Presentazione
Nel 0(( “Problemi del socialismo” dedicava un numero al tema Immigrati,
non cittadini. A quasi un quarto di secolo di distanza, “Parolechiave” torna a interrogarsi sull’argomento con un numero che si propone di esplorare
il lemma “migranti”. A essere cambiata, ovviamente, non è solo la parola
intorno alla quale sono organizzati i contributi degli autori. Cambiamento
peraltro sostanziale, quello lessicale: le parole non sono innocenti, come ci
ricorda Carla Pasquinelli nel ripercorrere la storia dei termini con i quali si è
identificato, letto, interpretato il fenomeno migratorio negli ultimi decenni;
e il passaggio da immigrati a migranti non è una semplice sostituzione di
lemmi, dettata magari da preoccupazioni di correttezza politica, ma il segno
di un cambiamento di contesto, di prospettive e di problemi.
A essere mutato è, innanzitutto, il contesto storico in cui si inserisce la
riflessione sul tema delle migrazioni e sulla loro rilevanza sociale, politica,
economica, culturale. Pur essendo indubbiamente vero che, nell’ambito della
globalizzazione neoliberista, gli esseri umani circolano con assai più difficoltà
delle merci e dei capitali, negli ultimi due decenni i movimenti migratori
sono nondimeno notevolmente cresciuti per dimensioni e complessità, contribuendo a fare dell’esperienza migratoria uno degli aspetti più rilevanti
della contemporaneità e della presenza dei migranti un dato di esperienza
piuttosto comune in molte parti del mondo.
Al cambiamento di contesto si è accompagnata una sempre più diffusa presenza del tema delle migrazioni internazionali nel dibattito politico,
in particolare in Europa, dove sono anche proliferate formazioni politiche
che, creando e alimentando un clima di forte allarme sociale, hanno fatto
dell’ostilità verso i migranti un argomento centrale nella ricerca del consenso, e dove sono state elaborate e messe in atto nei confronti dei migranti politiche sempre più restrittive. Sono cambiate, infine, le categorie interpretative
con le quali diversi saperi si accostano alle esperienze migratorie e ai loro
molteplici e complessi significati.
Delineare un quadro generale delle migrazioni contemporanee è operazione estremamente complessa, come sostiene Salvatore Strozza, che la paragona, citando Hoffman e Lawrence, a «comporre un grande puzzle basato su
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fotografie di una realtà in rapida evoluzione, con importanti tessere mancanti
e molte di quelle disponibili condizionate da non trascurabili limiti di messa
a fuoco». Dal punto di vista demografico e statistico, i fenomeni di cui i migranti sono attori, le migrazioni, si presentano come un «concetto sfocato»,
dal momento che risulta piuttosto difficile «distinguere tra tutti gli spostamenti delle persone quelli che sono migrazioni da quelli che non lo sono».
Numerose sono infatti le variabili che entrano in gioco, dall’ampiezza dello
spostamento, all’attraversamento di confini politici, alla durata della permanenza nel luogo di destinazione, rendendo difficile una definizione precisa
che permetta di rendere comparabili e omogenei i dati raccolti a fini statistici.
Difficoltà concettuale che è accentuata dall’uso di metodi, strumenti empirici, aggregati statistici, fonti diverse ed eterogenee, per calcolare le presenze
nei diversi paesi. Di particolare rilievo è la tensione, messa in evidenza da
Strozza, tra due criteri fondamentalmente diversi ed eterogenei, quali la cittadinanza e l’origine, nei calcoli relativi alla presenza dei migranti. I due
aggregati, “stranieri” e “nati all’estero”, non coincidono necessariamente, e
tendono sempre meno a coincidere in pratica, in particolare per via della diffusa presenza in tutti i paesi europei di appartenenti alle cosiddette “seconde
generazioni”, che “migranti” possono essere considerate solo in virtù di una
convenzione linguistica di dubbia legittimità, ma “straniere” possono invece
essere oppure no, a seconda delle leggi vigenti sulla cittadinanza. Argomento
di rilievo non solo statistico, quello della cittadinanza dei figli di migranti
nati e residenti in Italia, che è oggi al centro di un dibattito inaugurato dagli
autorevoli interventi del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Nonostante le difficoltà, è però possibile evidenziare alcune chiare tendenze nella storia delle migrazioni in Europa in età contemporanea. Nella
seconda metà del XIX secolo, ai tempi della “prima globalizzazione”, l’Europa
era il principale bacino dell’emigrazione di massa verso le Americhe. Nel
secondo dopoguerra, fino agli anni Settanta, sono stati soprattutto i cittadini
del Sud Europa, dell’area mediterranea e delle ex colonie a migrare verso i
paesi del Nord Europa, che richiedevano mano d’opera per le loro industrie
in espansione (cui corrispondeva, in Italia, anche un ampio movimento migratorio interno: dal sud al nord, dalle campagne alle città). Negli ultimi due
decenni, invece, è proprio il Sud Europa ad avere avuto esperienza dei più
consistenti movimenti migratori in entrata, diventando una delle principali
destinazioni a livello mondiale, e raggiungendo in breve tempo livelli di presenze straniere comparabili con quelle dei paesi di più lunga storia ricettiva,
come quelli del Nord Europa.
