congetture e confutazioni: la guerra di putin: cause, dinamiche, conseguenze
Ucraina, guerra d’Europa
di Michele Chiaruzzi
«Questa minaccia d’invasione la aspettiamo da otto
anni. Questa è la guerra, questa è la Russia. E
anche quest’anno ci aspettiamo che Mosca sfrutti
qualsiasi momento buono: la fine dell’inverno, la
fine delle Olimpiadi a Pechino, la fine della nostra
pazienza». Così parlò il generale ucraino Oleksandr Pavlyuk prima dell’invasione a tenaglia del 24
febbraio 2022. Essa si è compiuta come i più lucidi s’aspettavano e avvertivano, malgrado le false
affermazioni della Federazione Russa e lo straparlare contrario degli ‘oracoli geopolitici’. Ora la
guerra infiamma e costoro ricordano i rispettabili
storici convinti che la Gran Bretagna dovesse simpatizzare con la dittatura di Mussolini perché era
la controparte italiana del dispotismo Tudor. Forse avranno la ventura invocata dalla portavoce del
ministro degli Esteri russo Maria Zacharova con
un giornalista italiano che ne sollecitava buoni
uffici: «Non ha avuto la possibilità di vedere i generali buoni; glieli mostreremo». Sia come sia,
questa guerra è il campo dell’incerto come ogni
guerra perché, spiegò Clausewitz, «i tre quarti
delle cose su cui ci si basa per agire sono immerse
nella nebbia dell’incertezza». L’integrità territoriale dell’Ucraina, la sua sovranità, sono però di
certo la prima posta in palio.
Una scalata agli estremi
L’invasione è un culmine logico della politica
d’aggressione avviata nel 2014 dalla Federazione
Russa, realizzata con l’annessione della Crimea e
il sostegno alle forze separatiste nel Donbass. È
un culmine logico perché la dipendenza di quella
politica dalla guerra ha implicato la subordinazione del fine politico allo scopo militare e perciò
l’ascensione agli estremi. La guerra ha però segnato
al contempo il nadir della politica russa in Europa. Con l’invasione la guerra ha assunto direzioni
e proporzioni diverse da quelle immaginate dai
carenti schemi dei suoi pianificatori. Il contesto
storico ha puntualmente deformato le intenzioni
di una facile e subitanea vittoria, piegate anzitutto
dalla resistenza ucraina e dei suoi alleati. Questa
prova di forza – col suo corredo di sangue e macerie,
crimini e saccheggi, miseria e paura – non riguarda
più solo la determinazione delle sfere d’influenza.
Sfere d’influenza e politica imperialista
Dal 2014 la Federazione Russa è impegnata nello
smembramento di uno Stato associato all’Unione
Europea con l’intenzione finale di soggiogarlo, se
ciò si rende possibile. Dall’inizio della guerra ha
cercato d’imporre all’Ucraina una sovranità limitata
per conseguire con la forza una sfera d’influenza
che ormai da tempo non possedeva più. La sua
condotta è stata quella di una potenza maggiore che
tratta gli Stati minori considerati nella propria sfera
d’influenza come membri di seconda classe della
società internazionale. È una condotta improntata
al dominio, fondata sull’uso abituale della forza e
il rifiuto delle norme della società internazionale
che assegnano pari diritti di sovranità, uguaglianza
e indipendenza a tutti gli Stati.
La Federazione Russa ha però ignorato che, almeno
tra gli Stati dell’Unione Europea, il dominio imposto con la forza ha cessato d’essere riconosciuto
come una modalità legittima dell’esercizio della
potenza. Questa incomprensione è un fallimento
diplomatico epocale perché la condotta contro l’Ucraina, in tutte le sue fasi, non ha mai portato al riconoscimento di una sfera d’influenza russa: non è
mai giunta perciò a stabilire tra le maggiori potenze
quelle regole di condotta operative e condivise che
ne sono la tacita matrice essenziale. Al contrario,
questa sterile rivendicazione senza successo ha
generato persistente conflitto danneggiando così
il prestigio della Russia e compromettendone la
posizione in Europa, ormai del tutto corrosa da
una politica imperialista consacrata all’espansione
territoriale con la guerra.
