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Revista de Cultures Medievals Núm. 18 (Tardor 2021), 6-21 | ISSN 2014-7023 GeoGrafia, ascetismo e monachesimo nella penisola italica dopo ITALIA ASCETICA ATQUE MONASTICA di GeorG Jenal (1995) roberto alciati Università di Firenze roberto.alciati@unifi.it Rebut: 8 setembre 2022 | Revisat: 28 novembre 2022 | Acceptat: 30 desembre 2022 | Publicat: 22 desembre 2022 | doi:10.1344/Svmma2022.20.3 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 abstract Scopo di questo saggio è analizzare il valore euristico della prospettiva geografica nella storia del monachesimo cristiano antico. Il libro Italia ascetica atque monastica di Georg Jenal (1995) rappresenta un ottimo esempio per valutare vantaggi e limiti di questo approccio. A distanza di quasi venticinque anni dalla pubblicazione, le recenti tendenze storiografiche, soprattutto in campo archeologico, paiono mostrare i limiti di analisi di questo tipo. A questo si aggiunga infine il modo in cui Jenal tratta il rapporto fra ascetismo e monachesimo. parole chiave Ascetismo, monachesimo, Italia, storia, archeologia, Georg Jenal abstract The purpose of this essay is to analyze the heuristic value of the geographical perspective in the history of early Christian monasticism. Georg Jenal’s book Italia ascetica atque monastica (1995) provides an excellent example for assessing the advantages and limitations of this approach. Almost twenty-five years after its publication, recent historiographical trends, especially in the field of archaeology, seem to show the limits of analyses of this kind. Finally, how Jenal deals with the relationship between asceticism and monasticism will be examined. Key Words Asceticism, Monasticism, Italy, History, Archaeology, Georg Jenal 7 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 introduzione Nel 1995, la casa editrice Hiersemann di Stoccarda pubblica un libro di Georg Jenal (1942-2022), in due volumi, intitolato Italia ascetica atque monastica. Das Asketen- und Mönchtum in Italien von den Anfängen bis zur Zeit der Langobarden (ca. 150/250-604) (Jenal 1995). Con le sue quasi 850 pagine, l’opera si presenta come molto ambiziosa, candidandosi a diventare presto un testo di consultazione sull’argomento. Nonostante l’Italia sia l’oggetto della ricerca, le recensioni più articolate vengono scritte soprattutto da studiosi stranieri (Markus 1996; O’Donnell 1997; Sullivan 1997; Löhr 1998; Kerner 2000), i quali, pur nella diversità di giudizio, riconoscono unanimemente la rilevanza dell’impresa. Gli storici, scrive Löhr, ad esempio, devono essere grati a Jenal per avere realizzato una ricognizione completa delle fonti disponibili, con la prudenza, l’equilibro e la competenza che un vasto tema come questo richiedeva da tempo (Löhr 1998: 199). Ma gli dovrebbero tributare riconoscenza i tardoantichisti e i medievisti, che finalmente potranno trovare, in un unico volume, informazioni complete e dettagliate sulle varie comunità laicali che si organizzano secondo un criterio religioso (O’Donnell 1997: 745). Alcuni infine sottolineano lo stretto legame, quasi di emulazione e filiazione (Markus 1996: 382; O’Donnell 1997: 744; Kerner 2000: 297), con Frühes Mönchtum im Frankenreich, la monografia pubblicata da Friedrich Prinz (1928-2003) esattamente trent’anni prima (Prinz 1965). Il confronto è pertinente, anzitutto perché Jenal è un allievo di Prinz, essendosi laureato sotto la sua direzione all’Università del Saarland con una tesi su Annone II, vescovo di Colonia dal 1056 al 1075, e poi perché Italia ascetica atque monastica viene pubblicata nella serie “Monographien zur Geschichte des Mittelalters” diretta proprio da Prinz. Ma c’è di più. È infatti lo stesso Jenal ad affermare che il primo incoraggiamento a intraprendere una ricerca del genere si deve ad alcune conversazioni avute con Prinz, maestro al quale resterà legato per tutta la vita, come dimostra la curatela di ben due Festschrift dedicategli per il 65° compleanno (Jenal, Haarländer 1993a; Jenal, Haarländer 1993b). In un certo senso, sembra essere proprio Prinz a suggerire al proprio allievo di continuare il lavoro da lui inaugurato nel 1965 con il fortunato libro sui monaci di Francia. La somiglianza fra i due lavori, almeno in termini di contenuto, è dunque evidente, e così Jenal ne parla alla fine dell’introduzione: Damit ist freilich nicht geleugnet, daß die Untersuchung in einem Forschungszusammenhang steht und letztlich Ziele verfolgt, die sich