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Comprendere e fare popular music
Franco Fabbri, Università di Torino
Relazione presentata al Convegno Nazionale di Studio SIEM “Tutta la musica per tutti: tra fare e
capire”, Milano, 1011 novembre 2012.
L’urgenza implicita nella prima parte del titolo di questo convegno, «Tutta la musica per tut‐
ti», mi trova completamente d’accordo. Sempre che si sottintenda una definizione di «musica»
abbastanza ampia da includere i tipi di musica che a me e ad altri vengono in mente quando si
dice «tutta la musica»: che so, la musica arabo‐andalusa, la canzone napoletana «classica» e
quella neomelodica, il minimalismo nordamericano, il kronkong indonesiano, il grunge, la
chanson francese, il rock ‘n’ roll, la techno (l’elenco, naturalmente, potrebbe essere molto più
lungo). Il plurale, «musiche» mi avrebbe tranquillizzato, anche se non lo amo particolarmente.
Va detto, a questo proposito, che la responsabilità dell’uso di questo plurale, che fa tanto stor‐
cere il naso ai critici conservatori, è interamente dei critici medesimi: se non intendessero o‐
stinatamente che il nome di «musica» è pertinente a una sola cultura musicale, non ci sarebbe
bisogno di ricordare loro che ne esistono molte altre. Il rischio che qualcuno dica «tutta la mu‐
sica» pensando «naturalmente, tutta la “vera” musica, quella che abbiamo sempre studiato,
non quella robaccia là», purtroppo, esiste.
Ricordo spesso un’affermazione che Philip Tagg fece all’inizio degli anni Ottanta: «Non biso‐
gnerebbe fondare una International Association for the Study of Popular Music, ma una Inter‐
national Association for the Popular Study of Music», e in quel «popular study of music», cre‐
do, c’era tutto il carattere antielitario, programmaticamente didattico, teso alla rivalutazione
dell’esperienza pratica, ma anche allo sviluppo di nuove teorie, che il titolo di questo conve‐
gno suggerisce. Ma la popular music, comunque, c’entra, e non solo perché – per così dire –
raggruppa molte di quelle altre musiche, diverse da quelle «che abbiamo sempre studiato».
Anzi, una delle spinte più forti per l’inaugurazione di studi «seri» sulla popular music venne,
durante gli anni Settanta del secolo scorso, proprio dal mondo della scuola: erano gli inse‐
gnanti che si rivolgevano ai musicologi chiedendo strumenti per poter rispondere alle do‐
mande dei loro studenti, quando riguardavano la musica che ascoltavano ogni giorno. Liqui‐
darla dicendo che non meritava di essere spiegata non funzionava: in effetti, come ancora oggi
può succedere, si sentivano impreparati a dire alcunché su quella musica. Fu in risposta a do‐
mande di questo tipo, ad esempio, che Tagg scrisse il suo studio su una canzone degli Abba,
«Fernando» (Tagg 2000; v. anche Tagg 1994, 201‐278), smontandola e rimontandola pezzetto
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per pezzetto: un saggio che ancora oggi costituisce un modello paradigmatico di analisi di un
brano di popular music.
E, venendo a tempi molto recenti, l’etnomusicologo Marcello Sorce Keller ha scritto nel suo
blog (mi scuso per l’inevitabile autocitazione):
È proficuo invece partire da quello che Franco Fabbri appropriatamente chiama «il suono in cui viviamo», perché così facendo si applica il sano principio di Kodály che fondava l’educazione alla musica sulla lingua madre musicale dei giovani (all’epoca, e nel suo caso, si trattava della musica tradizionale magiara), per poi procedere verso i mondi della musica meno familiari o addirittura alieni.
Oggigiorno la popular music, il complesso dei repertori che costituiscono l’orizzonte acustico quotidiano di tutti noi, ha il diritto di essere il centrocampo e non più la periferia degli studi musicali
(http://www.marcellosorcekeller.com/noterelle-bonsai/il-centrocampo/).
