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sociologia
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Migrazione, donne, diritti
Orizzonti di pace per il mondo contemporaneo
A cura di
Uliano Conti e Maria Caterina Federici
Il presente volume è stato realizzato con il contributo del
Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale
1a edizione, ottobre 2021
© copyright 2021 by
Carocci editore S.p.A., Roma
Realizzazione editoriale: Studio Agostini, Roma
Finito di stampare nell’ottobre 2021
dalla Litografia Varo (Pisa)
isbn 978-88-290-1202-2
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice
Prefazione. Il doppio diritto dei migranti: donne e migrazioni
di Maria Caterina Federici e Uliano Conti
1.
1.1.
Le migrazioni tra contenimento e processi di integrazione: uno
sguardo all’universo femminile “invisibile”
di Francesca Cubeddu ed Emiliana Mangone
Le politiche migratorie europee e italiane tra contenimento e
integrazione
9
13
13
1.1.1. Le politiche europee per le migrazioni / 1.1.2. Le politiche italiane dagli anni
Novanta a oggi
1.2.
L’analisi dei processi d’integrazione a livello nazionale e locale
20
1.2.1. Analisi dei progetti nazionali / 1.2.2. Analisi dei progetti locali
1.3.
Uno sguardo all’universo femminile “invisibile”
Riferimenti bibliografici
2.
Cambiamento climatico e femminilizzazione. Un’analisi delle
nuove migrazioni internazionali a partire dalla prospettiva della
sociologia del rischio
di Elena Savona
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
Introduzione alla «società mondiale del rischio»
Breve riflessione sociologica attorno al tema delle migrazioni
forzate e del cambiamento climatico
Disuguaglianza e vulnerabilità: verso una «metamorfosi del
mondo»
Donne migranti: quale ruolo nella società contemporanea?
29
32
35
35
36
38
41
6
indice
2.5.
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
3.
Textual network analysis e Twitter: principali riflessioni sulla
violenza di genere
di Emma Zavarrone, Maria Gabriella Grassia, Marino Marina,
Rocco Mazza e Nicola Canestrari
3.1.
3.2.
Premessa
Espressioni di odio e violenza di genere
43
44
47
47
48
3.2.1. Definizione di violenza di genere / 3.2.2. Violenza di genere nei media / 3.2.3.
Violenza di genere all’interno degli spazi online
3.3.
Il caso studio: la keyword “femminicidio”
52
3.3.1. Nota metodologica / 3.3.2. Risultati
3.4.
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
58
58
4.
Donne migranti vittime di tratta e traffico. La vulnerabilità di
genere
di Isabella Corvino
61
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
4.5.
Migrazioni: target e questioni
Tratta e traffico
Donne migranti vittime di tratta
Mancanza di scelta
Tratta e diritti
Riferimenti bibliografici
61
63
64
66
68
70
5.
Le storie che contano. Scrivere e raccontare le migrazioni dal
Vicino Oriente
di Raffaele Federici
73
Gli spazi e le parole della migrazione
L’assenza della routine, il vortice dello straordinario
Ri-pensare le parole
Riferimenti bibliografici
73
77
80
83
5.1.
5.2.
5.3.
indice
6.
6.1.
6.2.
6.3.
6.4.
6.5.
7.
7.1.
7.2.
7.3.
7.4.
Imago migrantis: media, algoritmi e rappresentazioni. Il caso
italiano
di Bianca Rumore
Premessa
La fabbrica della paura: la costruzione mediatica del senso d’insicurezza
Frame narrativi
Social media e bias algoritmici
Conclusioni: verso un Umanesimo digitale?
Riferimenti bibliografici
Vita sine proposito vaga est. Per uno sviluppo umano delle donne migranti dal principio alla fine
di Alba Francesca Canta
Migrazione e capabilities: tra complessità migratoria e sviluppo
umano
La complessità migratoria femminile nei servizi di cura
Donne migranti: un ponte di incontro tra antiche e nuove origini
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
7
85
85
86
91
94
98
99
101
101
106
110
113
116
8.
Immigrazione e servizi sociali. Le radici e le linee di sviluppo
di Francesca Greco e Roberto Veraldi
119
8.1.
8.2.
Premessa
Welfare di tutti, welfare per tutti: tracce storico-politiche del
ruolo dell’assistente sociale
Metodologia
Risultati
Le radici: dagli anni Venti agli anni Settanta
Servizi sociali e immigrazione
119
8.3.
8.4.
8.5.
8.6.
120
125
127
130
132
8.6.1. Cluster 1: lo sviluppo economico / 8.6.2. Cluster 2: il disagio psichico / 8.6.3. Cluster
3: il trauma / 8.6.4. Cluster 4: diritti umani / 8.6.5. Cluster 5: welfare etnocentrico / 8.6.6.
Cluster 6: accesso alle cure / 8.6.7. Cluster 7: politiche sociali / 8.6.8. La rilevanza dei temi
nel tempo
8.7.
Conclusioni
Riferimenti bibliografici
139
142
8
indice
9.
Donne migranti ai domiciliari: il lavoro di cura in pandemia
di Mirco Di Sandro
145
9.1.
9.2.
Premessa
Per una sociologia della cura, tra crisi del welfare e nuovi equilibri familiari
Nozioni e caratterizzazioni del lavoro domestico in Italia
Lavoro domestico: migrante, nero, subalterno
Nella pandemia: scacciate e sanate
Conclusioni sul medio corso della crisi pandemica
Riferimenti bibliografici
145
9.3.
9.4.
9.5.
9.6.
10.
10.1.
10.2.
10.3.
10.4.
Migranti e povere, tra reietti e indecorosi nella Roma capitale.
