Franco Fabbri
Franco Fabbri teaches ‘Popular music history’ at the Civica Scuola di Musica 'Claudio Abbado', Milan (where he is also the coordinator of the course in Popular Music Composition), 'Music economy' at the University of Milan, 'History of contemporary music' at IED, Milan, and 'Music economy' at CESMA, Bioggio, Switzerland. He has served as chairman of IASPM during three terms: 1985-1987, 2005-2007, and 2018-2019, and is a member of editorial committees of Musica/Realtà, Popular Music, and the book series Le Sfere. He is co-editor, with Goffredo Plastino, of the Series Routledge Global Popular Music.
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Introduzione
Cos’è la popular music? E cosa non è? Un resoconto,
dopo trent’anni di popular music studies
Cosa intendiamo per «empirico»?
La popular music a Napoli e negli USA prima della «popular music»: da Donizetti a Stephen Foster,
da Piedigrotta a Tin Pan Alley
Un triangolo mediterraneo: Napoli, Smirne, Atene
Culture del suono nei panighiria di Tilos (Dodecaneso):
spazi, riti, tecnologie e stili del confronto popolare/popular
Come nascono, cambiano, muoiono i generi?
Convenzioni, comunità e processi diacronici
Quale musicologia per la canzone?
Suoni e segni. Un resoconto. Alla memoria di Luca Marconi
«Le canzoni che avrei scritto io avrebbero dovuto essere così». Influenze transnazionali tra poeti, compositori, cantautori
Sound studies e popular music studies: a proposito
di nuovi spazi disciplinari e clamorosi silenzi (con Marta García Quiñones)
Ascoltando gli Shadows, quarant’anni dopo e per la prima volta (con Marta García Quiñones)
And the Bitt Went On
Il progressive rock in Italia negli anni Sessanta e Settanta: comunità, stili, rapporti con altri generi e scene
«Orchestral manoeuvres» negli anni Settanta: la Cooperativa l’Orchestra, 1974-1983
L’epoca dell’ascolto binaurale
«Vorrei che il mio disco avesse questo suono qui…».
Peter Gabriel e le tecnologie audio
«Questo silenzio non mi convince!» Il silenzio nel suono
cinematografico
Quando il cinema incoronava la musica. Due casi esemplari: Anatomia di un Omicidio ed Exodus
Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza
e la musica elettronica
Il plagio. È la prova del budino della musicologia?
Il tempo di una canzone
Bibliografia
Fonti
Indice dei nomi
Alan Lomax,
MISTER JELLY ROLL
Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, “Inventore del Jazz”
a cura di Claudio Sessa, ed. orig. 1950, trad. dall’inglese di Giuseppe Lucchesini, pp. 368, € 25, Quodlibet, Macerata 2019
Non è musica leggera p. 9
Das Lied von der Erde: il messaggio di un addio p. 19
Il romanzo della Nona p. 25
Geografie della passione p. 33
Quale opera? E quali soldi? p. 43
Avere naso e non far finta di niente p. 55
Richard Strauss. Metamorphosen, Studio (versione per 50 archi) p. 67
Arnold Schönberg. Trio per violino, viola e violoncello, Op. 45 p. 71
«Atmosfere» o paesaggi sonori? p. 77
Da un Einstein all’altro, fino a Wall Street p. 83
L’America, la morte, il bisogno di comunicare, qualcosa
da costruire. A Quiet Place and Trouble in Tahiti
di Leonard Bernstein p. 103
Il Requiem polacco: religione e spettacolarità nella musica
di Krysztof Penderecki p. 113
«... au théâtre à faire le reste»: genesi o spiegazione dell’Orfeo p. 119
L’esattezza, e altre ossessioni p. 131
Witold Lutosławski: necessità del caso p. 137
Un granello di sax p. 145
Musiche da The Yellow Shark p. 151
Zappa e l’elettroacustica p. 157
C’è un’altra Grecia p. 169
I nomi delle musiche p. 175
La musica come forma dell’interrelazione sociale p. 181
Sonde: la direzione del nuovo p. 205
La linea, il corpo, la politica p. 223
Il corpo nella mente musicale p. 239
La musica: un falso molto autentico, veramente fasullo p. 253
Folle in marcia: i Carmina Burana e la musica pop p. 269
La musica di strada, il senso comune, le buone intenzioni p. 279
L’inganno della «ricerca»: l’Art Research e la sopravvivenza
delle Humanities nella crisi finanziaria e politica
degli anni 2010 p. 287
Bibliografia p. 299
Fonti p. 309
Indice dei nomi p. 313
L’Autore p. 323
Which sources are available? How reliable are they? In which languages were they conceived, written or recorded? Within which theoretical framework can they be studied? It’s a huge work, but it must also produce a manageable output, in the form of handbooks, audiovisual products, web pages, and other material suitable for teaching and dissemination.