Naturalmente sul centrocampo sono d’accordo, ma mi sembra comunque un bel passo avanti
parlare di «tutta la musica», o di tutte le musiche, anche senza un centro. Purtroppo, però, fac‐
ciamo questa discussione in un paese che ha accumulato un ritardo enorme quanto alla for‐
mazione della capacità dei didatti di parlare di «tutta la musica», un ritardo rispetto al quale
(come è frequente in Italia) i singoli hanno cercato di porre rimedio con iniziative di persone o
di piccoli gruppi, in assenza di una politica delle istituzioni formative ed educative in questa
direzione (o, si dovrebbe dire, in presenza di una politica delle istituzioni educative e formati‐
ve contraria a questa direzione). Il ritardo, quindi, è destinato a durare: anche se domani si
decidesse di cambiare registro, in presenza di un quadro istituzionale attuale anche solo indif‐
ferente (e non lo è), quanti anni ci vorranno perché dalle istituzioni preposte alla formazione
dei didatti emerga la prima generazione di insegnanti davvero in grado di affrontare non dico
«tutta la musica», ma soltanto anche la popular music?
Quanto all’interdipendenza «del fare (suonare cantare, inventare …) e del capire (ascoltare,
teorizzare, interpretare…)», che costituisce il «cuore operativo» di questo convegno (cito da
un’email di Carlo Delfrati), anch’essa richiede – se si parla di popular music in Italia – qualche
premessa supplementare. Cosa ci sarebbe da capire in quella che alcuni (anche in atti ammini‐
strativi) si ostinano a chiamare «musica di consumo», «musica d’uso», se non (perpetuando in
modo davvero esemplare una nomenclatura adottata ufficialmente nel Ventennio) «musica
leggera»? Cosa ci sarebbe da teorizzare a proposito di una musica che nelle declaratorie dei
due settori disciplinari dedicati agli studi musicali nelle università italiane non è neppure no‐
minata? E cosa ci sarebbe mai da ascoltare, se la popular music viene elevata da alcuni com‐
mentatori (ed è l’unica occasione in cui la prendono in considerazione in quanto musica) a pa‐
radigma di come non bisogna ascoltare, cioè «distrattamente», occupandosi di altro (cammi‐
nando, guidando, praticando altre attività più o meno confessabili), facendosene invadere il
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corpo? E quanto a quell’interpretare, che nel contesto del capire mi pare significhi comprende‐
re, storicamente e funzionalmente, non è implicito in quanto ho appena esposto che la popular
music sia un campo di studi adatto più che altro per i sociologi, gli antropologi, per i cultural e
i gender studies, per gli studi sulle devianze, per gli economisti dell’entertainment, mancando,
per così dire, la materia musicale intorno quale un musicologo o un didatta della musica «se‐
rio» possa dire anche solo due parole?
Un cumulo di sciocchezze, naturalmente. In una prospettiva globale queste sono posizioni che
appartengono a un passato lontano di decenni: ciò di cui «là fuori» si discute, in dettaglio, è in
che misura il linguaggio della teoria musicale convenzionale sia adeguato per descrivere i fe‐
nomeni di numerosi generi della popular music, e la conclusione – a lavori ancora in corso – è
che in molti casi i concetti e la terminologia della teoria convenzionale sono non solo inade‐
guati ma anche ideologicamente distorti e svianti. E dunque non si tratta di accogliere com‐
piacentemente i repertori della popular music come possibile e democratica estensione
dell’oggetto degli studi (e della didattica) tradizionali, ma di ridiscutere dalle fondamenta
l’impianto teorico‐descrittivo tradizionale, perché una nuova teoria possa includere, e non e‐
scludere, le «altre musiche». La teoria classica è un caso particolare di una teoria più generale:
chi insiste ad applicare la teoria classica al di fuori del suo campo di validità si comporta come
un fisico che studiasse le traiettorie delle particelle subatomiche in un acceleratore servendosi
delle equazioni di Newton. O meglio, citando il Tagg de La tonalità di tutti i giorni,
credo che spiegare una cosa comune come il loop di accordi di «La Bamba» (quello di «Guantanamera», «Hang On Sloopy», «Wild Thing», «Pata Pata», «Twist and Shout» ecc.) in termini di tonica, sottodominante e dominante sia tanto produttivo quanto usare la fisica della combustione per spiegare
come funziona un computer (Tagg 2011, 17-18).
Ma non dovrei insistere: la prima edizione di How Musical is Man? di John Blacking risale al
1973, e l’edizione italiana (sia pure tardiva) al 1986. È uno di quei testi che un musicologo i‐
gnora a proprio rischio.