Contese spaziali e interventi solidali all’Esquilino ai tempi del
Covid-19
di Vincenzo Carbone
Premessa
Roma in pandemia. Cosa succede in città
Come si produce il luogo Esquilino
L’Esquilino che diffida, tra retoriche antidegrado e pratiche securitarie
10.5. Il residente tra rappresentazione dell’alterità e domanda di città
museale
10.6. Donne migranti e senza fissa dimora: geografie del lockout, tra
disorientamento e solitudine
Riferimenti bibliografici
146
148
150
155
157
159
163
163
165
168
171
172
175
180
9
Donne migranti ai domiciliari:
il lavoro di cura in pandemia
di Mirco Di Sandro*
9.1
Premessa
Nella letteratura sulle migrazioni contemporanee, il protagonismo femminile si è affermato come caratteristica principale sia nell’ambito dei processi di mobilità (Castles,
Miller 1993; Vianello, 2014; Tudisca, Pelliccia, Valente, 2019) che all’interno degli studi
sulla segmentazione del mercato del lavoro (Heyzer, Lycklama à Nijeholt, Weerakoon
1994). A partire dagli anni Novanta, la quota di donne che autonomamente ha raggiunto l’Europa ha superato quella degli uomini, assumendo un ruolo ben definito nella divisione sociale del lavoro dei paesi di destinazione. Concentrandosi in particolare
nel settore dei servizi personali e domiciliari, e in generale nei lavori a più bassa qualifica e remunerazione, l’occupazione delle donne migranti ha messo in luce i processi di
differenziazione, intersezionalità e discriminazione che sottendono l’economia globale
(Sassen, 1998; Zanfrini, 2000; Andall, 2000), rianimando il dibattito intorno al lavoro
di riproduzione e cura come imprescindibile presupposto dello sviluppo capitalistico
(Redini, Vianello, Zaccagnini, 2020; Chistè, Del Re, Forti, 2020).
La casa, o meglio il domicilio altrui, la riproduzione e il welfare domestico rappresentano il contesto relazionale, l’oggetto e il luogo principale del lavoro di cura delle
migranti in Italia (per molte anche il luogo di vita). Proprio intorno alla dimensione
domestica, intesa come abitare, educare, curare e contribuire alla riproduzione della
società, si centralizza il discorso pubblico nei mesi di crisi pandemica da Covid-19.
Con le misure adottate per contrastarne gli effetti, il “restate a casa” è divenuto l’imperativo vincolante della vita quotidiana, che ha eletto l’abitare a sola dimensione esistenziale possibile: coprifuoco e restrizioni all’uscita hanno esteso i tempi di permanenza nella sfera domestica; il 40% dei lavoratori, secondo Eurofound, ha dovuto trasporre la propria postazione dentro casa (remotizzazione) faticando a conciliare spazi
e tempi del lavoro e del non lavoro; milioni di studenti hanno poi condotto saltuarie
sessioni didattiche a distanza, facendo di una “cameretta” il personale ambito di educazione, formazione e socializzazione. Condurre le proprie vite, o parti di essa, dentro
un perimetro circoscritto ha significato ripensare abitudini, posture e relazioni. Con
le più note conseguenze del caso e quelle più oscure, occultate e taciute: le donne rappresentano ancora le principali vittime sacrificali.
* Sapienza Università di Roma.
146
mirco di sandro
Su questi presupposti ricorre oggi la nozione di società della cura, alludendo a
una società post-industriale costretta a riconoscere di essere fondata sulla centralità
produttiva del lavoro cosiddetto “riproduttivo” perché ha sempre più bisogno di cure
per far fronte al disastro sociale – in termini di strutturazione delle disuguaglianze
(Gallino, 2000; Stiglitz, 2013) – che l’evoluzione del capitalismo neoliberale ha determinato. L’emergenza Covid-19, in questo processo di stampo differenziale e subalterno (Mezzadra, Neilson, 2014; Lazzarato, 2013), ha contributo a sostanziare condizioni generalizzate di insicurezza, vulnerabilità ed esclusione sociale preesistenti.
Questo capitolo indaga una dimensione specifica della cura, quella che attiene
alle trasformazioni del lavoro domestico – prestato “per conto terzi” in un mercato
particolarmente informale, femminilizzato e razzializzato – in tempi in cui l’accentramento delle vite verso la sfera domestica ha favorito una riconfigurazione
delle presenze, dei legami e degli equilibri interni alla casa.
9.2
Per una sociologia della cura, tra crisi del welfare
e nuovi equilibri familiari
Il sopraggiungere della pandemia globale ha reso più tangibili le conseguenze di
una crisi sistemica delle società capitalistiche che dura da decenni. Prendendo a
prestito le parole di Harvey (2010, p. 9) a proposito della Crisi della modernità,
si può affermare che dagli anni Settanta «l’emergere di più flessibili modi di accumulazione del capitale e una nuova fase di “compressione spazio-temporale”
nell’organizzazione del capitalismo» hanno imposto la ridefinizione dei “tradizionali” equilibri sociali, dunque economici, politici, culturali («forme culturali
postmoderniste» le definisce l’autore).
Vecchie e nuove disuguaglianze, processi di impoverimento, esclusione sociale
ed espulsioni rappresentano fenomeni nei quali le scienze sociali si imbattono da
tempo, non senza distinzioni interpretative ed esplicative. Su un tessuto sociale globalizzato e iperdifferenziato si è innestata un’ulteriore crisi, di carattere pandemico,
che seppur non immediatamente connotabile sotto il profilo economico, sta avendo
e, continuerà ad avere, ricadute ingenti sul benessere di individui, famiglie e società.
Immancabilmente sarebbe necessario discutere dal principio l’istituzione e
il funzionamento del sistema nazionale di welfare, coscienti dell’esperienza fallimentare nel perseguire il suo obiettivo primario: un sistema a gestione mercantile,
selettivo ed esclusivo, tende a perseguire la massimizzazione del profitto anziché
preservare il benessere dei suoi destinatari.
Oggi più che mai, ad un sistema che tutto subordina all’economia del profitto, dobbiamo
contrapporre la costruzione di una società della cura, che sia cura di sé, dell’altro, dell’ambiente, del vivente, della casa comune e delle generazioni che verranno (Società della cura, 2020).
9. il lavoro di cura in pandemia
147
Nei mesi vissuti tra paure e confinamenti si è affermato un modo di concepire la
contemporaneità che individua nel lavoro di cura e la sua tutela la chiave di volta
per l’uscita dalla crisi sistemica. Tale riflessione affonda le sue radici nei primi
studi femministi del secolo scorso e non è un caso che siano le donne a riconoscerne prioritariamente il peso e la rilevanza sociale: «la cura è al centro di una
serie di analisi che osservano da vicino un intricato e contraddittorio groviglio di
compiti, ruoli, obblighi ma anche di poteri, desideri e sentimenti, legami incarnati, al centro dei quali ci sono le donne» (Morini, 2020).
