sistemi linguistici
sisteme lingvistice
systèmes linguistiques
Louis Begioni – Sophie Saffi – Ştefan Gencărău
Interdit. Essays on the origin of Language(s)
a cura di Marco Castagna
La revue numérique SISTEMI LINGUISTICI en cours de création, s’accompagne
d’une publication papier au tirage limité. Elle illustre les principales réflexions dans le
domaine de la linguistique, avec une attention particulière pour les langues romanes.
Chaque numéro est soumis à la relecture de quatre experts anonymes, spécialistes de la
thématique proposée. Toutes les langues peuvent être objet d'étude; toutes les écoles
théoriques sont accueillies; les différentes disciplines des Sciences du langage peuvent
trouver leur place dans la revue SISTEMI LINGUISTICI : acquisition, cognition, lexicologie, morphologie, phonologie, pragmatique, psychomécanique du langage, rhétorique, sociolinguistique, stylistique, syntaxe, traitement automatique, typologie etc.
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Université d’Aix-Marseille, CAER EA 854, France.
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Universitatea Babeş Bolyai din Cluj-Napoca, Facultatea de Litere, România.
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composant un large éventail des travaux existants sur la question. Pour soumettre un
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sistemi linguistici
sisteme lingvistice
systèmes linguistiques
Louis Begioni – Sophie Saffi – Ştefan Gencărău
Interdit. Essays on the origin
of Language(s).
a cura di Marco Castagna
1/2012
Éditions du CIRRMI, Paris – Presa Universitară Clujeană
2012
Descrierea CIP a Bibliotecii Naţionale a României
Sistemi linguistici = Sisteme lingvistice = Systèmes linguistiques:
interdit: essays on the origin of language(s) / Louis Begioni,
Sophie Saffi, Ştefan Gencărău, Marco Castagna (coord.). - Paris:
CIRRMI, Université de la Sorbonne Nouvelle; Cluj-Napoca: Presa
Universitară Clujeană, 2012
Bibliogr.
ISBN 2-910007-23-5
ISBN 978-973-595-427-7
I. Begioni, Louis (coord.)
II. Saffi, Sophie (coord.)
III. Gencărău, Ştefan (coord.)
IV. Castagna, Marco (coord.)
81
© Louis Begioni, Sophie Saffi, Ştefan Gencărău, Marco Castagna, 2012.
Universitatea Babeş-Bolyai
Presa Universitară Clujeană
Director: Codruţa Săcelean
Str. Hasdeu nr. 51
400371 Cluj-Napoca, România
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Alciati Emblemata CLIX
Amicitia etiam post mortem durans
Andrea Casole
Gallipoli 1976 – Bari 2011
Bruno Schettini
Napoli 1952 – 2011
Introduzione
Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
Di Marco Castagna
Come andò la faccenda del mondo incolto:
che Orfeo alle fiere, Anfione ai sassi
cantarono la natura e ‘l potere degli dei,
onde gli ammansirono ed unirono nelle città?
Giambattista Vico, Sinopsi del diritto universale
andarono con pari passo
lo spedirsi le idee, e lo spedirsi le lingue
Giambattista Vico, La Scienza Nuova
8 marzo 1866: il tema dell’origine delle lingue e del linguaggio entra a far
parte ufficialmente della storia delle idee. Si tratta, infatti, della data in cui si dà
approvazione ministeriale allo statuto della Société de linguistique de Paris, i cui
primi due articoli contengono un singolare interdetto:
Article premier. La Société de Linguistique a pour but l’étude des langues, celle des
légendes, traditions, coutumes, documents, pouvant éclairer la science ethnographique. Tout autre objet d’études est rigoureusement interdit.
Art.2. La Societé n’admet aucune communication concernant, soit l’origine du
langage, soit la création d’une langue universelle1.
Quando, nel 1876, la SLP abolirà l’articolo 2, la nuova formulazione apparirà,
comunque, come inglobante quella precedente (Vendryes 1921):
Art.1. La société a pour objet l’étude des langues et l’histoire du langage. Toute
autre sujet d’études est rigoureusement interdit2.