selbstverständlich nicht als explizite Probleme in den Quellen finden, vielmehr heutigem wissenschaftlichen Interesse an der Vergangenheit entspringen. So ist mit diesem Unternehmen schließlich beabsichtigt – im Kontext der großräumigen Forschungen von Prinz (zu Gallien, den Rheinlanden und Bayern), von Linage Conde und Colombás (zu Spanien), Gavigan und Zumkeller (zu Afrika), Knowles (zu England) und Penco (zu Italien) 8 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 – einen Beitrag zum frühen Asketen- und Mönchtum Italiens zu leisten, darüber hinaus zur Klärung des Kontinuitätsproblems zwischen Spätantike und Frühmittelalter beizutragen und somit das Wissen über Geschichte und Kultur des werdenden Abendlandes zu enveitern und zu präzisieren. (Jenal 1995: I, 8) Jenal, dunque, non solo riconosce un debito verso Prinz, ma colloca consapevolmente la propria ricerca in un contesto (Forschungszusammenhang) più ampio che ha il criterio geografico come caratteristica principale. Jenal menziona anche la Storia del monachesimo in Italia di Gregorio Penco (1961), opera pionieristica che per la prima volta ridimensiona il peso attribuito a Benedetto. I meriti di Penco, secondo Jenal, sono molti, ma il lavoro non può certo considerarsi esaustivo dal momento che manca una ricognizione completa delle testimonianze scritte relative a monachesimo e ascetismo1, e quindi una conseguente mappatura esaustiva di tutte le attestazioni. Un altro aspetto che Jenal intende privilegiare è poi il rapporto tra forme di vita ascetiche e strutture monastiche. Jenal, infatti, ritiene che sino a quel momento la storiografia ha teso, più o meno consapevolmente, a privilegiare la storia dei monasteri a quella dei singoli asceti, giungendo a una “monasticizzazione” della storia religiosa dell’Italia tardoantica e altomedievale. Questa tendenza, determinata soprattutto dalla lettura selettiva delle testimonianze storiche, determina ciò che Jenal chiama il Kontinuitätsproblem, ossia la possibilità di scrivere una storia unitaria di ascetismo e monachesimo che vada dal II al VII secolo. Volendo sintetizzare il rapporto ascetismo-monachesimo e l’Italia (ossia la prospettiva territoriale) sono le due parole chiave della monumentale monografia di Jenal, ma sono anche le due questioni che, negli ultimi venticinque anni sono state profondamente ripensate dalla storiografia. la struttura di Italia ascetica atque monastica Prima di addentrarci nell’anali di questi due problemi, del modo in cui Jenal li affronta e di come oggigiorno sono messi a tema, è necessario descrivere brevemente la struttura del libro che, per mole e organizzazione interna, si presenta come una lettura tutt’altro che facile. Come scrive un recensore, il lettore che si accingesse a “digerire” questa enorme opera si troverebbe di fronte a una grande sfida: 842 pagine di testo che trattano una galassia di persone, luoghi e materie la cui semplice elencazione ha richiesto un apparato indicale di quasi sessanta pagine. Per giunta, Jenal ha messo a punto un imponente sistema di citazioni interne che fa riferimento a una bibliografia finale di quasi cento pagine (Sullivan 1997: 838). Tutto questo 1. Secondo Jenal, Penco avrebbe trascurato molte fonti agiografiche, restituendo così un quadro distorto delle presenze monastiche nella penisola italica, e parte della letteratura scientifica sul tema prodotta soprattutto al di fuori dell’Italia (Jenal 1995: I, 4). 9 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 sforzo è dedicato principalmente a elencare le testimonianze relative all’emergere della vita ascetica e monastica nella penisola italica e nelle isole maggiori che ora appartengono amministrativamente all’Italia (Sardegna e Sicilia) a partire dalla metà del II secolo, sino alla morte di Gregorio Magno (cioè all’inizio del 604). Il secondo obiettivo è di organizzare questa ingente massa di dati in modo da descrivere e spiegare lo sviluppo del fenomeno monastico, certamente nuovo nella storia del mondo mediterraneo tardoantico. Uno sguardo allo schema dell’indice può essere utile. Partiamo dal primo volume, che ha come sottotitolo Der Bestand. Il periodo di tempo preso in esame da Jenal è diviso in tre archi cronologici, che costituiscono le tre parti nelle quali si articola il testo: 150-500 (prima parte), 500-590 (seconda parte) e 590-604 (terza parte). Complessivamente, si va dal II al VII secolo, anche se i dati storici più consistenti fanno data a partire dal IV. Per ogni periodo Jenal attinge a