L’impostazione alla base del pensiero femminista mette a tema la dialettica
tra lavoro produttivo e riproduttivo, evidenziando l’inscindibile legame tra i due
(Chistè, Del Re, Forti, 2020). L’uno è immediatamente funzionale allo sviluppo
delle società capitalistiche perché rappresenta il suo impulso primario attraverso
l’impiego continuo di forza lavoro. Vite umane, queste ultime, che necessitano
di cure particolareggiate affinché possano preservare il proprio potenziale produttivo: hanno bisogno di quel lavoro riproduttivo che non conosce orari e turni, affidato alla divina funzione femminile (partorire, nutrire, crescere, educare).
L’ondata pandemica ha favorito il recupero di quello che Morini (2020) definisce «femminile curante», di una società che elegge – tristemente – a proprie
testimonials infermiere e dottoresse eroine, docenti missionarie, mamme inarrestabili dedite alla costante conciliazione tra un lavoro produttivo remotizzato,
poco smart, e un lavoro familiare sempre più faticoso.
Ciò si inscrive all’interno del processo storico di femminilizzazione del lavoro (Morini, 2010, p. 116) che «non descrive soltanto l’espansione quantitativa
delle donne sul mercato del lavoro, ma anche la messa in produzione dell’attitudine alla relazione e alla cura, storicamente più marcate tra le donne, addestrate per secoli al ruolo riproduttivo». Si tratta di uno sviluppo del capitalismo
contemporaneo in chiave di soggettivazione e individualizzazione del lavoro,
che apre uno spazio nuovo alle donne all’interno delle logiche di accumulazione flessibile e produzione di valore. Uno spazio denso di contraddizioni che si
afferma nella traslazione di mansioni, competenze e ruoli dalla sfera domestica
a quella di mercato: il lavoro di cura è “messo a valore” e mercificato (Zelizer,
2009; Barbagallo, Federici, 2012; Del Re, 2020), professionalizzato e assegnato
al settore dei servizi di welfare.
Questa impostazione si è rivelata particolarmente debole con il sopraggiungere della pandemia. Le istituzioni pubbliche sono crollate sotto la portata del fenomeno epidemiologico, compromettendo la tenuta del sistema sanitario, dell’assistenza e della salute pubblica nel suo complesso. L’emergenza si è subito situata nei
comparti centrali del welfare nostrano, con i focolai nelle rsa, le “emergenze posti
letto” e le “crisi delle terapie intensive”, la faticosa “ripartenza” delle scuole. Tali
effetti sono riconducibili alla riconfigurazione neoliberale del sistema di welfare
(new public management-sussidiarietà-privatizzazione) che dalla sua dimensione
statuale (State) si è progressivamente decentrato a favore di un mix di attori, am-
148
mirco di sandro
biti e competenze, cedendo a terzo settore e privato sociale, community e famiglie
ogni onere in materia di intervento di politica sociale (Ferrera, 2008; De Leonardis, 1998; Kazepov, Barberis, 2013). L’imposizione di una gestione manageriale e
competitiva (Ascoli, Ranci, 2002), condizionata dai ripetuti tagli alla spesa pubblica e dalla razionalizzazione delle risorse, si è rivelata incapace di fronteggiare la
differenziazione delle domande di prestazione sociale, orientando il suo operato in
senso selettivo e disciplinante: si riserva il criterio della scelta e della valutazione dei
meritevoli e non meritevoli di vivere, di essere soccorsi, assistiti e curati.
Con la pandemia, sulla famiglia e nella sfera domestica sono ricadute le principali responsabilità in tema di salvaguardia della salute, tutela degli equilibri socio-psicologici, assistenza, educazione e socializzazione dei membri: una forma
autosussistente di welfare familiare che si impone con irruenza su un modello locale, quello mediterraneo, già particolarmente decentrato sull’istituzione-famiglia e sul ruolo della donna di lavoratrice domestica e madre. A renderlo possibile è la partecipazione ancora limitata della componente femminile al mercato del
lavoro formale (nel 2019, le donne rappresentano il 42% degli occupati, a fronte
della media europea del 46%) che risulta persino aggravata dal sopraggiungere
dell’emergenza. Nei mesi di lockdown istat registra un calo dell’occupazione
femminile del 4,7% rispetto all’anno precedente, come effetto della significativa presenza delle donne proprio nel settore dei servizi, il più colpito dalla crisi.
L’assunzione problematica del distanziamento sociale a mezzo per preservare la
salute pubblica ha indotto un processo di nuclearizzazione e segregazione domestica delle vite che ha comportato una complessiva ridefinizione degli equilibri e delle
relazioni di cura dentro e fuori la famiglia. All’esterno, ricongiungersi ai propri cari
lontani o far visita ad amici e parenti più vicini non è stato possibile per lunghi mesi,
anche dopo il lockdown, e in molti casi non lo sarà più. Dentro casa, invece, le relazioni di cura sono state ridiscusse in virtù del maggiore affollamento e della prolungata
permanenza dei membri, della condivisione forzata degli spazi e della conciliazione
esasperata dei tempi del lavoro produttivo, riproduttivo e del non lavoro. La densa
permanenza ha infatti inciso sull’aumento dei carichi del lavoro domestico (si sporca
e si consuma di più), degli oneri dell’educazione e dell’assistenza ai membri, difficilmente conciliabili con i ritmi dell’occupazione di mercato.