Introduzione
Cos’è la popular music? E cosa non è? Un resoconto,
dopo trent’anni di popular music studies
Cosa intendiamo per «empirico»?
La popular music a Napoli e negli USA prima della «popular music»: da Donizetti a Stephen Foster,
da Piedigrotta a Tin Pan Alley
Un triangolo mediterraneo: Napoli, Smirne, Atene
Culture del suono nei panighiria di Tilos (Dodecaneso):
spazi, riti, tecnologie e stili del confronto popolare/popular
Come nascono, cambiano, muoiono i generi?
Convenzioni, comunità e processi diacronici
Quale musicologia per la canzone?
Suoni e segni. Un resoconto. Alla memoria di Luca Marconi
«Le canzoni che avrei scritto io avrebbero dovuto essere così». Influenze transnazionali tra poeti, compositori, cantautori
Sound studies e popular music studies: a proposito
di nuovi spazi disciplinari e clamorosi silenzi (con Marta García Quiñones)
Ascoltando gli Shadows, quarant’anni dopo e per la prima volta (con Marta García Quiñones)
And the Bitt Went On
Il progressive rock in Italia negli anni Sessanta e Settanta: comunità, stili, rapporti con altri generi e scene
«Orchestral manoeuvres» negli anni Settanta: la Cooperativa l’Orchestra, 1974-1983
L’epoca dell’ascolto binaurale
«Vorrei che il mio disco avesse questo suono qui…».
Peter Gabriel e le tecnologie audio
«Questo silenzio non mi convince!» Il silenzio nel suono
cinematografico
Quando il cinema incoronava la musica. Due casi esemplari: Anatomia di un Omicidio ed Exodus
Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza
e la musica elettronica
Il plagio. È la prova del budino della musicologia?
Il tempo di una canzone
Bibliografia
Fonti
Indice dei nomi
Alan Lomax,
MISTER JELLY ROLL
Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, “Inventore del Jazz”
a cura di Claudio Sessa, ed. orig. 1950, trad. dall’inglese di Giuseppe Lucchesini, pp. 368, € 25, Quodlibet, Macerata 2019
Non è musica leggera p. 9
Das Lied von der Erde: il messaggio di un addio p. 19
Il romanzo della Nona p. 25
Geografie della passione p. 33
Quale opera? E quali soldi? p. 43
Avere naso e non far finta di niente p. 55
Richard Strauss. Metamorphosen, Studio (versione per 50 archi) p. 67
Arnold Schönberg. Trio per violino, viola e violoncello, Op. 45 p. 71
«Atmosfere» o paesaggi sonori? p. 77
Da un Einstein all’altro, fino a Wall Street p. 83
L’America, la morte, il bisogno di comunicare, qualcosa
da costruire. A Quiet Place and Trouble in Tahiti
di Leonard Bernstein p. 103
Il Requiem polacco: religione e spettacolarità nella musica
di Krysztof Penderecki p. 113
«... au théâtre à faire le reste»: genesi o spiegazione dell’Orfeo p. 119
L’esattezza, e altre ossessioni p. 131
Witold Lutosławski: necessità del caso p. 137
Un granello di sax p. 145
Musiche da The Yellow Shark p. 151
Zappa e l’elettroacustica p. 157
C’è un’altra Grecia p. 169
I nomi delle musiche p. 175
La musica come forma dell’interrelazione sociale p. 181
Sonde: la direzione del nuovo p. 205
La linea, il corpo, la politica p. 223
Il corpo nella mente musicale p. 239
La musica: un falso molto autentico, veramente fasullo p. 253
Folle in marcia: i Carmina Burana e la musica pop p. 269
La musica di strada, il senso comune, le buone intenzioni p. 279
L’inganno della «ricerca»: l’Art Research e la sopravvivenza
delle Humanities nella crisi finanziaria e politica
degli anni 2010 p. 287
Bibliografia p. 299
Fonti p. 309
Indice dei nomi p. 313
L’Autore p. 323
Which sources are available? How reliable are they? In which languages were they conceived, written or recorded? Within which theoretical framework can they be studied? It’s a huge work, but it must also produce a manageable output, in the form of handbooks, audiovisual products, web pages, and other material suitable for teaching and dissemination.
After examining at some length the development of my theory of genre (definitions, ‘rules’ and conventions, inter-genre relations and intra-genre diachronic development), the commentary focuses on a number of studies of specific (mostly popular) genres, music scenes, forms, artists, where genre is an underlying concept. One of the most delicate aspects of any theory about genre, and one that has been at the centre of my investigation for so long, is that of diachronic development; as a consequence, the history of popular music became at some point a favourite subject for my study – my contributions are outlined in the commentary which can be read in conjunction with my writings on the subject. Finally, a section is dedicated to my writings on music technology, music industry, and media. In the conclusions my work on genre is contextualised nationally and internationally, with some considerations on linguistic issues; the commentary ends with a brief outline of my future research plans.
