JURA GENTIUM
Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale
Journal of Philosophy of International Law and Global Politics
http://www.juragentium.org
Segreteria@juragentium.org
ISSN 1826-8269
Vol. XI, n. 2, Anno 2014
Redazione
Luca Baccelli, Nicolò Bellanca, Orsetta Giolo, Leonardo Marchettoni (segretario di
redazione), Stefano Pietropaoli, Katia Poneti, Ilaria Possenti, Lucia Re (vicedirettore),
Filippo Ruschi (segretario organizzativo), Emilio Santoro, Silvia Vida, Danilo Zolo
(direttore)
Comitato scientifico
Margot Badran, Raja Bahlul, Richard Bellamy, Franco Cassano, Alessandro Colombo,
Giovanni Andrea Cornia, Pietro Costa, Alessandro Dal Lago, Alessandra Facchi,
Richard Falk, Luigi Ferrajoli, Gustavo Gozzi, Ali El Kenz, Predrag Matvejević, Tecla
Mazzarese, Abdullahi Ahmed An-Na‘im, Giuseppe Palmisano, Geminello Preterossi,
Eduardo Rabenhorst, Hamadi Redissi, Marco Revelli, Armando Salvatore, Giuseppe
Tosi, Wang Zhenmin
Il monstrum democratico e la terza formula del
capitalismo
Luca Mori
Abstract: Distinct philosophical traditions have associated democracy and market order
with magnificent promises of satisfaction for human existential needs and relationships:
nevertheless, neither representative democracy, nor the market have been up to the
promises, and there seems to be no way to close the gap between their idealized images and
the historically given reality. Questions of relationship (complementarity, mutual
exclusion?) between capitalism and democracy have been of central concern to political
thinkers for a long time: taking into account some aspects of this debate, this paper focuses
on the actual overlap among political and financial institutions. The analysis of the
contemporary debate on the consequent change both in political decision-making, and in
practices of social regulation, is combined with a re-reading of two crucial points in the
evolution of liberal tradition: Mandeville’s planning of inequality and Hayek’s celebration
of the miracle of the market (catallaxy). In order to give a perspicuous representation of the
possibile distortions of democratic decision-making by the financial and economic power
of non-elected bodies, the paper suggests the introduction of a third capital formula, beyond
the general formula for the industrial capitalism (D-M-D’) and the more formula of
financial capitalism (D-D’).
[Keywords: Antidemocracy, Capital Formula, Capitalism, Catallaxy, Democracy,
Inequality]
1. Premessa
A pochi anni dalla caduta del muro di Berlino, Ellen Meiksins Wood segnalava il
prevalere di due atteggiamenti nei confronti del capitalismo: da un lato la celebrazione
del suo trionfo, dall’altro la progressiva diminuzione dei tentativi di comprenderlo,
proprio mentre si allargava l’insieme delle scelte di tipo politico ritenute subordinabili a
condizioni di tipo economico1. Suggerendo che le aspirazioni di opposizione al
1
E. Meiksins Wood, Democracy against Capitalism. Renewing historical materialism, Cambridge,
Cambridge University Press, 1995, p. 12. Le considerazioni di cui si è detto si trovano nell’introduzione
al volume, che raccoglie saggi scritti anche prima del 1989. Per un’analisi più recente del “capitalist
imperialism” e della diffusione dei suoi imperativi sistemici (competizione, massimizzazione del profitto,
accumulazione), cfr. E. Meiksins Wood, Empire of Capital (2003), London, Verso, 2005.
L. Mori, Il monstrum democratico e la terza formula del capitalismo ,
Jura Gentium, ISSN 1826-8269, XI, 2014, 2, pp. 45-74
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capitalismo, sempre più frammentate, potessero ancora trovare un punto di convergenza
nel nome della democrazia, il saggio Democracy against Capitalism sollevava
esplicitamente il tema della contrapposizione tra due termini che molti, invece,
ritenevano ormai pacificamente intrecciati e capaci di reciproca conferma. Più
precisamente, secondo l’autrice, le relazioni sociali prodotte dal capitalismo “[…] have
both advanced and strictly limited democracy, and the greatest challenge to capitalism
would be an extension of democracy beyond its narrowly circumscribed limits”2. È
interessante notare come in tal modo, a quasi un secolo di distanza, tornasse attuale
l’annotazione sul “capitalismo maturo” inserita da Max Weber nell’intervento Sulla
Russia (1905), dove l’interrogativo posto era giustappunto “se la democrazia e la libertà
siano possibili a lungo termine sotto il dominio del capitalismo maturo”: la risposta di
Weber assumeva qui una forma condizionale, consegnando ai posteri il monito secondo
cui “esse saranno possibili solo dove esiste ed esisterà la decisa volontà di una nazione
di non farsi governare come un gregge di pecore”3.
Agli inizi del ventunesimo secolo la questione si ripropone negli studi sul
capitalismo e in quelli sulla democrazia, caricandosi però di una nuova complessità,
poiché
la
transizione
dal
capitalismo
prevalentemente
industriale
a
quello
prevalentemente finanziario ha introdotto un piano inedito nella ricerca di una
quadratura democratica del cerchio che dovrebbe abbracciare l’esercizio della sovranità
effettiva da parte delle assemblee parlamentari, il ruolo legittimante della partecipazione
dei cittadini e l’influenza politica esercitata de facto dai principali attori e dalle
dinamiche di mercato.
Per chi si interroga sugli effetti indesiderati del connubio tra democrazia e
capitalismo non si tratta più soltanto di denunciare il condizionamento esercitato da
potenti finanziatori privati su candidati e detentori di cariche pubbliche, né il variegato
fenomeno della corruzione4; il punto centrale diventa piuttosto l’ingigantirsi di un
2
E. Meiksins Wood, Democracy against Capitalism, cit., p. 15.
3
M. Weber, Sulla Russia (1905), trad. it., a cura di M. Protti, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 70-71.
4
Cfr. A. Heard, The Costs of Democracy: Financing American Political Campaigns, Garden City
(NY), Doubleday and Company, 1962; Frank J. Sorauf, Inside Campaign Finance: Myths and Realities,
New Haven (CT), Yale University Press, 1994; C. Beitz, Political Equality: An Essay in Democratic
Theory, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1989; Larry M. Bartels, Unequal Democracy: The
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fenomeno che la politologa Susan Strange, a metà anni Novanta, designava con
l’espressione “ritirata dello Stato (retreat of the State)”, in particolare evidenziando
“[...] that power had shifted sideways from states to markets and thus to non-state
autorities deriving power from their market shares”5. L’incremento dell’influenza
esercitata da organismi non democraticamente eletti sulle scelte dei governi e delle
assemblee parlamentari, inoltre, determina una perdita di sovranità ben diversa da quella
associabile alla concessione intenzionale di un potere in outsourcing6, con un processo
almeno in parte reversibile e relativamente controllabile. La situazione appare tuttavia
confusa ed è suscettibile di interpretazioni contrastanti: così, ad esempio – elencando tra
gli “unelected bodies” organismi come le banche centrali, istituzioni e organizzazioni
internazionali quali OECD, Bank for International Settlements, Financial Stability
Forum, Financial Action Task Force, nonché regolatori etici ed economici di varia
natura – Frank Vibert ritiene che “l’ascesa dei non eletti (rise of unelected)” non
costituisca un pericolo per la democrazia, ma un’occasione per rinvigorirla, in quanto
porrebbe le basi per una nuova separazione dei poteri, in cui tutti i corpi non eletti
potrebbero essere visti nell’insieme come un nuovo ramo del governo7.
Riassumendo, abbiamo così menzionato cinque dinamiche in relazione alle quali gli
attori sociali dotati di maggiore potere economico-finanziario – in quanto tali e in
ragione di quel potere – possono sottrarre porzioni rilevanti di sovranità sulle decisioni
collettivamente influenti e vincolanti ai governi e, più precisamente, al demos della
democrazia:
Political Economy of the New Gilded Age, Princeton (NJ), Princeton University Press, 2008; sulla
questione più generale del rapporto tra Stato e capitale, cfr. A. Przeworski, M. Wallerstein, “Structural
Dependence of the State on Capital”, American Political Science Review, 83 (1988), pp. 11-29. Sulla
corruzione, cfr. J. Girling, Corruption, Capitalism and Democracy, London-New York, Routledge, 1997.
5
S. Strange, The Retreat of the State. The Diffusion of Power in World Economy, Cambridge,
Cambridge University Press, 1996, p. 189; trad. it., Chi governa l’economia mondiale? Crisi dello Stato e
dispersione del potere, Bologna, Il Mulino, 1998.
6
Cfr. P.R. Verkuil, Outsourcing Sovereignty. Why Privatization of Government Functions Threatens
Democracy and What We Can Do about It, Cambridge, Cambridge University Press, 2007.
7
F. Vibert, The Rise of the Unelected. Democracy and the New Separation of Powers, Cambridge,
Cambridge University Press, 2007.
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condizionamento dei finanziatori (passati, attuali e futuri probabili) su candidati ed
eletti;
corruzione;
concessione intenzionale di un potere in outsourcing da parte delle autorità di
governo (fino ad certo punto controllabile e reversibile);
---------------------“ritirata” dello Stato di fronte a detentori di un potere che deriva da market shares;
ascesa del ruolo di unelected bodies – nel caso specifico della dimensione
economica, ad esempio banche centrali e organismi finanziari – nel determinare
scelte collettivamente influenti e vincolanti.
Mentre i primi tre punti presuppongono la persistenza della centralità del governo
come detentore di un potere peculiare che fa da terminale di richieste – potendo
avanzare pretese – o da sorgente di concessioni, gli ultimi due punti si riferiscono ad
uno scenario diverso, in cui il governo tradizionale sembra messo ai margini da soggetti
capaci di scavalcarlo, aggirandone o condizionandone a monte i vincoli. C’è quindi una
discontinuità tra le dinamiche considerate, anche se ad un alto livello di astrazione tutte
appaiono descrivere lo stesso circolo auto-incentivante: (a) le diseguaglianze strutturali
sul piano delle risorse economiche e finanziarie comportano (b) diseguaglianze tra i
cittadini sul piano dell’esercizio effettivo del potere politico (ad esempio, quanto alla
possibilità di incidere sulle decisioni pubbliche collettivamente influenti e vincolanti), in
modo tale che di rimando (b) conferma e mantiene (a). In altri termini e più
sinteticamente, le cinque dinamiche sopra elencate indicano facce diverse di quello che
per la democrazia è lo stesso problema: la convertibilità delle disparità di potere
economico-finanziario in disparità di potere politico8. Benché si possa ritenere che per
la democrazia sia un’urgente priorità dotarsi di anticorpi contro la deriva in un sistema
8
Su cui cfr. A. Przeworski, Barring the Access to Money to Political Influence Would Be perhaps the
Most Consequential Reform in Several Countries, in Id., Democracy and the Limits of Self-Government,
Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2010, p 170. Queste considerazioni vanno tenute
presenti leggendo un lavoro come quello di Thomas Piketty, celebrato da premi Nobel come Paul
Krugman e Joseph Stiglitz, dove si sostiene che per un certo periodo le diseguaglianze indotte dal sistema
capitalistico sarebbero state attenuate dalla crescita economica e dalla diffusione del sapere, mentre ora
tale attenuazione sarebbe venuta meno: cfr. T. Piketty, Il capitale nel XXI secolo (2013), Milano,
Bompiani, 2014.