Può sembrare un paradosso che il numero dei migranti residenti nei paesi
dell’Unione Europea sia cresciuto notevolmente proprio nel momento in cui
venivano adottate le più severe e restrittive misure di chiusura delle frontiere,
quelle che hanno indotto a coniare l’espressione «fortezza Europa». Oppure
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PRESENTAZIONE
può indurre a porsi qualche domanda non solo sulla efficacia delle politiche,
ma anche sull’esistenza di finalità dell’azione diverse da quelle ufficialmente
proclamate. Diversi contributi mettono in effetti in evidenza, con accenti peraltro assai differenti, il fatto che la «politicizzazione delle migrazioni» non
risponda tanto all’obiettivo irrealistico di arrestare i flussi migratori, quanto
piuttosto a quello più realistico di gestire l’«inclusione differenziale» dei migranti nel mercato del lavoro europeo.
Il fatto che, dopo due decenni di crescente chiusura, la presenza dei migranti sia tutt’altro che in diminuzione è certo segno della palese inefficacia
delle politiche ispirate allo slogan «stop all’immigrazione», ma invita anche a
chiedersi se non sia proprio la produzione di pura forza lavoro, priva di diritti
e tutele, la vera posta in gioco dell’accanimento normativo contro i migranti.
L’aver collegato il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, come avvenuto nella più recente normativa italiana, sembra andare esattamente in questo
senso, rendendo la forza lavoro dei migranti «merce diversamente disponibile» (secondo l’espressione di De Genova citata da Mellino), e i migranti puri
dispensatori di forza lavoro, i cui diritti e le cui esistenze sono subordinati
alle fluttuazioni della domanda della “merce” cui i loro corpi vivi accade siano attaccati (per riprendere la nota e iperbolica immagine di Marx).
Le interpretazioni economiche delle migrazioni, del resto, hanno tradizionalmente visto nei migranti i dispensatori di forza lavoro, e hanno analizzato
i loro movimenti in relazione a fattori di spinta o di attrazione relativi al lavoro. Meccanismo di compensazione degli squilibri generati dall’espansione
capitalistica nelle interpretazioni marxiste, funzione dei differenziali salariali
nelle teorie neoclassiche, o dei differenziali dei tassi di disoccupazione in
quelle keynesiane, le migrazioni sono state poste dalla teoria economica in
una relazione diretta con alcuni fondamentali indicatori economici, che solo
le più recenti teorie dello sviluppo umano, sostengono Salvatore Monni e
Federica Zaccagnini, hanno rimesso radicalmente in discussione. Per quanto
sicuramente rilevanti, i vari fattori di spinta o di attrazione contemplati dalle
teorie economiche tradizionali non sono da soli sufficienti a rendere conto di
un fenomeno tanto complesso ed eterogeneo come le migrazioni contemporanee, e possono portare a letture falsanti dei fenomeni.
Parlare dei migranti significa parlare dello Stato, sosteneva Abdelmalek
Sayad, che negli anni Novanta ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento degli studi sui migranti. Sono infatti i dispositivi di classificazione e
gestione delle popolazioni propri dello Stato a definire l’identità dei migranti, sulla base della non-appartenenza alla comunità politica.