diverse fonti con l’intento di ottenere una quantità sufficiente di dati per una trattazione prosopografica, topografica e fenomenologica della forma di vita ascetica e monastica in Italia. Ognuna delle tre parti menzionate sopra si divide in due capitoli che riportano sempre lo stesso titolo (cap. 1: Prosopographie, Topographie und Phänomenologie, cap. 2: Zur Struktur und Typologie der Gemeinschaften in…). Il secondo volume ha invece il seguente sottotitolo: Die Ausbildung des italischen Asketen- und Mönchtums in seinem religiösen und gesellschaftlichen, kulturellen, kirchlichen und staatlichen Umfeld. È soprattutto in questo tomo che si trovano le analisi più interessanti. Proviamo dunque a sintetizzare questi temi, suddivisi in otto parti e descritti in nove pagine di indice. Protagonista della prima parte è Girolamo e il suo influsso sull’ascetismo e sul monachesimo italico (sei capitoli), a cui segue la seconda (tre capitoli) riservata a Rufino di Concordia, l’antagonista per eccellenza di Girolamo. La terza parte è dedicata invece a quanti hanno criticato in vario modo questa particolare forma di vita cristiana (Rutilio Namaziano, Elvidio, Gioviniano, Vigilanzio…). Le parti quarta e quinta si occupano di due aspetti centrali nella storiografia monastica: la riflessione sulla povertà individuale e la proprietà comune (due capitoli) da una parte, il rapporto che esponenti dell’ascetismo e del monachesimo cristiano intrattengono con la cultura non cristiana contemporanea dall’altra. In dieci capitoli si prendono in esame scritti di Ambrogio, Girolamo, Rufino, Paolino di Nola, Eugippio, Fulgenzio, Cassiodoro, Gregorio Magno e alcune regole monastiche. La sesta e la settima parte (otto capitoli in tutto) trattano invece dell’importante tema del rapporto che asceti e monaci intrattengono con la Chiesa, intesa come istituzione, con lo Stato imperiale e con il clero, inteso come gruppo organizzato. L’ultima parte è infine dedicata al pontificato di Gregorio Magno. La quantità di dati raccolta nel primo volume e l’articolata analisi condotta nel secolo rendono il libro ancora un’importante opera di riferimento per chi vuole farsi un’idea delle varie forme di vita monastica nell’Italia tardoantica e altomedievale. Lo schematico elenco di materie appena esposto non lascia alcun dubbio 10 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 e testimonia come Jenal non abbia tralasciato nulla. Ciò nonostante, a una lettura più approfondita alcune criticità emergono, in modo particolare quando ci si concentra sul rapporto ascetismo-monachesimo e sulla prospettiva geografica adottata dall’autore. la geografia monastica (e l’archeologia) Cominciamo dalla geografia. Notoriamente, e in modo particolare a partire dalla seconda metà del Novecento, molte sono state le ricerche condotte nel campo della geografia umana e spaziale in relazione agli insediamenti monastici. La letteratura sul tema è quasi incontrollabile, ma una cosa pare certa: se nel linguaggio comune si tende a distinguere fra luogo e spazio secondo un criterio quantitativo – ritenendo, ad esempio, che il luogo sia una porzione di spazio che “raccoglie” oggetti e cose, che sono da esso generati e che lo generano, ma anche un luogo di e per la memoria culturale –, nella letteratura scientifica tutto si fa più complicato dal momento che questa relazione non è definita in modo univoco2. Un luogo, infatti, può essere un toponimo, un punto su una mappa geopolitica o una serie di strutture materiali all’interno delle quali esseri umani costruiscono relazioni e si muovono. Ma un luogo rivela anche relazioni di potere materiali e immateriali, reali e immaginarie, civiche e religiose; infine, un luogo può tracciare geografie immateriali di desiderio, odio e devozione (de Certeau 1990). Sono questi, in sintesi, gli elementi che vengono in mente quando si pensa agli spazi, ai luoghi, e quindi alla geografia, reale o immaginaria. Per tutte queste ragioni, intraprendere una storia dell’ascetismo e del monachesimo su un arco cronologico di cinque secoli connotandola geograficamente deve indurre a qualche riflessione preliminare. Qual è, insomma, il proprium di una storia regionale o geografica di un fenomeno come il monachesimo? La lista dei “precursori” e dei “modelli” enunciata da Jenal alla fine della sua introduzione e citata precedentemente mostra che una storia del monachesimo così intesa ha goduto di un certo successo sino alla fine del secolo scorso e sembra essere passata indenne attraverso