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oligarchico mascherato, a base economico-finanziaria, pare invece che proprio i contesti
democratici favoriscano lo “svuotamento” o la “colonizzazione” della democrazia,
secondo il circolo vizioso individuato da Iris Marion Young, quando nota appunto che
“[w]here there are structural inequalities of wealth and power, formally democratic
procedures are likely to reinforce them, because privileged people are able to
marginalize the voices and issues of those less privileged”9. L’immaginazione
democratica richiede che tale circolo vizioso possa essere rotto, ma proprio l’impegno a
“contrastare tutte le disparità tra i cittadini che si traducono in diseguaglianza di
influenza politica”, come nota Stefano Petrucciani, non può che essere “di tipo
orientativo”, poiché anche un’azione politica orientata in tal senso “comporta una
tensione o difficoltà interna”10.
Oltre la classica tensione tra i due processi contraddittori dello Stato che si fa società
e della società che si fa Stato – processi il cui compimento condurrebbe rispettivamente
allo Stato totalitario o all’estinzione dello Stato11 – con quel circolo vizioso sembra
emergere proprio tra Stato e società democratica un tertium difficilmente circoscrivibile
e denominabile, che – pur nato all’interno della democrazia – ne stravolge il senso e la
figura, quasi generando un monstrum democratico, analogo a quello che Hobbes
riconosceva nel mixed government: “To what disease in the natural body of man –
scriveva Hobbes – I may exactly compare this irregularity of a commonwealth, I know
9
I.M. Young, Inclusion and Democracy, Oxford, Oxford University Press, 2010, p. 34.
10
S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi, 2014, p. 232. Un altro punto da considerare, che verrà
ripreso più avanti, è che le conseguenze politiche delle diseguaglianze sul piano della ricchezza possono
recare danno tanto alla democrazia quanto all’economia di mercato. Cfr. C. Crouch, Quanto capitalismo
può sopportare la società (2013), trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2014. Da notare che nel suo Manifesto
capitalista, Luigi Zingales tocca un punto correlabile a questo da una prospettiva distante, incentrata
sull’auspicio di una “rivoluzione liberare contro un’economia corrotta”: sottolineando che “[...] i mercati
non nascono spontaneamente” in quanto “è l’uomo a crearli”, Zingales afferma che “[p]er prosperare il
mercato ha bisogno di leggi e di un potere politico che sappia e voglia farle rispettare”, aggiungendo poi
che l’opzione per il “puro laissez-faire”, nelle condizioni attuali, significherebbe scegliere un “intervento
attivo a protezione dello status quo”, buono a favorire un cattivo capitalismo clientelare. Cfr. L. Zingales,
Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta, trad. it., Milano, Rizzoli,
2012 (il titolo originale suona A Capitalism for the People): nella prospettiva dell’autore, democrazia e
libero mercato sono concepiti come reciprocamente indispensabili, mentre le leggi per il mercato a cui si
fa riferimento devono essere poche e controllabili dal demos (il people a cui fa riferimento il titolo
originale del libro).
11
N. Bobbio, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino, Einaudi, 1995, p.
42. Il libro raccoglie i cinque lemmi redatti per l’Enciclopedia Einaudi: Democrazia/Dittatura,
Pubblico/Privato, Società civile, Stato, Pace.
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not. But I have seen a man, that had another man growing out of his side, with a head,
arms, breast, and stomach, of his own: if he had had another man growing out of his
other side, the comparison might then have been exact” (Leviathan, XXIX).
Anche senza condividere il presupposto hobbesiano della necessaria reductio ad
unum del potere sovrano, l’inquietante paragone sembra applicabile alle analisi
contemporanee che descrivono la trasmutazione della democrazia come l’affiorare dal
suo corpo di articolazioni autocratiche, post-democratiche o antidemocratiche. Questo
articolo intende offrire un contributo alla riflessione su tali questioni, affrontando in
particolare l’ipotesi secondo cui il capitalismo finanziario, incontrati i suoi limiti di
espansione sul piano della creazione fittizia di denaro, starebbe generando nelle
democrazie contemporanee una nuova forma di governamentalità non riconoscibile
come democratica12: per dare una prospettiva storica all’ipotesi, si richiamano alcuni
punti critici nelle promesse del mercato elaborate lungo una linea ideale che congiunge
Mandeville ad Hayek e ci si interroga sulla possibilità di individuare una terza formula
del capitalismo, sulla scia di quella classica del capitalismo industriale (D-M-D’) e di
quella attribuita al capitalismo finanziario (D-D’). Ciò che tiene assieme i due momenti
è il riferimento alla modalità di governo che il capitalismo comporta e rivendica,
implicitamente o esplicitamente: in primo luogo, si rileva come nel pensiero di
Mandeville e Hayek siano formulate specifiche pretese di governo, associate da un lato
alla celebrazione della spontanea convergenza tra egoismo privato e benessere collettivo
e dall’altro alle proposte di riduzione dell’intervento statale nell’economia; in secondo
luogo si avanza l’ipotesi che il capitalismo economico-finanziario contemporaneo sia in
cerca, per sopravvivere alla soglia critica raggiunta con la crisi attuale, di un nuovo
modello di governamentalità13.
Utilizziamo qui il termine foucaultiano “gouvernementalité”, per indicare un’“arte del governo” che
mediante “istituzioni, analisi, riflessioni, calcoli e tattiche” assicura e garantisce il “governo dei viventi”.
Il tema è affrontato nel corso al Collège de France (1977-1978: Sécurité, territoire et population, IV
lezione): cfr. M. Foucault, “La governamentalità”, aut-aut, 167-168 (1978), pp. 12-29, cit. da p. 28.
12
L’attenzione data a Mandeville e Hayek è motivata dalla loro centralità nella prospettiva neoliberale
e nella retorica del “capitalismo maturo”, da un lato con l’immagine dell’ape laboriosa e dell’alveare,
dall’altro lato con l’elaborazione di un’alternativa molto influente alla prospettiva di Keynes. Cfr. G.
Mulgan, L’ape e la locusta. Il futuro del capitalismo tra creatori e predatori (2013), trad. it., Torino,
Codice Edizioni, 2014, p. 19: quella di Mandeville è “una delle grandi opere che sono alla base del
capitalismo moderno” e “da allora l’ape è la metafora del lato migliore del capitalismo”; N. Wapshott,
13
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2. Il capitalismo finanziario e la sfera della decisione politica
Nell’epoca dell’economia bancocentrica e della finanza ombra14, la crisi iniziata nel
2007 ha avuto origine in un mercato ben diverso da quello prevalentemente
manifatturiero e commerciale a cui pensavano Adam Smith quando introdusse il
modello della “mano invisibile” e, due secoli più tardi, Friedrich von Hayek, quando
negli anni Settanta scriveva di catallassi: per entrambi il libero scambio è il modo più
efficiente di coordinare produttori e consumatori, a condizione che le
aspettative
possano formarsi e comunicare riferendosi alle variazioni del prezzo di risorse quali
materie prime, semilavorati, prodotti finiti, capitali, forza lavoro e tecnologie; tali
variazioni, intese come indicatori significativi della scarsità e dell’abbondanza di ciò
che produttori e consumatori richiedono, permetterebbero ad un sistema di libero
mercato di compensare dinamicamente gli squilibri tra domanda ed offerta, consentendo
circolarmente l’auto-organizzazione del sistema e il realismo delle aspettative15.
Stabilita la premessa secondo cui è il mercato (tramite price system e libera
concorrenza) a garantire il processo di scoperta più efficiente per trovare soluzioni
particolari alle innumerevoli esigenze di coordinare le aspettative individuali, nella
prospettiva di Hayek il ruolo degli organi esecutivi dev’essere limitato di conseguenza
alla raccolta di fondi per i servizi che il mercato non può offrire. Nel quadro di
un’antropologia incentrata sulle esigenze e sulle attitudini dell’homo oeconomicus – in
ultima analisi, sull’acquisitiveness di John Locke – l’ipotesi fondamentale del
liberalismo e del neoliberalismo sembra quella così efficacemente esplicitata da Leo
Keynes o Hayek. Lo scontro che ha definito l’economia moderna (2011), trad. it., Milano, Feltrinelli,
2012.
14
Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (2011), Torino, Einaudi, 2013.
15
Secondo Ingham, mentre in Smith il sistema bancario appare ancora marginale, la centralità degli
aspetti finanziari per comprendere il capitalismo sarebbe stata colta da Weber, che riconobbe
l’importanza della creazione e della diffusione del credito bancario, e da Schumpeter, che prima ancora di
fare riferimento all’industrializzazione del XIX secolo, sottolineò le innovazioni collegate alla pratica del
debito trasferibile e dei depositi nel sistema bancario nascente tra XVI e XVII secolo. Cfr. G. Ingham,
Capitalismo (2008), trad. it., Torino, Einaudi, 2010. Cfr. M. Weber, Wirtschaftsgeschichte (1923),
Tübingen, Mohr, 1988, IV, capp. II-III; trad. it., Storia economica, Roma, Donzelli, 1997; inoltre J.
Schumpeter, A History of Economic Analysis (1954), London, Routledge, 1994; trad. it., Storia
dell’analisi economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.
51
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Strauss: “the solution of the political problem by economic means is the most elegant
solution”16.