1
Articolo Primo. La Società di Linguistica individua il proprio scopo nello studio delle lingue,
oltre che delle leggende, delle tradizioni, dei costumi e dei documenti in grado di istruire
la scienza etnografica.
Art.2. La Società non accetta comunicazioni relative all’origine del linguaggio o all’elaborazione di alcuna lingua universale.
2 Art.1. La società ha per oggetto di studio le lingue e la storia del linguaggio. Qualsiasi
altro tema è rigorosamente interdetto.
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Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
Affermandosi come giudizio restrittivo a partire dalla natura dell’oggetto
di studio, l’interdetto della SLP può essere considerato un caso unico nel
campo delle scienze umane, di cui si può trovare il proprio analogo solo
altrove, ad esempio nel caso della quadratura del cerchio o del movimento
perpetuo (Auroux 2000: 381, 2007:15).
È possibile interpretare il gesto non solo alla luce di un quadro storicopolitico (ad esempio come scelta in grado di evitare le discussioni riguardanti
dogmi religiosi, sfuggendo così al contrasto tra evoluzionismo darwinista e
creazionismo giudaico-cristiano) ma, soprattutto, come risposta alla necessità –
da tempo fortemente avvertita dagli studiosi delle lingue – di definire
chiaramente i confini epistemologici e l’identità di una nuova disciplina: la
linguistica.
A partire da questo momento, infatti, tutta la tradizione di studi che passa
per il Corso di Linguistica Generale di de Saussure (1916) sarà caratterizzata da
un generale rifiuto ad impegnarsi in ricerche sulle origini del linguaggio o
sull’ipotesi di una lingua perfetta. Si tratta, principalmente, di considerare
entrambi i temi come estranei, a priori, all’area di pertinenza della linguistica,
dal momento che questa ha per oggetto le lingue ben formate, ovvero prese in
considerazione nel loro stato “attuale” (sincronico, strutturale); ad essa, dunque,
non è dato di elaborarne di nuove, né di constatarne l’evoluzione, e meno che
mai di determinarne l’origine. Piuttosto, si assisterà spesso alla redazione di
accurati inventari di argomentazioni elaborate al fine di dimostrare come non
vi sia possibilità di risoluzione del problema dell’origine del linguaggio, né
nello studio delle lingue antiche o di quelle dei“ selvaggi”, ma neanche dalle
ricerche sul linguaggio infantile (Vendryes 1921).
Eppure, nonostante la decisa approvazione con cui è stata tramandata
negli ambienti della linguistica, questa posizione non ha mai messo davvero
fine alle speculazioni. Fin dalle sue origini, ovvero già all’interno della SLP,
l’interdetto non è mai riuscito ad ottenere davvero l’unanimità dei consensi. La
questione dell’origine delle lingue come quella dell’origine dell’uomo cui è
irrimediabilmente legata, è stata e continua ad essere indagata dalle prospettive più diverse durante tutto il percorso della nostra storia intellettuale.
Miti arcaici o religiosi, teorie filosofiche, speculazioni più o meno oziose,
racconti di esperienze improbabili, apportati durante i secoli, lavori di linguisti,
antropologi, archeologie e biologi: pochi soggetti hanno beneficiato di una
preoccupazione così costante ed appassionata (Eco 1993).
A ben vedere, dunque, il rinnovarsi continuo della domanda sull’origine
non può essere attribuito soltanto al modo in cui le singole discipline
ricontestualizzano di volta in volta il rapporto con il proprio oggetto
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Introduzione
d’indagine (Mounin: 15-16); è lecito chiedersi, piuttosto, se e in che modo la
questione ecceda i confini del problema epistemologico.
Allargando l’orizzonte dalla linguistica alle “idee linguistiche” (Gensini
2006: 85), ciò che nelle diverse epoche si è immaginato sull’origine delle lingue
e del linguaggio trova, piuttosto, posto nella storia stessa di ogni epoca, o in
una sorta di psicoanalisi ideologica dell’epoca, espressa attraverso le sue
mitologie linguistiche. Di volta in volta, in una continua alternanza di
accettazione e rifiuto, l’interdetto traccia l’orizzonte sempre rinviato – e per ciò
stesso invalicabile – dell’umano desiderio di dare senso alla propria presenza
al mondo, che ogni epoca scopre in se stessa.