le molte “svolte” che hanno interessato la storiografia religiosa negli ultimi cinquant’anni. Jenal non dedica pagine a questo problema teorico, ma certamente non si può dire che faccia un uso inconsapevole della dimensione geografica, come prova la presenza di sei mappe geografiche. La prima mostra la localizzazione dei singoli individui che optano per la vita ascetica secondo le fonti raccolte: nell’arco cronologico va dal 150 al 500, Jenal è in grado di mostrare nove toponimi nell’Italia settentrionale, sei in quella centrale e due al sud. Una presenza esigua, tutto sommato. L’ultima cartina geografica è invece riservata alla città di Roma. Più interessanti sono però le altre quattro 2. Per farsi un’idea dei molteplici modi di definire luogo e spazio, anche in un’ottica di semantica storica, è utile la lettura di Rau 2019. 11 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 mappe che contengono quasi esclusivamente insediamenti monastici databili fra IV e VI secolo. La Karte II si incarica di descrivere le comunità monastiche fra 350 e 500, e anche in questo caso i dati riportati sono esigui: cinque o sei cenobi nel centro Italia e altrettanti a nord, gli uni concentrati nell’area romana e attorno a Nola (Campania), gli altri a Vercelli e a Milano, ossia dove hanno operato i vescovi Eusebio e Ambrogio. La Karte III si riferisce invece al VI secolo, ma il numero di insediamenti monastici non aumenta significativamente. Le uniche novità si trovano in Sardegna (un toponimo) e in Sicilia (due). Rispetto alla mappa precedente, tuttavia, il nord scompare. La situazione cambia sensibilmente con le altre due mappe, entrambe redatte sulla base delle testimonianze di Gregorio Magno. La Karte IV contiene le comunità e i luoghi abitati da singoli asceti rinvenibili nei Dialogi. Non stupisce molto quindi notare che il grosso delle menzioni si concentri nell’area dell’Italia centrale, ossia di quella porzione della penisola a cui Gregorio Magno è più interessato o di cui ha più informazioni. Nella Karte V, infine, sono registrati tutti gli insediamenti monastici noti all’epoca del pontificato di Gregorio, indipendentemente dal fatto che siano menzionati o meno nei suoi scritti. Qui è interessante notare come, ad eccezione di Lodi e Trento (la cui certezza è minata da due punti interrogativi), tutti gli altri luoghi si trovino al di sotto del Po, rendendo questo fiume un’involontaria “linea di confine” monastica. Altra eccezione rispetto alle cartine precedenti è l’aumento dei luoghi in Sicilia, sino a questo momento area povera di asceti e monaci. Nelle osservazioni conclusive, Jenal tiene a precisare che, alla luce delle hagiographische Zeugnisse prese in esame, nel periodo compreso tra il 350 e il 500, risultano attestate, in tutta la penisola italica, circa 27 comunità e circa 50 asceti singoli che vivono fuori da contesti comunitari. Di queste attestazioni, un terzo circa si concentra nella città di Roma. Tra il 500 e il 590 il numero complessivo è sostanzialmente invariato, ma il rapporto fra asceti e monaci si inverte: i cenobi salgono a 50 unità mentre gli asceti solitari scendono a 20. La crescita dei cenobi aumenta vertiginosamente nei quattordici anni del pontificato gregoriano (590-604), periodo per il quale conosciamo l’esistenza di più di 100 comunità. Gli asceti non cenobiti rimangono numerosi, ma non sono più registrati in modo completo da Gregorio. Pertanto, si può dire che, sotto Gregorio papa, il numero delle comunità è sostanzialmente raddoppiato (Jenal 1995: II, 832). Numeri di questo tipo e le relative progressioni sono senz’altro utili per farsi un’idea sulla fortuna delle due forme di vita, tuttavia non va dimenticato (e Jenal certamente ne è consapevole) che tutte queste informazioni sono desunte principalmente da “testimonianze agiografiche”, come scrive lo stesso autore. Ma volendo realizzare una mappatura degli insediamenti monastici e ascetici, sono queste tipologie di fonti sufficienti? Negli ultimi decenni, grazie soprattutto ai risultati conseguiti degli archeologi, la storia del monachesimo ha subito un ripensamento radicale, determinando la possibilità di ricostruire uno spazio d’azione del monaco d’Occidente quasi completamente inaccessibile servendosi della sola documentazione testuale. Messa in dialogo con la 12 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 storia, ecco che l’archeologia si mostra un’alleata decisiva nella ricostruzione della forma di vita monastica. Ciò nonostante, l’archeologia