Diritto internazionale e ordine europeo
È noto che questa politica ha violato ripetutamente
i princìpi base del diritto internazionale e colpito
l’architettura di sicurezza comune europea. Basti
ricordare che il 16 marzo scorso la Corte internazionale di giustizia ha ordinato alla Federazione
Russa di «sospendere le operazioni militari avviate
il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina» e di
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bloccare «ogni unità armata regolare e irregolare
che possa essere diretta o sostenuta da essa». L’invasione russa è stata d’altronde condannata da una
rara sessione speciale di emergenza dell’Assemblea
generale delle Nazioni Unite, riunitasi solo sette
volte nella storia, l’ultima delle quali quarant’anni
fa. Il 1° marzo 2022 l’Assemblea ha chiesto la fine
dell’offensiva russa pronunciandosi – con 141 voti
a favore, 5 contrari (Russia compresa) e 35 astenuti – contro l’aggressione russa contro l’Ucraina in
violazione dell’articolo 2 (4) della Carta e condannando, tra l’altro, «la decisione della Federazione
Russa di incrementare l’approntamento delle sue
forze nucleari» e «deplorando il coinvolgimento
della Bielorussia». L’Assemblea, priva di potere
effettivo, ha discusso ciò che il veto russo aveva
impedito di trattare al Consiglio di sicurezza, cioè la
tenuta dell’ordine internazionale del quale la Russia non ha saputo assumersi la responsabilità che
spetta a una grande potenza, per quanto sconsiderata e sventurata possa rivelarsi la propria politica.
Il suo impatto più diretto è d’altronde sull’ordine
europeo, oggi stabilito sulle ragioni della pace nel
diritto e nella libertà. Esso è trafitto da una politica estera che nega necessariamente tali ragioni
e pretende di sovvertirlo per sopprimerlo. Non
andrebbe però trascurato che quest’ordine politico
è certamente un fatto precario ma che, per quanto
possa sembrare astratto, fa parte della percezione
collettiva europea, sia come interesse comune sia
come valore condiviso. Esso esige perciò lo stesso
tipo di lealtà e lo stesso, costante, impegno che le
persone prestano ai fini personali che solo l’esistenza di quell’ordine permette loro di perseguire
in pace e libertà. Per questo la guerra d’Ucraina è
anche una guerra d’Europa.
Guerra d’Ucraina, guerra d’Europa
L’avvio della guerra e l’annessione della Crimea
sono stati concomitanti all’accordo di associazione
dell’Ucraina all’Unione Europea. Quell’accordo
politico sancì nel 2014 non solo l’uscita dell’Ucraina
dalla sfera d’influenza russa, ma un ripudio del
plurisecolare legame tra Russia e Ucraina. La scelta
ucraina poggiò sul massimo strumento di politica
estera dell’Unione Europea, cioè l’allargamento,
per sancire l’allontanamento dalla Russia in sé
e per sé. L’associazione dell’Ucraina all’Unione
ha segnato così la sua dissociazione dalla Russia.
Quella scelta politica ha investito d’emblée senso e
significato di una vicenda comune per decretarne la
fine, rendendola solo storia. La politica – scelta del
presente per il futuro – optò per l’Unione Europea e
in questo senso fu una «scelta storica» che tracciò
nuove direttrici nello spazio politico ma tutte volte
a marcare distanza da Mosca per stabilire vicinanza
a Bruxelles.
