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Tracce plutarchee in Sinesio

2020

Metadata, citation and similar papers at core.ac.uk Provided by Riviste UNIMI SLQHVLRGL&LUHQHQHOODFXOWXUDWDUGRDQWLFD Atti del Convegno Internazionale Napoli 19-20 giugno 2014 DFXUDGLUgo Criscuolo e Giuseppe Lozza LEDIZIONI CONSONANZE Collana del Dipartimento di Studi Letterari, Filologici e Linguistici dell’Università degli Studi di Milano diretta da Giuseppe Lozza 6 Comitato scientifico Benjamin Acosta-Hughes (The Ohio State University), Giampiera Arrigoni (Università degli Studi di Milano), Johannes Bartuschat (Universität Zürich), Alfonso D'Agostino (Università degli Studi di Milano), Maria Luisa Doglio (Università degli Studi di Torino), Bruno Falcetto (Università degli Studi di Milano), Alessandro Fo (Università degli Studi di Siena), Luigi Lehnus (Università degli Studi di Milano), Maria Luisa Meneghetti (Università degli Studi di Milano), Michael Metzeltin (Universität Wien), Silvia Morgana (Università degli Studi di Milano), Laurent Pernot (Université de Strasbourg), Simonetta Segenni (Università degli Studi di Milano), Luca Serianni (Sapienza Università di Roma), Francesco Spera (Università degli Studi di Milano), Renzo Tosi (Università degli Studi di Bologna) Comitato di Redazione Guglielmo Barucci, Francesca Berlinzani, Maddalena Giovannelli, Cecilia Nobili, Stefano Resconi, Luca Sacchi)UDQFHVFR6LURQL ISBN 978-88-6705-5- 6LQHVLRGL&LUHQHQHOODFXOWXUDWDUGRDQWLFDHGLWHGE\8JR&ULVFXRORH*LXVHSSH/R]]D © 2016 Ledizioni – LEDIpublishing Via Alamanni, 11 20141 Milano, Italia www.ledizioni.it È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, senza la regolare autorizzazione. Indice Premessa Ad Conventum Synesianum 5   Un cristiano difficile: Sinesio di Cirene UGO CRISCUOLO 9  47 El lpxico de la educaciÐn en Sinesio JUAN ANTONIO LÓPEZ FÉREZ La dottrina del pQeuma in Sinesio e la sua ripresa in Marsilio Ficino CLAUDIO MORESCHINI 8 Vita quotidiana e memoria letteraria nell’Epistola 148 Garzya-Roques di Sinesio GABRIELE BURZACCHINI 10 Le citazioni dei classici nelle epistole di Sinesio GIUSEPPE ZANETTO 12 Tracce plutarchee in Sinesio GIUSEPPE LOZZA 13 Ungleiche Herkunft ungleicher Seelen. Philosophische Reminiszenzen in De providentia 1, 1 1 HELMUT SENG Sull’,QQRIX di Sinesio ONOFRIO VOX ƸǦǖǙǜ e ȫǛǖǙǍdž: una proposta interpretativa per gli incipit degli Inni 6H7 IDALGO BALDI  17 1 Cosmologia e retorica negli ,QQL di Sinesio: O immagine della choreia astrale MARIA CARMEN DE VITA  Configurazione linguistica e conformazione letteraria nelle lettere di Sinesio GIUSEPPINA MATINO 2 Forme di memoria letteraria e strategie allusive in Sinesio ANNA TIZIANA DRAGO 2 Tracce di teorie epistolografiche in Sinesio ASSUNTA IOVINE 2 Conclusioni 2 Bibliografia 2 Tracce plutarchee in Sinesio Giuseppe Lozza Plutarco appartiene a quei non molti autori greci che non vennero mai dimenticati: la mescolanza di erudizione e piacevolezza, l’ampiezza dei suoi orizzonti ne fecero una lettura privilegiata e apprezzata sui fronti più varî. Filosofi, storici, biografi, moralisti, letterati, semplici poligrafi trovarono immancabilmente nelle sue pagine qualche spunto interessante. È noto come Sinesio rinvenisse una sorta di padre spirituale e modello letterario soprattutto in Dione di Prusa, che di Plutarco fu quasi coetaneo e che ai suoi occhi incarnava in modo perfetto l’indispensabile sintesi di retorica e filosofia: il Dione sinesiano documenta nel modo più intenso questa filiazione. È pur vero, però, che il Crisostomo fu prevalentemente retore, anche se di alto profilo e influenzato in qualche misura dallo stoicismo; dunque a Sinesio non poteva bastare completamente tale orizzonte, tutto sommato angusto, e infatti non mancò di dissentire in qualche caso da lui. I tre autori furono per altro accomunati dalla medesima origine sociale: tutti appartenevano a quell’aristocrazia di provincia, che dovette progressivamente subire il peso sempre maggiore della fiscalità imperiale, ma dalla quale il governo romano seppe trarre anche i suoi funzionarî più capaci e nello stesso tempo si vide sollecitato a non trascurare completamente la periferia a esclusivo vantaggio di un avido centralismo. Tutti e tre si fecero portavoce di quest’ultima esigenza, sia pure in modi e in misura diversi. Dione dovette sperimentare la durezza del potere negli anni di regno di Domiziano, ma poi, come Plutarco, fece in tempo a vivere la pace e la prosperità degli anni di Nerva e di Traiano. Sinesio, tre secoli più tardi, si trovò a subire in prima persona la precarietà di una situazione ormai gravemente compromessa, e la separazione – ancora embrionale ma destinata a diventare irreversibile – fra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’Impero, dove ormai i barbari germani si erano infiltrati nella burocrazia e nell’esercito, e dove, soprattutto, il conflitto fra l’antico politeismo e il cristianesimo, pur trionfante, non si era ancora placato. E l’aristocratico di Cirene, per natura incline a una vita comoda e appartata, si rivelerà in circostanze drammatiche uomo d’azione così efficace e autorevole da essere acclamato vescovo di Tolemaide, lui neoplatonico per formazione e convinzione, simbolo vivente di quel connubio fra filosofia e cristianesimo che 138 Giuseppe Lozza caratterizzò alcune fra le menti più brillanti di quel tormentatissimo quarto secolo. Nella sua produzione Plutarco non viene mai citato