pare assente dai due tomi di Jenal. L’indice delle cose notevoli, ad esempio, non contiene la parola “archeologia”, e per la verità neppure “geografia”. Guardando le cartine citate prima, ci si potrebbe chiedere se quelle localizzazioni di monasteri e asceti hanno riscontri archeologici, ma di questo l’autore non parla affatto. È singolare, ad esempio, che proprio nel secondo volume, quello dedicato all’analisi fenomenologica della vita monastica in Italia, manchino pressoché del tutto riferimenti alla uilla tardoantica, la cui storia, ormai da quasi cinquant’anni, è stata messa in relazione a quella del monasterium. È noto come la difficoltà maggiore che gli storici del monachesimo si trovano a fronteggiare sta nella persistente riluttanza a incrociare le fonti letterarie con le evidenze archeologiche, ed è forse questa limitazione alla base della persistente sottovalutazione del ruolo della uilla tardoantica nello sviluppo degli insediamenti monastici. Tuttavia, ogni qualvolta questo confronto si rende possibile, i risultati confermano una tendenza generalizzata: i cosiddetti monasteri delle fonti letterarie sono sempre stati fondati in spazi già precedentemente antropizzati (Citter 2021; Stasolla 2017; Marazzi 2015). In particolare, fra le molte forme residenziali della tarda antichità mediterranea, la uilla si colloca indubitabilmente al primo posto fra gli insediamenti riutilizzati (Percival 1997; Bowes 2011). Questo pare, insomma, il modello d’insediamento monastico preferito nel periodo più antico della storia del fenomeno, nonostante nell’immaginario persista il monastero con chiostro, chiesa e refettorio, che tuttavia non ha riscontri archeologici inequivocabili prima dell’VIII secolo3. Di tutto questo, Jenal non tiene conto né si serve in alcun modo di fonti archeologiche. Ma se la critica concorda nel dire che la costruzione di monasteria come edifici di nuova concezione è tarda (VIII-IX secolo) anche per l’Italia, allora parlare di monasteri prima di quel momento comporta un approccio diverso. Non accennare in nessun modo al problema rischia di portare fuori strada il lettore che alla parola “monastero” non collega immediatamente la uilla tardoantica. Abbiamo dunque una mappatura topografica del monachesimo antico che non tiene conto delle tipologie di insediamento abitativo più documentate. Ma se la uilla ha un ruolo importante nella storia del monachesimo, allora le zone extra-urbane, dove sorgevano questi complessi residenziali, dovrebbero avere maggior rilevanza; e in ogni caso si dovrebbe procedere con molta cautela quando si definiscono monasteri sia la uilla di Cassiodoro a Vivarium sia il palazzo sul Celio di Gregorio Magno. Inoltre, se è la tipologia insediativa a ricoprire un ruolo rilevante nella storia del monachesimo, dal Portogallo all’Albania, dal confine franco-olandese all’Africa 3. Ancora agli inizi dell’VIII secolo, in Italia, la uilla “resiste”. Basti guardare al complesso di San Vincenzo al Volturno, monastero che si ritiene fondato proprio a quell’altezza cronologica, non certo in un luogo mai abitato prima e inospitale, ma al contrario all’interno di una uilla tardoantica a cui era già stata affiancata in precedenza una chiesa. Vedi Marazzi 2014. 13 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 settentrionale, che senso ha una storia del monachesimo dal punto di vista geografico? Nella sua recensione, Sullivan se lo chiede espressamente: «was there something unique represented by ‘Italic’ monastic life? If so, what was it, and how did it relate to monastic life in a more Mediterranean setting?» (Sullivan 1997: 840). La domanda non è banale, come dimostrano le obiezioni di Robert Markus, il quale non dimentica di segnalare che la menzione di figure come Martino di Tours, Cassiano, Fulgenzio sono giustificate, nell’ottica di Jenal, solo perché i tre hanno (o avrebbero) soggiornato in Italia. Martino inizia la sua esperienza di eremita sull’isola Gallinara di fronte ad Albenga, Cassiano parrebbe essere stato a Roma per un periodo imprecisato, Fulgenzio sconta il suo esilio in Sardegna. Ma la loro presenza è dovuta a una qualche caratteristica particolare dell’Italia che avrebbe favorito la loro scelta ascetico-monastica? Come mostrano le biografie di Cassiano e Martino, il soggiorno italico è effimero, ed è difficile scorgere un imprinting monastico “italico” nelle loro esperienze successive. Pertanto, resta indubitabile il fatto che «the threads that link monastic leaders and writers