Colpendo uno Stato associato dell’Unione Europea,
che ha inscritto nel preambolo della propria Costituzione «l’identità europea del popolo ucraino e
l’irreversibilità del percorso europeo ed euro-atlantico dell’Ucraina», la Russia ha scelto di colpirne
anche le comunità politiche di riferimento. Oggi è
chiaro che la volontà di potenza russa corrisponde
giocoforza alla volontà di sopprimere quell’identità,
danneggiare l’Unione Europea e ledere la comunità euro-atlantica. La Russia ha però omesso di
considerare che, se esiste una volontà di potenza,
esiste anche una volontà di resistenza.
Potenza e resistenza
La guerra investe ormai il piano esistenziale
dell’Unione Europa e della comunità euro-atlantica che sono, anzitutto, comunità di valori difesi
come interessi vitali perché sorti anch’essi dalla
guerra. Prima fra i politici euro-occidentali recatisi a Kiev, la presidente del Parlamento europeo
Roberta Metsola ha chiarito che «con l’invasione
criminale del vostro Paese la Russia si è posta in
diretto confronto con l’Europa». Questo confronto
diretto non è difatti con una o più potenze europee;
è con l’unione degli Stati d’Europa che li associa
in ragione d’interessi comuni e valori condivisi.
L’esistenza dell’Unione Europea è la massima
espressione collettiva, tanto concreta quanto imperfetta, dei princìpi di libertà e diritto ormai diffusi a vario modo su tutto il Continente che ridefiniscono la sovranità dei suoi membri. La percezione
di una minaccia esistenziale rivolta anche contro
l’Unione spiega perché la risposta europea sia stata
corale, fornendo non solo appoggio politico ed
economico bensì supporto bellico alla resistenza
ucraina e diventando così anch’essa resistenza.
È d’altronde plausibile considerare che – senza
l’esistenza dell’Unione Europea e dell’Alleanza
Atlantica, con i loro vincoli multilaterali e la ricon-
congetture e confutazioni: la guerra di putin: cause, dinamiche, conseguenze
figurazione cooperativa dei rapporti tra le potenze
d’Europa e transatlantiche – la guerra d’espansione
russa avrebbe coinvolto gli Stati europei in una
spirale degenerativa tipica di ogni sistema di Stati
e delle lacerazioni proprie della politica di potenza.
La storia, perlomeno, illustra anche questa eventualità tutt’altro che remota.
Un momento spartiacque
Oggi la resistenza coinvolge tutti gli Stati d’Europa – compresi i neutrali – cosicché, tra l’altro, per
la prima volta nella storia l’Unione Europea ha
finanziato l’acquisto e la consegna di armamenti
per combattere le forze armate d’invasione. Ciò
è comprensibile considerando che la presidente
della Commissione europea Ursula von der Leyen
ha giudicato gli eventi attuali «un momento spartiacque». A ben vedere lo è non solo per l’Unione
ma anche per la Russia e la sua insipiente diplomazia della violenza e del doppio gioco. Essa si è
corrosa con una dose nociva di minacce, slealtà,
insulti e tradimenti come quello, clamoroso e grave,
perpetrato platealmente proprio alla vigilia dell’invasione verso la Francia mediatrice. La credibilità
di tale diplomazia distorta si è d’altronde eclissata
nella spirale bellica che essa stessa ha innescato con
l’invasione e costituisce oggi un lato del problema.
Resta che il «momento spartiacque» è un lugubre
momento della verità non solo per l’Europa e il destino d’Ucraina ma anche per la temeraria politica
russa, ridotta fino a prova contraria a un codice
bellicista inutile e dannoso. Essa ha mietuto troppe vittime diverse in troppo poco tempo: vittima
virtuale è stato l’unico piano di pace finora concordato, cioè gli accordi di Minsk; vittime umane sono
i morti di una guerra fratricida; vittima politica è
la tenuta della coesistenza pacifica fondata a Helsinki sull’inviolabilità dei confini europei. Bandita
dalla vita internazionale in Europa e colpita da
rappresaglie non militari, la Federazione Russa ha
quasi realizzato lo scopo adombrato dal vicecapo
del Consiglio di sicurezza, ex presidente Dmitry
Medvedev: «Non abbiamo bisogno di relazioni
diplomatiche [ed] è ora di chiudere a chiave le
ambasciate e continuare i contatti guardandosi
l’un l’altro attraverso binocoli e mirini».