Later on, it appeared that the question had found an answer: not just in the names and titles of institutions and journals, but especially in the common sense of scholars. At some point, PMS (Popular Music Studies) became a familiar acronym, indicating an interdisciplinary practice that didn’t seem to need any further explication. ‘We all know what popular music studies are’, one could hear saying. So, there came to be not only a commonsense recognition of what popular music is, but also of the dominant practices involved in its study.
However, under the thin crust of such an apparently wide agreement, magmatic currents are still moving and clashing, and emerge here and there during scholarly meetings, in blogs and mailing lists, in institutional debates.
This article addresses a number of issues that seem to me to be related both to that surface agreement and to those deep streams of disagreement about the identity of the popular music universe. Here are a few examples:
1. The linguistic issue: how does the expression ‘popular music’ translate into other languages? Although it is clear that many communities of scholars accepted to use the English expression anyway, how do ‘local’ terms (like música popular, musica popolare, populäre Musik, musique populaire, musique de varietés, etc.) affect the perception of this/these ‘kinds of music’?
2. The ethnocentric vs. multicultural issue: is popular music just the Anglo-American pop-rock mainstream? What is ‘world music’, then?
3. The ‘popularity’ issue: is popular music just any kind of mainstream? Does ‘unpopular popular music’ really exist?
4. The ‘modern media’ issue: is popular music just media-related music? What about nineteenth century fado, Stephen Foster’s Ethiopian songs, ‘classic’ Neapolitan song? What makes ‘media music’ popular? And is the concept of ‘media’, accepted when the expression ‘popular music’ was adopted, still valid now?
5. The socio-conceptual issue: what is ‘the people’, and what is ‘popular’?
My approach to these issues will be based mainly on: 1) a cognitive/semiotic critique of musical concepts and categories; 2) a close conceptual examination of the evolution of music dissemination (and/or ‘popularity’) in the past three decades.
I don’t think that it would be easy (or useful) to find a new name for the music that until thirty years ago, and in some countries much more recently, wasn’t studied in academic institutions: ‘popular music’ for me is still probably the best conventional term to indicate such a complex set of musical cultures and practices. However, I suggest that its conventional character shouldn’t be underemphasized, and that quiet assumptions about what popular music is and what popular music studies are should be treated very carefully.
Capitolo 2 - Precursori: Stephen Foster, il minstrel show, la nascita di Tin Pan Alley
Capitolo 3 - I sogni di Edison, l’industria di Berliner
Capitolo 4 - La canzone napoletana
Capitolo 5 - Dal Salone Margherita al Cafè Aman. Aristide Bruant e la canzone francese
Capitolo 6 - Origini del flamenco, del fado, del tango
Capitolo 7 - Ragtime, blues, jazz
Capitolo 8 - Musiche del Mediterraneo orientale
8.1 Il rebetico
8.2 Umm Kulthum e la canzone araba
Capitolo 9 - Il Kabarett
Capitolo 10 - Il cinema sonoro. Canzoni e musica da film
Capitolo 11 - L’età dell’oro del musical e gli «American Classics»
Capitolo 12 - Voci e musiche alla radio
Capitolo 13 - Race, hillbilly, crooners: le voci dell’America al microfono
Capitolo 14 - Musica leggera in Italia nel Ventennio
Capitolo 15 - Il dopoguerra negli USA: dal rhythm & blues al rock ’n’ roll
Capitolo 16 - Il trionfo del rock ’n’ roll
Capitolo 17 - Il dopoguerra in Italia. Il Festival di Sanremo
Capitolo 18 - Nuovi poeti, nuovi disturbi: gli «chansonniers», la bossa nova
Capitolo 19 - Cantacronache, cantautori, il Nuovo Canzoniere Italiano
Capitolo 20 - Dopo il rock ’n’ roll: dalle alternative «perbene» a Dylan
Capitolo 21 - L’era dei gruppi
Capitolo 22 - L’Italia del boom e del bitt
Capitolo 23 - L’«estate dell’amore»
Capitolo 24 - La «Woodstock Nation» e l’altra «altra America»
Capitolo 25 - Canzone politica e canzone d’autore, intorno al ’68
Capitolo 26 - Cantautori in America Latina
Capitolo 27 - Cantautori in Europa
Capitolo 28 - Psichedelici, sperimentatori: da Zappa ai Pink Floyd, al progressive rock
Capitolo 29 - Musiche urbane e post-coloniali dopo la crisi del petrolio
Capitolo 30 - Compact disc, campionatori, videoclip
Capitolo 31 - Il potere di «rappresentare»: rap e rock a confronto
Capitolo 32 - Il mondo entra in scena
Capitolo 33 - Bricolage elettronico: techno, rave, musica sulla rete
Bibliografia
Indice delle canzoni, degli album, delle trasmissioni radiofoniche e televisive, dei film, delle pubblicazioni
Indice dei nomi
As cultural units (and not metaphysical categories), genres are rooted in history: which also means that for each genre that comes to our mind, there must have been a time when it didn’t exist yet. It’s an obvious observation, but one that doesn’t seem to have troubled many of the scholars (not so many anyway) who have dealt with the subject. On the contrary, I believe that no genre theory – be it a ‘strong’ theory or a simple description of how the concept is used in contemporary communities – can be valid if it doesn’t take genre formation and diachronic processes into consideration.