Commentando l’interpretazione proposta da Strauss, Cubeddu ritiene che sulla
parabola evolutiva delle tesi di Locke non s’incontrino Max Weber e il relativismo
nichilistico, ma – oltre Hayek – l’associazione tra libertà e “scomparsa delle ‘decisioni
collettive’” quale è formulata ad esempio da Murray N. Rothbard17, il quale interpreta il
mercato come processo sociale non coercitivo che permette la più compiuta
realizzazione della libertà individuale18. In tale prospettiva, portata agli estremi nella
visione dell’anarco-capitalismo, quanto più il mercato è libero, tanto più esso riesce a
garantire
il
migliore
soddisfacimento
delle mutevoli
aspettative individuali,
assicurandone la libertà e riducendo (fino ad eliminarla) la coercizione determinata
dall’imposizione di scelte collettive tipica dell’organizzazione politica. Anche se non si
ritiene che debba essere assoluta, la libertà economica – di vendere e comprare
liberamente – costituisce per Milton e Rose Friedman la base in assenza della quale
anche le altre libertà sono minacciate19. Come è noto, sul ruolo da riconoscere alla
politica e sui compiti dello Stato esiste un dibattito interno al pensiero neoliberale, alle
varie espressioni dei Libertarians e alla stessa tradizione liberale, tra liberalismo
classico che attribuisce al government il compito di garantire i natural rights di vita,
libertà e proprietà e approccio dei Liberals che riferiscono allo Stato il compito di
realizzare i “diritti sociali” e “umani” (social e human rights). Per questi ultimi, nella
16
L. Strauss, What is political philosophy? And other studies (1959), Chicago, The University of
Chicago Press, 1988, p. 49.
17
R. Cubeddu, Politica e certezza, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2000, p. 40.
18
M.N. Rothbard, The Ethics of Liberty (1982), New York-London, New York University Press,
1998.
Cfr. M. Friedman, R. Friedman, Free to Choose, Harmondsworth, Penguin, 1980, pp. 93-94: “[...]
the freedom is one whole, [...] anything that reduces freedom in one part of our lives is likely to affect
freedom in the other parts. Freedom cannot be absolute. We do live in an interdependent society. Some
restrictions on our freedom are necessary to avoid other, still worse, restrictions. However, we have gone
far beyond that point. The urgent need today is to eliminate restrictions, not add to them”. Gerald Allan
Choen insiste invece sul fatto che in condizioni di mercato libero, chi non dispone di denaro manca di
libertà. Cfr. G.A. Cohen, “Justice, Freedom and Market Transactions”, in Id., Self-Ownership, Freedom
and Equality, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 56-59: “To have money is to have
freedom, and the assimilation of money to mental and bodily resources is a piece of unthinking fetishism,
in the good old Marxist sense that it misrepresents social relations of constraint as things that people lack.
In a word: money is no object”.
19
52
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
lettura proposta da Raimondo Cubeddu, il problema teorico centrale oggi “[...] non è
rappresentato tanto da chi debba produrre i ‘beni pubblici’ quanto dalla difficoltà di
ridurre, se non di eliminare, l’incertezza. Il problema di una filosofia politica anarcoindividualista non è perciò quello in larga misura risolto (per lo meno dal punto di vista
teorico) di sostituire la forma Stato con qualcosa di meno coercitivo, bensì quello di
mostrare che l’incertezza dipende dallo Stato; di modo che, eliminandolo, la si possa
convenientemente ridurre e, controllandola, contrastare efficacemente il riaffacciarsi
della politica come soluzione all’incertezza”20.
L’evoluzione dal capitalismo industriale a quello finanziario ha cambiato in modo
rilevante i termini della questione ed ha ispirato nuove critiche al modello neoliberale e
libertarian, da parte di chi ritiene che l’esercizio della sovranità politica in forma
democratica costituisca la soluzione migliore non per eliminare, ma per governare
l’incertezza a cui sono costantemente esposte le scelte e le interazioni umane. In
particolare, denunciando la colonizzazione della sfera della sovranità politica da parte
dei detentori del potere economico e finanziario, tali critiche sottolineano che la
pulsione all’appropriazione e all’arricchimento senza limiti sul mercato, in condizioni di
crescente diseguaglianza economica, produce esiti collettivamente vincolanti e ricadute
impattanti sulla collettività e sui suoi ambienti di vita; inoltre, la diseguaglianza
emergente all’interno dei mercati si traduce in una progressiva concentrazione nelle
mani di pochi del potere di decidere e di influenzare le possibilità di vita di molti,
generando coercizione e gerarchie sullo sfondo di un’apparente libertà di movimento.
Nella sovrapposizione tra potere di mercato e potere politico che ne deriva, il tentativo
di colonizzare porzioni di sovranità politica – anziché eliminarla – sarebbe coerente con
il principio del libero esercizio del celebrato impulso all’acquisitiveness.
Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che, nel mercato dei prodotti finanziari
derivati, ogni definizione di aspettativa realistica sfuma, come l’interpretabilità dei
segnali che dovrebbero costituirne la base, mentre diviene rarefatto l’insieme dei vincoli
su cui dovrebbero operare i processi di selezione delle informazioni e di autocorrezione
degli agenti economici. Basti pensare a quanto è accaduto a partire dalla metà degli anni
20
R. Cubeddu, Il tempo della politica e dei diritti, Torino, IBL Libri, 2013, p. 155.
53
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Ottanta, quando il trading computerizzato determinò una significativa espansione dei
mercati delle opzioni e dei futures21: la progressiva velocizzazione delle transazioni
permise di concepire e praticare azioni come il day trading (apertura e chiusura di molte
posizioni nella stessa sessione di negoziazione) e il cosiddetto high frequency trading
(trading ad alta frequenza o super-veloce), in cui gli investitori – servendosi di modelli
statistici – mantengono i titoli per frazioni di secondi al fine di realizzare il maggior
numero possibile di micro-guadagni22. Tali pratiche individuali sollevano un problema
politico, poiché il tentativo di compensare l’incertezza sull’andamento di lungo periodo
dei titoli con la loro pronta convertibilità in denaro o in guadagno – cioè con la loro
liquidità sul mercato o con la loro immediata cedibilità in uno spazio di transazione
senza attriti e vincoli spazio-temporali – può produrre al tempo stesso un vantaggio a
breve termine per gli investitori “vincenti” e problemi per le imprese e il benessere
collettivo, su cui la sfera politica è responsabile e chiamata a pronunciarsi e a prendere
decisioni23. È una versione aggiornata e ben più complessa del problema su cui Keynes
richiamò l’attenzione facendo l’esempio dell’agricoltore che, consultando di mattina il
barometro e constatando condizioni meteo sfavorevoli, vende la propria fattoria per poi
riacquistarla qualche giorno più tardi, quando il tempo migliora24. Riferendola
all’investitore impegnato nell’high frequency trading, l’analogia andrebbe aggiornata
immaginando un contadino intento ad acquistare e rivendere in pochi secondi un gran
numero di fattorie, per ricavare qualche centesimo da ogni transazione. Sul piano
dell’economia “materiale” ciò appare assurdo e, in ogni caso, non potrebbe avvenire
come gioco di mosse istantanee. Nella dimensione delle transazioni “immateriali”
21
Risale al 1971 l’invenzione del microchip da parte di Intel, mentre il Chicago Currency Futures
Market fu aperto nel 1972 e l’anno successivo iniziarono le operazioni sui futures azionari (Chicago
Boards Options Exchange). Gli esiti delle due rivoluzioni – nell’informatica e nella struttura dei mercati
finanziari – e i possibili risvolti del loro intreccio non erano allora prevedibili, ma ad uno sguardo ex post
sembrano coincidere, in quegli anni, l’avvento dell’era dell’informazione e quello della fase finanziaria
del capitalismo.
22
Tale attività ha determinato, il 6 maggio 2010, il cosiddetto flash crash del Dow Jones, con perdita
di mille punti e recupero di settecento in pochi minuti.
23
Cfr. G. Ingham, Capitalismo, cit., p. 291.
24
J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, Cambridge, Cambridge
University Press, 1936; trad. it., Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino,
UTET, 1971.
54
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
super-veloci, dove quel gioco diventa possibile, il rapporto tra aspettative e conoscenza
gira a vuoto o non gira affatto, diventando inapplicabile e perfino superfluo: come nel
dominio dell’azzardo e delle scommesse, guadagni e perdite dipendono da variazioni
elaborabili entro modelli statistici sempre più raffinati. In tali circostanze, il processo di
formazione dei prezzi li rende sempre meno interpretabili come segnali attendibili su
beni, risorse e servizi effettivamente richiesti e materialmente disponibili: essi diventano
in primo luogo, per così dire, indicatori numerici non delle aspettative, ma degli esiti
delle scommesse provvisorie sulle aspettative, spiazzando la credenza che interpreta il
sistema dei prezzi come il più efficiente processo di scoperta e di trasmissione di
informazioni25. Tale esito si manifesta in misura crescente in un’epoca in cui il settore
finanziario ha superato quello manifatturiero nel generare utili societari (fin dagli anni
Novanta negli Stati Uniti), mentre le transazioni sui mercati finanziari e le risorse
finanziarie globali hanno superato il PIL mondiale26. Dilatandosi lo spazio delle
transazioni nella dimensione del “denaro potenziale”27, in condizioni che fanno venire
meno la possibilità di distinguere tra denaro e risorsa finanziaria – data la rapida
convertibilità del patrimonio fittiziamente creato – il sistema che ne risulta sembra
incrementare, anziché ridurre, l’incertezza. Il modello weberiano del capitalismo
incentrato sulla tendenza alla massima razionalità formale nel calcolo del capitale
appare tramontato e comunque inapplicabile alle grandi società finanziarie formate da
decine o centinaia di entità giuridiche differenti, al punto che una società di revisione
25
Su questo punto, oltre ad Hayek, cfr. I.M. Kirzner, Discovery and the Capitalist Process, Chicago,
The University of Chicago Press, 1985; I.M. Kirzner, The Meaning of Market Process. Essays in the
Development of Modern Austrian Economics, London-New York, Routledge, 1992.
26
Nel 2007 gli attivi finanziari globali ammontavano a quattro volte e mezzo il Pil del mondo, mentre
le transazioni sui mercati finanziari globali sono passate dall’essere 15 volte il Pil del mondo, nel 1991,
all’esserlo 75 volte nel 2007 (Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 292). Ingham riassume scrivendo che
“nei venticinque anni compresi tra il 1980 e il 2005, l’insieme delle risorse finanziarie globali è cresciuto
dal 109 per cento (10 miliardi di dollari Usa) al 316 per cento (140 miliardi di dollari Usa) del Pil globale,
alimentando il dibattito sulla ‘finanziarizzazione’ come nuova fase del capitalismo”. Ingham, p. 157; Cfr.