Questa visione bellicista, affatto singolare, è del
tutto congruente con una patetica sequela di atti
e intimidazioni tra le quali spicca l’approntamento
delle forze nucleari dichiarato dal presidente Vladimir Putin già all’inizio dell’invasione. L’evocazione
della minaccia nucleare, tutt’altro che isolata e occasionale, genera ricorrente tensione e riporta alla
mente la folgorante affermazione dell’ambasciatore
ucraino Oleksander Somarskly il 16 marzo 2014:
«È stato un grave errore smantellare nel 1994 le
testate nucleari, se non l’avessimo fatto la Russia
non avrebbe occupato la Crimea». Somarskly
alludeva alle garanzie formali di sicurezza allora
formulate dalla Russia stessa e puntualmente violate cioè, tra l’altro, «il rispetto dell’indipendenza,
della sovranità e dei confini esistenti dell’Ucraina»
(c.d. Memorandum di Budapest, 5 dicembre 1994,
punto 3). Da questa prospettiva la strumentale richiesta russa sulla «neutralizzazione» dell’Ucraina
è indecifrabile perché sembra affermata come se
davvero si credesse che qualsiasi eventuale garanzia formale raggiunta oggi potesse valere anche
domani, il che evidentemente non è.
Epilogo
Oggi la guerra non riguarda solo la sopravvivenza
del più grande Stato europeo, impegnato coi suoi
alleati a difendere la propria sovranità e quindi a
preservare il modo in cui la sua comunità politica
si rappresenta per esistere secondo fini e princìpi
propri nel contesto dell’Europa unita. Riguarda
pure, con diversa intensità, l’intero assetto diplomatico-strategico mondiale. Investe difatti la
configurazione degli scambi commerciali, la definizione delle valute di scambio, l’allocazione e i prezzi
delle materie prime, gli allineamenti regionali e
internazionali nonché, tra l’altro, l’esistenza delle
organizzazioni multilaterali.
La scala d’impatto della guerra d’Ucraina si rivela
di giorno in giorno ma è nella logica dei fatti. La
Federazione Russa è una grande potenza che, come
tutte le grandi potenze, possiede interessi generali
e una forza tale da permetterle di proteggere e
avanzare quegli interessi in ogni ambito. La scelta
di combattere in Europa per avanzare quegli interessi ha però un corrispettivo politico ineludibile
per la Russia. Scegliendo la guerra essa ha messo in
palio anche sé stessa, oltre alle vite che sta mietendo e ancora mieterà. In questa sciagurata vicenda
autoinflitta la Russia non è dunque solo giocatore
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ma anche posta in palio perché lo status di grande
potenza si perde come lo si vince: con la violenza.
In quanto a noi, siamo convinti che la civiltà sia
prima di tutto il tentativo di ridurre la forza a
ultima ratio e che il tempo della diplomazia sia
eterno, senza scadenza, come lo sono gli sforzi per
correggere gli errori propri e altrui, pagandone il
prezzo. L’unica emozione che proviamo nei confronti dell’ombra della guerra calataci addosso è
la commiserazione, costretti anzitutto a pensare
come pensava Raymond Aron che sopravvivere
significa vincere. Resta l’amara consapevolezza
tramandata dal suo allievo, Julien Freund: «Non
serve stabilire se si ha torto o ragione nel vedere
nell’altro un nemico; se l’altro vi tratta come tale,
voi lo siete».