Dato che, insieme a un piccolo gruppo di studiosi italiani di popular music (ognuno secondo le
proprie competenze, il proprio carattere, la propria ricattabilità professionale), vado ripeten‐
do cose simili a queste da una trentina d’anni, sono anche abituato alle reazioni, un misto di
turbata incomprensione e di condiscendenza: lascio perdere quelli che pensano che «una do‐
minante è una dominante» e che si possono benissimo analizzare tutti i repertori popular alla
luce della teoria tradizionale, senza fare tante storie, e mi concentro ora sulle reazioni di chi
dice che «di queste cose ci occupiamo da sempre», che «qui si sfonda una porta aperta» e che
il fatto che tra i musicologi italiani ci sia una prevenzione nei confronti degli studi sulla popu‐
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lar music è, a sua volta, un pregiudizio. Sarà. Ma né io né altri vediamo una corsa solidale a
modificare le declaratorie ministeriali (e quando questo è stato fatto ci si è ben guardati dal
nominare i popular music studies, nonostante fosse stato proposto),1 la prassi ormai vuole che
chi vuole entrare all’università come ricercatore sulla popular music deve farsi passare per
etnomusicologo, e nel generale scandalo sulla classificazione delle riviste ai fini della abilita‐
zione nazionale (del quale si parla troppo poco, pur essendo un’esplicita continuazione della
più vergognosa pratica baronale e clientelare del passato) nell’area concorsuale che com‐
prende gli studi musicali nemmeno una delle riviste internazionali che si occupano di popular
music studies è stata inclusa in classe A.
Ecco, queste erano le premesse imprescindibili, da mettere agli atti per evitare un ipocrita «far
finta di nulla». Ciò detto, l’interdipendenza del fare e del capire mi sembra un tratto necessario
di qualunque approccio didattico alla popular music – di qualunque approccio didattico tout
court, direi – e anche se non mi occupo più da molto tempo di didattica della musica nel senso
che interessa forse la maggioranza dei partecipanti a questo convegno (non ho più lavorato né
nella scuola dell’obbligo né in scuole di altro tipo), il mio lavoro di docente accademico di po‐
pular music sotto vari aspetti (storico, analitico, socio‐antropologico) mi pone la questione del
rapporto tra pratica e teoria quotidianamente. Insegno a studenti universitari e di conservato‐
rio con livelli di preparazione molto eterogenei (anche all’interno dello stesso gruppo), acco‐
munati comunque dall’assenza totale di una prospettiva teorica e di un linguaggio specifica‐
mente adatti ai generi dei quali parlo. Quello che «sanno», spesso, è dannoso: mi riferisco alle
certezze su alcuni principi dell’armonia tonale, alla dualità modale‐tonale, al vasto catalogo di
argomenti che Tagg ha elencato nel suo libro pubblicato l’anno scorso anche nella nostra lin‐
gua (Tagg 2011, al quale rimando se a qualcuno fosse sfuggito; i temi teorici sono sviluppati in
modo esemplare anche in Tagg 2012). E quello che non sanno è, a volte, sorprendente: stu‐
denti di conservatorio o studenti universitari che hanno già frequentato corsi di teoria musi‐
La declaratoria del macrosettore 10C (Allegato B al DM 336, 29 luglio 2011) contiene il seguente rife‐
rimento alle discipline musicali: «La musicologia ha per oggetto la musica intesa come arte e come
scienza, comprese la paleografia, la teoria, l’organologia, la filosofia, la documentalistica, la didattica
applicate alla musica, e la conservazione dei beni musicali. L’etnomusicologia ha per oggetto la plurali‐
tà di forme, oggetti e comportamenti musicali di società e culture (in particolare quelle a prevalente
tradizione orale), le musiche popolari (anche contemporanee), la loro produzione e circolazione (an‐
che mediatizzata), le relazioni fra sistemi musicali e sistemi culturali.» L’accenno alle «musiche popo‐
lari (anche contemporanee)», nel contesto della storia dell’etnomusicologia italiana, non può significa‐
re altro che l’inclusione (del tutto scontata) delle musiche di tradizione orale «viventi»: se si fosse vo‐
luta includere la popular music (che non è necessariamente contemporanea, visto che la sua storia ri‐
sale alla prima metà dell’Ottocento) sarebbe stato sufficiente usare l’espressione in inglese, ormai atte‐
stata non solo negli ambienti internazionali, ma anche in Italia.