A. Glyn, Capitalism Unleashed, Oxford, Oxford Universiyt Press, 2006; Capitalismo scatenato, Milano,
Brioschi, 2007; G. Krippner, “The Financialization of the American Economy”, Socio-Economic Review,
3 (2005), pp. 173-208; G. Epstein (ed), Financialization and the World Economy, Cheltenham, Edward
Elgar, 2005; F. Erturk, J. Froud, S. Johal, A. Leaver, K. Williams (eds.), Finanzialization at Work,
London, Routledge, 2008; M. Wolf, “The New Capitalism”, Financial Times, 19 giugno 2007; C. Morris,
The Trillion Dollar Meltdown, New York, Public Affairs, 2008.
S. Schulmeister, “Geld als Mittel zum (Selbst)Zweck”, in K.P. Liessmann (a cura di), Geld. Was die
Welt im Innersten zusammenhält?, Vienna, Zolnay, 2009, p. 168.
27
55
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
contabile come la Pricewaterhouse Coopers ha bisogno di anni per comprendere
l’intreccio fra debiti e crediti nella filiale europea di Lehman Brothers28.
Per chi continua a ritenere che il mercato rappresenti la soluzione più efficiente al
coordinamento delle aspettative individuali, le inefficienze osservabili nella realtà
derivano dalle persistenti interferenze del politico nella libera concorrenza; al contrario,
chi ritiene che la democrazia – eventualmente emendata e migliorata – rappresenti il
miglior processo di scoperta disponibile per il governo delle faccende umane e
dell’incertezza, le inefficienze del mercato derivano da dinamiche ad esso endogene. La
contrapposizione, in ultima analisi, è tra due processi di scoperta e decisione: da un lato,
la libera concorrenza e il sistema dei prezzi fondano un processo di scoperta (mercato)
che genererebbe ordine dalla libertà disorganizzata (senza un ordine a monte) delle
scelte individuali; dall’altro lato, la discussione e l’elaborazione pubbliche del conflitto
tra scelte alternative fondano un processo di scoperta (democrazia) che genererebbe
ordine dal reciproco riconoscersi nelle regole del gioco e nelle decisioni della
maggioranza. Mentre gli uni paventano la dittatura democratica della maggioranza e le
sue deleterie pretese di pianificazione e conoscenza, gli altri denunciano la dittatura del
capitale, esercitata da minoranze interessate principalmente ad estrarre valore dalle
condotte di vita individuali e dagli ambienti, senza curarsi delle eventuali esternalità
negative di breve o lungo periodo, la cui contabilità ridurrebbe l’utile calcolabile e
disponibile e, di nuovo, incrementerebbe la temuta incertezza.
Le due prospettive sembrano peraltro sovrapporsi e confondersi nelle analisi
sull’intreccio tra politica e mercato a partire dagli anni Ottanta e Novanta: la riduzione
delle cautele legislative contro i pericoli di un mercato ritenuto capace di autoregolazione, la riduzione degli interventi regolativi sulle attività finanziarie, la
ridefinizione di tanti diritti come prestazioni sociali e la cancellazione dell’eguaglianza
dall’agenda politica, in nome di una generica “libertà” associata al mercato,
indicherebbero una progressiva abdicazione degli Stati sovrani e delle istituzioni
rappresentative all’economia29, determinata in sostanza dalla collusione tra élites di tipo
politico e di tipo economico-finanziario e resa accettabile sul piano della teoria e della
28
Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., pp. 255-268.
29
Ivi, p. 27.
56
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
comunicazione pubblica dalle “concezioni mentali profondamente radicate associate
alle teorie neoliberiste”30.
La crisi iniziata nel 2007 ha prodotto un nuovo cortocircuito nel connubio tra
democrazia e capitalismo, poiché la libertà acquisitiva e regolativa concessa ai maggiori
operatori del sistema finanziario ha avuto effetti devastanti sull’economia e sulle
condizioni di vita di milioni di persone, costringendo i governi democraticamente eletti
ad intervenire fornendo aiuti a chi era “troppo grande per fallire”. Con le parole di
Nadia Urbinati: “La crisi finanziaria che ha colpito le democrazie occidentali
consolidate si è simultaneamente abbattuta in diversi paesi ed è stata determinata da
attori non situati in alcun luogo specifico ma potenzialmente ovunque, e infine ha messo
in moto organismi decisionali non politici e non democratici e non statuali ma globali e
privati, come le banche centrali, gli istituti di rating e finanziari privati, le istituzioni
sovrannazionali di monitoraggio del debito degli stati e, infine, gli organismi di censura
e di controllo del debito”31. Emerge in tale contesto l’ipotesi che gli attori principali del
capitalismo finanziario globalizzato, onde mantenere le dinamiche acquisitive che ne
sostanziano il potere, abbiano bisogno di colonizzare la sfera della decisione politica,
non solo per garantirsene gli aiuti ex post ma anche e soprattutto, in via preventiva, per
ampliare il proprio ambito d’influenza e di controllo a tutti i processi che generano
valore. Gli Stati in maggiore difficoltà sono stati i primi a cui “attori sovranazionali
dalla natura spesso privatistica [...] hanno imposto soluzioni fiscali, economiche, sociali
e in qualche caso anche politiche”32; ma più in generale, ci sono segnali che indicano
come istituti finanziari e grandi organizzazioni internazionali reggano di fatto le
Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (2010), trad. it., Milano,
Feltrinelli, 2011, pp. 238-239. Le concezioni a cui si riferisce Harvey si sarebbero poi trasformate “di
fatto in un argomento contro la democrazia”, determinando non una nuova fase della democrazia liberale,
ma la sua fine (cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 27).
30
31
N. Urbinati, Democrazia in diretta. Le nuove sfide alla rappresentanza, Milano, Feltrinelli, 2013, p.
72.
Cfr. A. Arienzo, “Stato, sovranità e democrazia: noterelle per un lessico nella crisi”, in A. Arienzo,
M. Castagna (a cura di), Le parole della crisi. Etica della comunicazione, percorsi di riconoscimento,
partecipazione politica, Pomigliano d’Arco, Diogene Edizioni, 2013, pp. 125-139, cit. da p. 127; inoltre,
A. Arienzo, “Oltre la democrazia, la governance economica della politica”, in A. Arienzo, D. Lazzarich,
Vuoti e scarti di democrazia. Teorie e politiche democratiche nell’era della mondializzazione, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 2012, pp. 94-110.
32
57
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
politiche finanziare e monetarie orientando, di conseguenza, le scelte dei governi sul
lavoro, sulla previdenza sociale, sulle politiche commerciali e ambientali33.
Quelle che così si incontrano sono le storie di due fallimenti: da un lato, il fallimento
della promessa democratica di un ordine sostenibile e ben vivibile – non colonizzabile
da minoranze “invisibili” – fondato sul dibattito pubblico come processo di scoperta e
sulla regola di maggioranza; dall’altro, il fallimento della promessa capitalistica di un
ordine sostenibile e duraturo delle libertà individuali, fondato sul mercato come
processo di scoperta e sulla traducibilità automatica degli impulsi acquisitivi privati in
benessere pubblico.
3. Il punto cieco della catallassi
Wolfgang
Streeck,
sociologo
e
direttore
del
Max-Planck-Institut
für
Gesellschaftsforschung di Colonia, indica Friedrich von Hayek come “l’ideologo
mondiale della lotta contro la democrazia all’interno del capitalismo democratico”34.
Tale punto di vista, che in modo meno perentorio attraversa parte della letteratura sulle
premesse e sulle conseguenze dell’abdicazione di governi democratici agli attori del
mercato, richiede di soffermarsi sulla figura del filosofo ed economista austriaco,
premio Nobel per le scienze economiche nel 1974 con Gunnar Myrdal, “for their
pioneering work in the theory of money and economic fluctuations and for their
penetrating analysis of the interdependence of economic, social and institutional
phenomena”.
Per il tema affrontato in queste pagine, in particolare, ciò che interessa è il punto
cieco rilevabile nella concezione hayekiana dell’ordine spontaneo, sulla quale verte la
rifondazione del liberalismo e l’elaborazione in chiave filosofico-politica dei risultati
dell’economia marginalistica sull’azione individuale e sulle sue conseguenze sociali35.
33
Cfr. L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., p. 296, che cita tra gli altri Nazioni Unite, Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banca
europea degli investimenti, Banca per i regolamenti internazionali, Organizzazione mondiale per il
commercio, Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, Organizzazione internazionale del lavoro,
Commissione europea.
34
W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico (2013), trad. it.,
Milano, Feltrinelli, 2013, p. 239n.
35
Su questo punto, cfr. R. Cubeddu, Friedrich A. von Hayek, Roma, Borla, 1995, pp. 189-190.
58
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
Nel saggio su Crisi e rinascita del liberalismo classico, Antonio Masala individua
“due diverse anime del liberalismo contemporaneo”36, in parte interpretabili in relazione
a “due diversi modelli di ordine” che hanno come iniziatori Hobbes e Mandeville: da un
lato, le teorie che considerano ogni organizzazione umana durevole come una
costruzione artificiale, edificata da volontà individuali intenzionate a coordinarsi;
dall’altro lato, l’idea secondo cui gli ordini migliori dell’interazione umana emergono in
modo non intenzionale, senza essere progettati, da azioni individuali libere di rivolgersi
a fini particolari diversificati. Individuando le radici del Liberalism nella scoperta di un
“ordine auto-generantesi o spontaneo nei processi sociali (self-generating or
spontaneous order in social affairs)”37, Hayek appartiene al secondo filone38, come le
Untersuchungen di Menger (1883), dove istituzioni e formazioni sociali come
linguaggio, diritto, denaro, mercato e religione sono considerate alla stregua di
produzioni irriflesse.
Storicamente le nozioni di “spontaneità” e “irriflessività” hanno generato equivoci e
suscitato riserve. Se Menger aveva messo in guardia dal correlare “spontaneità” e
“bontà”, sottolineando parallelamente l’esigenza di migliorare le istituzioni emerse per
via organica facendo ricorso ad una “visione scientifica” e alle “esperienze pratiche
disponibili”39, in una lettera del 1966 di Leoni ad Hayek l’aggettivo “spontaneo” è
36
Cfr. A. Masala, Crisi e rinascita del liberalismo classico, Pisa, Edizioni ETS, 2012, p. 241.
37
F.A. von Hayek, Studies in Philosophy, Politics and Economic, London, Routledge, 1967, p. 162.