D’altronde, interdire non è proibire.
Diversamente dalla “proibizione” (lat. pro-hibeo), in cui qualcuno si
sostituisce – più propriamente, si “mette al posto di” – qualcun altro,
l’“interdizione” (lat. inter-dicere) indica l’atto di porsi – fisicamente – tra due
parti, regolandone lo scambio dialogico. Ed è proprio in questa accezione che, a
partire dalla seconda metà del XX secolo, attraversando uno spazio di ricerche
che va dall’antropologia alla psicoanalisi, il tema dell’interdetto trova
accoglienza nella riflessione continentale sul ruolo che il linguaggio assume
nella costruzione della soggettività.
I segni, infatti, poiché strutturalmente privi di un significato proprio,
introducono nel reale una separazione tra “presenza” e “assenza”, trasformando ciò che semplicemente è (la Natura) in ciò che sarebbe potuto anche non
essere (la Cultura). Ovviamente, il mondo naturale non scompare ma (kantiana
das Ding) rimane ineffabile Alterità (Lacan 1994). Ciò che è reale è dunque
percepito e ciò che appartiene al reale non può che essere presente. Ma perché
si possa rilevare l’assenza di qualcosa di “reale”, è necessario che ci si possa
rappresentare il reale come altro da ciò che non è, ovvero che si possa
simbolizzare il reale (Lacan 1998).
Si compie, così, un completo rovesciamento della posizione platonica: non
è perché c’è il Vero che può esserci il linguaggio, ma è perché c’è il Linguaggio
che emerge un’esigenza di Verità, un desiderio di Senso.
Perciò, la condizione desiderante è una “condizione vuota”, una mancanza
non congiunturale o temporanea, bensì strutturale ed eterna. In questo modo,
la parola strappa il soggetto umano alla genealogia naturale, lo sottrae alla
riduzione a semplice “essere vivente”, al prezzo di renderlo un corpo
desiderante che non ha risposte assolute.
In altre parole, il luogo di ciò che è presente proprio lì dove è assente,
questo luogo impersonale, che esercita un’autorità puramente logica, è il linguaggio, e la lingua diventa desiderio, scrittura analogica di questa impotenza
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Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
a dire l’inaccessibilità, a rappresentare l’infinito. Ciò è evidente in ogni
relazione semiotica, significante/significato o espressione/contenuto, in cui ‘/’
è come l’indizio, la frontiera che separa l’ordine significante da ciò che è “fuorisignificato”.
Il linguaggio, per sua natura, interdice l’accesso all’Origine, (alla Verità, al
Senso, alla Cosa della ragione critica o della psicanalisi), ma al tempo stesso, è
proprio in questa inter-dizione, come spazio significante, che il tempo
dell’umano, in quanto desiderio, ha inizio.
Come il vuoto per la fisica non è uno spazio “assente”, ma la condizione di
un equilibrio dinamico, allo stesso modo, in una prospettiva antropologica, il
linguaggio dovrà essere considerato come lo spazio polisemico che rende
possibile la costruzione discorsiva dell’identità narrativa.
Si comprende, così, perché il linguaggio non possa essere ridotto ad una
delle sue funzioni; poiché esso è, al contrario, ciò che rende possibile la
significazione stessa di ogni comunicazione. Ed allo stesso modo, appare
chiaro che l’idea enciclopedica del completo controllo sulle lingue, sulla loro
“nascita o “morte”, sulla possibilità di elaborarne di “perfette”, sia un desiderio
inevitabilmente destinato ad essere insoddisfatto.
La cultura occidentale conserva in molti racconti la memoria narrata della
frustrante esperienza dell’interdetto (del Sapere, della Verità, del Senso): dalle
numerose – ma non per questo più accreditabili – letture in chiave punitiva
dell’episodio biblico di Babele, al drammatico rapporto tra Prometeo e il fuoco
degli dèi. Eppure, accanto alla memoria del fallimento, altre favole “originarie”
narrano di esperienze diverse.