knew no provincial boundaries; in this sense, Italy seems to be a purely arbitrary division in this context» (Markus 1996: 383). ascetismo e monachesimo Per quanto riguarda invece la seconda caratteristica del libro, ossia il nesso ascetismo-monachesimo, Jenal è meno reticente e nell’introduzione tratta la questione. La posizione assunta è chiara: benché, scrive Jenal, la storia dell’ascetismo preceda quella del cristianesimo, scopo del libro non è affrontare una storia comparata delle varie forme che l’ascetismo assume nel Mediterraneo a partire dall’antichità né offrire un contributo alla comprensione dell’ascetismo come geistesgeschichtliches Problem (Jenal 1995: I, 6-7). Al contrario, come intende mostrare il titolo, la finalità della ricerca è dimostrare quella intima e unione fra asceti e monaci: storicamente, precisa Jenal, gli uni non si danno senza gli altri, dal momento che dal II secolo e ininterrottamente sino al IV, le origini dei due fenomeni sono intrecciate, al punto da diventare indistinguibili. In un certo senso, l’uno, l’ascetismo – almeno nella sua storia italica – lascia progressivamente il posto al secondo, il monachesimo. Questo significa, secondo Jenal, che alla fine dell’arco di tempo considerato, nella penisola italica, l’ascetismo è stato completamente assorbito dal monachesimo. Jenal sembra alludere anche a una seconda questione, non meno rilevante e controversa, vale a dire alla possibilità di scrivere una storia della vita ascetica e monastica senza necessariamente parlare di pratiche ascetiche precristiane. Jenal sembrerebbe postularlo, quasi assecondando quella linea storiografica che sostiene la novità radicale e l’autonomia del cristianesimo nella storia secolare dell’ascetismo nel Mediterraneo antico4. 4. Per una lettura più “continuista” del fenomeno ascetico vedi Finn 2009. 14 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 Se si guarda a un (qualunque) libro di storia delle religioni – ammesso che si trovi una parte dedicata a questo argomento – si riscontra un impiego disinvolto dei termini “ascetismo” e “monachesimo”, in genere con una predilezione per la prima parola, perché meno connotata della seconda, la quale è perlopiù intesa come precipuamente cristiana e buddhista. Limitatamente alla storia del fenomeno nell’Occidente latino, non sono mancate, tuttavia, importanti eccezioni. È certamente il caso di Friedrich Prinz, il quale, nella premessa a un’antologia di saggi sul monachesimo altomedievale pubblicata nel 1976, nota come, per un’eteronomia dei fini, il programma ascetico di separazione dal mondo messo in atto dai “pionieri” della vita monastica diventa invece, grazie all’organizzazione gerarchica, un elemento fondamentale della vita del “secolo”. Prinz ritiene che questo mutamento si metta in azione nel corso del VII secolo, quando la scrittura agiografica appare come la legittimazione morale della potenza aristocratica e il bagaglio concettuale ellenistico-romano è messo a servizio della scrittura teologica. Per il periodo precedente, ossia la tarda antichità, la forma di vita monastica sembrerebbe invece basarsi su una “controcultura”5. Torniamo al libro di Jenal. Come abbiamo già detto, stando al titolo, la prima attestazione citata risale alla metà del II secolo. Si tratta di una fugace citazione tratta dalla Prima apologia dei cristiani di Giustino6. Jenal la riporta in nota e si limita ad aggiungere: «Die ältesten Belege für die Existenz asketisch lebender – allerdings in historischer Anonymität noch verharrender – Personen Italiens weisen auf Rom und reichen bis zur Mitte des 2. Jahrhunderts zurück» (Jenal 1995: I, 29). Se questa è la prima menzione, per quanto anonima, di una forma di vita ascetica a Roma, Jenal avrebbe almeno dovuto accennare al grande (e studiato) tema della verginità fra i seguaci di Gesù dei primi secoli, ma questo avrebbe comportato contravvenire a quanto detto nell’introduzione a proposito della non intenzione di affrontare il problema dell’ascetismo e delle pratiche connesse, come quella della continenza, in termini di storia culturale e religiosa. Nelle righe successive passa dunque ai primi asceti di cui si conosce il nome e che, anche in questo caso, sarebbero vissuti a Roma: il presbyter Novaziano e la vergine martire Agnese. Novaziano, morto nel 258, avrebbe dato prova di ascetismo perché decise di abbandonare temporaneamente il suo ufficio di presbitero per poter vivere indisturbato e lontano dal mondo. Il suo De bono pudicitiae, un trattato sulla castità in cui si affronta il difficile rapporto tra verginità e matrimonio, tradirebbe la sua vicinanza all’ideale ascetico. Jenal è il primo – e forse l’unico – a collegare il nome di Novaziano alla storia dell’ascetismo. Di lui sappiamo molto poco. Il luogo e la data di nascita 5. Prinz 1976, ma già Prinz 1963. Curiosamente, Jenal non fai mai riferimento esplicito a queste considerazioni del proprio maestro. 