Anche la “teoria sociale” nasce in relazione a tale scoperta, secondo quanto si legge in F.A. von Hayek,
Legge, legislazione e libertà (1973-1979), trad. it. a cura di A. Petroni e S. Monti Bragadin, Milano, Il
Saggiatore, 2010, p. 51.
A. Masala, Crisi e rinascita, cit., pp. 258 ss.; Cfr. F.A. von Hayek, “Economics and Knowledge”,
Economica, 1937, pp. 43-68; trad. it. “Economia e conoscenza”, in F.A. von Hayek, Conoscenza,
mercato, pianificazione, a cura e con introduzione di F. Donzelli, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 227-252;
J.G. Backhaus, Entrepreneurship, Money and Coordination. Hayek’s Theory of Cultural Evolution,
Cheltenham, Edward Elgar, 2005; L. Hunt, P. McNamara (a cura di), Liberalism, Conservatism, and
Hayek’s Idea of Spontaneous Order, London, Palgrave Macmillan, 2007; P. Heritier, Ordine spontaneo
ed evoluzione nel pensiero di Hayek, Napoli, Jovine, 1997; Petsoulas ritiene che in Hayek prevalga l’idea
di una “forza impersonale” alla base delle selezione delle regole di comportamento, contro l’idea di una
“intentional experimentation” attribuibile invece agli altri autori: ne segue che “deve essere respinta la
presentazione fatta da Hayek di Mandeville, Hume e Smith come i precursori dell’idea di ordine
spontaneo (as the precursors of the idea of spontaneous order)” (C. Petsoulas, Hayek’s Liberalism and Its
Origins. His Idea of Spontaneous Order and the Scottish Enlightenment, New York-London, Routledge,
2001, pp. 7-8).
38
39
C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali (1883), trad. it. a cura di R. Cubeddu, Macerata,
Liberlibri, 1996, p. 266.
59
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
criticato in quanto introduce antropomorfismi e suggerisce analogie improprie40. Quanto
al pensiero di Hayek, come ha evidenziato Cubeddu, è ben lontano dallo spontaneismo
ingenuamente ottimistico, in quanto solleva la questione del rapporto tra autoorganizzazione e selezione culturale degli ordini emergenti41, assumendo che Stato e
coercizione restino indispensabili per garantire le tipologie di beni denominabili come
“collective goods”42.
Nei tre volumi di Law, Legislation and Liberty43 Hayek dedica costante attenzione
alla dinamica dei sistemi complessi, rinviando per la distinzione tra ordine spontaneo
(cosmos) ed organizzato (taxis) al volume Principles of Self-Organization (1962) curato
da H. von Foerster e G. W. Zopf Jr.; nella Prefazione al terzo volume (1979), inoltre,
Hayek dichiara che lo sviluppo della cibernetica e della teoria dell’informazione lo ha
convinto a modificare la terminologia adottata sei anni prima, facendogli preferire
“ordine autogenerantesi” e “strutture autoorganizzantisi” a “ordine spontaneo”,
“sistema” a “ordine” ed “informazione” a “conoscenza”44.
Qui la sottigliezza delle distinzioni è dirimente, giacché termini differenti inducono
associazioni equivoche ed analogie svianti. Al riguardo è esemplare il fatto che in una
comunicazione del 5 maggio 1960 all’Interdisciplinary Symposium on Self-Organizing
Systems di Chicago, “Sui sistemi auto-organizzatori e i loro ambienti”, lo stesso autore
40
Cfr. A. Masala, Il liberalismo di Bruno Leoni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 243; R.
Cubeddu, “Processi spontanei o esiti inintenzionali?”, in R. De Mucci, K. R. Leube (a cura di), Un
austriaco in Italia (An Austrian in Italy), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 335-350.
41
R. Cubeddu, “Processi spontanei o esiti in intenzionali?”, cit., p. 338.
In un’epoca di innovazioni che incrementano differenziazione e condizioni di incertezza,
aumentando le divaricazioni e moltiplicando i conflitti tra il tempo delle aspettative individuali e quello
delle istituzioni, Cubeddu solleva un dubbio radicale non soltanto sulla capacità dello Stato di generare
ordini vivibili mediante la legislazione generale e le garanzie sui beni pubblici, ma più in generale
sull’attuale possibilità dell’“affermarsi di un qualsiasi ordine o istituzione. Compreso un ‘ordine
catallattico’”. Cfr. R. Cubeddu, “È ancora possibile imparare dall’esperienza? Riflessioni su tempo e
catallassi nell’austro-liberalismo (ma forse pertinenti anche per altre varietà di liberalismo)”, Filosofia e
questioni pubbliche, 2010, pp. 87-109, cfr. p. 95. Su questo punto si veda l’introduzione di R. Cubeddu, Il
tempo della politica e dei diritti, cit., e, sull’ordine, il primo capitolo del saggio, “Tempo individuale e
tempo delle regole. L’innovazione e la politica”.
42
43
Per l’edizione italiana, cfr. F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit. (per il testo inglese mi
riferisco a F.A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty. A New Statement of the Liberal Principles of
Justice and Political Economy, London, Routledge, 1998).
Recependo così, potremmo dire, anche l’osservazioni di Leoni sul carattere antropomorfico
dell’espressione “spontaneo”. Cfr. F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 368.
44
60
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
citato come riferimento sull’auto-organizzazione da parte di Hayek, Heinz von Foerster,
aveva avanzato la tesi volutamente provocatoria secondo cui “non esistono sistemi autoorganizzatori”45: volendo con ciò evidenziare che ogni sistema va sempre considerato in
relazione ai sistemi interagenti e all’ambiente – organizzandosi in relazione ad essi – e
soprattutto che ad una diminuzione dell’entropia di un sistema che si auto-organizza,
corrisponde sempre un aumento dell’entropia complessiva (semplificando, dell’insieme
“sistema + ambiente”). Facendo un esempio: un sistema che si auto-organizza – come
una cellula o un organismo – ha la singolare proprietà di produrre e mantenere
dinamicamente ordine al proprio interno, senza con ciò contraddire il secondo principio
della termodinamica secondo cui sistemi e processi naturali tendono ad andare verso
l’incremento del disordine, poiché aumenta comunque l’entropia complessiva
dell’ambiente da cui il sistema trae energia e si nutre, riversandovi altra energia, scorie e
residui del proprio metabolismo. Se all’interno di un sistema vivente e non isolato
l’entropia assume un valore negativo (neghentropia), essa aumenta comunque
all’esterno46: ciò accade, semplificando, perché il metabolismo del sistema si mantiene
soltanto se ad una fase costruttiva e sintetica, produttrice di strutture ordinate
(anabolismo) corrisponde una fase di degradazione e disassimilazione che riversa
(catabolismo) residui “consumati” all’esterno. Le implicazioni pratiche di questo
secondo momento, che potremmo definire catabolico, restano nascoste come da un
punto cieco nel tentativo hayekiano di interpretare il mercato come struttura autoorganizzantesi, capace di mettere ordine nelle interazioni tra aspettative, bisogni e
conoscenze umane. Elaborando una domanda diretta su questo punto, si potrebbe
chiedere: mentre il sistema “mercato” riduce il disordine nelle transazioni umane tra
aspettative, bisogni, manufatti, conoscenze e così via, dove e come aumenta il disordine
negli ambienti di vita umani che il sistema “mercato” non include né considera – o
ignora – come esternalità al di fuori della propria competenza?
45
Cfr. H. von Foerster, Sistemi che osservano, trad. it. a cura di M. Ceruti e U. Telfener, Roma,
Astrolabio, 1987.
Sul concetto di neghentropia, cfr. già le lezioni degli anni Quaranta di E. Schrödinger, Che cos’è la
vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico (1943), trad. it., Milano, Adelphi, 1995.
46
61
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
Tornando ad Hayek, egli definisce l’“ordine” di un sistema in relazione alla
conoscenza che un osservatore può averne: si ha infatti “ordine” quando la conoscenza
“di una qualche partizione spaziale o temporale dell’intero insieme” permette di
imparare “a formarsi aspettative corrette sulle altre parti di quell’insieme, o, almeno,
aspettative che hanno una buona possibilità di dimostrarsi corrette”47. La tesi
fondamentale di Hayek sui sistemi “essenzialmente complessi”48 osservabili quando si
parla di mente, biologia e società, è che il loro ordine (1) non può derivare da un
progetto e dipende (2a) dalla posizione iniziale degli elementi e (2b) “da tutte le
circostanze particolari dell’ambiente che li circonda e a cui ciascuno di essi reagirà nel
corso della formazione di quell’ordine”49. Con il termine più specifico “catallassi
(catallaxy)”, Hayek definisce il processo mediante cui il sistema “mercato” produce
ordine (come cosmos), permettendo l’auto-organizzazione delle aspettative individuali
in assenza di una scala di fini unica o sovraimposta50, grazie alla competizione basata
sull’interpretazione del sistema dei prezzi. Data la catallassi, alla politica resterebbe il
compito di provvedere ad un “ordine globale astratto” che “assicuri assicuri ai membri
le migliori possibilità di raggiungere i loro fini diversi e per lo più ignoti”51. Diritto e
prezzi diventano così – in assenza di organismi pianificatori centrali e di gerarchie
costruite su organismi siffatti – i mezzi di comunicazione che garantiscono la chiusura
della catena delle transazioni tra produttori di beni e servizi, fornitori di materie prime e
di mezzi, acquirenti52.
47
F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 49.
48
Ivi, p. 56.
49
Ivi, p. 55.
50
Ivi, p. 315.
51
Ivi, p. 323. La fede di Hayek nella catallassi e i suoi motivi sono così riassunti da Cubeddu (Hayek,
cit., p. 208): “Il mercato, ovvero il processo della catallassi, non è quindi da intendere come uno
strumento per giungere ad un’equa distribuzione delle risorse, ma, per ciò che si conosce, il sistema più
efficente di trasmissione di informazioni. La catallassi non ha quindi bisogno di nessuna giustificazione
morale. Di tali informazioni gli individui possono fare l’uso che vogliono. Tuttavia, gli usi truffaldini non
sorretti da un potere (violenza), vengono penalizzati dal sistema della catallassi. Nel senso che hanno
come conseguenza indesiderata l’espulsione di chi li mette in atto dal sistema degli scambi reciproci in
condizioni di scarsità e libertà”.
Cfr. P. Nemo, “La teoria hayekiana dell’ordine auto-organizzato del mercato (la “mano
invisibile”)”, in P. Nemo, J. Petitot (a cura di), Storia del liberalismo in Europa (2006), trad. it., Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 935-958.