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cale (oltre che di storia della musica, anche contemporanea, o di estetica musicale), e che ca‐
scano dalle nuvole a nominare loro i metri additivi; e sicuramente è chiedere troppo che, pur
essendo state fornite loro nozioni sui modi ecclesiastici, abbiano anche solo la vaga idea della
natura modale della musica araba, di quella turco‐ottomana, di quella indiana, e in genere va‐
cillino sul concetto di «modo», anche nella sua articolazione più schematica. Dunque anche so‐
lo la più rudimentale interazione tra teoria e pratica che può essere messa in atto in una le‐
zione frontale sembra fornire dei momenti di vera illuminazione, anche solo per aver speri‐
mentato e appreso come scandire con le palme delle mani il compás di un palo flamenco, o
battere il tempo di uno zeibekiko senza finire in levare, o riconoscere il «ritmo bulgaro» in un
quartetto di Bartók, o verificare che Joe Morello in «Take Five» fa il suo assolo di batteria in
cinque quarti, mentre Ginger Baker in «Do What You Like» non ce la fa. Nemmeno un vero
«fare», ma anche solo un «provare a fare» aiuta a capire: l’esempio che ho in mente ora non
c’entra con la popular music in senso stretto, ma ho verificato direttamente che i miei studenti
di storia della musica contemporanea, e anche il pubblico di alcune conferenze che ho tenuto
sul minimalismo statunitense, hanno alla fine afferrato il senso di cosa fosse quella tecnica
compositiva, quello stile, quando ho proiettato su uno schermo la partitura (fatta di un’unica
pagina) di «1+1» di Philip Glass, e li ho invitati a eseguirla insieme a me, battendo le nocche su
un tavolo o su una sedia (la modalità corretta di esecuzione, visto che il pezzo è, secondo
l’indicazione in partitura, «for one player and amplified table‐top»).
Gli esempi che ho appena dato potrebbero essere malamente interpretati affermando che io
propugni la pratica del solfeggio, magari addirittura parlato. Niente di tutto questo: mi servo
di pratiche ritmiche, nel contesto di certi argomenti, quando sono pertinenti se non addirittu‐
ra centrali per la comprensione, e soprattutto tenendo conto delle severe limitazioni pratiche
alle quali una lezione frontale è sottoposta. Non mi illudo di ottenere chissà che cosa, ma
quando proietto per due volte un video sulla registrazione di una alegría da parte del Cama‐
rón de la Isla, e la seconda volta – dopo che nell’intervallo tra le due ho spiegato il compás e ho
fatto battere le mani – vedo gli studenti scambiarsi segni di intesa e riconoscere un senso nel
battito delle palmas degli accompagnatori, quando la prima volta sembrava loro un insieme di
gesti arbitrari e privi di una qualsiasi norma regolatrice, ecco, mi pare di aver fatto un lavoro
utile.
La funzione della pratica anche ai fini della comprensione pone un problema serio in ambito
universitario, data la rigida divisione di compiti tra università e conservatori, dalla quale sem‐
bra derivare (e di fatto deriva) la negazione di qualsiasi attività musicale integrata nella didat‐
tica negli atenei italiani. Alcuni dei miei studenti universitari sono musicisti, a diversi livelli,
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ma anche l’idea semplice di mettere a disposizione (e far crescere) le loro capacità attraverso
pratiche di musica d’insieme si scontra con ostacoli logistici, burocratici e soprattutto concet‐
tuali. Ho smesso di citare ai miei colleghi il caso delle università inglesi, dove nelle facoltà di
musica si studiano strumenti, si fa musica d’insieme, si producono registrazioni, in alcuni casi
con interi edifici dedicati a sale da musica, accessibili giorno e notte, sette giorni su sette: ho
smesso perché in continuazione mi si oppone che il modello formativo in Inghilterra è diverso
dal nostro (d’accordo), ma soprattutto da quando un collega mi ha spiegato che «la tradizione
della musica colta inglese è scarsa, e dunque loro si buttano sulla popular music».
Ho citato questo caso di patente ottusità perché poi è da queste posizioni che nascono le mag‐
giori difficoltà ad adattare le strutture e le attività didattiche alle musiche che costituiscono
l’oggetto dello studio, e a integrare qualsiasi pratica musicale. Se la conoscenza della musica si
identifica con la lettura delle partiture (spesso nemmeno accompagnate da un accenno di a‐
scolto), che senso può avere studiare generi nei quali – da almeno mezzo secolo – «l’opera»
viene trascritta su carta, per comodità o convenienza economica, solo dopo essere stata creata
e realizzata con altri mezzi?