per nome, ma questo non deve sorprendere chi sappia come gli autori antichi e tardoantichi quasi mai citassero le loro fonti; a dire il vero, nell’ep. 136 Garzya-Roques, indirizzata al fratello, Sinesio cita «la coppia di sapienti plutarchei (ἡ ξυνορὶς τῶν σοφῶν Πλουταρχείων)», miseri epigoni della grande tradizione filosofica ateniese, di cui al suo tempo rimaneva soltanto il nome. Allusione alquanto criptica in cui qualche esegeta ha voluto scorgere il figlio e il genero di Plutarco di Cheronea; ma è una soluzione molto improbabile: più plausibilmente, Sinesio avrà voluto alludere a Plutarco di Atene e al suo discepolo Siriano, entrambi neoplatonici vissuti al tempo del retore cirenese.1 È indubbio però che i punti di consonanza sembrano più frequenti soprattutto nell’epistolario – forse la parte più interessante, certo la più godibile, dell’intera opera sinesiana – e nel De providentia, in cui, come vedremo, Sinesio riprende il mito di Iside e Osiride che tanto aveva interessato Plutarco; altri passi dove si possono rinvenire probabili reminiscenze plutarchee sono contenuti nel De insomniis e in quel divertissement sofistico che è l’Elogium calvitii, meno disimpegnato però di quanto possa sembrare a prima lettura, perché anche lì Sinesio non rinuncia a spunti di carattere filosofico che gli stavano molto a cuore. E occorre aggiungere che egli si mostra più interessato agli scritti morali che alle Vite, dato che nella sua stessa produzione l’interesse per il passato storico sembra alquanto ridotto. Plutarchea sembrerebbe ragionevolmente l’aperta ostilità nei confronti della superstizione, di quella δεισιδαιμονία, a cui il saggio di Cheronea aveva dedicato un opuscolo giovanile ma già molto ben strutturato: anche per Sinesio come per Plutarco, la δεισιδαιμονία è una falsa virtù, un’empietà che si tinge di virtù ma non lo è affatto; come ogni vizio, ἀρετῆς προσωπεῖον περικειμένη, essa è in realtà il terzo grado dell’empietà.2 Al contrario di Plutarco, però, egli non insiste sullo schema ternario, di impronta aristotelica e più precisamente teofrastea, che vedeva questo fenomeno religioso come difetto per eccesso rispetto alla vera religiosità (εὐσέβεια), ma in sostanza lo presuppone, dato che il contesto non richiedeva di soffermarsi su una vera e propria trattazione teorica: in una lettera già molto lunga e tutta dedicata alle convulse vicende che determinarono la sua elezione episcopale, Sinesio non poteva se non definire velocemente quell’atteggiamento popolare che a lui sembrava appunto nient’altro che superstizione. L’impegnativo scritto, indirizzato al patriarca Teofilo e databile forse al 411, denuncia una situazione agitata da controversie ecclesiastiche in Eritro, una cittadina della Pentapoli ai confini con il deserto libico, poco incline  1. Cf. Synésios, Correspondance. Tome III, a c. di A. Garzya e D. Roques, Paris 2003, 397 n. 17, dove sono citate e discusse le varie interpretazioni. 2. Ep. 66, 168: τὸ τρίτον ... τῆς ἀθεΐας εἶδος. Tracce plutarchee in Sinesio 139 a rispettare l’autorità patriarcale che Sinesio tentava invece di far valere. Possiamo immaginare quale fosse il suo disappunto nel dover risolvere contese assai meschine: in tutta la lettera emergono, insieme a qualche tocco di amplificatio retorica, il suo grande equilibrio, la sua moderazione di uomo pratico e sensato, in base ai quali egli non può che definire δεισιδαιμονία l’atteggiamento prevaricante che si ammanta di zelo religioso per coprire interessi molto mondani. Il punto di contatto fra il testo sinesiano e quello plutarcheo si può ravvisare nella valutazione sulla sostanziale falsità di tale atteggiamento: anche il superstizioso, afferma Plutarco, se ne avesse il coraggio, vorrebbe essere ateo;3 allo stesso modo, nel contesto della lettera di Sinesio, si denuncia un comportamento solo apparentemente impregnato di religiosità, ma in sostanza del tutto profano nella sua avida spregiudicatezza. Per il resto, la trattazione di Plutarco mette in risalto soprattutto la viltà, la debolezza morale e pratica del δεισιδαίμων, mentre Sinesio condanna invece l’audacia arrogante dei litiganti che deve tentare di rappacificare: il medesimo termine è dunque usato in una prospettiva molto diversa da quella del suo probabile modello, secondo una modalità peculiare agli autori tardoantichi, che, pur rifacendosi ai modelli di un passato più o meno lontano, li risemantizzano in tutto o in parte. Più che δεισιδαιμονία, il comportamento degli ecclesiastici di Eritro si vorrebbe dunque definire, nella prospettiva sinesiana, αὐθάδεια, ὕβρις. Sinesio risponde, in un certo senso, a Plutarco in De insomniis 13, insistendo sull’efficacia benefica dei sogni, che avvertono l’uomo non solo di eventuali pericoli ma anche e soprattutto lo incoraggiano prospettandogli speranze che poi egli, una volta sveglio, troverà l’ardire di realizzare: esattamente il contrario dell’effetto paralizzante che, secondo il plutarcheo De superstitione, la δεισιδαιμονία esercita sull’infelice superstizioso, mai libero spiritualmente neppure di notte, perché anche mentre dorme è agitato da terribili paure e da spettri orrendi considerati, anche al risveglio, come del tutto reali, e vive tormentosamente, quindi, sia di notte che di giorno.4 Si è detto già come pochissime siano le reminiscenze dalle Vite: pochissime, ma non del tutto assenti. Nella ep. 56, breve lettera indirizzata al fratello Euoptio forse fra il 395 e il 399, Sinesio, ancora a Cirene, manifesta il desiderio di recarsi ad Atene, per non sentirsi più finalmente inferiore ai suoi concittadini che già ci erano stati, i quali, afferma Sinesio, per avere visto l’Academia, il Peripato e la Stoa Pecile, «si aggirano fra noi come se fossero semidèi in mezzo a muli» (ἀναστρέφονται δὲ ἐν ἡμῖν ὥσπερ ἐν ἡμιόνοις ἡμίθεοι); un’espressione spiritosa e allitterante, forse proverbiale, in cui però sembra non inverosimile scorgere l’eco di Alex. 51, 4-5: Alessandro, nel bel mezzo della sua aspra contesa verbale con Clito, che l’aveva rimproverato di  3. Cf. superst. 