52
62
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
Hayek non ha negato l’esistenza di condizioni in cui il mercato non genera ordine in
modo efficiente, richiedendo pertanto l’esercizio di un potere suppletivo d’emergenza53;
ha però trascurato l’avvertimento di von Foerster sul fatto che ogni sistema autoorganizzatore aumenta l’entropia dell’ambiente nel quale evolve. È questo il punto cieco
della teoria della catallassi, che ignora il fatto che i sistemi auto-organizzatori non si
limitano a nutrirsi di disordine producendo ordine, giacché al tempo stesso producono e
incrementano disordine nell’ambiente in cui vivono, interagendo con altri sistemi. In
altri termini, nonostante l’emergere di cicli di transazioni capaci di auto-alimentarsi e di
correggere le perturbazioni, l’incertezza e il disordine permangono e tendono ad
aumentare: in ultima analisi, perché gli agenti economici e i mercati, intesi come sistemi
complessi, non possono che evolvere nel tempo in condizioni di equilibrio dinamico,
essendo essi stessi sistemi dinamici non lineari, caratterizzati da proprietà di instabilità,
sensibilità alle condizioni iniziali e dipendenza dalla storia. Perciò nella storia, fuori dal
reame della pura astrazione modellistica, gli esiti dell’auto-organizzazione dei sistemi
complessi sono sempre imprevedibili, sub-ottimali e persistentemente conflittuali,
dipendenti da fattori e condizioni variabili che, oltre particolari valori di soglia, possono
compromettere lo stesso processo d’auto-organizzazione, determinando piccole o grandi
catastrofi, transizioni di fase, o anche la morte del sistema.
4. Retorica della spontaneità e progettazione della diseguaglianza
Quando Hayek, con riferimento alla situazione di emergenza, descrive il possibile ruolo
della politica facendo riferimento all’attività dell’“oliare il meccanismo di un orologio
(clockwork)”54, introduce una metafora infelice, che ci riporta dai sistemi complessi
auto-organizzanti agli oggetti meccanici costruiti dall’uomo, che necessitano
periodicamente di manutenzione. L’assunto secondo cui sarebbero sufficienti alcune
53
Cfr. anche J. Buchanan, I limiti della libertà (1975), trad. it. a cura di R. De Mucci, Milano,
Rusconi, 1998, p. 92 ss.; vedi inoltre A. Masala, Crisi e rinascita del liberalismo classico, cit., pp. 275276; F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 497.
Ivi, p. 337. Già Kant, nella Critica del giudizio, aveva mostrato che l’orologio non è un’immagine
adeguata per la proprietà autoformatrice e autoproduttrice degli esseri organizzati naturali, in cui si ha un
“tutto” che comporta “una dipendenza tanto in senso discendente quanto in senso ascendente (sowohl
abwärts als aufwärts Abhängigkeit)”. Cfr. § 65 di I. Kant, Critica del giudizio (1790), trad. it., Torino,
UTET, 1993.
54
63
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
leggi generali ad oliare il meccanismo, ossia a far progredire e migliorare (improve)
egualmente le opportunità (chances) di tutti, oppure a ristabilire le condizioni affinché
ciò accada, quando la catallassi lasciata a se stessa fallisce, sembra reintrodurre
l’“assunto contraddittorio” sulla ragione che permette di aggiustare le cose
razionalmente, che lo stesso Hayek trovava in Mises55: in effetti, secondo Hayek ci sono
circostanze in cui – seguendo regole generali che definiscono limiti e contrappesi dei
poteri chiamati a prendere atto dell’emergenza e a decidere di conseguenza – occorre un
intervento organizzativo (nel senso della taxis) che eserciti un’attività regolatrice
aggiuntiva (nel senso della thesis contrapposta al nomos astratto), capace di supplire alle
carenze dei suddetti processi auto-organizzativi.
La difficoltà del liberalismo contemporaneo nel pensare tale dimensione
organizzativa è evidente anche nel modo in cui Hobbes e Mandeville (le due fonti a cui
rimanda Masala) trattano l’immagine influente dell’alveare. Nel diciassettesimo
capitolo del Leviatano (1651)56 le api e le formiche sono presentate come creature che,
senza imposizioni coercitive e “senza avere altra direzione che i loro giudizi e appetiti
particolari”, vivono socievolmente57. A quanti desiderano “di sapere perché l’umanità
non possa fare altrettanto”, Hobbes risponde in modo molto articolato, elencando i
motivi e le forme della competizione, gli effetti dell’uso della ragione e delle passioni,
l’influenza dell’arte delle parole, la differenza tra bene privato e comune, l’agitazione
prodotta dai sentimenti di torto e danno58.
Alcuni anni dopo il Leviatano, Samuel Purchas pubblicava un saggio intitolato
Theatre of Politicall Flying-Insects59, in cui l’adagio “una apis, nulla apis” evidenziava
la natura circolare della relazione autoformatrice tra individuo (ape) e organizzazione
(sciame): lo sciame esiste grazie alle singole api, le quali individualmente divengono ciò
55
Cfr. F.A. von Hayek, Hayek su Hayek (1994), trad. it., Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, p. 105.
56
T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di A. Pacchi con la collaborazione di A. Lupoli, trad. it. di A.
Lupoli, M.V. Predaval, R. Rebecchi, Roma-Bari, Laterza, 1998.
57
Ivi, p. 141.
58
Ivi, pp. 141-142.
59
Cfr. S. Purchas, A Theatre of Politicall Flying-Insects Wherein Especially the Nature, the Worth,
the Work, the Wonder, and the manner of Right-ordering of the Bee, is Discovered and Described,
London, Thomas Parkhurft, 1657, p. 16.
64
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
che sono come parti dello sciame. Secondo Purchas, le api cooperano e stanno unite
nello sciame perché “orientano tutte le azioni ad un fine comune”, condividendo
abitazione, lavoro e cura dei piccoli sotto un solo “Comandante non eletto”: l’ordine
dello sciame deriva dal fatto che gli individui che lo compongono, sistemi a loro volta
(sistemi viventi), sono prodotti dal sistema che li include e alla cui persistenza nel
tempo concorrono; anche senza interventi esterni, lo sciame può elaborare la materia e
l’energia reperibili nell’ambiente per mantenere e riprodurre i propri elementi e la
propria organizzazione. Le differenze con l’orologio ed i suoi ingranaggi – che
richiedono sempre almeno un artefice umano esterno al sistema – sono chiare: lo
sciame, come sistema naturale composto da sistemi viventi, (a) mantiene la propria
organizzazione nel tempo, anche in presenza di condizioni ambientali mutevoli (almeno
entro certi limiti o soglie di vivibilità); (b) riproduce le parti che lo costituiscono
materialmente e che riproducono nel tempo l’organizzazione; (c) si autoregola, si
autocontiene (dandosi confini spazio-temporali) e si automantiene (d) anche grazie a
processi di comunicazione e sistemi di differenze con gerarchie interne.
La convergenza spontanea di bene privato e bene pubblico, che Hobbes presenta
come esito riferibile ad api e formiche, ma non alle società degli uomini, in Bernard
Mandeville sembra generalizzabile all’esistenza umana, in particolari condizioni. Il
“grande merito” che gli viene solitamente riconosciuto nella tradizione liberale è infatti
quello – con le parole di Masala – di “aver mostrato come la ricerca del proprio
interesse personale sia in realtà, oltre che l’origine di una prosperità che deriva dal
libero scatenarsi delle passioni individuali, anche un vantaggio per gli altri individui,
proprio perché un tale operare, per raggiungere il suo scopo, deve porsi come
trasparente e intelligibile per tutti”60. Ciò non toglie che in Mandeville persista
l’attribuzione di un ruolo organizzativo importante all’iniziativa politica61, poiché si può
dire che è attraverso l’“accorta amministrazione di un abile politico” – come si legge
nella conclusione dell’Indagine sulla natura della società (A Search into the Nature of
Society, 1723) – che i “vizi privati” diventano in modo apparentemente paradossale
60
A. Masala, Crisi e rinascita del liberalismo classico, cit., p. 249.
Sul punto, vedi l’introduzione di T. Magri a B. Mandeville, La favola delle api (1705-1724), trad.
it., Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. V-XXXVIII.
61
65
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“pubblici benefici”62: “Private Vices by the dextrous Management of a skilful Politician
may be turned into Publick Benefits”.
Come interpretare concretamente l’“accorta amministrazione di un abile politico”? Il
Saggio sulla carità e sulle scuole di carità (An Essay on Charity, and Charity-schools,
1723), dopo l’elogio dell’ordine spontaneo, coniuga in modo inatteso libertà, felicità e
pianificazione della diseguaglianza: in una “nazione libera”, infatti, non essendo
permesso avere schiavi, per garantire felicità e tranquillità “la ricchezza più sicura
consiste in una moltitudine di poveri laboriosi (From what has been said it is manifest,
that in a free Nation where Slaves are not allow’d of, the surest Wealth consists in a
Multitude of laborious Poor)” ed “è necessario che un gran numero di persone sia
ignorante e povero (To make the Society happy and People easy under the meanest
Circumstances, it is requisite that great Numbers of them should be Ignorant as well as
Poor)”63. Tenendo conto di ciò, il governo di una “nazione libera” dovrebbe pianificare
le condizioni di vita di molte persone, ad esempio negando l’istruzione ai poveri, in
quanto le scuole di carità hanno conseguenze dannose sul benessere sociale,
accrescendo in modo indiscriminato e incontrollabile le aspettative: il tentativo di
ridurre l’incertezza si traduce così nella riduzione della libertà di movimento di una
moltitudine di poveri. La diffusione della conoscenza diventa qui più pericolosa per il
benessere della società di quelle vili e odiose qualità, al cui libero gioco Mandeville
associa senza esitare pubblici benefici. Una situazione in cui molti devono desiderare
poche cose e restare nell’ignoranza, affinché pochi benestanti traggano benefici
dall’organizzazione complessiva, è in linea con le concezioni gerarchiche ed autoritarie
derivanti dal concepire l’ordine sociale secondo il modello dell’organismo e sembra agli
antipodi dell’ordine spontaneo della società immaginato da Hayek, in cui non si richiede
che “la maggior parte degli elementi individuali” occupi “posti prefissati”64. Emerge
così, all’interno della stessa tradizione liberale, una profonda tensione tra modi
alternativi di concepire le condizioni per l’emergenza di un ordine auto-organizzantesi.
62
B. Mandeville, La favola delle api, cit., p. 267.
63
Ivi, p. 199.
64
F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., p. 69.