9.3
Nozioni e caratterizzazioni del lavoro domestico in Italia
Il lavoro di cura rappresenta un universo eterogeneo di attività, relazioni e ambiti di impiego finalizzati alla riproduzione della società. Si è inteso fin qui nella
sua più estesa portata semantica, come quell’insieme di compiti e mansioni che si
esplicano entro due sfere complementari della vita familiare: quella che attiene alle
cure personali dirette, come l’assistenza a bambini, anziani e malati, e quelle indi-
9. il lavoro di cura in pandemia
149
rette, che non coinvolgono immediatamente la relazione personale, ma agiscono
sull’ambiente e la sua tutela (pulire, cucinare, riassettare) sostenendo i presupposti
necessari per la cura della persona. L’uno si configura in letteratura come lavoro
di relazione (Duffy, 2011), l’altro come lavoro domestico (Razavi, 2007). Entrambi
possono essere svolti fuori e dentro il mercato dei servizi e del lavoro. Nel primo caso ci si riferisce al lavoro familiare (Delphy, 2020), non remunerato e su base volontaria, prestato “per amore o per forza” (Morini, 2010; Carbone, 2018) nei confronti
dei propri cari; nel secondo caso si intendono quelle attività di cura monetizzabili
e prestate “per conto terzi”, a cui si attribuisce, più o meno formalmente, uno status
e un riconoscimento professionale.
Questa riflessione si focalizza su una fattispecie del lavoro di cura remunerato
(paid care work lo definisce ilo) e contempla quelle professioni che esercitano il
proprio operato presso abitazioni diverse da quelle del prestatore, includendo sia
il lavoro di relazione che quello specificatamente domestico. Si fa propria la definizione di inps, che lo descrive come un’«attività lavorativa continuativa per le
necessità della vita familiare del datore di lavoro come ad esempio colf, assistenti
familiari o baby-sitter, governanti, camerieri, cuochi ecc.»1.
In Italia sono 850.000 i lavoratori domestici regolarmente assunti nel 2019.
Si stima però che siano circa 2 milioni quelli realmente in forze (Zini, 2020). Un
esercito di colf, badanti e baby-sitter che è cresciuto esponenzialmente negli ultimi
decenni, anche se le statistiche faticano a tenerne traccia, destinato ad aumentare
negli anni a venire per via del rapido invecchiamento della popolazione e del progressivo ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Il settore si caratterizza per una netta segregazione di genere (753.325 lavoratrici a fianco di 95.662 lavoratori) e «si conferma oggi come un luogo cruciale del
riprodursi dell’asimmetria di potere esistente tra uomini e donne» (Scrinzi, 2004,
p. 109). Una peculiarità è anche la netta incidenza di occupate straniere, il 70,3%
del totale. Tale convergenza si definisce con l’arrivo dei primi flussi migratori degli
anni Settanta e Ottanta (Pugliese, 2009; Colucci, 2018), quando capoverdiane e
filippine, insieme alle lavoratrici originarie del Corno d’Africa e del subcontinente
indiano, diedero un significativo impulso alla diffusione del lavoro domestico, che
sino ad allora rappresentava un’attività interna alla famiglia (alle reti parentali e
amicali) più che un’occupazione monetizzabile.
La forte connotazione migrante (Raimondi, Ricciardi, 2004) è attribuibile,
come si vedrà, alla natura differenziale e subalterna del processo di inclusione degli
stranieri in Italia (Saraceno, Sartor, Sciortino, 2013; Mezzadra, Neilson, 2014), che
si esplica nel dominio della funzione produttiva-riproduttiva del confine. Nella dicotomia dentro/fuori si attribuiscono status e riconoscimenti specifici alle soggettività migranti che, mentre individualizzano percorsi, risorse e identità, subiscono
gradazioni diseguali di inclusione nelle società ospitanti. Il confine non è neces1. https://www.inps.it/pages/standard/45671.
150
mirco di sandro
sariamente quello nazionale che assegna l’etichetta stessa di “straniero”, piuttosto
quell’insieme di barriere interne, materiali e simboliche, che dividono gli ambiti
della socializzazione nel quotidiano. L’ambiente domestico, secondo questo discrimine interpretativo, si configura come uno spazio intimo e privato in grado di
accogliere, offrendo protezione, e nascondere allo stesso tempo ciò che è indesiderabile al mondo esterno. In questo senso l’accesso al lavoro domestico ha rappresentato, almeno per i primi flussi migratori in entrata, un dispositivo strumentale volto a preservare il benessere delle famiglie (fornendo le cure necessarie) e a garantire
l’ordine sociale preesistente (mitigando l’impatto dei “nuovi arrivi”). La riconfigurazione degli assetti familiari e domestici ha favorito la subordinazione formale e
sostanziale delle lavoratrici migranti, sia attraverso il confinamento e la relegazione spaziale, sia mediante la marginalizzazione all’interno delle nuove gerarchie di
ruolo della casa, facendo della collaboratrice domestica una figura alle dipendenze
dell’azienda-famiglia, interna ma subalterna, la cui presenza è legittimata attraverso meccanismi fiduciari, spesso informali e, pertanto, precarizzanti e ricattatori.
I dati dell’Osservatorio nazionale domina suggeriscono numerosi elementi di
dettaglio relativamente alla componente datoriale in Italia, composta da donne e uomini in età piuttosto avanzata (66 anni in media), pur non coincidendo sempre con
i beneficiari di assistenza. La relazione fiduciaria tra le controparti rappresenta una
delle caratteristiche fondamentali di questa tipologia di rapporto, in quanto «il luogo di lavoro è l’abitazione del datore e l’oggetto del rapporto di lavoro è proprio la
cura di ciò cui la famiglia tiene di più, la casa o gli affetti stretti» (domina, 2020,
p. 55). Ciò si evince anche dal fatto che il 74% dei contratti ha una durata media di
oltre cinque anni. La co-residenza tra datore e lavoratrice rappresenta invece una tipicità assoluta del settore, che in Italia riguarda un terzo delle occupate, straniere
nella quasi totalità dei casi (91%). Questa tipologia è senza dubbio la più vulnerabile,
perché soggetta a diretto controllo, a forme plurali di sfruttamento, subordinazione
e assoggettamento delle vite. Uno studio cespi-fieri lo definisce «asservimento
strategico» (Castagnone et al., 2007) perché vincolato alla necessità di avere un alloggio, un lavoro e un rifugio dal proprio status di irregolarità: «spesso queste donne
preferiscono vivere nella stessa casa del loro datore di lavoro, alcune volte è indispensabile alle loro mansioni, altre volte anche per loro rappresenta la possibilità di poter
risparmiare i soldi dell’affitto della casa, o nel caso in cui non abbiano ancora tutti i
documenti in regola è un modo per evitare i controlli» (Pugliese, 2009, p. 36).