Così, Giambattista Vico può ritrovare la potenza semantica della lira di
Orfeo, negli stessi anni in cui James Harris (1751) dedica alla figura di Hermes
un’opera che già Condillac consiglierà ad Herder, e che – mentre la nascente
linguistica francese affronta i propri problemi d’identità – celebrerà, nel
traguardo dell’ottava ristampa, una longevità secolare.
Si tratta, in altri termini, di contribuire allo sviluppo di una prospettiva
d’indagine in cui l’assenza di un’Origine Assoluta – che si tratti del Senso, della
Verità o di una Grammatica Universale – non sia vissuta come la sconfitta
dell’umano che si esprime nell’imperfezione della lingua. In questa prospettiva,
al contrario, quello che sembrava essere il limite dell’essere umano, diviene
“possibilità”, nel senso di una “capacità” condizionante verso quell’“attualità”
a cui esso si trova legato in un rapporto di costante trasformazione.
Si sviluppa, così, una concezione dinamica del linguaggio, che non ha più il
compito di “svolgere” un pensiero o un senso che sia già organizzato, ma di
esprimere attraverso lo spazio performativo del segno e della lingua. In questo,
10
Introduzione
infatti, si rendono inseparabili pensiero e linguaggio: il pensiero non c’è senza
la vita e l’idea non esiste se non nel fatto (Masullo 1995).
Nella sua dimensione effettuale e sociale, dunque, che il linguaggio
manifesta la propria capacità evolutiva. La “ragione linguistica” (Pititto 2008) è
“conoscenza-in-contesto”, che può essere acquisita e comunicata solo attraverso
la prassi (senza escludere con ciò la possibilità che essa possa provenire dalla
conoscenza acquisita tramite la lettura o che, in secondo momento, possa essa
stessa essere trascritta) e che, di conseguenza, è in costante evoluzione in
relazione alle pratiche da cui è informata: l’origine della pratica significante del
linguaggio e delle lingue non è altrove o prima, essa è, piuttosto, continuamente
legata in sé all’agire umano.
Nessuna data di nascita sarà registrata nelle pagine che seguono. Tuttavia,
accettare l’impossibilità di un momento in cui l’essere umano “come tale”
appaia al mondo ex nihilo, comporta ben altro che la proibizione all’indagine; si
tratta, al contrario, di un forte richiamo alla responsabilità di continuare ad
interrogarsi, di spostare sempre “oltre” l’orizzonte dell’interdetto, predisponendo adeguati spazi di analisi in cui possano emergere i tratti dell’identità
evolutiva di quell’esperienza solo umana che definiamo “linguaggio”.
Qu’en savons-nous de l’origine du langage? è il titolo dell’intervento di
MICHAEL HERSLUND, e, allo stesso tempo, l’interrogativo che articola in discorso
tutti i saggi successivi. Chiedersi a che punto della sua storia evolutiva la specie
ha maturato caratteristiche anatomo-neurologiche tali da consentire il padroneggiare una lingua, significa chiedersi quali siano oggi, per il Sapiens sapiens, le
precondizioni anatomo-neurologiche necessarie, anche ontogeneticamente,
all’uso del linguaggio. Ma chiedersi quali siano le forme di attività economicoproduttiva o le forme socio-culturali che presuppongono l’uso del linguaggio,
significa chiedersi anche quali funzioni ineludibili esso svolga nell’organizzazione dell’attività mentale e dei comportamenti umani. Inoltre, formulati in tal
modo, entrambi gli interrogativi richiedono che l’integrazione dei dati ottenuti
avvenga, avendo come punto di riferimento una mappa concettuale credibile
delle proprietà e delle caratteristiche del linguaggio verbale. Si impone, perciò,
una nuova questione: in che cosa il linguaggio verbale si differenzia da altri
codici di comunicazione controllabili da altri mammiferi superiori e primati, ai
quali è tuttavia precluso l’uso pieno di lingue storico-naturali? Quali sono le
caratteristiche specifiche di questo fenomeno, tali da orientare le ricerche di dati
di ordine anatomo-fisiologico e antropologico-culturale?
