenomeno tanto complesso ed eterogeneo come le migrazioni contemporanee, e possono portare a letture falsanti dei fenomeni. Parlare dei migranti significa parlare dello Stato, sosteneva Abdelmalek Sayad, che negli anni Novanta ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento degli studi sui migranti. Sono infatti i dispositivi di classificazione e gestione delle popolazioni propri dello Stato a definire l’identità dei migranti, sulla base della non-appartenenza alla comunità politica. Migranti sono, dunque, i non cittadini, o, come scrive provocatoriamente Enrica Rigo, i «cittadini illegali». La «sfida all’ordine ortodosso della cittadinanza e alle sue verità» rappresentata dai migranti, siano essi “legali” o “illegali”, è l’oggetto del suo contributo, che riflette sulla relazione tra conIX PRESENTAZIONE fini, democrazia e ordine politico. Dalla prospettiva che considera i confini come la «condizione non democratica della democrazia» (Balibar) e la libertà di movimento come una delle sue principali poste in gioco (si veda anche il contributo di Mezzadra nel recente numero di “Parolechiave” su “Terra”), i migranti appaiono come i «soggetti paradossali della democrazia», coloro che, con i loro attraversamenti, più o meno legali, costringono a rivederne i fondamenti: «dalla rappresentazione del territorio come risorsa di cui è possibile appropriarsi su base esclusiva, all’idea che sia possibile tracciare una linea di distinzione netta tra l’interno e l’esterno della comunità politica», le migrazioni mettono in crisi l’apparato categoriale dello Stato-nazione, a partire dalla cittadinanza come istituto all’interno del quale declinare l’uguaglianza dei diritti. Questione che assume connotazioni del tutto particolari in uno spazio che, come quello europeo, si pone fin da principio come uno spazio «di circolazione», «la cui esistenza si da politicamente e giuridicamente quando viene attraversato». La lettura delle migrazioni contemporanee proposta da Miguel Mellino riprende diversi aspetti del paradosso identificato da Enrica Rigo, inquadrandoli nell’ottica della «critica postcoloniale». Postcoloniale assume in questo contesto un doppio significato: da un lato significa il rifiuto del «delirio manicheo» delle società coloniali, che suddivide i soggetti secondo rigide linee gerarchiche; dall’altro sta ad indicare le persistenze nella contemporaneità dei dispositivi coloniali di subordinazione. Da questo punto di vista, la condizione dei migranti nell’Europa contemporanea sembra realizzare nel modo più pieno quell’«irruzione dei margini al centro», che secondo Stuart Hall caratterizza la condizione postcoloniale, trasferendo nel cuore dei dissolti imperi la stratificazione e le tensioni proprie delle società coloniali. La compresenza nello stesso spazio politico di soggetti con diritti differenti e gerarchicamente ordinati riattualizza per molti versi la divisione tra cittadini e sudditi che organizzava le relazioni sociali nei domini coloniali delle potenze europee. La cittadinanza diventa così un dispositivo di esclusione, che separa chi gode di un set esteso di diritti, da chi dispone solo provvisoriamente di una parte di essi (i migranti “regolari”), e soprattutto da chi non dispone che dei più elementari diritti umani (gli “irregolari”, in Italia generalmente chiamati “clandestini”, con termine denso di connotazioni negative e generatore di allarme sociale). Una lettura postcoloniale delle migrazioni è dunque quella che disarticola i dispositivi produttori di differenziazione ed esclusione sociale dello Stato-nazione, riconoscendo ai migranti una voce e una soggettività propria. È sotto questa prospettiva che il contributo di Leonardo De Franceschi esplora la più recente produzione cinematografica sulla condizione dei migranti nella Schengenland europea, mettendone in evidenza le molte ambiguità. Al di là delle buone intenzioni degli autori, quel che sembra accomunare i film X PRESENTAZIONE presi in considerazione (con una parziale eccezione), è proprio la mancanza di una specifica agency e di un punto di vista proprio dei migranti sulle storie di migrazione che vengono raccontate. Forse anche per facilitare l’immedesimazione dello spettatore con il protagonista, è di cittadini europei posti di fronte alla scelta tra il rispetto di leggi disumane (che prevedono il delitto di solidarietà) e il dovere umano dell’empatia e dell’ospitalità che i film parlano. Senza però lasciare spazio alla voce e alla soggettività dei migranti, che appaiono agiti dalla violenza o dalla solidarietà altrui, piuttosto che portatori di una propria autonoma agency. Di limiti dell’immaginario anti-razzista si occupa anche il saggio in cui Michele Colucci riflette sull’uso pubblico della memoria dell’emigrazione italiana. Se gli storici hanno a lungo lavorato sul tema, la sua presenza nelle produzioni culturali destinate al