9.4
Lavoro domestico: migrante, nero, subalterno
Il lavoro domestico in Italia è per lo più nero e occultato, lavoro migrante (Raimondi, Ricciardi, 2004) e razzializzato (Balibar, Wallerstein, 1988). Nella letteratura
internazionale, il caso italiano si inscrive in una transizione storica dal family model
151
9. il lavoro di cura in pandemia
of care, il modello familiare della cura, al migrant in the family model of care (Bettio,
Simonazzi, Villa, 2006). Una formula additiva che si sostanzia negli schemi “tradizionali” dell’organizzazione familiare, con l’aggiunta indifferente e poco onerosa
del “migrante”: «una soluzione che consente alle famiglie italiane di mantenere il
medesimo modello di divisione sessuale del lavoro domestico e di cura, e di contenerne i costi, poiché il lavoro svolto da donne e uomini migranti è ancora caratterizzato da bassi salari per lunghi orari di lavoro» (Busi, 2020, p. 16).
tabella 9.1
Lavoratori domestici assicurati all’inps per cittadinanza (1972-2019)
Totale
Stranieri su totale
(%)
Stranieri
Italiani
1972-82
56.037
948.265
1.004.302
5,6
1991*
35.740
181.096
216.836
16,5
1996*
126.203
124.293
250.496
50,4
1998*
117.099
120.978
238.077
49,2
2002*
419.808
132.261
552.069
76
2013*
755.996
197.373
953.369
79,3
2019
596.964
252.023
848.987
70,3
*Anni in cui si registrano gli effetti delle sanatorie.
Fonte: i dati dal 1972 al 2002 sono ripresi da Catanzaro, Colombo (2009, p. 19); i più recenti si riferiscono a
elaborazioni proprie su dati inps.
La presenza di lavoratrici straniere è aumentata in modo progressivo sin dalla fine
degli anni Settanta, superando di fatto (almeno formalmente) la quota di occupate italiane a partire dalla metà degli anni Novanta (cfr. tab. 9.1). A fronte di una
significativa diminuzione delle autoctone (–30% tra il 1991 e il 1996), cresce progressivamente la presenza delle straniere, che nel 1996, per effetto della cosiddetta
“sanatoria Dini”, superano di qualche migliaio le italiane. Come notano Catanzaro
e Colombo (2009, p. 18), «lungi dal limitarsi a compensare la fuoriuscita delle italiane, le straniere hanno trascinato con sé una rapida crescita dell’offerta», tanto
che, alle soglie del nuovo millennio, la forza lavoro complessiva nel settore risulta
pressoché raddoppiata: più di 7 donne su 10 sono migranti.
Valicando la dimensione puramente quantitativa del fenomeno, è opportuno
soffermarsi sull’asimmetria sostanziale che investe la “qualità” dei rapporti e che
assegna alle lavoratrici migranti status, ruoli e condizioni precarie e subalterne. A
poco meno di trent’anni dalla pubblicazione degli esiti di una ricerca sul lavoro
domestico a Milano (Ambrosini, Lodigiani, Zandrini, 1995), la nozione di “inte-
152
mirco di sandro
grazione subalterna” risulta conservare una significativa rilevanza. In prima istanza
coglie il carattere a-conflittuale del processo di integrazione, che avviene in modo
apparentemente pacifico perché sotteso, in senso funzionale, alle esigenze di segmenti specifici di mercato: è l’offerta di lavoro che contribuisce alla canalizzazione occupazionale dei migranti nei settori più marginali dell’economia, assegnando loro un “posto” defilato e subordinato rispetto al nucleo pulsante della società
ospitante. Tale condizione, come sostiene Zanfrini (1998, p. 150), «rende estranei all’esperienza di partecipare a una comunità di lavoro, e tende a circoscrivere i
rapporti con la società italiana all’ambito della famiglia presso la quale si lavora e
eventualmente alle istituzioni religiose che fungono da punto di riferimento per
molteplici necessità». L’integrazione subalterna, dunque, elegge spazi materiali e
simbolici di riproduzione di un distanziamento sociale (casa, famiglia, “agenzie facilitatrici”) funzionale a preservare gli equilibri della società “accogliente”, creando
di fatto comunità separate ma dipendenti, isolate e autoreferenziali.
Ciò aggiunge un ulteriore tassello all’analisi dei processi di segregazione che
agiscono all’interno del settore, dispiegando l’accezione migrante del lavoro (Raimondi, Ricciardi, 2004) in termini di soggettivazione delle esperienze e dei percorsi migratori. Un primo fattore di differenziazione è ascrivibile alla cittadinanza
del lavoratore. In Italia, come evidenziano alcuni studi, le occupate nel settore domestico provengono principalmente da un numero limitato di paesi. «Non solo»,
affermano Catanzaro e Colombo (2009, p. 28), «ma i paesi che forniscono i contingenti più numerosi di lavoratrici, e lavoratori, domestici, non necessariamente
coincidono con quelli che forniscono i contingenti più numerosi per quanto riguarda le presenze». Ancora oggi, tra quelli che contribuiscono con il più massiccio apporto di forza lavoro domestico compaiono anche paesi come le Filippine,
Ucraina, Sri Lanka, Perù e Moldova, il cui contributo generale al mercato del lavoro risulta piuttosto modesto.