170 F. 4. Cf. superst. 165 EF. 140 Giuseppe Lozza dare la precedenza sui Macedoni ai barbari persiani, si rivolge a due cortigiani con queste parole di scherno volte a relativizzare, anzi a umiliare, la presunta superiorità macedone: «Non vi sembra che i Greci passeggino fra i Macedoni come semidèi in mezzo ad animali?» (οὐ δοκοῦσιν ὑμῖν οἱ Ἕλληνες ἐν τοῖς Μακεδόσιν ὥσπερ ἐν θηρίοις ἡμίθεοι περιπατεῖν;). La consonanza fra il passo sinesiano e quello plutarcheo sembra in questo caso evidente, data anche la similarità della prospettiva: pure per Sinesio il senso di superiorità mostrato da quei concittadini non ha ragion d’essere, come per Alessandro quello dei Macedoni; ovvio che il tono sinesiano si mantenga sul piano di un piacevole gioco di reminiscenza letteraria, senza l’aggressività che spira dal passo plutarcheo. Fonte plutarchea ha probabilmente la citazione del comportamento di Temistocle nell’ep. 93 a Esichio, un amico di Cirene, al quale Sinesio chiede un favore per la famiglia acquisita del fratello, ricordandogli che Temistocle «declinava ogni carica nella quale i suoi amici non avessero avuto nulla di più dei forestieri».5 Qui la notizia corrisponde esattamente a quanto Plutarco narra in Aristid. 2, 4, dove la parzialità di Temistocle è messa svantaggiosamente a confronto con l’onestà scrupolosa di Aristide, che mai si era curato dell’appoggio di una potente cerchia di amici come invece aveva fatto il suo rivale. Ancora una volta, la prospettiva sinesiana permette di alludere al passo plutarcheo ma nello stesso tempo di piegarlo, anzi rovesciarlo, a fini più modesti e squisitamente personali: Sinesio non chiede appoggi o favori per se stesso, quanto un provvedimento di sgravî fiscali per la suocera del fratello; lungi dal rifarsi retoricamente a un passato lontanissimo, la situazione è assai realistica, dato che il peso della tassazione ricadeva sempre più pesantemente sul ceto dei curiales a cui lo scrittore e il suo entourage appartenevano.6 Altra probabile reminiscenza plutarchea si può rinvenire nell’ep. 3, indirizzata al fratello ma non databile, là dove Sinesio cita un λογογράφος a proposito della genealogia di Laide, la nota cortigiana di quarto secolo a. C., di cui viene appunto ricordata l’origine servile: qui il raffronto non può che condurre a Plutarco, Nic. 15, 4. Appena Alcibiade ebbe abbandonato la flotta ateniese in Sicilia, Nicia prese il comando supremo e compì il periplo dell’isola, ma si limitò ad attaccare Iccara, una fortezza di poco conto; e in quell’occasione, narra il biografo, fu catturata Laide, ancora giovanissima, e portata nel Peloponneso: λέγεται καὶ Λαΐδα τὴν ἑταίραν ἔτι κόρην ἐν τοῖς αἰχμαλώτοις πραθεῖσαν εἰς Πελοπόννησον κομισθῆναι. Di questa notizia Plutarco è infatti, prima di Sinesio, l’unica fonte a noi nota. Una notevole concordanza verbale si ravvisa in ep. 137, dedicata al compagno di studi e amico  5. Cf. Sinesio, Opere a c. di A. Garzya, Torino 1989, 238. 6. In proposito non esistono più dubbi: cf. D. Roques, Synésios de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987, 128. Tracce plutarchee in Sinesio 141 Erculiano e relativamente giovanile.7 Sinesio ricorda un precetto fondamentale dell’epistolografia tardoantica, quello della συντομία (brevitas), e di una certa riservatezza disimpegnata, tale da escludere dal commercio epistolare argomenti troppo speculativi.8 Egli ritorna con il pensiero agli anni del comune studio alla scuola di Ipazia, e alla pronta confidenza che l’amico gli aveva ispirato e che l’aveva spinto a rivelare a lui, pur conosciuto di recente, il suo pensiero filosofico; questo egli vorrebbe approfondire, ma sa che per lettera ciò risulterebbe improprio: τὸ γὰρ τῆς ἐπιστολῆς πρᾶγμα οὐκ ἐχέμυθον, ἀλλὰ φύσιν ἔχει τῷ περιτυχόντι προσδιαλέγεσθαι. Come giustamente commenta A. Garzya, la segretezza dei contenuti filosofici era raccomandata soprattutto dai pitagorici, e di conseguenza dai loro continuatori tardoantichi, ma anche da un neoplatonico come Giamblico intriso di pitagorismo; e ancora una volta ci soccorre la testimonianza di Plutarco: Numa, re filosofo e pio per eccellenza, vuole temperare la durezza guerriera della Roma arcaica ereditata da Romolo con provvedimenti legislativi e con rituali più miti, non esclusa una certa qual riverenza superstiziosa nei confronti della divinità (ὑπὸ δεισιδαιμονίας):9 tutto ciò dovuto, secondo il biografo, all’influsso di Pitagora, nonché al culto delle Muse, fra le quali Numa istruì i Romani a venerare soprattutto Tacita, la musa del silenzio, e Plutarco commenta: ὅπερ εἶναι δοκεῖ τὴν Πυθαγόρειον ἀπομνημονεύοντος ἐχεμυθίαν καὶ τιμῶντος. 