According to different theoretical approaches, which tend to overlap and/or complement (rather than contradict and oppose) each other, the ‘birth’ of a genre can be located in the establishment of conventions and norms within a community, in the ‘semiotic act’ of naming, in the acknowledgement of ‘family resemblances’, in the acceptance of prototypes. All such processes, however, do not take place in a void, but within a system or network of existing genres: which also means that some or all of them are often activated, or catalyzed, or polarized by existing genres, to which the new genre is opposed, or put on their side as a variant.
What does it mean, then, to study the birth of a new genre? It means: 1) to look into any kind of document for the earliest traces of the genre’s name as a label; 2) to investigate the genre’s community or communities (to many respects, communities defining and accepting genres have structural and processual similarities to communities at the base of national formation), and evaluate recurring behaviors, norms, codes, prototypes (within the framework of other existing genres, so evaluating oppositional functions); 3) to look for traces of same or similar behaviors, etc., before the genre’s name was accepted. For many genres in history (and my idea of ‘genre’ includes inevitably sets of genres, like ‘popular music’) it seems that practice anticipated naming, that is, a general acceptance of styles, social practices, functions, etc., under a specific name, followed years, decades, maybe even centuries of similar music activities, like with fado, flamenco, tango, the blues, jazz, rebetiko, up to rock ‘n’ roll.
As it was suggested for other fields (cinema studies, for example) such an investigation can be benefited by an historical approach based on the methods of the École des Annales, or, in other terms, by an interdisciplinary convergence of musicology, sociology, semiotics, historical linguistics, historiography.
Introduzione alla seconda edizione
Istruzioni per l’uso
Perché la chiamiamo popular music?
Musiche nel Novecento
Musiche nel XXI secolo
Che genere di musica?
I generi musicali e i loro metalinguaggi
Generi in trasformazione: l’elettrificazione di alcune musiche
nel Mediterraneo
Musiche, categorie, e cose pericolose
Tipi, categorie, generi musicali. Serve una teoria?
Il re è nudo: il campo musicologico unificato e la sua articolazione
Abbiamo un riff, o due
Forme e modelli delle canzoni dei Beatles
Questo pacchetto ti soddisferà: qualche cenno su From Me To You
(Verse)/Chorus/Bridge Revisited
Don’t Bore Us – Get To The Chorus. Serve la «noia» alle canzoni?
Complessità progressiva nella musica dei gruppi angloamericani, 1960-1967
Acquiring the Taste
De André il progressivo
La musica seria di Keith Jarrett
Vero o falso? Estetica della musica «riprodotta»
Il suono di chi? Popular music e tecnologia
Cucina elettronica e paesaggi immaginari
You’re pushing the needle to the red, ovvero della prospettiva, arte dell’illusione
Diavolo d’un Gabriel?
Come la vuole, la sfumatura?
Mai dire mai
Cuffia o altoparlanti?
Le «bolle musicali»: musica e automobile
Soluzioni criptiche
Traduzioni milionarie
Forza Milan!
Diritto, diritti e dritti: la Siae divide (e impera)
Muzak per le nostre orecchie
La bassa fedeltà è indigesta
Frank Zappa e gli altri ragazzacci
Organizzare il sound
Come il disco
Il Prometeo di Luigi Nono: l’occhio colpisce ancora
Il gesto e la musica automatica
Dalla musica automatica a quale cinema?
Bibliografia
Fonti
Indice dei nomi
L’ascolto tabù
La scena: gente che balla
La musica, l’elettroacustica, i pensieri musicali
Per una critica del fallacismo musicologico
Studiare la popular music, in Italia
Paint It Black, Cat: rock, pop e Mediterraneo
Musiche del mondo
Serve la musica, alle canzoni?