largo pubblico è invece recente, ed evidentemente influenzata dai dibattiti sulle migrazioni straniere in Italia; ed è per questo che si presta a frequenti distorsioni “presentiste”. Oltre a mettere in dubbio l’efficacia di quelle retoriche, oggi largamente diffuse, che aspirano a fare della lunga storia migratoria del paese una sorta di antidoto al proliferare delle pulsioni esplicitamente o copertamente xenofobe, Colucci mette in guardia dalla perdita di specificità e dallo schiacciamento su di una rappresentazione fosca e a tinte forti delle migrazioni, indissolubilmente associate con la miseria e il degrado, che sono stati introdotti nelle recenti produzioni culturali di massa. La depoliticizzazione, l’occultamento del problema del lavoro dietro lo schermo della retorica del sacrificio, la declinazione tutta al maschile dell’esperienza migratoria sono i nodi problematici sui cui Colucci invita a riprendere la riflessione. Nell’ambito europeo, il caso italiano sembra assumere alcuni tratti particolari, non tanto nel senso di presentare caratteristiche uniche, quanto piuttosto nel senso di spingere ai limiti le tendenze proprie delle politiche comunitarie. Dall’istituzione dei CPT (Centri di permanenza temporanea), poi trasformati in CIE (Centri per l’identificazione e l’espulsione), alla trasformazione dell’ingresso irregolare nel territorio dello Stato in reato penale, fino al collegamento tra occupazione e permesso di soggiorno, una serie di “innovazioni” legislative e di prassi eterodosse (politiche di respingimento, accordi bilaterali finalizzati a interrompere all’origine i “flussi” migratori) hanno fatto dei migranti i soggetti vivi sui quali si sperimentano le più profonde trasformazioni (e torsioni) delle garanzie giuridiche dello Stato di diritto. È per questo motivo, e non certo per assecondare – ma anzi per contrastare – una «deriva securitaria» che vuole i migranti regolarmente collocati sotto il segno della sicurezza e dell’ordine pubblico, che il fascicolo, pur nella tradizionale impostazione interdisciplinare che caratterizza la nostra rivista, si concentra con particolare insistenza su alcuni temi di carattere giuridico e politico. XI PRESENTAZIONE Nel fare il punto sulla tutela internazionale dei diritti fondamentali dei migranti, Lucia Aleni mette in evidenza le poche luci e le molte ombre che caratterizzano la situazione odierna. Il migrante, «lo straniero che attraversa le frontiere per ragioni economiche», «non gode di uno specifico regime di protezione a livello internazionale». Il suo status è definito per differenza (migrante è colui cui non è riconosciuto lo status di rifugiato) e il livello delle protezioni di cui gode è talmente ridotto al minimo che si è assistito, negli ultimi anni, «a un progressivo effetto di sostituzione dei diritti umani rispetto ai diritti degli stranieri». Un processo di riduzione allarmante e problematico, che non può non richiamare la famosa affermazione di Hannah Arendt, secondo la quale «un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile». Il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di riduzione in schiavitù, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il divieto di espulsioni collettive, il diritto all’unità familiare, costituiscono il catalogo esiguo, largamente insufficiente – e, si potrebbe aggiungere, neanche tanto effettivo – dei diritti dei migranti. Situazione aggravata, nel caso dei migranti irregolari, dalla scarsa tutela giurisdizionale che sono in grado di ottenere, sia per l’inibizione esercitata dal rischio di espulsione, sia – in maniera forse ancor più grave – per i casi in cui «è l’ordinamento stesso a non prevedere alcuna via di ricorso giurisdizionale», come avviene in Italia per l’espulsione per sospetto di terrorismo, disposta con provvedimento ministeriale inappellabile, e per il respingimento differito in frontiera. Tra le “innovazioni” normative più controverse che riguardano i migranti vi è senz’altro l’uso sempre più esteso delle misure di detenzione amministrativa, disposte in base a provvedimenti dai fondamenti giuridici non sempre saldi. Fulvio Vassallo Paleologo ne rende conto in un intervento di natura piuttosto tecnica, per via dei continui riferimenti a specifiche fonti normative, ma dai contenuti altrettanto chiari. In molti casi, sostiene Vassallo Paleologo, vi è in Italia un vero e proprio abuso delle misure di detenzione amministrativa, che vengono disposte al di là delle fattispecie esplicitamente previste da leggi e convenzioni, talvolta addirittura adottate senza alcun apposito provvedimento amministrativo, spesso disposte da circolari ministeriali in violazione di diritti fondamentali di rilevo costituzionale o derivanti dalle convenzioni internazionali. Lo «stato di emergenza permanente» che è stato alimentato intorno al tema dell’immigrazione illegale viene così a rappresentare