Tali convergenze dipendono dalla caratterizzazione dell’offerta di lavoro, dalla
divisione internazionale del lavoro riproduttivo all’interno del quale possono svilupparsi specifiche culture migratorie, ma anche dalle predisposizioni di reclutamento della manodopera e dalla “scelta”, carica di contenuto razzializzante, operata
dai datori di lavoro. Le strategie migratorie, infatti, sono economicamente orientate dalla domanda di lavori di cura dei paesi economicamente avanzati: «in questa struttura di divisione internazionale del lavoro riproduttivo, alcuni paesi assumono il carico di tale lavoro nei paesi di immigrazione. Si crea quindi una cultura
migratoria diffusa, che fa dell’emigrazione per lavoro di cura una delle opzioni
disponibili ai cittadini, coerente con gli obiettivi dei governi dei paesi che si definiscono come “esportatori” di manodopera» (ivi, p. 32). Particolare rilevanza è assunta anche dalle reti di fiducia che si attivano spesso nei mercati del lavoro ad alta
presenza di stranieri. Nell’accesso alla sfera intima della casa, le “conoscenze personali” del fidato assistente rappresentano importanti criteri di scelta per i datori di
lavoro e facilitano così l’ingresso “a catena” di persone legate da vincoli di parente-
9. il lavoro di cura in pandemia
153
la, amicizia, compaesanità, confessione religiosa. La procedura di selezione è condizionata infine da preferenze personali, seppur collettivamente diffuse, orientate
da percezioni razzializzanti: in tal senso, i meccanismi selettivi di reclutamento favoriscono la riproduzione della segregazione occupazionale di alcune cittadinanze
nel mercato dei servizi domestici sulla base di esplicite preferenze “etnico-razzialireligiose” dei datori (Allasino et al., 2004). Sono esemplificativi la scarsa presenza
di lavoratrici africane e la concentrazione del personale proveniente dai paesi cattolici o delle minoranze cattoliche in contesti in cui prevalgono altre fedi religiose (Macioti, Pugliese, 2003), come nel caso delle srilankesi documentato da Nare
(2008) nella città di Napoli.
I più recenti approcci allo studio dell’integrazione degli stranieri in Italia convengono nel definire il processo in termini di inclusione subordinata (Carbone,
Catarci, Fiorucci, 2012) e differenziale (Mezzadra, Neilson, 2014). Nel lavoro domestico, le sue caratterizzazioni sono immediatamente tangibili sia nell’atto del
confinamento, che relega le lavoratrici nella sfera ombrosa della casa, estranea e
sottesa allo spazio pubblico (segregazione domestica), sia nell’inserimento all’interno del sistema di relazioni vigente nella famiglia datoriale, dove si affermano
divisioni gerarchiche e subordinate del lavoro (divisione familiare del lavoro). Le
lavoratrici domestiche, infatti, rappresentano “corpi estranei” che prendono posto
nel nucleo privato della casa, dove prevalgono particolari modelli di condotta e
di pensiero (più o meno rigidi o patriarcali) ai quali devono necessariamente uniformarsi o trovare possibili mediazioni. Un’assimilazione non priva di tensioni e
conflitti, agita da meccanismi di disciplinamento, addomesticamento e asservimento (Carbone, Gargiulo, Russo Spena, 2018). È evidente nei riferimenti linguistici
sedimentati nel discorso pubblico e, come recentemente ha rilevato Busi (2020),
persino nelle classificazioni degli enti amministrativi e censuari che hanno fatto
proprie nel tempo alcune espressioni fluenti, non poco stigmatizzanti, che indeboliscono lo statuto delle domestiche come lavoratrici a tutti gli effetti: è il caso delle conviventi, definite dapprima “donne di casa” (1861), “personale a carico altrui”
(1871), poi “attendenti alle cure domestiche” (1951). Nomenclature che occultano
l’autonomia e l’autodeterminazione delle lavoratrici in quanto tali, esaltando invece la dipendenza della donna dalla casa e dal carico del datore. Ancora oggi, nella
definizione delle unità professionali, istat le include tra i “collaboratori domestici e assimilati”, distinguendo le figure di «badante, colf, collaboratore domestico,
collaboratrice familiare, domestico, domestico familiare, donna di pulizia, donna
di servizio, donna tuttofare, guardarobiere domestico, lavoratrice domestica, servitore». L’essere “donna” e la sua disponibilità a mettersi “a servizio” altrui si antepongono al riconoscimento dell’essere “lavoratrice” di fatto, negandole dunque lo
statuto e con esso la titolarità di qualsiasi diritto, fino all’inferiorizzazione sociale
della persona.
La forma diventa sostanza nel momento in cui si concretizza il rapporto di lavoro. Principale avvisaglia è l’informalità contrattuale associata alla gran parte del-
154
mirco di sandro
le prestazioni. Il lavoro nero ricorre come fattore strutturale nel mercato dei servizi
domestici, sia nella fase di reclutamento della forza lavoro (periodo informale “di
prova”) che nel suo svolgimento nel tempo, e si definisce non solo sulla base della
formalizzazione giuridica del rapporto, ma attiene alle forme «subordinate e caratterizzate da forte squilibrio tra domanda e offerta in termini di relazioni di potere che implicano situazioni di grave sfruttamento. In questo senso il lavoro nero
è quella quota di lavoro che, a prescindere dalla sua totale o parziale irregolarità
formale, si caratterizza per salari e condizioni di lavoro decisamente al disotto dei
livelli minimi contrattuali» (Pugliese, 2009, pp. 3-4).
Nella relazione di potere che le lega al datore, alla sua famiglia e ai beneficiari
di cure si evince il ruolo subalterno della lavoratrice. Il delicato equilibrio (Alemani, 2016), strutturato su base fiduciaria ed emozionale, si esprime in uno “spazio di confidenza” (Colombo, Decimo, 2009) in cui si affermano gradi variabili
di distanziamento personale (tra contraenti del rapporto) e sociale (fuori dalla
sfera lavorativa). Partendo dai vissuti delle lavoratrici coinvolte in un’indagine,
gli autori individuano tre principali forme di relazione sulla base di tre fattori
qualificanti. La prima è incentrata sulla prestazione e si caratterizza per un alto livello di formalizzazione e adesione ai vincoli contrattuali, che riduce al minimo
lo spazio di confidenza tra i contraenti e definisce un distacco professionalmente
motivato. La seconda si basa su un rapporto di intimità, in cui il datore “prende
a cuore” le sorti della lavoratrice e la coinvolge attivamente nella vita familiare.
In tal caso sono frequenti le interazioni che trascendono dalla semplice erogazione di prestazioni in cambio di denaro: i datori si fanno compartecipi delle
esigenze personali delle lavoratrici, fornendo loro prestiti monetari, opportunità
e contatti utili. Questa intimità, però, può facilmente generare una situazione di
dipendenza reciproca, naturalmente asimmetrica e certamente più gravosa per
le lavoratrici: mentre gli uni si assicurano fedeltà e continuità, compensando la
condizione instabile e precaria delle proprie collaboratrici domestiche, le altre,
pur traendone immediati benefici, saranno sempre più dipendenti da un vincolo
morale e fattuale.