10 Alla medesima immagine Sinesio ritorna nell’ep. 142, sempre rivolta a Erculiano e strettamente legata alla precedente: egli riconosce la propria debolezza, che lo allontana parecchio dagli eroi, anche se forse potrebbe imitare la loro riservatezza taciturna, πλὴν ὅσον μιμητὴς εἶναι τῆς ἐχεμυθίας ηὐξάμην.11 Anche qui sono in gioco la frequenza e la profondità di contenuti dello scambio epistolare fra i due amici. Letterale è la citazione da Plut. Phoc. 1, 2, a proposito della passata grandezza di Atene – un tema che, come abbiamo visto, Sinesio riprende più volte –, di cui restano solo le tracce nei suoi edifici, come di una vittima sacrificale di cui rimangano soltanto la lingua e le viscere, καθάπερ ἱερείου διαπεπραγμένου γλῶσσα καὶ κοιλία μόνον ἀπολείπεται. In Plutarco queste parole sarebbero state pronunciate da Antipatro sul conto di Demade, ormai vecchio e inutile dopo una vita spesa a compiacere i sovrani macedoni tradendo la sua stessa città, Atene per l’appunto. Sinesio riprende il dettato plutarcheo variandolo appena: ἱερείου διαπεπραγμένου τὸ δέρμα λείπεται γνώρισμα τοῦ  7. Garzya, Opere, cit., 330, la data fra il 393 e il 399, anni in cui Erculiano si trovava ad Alessandria. 8 . Anche per ragioni precauzionali, perché le lettere venivano affidate a qualche intermediario, della cui segretezza non si poteva sempre essere certi, e neppure del fatto che andassero a destinazione. 9. Cf. Num. 8, 3. 10. Cf. Num. 8, 6. 11. Cf. ep. 142, 7. 142 Giuseppe Lozza πάλαι ποτὲ ζώου, ma l’ipotesto rimane evidente, e certo il destinatario della lettera era perfettamente in grado di apprezzare la citazione colta. L’ultima reminiscenza dalle biografie plutarchee ravvisabile nell’epistolario è tratta dalla vita di Temistocle, in un’altra lettera indirizzata a Erculiano, l’ep. 144, non databile. Come molte altre, essa rappresenta un biglietto di raccomandazione a vantaggio di un amico, che in questo caso è anche il latore della missiva. In procinto di impegnarsi direttamente nell’attività politica per la sua città, Sinesio vuole assicurarsi l’appoggio di personaggi ragguardevoli, fra i quali il cristiano Isidoro di Pelusio, qui chiamato «il tuo sacro amico diacono» (τὸν ἱερὸν ἑταῖρον τὸν διάκονον), a cui Sinesio raccomanda di prepararsi «a affrontare l’avversario cavaliere»: γυμναζέσθω πρὸς ἀνταγωνιστὴν ἱππέα. La metafora agonistica sembra riprendere Them. 25, 1, dove Plutarco accenna ai cavalli di Ierone pronti a gareggiare a Olimpia, ἵππους ἀγωνιστάς. Ma le consonanze più notevoli fra Sinesio e Plutarco si rinvengono indubbiamente nell’opuscolo De Aegyptiis, che reca nella tradizione manoscritta il sottotitolo De providentia. In forma quasi romanzesca si narra la vicenda di Osiride e del malvagio fratello Tifone, che tentò di contendergli il regno d’Egitto, dapprima vittorioso ma poi rovinosamente sconfitto. Questa esile trama è il travestimento allegorico di convulse vicende politiche di cui Sinesio stesso fu almeno in parte testimone quando dovette recarsi a Costantinopoli, dove rimase suo malgrado per tre anni, dal 399 al 402,12 per donare ad Arcadio l’aurum coronarium ma soprattutto per chiedere sgravî fiscali a favore di Cirene. In tal senso, questo opuscolo è strettamente legato e forse di poco posteriore al De regno, anche nella polemica contro l’intervento dei barbari germani nell’impero romano, ormai unito solo di nome, ma de facto sul punto di separarsi definitivamente in due metà, orientale e occidentale. Non è dunque casuale che nel racconto il malvagio Tifone si serva dell’aiuto dei barbari, che Sinesio, alla fine del primo libro, designa come «lupi» (gli Unni) e come «leoni» (i Goti), e che la congiura contro Osiride venga organizzata con l’aiuto della moglie del comandante in capo dell’esercito egizio, una donna scitica, per caratterizzare la quale Sinesio ricorre a tutti i loci communes della misoginia antica e che, in quanto scita, appariva barbara per eccellenza, poiché i Greci davano spesso quell’appellativo a tutti quanti i popoli barbari. In Osiride tutti gli interpreti sono ormai concordi nell’identificare Aureliano, amico di Sinesio e praefectus praetorio Orientis, mentre in Tifone il fratello di lui Cesario, oppure – secondo alcuni – Gainas, da semplice soldato assurto alla carica di magister utriusque militiae, e capo dei Goti che si ribellarono al debole e giovanissimo imperatore Arcadio nel 400; ma con la prima interpretazione il contrasto fra i due fratelli sembrerebbe meglio corrispondente alla trama del racconto. La scelta di tale  12. Questa almeno è la datazione più probabile. Tracce plutarchee in Sinesio 143 allegoria riflette il prestigio di cui nel mondo greco, fin dall’età arcaica, godette l’Egitto con la sua cultura e la sua religione antichissima; e il precedente letterario più immediato si può rinvenire facilmente nel De Iside et Osiride, molto probabilmente ben noto a Sinesio. I due autori sono in fondo legati da molti elementi comuni: entrambi gentiluomini di campagna, honnêtes hommes, spesero però le loro energie al servizio delle proprie città d’origine, meno Plutarco e più Sinesio; la loro formazione culturale li portò ad apprezzare la filosofia platonica e un’etica che privilegiasse un accorto equilibrio morale, quella μετριοπάθεια stoica che però in fondo poco si distingueva dalla μεσότης aristotelica, e in ciò essi non si discostavano dall’eclettismo dominante negli ultimi secoli del paganesimo. Certo, l’esistenza di Sinesio fu assai più tormentata di quella del Cheronese, perché ben diversi furono i tempi in cui l’uno e l’altro vissero. Ma la lettura degli scritti sinesiani – esperienza molto