Migranti sono, dunque, i non cittadini, o, come scrive provocatoriamente
Enrica Rigo, i «cittadini illegali». La «sfida all’ordine ortodosso della cittadinanza e alle sue verità» rappresentata dai migranti, siano essi “legali” o
“illegali”, è l’oggetto del suo contributo, che riflette sulla relazione tra conIX
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fini, democrazia e ordine politico. Dalla prospettiva che considera i confini
come la «condizione non democratica della democrazia» (Balibar) e la libertà
di movimento come una delle sue principali poste in gioco (si veda anche il
contributo di Mezzadra nel recente numero di “Parolechiave” su “Terra”),
i migranti appaiono come i «soggetti paradossali della democrazia», coloro
che, con i loro attraversamenti, più o meno legali, costringono a rivederne i
fondamenti: «dalla rappresentazione del territorio come risorsa di cui è possibile appropriarsi su base esclusiva, all’idea che sia possibile tracciare una
linea di distinzione netta tra l’interno e l’esterno della comunità politica»,
le migrazioni mettono in crisi l’apparato categoriale dello Stato-nazione, a
partire dalla cittadinanza come istituto all’interno del quale declinare l’uguaglianza dei diritti. Questione che assume connotazioni del tutto particolari
in uno spazio che, come quello europeo, si pone fin da principio come uno
spazio «di circolazione», «la cui esistenza si da politicamente e giuridicamente quando viene attraversato».
La lettura delle migrazioni contemporanee proposta da Miguel Mellino
riprende diversi aspetti del paradosso identificato da Enrica Rigo, inquadrandoli nell’ottica della «critica postcoloniale». Postcoloniale assume in questo
contesto un doppio significato: da un lato significa il rifiuto del «delirio manicheo» delle società coloniali, che suddivide i soggetti secondo rigide linee
gerarchiche; dall’altro sta ad indicare le persistenze nella contemporaneità
dei dispositivi coloniali di subordinazione. Da questo punto di vista, la condizione dei migranti nell’Europa contemporanea sembra realizzare nel modo
più pieno quell’«irruzione dei margini al centro», che secondo Stuart Hall
caratterizza la condizione postcoloniale, trasferendo nel cuore dei dissolti
imperi la stratificazione e le tensioni proprie delle società coloniali. La compresenza nello stesso spazio politico di soggetti con diritti differenti e gerarchicamente ordinati riattualizza per molti versi la divisione tra cittadini e
sudditi che organizzava le relazioni sociali nei domini coloniali delle potenze
europee. La cittadinanza diventa così un dispositivo di esclusione, che separa
chi gode di un set esteso di diritti, da chi dispone solo provvisoriamente di
una parte di essi (i migranti “regolari”), e soprattutto da chi non dispone che
dei più elementari diritti umani (gli “irregolari”, in Italia generalmente chiamati “clandestini”, con termine denso di connotazioni negative e generatore
di allarme sociale).
Una lettura postcoloniale delle migrazioni è dunque quella che disarticola i dispositivi produttori di differenziazione ed esclusione sociale dello
Stato-nazione, riconoscendo ai migranti una voce e una soggettività propria.
È sotto questa prospettiva che il contributo di Leonardo De Franceschi esplora la più recente produzione cinematografica sulla condizione dei migranti
nella Schengenland europea, mettendone in evidenza le molte ambiguità. Al
di là delle buone intenzioni degli autori, quel che sembra accomunare i film
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presi in considerazione (con una parziale eccezione), è proprio la mancanza
di una specifica agency e di un punto di vista proprio dei migranti sulle storie
di migrazione che vengono raccontate. Forse anche per facilitare l’immedesimazione dello spettatore con il protagonista, è di cittadini europei posti di
fronte alla scelta tra il rispetto di leggi disumane (che prevedono il delitto di
solidarietà) e il dovere umano dell’empatia e dell’ospitalità che i film parlano. Senza però lasciare spazio alla voce e alla soggettività dei migranti, che
appaiono agiti dalla violenza o dalla solidarietà altrui, piuttosto che portatori
di una propria autonoma agency.
Di limiti dell’immaginario anti-razzista si occupa anche il saggio in cui
Michele Colucci riflette sull’uso pubblico della memoria dell’emigrazione
italiana. Se gli storici hanno a lungo lavorato sul tema, la sua presenza nelle
produzioni culturali destinate al largo pubblico è invece recente, ed evidentemente influenzata dai dibattiti sulle migrazioni straniere in Italia; ed è per
questo che si presta a frequenti distorsioni “presentiste”. Oltre a mettere in
dubbio l’efficacia di quelle retoriche, oggi largamente diffuse, che aspirano a
fare della lunga storia migratoria del paese una sorta di antidoto al proliferare delle pulsioni esplicitamente o copertamente xenofobe, Colucci mette in
guardia dalla perdita di specificità e dallo schiacciamento su di una rappresentazione fosca e a tinte forti delle migrazioni, indissolubilmente associate
con la miseria e il degrado, che sono stati introdotti nelle recenti produzioni
culturali di massa. La depoliticizzazione, l’occultamento del problema del
lavoro dietro lo schermo della retorica del sacrificio, la declinazione tutta al
maschile dell’esperienza migratoria sono i nodi problematici sui cui Colucci
invita a riprendere la riflessione.