La terza determina infine un asservimento sostanziale della lavoratrice, che viene messa ai margini della gerarchia domestica (sovente si percepiscono “schiave”
dei propri datori) e subisce l’annientamento della propria autonomia decisionale,
operativa e persino esistenziale. In questa relazione, la distanza personale è profondamente marcata e tra i contraenti vige un rapporto di assoggettamento che si
realizza, nelle forme più crude e maniacali, attraverso un abuso esplicito della vulnerabilità sociale delle lavoratrici (perché alle prime esperienze, irregolari o prive
di reti sociali e contatti). Persino la distanza sociale viene duramente imposta attraverso un controllo ossessivo che, lungi dal riguardare esclusivamente l’attività
lavorativa, si estende anche alla vita privata e al tempo libero, condizionando gli
spostamenti, la partecipazione attiva e la costruzione delle reti sociali fuori dalla
sfera domestica di lavoro.
9. il lavoro di cura in pandemia
155
9.5
Nella pandemia: scacciate e sanate
Nell’attributo “domestico”, che accompagna le grandi categorie del “lavoro” e del
“confinamento” in pandemia, si inscrive un problematico nodo interpretativo:
il confinamento domestico impone un limite con l’esterno che il lavoro domestico deve necessariamente valicare. Non è da sottovalutare la valenza simbolica
di questo “sconfinamento domestico”, soprattutto in un periodo in cui l’agire
umano è fortemente condizionato da paure, insicurezze e immaginari discordanti: la casa rappresenta il rifugio sicuro che offre cura e protezione; ogni estraneo
è concepito come potenziale untore e pericolo. La valenza protettiva e difensiva
della casa è risultata più intensa nell’emergenza, anche grazie all’enfatizzazione
mediatica, che mentre esortava a ritrovare “il piacere di stare a casa”, individuava
(con droni, elicotteri e telecamere) ipotetici nemici, trasgressori, colpevoli. Non
è questa la sede per analizzare la discutibile caccia all’untore che ha animato gli
animi insofferenti dei milioni di reclusi, ma è opportuno evidenziare il carattere razzializzante di cui si è prontamente dotata: in prima battuta erano i cinesi,
quelli in Cina e quelli intorno a noi; ben presto sono diventati la gran parte dei
migranti, in particolare quelli neri, sporchi e cattivi, quelli che “chissà come vivono e cosa fanno”.
Evidentemente il lavoro domestico ha risentito di queste tensioni, almeno nel
primo impatto della pandemia. L’Assindatcolf stima la perdita di 12.950 posti di
lavoro tra marzo e giugno, che si determina all’interno di un discontinuo flusso di
contrattualizzazioni. A un incremento delle assunzioni concomitante con la proclamazione del lockdown (+40% a marzo) fanno seguito mesi di continui licenziamenti (a maggio 2020 si registra il +11% di cessazioni rispetto al 2019).
Da un lato una vera e propria “corsa” alla regolarizzazione di quei lavoratori in “nero”
che, dovendosi spostare per “comprovate esigenze di lavoro”, erano chiamati ad auto certificare le generalità del proprio datore di lavoro (rischiando quindi di auto denunciare
anche la propria condizione di irregolarità); dall’altro l’urgente ricerca di baby-sitter
per quei genitori non in smart working che, con le scuole chiuse e non potendo contare
sull’aiuto dei nonni, avevano l’esigenza di ricorrere a personale che si occupasse dei figli. Complessivamente abbiamo calcolato 25.000 assunzioni “emergenziali”, a fronte di
2-3.000 lavoratori “fuggiti” dall’Italia per paura di rimanere bloccati sul territorio senza
nemmeno avere un reddito da lavoro. Una tendenza che, per ovvi motivi, non ha trovato
riscontro nei mesi di aprile e maggio 2020, nei quali, al contrario, sono aumentati i licenziamenti poiché il settore è stato escluso dal blocco disposto per tutti gli altri comparti
(Zini, 2020, pp. 293-4).
Esclusi dal “blocco dei licenziamenti” e dall’estensione della cassa integrazione
prevista dal Cura Italia, i lavoratori domestici sono risultati una delle tante categorie ignorate dai primi interventi governativi emergenziali. Bisognerà attende-
156
mirco di sandro
figura 9.1
Domande di regolarizzazione per cittadinanza
50.000
25,1%
45.000
40.000
35.000
30.000
10,5%
9,1%
8,8%
8,6%
15.000
8,1%
7,2%
6,6%
5,9%
10.000
4,9%
4,5%
Egitto
20.000
India
25.000
5.000
Altro
Cina
Albania
Perù
Marocco
Georgia
Pakistan
Bangladesh
Ucraina
0
Fonte: elaborazione su dati ministero dell’Interno.
re il via libera al decreto Rilancio affinché fosse garantita una specifica indennità
Covid-19 «ai lavoratori domestici che abbiano in essere, alla data del 23 febbraio
2020, uno o più contratti di lavoro per una durata complessiva superiore a 10 ore
settimanali» (art. 85).
Tra i 266 articoli del decreto è contenuto anche un procedimento finalizzato
all’emersione del lavoro nero e alla regolarizzazione contrattuale e civica dei non
comunitari occupati in agricoltura e nei servizi domestici. Un dispositivo che ha
favorito l’emersione di 176.848 rapporti informali di lavoro domestico (l’85%
delle richieste), la metà dei quali a carico di ucraine, bangladesi, pakistane, georgiane, marocchine e peruviane (cfr. fig. 9.1). Pur riscontrando un maggior
successo rispetto al 2012, il procedimento si è rivelato insufficiente di fronte alle
stime del lavoro nero nel settore, rappresentando però un comodo “ammortizzatore formale” per sostenere la caduta della crisi in corso.