Il cielo in una stanza
Mettere in musica la poesia: una bella storia
Essere cantautore oggi
Il cantautore con due voci (e con molte mani)
Quello che le parole non dicono
Sanremo, il festival
L’industria della musica
Le canzoni, la politica, la guerra
Storie della radio
Bibliografia
Fonti
Indice dei nomi
Mentre riflettevo su quali materiali aggiungere, mi sono anche domandato se ci fosse qualche testo che potesse essere eliminato. In particolare, ci sono alcune sezioni nell’ultima parte del libro che hanno un chiaro carattere giornalistico, e che sono molto legate all’attualità dei primi anni duemila: la guerra in Afghanistan, l’evoluzione dell’industria discografica, il Festival di Sanremo e il Mantova Musica Festival, le polemiche sulla direzione di Radio Tre negli anni successivi alla vittoria elettorale della Casa delle Libertà nel 2001. Alcuni di questi nomi, già da soli, mi procuravano qualche spiazzamento: Casa delle Libertà? Mantova Musica Festival? Industria discografica? Ma rileggendo (e spero che condividerete quest’impressione) mi sono reso conto che alcune di quelle «storie» non sono mai finite, o hanno lasciato tracce profonde nella situazione attuale, o meritano comunque di non passare nell’oblio, perché non si sa mai: potrebbero anche ripetersi. In ogni caso, mi è parso che valesse la pena di leggere con gli occhi di oggi commenti su vicende che distano da noi al massimo quindici anni: in alcuni casi sono stato un buon profeta (non è sempre facilissimo, mi darete atto), in altri ho sbagliato di grosso, in altri ancora è cambiato ben poco. In uno dei testi si parla del «videotelefonino», ma dovete aver pazienza se non l’ho chiamato smartphone: l’articolo era del 2003, e Steve Jobs ha presentato l’iPhone nel 2007.
Alla fine, ho deciso di lasciare quelle parti pressoché intatte, aggiungendo qualche nota, correggendo errori che mi erano sfuggiti, modificando espressioni giornalistiche che non sopporto più. Gli altri testi, quelli di carattere saggistico, mostrano molto meno i segni del tempo. Un po’ per il loro carattere più meditato, un po’ perché assomigliano alle cose che ho scritto in seguito: più o meno dall’epoca della prima edizione de L’ascolto tabù, infatti, ho smesso di fare il giornalista, mentre ho intensificato il lavoro di saggista, dedicandomi sempre più alla ricerca e all’insegnamento. Questo mi ha guidato anche nella scelta del materiale da aggiungere nella nuova edizione: ho voluto inserire testi che ampliassero gli argomenti già elaborati nella prima edizione, tralasciando invece studi più specialistici, che probabilmente meritano di essere raccolti in un volume di carattere diverso.
Ecco, dunque, cosa ho aggiunto: «Comprendere e fare popular music», testo di una relazione presentata nel 2012 a un convegno della Società italiana per l’educazione musicale, nella quale si sviluppano temi – il titolo è esplicativo – in parte trattati nella prima sezione del libro; «non toccare le manopole», altra relazione (mai presentata, in realtà, perché gli altri partecipanti al convegno avevano sforato i tempi…) che affronta il tema a me caro dell’ascolto di musica registrata nell’università, nei conservatori, nelle occasioni accademiche; «Sui nomi delle musiche», un breve saggio preparato su richiesta dell’Accademia della Crusca nel 2015, che idealmente completa la prima parte de L’ascolto tabù, dedicata ad aspetti teorici e politici dello studio della popular music (ringrazio l’Accademia della Crusca e l’editore GoWare per avermi concesso di riprodurlo qui).
Segue un’ampia sezione che potrei definire di «casi di studio», che ho deciso di far iniziare con un testo pubblicato nel 2007 in un libro curato da Riccardo Bertoncelli e Franco Zanetti (che ringrazio, assieme all’editore Giunti): «A chi piaceva “Lovely Rita”?», una riflessione su Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles e sulla sua ricezione in Italia. Più avanti, alla fine di una serie di testi sulle musiche di tradizione orale e sulla world music che si concludeva con un racconto del funerale di Roberto Leydi, ho aggiunto un articolo breve, preparato per L’Indice dei libri del mese, scritto nel 2016 poco dopo la scomparsa di Umberto Eco (che del funerale di Leydi fu uno dei protagonisti). Il nome di Eco ritorna spesso nel libro, anche e soprattutto in relazione al suo saggio sulla «canzone di consumo» del 1964, che di recente ho tradotto in inglese per la rivista Popular Music (era uno dei pochissimi saggi di Eco non ancora tradotti). Più avanti, sempre nei «casi di studio», ho inserito «Il suonatore Faber», il più ampio dei saggi che ho dedicato a suo tempo (nel 2003) a Fabrizio De André, che avrebbe potuto far parte della prima edizione di questo libro se non fosse stato pubblicato poco tempo prima in un volume collettivo, curato da Riccardo Bertoncelli (che ringrazio di nuovo).