una sfida di primo piano alla tenuta dello stato di diritto. Il saggio di Fabrizio Mastromartino prosegue la ricognizione sulla condizione giuridica dei migranti compiendo un’analisi della dottrina e delle attuali tendenze, per lo più restrittive, di interpretazione del diritto d’asilo. Diritto soggettivo, garantito ai singoli individui in base alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per proteggerli dalle persecuzioni per motiXII PRESENTAZIONE vi di razza, religione, nazionalità e opinioni politiche di cui hanno fondato timore di poter essere oggetto, il diritto d’asilo è fondato sulla disposizione cardine del principio di non-refoulement: norma imperativa del diritto internazionale che obbliga lo Stato a non respingere il rifugiato verso quei paesi dove la sua vita o libertà sarebbero minacciate. In base a questo principio gli Stati hanno il preciso obbligo di non respingere i migranti irregolari, che godono dello status presuntivo di rifugiato, senza prima aver vagliato la specifica posizione di ognuno di essi. Ed è proprio il principio di non-refoulement ad aver subito, scrive Mastromartino, una graduale compressione nell’ambito delle politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, la cui più evidente manifestazione consiste nella teorizzazione e attuazione pratica della politica dei respingimenti collettivi, verso il paese d’origine come verso paesi terzi che forniscono garanzie spesso insufficienti sul rispetto dei diritti fondamentali dei migranti (come finalmente riconosciuto nella sentenza del QJ febbraio della Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia a risarcire un gruppo di richiedenti asilo dei quali sono stati violati i diritti fondamentali). Il caso analizzato in profondità da Barbara Sorgoni mostra la complessità, già segnalata da Mastromartino, delle procedure relative al riconoscimento dello status di rifugiato. In mancanza dei documenti che possano comprovare la veridicità dei timori di persecuzione all’origine della richiesta di protezione, il riconoscimento dello status di rifugiato viene a dipendere in modo determinante dalle valutazioni sulla attendibilità delle narrazioni di fuga e persecuzione che accompagna la richieste. La trasformazione delle narrazioni di fuga e di persecuzione in prove a favore o contro la richiedente, una giovane donna oggetto di terribili violenze per motivi politici, è letta da Sorgoni come il risultato di un processo di co-produzione di documenti che mobilita una molteplicità di conoscenze e credenze, per lo più implicite, in grado di confermare o smentire l’attendibilità delle narrazioni. Informazioni sommarie e incomplete sul paese di origine, valutazioni soggettive basate su assunzioni stereotipe sulla logica delle persecuzioni e delle violenze politiche, sospetto sistematico verso i dettagli non inseribili in schemi precostituiti, guidano nel caso analizzato la produzione della “verità” giuridica. La richiedente asilo è così costretta, all’interno di un quadro di spietata violenza istituzionale, a ricordare la persecuzione subita, selezionando quegli aspetti della propria storia che meglio corrispondono alle aspettative, alle assunzioni, alle credenze di chi deve giudicare della sua attendibilità. Il saggio di Ali Bensaâd dirotta lo sguardo oltre i confini della «fortezza Europa», per analizzare il «nuovo crocevia migratorio intercontinentale» sahariano. È qui, infatti, che il rafforzamento delle frontiere europee si riverbera innescando processi dalle conseguenze locali complesse e contraddittorie. Secondo Bensaâd, la «delocalizzazione delle frontiere» europee trasferisce XIII PRESENTAZIONE in un retroterra lontano – nascosto alla vista e al controllo dell’opinione pubblica e delle organizzazioni internazionali – le tensioni generate dalle politiche restrittive dell’immigrazione. Il Sahara si trasforma così in un limen, una sorta di frontiera esterna, dove le tensioni sociali importate dall’Europa si sommano e si combinano con quelle endogene, riattivando «una lunga storia di rapporti non egualitari» tra Maghreb e Africa nera, che ha avuto nella tratta degli schiavi la sua più drammatica espressione. Scritto prima della “primavera araba”, il saggio contiene alcune valutazioni che, retrospettivamente, si rivelano decisamente interessanti, riguardo alla destabilizzazione che il trasferimento delle tensioni europee avrebbe potuto generare nei paesi sahariani. In particolare, l’accentuazione del carattere autoritario e anti-democratico dei regimi nordafricani, favorita dalle politiche europee, è presentata come un potente fattore di destabilizzazione dell’area, che espone al costante rischio di violente esplosioni sociali. Qualcosa che sappiamo essere avvenuto nel QU00, con le sollevazioni in Tunisia e in Libia, rispetto alle quali le tesi di Bensaâd offrono nuove interessanti chiavi interpretative. G.S. XIV