piacevole anche per il lettore di oggi – rivela un saggio equilibrio non molto lontano da quello che domina i Moralia plutarchei. Date queste premesse, le finalità dei due scritti sono però completamente diverse: l’opuscolo plutarcheo rivela interessi storico-religiosi e antiquarî, mentre il pamphlet sinesiano ha, come si è detto, precisi agganci con la realtà contemporanea e forse anche il desiderio, pur prudentemente velato, di influire su di essa. Il ruolo di Iside, la sposa-sorella di Osiride, viene perciò completamente trascurato da Sinesio, mentre nell’opuscolo plutarcheo esso riveste un’importanza primaria, e anche Osiride è solo un principe reale, non più il dio della morte e della rinascita, non più il dio dell’Oltretomba che promette la salvezza ai suoi fedeli. Tuttavia la caratterizzazione di Osiride e di Tifone risponde ai medesimi stilemi, e in entrambi gli autori la contrapposizione fra bene e male non potrebbe essere più netta. In Plutarco la molteplicità degli elementi che entrano in gioco e l’interesse prevalente per l’eziologia dei riti legati alle divinità egizie risultano quasi dispersivi, mentre Sinesio trascura completamente questi elementi ed è assai più stringato e unitario nella sua narrazione. Ma vediamo qualche esempio concreto. Innanzi tutto, la caratterizzazione univocamente positiva di Osiride rispetta quella plutarchea, dove egli è l’opposto di tutte le forze del male, è la luce del sole, è la giustizia, il signore delle forze naturali benefiche, ancor più della divinità che muore e regna sui morti, com’era tradizione nella religione e nel culto egizi. All’opposto, Tifone è allegoria della tracotanza, del disordine, delle forze disgregatrici nella natura e nella società umana; 13 in ciò entrambi gli autori avevano facile gioco nell’etimologia del nome proprio, che suggeriva l’immediata connessione con τῦφος, ossia appunto con la tracotanza, la superbia, che tutta l’etica classica e la filosofia ellenistica condannavano senza appello; del resto, la lunga fortuna letteraria di Tifone era cominciata con  13. È interessante ricordare come in Temistio, or. 2, 34 A, Tifone sia identificato senza esitazione con il dominio dei barbari. 144 Giuseppe Lozza Esiodo,14 Eschilo15 e Pindaro.16 Specularmente, Plutarco etimologizza il nome di Osiride come derivante da ὅσιος e ἱερός).17 In Plutarco, però, i due sono soltanto fratellastri, perché Tifone, corrispettivo dell’egizio Seth, nacque da Rea e Crono, mentre Osiride da Rea e Helios;18 entrambi sono considerati dèmoni, ma Osiride e Iside vennero, secondo Plutarco, assunti fra gli dèi. In Sinesio non c’è traccia di demonologia, ed egli potenzia il contrasto innovando il mito e immaginandoli fratelli, entrambi figli del re Tauro, e avendo cura di aggiungere: «le anime sono o “nobili o ignobili”, e così può accadere che un Libico sia congiunto di un Parto e che al contrario quelli che noi chiamiamo fratelli non sieno per nulla legati da parentela di anime». 19 Osiride è dipinto secondo l’immagine del puer senex, ossia di colui che, fin dall’infanzia e dall’adolescenza, unisce al vigore fisico del giovane la prudenza e la saggezza dell’uomo adulto. Analogo è il dettato di Plutarco (356 AB), che definisce Osiride μέγας βασιλεὺς εὐεργέτης figlio di Helios (355 E) preannunciato al mondo da un misterioso oracolo tebano di Zeus.20 Ben presto, egli si accinge a civilizzare gli Egizi, insegnando loro a coltivare i campi, a rispettare le leggi e a venerare gli dèi (356 B); poi percorre il resto della terra, attirando a sé tutti i popoli non con la violenza, ma con una dolce persuasione, con il canto e ogni sorta di musica: per questo, continua Plutarco, i Greci l’hanno assimilato a Dioniso; 21 ma, potremmo aggiungere noi, tale figura divina presenta notevoli analogie anche con Eracle uccisore di mostri e civilizzatore. In realtà più diffusa e colorita appare la caratterizzazione del fratello malvagio Tifone, supremo esempio di brutalità, disonestà, lussuria e soprattutto rozzezza incolta, ma anche di incoerenza e incostanza: due tratti negativi, questi ultimi, che lo caratterizzano in antitesi al saggio stoico e neoplatonico, e lo privano del controllo di se stesso e degli altri, rendendolo incapace di assolvere adeguatamente a qualsiasi funzione pubblica; e da questo punto di vista, come è stato giustamente rilevato, 22 il Tifone sinesiano appare anche antitesi del legittimo e benefico βασιλεύς e invece incarnazione del τύραννος quale ormai veniva inteso in età tardoantica e bizantina: anche Temistio,  14. Cf. Theog. 820-68. 15. Cf. Aesch. Pr. 351-72. 16. Cf. Pyth. 1, 16-28. 17. Cf. Is. et Os. 375 E. 18. Cf. Is. et Os. 351 F, 355 F-356 A. 19. Cf. Sinesio, Opere, cit., 457 (la traduzione, qui e altrove, è di A. Garzya). 20. In tutto questo passo, Plutarco si lancia in una spericolata interpretatio Graeca delle divinità egizie, che ovviamente manca completamente nel testo sinesiano. 