In coda a un gruppo di testi dedicati a «Le canzoni, la politica, la guerra» ho aggiunto un’intervista che Jacopo Costa, dottorando all’università di Strasburgo, mi ha fatto nel 2014, nella quale parlo diffusamente di Rock in Opposition e di alcuni aspetti del lavoro degli Stormy Six. Di questi argomenti mi sono occupato nel mio Album bianco, e in modo accademicamente più rigoroso in alcuni saggi pubblicati all’estero: mi è parso che l’intervista di Costa (che ringrazio) potesse completare efficacemente alcuni spunti già presenti nella prima edizione di questo libro, senza sbilanciarne l’equilibrio.
Infine, prima della sezione sulla radio (e soprattutto su Radio Tre negli anni dopo il 2001), ho aggiunto «Il Trentennio: “musica leggera” alla radio italiana, 1928-1958», testo preparato per un convegno del 2009 e successivamente pubblicato in un volume di Bulzoni curato da Angela Ida De Benedictis (che ringrazio), che crea un collegamento secondo me efficace fra la prima parte de L’ascolto tabù (quella sulle questioni politico-accademiche intorno alla nomenclatura dei generi musicali e sul «comprendere e fare» popular music) e l’ultima parte. C’è un filo, purtroppo mai davvero interrotto, che lega il tabù dell’«intrattenimento», le origini del concetto di «musica leggera», la sua stabilizzazione durante il Ventennio fascista, la ripresa di quel concetto negli anni della Rai democristiana, e le trasformazioni introdotte dalla «rivoluzione» tecnologica degli anni novanta e duemila. All’ombra sottile di quel filo si vede anche altro: provate a leggere le polemiche (apparentemente antidiluviane) intorno al Mantova Musica Festival del 2004 e vedrete consolidarsi – in piena era berlusconiana – le prime tracce del renzismo. Anche a questo serve capire la musica.
In this paper, rebetiko will be used as a testing device for genre theories and musical categorizing processes. It will be argued that, rather than pigeonholing fixed identities, genres adapt to change, and translation is a key concept to describe such adaptation, and even genre formation.
Quando ci si pongono queste domande, occorre tener presente lo statuto di realtà delle unità culturali, dei concetti. «In ogni cultura una unità culturale è semplicemente qualcosa che quella cultura ha definito come unità distinta diversa da altre e dunque può essere una persona, una località geografica, una cosa, un sentimento, una speranza, una idea, una allucinazione», come ha scritto David M. Schneider nel 1968, citato da Umberto Eco nel suo Trattato di semiotica generale. E dunque un genere, uno stile, una scena esistono se una cultura (cioè una comunità, che in quella cultura si identifica) ha convenuto che esistano. Un’unità culturale, si potrebbe dire, è il primo passo verso la realizzazione di un desiderio: che in quell’unità culturale esista, appunto. Un modello letterario che si può citare a questo proposito è quello del Cavaliere inesistente di Italo Calvino: un’armatura vuota che sta insieme solo perché la volontà popolare lo richiede.
Mi servirò della nozione di desiderio per sviluppare l’argomento centrale del mio discorso, e cioè l’influenza della chanson francese (o dell’opera di un certo numero di auteurs – compositeurs – interprètes) su altre scene nazionali in Europa degli anni Cinquanta del secolo scorso in poi. Con l’ipotesi che molto di ciò che è nato in altri Paesi corrispondesse almeno inizialmente al desiderio di creare qualcosa di simile alla chanson francese. O anche, se quella chanson era un esempio di canzone di alta qualità letteraria e di rilevanza sociale, al desiderio che una canzone così esistesse anche in altre culture.
It is feasible that Neapolitan songs—either performed by visiting Italian artists or in the form of gramophone records—were part of Smyrna’s lively musical scene at least until 1922, when the “Great Catastrophe” brought the cosmopolitan character of the city to an abrupt end. By 1923, about a million and a half Orthodox Greeks and former Ottoman citizens were forced to leave Asia Minor. Many came to live on the outskirts of Athens, which suddenly became a large city. Rebetiko, a marginal song genre apparently born in Ottoman Turkey and developed in suburban districts
around Athens and Piraeus, became the most popular urban-music style in Greece. From its supposedly original “oriental” (anatolikós, in Greek) character, rebetiko evolved in the 1940s and 1950s into a milder Westernized style, where song forms, harmony, and the singing style were influenced by Italian—mostly Neapolitan—models. Although ethnomusicologists and rebetiko historians seem to agree that
Italian and Neapolitan models were important in the stylistic evolution of the genre from the 1940s onward (Manuel 1989), it can also be argued that they had an influence even from the very beginning of the rebetiko era.