Di questo discorso, Herslund evidenzia i tratti essenziali. Dalle ipotesi di
natura biologica sulle capacità fonatorie del Néandertal, a quelle di natura
culturale sulle lingue creole o sull’introduzione della scrittura, lo sviluppo e
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Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
l’uso della lingua rinviano ad una dimensione semiotico-cognitiva che è
individuabile unicamente dell’esperienza umana, che non giustifica una
creazione ex nihilo, che non è attribuibile alla sola evoluzione di apparati fisici,
e in cui resta, perciò, sempre evidente il divario tra uomo e animale. Nei
termini del lessico di Austin, confrontarsi con l’origine del linguaggio umano
equivale ad affrontarne la dimensione performativa.
Nella storia della filosofia del linguaggio, tale dimensione sembra caratterizzare originalmente la riflessione del XVIII secolo, su cui si concentra il primo
gruppo di interventi (l’horizon interdit). Nel quadro di una filosofia europea
che si andava sviluppando sotto l’influsso delle scoperte di Newton e della
riflessione di Locke, è possibile incontrare la figura di Condillac. FRANCESCO
DE CAROLIS (La questione dell’origine del linguaggio in Condillac) evidenzia
l’originalità che l’enciclopedista francese, nell’intendere il linguaggio come un
sistema dinamico, che immaginazione e memoria rendono capace di
rispondere alle nuove esigenze che il pensiero apre di volta in volta davanti a
sé, e in cui il continuo scambio interpersonale segna il passaggio da un
originario linguaggio “d’azione” (la gestualità) ad uno più propriamente
convenzionale (la scrittura). Nella prospettiva di Condillac, dunque, la
questione dell’origine si allontana dalla questione cronologica dell’emergere
del linguaggio. Ciò che è oggetto d’indagine è, piuttosto, una Ragione
“linguistica” che, in aperta polemica con la ragione critica kantiana, sia capace
di rendere conto della storicità dell’essere umano.
Nella stessa direzione si muove anche la riflessione di Herder, in cui
l’armoniosa unità di individuale e universale – di matrice leibniziana – sostiene
l’ipotesi dell’origine umana del linguaggio. In altre parole, si tratta di porre la
simbolizzazione come “cominciamento” umano, e di qui parte anche la
rilettura del contributo herderiano al tema dell’origine che FABRIZIO
LOMONACO offre nel proprio intervento (La question de l’origine du langage dans
l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder). In una prospettiva simbolica, la storia
umana si distingue dalla rivelazione dell’evento divino e la ragione rivela la
propria dimensione vivente e concreta. È, infatti, attraverso la riflessione
sull’arbitrarietà del linguaggio, che Herder riesce nell’intento di superare la
prospettiva kantiana – forse eccessivamente formale e metafisica – sul rapporto
tra intelletto e sensibilità, giungendo al riconoscimento della dimensione
esperienziale della ragione. Così, diversamente da quanto avviene
nell’impianto kantiano – normativo ed antigenetico – per cui la logica si
interroga non su “come pensiamo” ma su “come dobbiamo pensare”, Herder
argomenta originalmente in favore di una ricerca intorno ai processi di
acquisizione genetici e naturalistici, ovvero intorno ad una fisiologia dei poteri
conoscitivi dell’uomo.
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Introduzione
Si tratta del concetto herderiano di Besonnenheit, che SIMONA VENEZIA
(Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel
confronto con Herder) ritraduce con “riflessività” piuttosto che con il più
frequente “sensatezza”, a rimarcare la novità della lettura heideggeriana
dell’opera di Herder. Secondo Heidegger, infatti, la riflessività herderiana
costituisce una “direzione” delle forze propria del genere umano: la riflessività
non è, infatti, solo un’attitudine dell’uomo, ma una vera e propria attività
performativa, ovvero quella capacità che permette all’uomo di attuare la
caratteristica fondamentale del linguaggio, che è quella di attribuire tratti
distintivi, di entrare in relazione con il mondo circostante non solo attraverso la
referenza, ma, soprattutto, attraverso una differenziazione necessaria all’interazione comunicativa e sociale.