21. Ed è anche assimilabile all’Oceano, in quanto signore dell’acqua e dell’umido elemento fecondante e origine di tutte le cose (364 D), di cui egli sarebbe ἀπορροή (365 B). In generale, per l’azione benefica attribuita a Osiride cf. anche 356 B. 22. Cf. A.V.M. Pizzone, Simboli di regalità nel De providentia di Sinesio di Cirene. ΤAXIS e ΕUKOSMIA, I, «Prometheus» 27 (2001) 73-92 (soprattutto 84-86); II, ibid. 175-186. Tracce plutarchee in Sinesio 145 qualche anno prima, si era servito della mitologia tifonia per condannare l’usurpatore Magnenzio e esaltare Costanzo II. Ciò significa che lo scritto sinesiano va letto su un doppio registro: il riferimento immediato è al dissidio fra Aureliano e Cesario, ma più latamente esso mira a mettere in evidenza l’ideologia imperiale, che viene ribadita esplicitamente nel De regno, il βασιλικός λόγος rivolto ad Arcadio. Comunque, nel racconto sinesiano, Tauro, il padre loro, «re, sacerdote e filosofo», e secondo gli Egizi anche dio, avvedendosi di tutto ciò e rendendosi conto dell’approssimarsi della morte, decide di preparare la successione al trono per il saggio Osiride: un momento a cui Sinesio dedica ampio spazio e che presenta, certo non casualmente, forti analogie con il cerimoniale dell’elezione imperiale tardoromana e bizantina: un’elezione a cui partecipano essenzialmente i militari e i sacerdoti,23 nonché gli dèi egizi stessi, che, in questo caso, si pronunciano immediatamente a favore di Osiride, prima ancora che abbia luogo la votazione vera e propria. Una volta eletto, Osiride rifiuta la proposta di scacciare il fratello, sebbene il padre lo incoraggi in questo senso con argomentazioni che costituiscono una vera e propria lezione di filosofia neoplatonica. 24 Al nome di Osiride nella scrittura geroglifica appartiene, secondo Plutarco, «il disegno di un occhio e di uno scettro», e il suo nome stesso lo indicherebbe come il dio dai molti occhi; 25 e il simbolo dell’occhio ritorna, potenziato, in Sinesio, che ricorda del dio «l’imagine misterica recante due coppie di occhi, delle quali la inferiore deve chiudersi quando la superiore stia guardando, e quando questa si chiuda quella passa a sua volta a guardare. Considera che questo è l’enigma della teoria e della prassi». 26 Preciso riscontro plutarcheo trova anche la menzione degli eroi custodi dell’umanità (ἡρώων φῦλον ἱερὸν ἐπιμελὲς ἀνθρώπων): in Is. et Os. 361 B. Plutarco infatti chiama in causa esplicitamente la demonologia di Senocrate, parlando di dèmoni malvagi e dèmoni buoni, che sono φύλακας ἀνθρώπων, secondo il dettato già esiodeo,27 e che in De defectu oraculorum 415 A vengono senz’altro definiti come intermediarî fra gli dèi e gli uomini, secondo il celebre spunto platonico del Simposio. Altro raffronto puntuale è l’utilizzo dell’immagine dei due orci, ossia la citazione di Il. 24, 527-530, rispettivamente nel De insomniis 8 e nel de providentia  23. Si veda, anche a questo proposito, tutto l’ampio contributo, già citato, di Pizzone. Fra l’altro, Sinesio ha cura di ricordare come gli stranieri, anche mercenarî, fossero esclusi dalla possibilità di votare: questo in coerenza con la sua avversione per i barbari. Non a caso, «porcari e stranieri, massa sciocca e numerosa», avrebbero sostenuto lo stolto Tifone. Tutto questo episodio presenta strette consonanze con Plut. Is. et Os. 354 BC. 24. Garzya segnala, ad esempio, Plot. 1, 6, 9, 41; e la complessa gerarchia degli esseri dalla Monade agli esseri sensibili molteplici, nella quale trovano posto dèmoni buoni e dèmoni malvagi, sviluppata soprattutto da Giamblico nel De mysteriis. 25. Cf. Is. et Os. 355 A. 26. Cf. Sinesio, Opere, cit., 475. 27. Cf. Hes. Op. 123 = 253. 146 Giuseppe Lozza II 6 sinesiani e in de Iside et Osiride 369 C plutarcheo. 28 In entrambi i passi sinesiani la citazione dei versi omerici vale a spiegare l’opposizione dei caratteri e dei destini umani: è la divinità stessa a distribuire equamente agli uomini il bene e il male, come Achille aveva ricordato a Priamo mediante l’allegoria dei due orci, l’uno datore di beni e l’altro datore di mali. È, nel caso del De providentia, un’allegoria nell’allegoria, che serve a spiegare l’opposizione assoluta l’uno rispetto all’altro dei due fratelli Osiride e Tifone. 29 Nel De insomniis la medesima allegoria giustifica l’inestricabile legame dell’anima umana con la materia, quest’ultima intesa evidentemente come l’elemento negativo del composto. Analogamente, in Plutarco i versi omerici rappresentano icasticamente il dualismo intrinseco che segna il racconto del conflitto fra Osiride e Tifone ma anche l’interpretazione filosofica del cosmo. Ecco le sue parole: «Sono molti gli elementi che determinano (l’universo), e in tutti il bene e il male sono mescolati; o, per meglio dire, quaggiù non esiste niente in natura che sia completamente puro. D’altra parte non si può pensare che ci sia un solo dispensiere che versi le nostre esperienze da due orci differenti, mescolandole con vera arte da locandiere come se fossero vino: la nostra vita è sì frutto di una mescolanza, e così pure il cosmo, ma di una mescolanza che deriva dall’essere trascinati da due principî contrarî e da due forze in opposizione, che ci spingono ora a destra ora a sinistra, ora in avanti ora all’indietro».30 Plutarco sembra con queste parole porsi in atteggiamento critico nei confronti dei versi omerici: alla sua religiosità ripugna pensare che la divinità possa essere causa del male, e perciò sottolinea come Omero proponga una spiegazione semplicistica, troppo schematica della presenza del bene e del male nel mondo, che, a suo giudizio, sono invece sempre inscindibili e mescolati. Sinesio ha invece alle sue spalle la lunga tradizione neoplatonica, che in sostanza ammetteva tale dualismo molto pronunciato; e dunque aderisce alla rappresentazione omerica, anche perché tutto il suo discorso mira a creare il contrasto maggiore possibile fra Osiride (il bene) e Tifone (il male). E tuttavia egli, pur salvando il dettato omerico, tenta di conciliarlo con il dogma platonico, secondo il quale la divinità sarebbe comunque incolpevole (θεὸς ἀναίτιος), affermando che la provvidenza rende il male stesso uno strumento del bene: così Sinesio si pronuncia anche nell’ep. 41. Essa è in realtà una lunga lettera aperta indirizzata ai fedeli e ai sacerdoti di Tolemaide e probabilmente databile al 412, quando ormai Sinesio  28. Questi versi erano d’altronde entrati al centro di una polemica plurisecolare a partire da Plat. resp. II 379cd, che li cita come esempio di immoralità poetica. 