Nell’ambito europeo, il caso italiano sembra assumere alcuni tratti particolari, non tanto nel senso di presentare caratteristiche uniche, quanto piuttosto
nel senso di spingere ai limiti le tendenze proprie delle politiche comunitarie.
Dall’istituzione dei CPT (Centri di permanenza temporanea), poi trasformati in
CIE (Centri per l’identificazione e l’espulsione), alla trasformazione dell’ingresso irregolare nel territorio dello Stato in reato penale, fino al collegamento tra
occupazione e permesso di soggiorno, una serie di “innovazioni” legislative e
di prassi eterodosse (politiche di respingimento, accordi bilaterali finalizzati a
interrompere all’origine i “flussi” migratori) hanno fatto dei migranti i soggetti
vivi sui quali si sperimentano le più profonde trasformazioni (e torsioni) delle
garanzie giuridiche dello Stato di diritto.
È per questo motivo, e non certo per assecondare – ma anzi per contrastare – una «deriva securitaria» che vuole i migranti regolarmente collocati
sotto il segno della sicurezza e dell’ordine pubblico, che il fascicolo, pur nella
tradizionale impostazione interdisciplinare che caratterizza la nostra rivista,
si concentra con particolare insistenza su alcuni temi di carattere giuridico e
politico.
XI
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Nel fare il punto sulla tutela internazionale dei diritti fondamentali dei
migranti, Lucia Aleni mette in evidenza le poche luci e le molte ombre che
caratterizzano la situazione odierna. Il migrante, «lo straniero che attraversa
le frontiere per ragioni economiche», «non gode di uno specifico regime di
protezione a livello internazionale». Il suo status è definito per differenza
(migrante è colui cui non è riconosciuto lo status di rifugiato) e il livello delle
protezioni di cui gode è talmente ridotto al minimo che si è assistito, negli ultimi anni, «a un progressivo effetto di sostituzione dei diritti umani rispetto
ai diritti degli stranieri». Un processo di riduzione allarmante e problematico, che non può non richiamare la famosa affermazione di Hannah Arendt,
secondo la quale «un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le
qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile».
Il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di riduzione in schiavitù, il diritto alla libertà e alla sicurezza, il divieto di espulsioni collettive, il
diritto all’unità familiare, costituiscono il catalogo esiguo, largamente insufficiente – e, si potrebbe aggiungere, neanche tanto effettivo – dei diritti dei
migranti. Situazione aggravata, nel caso dei migranti irregolari, dalla scarsa
tutela giurisdizionale che sono in grado di ottenere, sia per l’inibizione esercitata dal rischio di espulsione, sia – in maniera forse ancor più grave – per
i casi in cui «è l’ordinamento stesso a non prevedere alcuna via di ricorso
giurisdizionale», come avviene in Italia per l’espulsione per sospetto di terrorismo, disposta con provvedimento ministeriale inappellabile, e per il respingimento differito in frontiera.
Tra le “innovazioni” normative più controverse che riguardano i migranti vi è senz’altro l’uso sempre più esteso delle misure di detenzione amministrativa, disposte in base a provvedimenti dai fondamenti giuridici non
sempre saldi. Fulvio Vassallo Paleologo ne rende conto in un intervento di
natura piuttosto tecnica, per via dei continui riferimenti a specifiche fonti
normative, ma dai contenuti altrettanto chiari. In molti casi, sostiene Vassallo Paleologo, vi è in Italia un vero e proprio abuso delle misure di detenzione
amministrativa, che vengono disposte al di là delle fattispecie esplicitamente
previste da leggi e convenzioni, talvolta addirittura adottate senza alcun apposito provvedimento amministrativo, spesso disposte da circolari ministeriali in violazione di diritti fondamentali di rilevo costituzionale o derivanti
dalle convenzioni internazionali. Lo «stato di emergenza permanente» che è
stato alimentato intorno al tema dell’immigrazione illegale viene così a rappresentare una sfida di primo piano alla tenuta dello stato di diritto.
Il saggio di Fabrizio Mastromartino prosegue la ricognizione sulla condizione giuridica dei migranti compiendo un’analisi della dottrina e delle
attuali tendenze, per lo più restrittive, di interpretazione del diritto d’asilo.