Il secondo gruppo di saggi (Signes d’interdiction) riflette sul tema dell’origine interrogando i segni di questa differenziazione originaria.
È evidente che ognuno parli ad altri delle proprie esperienze e che gli altri
lo comprendano. Ma come è possibile che un individuo possa combinare
linguisticamente un evento “privato” con l’intersoggettività? Prendiamo in
considerazione – come fa GIORGIO RIZZO in Wittgenstein On Private Episodes –
l’esperienza del “dolore”. Rileggendo Wittgenstein a partire da Jaakko e
Hintikka, l’analisi critica l’ingenua pretesa che possa esistere una natura
oggettiva del linguaggio, identificata attraverso la sua referenza diretta alla
realtà. Pur non negando la fiscalità dei processi di comprensione, ciò che viene
messo in questione è l’idea che l’esperienza, anche quella più intima, possa
essere colta come un dato immediato piuttosto che come una struttura
significante (come intendere altrimenti la menzogna della spia o la grammatica
dell’amante?); ovvero, che esista una netta separazione tra interiorità ed
esteriorità.
Nell’ambito di studio delle neuroscienze, la necessità di guardare al
rapporto tra pensiero, lingua e linguaggio come fenomeni inscindibili, trova la
propria possibilità nella prospettiva evoluzionista. Si tratta di rifiutare,
innanzitutto, quella lunga tradizione che – dalla narrazione biblica fino a
Chomsky – ritiene il linguaggio un fenomeno apparso, con tutta la sua
complessità, in un unico momento, per decisione di dio o per una fortuita
combinazione: una sorta di teoria del big bang applicata all’origine del
linguaggio. Così, in Language evolution: Exorcizing the ghost, MICHAEL C.
CORBALLIS – confrontandosi con i risultati sui neuroni specchio come quelli
della semantica cognitiva – propone l’ipotesi che il linguaggio di una graduale
evoluzione funzionale del linguaggio, avvenuta sulla base di un originario
sistema dedicato al controllo intenzionale alla percezione dell’afferrare e di un
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Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
processo mentale ricorsivo non linguistico (chronoesthesia ou voyage mental dans
le temps). Così delineato, tale scenario offre la base per definire l’evoluzione del
linguaggio come il risultato di una selezione naturale, in cui il lessico delle
lingue storiche appare come il risultato di un lento processo di astrazione e
convenzionalizzazione iniziato con il gesto e giunto fino alla cultura verbale.
Su quest’aspetto evolutivo si concentra, dalla prospettiva del linguista, lo
studio di LOUIS BEGIONI (Le concept de déflexivité pour expliquer l’évolution des
langues romanes). Al fine di sviluppare alcune ipotesi tipologiche, lo studioso
propone, qui, una riflessione sul concetto di déflexivité condotto attraverso
l’analisi delle lingue romanze. Nel quadro della psicomeccanica del linguaggio
elaborato da Gustave Guillaume, la “déflexivité” affronta la teoria della parola
“storicamente”, ovvero osservando il processo diacronico attraverso cui un
significato, inizialmente legato alla forma di una parola, acquista una propria
indipendenza all’interno della lingua. Si tratta, in alte parole, di collocarsi alla
“nascita” della parola. Attraverso la referenza alla sfera personale del parlante,
questo studio permette, dunque, di collocare il fenomeno della “déflexivité”
nel quadro di un processo di dematerializzazione delle unità linguistiche (che
parte dai dati esperienziali e arriva all’astrazione del sistema formale) e, al
tempo stesso, di formulare un interessante ipotesi sull’evoluzione ciclica delle
lingue.