29 . Del resto fu Plutarco colui che per primo usò nel significato traslato il verbo ἀλληγωρέω in Is. et Os. 362 AB, sebbene egli, come poi Sinesio, usi di preferenza il verbo αἰνίττομαι. 30 . Come osserva A.V.M. Pizzone, Sinesio e la “sacra ancora” di Omero. Intertestualità e modelli tra retorica e filosofia, Milano 2006, 131-133, questi versi omerici dovettero essere molto presenti a Plutarco, che li cita più volte, oscillando fra il desiderio di assolvere Omero e l’adesione alla critica platonica. Tracce plutarchee in Sinesio 147 aveva assunto l’impegnativa carica vescovile, per metterli in guardia dal prefetto Andronico, che viene presentato come un vero e proprio flagello e strumento del male. Ma subito fin dall’esordio Sinesio afferma: «Le potenze del male contribuiscono alla realizzazione nell’universo dei disegni della provvidenza (puniscono infatti chi merita punizione), ma cionondimeno sono in odio a Dio e bisogna aborrirle.»31. Fra l’altro, questa lettera presenta una consonanza con Is. et Os. 354 B, laddove Sinesio ricorda come «gli Egizi e la nazione degli Ebrei furon governati per lungo tempo dai loro sacerdoti»; e Plutarco infatti, in quel passo dichiara che gli Egizi sceglievano i loro sovrani ἐκ τῶν ἱερέων – ma anche dai soldati, particolare che Sinesio omette, forse perché non pertinente alla sua argomentazione. Insomma, nell’epistola come nel trattato, egli afferma la medesima teoria, che in sostanza subordina il male al bene in un’ottica che non stona nemmeno con la teologia cristiana, alla quale Sinesio si sforzava faticosamente di conciliare il neoplatonismo. Come sottolinea nel De providentia, in definitiva chi compie il male lo compie sempre volontariamente, ed è dunque responsabile l’individuo, non la divinità.32 Tornando alla narrazione delle vicende di Osiride e Tifone, lo spunto plutarcheo serve a Sinesio per procedere a intessere, come si è detto, una trama quasi romanzesca: evidentemente non gli interessano le interpretazioni e le digressioni sulla religione egizia che arricchiscono, ma rendono anche faticoso, l’opuscolo plutarcheo, non a caso definito da Norden come una delle opere più difficili dell’intera letteratura greca. 33 Piuttosto, il lettore moderno ammira la fluidità e la vivacità della narrazione sinesiana, non priva di qualche spunto decisamente comico, per esempio nel dipingere la disperazione di Tifone per l’avvento al trono dell’odiato fratello e le trame intessute dalla moglie di costui, ritratta secondo la più tradizionale misoginia greca in contrasto con le perfette virtù della moglie di Osiride.34 Non c’è traccia, nell’opuscolo sinesiano, della morte di Osiride e della laboriosa ricerca del suo cadavere da parte di Iside, che invece occupa molte pagine plutarchee: era questo un elemento indispensabile nell’ambito del mito egizio, intorno al quale Plutarco costruì uno schema filosofico ternario, dove Osiride rappresenterebbe il Logos, l’Essere supremo, Iside, in posizione subordinata, la materia ricettiva, e Horos il mondo nato dall’unione di quei due elementi. Invece Sinesio non dimentica la vera destinazione del suo scritto, ossia Arcadio e i suoi cortigiani, e preferisce ampliare l’abbrivio plutarcheo sui benefici che il buon sovrano, appena salito al trono, procurò ai suoi sudditi. Plutarco scrive così: «Uno dei primi atti che si  31. Cf. Sinesio, Opere, cit., 121. 32. Per un’ampia trattazione di tutto questo aspetto del pensiero sinesiano cf. Pizzone, Sinesio e la “sacra ancora” di Omero, cit., 134-150. 33. Cf. E. Norden, Die Geburt des Kindes, Leipzig 1924, 98. 34. Forse questa figura può essere lo sviluppo di un cenno plutarcheo all’aiuto ricevuto da Tifone da parte di una non meglio identificata regina etiope: cf. Is. et Os. 356 B. 148 Giuseppe Lozza dice Osiride abbia compiuto durante il suo regno, fu quello di liberare gli Egizi dal loro modo di vivere povero e primitivo, mostrando loro i frutti dei campi, dando loro leggi e insegnando a venerare gli dèi. Poi egli percorse tutta la terra, civilizzandola senza il minimo ricorso alle armi, ma attirando a sé la maggior parte dei popoli incantandoli con la persuasione, con la parola, il canto e ogni genere di musica. Ecco perché i Greci giunsero a identificarlo con Dioniso».35 Anche Sinesio dichiara che Osiride, «un essere per nulla adatto a questa terra», ben presto s’accinse a blandirne i mali senza fare nessun uso della forza, ma sacrificando a Peitò, alle Muse e alle Cariti per indurre tutti a conformarsi spontaneamente alla legge».36 Qui il richiamo a Plutarco sembra fuori dubbio; ma poi egli preferisce sviluppare l’embrione plutarcheo in un vero e proprio Fürstenspiegel che raffigura Osiride con i tratti tradizionalmente attribuiti al sovrano ideale. In particolare, Sinesio si sofferma sui benefici che vengono conferiti ai sudditi sul piano