I prossimi dati inps su attivazioni e cessazioni contrattuali riveleranno le cifre reali dell’occupazione domestica nel primo anno di emergenza e, con assoluta probabilità, il numero di lavoratrici tornerà ad attestarsi sopra il milione. Si tratterà
però di un bilancio fortemente condizionato dall’effetto sanatoria, che rischierà
di offuscare i processi tendenziali dell’occupazione nel settore. L’impatto dell’e-
9. il lavoro di cura in pandemia
157
mergenza, in altro senso, sarà difficilmente deducibile in termini quantitativi
perché il dato rivelerà un assestamento formale derivante da un’operazione di
selezione e premiazione dei pochi meritevoli (lavoratrici strettamente necessarie,
purché munite di “prove” dell’attività pregressa, occupate presso datori facoltosi
e disposti a dare continuità al rapporto). Secondo Assindatcolf (Zini, 2020, p.
295), «in assenza di una reale convenienza economica le famiglie non hanno,
infatti, considerato vantaggioso intraprendere un percorso di regolarizzazione
del proprio domestico, italiano o straniero, privo di contratto di lavoro. È questo il motivo per cui, fin dall’inizio dell’emergenza, ci siamo battuti affinché alla
procedura di emersione venissero affiancati incentivi fiscali all’assunzione. Solo
il combinato disposto di questi due elementi sarebbe stato in grado di garantire
una complessiva inversione di tendenza che, al contrario, è stata parziale e ha riguardato solo i lavoratori stranieri con i documenti di soggiorno non in regola».
9.6
Conclusioni sul medio corso della crisi pandemica
L’organizzazione del lavoro domestico ha risentito particolarmente del sopraggiungere dell’emergenza pandemica, specie a causa del forzoso “rientro” presso
il proprio domicilio e delle limitazioni nell’accesso alla casa e alla sfera pubblica.
Infatti, i dati tendenziali dell’occupazione di settore evidenziano dapprima un
“effetto caduta” (licenziamenti, interruzioni e mancati rinnovi) concomitante
con un processo “opportunistico” di formalizzazione dei contratti (necessari per
raggiungere il posto di lavoro). In un secondo momento, per effetto della sanatoria, un incremento numerico sembra profilarsi all’orizzonte. Ai primi mesi del
2021, però, la procedura di emersione risulta non essere ancora giunta a compimento e molte lavoratrici restano in attesa di essere convocate per la stipula ufficiale del contratto.
L’accesso e la permanenza presso il domicilio dei datori rappresentano le
principali dimensioni critiche intorno alle quali si determinano le trasformazioni del lavoro domestico in pandemia e si riformulano confinamenti e distanze
sempre più marcate tra “generi”, “razze” e “appartenenze sociali”. La porta di casa
rappresenta la prima grande barriera da superare, di fronte alla quale famiglie e
lavoratrici hanno dovuto negoziare posture e condotte necessarie a garantire la
continuità della prestazione nel rispetto dell’incolumità, della salute e della sicurezza degli attori coinvolti. Una mediazione che, come evidenziano alcune operatrici intervistate, non è stata sempre pacifica e distesa e si è conclusa, in molti
casi, a vantaggio dei soli beneficiari del servizio, “padroni” della casa e detentori
assoluti del potere negoziale. Non di rado le lavoratrici hanno dovuto rinunciare
alla propria autonomia decisionale e operativa (ritmi, orari, carichi e disposizioni del lavoro) per venire incontro alle esigenze datoriali, assumendo ruoli sempre
158
mirco di sandro
più subordinati all’ordine domestico sovradeterminato e subendo il peso di vincoli, limitazioni e forme di controllo sempre più stringenti e opprimenti.
La segregazione domestica delle lavoratrici, infatti, si esplica anche dentro
il perimetro limitato delle mura di casa, assumendo forme puntuali e specifiche
di differenziazione e distanziamento rispetto agli altri attori compresenti. Si riproducono così barriere e confini – di senso e di fatto – che impongono nuove
prossimità gerarchicamente orientate e definite sulla base dell’asimmetria di status ascritta allo stesso rapporto di lavoro. Le lavoratrici domestiche, in altro senso, subiscono passivamente – per via della debole incisività rappresentativa – un
processo di riorganizzazione del lavoro implicante un maggior assoggettamento
alla famiglia datoriale. Questa condizione si esplica nella sua massima portata
nel caso delle conviventi che, operando a contatto stretto e prolungato con individui più vulnerabili, hanno dovuto osservare regole più stringenti al fine di preservare la salute dei propri assistiti: «i datori di lavoro, i parenti, non volevano
che l’assistente familiare convivente uscisse nelle giornate libere, perché se regolarizzata poteva comunque uscire 2 o 3 ore per svagarsi, anche solo per fare una
passeggiata, con tutte le restrizioni che c’erano. I familiari hanno agito anche per
paura che uscendo o relazionandosi con altri, su un mezzo pubblico o facendo
una passeggiata, avrebbero portato a casa il virus»2.
Il timore di contrarre il virus, al contempo, agisce anche in senso opposto,
condizionando la percezione e la propensione delle stesse lavoratrici. La “reclusione domiciliare”, infatti, risulta favorita da un doppio processo di coercizione:
l’uno esterno e coatto, imposto dal datore di lavoro, l’altro personale, intimo e
moralmente condizionante. «L’hanno accettata», sostiene la segretaria nazionale di acli-colf, «perché chiaramente anche loro avevano paura di contrarre
il virus o comunque di essere loro le portatrici del contagio. Però questo ha fatto
sì che, a livello psicologico, avessero delle problematiche di solitudine e depressione. Perché stare con gli anziani è difficile già di suo, soprattutto quando si è
conviventi. Però non avere neanche una valvola di sfogo, poter uscire e incontrare persone con cui parlare la propria lingua, con cui confrontarsi, magari uscire
per andare alla posta a spedire i soldi alla famiglia a fine mese, è stato piuttosto
pesante»3.
La limitazione delle relazioni extralavorative, benché deducibile dall’imposizione governativa del distanziamento sociale, agisce nella direzione di una maggiore individualizzazione del lavoro domestico e della sua ulteriore inferiorizzazione. Si configura in tal senso come un dispositivo disciplinante, che esercita
un abuso di potere reso possibile dall’assoluta vulnerabilità di queste lavoratrici:
migranti, in nero e subalterne.
2. Dall’intervista alla segretaria nazionale di acli-colf.
3. Ibid.
9. il lavoro di cura in pandemia
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