Questo, se vogliamo, è il nodo centrale del rapporto tra fare e capire nello studio della popular
music. La popular music nasce da un fare molto articolato, che comprende la manualità degli
strumentisti‐compositori, la vocalità dei cantanti, l’uso di strumenti di amplificazione, regi‐
strazione ed elaborazione del suono, tecniche di sovrapposizione, montaggio, eccetera. In
questo fare ci si è allontanati a velocità crescente dalle pratiche di composizione convenziona‐
li, richiedendo l’invenzione di nuovi linguaggi, musicali e descrittivi (e dunque, il fare è ine‐
stricabilmente legato al capire). Se ancora negli anni Cinquanta molti brani di successo erano
creati da compositori seduti al pianoforte e muniti di carta pentagrammata e matita, e affian‐
cati da parolieri (specialisti, appunto, di «parole», non di melodie: è la divisione del lavoro
sancita nei regolamenti della Siae), i gruppi degli anni Sessanta‐Settanta componevano, maga‐
ri da spunti individuali ancora simili a quelli caratteristici del modo di produzione precedente,
attraverso lunghe sedute in sala‐prove se non già in studio di registrazione, e spesso il testo e
la relativa linea vocale veniva aggiunto poco prima del missaggio (perfino i nostri cantautori,
spesso, lavoravano così); oggi un brano del mainstream pop nasce dall’interazione di un pro
ducer, che crea sul suo PC o Mac la base strumentale completa, e da un topliner, che disegna su
quella una linea vocale, spesso già corredata di testi ritagliati da frasi comuni, sottoponendola
poi all’artista interprete, che spesso interviene a modificare sia la linea vocale che il testo (in‐
tegrati in un’unica entità). Come si possono capire queste diverse musiche, senza conoscere il
loro fare, e dunque anche senza avere un’esperienza diretta, anche parziale, di quelle proce‐
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dure (ma, d’altra parte, come le si potrebbero fare se non all’interno di un sistema di riferi‐
menti semantici basato su un capire)? E anche all’interno di fasi storiche caratterizzate da uno
schema produttivo dominante possono esserci variazioni dovute a fattori concreti, come l’uso
di certi strumenti o accordature: per esempio, le canzoni dei Beatles inizialmente nascono sul‐
la chitarra accordata in modo tradizionale, poi si affiancano canzoni create accompagnandosi
con chitarre accordate in modi non convenzionali, poi arrivano le canzoni composte al piano‐
forte, e contemporaneamente quelle create con montaggi ed effetti. Cogliere il senso
dell’evoluzione dello stile musicale dei Beatles (che si intreccia con quello dei testi,
dell’immagine del gruppo, delle dinamiche interne, eccetera), non è proprio possibile se non
letteralmente mettendo le mani sugli strumenti e sulle procedure produttive.
Musicologicamente sfondo una porta aperta, lo so. Sarebbe come cercare di capire
l’evoluzione dello stile compositivo del Beethoven pianistico senza avere presente la stessa
evoluzione del pianoforte come strumento, senza esaminare la funzione degli esercizi tecnici,
dell’improvvisazione, senza prendere in considerazione le trasformazioni della committenza,
del mercato, dell’editoria. Anche se ho il forte sospetto, ahimé, che Beethoven prevalentemen‐
te lo si spieghi proprio così: senza considerare nulla di tutto questo – con buona pace degli
studiosi italiani, da Piero Rattalino (2008) a Luca Chiantore (2010), che hanno dato su questi
argomenti contributi fondamentali, apprezzatissimi all’estero.
E comunque, ecco allora il problema pratico: come posso anche solo «raccontare» i Beatles, o
Lucio Battisti, se non ho una chitarra? Se non ho nemmeno un abbozzo di attrezzatura di regi‐
strazione? Se non posso mettere insieme gli studenti che sanno suonare e farmi aiutare da lo‐
ro a far capire anche agli altri? E mi rendo conto che chiedo quasi la luna, se è vero che la
grande maggioranza delle aule universitarie o di conservatorio ha apparecchiature audio pri‐
mitive, o modernissime ma allestite in modo scellerato (non posso non ricordare la recentis‐
sima aula magna di uno dei maggiori conservatori del Nord, dove un impianto audio da mi‐
gliaia di euro è stato cablato in mono, a partire dal solo canale destro), o comunque inadatte, e
che insistentemente mi fanno pensare: «Ma i miei colleghi che insegnano storia della musica e
che usano questi impianti, cosa fanno ascoltare? E loro ascoltano?»