Diritto soggettivo, garantito ai singoli individui in base alla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, per proteggerli dalle persecuzioni per motiXII
PRESENTAZIONE
vi di razza, religione, nazionalità e opinioni politiche di cui hanno fondato
timore di poter essere oggetto, il diritto d’asilo è fondato sulla disposizione cardine del principio di non-refoulement: norma imperativa del diritto
internazionale che obbliga lo Stato a non respingere il rifugiato verso quei
paesi dove la sua vita o libertà sarebbero minacciate. In base a questo principio gli Stati hanno il preciso obbligo di non respingere i migranti irregolari,
che godono dello status presuntivo di rifugiato, senza prima aver vagliato
la specifica posizione di ognuno di essi. Ed è proprio il principio di non-refoulement ad aver subito, scrive Mastromartino, una graduale compressione
nell’ambito delle politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, la cui
più evidente manifestazione consiste nella teorizzazione e attuazione pratica
della politica dei respingimenti collettivi, verso il paese d’origine come verso
paesi terzi che forniscono garanzie spesso insufficienti sul rispetto dei diritti
fondamentali dei migranti (come finalmente riconosciuto nella sentenza del
QJ febbraio della Corte europea dei diritti umani, che ha condannato l’Italia
a risarcire un gruppo di richiedenti asilo dei quali sono stati violati i diritti
fondamentali).
Il caso analizzato in profondità da Barbara Sorgoni mostra la complessità,
già segnalata da Mastromartino, delle procedure relative al riconoscimento
dello status di rifugiato. In mancanza dei documenti che possano comprovare
la veridicità dei timori di persecuzione all’origine della richiesta di protezione, il riconoscimento dello status di rifugiato viene a dipendere in modo determinante dalle valutazioni sulla attendibilità delle narrazioni di fuga e persecuzione che accompagna la richieste. La trasformazione delle narrazioni di
fuga e di persecuzione in prove a favore o contro la richiedente, una giovane
donna oggetto di terribili violenze per motivi politici, è letta da Sorgoni come
il risultato di un processo di co-produzione di documenti che mobilita una
molteplicità di conoscenze e credenze, per lo più implicite, in grado di confermare o smentire l’attendibilità delle narrazioni. Informazioni sommarie e
incomplete sul paese di origine, valutazioni soggettive basate su assunzioni
stereotipe sulla logica delle persecuzioni e delle violenze politiche, sospetto
sistematico verso i dettagli non inseribili in schemi precostituiti, guidano nel
caso analizzato la produzione della “verità” giuridica. La richiedente asilo è
così costretta, all’interno di un quadro di spietata violenza istituzionale, a
ricordare la persecuzione subita, selezionando quegli aspetti della propria storia che meglio corrispondono alle aspettative, alle assunzioni, alle credenze
di chi deve giudicare della sua attendibilità.
Il saggio di Ali Bensaâd dirotta lo sguardo oltre i confini della «fortezza
Europa», per analizzare il «nuovo crocevia migratorio intercontinentale» sahariano. È qui, infatti, che il rafforzamento delle frontiere europee si riverbera innescando processi dalle conseguenze locali complesse e contraddittorie.
Secondo Bensaâd, la «delocalizzazione delle frontiere» europee trasferisce
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in un retroterra lontano – nascosto alla vista e al controllo dell’opinione
pubblica e delle organizzazioni internazionali – le tensioni generate dalle politiche restrittive dell’immigrazione. Il Sahara si trasforma così in un limen,
una sorta di frontiera esterna, dove le tensioni sociali importate dall’Europa
si sommano e si combinano con quelle endogene, riattivando «una lunga
storia di rapporti non egualitari» tra Maghreb e Africa nera, che ha avuto
nella tratta degli schiavi la sua più drammatica espressione. Scritto prima
della “primavera araba”, il saggio contiene alcune valutazioni che, retrospettivamente, si rivelano decisamente interessanti, riguardo alla destabilizzazione che il trasferimento delle tensioni europee avrebbe potuto generare
nei paesi sahariani. In particolare, l’accentuazione del carattere autoritario e
anti-democratico dei regimi nordafricani, favorita dalle politiche europee, è
presentata come un potente fattore di destabilizzazione dell’area, che espone
al costante rischio di violente esplosioni sociali. Qualcosa che sappiamo essere avvenuto nel QU00, con le sollevazioni in Tunisia e in Libia, rispetto alle
quali le tesi di Bensaâd offrono nuove interessanti chiavi interpretative.
G.S.
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