6. Si tratta di Ius., Apolog. I,15,6. Inspiegabilmente Jenal cita il testo in latino. 15 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 sono sconosciuti, ma è certo che scambiò lettere con Cipriano di Cartagine (tre sono giunte attraverso l’epistolario di quest’ultimo), dalle quali apprendiamo che Novaziano era noto per essere di tendenza rigorista, cioè poco o per nulla incline a riammettere tutti i lapsi nella comunità cristiana. Ed è per questo motivo che nell’elezione all’episcopato di Roma si oppose a Cornelio, considerato molto più moderato. Entrambi vennero eletti, ma l’uno fu considerato legittimo, mentre l’altro, Novaziano, scismatico. Il De bono pudicitiae, tramandato senza nome dell’autore dai manoscritti contenenti gli scritti di Cipriano, si rivolge a una comunità dalla quale Novaziano è momentaneamente assente. Ma, mentre gli altri suoi trattati sono motivati da una richiesta o da una contingenza specifica, qui la ragione della composizione non è chiara, anche se l’autore si dichiara interessato al bene di tutti i suoi corrispondenti, che siano virgines, continentes e sposati (in matrimoniis). L’uditorio è dunque abbastanza ampio, e d’altronde le sue esortazioni e i suoi avvertimenti sono abbastanza scontati – per non dire abusati – così come gli esempi biblici che riporta. È difficile dire che il contenuto del De bono pudicitiae apporti qualcosa di nuovo rispetto a quanto si legge già in Cipriano (e Tertulliano). Ma né Cipriano né Tertulliano sono abitualmente additati come i “primi” asceti del cristianesimo. Tutti e tre invece condividono una preoccupazione propria dei loro tempi, ossia la possibilità o meno di riammettere nella comunità dei credenti in Gesù coloro che avevano sacrificato agli dei pagani7. Decisamente meno problematico è il caso della martire Agnese, che diventa, effettivamente, un modello di ascetismo femminile nella Roma tardoantica, tuttavia non certo nel momento (peraltro ignoto) del martirio. L’inventio di Agnese si deve infatti al vescovo di Roma Damaso e ad Ambrogio, che gli dedicano alcuni versi8. Entrambi, com’è noto, intraprendono una promozione dell’ascetismo cristiano, ma cronologicamente siamo ormai in pieno IV secolo, quando anche in Occidente è giunta l’eco delle imprese ascetiche dal Mediterraneo orientale. La scelta di questi due esempi è dunque discutibile, ciò nondimeno risulta coerente rispetto alla decisione preliminare presa da Jenal. Se, secondo Jenal, ascetismo e monachesimo hanno sempre avuto una storia intrecciata, allora i casi di Agnese e Novaziano, per quanto sparuti, giustificano una tendenza che è antica. Così facendo però si corre il rischio di operare qualche forzatura, come nel caso di Novaziano, o di avallare storicamente la rivendicazione genealogica di Damaso e Ambrogio. conclusioni Nonostante queste criticità, venticinque anni dopo la pubblicazione Italia ascetica atque monastica resta indubbiamente un’opera di riferimento importante, ma da utilizzarsi, soprattutto, come punto di partenza, come un ricco contenitore a cui 7. Per un’introduzione a Novaziano vedi ora Marcos 2019. 8. Sul culto di Agnese vedi Milazzo 2015, mentre su Damaso promotore dell’ascetismo vedi Alciati 2021. 16 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 attingere dati preziosi per nuove ricerche e per fornire risposte nuove a quel Kontinuitätsproblem che lo stesso Jenal menziona nella sua introduzione. È proprio in riferimento al monachesimo e all’ascetismo che, forse, la storiografia del nuovo secolo ha dato un contributo significativo alla risoluzione del problema continuità/ discontinuità tra tarda antichità e alto medioevo. Per decenni, i manuali di storia del cristianesimo e di storia del monachesimo hanno proposto una logica narrativa lineare che leggeva la storia della vita monastica nell’Occidente latino come un fenomeno religioso che sarebbe emerso nel deserto selvaggio dell’Egitto e della Palestina del IV secolo, per poi debordare a ovest, raggiungendo l’Italia, la Gallia, la Spagna e infine le isole britanniche. Contro questo approccio, molti studiosi