66
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Tradizioni filosofiche distanti e perfino antitetiche hanno affidato alla democrazia e
al mercato magnifiche promesse sull’organizzazione delle relazioni e sulla
soddisfazione dei bisogni umani, che tuttavia né la democrazia né il mercato sono stati
in grado storicamente di soddisfare, se non per brevi periodi: sospendendo la pur
legittima questione delle interferenze indebite – che generalmente conduce alle accuse
incrociate circa il controllo politico dell’economia e il controllo economico della
politica – sembra che tanto le teorie della democrazia segnate dall’egemonia liberale,
quanto le teorie del mercato abbiano ignorato o sottovalutato ciò che la crisi manifesta:
il fatto che ogni presunta auto-organizzazione comporta l’emergere di gerarchie che de
facto – se non de jure – possono diventare rigide generando “coercizioni”65. Il che può
significare, sul piano del mercato: diseguali opportunità e piani sfalsati che
compromettono l’effettiva libertà d’azione degli agenti economici; gerarchie emerse
bottom up che, una volta affiorate, tentano di mantenersi all’interno del mercato con
vincoli costrittivi imposti top down, restringendo oppure estendendo lo spazio per
l’interazione oltre le soglie che permettono alle aspettative e agli eventi di correlarsi in
modo significativo. Gerarchie e livelli dell’auto-organizzazione possono poi produrre
patterns persistenti, almeno in parte resistenti ai feedback auto-correttivi.
Chi volesse affidarsi al motto comparso nel frontespizio della seconda edizione di
The Fable of the Bees (1714) non dovrebbe angustiarsi troppo, confidando nel fatto che
la luce verrà comunque fuori dalle tenebre (“Lux e tenebris”) come i benefici dalla
frode, dal lusso e dall’orgoglio, giacché la ruota della volubilità anche estrema muove il
commercio e l’incostanza, ponendo rimedio a lacune che la prudenza non saprebbe
prevedere. Ma tanto questa ipotesi, quanto l’alternativa hayekiana che si appella
all’invenzione di leggi generali in grado di oliare il meccanismo della catallassi senza
65
Cfr. D. Pumain (a cura di), Hierarchy in Natural and Social Sciences, Dordrecht, Springer, 2006, in
particolare l’introduzione di Pumain (pp. 1-12) e i contributi di Lane e Batty. Cfr. D. Lane, “Hierarchy,
Complexity, Society”, ivi, pp. 81-120; M. Batty, “Hierarchy in Cities and City Systems”, ivi, pp. 143168. Cfr. anche P. Anderson, “More is different. Broken Symmetry and the hierarchical nature of
science”, Science, 177 (1972), pp. 393-396; J. Holland, Hidden Order: How Adaptation Build
Complexity, Reading, Addison-Wesley, 1995; J. Holland, Emergence: From Chaos to Order, Reading,
Addison-Wesley, 1998; H. Simon, “The Architecture of Complexity: Hierarchic Systems”, Proceedings
of the American Philosophical Society, 106 (1962), pp. 467-482; H. Simon, “The Organization of
Complex Systems”, in H. Pattee (a cura di), Hierarchy Theory: The Challenge of Complex Systems, New
York, George Braziller, 1973.
67
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alterarlo e contraffarlo, nascondono un’altra possibilità, o meglio un fatto: il fatto che,
come ha mostrato Massimo Cuono, l’ideologia neoliberale non ha eliminato le “scelte
collettive”, ma ne ha introdotto e legittimato nuove forme, come decisioni e pratiche di
regolazione sociale eseguite secondo procedure, norme e modalità d’influenza
incentrate sulla politica dell’ineguale, dello straordinario e del particolare66.
5. Il capitalismo alla ricerca della terza formula
Per condividere un piano descrittivo non è necessario concordare su quali siano, in
circostanze migliori di quelle attuali, le promesse realizzabili dal mercato o dalla
democrazia: lasciando tale questione in sospeso, pare difficile negare l’esistenza di una
sovrapposizione crescente tra grandi attori politici (ad esempio i governi nazionali) e
grandi attori finanziari ed economici nel modificare le forme e procedure delle decisioni
collettivamente vincolanti e le pratiche di regolazione sociale. Le controversie si
riaprono peraltro ogniqualvolta si proponga un’interpretazione del fenomeno: per
contribuire all’analisi, questo articolo riassume e tenta di offrire una rappresentazione
perspicua di parte del dibattito introducendo – come ipotesi di lavoro – una terza
formula del capitalismo, successiva a quella caratteristica del capitalismo industriale (DM-D’) e a quella talora utilizzata per riferirsi al capitalismo finanziario (D-D’).
Nel primo caso, discusso da Karl Marx, il denaro serve a comprare merce da
ritrasformare in denaro, in modo tale che D si valorizzi nel processo trasformandosi in
capitale (l’obiettivo è ottenere D’>D). La formula D-D’ – assumendo che nel
movimento così descritto sarebbe assurdo che D rimanesse uguale a se stesso – è già
contenuta in D-M-D’, come risultato del processo dello scambio di denaro contro
denaro: si compra per vendere, guardando al valore di scambio anziché al valore d’uso.
Nel caso del capitalismo finanziario, la mediazione della merce scompare in quanto il
denaro di partenza può crescere circolando su mercati in cui compaiono quantità di
denaro ipotizzate e fittizie. I due modelli possono peraltro coesistere su mercati diversi,
come quelli coinvolti nella produzione (mercato dei mezzi di produzione e delle merci
M. Cuono, “Bureaucratiser l’inégal, l’extraordinaire, le particulier. Paternalisme et dépolitisation à
l’époque néolibérale”, in B. Hibou (a cura di), La bureaucratisation néolibérale, Paris, La Découverte,
2013, pp. 177-202.
66
68
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destinate al consumo), quello del lavoro che determina i salari e quelli monetari e dei
capitali finanziari “nei quali ha luogo il coordinamento della domanda e dell’offerta di
finanziamento, e se ne stabilisce il prezzo (interesse)”67. Articolando il processo in uno
schema comprensivo dei momenti indicati, si ha quanto segue:
[D-M-D’ + D-D’]
→ [mercati (produzione, lavoro, monetari, finanziari)]
→ [D-M-D’ + D-D’]
Secondo l’analisi di Streeck, a partire dagli anni Settanta – tra la prima e la seconda
crisi petrolifera – il tentativo di “rivitalizzare a livello mondiale la dinamica di
accumulazione capitalistica tramite la deregolamentazione, la privatizzazione e
l’espansione dei mercati di ogni sorta e in ogni direzione immaginabile”, avrebbe
comportato la de-democratizzazione del capitalismo e la de-economizzazione della
democrazia68. Fin dagli anni Ottanta, inoltre, i processi d’acquisizione e accumulazione
capitalistica si sono orientati alla “creazione di mercati fittizi in cui la speculazione sui
valori patrimoniali poté decollare sottraendosi al controllo degli organismi di
vigilanza”69: anche su questo piano, tuttavia, l’“accumulazione ininterrotta del capitale”
avrebbe incontrato un limite, dopo quello segnato dalle soglie materiali all’espansione
dei mercati (tra cui rientrano il degrado ambientale e l’incremento delle diseguaglianza):
al raggiungimento di tale limite – ovvero, al superamento di una soglia critica nella
sproporzione tra dimensione fittizia e base reale della valorizzazione del denaro – molti
riconducono l’origine della crisi finanziaria del 2007, che ha mostrato come le
dinamiche dei mercati finanziari siano cariche d’incertezza e potenzialmente generatrici
di disordine.
67
G. Ingham, Capitalismo, cit., p. 55.
68
W. Streeck, Tempo guadagnato, cit., p. 23. Cfr. anche, per una prospettiva evolutiva sul fenomeno,
W. Streeck, “Institutions in History. Bringing Capitalism Back In”, in J. Campbell et al. (a cura di),
Handbook of Comparative Institutional Analysis, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 659-86.
D. Harvey, L’enigma del capitale, cit., p. 219. In un libro successivo, lo stesso Harvey si riferisce
fin dal prologo ad “una classe plutocratica sempre più consolidata”, che “resta senza sfidanti nella sua
capacità di dominare il mondo senza vincoli”. Cfr. D. Harvey, Diciassette contraddizioni e la fine del
capitalismo (2014), trad. it., Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 12-13.
69
69
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La crescita della dimensione finanziaria del capitalismo è peraltro seguita ad un ciclo
di accumulazione, riduzione e ricostituzione del debito pubblico, sviluppatosi secondo
Geoffrey Ingham “di pari passo con la vittoria del neoliberismo nei confronti del
capitalismo del dopoguerra, e con la conseguente perdita di potere politico da parte
della democrazia di massa”70. L’aumento del debito pubblico e, in seguito, l’espansione
del debito privato (un “keynesismo privatizzato” secondo Colin Crouch71), appaiono in
questa prospettiva come elementi integranti della seconda formula del capitalismo. In
tale scenario, lo Stato debitore contemporaneo si sarebbe trovato a fronteggiare due
collettivi diversi, ad un tempo destinatari e mandatari di pretese, il “popolo dello Stato”
e il “popolo del mercato”: da un lato, i cittadini, con i loro diritti civili, che eleggono
periodicamente i propri rappresentanti e concorrono alla formazione dell’opinione
pubblica, legati idealmente da un principio di lealtà reciproca con i governi e dalla
ricerca dell’interesse generale; dall’altro lato, attivi a livello internazionale, gli
investitori che comprano debiti e azioni, avanzando pretese da creditori, il cui
comportamento trova espressione nei tassi di interesse e negli indicatori della cosiddetta
“fiducia” dei mercati72.
Data la necessità del debito pubblico e la presenza di un’impalcatura finanziaria a
sorreggere l’azione dei governi, emergono rapporti d’interdipendenza tra Stati,
organismi internazionali, sistema finanziario e settore bancario73. La composizione di
tali rapporti è mutevole e anche in questo caso vale il sospetto trasimacheo secondo cui
la definizione di un ordine “giusto” dipende di volta in volta dall’“utile del più forte”.
Il salto di qualità che alcuni temono ed altri vedono già in atto nella nuova era del
capitalismo è così sintetizzato da Streeck: “L’utopia dell’attuale management della crisi
prevede il completamento, tramite strumenti politici, di una depoliticizzazione
dell’economia politica del resto già molto avanzata: una depoliticizzazione che
70
G. Ingham, Capitalismo, cit., p. 73.
W. Streeck, Tempo guadagnato, cit., pp. 56 ss.; C. Crouch, “Privatised Keynesianism: An
Unacknowledged Policy Regime”, British Journal of Politics and International Relations, 11 (2009), pp.