L’aggressione russa
all’Ucraina: genesi di una
guerra annunciata
di Valter Coralluzzo
Quella perpetrata dalla Russia di Putin attaccando
in maniera massiccia e brutale l’Ucraina è una
sfacciata e imperdonabile violazione del diritto
internazionale e non c’è analisi geopolitica che
possa revocare in dubbio la perentorietà del giudizio che inchioda i russi alle loro responsabilità
di aggressori riconoscendo agli ucraini il diritto di
difendersi (e si badi: non spetta ad altri che al
popolo la cui libertà sia minacciata decidere se e
fino a quando combattere per difenderla). Tuttavia,
il fatto che siano chiaramente distinguibili un
aggressore e un aggredito non ci esime dal cercare
di capire come si è arrivati a questa tragica situazione, tenendo ben fermo un punto: indagare i
motivi di certi comportamenti non significa giustificarli.
Con buona pace di quanti, frustrati nei loro tentativi di decifrare le reali intenzioni di Mosca, lo
hanno rievocato nelle loro analisi, il noto aforisma
di Churchill, che nel 1939 paragonò la Russia a «un
indovinello racchiuso in un mistero avvolto in un
enigma», non pare potersi applicare al conflitto
in corso, che al contrario esibisce tutte le caratteristiche di una guerra annunciata, alla quale si
può guardare come al prevedibile (ma provvisorio)
capolinea di un percorso evolutivo della politica
estera della Russia post-sovietica che qui di seguito
si potrà ricapitolare soltanto nelle sue linee essenziali. Se, come scrive Benedetto Croce, «è lo storico
che decide da dove far partire la narrazione dei
fatti», allora, nel nostro caso, sarà bene partire dalla
fine della Guerra fredda e porsi il seguente interrogativo: perché, nel corso dell’ultimo trentennio,
la Russia ha progressivamente mutato il proprio
atteggiamento nei confronti dell’Occidente e del
cosiddetto “estero vicino”, orientandosi verso una
politica estera sempre più assertiva ed aggressiva?
1. Molti, anche tra i più accreditati studiosi di relazioni internazionali, pensano che l’allargamento
a Est della Nato sia stato il fattore decisivo, o
almeno una concausa rilevante, nel determinare
il deterioramento dei rapporti tra Russia e paesi
occidentali. Del resto, già nel 1998, invitato a
pronunciarsi sul prossimo ingresso nell’Alleanza
atlantica di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria,
George Kennan non aveva celato le sue preoccupazioni: «Credo sia l’inizio di una nuova Guerra
fredda. Credo che i russi reagiranno gradualmente
in modo alquanto avverso e che questo cambierà le
loro politiche. Credo sia un tragico errore» («New
York Times», 2 maggio 1998). In realtà, la questione dell’allargamento della Nato non ha pesato
sempre allo stesso modo nelle relazioni della Russia
con l’Occidente. Durante gli anni Novanta, sotto
la presidenza di Boris Eltsin, una Russia debole,
confusa, declassata internazionalmente al rango
di semplice comprimario ma ancora fiduciosa di
poter risollevare le sue sorti emulando il modello
occidentale (democrazia liberale ed economia di
mercato), evitò di opporsi apertamente ai piani
di espansione dell’Alleanza atlantica, con la quale
anzi firmò una serie di importanti accordi di cooperazione, dalla Partnership for Peace (1994) al
Nato-Russia Founding Act (1997). Certo, la nomina
di Evgenij Primakov a ministro degli Esteri (1996)
e poi a primo ministro (1998) comportò, da parte
di Mosca, una presa di distanza dall’originaria
postura filoccidentale in favore di un orientamento
(riassunto nella cosiddetta “dottrina Primakov”)
più sbilanciato in senso eurasiatista e volto, senza
però antagonizzare gli Stati Uniti e pregiudicare
i rapporti con l’Occidente, all’edificazione di un
sistema internazionale multipolare, nel quale gli
specifici interessi nazionali della Russia (a partire
dal consolidamento della sua influenza nello spazio