economico e più propriamente fiscale – punto dolente dell’amministrazione tardoantica per chi, come Sinesio, apparteneva al ceto dei curiales vessato dalla tassazione; ma anche sull’elevazione morale che al popolo derivava da un sovrano esemplare come Osiride. Ed è interessante notare come, nella reazione negativa che viene attribuita al malvagio Tifone, irato di fronte alle lodi rivolte al fratello, si possa scorgere l’eventuale rovescio della medaglia dei βασιλικοὶ λόγοι, forse non sempre a tutti graditi, anche se pochi avrebbero avuto l’ardire, nella realtà, di esprimere il proprio disappunto con la rozza violenza del mostro. La congiura di costui contro il fratello prende pur essa spunto da Plutarco, ma solo per alcuni tratti: mentre questi si attiene al mito egizio della morte, e poi rinascita, del dio Osiride, Sinesio non può che adottare un’altra soluzione. Osiride viene sconfitto dalla perfidia di Tifone, ma gli viene risparmiata la vita dai soldati stessi e trattato con rispetto per timore della reazione popolare; sarà semplicemente costretto ad allontanarsi per un certo tempo, che Sinesio non vuole precisare, così come non si sofferma su nessuno dei crudi dettagli che il mito egizio proponeva nella narrazione plutarchea. Tutto si svolge in un clima che in fondo non ha nulla di feroce né di minaccioso, dove il lieto fine s’intuisce facilmente. La rivincita di Osiride avverrà per opera degli Egizi stessi, che si ribellano agli Sciti oppressori schierati dalla parte di Tifone, e li sconfiggono. Ma l’autore avverte che non gli è lecito addentrarsi nella narrazione: tutto questo deve rimanere avvolto nel mistero, e sarebbe cosa empia rivelare le cose sacre: «a questo punto dobbiamo guardarci dal rivelare i misteri ineffabili»; 37 dichiarazione che anticipa di poco la discussione sul problema del male e la citazione dei versi omerici di cui s’è detto sopra, di stampo neoplatonico ma in fondo non discordante dall’aura misterica che anche secondo Plutarco finì per circondare il mito egizio. La meditazione  35. Cf. Is. et Os. 356 AB. 36. Cf. prov. 1, 12. 37. Cf. prov. 2, 6. Tracce plutarchee in Sinesio 149 trova del resto ampio spazio nella figura di «un uomo d’indole severa, educato dalla filosofia a un costume rude, estraneo ai modi cittadini».38 Egli osserva i tristi accadimenti che turbano il regno egizio, la sconfitta e l’esilio di Osiride, ascolta voci misteriose che sembrano preannunciare il crollo imminente dell’empio Tifone, quando costui giunga ad attentare alla religione e al culto tradizionali. E anche qui si riscontra un punto di contatto veramente testuale con lo scritto plutarcheo: sarebbero giunti, medita il saggio, «anni futuri nei quali il figlio Oro39 avrebbe preferito allearsi col lupo anziché col leone.» (I 18). Questo passo corrisponde strettamente a Is. et Os. 358 C: nell’ambito di un dialogo fra Osiride e Horos, il padre chiede al figlio quale animale ritenga più utile per la battaglia imminente contro Tifone; «quando Oros rispose “un cavallo”, τοῦ δ᾽ Ὀρου ἵππον εἰπόντος, Osiride rimase sorpreso perché non avesse detto “un leone” anziché un cavallo». Qui Benseler proponeva di correggere λύκον al posto di ἵππον proprio sul fondamento del passo sinesiano, anche con il vantaggio di evitare lo iato. Ma la proposta non ha incontrato favore, perché evitare lo iato non è preoccupazione costante di Plutarco; in verità, come sottolinea nel suo commento Griffiths,40 il lupo era animale sacro a Horos; ma il dio veniva spesso rappresentato a cavallo, sicché, a fronte della concorde tradizione manoscritta, l’emendazione di Benseler sembra piuttosto arbitraria. In questo breve contributo ho scelto di concentrarmi particolarmente sull’influenza esercitata su Sinesio dal de Iside et Osiride; ma nell’opera sinesiana si possono rinvenire tracce di altri opuscoli plutarchei, oltre agli esempi qui riportati tratti dall’epistolario, anche in scritti apparentemente meno impegnati come l’encomio della calvizie. Il quadro complessivo che si ricava dalla lettura di Sinesio offre dunque l’impressione che egli non abbia sfruttato Plutarco in maniera intensiva; piuttosto, il biografo e moralista, ma anche l’esponente del medio platonismo appare, per così dire, sotto traccia un po’ dovunque nella sua produzione, anche se costituì una fonte primaria solo per il De providentia, senza dubbio, insieme al De regno, l’opuscolo sinesiano più impegnato e rilevante. Una presenza, quella plutarchea, che, pur non essendo continua come quella di Dione Crisostomo, è però tutt’altro che priva di rilievo per la messa a punto delle letture che costituirono il fondamento della ricca e molteplice cultura sinesiana.  38. Cf. prov. 1, 18. 39. Evidentemente il corrispettivo di Horus. 40. Cf. J. G. Griffiths, Plutarch’s De Iside et Osiride, Cambridge 1970, 347. 150 Giuseppe Lozza Bibliografia Griffiths, J. G., Plutarch’s De Iside et Osiride, Cambridge 1970. Norden, E., Die Geburt des Kindes, Leipzig 1924 Pizzone, Aglae V. M., Simboli di regalità nel De providentia di Sinesio di Cirene. ΤAXIS e ΕUKOSMIA, I, «Prometheus» 27, 2001, 73-92; II, ibid., 175-186. Pizzone, Aglae V. M., Sinesio e la “sacra ancora” di Omero. Intertestualità e modelli tra retorica e filosofia, Milano 2006. Roques, D., Synésios de Cyrène et la Cyrénaïque du Bas-Empire, Paris 1987. Sinesio. Opere, a c. di A Garzya, Torino 1989. Synésios, Correspondance. Tome III», a c. di A. Garzya-D. Roques, Paris 2003.