None of Dylan’s critics, before 2004, ever dared to suggest an influence on Dylan by the best known German communist poet in the Twentieth century, or by one of the exponents of the Parisian intellectual scene that had produced engagé songs by the likes of Boris Vian, Georges Brassens, Léo Ferré. Surprise was the reaction by those who had been writing essays and books on how Woody Guthrie, Robert Johnson, Elvis Presley, Johnny Cash, or William Blake and the Bible, had moulded Dylan’s poetry and music.
This chapter is about such unjustified surprises, and begins with some theoretical reflections on how and why models are chosen in artistic work. It goes without saying that in the history of music (and of poetry) individual artists, as well as genres, styles, scenes, schools, became the models for others: in some cases the influence is obvious (Italian opera, Austro-German instrumental music, French operetta, tango, jazz, rock ‘n’ roll, the British Invasion bands, hip-hop) in others less so (like the way French chanson was taken as a model in late Nineteenth-century Austria and Germany, giving birth to Kabarett, or how Greek éntechno laikó traghoudi was based on a similar attempt to make “art” out of an urban popular tradition, that of rebetiko). Focusing especially on Europe, the chapter inevitably takes into consideration examples from other continents, like the influence of Dylan himself (and of the US folk revival scene) on British, French, Spanish, Italian, German, Greek singer-songwriters, as well as influences by Latin American singer-songwriters (from bossa nova artists like Tom Jobim, Chico Buarque and others, to Carlos Puebla, Daniel Viglietti, Victor Jara, Silvio Rodríguez, Atahualpa Yupanqui) on Spanish and Catalan cantautores, and Italian cantautori. Intra-European influences include the widespread adoption of the Rive Gauche A.C.I model from Spain to Russia (and Italy, and Germany), the long-standing influence of Brecht-Weill and Brecht-Eisler songs on Italian, French, British political song and “committed” rock, the way British folk revival (Ewan MacColl) and singer-songwriters (from the Beatles to Cat Stevens, Peter Gabriel, Elvis Costello, Sting, Nick Drake, Richard Thompson and others) were received in other European countries by lyricists, composers and singers who thought: “The songs I’d write would be like that.”
The expression ‘entechno laiko tragoudi’ (‘art-folk song’) was coined in Greece by Mikis Theodorakis in the 1950s, to describe a new music genre combining the urban-folk musical idiom with lyrics coming from high-art poetry. Although the origins of the genre are tied to the work of composers like Theodorakis and Hatzidakis who did not perform as singers, from the 1970s onwards entechno became the privileged field of new generations of Greek singer-songwriters. Dropping ‘laiko’ (folk) from its label, entechno expanded its musical influences outside the urban-folk repertory and transformed into the more all-encompassing contemporary ‘art song’.
Di quel processo il fenomeno che chiamiamo «canzone napoletana» è parte integrante ed essenziale: se ne può estrapolare, dunque, che la nascita della canzone napoletana sia uno dei momenti più importanti della nascita della popular music.
Da una trentina d’anni, come è noto, «popular music» è anche l’espressione convenzionalmente usata per indicare un campo di studi interdisciplinare, che ha per oggetto le musiche che hanno ampia circolazione attraverso i media, in larga parte concepite proprio attraverso e per i media. Musiche che storicamente si collegano a quel «terzo stile» di cui sopra, e delle quali si può dire che costituiscano l’evoluzione (nell’arco di due secoli) della nuova categoria musicale emersa dalla ristrutturazione ottocentesca dell’universo musicale occidentale. Al punto che l’espressione «popular music» può essere usata restrospettivamente, ante litteram, per riferirsi a generi e culture musicali che precedono non solo l’invenzione di media come il fonografo e il grammofono, il cinema, la radio, eccetera, ma anche l’uso della stessa espressione: possiamo vedere la canzone francese, il fado portoghese, il flamenco andaluso, il tango argentino, come forme dalla popular music. E naturalmente anche il minstrel show, le aethiopian songs, il blues.
Tutto questo per dire che la questione se la canzone napoletana sia popular music nemmeno si pone: lo è, fin dal principio, in largo anticipo rispetto alle primissime registrazioni su cilindro o su disco. Le forme del commercio editoriale, l’organizzazione economica dello spettacolo, le funzioni dell’intrattenimento musicale nel contesto urbano, sono tutti fenomeni che concorrono alla definizione della nuova categoria, in varie parti del mondo. Dunque, credo che abbia senso (e una certa utilità) confrontare il processo di sviluppo della canzone napoletana nell’Ottocento con quello di altri generi e tradizioni nazionali, in particolare con la popular music negli Stati Uniti, che offre spunti interessanti e a volte sorprendenti, soprattutto nell’interazione tra mondo popolare/folklorico, musica delle classi colte ed evoluzione dell’economia musicale.