Detto questo, però, e sperando di aver chiarito quanto per me sia importante l’interrelazione
tra capire e fare musica, vorrei sgombrare il campo da due equivoci possibili: 1) che l’attività
pratica, il fare, sia in sé sufficiente alla comprensione (secondo un’interpretazione riduttiva
della massima confuciana «Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco», che Bruno
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Munari amava citare);2 2) che la popular music, in quanto «musica audiotattile» (Caporaletti
2005), sia inerentemente comprensibile solo attraverso un fare. Parto dal secondo equivoco,
basato su una separazione essenzialista fra culture musicali, subalterna alla concezione un
tempo egemonica della «musica assoluta» e della conseguente identificazione dell’opera mu‐
sicale (sottinteso, eurocolta) con la partitura. La musica del canone eurocolto, io credo, non è
meno «audiotattile» della musica di tradizione orale, del jazz, della popular music, e comun‐
que non si tratta di una questione di grado ma di modalità: gli elementi di audiotattilità nella
musica colta sono specifici (come avviene per ogni altra categoria che non presuma di essere
ontologica e atemporale) di ogni epoca, di ogni genere, di ogni autore, di ogni opera. Il concet‐
to di audiotattilità può essere certamente utile per rivalutare la funzione del corpo in una cul‐
tura musicale, come quella del canone eurocolto, dal quale per un certo periodo la corporeità
è stata espulsa (a danno, evidentemente, della stessa comprensione di quella musica); come
criterio per distinguere un genere dall’altro, anche solo ai fini didattici, vale quanto qualsiasi
altro.
Rispetto al primo equivoco, invece, inviterei a una considerazione più attenta dello schema
sottostante alla massima confuciana, e all’uso che da decenni ne viene fatto in ambito pedago‐
gico. A parte che «se ascolto dimentico» non è proprio un grande incoraggiamento a iniziare
qualunque attività intorno alla musica (intesa, tra l’altro, come una pratica all’interno della
quale la memoria di ciò che si è ascoltato costituisce uno dei motori principali del piacere), lo
schema si basa su una separazione gerarchica tra i sensi e su un’interpretazione dei rapporti
tra mente e corpo che almeno trent’anni di ricerche (negli ambiti più vari, dalle neuroscienze
ai cultural studies alla filosofia, si vedano Damasio 1995, Lakoff e Johnson 1999) hanno messo
in discussione. Dobbiamo riflettere fino a che punto queste ricerche non implichino
l’abbandono della bipartizione capire/fare, allo stesso modo in cui hanno invitato a seppellire
la bipartizione cartesiana tra res cogitans e res extensa; ma quello che mi pare se ne possa
trarre è che non c’è attività pratica che non implichi una comprensione intellettuale, e non c’è
attività intellettuale che non si rispecchi in una comprensione pratica. E non si tratta di trova‐
re un «giusto equilibrio» fra pratica e teoria: si tratta di concepirle entrambe in un modo di‐
verso.
Concludo con un apologo. Qualche anno fa trovai da qualche parte una frase di Marcel Du‐
champ, che misi in margine alla firma dei miei messaggi di posta elettronica: «On peut voir re‐
garder mais on ne peut pas entendre écouter» («si può veder guardare, ma non si può sentir
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http://www.brunomunari.it/i_laboratori.htm
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ascoltare»). Quasi subito mi scrisse Philip Tagg, grosso modo così: «Non è vero, monsieur Du‐
champ ha torto. Se io sento un gruppo di musicisti che suonano insieme, capisco benissimo
(da come suonano) se stanno ascoltando o no, se si stanno ascoltando (tra loro) o no. Quindi,
si può sentir ascoltare.» È stata, come spesso succede con Tagg, una bella occasione di ap‐
prendimento: anche quando le convenzioni della nostra cultura sembrano suggerirci distin‐
zioni nette e inoppugnabili, c’è sempre un altro modo di vedere (e ascoltare) le cose.
Riferimenti bibliografici
Blacking, John, 1986, Com’è musicale l’uomo?, Milano, Unicopli‐Ricordi (ed. Usa 1973)
Caporaletti, Vincenzo, 2005, I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, Lucca,
LIM.
Chiantore, Luca, 2010, Beethoven al piano, Barcelona, Nortesur
Damasio, Antonio R., 1995, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano,
Adelphi
Lakoff, George, e Johnson, Mark, 1999, Philosophy in the Flesh. The Embodied Mind and its Chal
lenge to Western Thought, New York, Basic Books
Rattalino, Piero, 2008, Storia del pianoforte, Milano, il Saggiatore (prima ed. 1988)
Tagg, Philip, 1994, Popular music. Da Kojak al rave, Bologna, Clueb
—, 2000, Fernando the Flute, New York & Montreal, Mass Media Music Scholars’ Press (prima
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—, 2012, Music Meanings. A Modern Musicology for nonMusos, New York & Huddersfield, Mass
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