382-399.
71
72
W. Streeck, Tempo guadagnato, cit., pp. 100-102.
73
Cfr. G. Arrighi, The Long Twentieth Century: Money, Power and the Origins of Our Times,
London-New York, Verso, 1994; trad. it. Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro
tempo, Milano, Il Saggiatore, 1996.
70
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dovrebbe concretizzarsi in un sistema di stati nazionali riorganizzati sotto il controllo di
una diplomazia governativa e finanziaria internazionale separata e contrapposta alla
partecipazione democratica; stati la cui popolazione dovrebbe avere finalmente
imparato, dopo una rieducazione forzosa durata ormai anni, a ritenere giusti, o per lo
meno privi di un’alternativa, i risultati della ridistribuzione così come viene realizzata
dai soli meccanismi di mercato”74. Trova così espressione l’idea che il “capitalismo
democratico (demokratische Kapitalismus)” introduca di fatto un’inedita forma di
governo, che vista a distanza appare come l’esito di una colonizzazione della
democrazia75.
Sulla questione della governamentalità richiama l’attenzione Luciano Gallino, in un
libro che fin dal titolo utilizza un’impegnativa categoria della scienza politica come
“colpo di stato”, per richiamare l’attenzione sul fatto che la crisi iniziata nel 2007 non
va concepita come un disastro naturale imprevedibile e indipendente dall’azione umana,
quale possono essere uno tsunami o un terremoto, ma come l’esito di scelte ed azioni
ripetute che hanno intrecciato il sistema politico e quello finanziario – dalla Bce alla
Fed, dai governi alla Commissione europea – favorendo le attività speculative dei
grandi gruppi finanziari in un clima di complicità diffuse76. Ciò sarebbe stato possibile,
tra l’altro, sulla scia di una ridefinizione degli esseri umani come “capitale umano”, da
governare nel modo più redditizio come produttori e come consumatori.
È questo il presupposto di una governamentalità che, per legittimarsi, ha avuto
bisogno di quello che Petrucciani individua come “processo egemonico di costruzione
74
W. Streeck, Tempo guadagnato, cit., p. 67.
Il problema solleva l’esigenza di introdurre neologismi e di inventare locuzioni adatte a nominare il
mutamento. Tra gli altri, Gila utilizza il termine capitalesimo per esprimere il costituirsi di un impero
della finanza che governa territori frammentati: cfr. P. Gila, Capitalesimo. Il ritorno del Feudalesimo
nell’economia mondiale, Torino, Bollati Boringhieri, 2013. Nel quadro di una letteratura che ha
reinterpretato il mondo contemporaneo con categorie derivate dagli assetti del potere medievali e feudali,
cfr. P. Cerny, “Neo-Medievalism, Civil War and the New Security Dilemmas: Globalisation as a Durable
Disorder”, Civil Wars, 1 (1998), pp. 36-64; A. Minc, Le Nouveau Moyen Age, Paris, Gallimard, 1993; S.
Kobrin, “Back to the Future: Neomedievalism and the Post-modern Digital World Economy”, in A.
Prakash e J.A. Hart (a cura di), Globalization and Governance, London-New York, Routledge, pp. 165187.
75
Cfr. L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governo. L’attacco alla democrazia in Europa,
Torino, Einaudi, 2013; sulla gouvernamentalité, con riferimento a M. Foucault, Dits et écrits, tomo II,
1976-1988, Paris, Gallimard, 2001, pp. 406-409; P. Lascoumes, “La Gouvernamentalité: de la critique de
l’Étataux technologies du pouvoir”, Le Portique, VII, 2004, nn. 13-14 (online su
<http://leportique.revues.org/625, consultazione ottobre 2014>).
76
71
JURA GENTIUM, XI, 2014, 2
dall’alto dell’opinione pubblica, fortemente diretto dalle élite economiche”: si tratta più
precisamente secondo il filosofo di quel processo “che si è determinato per sostenere la
svolta neoliberista nell’ultimo trentennio: per convincere i cittadini che la creazione di
un mercato più aperto dei capitali e delle merci fosse più importante della garanzia dei
loro diritti sociali, si sono costituiti e mobilitati centri di ricerca, investite ingenti somme
di denaro, conferiti persino premi Nobel”77.
Una formula del capitalismo che voglia dare conto di tali aspetti dovrebbe perciò
includere come una variabile importante la governamentalità (= G nella formula
proposta sotto): governamentalità intesa come insieme di strategie per il governo delle
condotte di vita e delle aspettative umane. Che l’utilizzo capitalistico del mercato
richieda e generi una peculiare governamentalità è ciò che resta nascosto nelle riprese
neoliberali del livello più evidente ed esplicito delle elaborazioni di Mandeville e
Hayek, là dove si insiste sull’efficienza dei processi auto-organizzanti; tuttavia, che tali
processi possano necessitare di una peculiare governamentalità lo si trova ancora una
volta, come abbiamo mostrato, sia in Mandeville sia in Hayek, là dove si teorizza
l’importanza di un potere capace di progettare la diseguaglianza e di gestire
l’emergenza78.
Il fatto che i principali attori del sistema finanziario globale sentano il bisogno di
precisi interventi e comportamenti degli Stati per tentare di governare il disordine e gli
effetti distruttivi emergenti nei mercati del denaro fittizio, ampliando così il proprio
raggio d’azione e di influenza sulle interazioni umane e sulle aspettative su cui si
scommette, può essere espresso con la seguente terza formula del capitalismo:
S. Petrucciani, Democrazia, cit., p. 211; si rimanda qui a S. Halimi, Il grande balzo all’indietro.
Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberista (2004), Fazi Editore, Roma 2006.
77
Quando Mulgan (L’ape e la locusta, cit., p. 19) associa a Mandeville il modello dell’ape
“produttiva, tranquilla”, che “produce benefici per molti”, contrapponendo poi nel capitalismo l’azione
dei makers o creatori (come le api) e quella dei takers o locuste predatrici, ci sarebbe da aggiungere una
precisazione sulle ragioni per cui l’alveare produttivo necessita di una pianificazione della diseguaglianza
e una risposta esplicita alla domanda se le figure che si incaricano di tale pianificazione, o la legittimano,
possano essere considerate come makers o takers.
78
72
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[D-M-D’ + D-Inf-D’] + [D-D’]
→ [mercati + G]
→ [D-M-D’ + D-Inf-D’] + [D-D’]
Nella formula è stata introdotta la componente D-Inf-D’, a indicare l’esito della
rivoluzione informatica e la comparsa di un mercato in cui la valorizzazione del denaro
deriva dall’acquisizione e dal commercio di informazioni: in altri termini, la merce è
l’informazione estraibile dalle comunicazioni di milioni di utenti impegnati a generare
gratuitamente contenuti, ed il settore è quello in cui avvengono transazioni clamorose
come l’acquisto per diciannove miliardi di dollari (2014), da parte di Facebook, di
un’applicazione gratuita per smartphone (WhatsApp). Si propone di introdurre qui tale
specificazione, perché anche se la possibilità di intendere l’informazione come merce
non è nuova, la dimensione assunta oggi da tale fenomeno è caratterizzata da una
colossale discontinuità con il passato, al punto che la variazione quantitativa è tale da
indurre ad interrogarsi su una variazione qualitativa concomitante. Mentre si diffondono
in modo sempre più insistente i discorsi che richiamano alla coscienza l’esistenza di
limiti all’espansione della crescita economica riferibile all’utilizzo e al consumo di
materie prime naturali, appare sconfinato il campo della possibile espansione
dell’informazione come “materia prima” di nuovi prodotti e consumi. Secondo alcune
stime, riportate tra l’altro nella rivista Philosophy & Technology diretta da Luciano
Floridi79, l’informazione che l’umanità ha accumulato e salvato, a partire
dall’invenzione della scrittura fino al 2006, può essere stimata attorno ai 180 Exabytes
(dove 1 Exabyte = 1.000.000 di Terabyte). Ebbene, si ritiene che attorno al 2010 gli
esseri umani abbiano superato la barriera dello Zettabyte, cioè dei 1.000 Exabytes di
informazione prodotta. Tra il 2006 e il 2011, più precisamente, la quantità di
informazione prodotta in precedenza sarebbe quasi decuplicata. In termini più
comprensibili, ciò significa che ogni giorno nel mondo viene prodotta una tale quantità
di dati che per salvarla sarebbe necessario, adottando il formato di archiviazione
cartacea tradizionale, uno spazio pari a otto volte tutte le biblioteche degli Stati Uniti.
Sulla “rivoluzione dell’infosfera” che ne consegue, cfr. L. Floridi, The Fourth Revolution. How
Infosphere is Reshaping Human Reality, Oxford, Oxford University Press, 2014.
79
73
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Introducendo un neologismo, Floridi suggerisce che siamo così entrati nell’era dello
Zettaflood, come se avessimo valicato colonne d’Ercole precedentemente invalicabili,
entrando in un oceano di informazione, che richiede un termine specifico per essere
nominato.
La posizione peculiare occupata dai mercati finanziari – in termini di quantità di
transazioni e di altre caratteristiche menzionate nell’articolo – è segnalata separando ed
evidenziando la componente D-D’, che affianca e supporta lo sviluppo delle altre due.
Ciò che la formula intende riassumere e al tempo stesso rappresentare perspicuamente,
aggiungendo alla dimensione dei mercati quella della governamentalità, è l’ipotesi che
il ciclo attuale della valorizzazione dei capitali comporti, per mantenersi, una
sovrapposizione tra attori politici ed attori finanziari ed economici nell’orientare le
decisioni collettivamente vincolanti e le pratiche di regolazione sociale. Dopo i limiti
incontrati sul piano dell’espansione materiale dei mercati e su quello della creazione
fittizia di denaro, tale processo potrà forse incontrare un terzo limite nell’aspirazione a
reinterpretare le regole del gioco democratico.
Se vale anche in questo caso un analogo del principio di entropia, sarà tuttavia più
probabile che il disordine generato dai mercati e quello che può emergere sul piano
delle relazioni sociali e politiche finiscano con l’alimentarsi a vicenda; del resto, il
superamento periodico di una certa soglia di disordine è funzionale a governi legittimati
dall’impegno nella gestione dell’emergenza e dalla richiesta di compensare, canalizzare
e riorganizzare periodicamente le condotte di vita. È su questo piano che la terza
formula del capitalismo incontra il monstrum democratico contemporaneo.
74