hanno più recentemente sostenuto che il passato monastico non dovrebbe essere studiato come una catena continua di tentativi coordinati di realizzare un unico ideale astorico, ma piuttosto come una situazione in cui esistevano contemporaneamente molti ideali di questo tipo, molti tentativi diversi di metterli in pratica e molti centri di diffusione. Questo approccio decostruttivo ha incoraggiato gli specialisti a riaprire casi che da tempo considerati chiusi: basti pensare alla già menzionata presunta unicità e novità del monastero o alla storia delle regole monastiche (Diem 2021: 31-34). Qualcuno ha così proposto, proprio come per la storia del cristianesimo antico in generale, di usare la forma plurale della parola, “monachesimi”, proprio come si preferisce ora parlare di “cristianesimi” per i primi tre secoli dell’era volgare. Molto recentemente la parola “monachesimi” è assurta a fasti isperati sino a poco tempo fa, campeggiando nel titolo di un libro particolarmente utile per questa nostra riflessione (Vanderputten 2020). Quasi una guida per orientarsi fra le molte linee di ricerca monastica degli ultimi anni, il libro di Steven Vanderputten mantiene, nonostante la novità del titolo, una struttura convenzionale, non disdegnando una trattazione del problema monastico su base regionale (Italia, Gallia, penisola iberica…); tuttavia, sensibilmente diverso è l’approccio rispetto a quello di Jenal. A proposito di Gregorio Magno come fonte per la ricostruzione del monachesimo italico, ad esempio, si legge: Whilst living in Rome, Gregory also witnessed many forms of monastic community life there, some of which were dedicated to prayer and contemplation, whilst others took up an active role in urban society as hospices, pastoral centres, and such likes. […] Gregory’s account […] functioned first and foremost as a means to express the author’s preference for a tightly organized, communal forms of monastic life […]. In his letters and the Dialogues, the pope fulminates against wandering monks and warns that some household ascetics end up losing their commitment (Vanderputten 2020: 25-26). Sempre nel 2020 vengono anche pubblicati i due volumi della Cambridge History of Medieval Monasticism in the Latin West (Beach, Cochelin 2020). Anche in questo 17 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 caso, nonostante si tratti di un’opera enciclopedica con un impianto tradizionale, le due curatrici propongono di invertire sensibilmente la rotta, precisando che, nonostante il titolo, «there was no fixed border in the Roman Empire between the Greek East and the Latin West, and one cannot understand Western monasticism without appreciating and studying its Eastern origins» (Beach, Cochelin 2020: I, 10-11). Ciò nonostante, «as early as the sixth century, and certainly by the eight century, the differences between Greek and Latin forms of monasticism had become sufficiently significant to justify confining the focus of the rest of the book to the Latin world» (Beach, Cochelin 2020: I, 11). Queste poche frasi sono sufficienti per comprendere l’impianto dell’opera, e in modo particolare quello del primo volume, che arriva sino all’XI secolo. La parola d’ordine, per così dire, è “varietà”. Anche qui, non certo a caso, l’archeologia e il rapporto conflittuale fra ascetismo e monachesimo hanno un ruolo rilevante. Com’è noto, gestire la pluralità è certamente più difficile che riconoscere l’esistenza di una norma dominante o di una storia evolutiva (e inesorabile) di un fenomeno religioso. Jenal, con la sua Italia ascetica atque monastica, ha mostrato chiaramente che la pluralità delle esperienze e delle pratiche è un tratto saliente del monachesimo italico, ma l’interpretazione fenomenologica del monastic landscape che ci restituisce è quella di un progressivo convergere verso una normalizzazione che ha in Gregorio Magno il suo culmine. Questo è difficilmente contestabile se si attribuisce un peso preponderante (se non unico) alla documentazione scritta, ma se si vuole guardare al fenomeno da un punto di vista geografico tutto questo pare oggi decisamente meno convincente. 18 Núm. 20 (Tardor 2022), 6-21 | ISSN 2014-7023 Bibliografia Alciati, Roberto, 2011. “L’ascetismo romano fra Damaso e Siricio”, Hieronymus Romanus. Studies on Jerome and Rome on the Occasion of the 1600th Anniversary of his Death, Ingo Schaaf (ed.), Turnhout, Brepols: 237-258. Beach, Alison I., Cochelin, Isabelle, 2020 (eds.). 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