Se la canzone napoletana, anche quella «classica» è popular, si possono trarre anche alcune indicazioni metodologiche, e contribuire a svincolare lo studio della canzone napoletana dal paradigma storico-filologico a lungo dominante.
European scholars adopt the English term for their object of study. On the other hand, there are also many signs that Anglophone scholars, when they use the expression ‘popular music’, tend to refer to Anglo-American popular music, and incline to call other popular musics ‘world music’. Of course, the issue is not just about linguistic usage: in the article examples both from the media and the academia are commented, and their ideological implications are discussed.
approached the Mediterranean as a geographical, cultural, and political concept have shown that the idea of “the Mediterranean” is less straightforward than it seems. Similarly, “popular music” is an obvious category only to those who have never been asked to clarify what they mean by that term. As a result, the idea of a Mediterranean (popular) music, a concept that is peacefully accepted by musicians, audiences, critics, DJs, and radio hosts in many countries, presents a serious challenge for musicologists and ethnomusicologists as well as scholars of jazz and
popular music. However, contemplating the interaction between two rather fuzzy concepts such as “the Mediterranean” and “popular music,” i.e., the idea of Mediterranean music accepted in many communities, may give useful hints regarding the way to approach these and other clouds of meaning in contemporary society. This article is a comparative overview of popular music in various Mediterranean countries, highlighting differences, common traits, and influences.
In fact, the concept of insularity itself needs at least some adjustment, in the age of superfast ferries and Internet: islanders are as mobile as the inhabitants of big metropolitan areas, and experience mobility in a very similar way.
We could think of a kind of “distributed insularity” as a condition shared in today’s life.
It may happen, then, that the preservation of local musical traditions be entrusted to musicians from other islands, while one of the factors promoting change may consist in the occasional inter-ruption of that external contribution, as it happened in Tilos recently.
Such evidence proves that taxonomic concepts like genre are not fixed, and that they develop with time, as sets of conventions accepted by communities. It offers a chance to re-assess crucial aspects of genre theory, as well as to reconsider narrative strategies in music criticism and popular music historiography, like an attitude to create from scratch alleged pre-histories, and to view music from the past from an ex-post perspective. In the final section, some suggestions are offered on how «norms» or «parameters» associated with genre descriptions can be formalized and visualized for critical or didactical purposes.
La vera novità, se così si può dire, è la necessità di prendere atto che il nostro pianeta è un sistema chiuso e interconnesso. Il termine «globalizzazione» ha molte connotazioni infelici (soprattutto nella misura in cui viene concepito come un processo da combattere o da favorire), al punto da essere quasi inutilizzabile, ma di questo si tratta: dal clima all’economia, dalla politica alla cultura, dal diritto di accedere alle risorse a quello di scegliere la propria residenza, la consapevolezza di essere tutti coinvolti nello stesso destino è precisamente ciò che si impone all’attenzione, e che molti cercano di rifiutare. Le musiche non possono sfuggire a questa dinamica, se non rifugiandosi nelle nicchie della conservazione. Le pratiche consolidate, i generi, rischiano di perdere la loro funzione comunicativa e sociale essenziale, per diventare strumenti della separazione e della negazione del nuovo. Non si tratta di invocare nuovamente (come trent’anni fa) l’abbattimento delle barriere, la trasversalità, l’equiparazione dell’incomparabile: si tratta di adeguare il linguaggio alla nuova realtà, di concepire l’universo musicale come (a sua volta) uno spazio interconnesso, dove lo specialismo non sia uno stru-mento di conservazione dello status quo ma una sonda per esplorare il cambiamento. È possibile che ciò che avvenga mantenendo invariata la partizione esistente degli studi, delle istituzioni, delle carriere musicali? È possibile che il nuovo si manifesti nella più conservatrice tra le aree disciplinari accademiche? È tollerabile che il nuovo sia concepito, oggi, come variante prevista di un sistema immobile?
En esta comunicación intentaremos trazar un mapa provisional de la configuración actual de los estudios sobre sonido y examinar las posibles razones e implicaciones de la problemática inscripción en este de las músicas populares urbanas. Empezaremos por preguntarnos hasta qué punto y de qué manera los estudios sobre sonido podrían representar una ampliación o una puesta en crisis del campo de los “popular music studies” (García Quiñones 2016) para analizar después qué es lo que se perdería al ignorar no solo las contribuciones de ese campo, sino su objeto de estudio. Finalmente reflexionaremos sobre las eventuales consecuencias de esta operación.