Ancora una volta, è in risposta all’esigenza di rendere conto della dimensione simbolico-categoriale dell’esperienza umana, che, in Language and
schizophrenia: a common origin?, ROCCO PITITTO propone di sviluppare una
prospettiva d’indagine sul fenomeno del linguaggio, in grado di conciliare
aspetti evolutivi e genetici. La possibilità che i mirror neurons siano presenti
anche nel cervello umano, e non solo in quello degli scimpanzé, accredita
l’ipotesi di un’origine imitativo-motoria del linguaggio come gesto; ciò non
rende impossibile, tuttavia, considerare in termini evolutivi (ovvero accettando
che ogni nuova acquisizione comporti degli “effetti secondari”), che l’apparire
della schizofrenia nel genere Homo potrebbe essere il sintomo di quella che è
un’innegabile prerogativa del linguaggio umano, ovvero la possibilità di
slegarsi dal limite ostensivo del segno, determinandone la capacità di
categorizzare la realtà e dando origine alla società così come la conosciamo.
A conclusione del percorso, con Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e
poi” della parola “parlante” della lingua, CARLO A. AUGIERI – tenendo insieme di
fronte a sé, alla maniera di Paul Ricœur, i testi di Leopardi come quelli di
Mann, di Ignazio di Loyola o di De Martino – disegna un itinerario dialogante
che va da Barthes a Barthes, dall’occhio al pianto; ideale risposta semio-poetica
all’analisi logico-filosofica di Rizzo, in cui le lacrime, evocazione di ciò che
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Introduzione
manca ma di cui allo stesso tempo si conserva la traccia, sono espressione della
lingua del segreto e del tempo segreto dell’uomo. Il pianto, derivato dalla
commozione causata dall’occhio, che vede ora l’allora, dà testimonianza della
presenza dell’assente e del presente del passato: prima ancora che la parola
intervenga nel “dire” qualcosa, l’essere che si coglie mortale, attraverso le
lacrime racconta già ad altri la sua storia.
È l’universalità della narrazione che appare nelle dinamiche evolutive
della lingua e del linguaggio. Non esistono segni “naturali” nell’esperienza
umana: per l’uomo in quanto tale non esiste il “non-narrativo”, al più il “non
ancora narrativo”. Il linguaggio appare, definitivamente, come inter-dit, spazio
in cui raccontare di sé, degli altri e di sé agli altri, della storia umana. Così, il
terzo gruppo di saggi (Les espaces de l’interdit) considerando il linguaggio
principalmente come espressione intersoggettiva, ne indaga l’origine in
rapporto alle forme del contatto sociale e della comunicazione. In questa
prospettiva, perciò, il linguaggio sarebbe originariamente costituito come
specificazione delle diverse possibilità di comportamento comunitario.
Così, in Genealogia del linguaggio, l’iniziale domanda di Herslund viene
riproposta nella prospetttiva di un’antropologia filosofica: “quando e come la
parola ha cominciato a umanizzare?” Sottolineate “tutte le differenze possibili”
con gli altri fenomeni di comunicazione, NICOLA RUSSO individua la
dimensione originaria d’interpellanza del linguaggio – potremmo dire il
“desiderio di riconoscimento” – in cui si apre lo spazio originario del Tu,
estraneo a qualsiasi “informazione” ed implicito, invece, in ogni “parola”,
anche nella forma riflessa del sé o in quella orante della preghiera. È in questo
spazio che il gesto e la parola divengono praxis, ovvero quando ritornano su se
stessi e si colgono riflessivamente come “tecnica”: non come oggetti o
strumenti, ma come macchinazioni, espressioni concrete di un protendersi
verso la realtà, per afferrarla nella parola, e custodirla nella memoria.
Nel saggio From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration, questa
originaria protensione alla realtà è definita nei termini ricœuriani di
“intelligenza narrativa”: la narratività affida originariamente al linguaggio –
che si esprime principalmente attraverso le lingue – una produzione di
significato che non è descrizione oggettiva ma ipotesi di senso sulla realtà,
sempre oscillante, per propria natura, tra negoziazione e riconoscimento.
Non è un caso, dunque, se, partiti da Condillac, terminiamo con Rousseau.
Sebbene per entrambi, l’origine del linguaggio sia di natura convenzionale, la
ricerca di un livello più originario allontana progressivamente il secondo dalla
possibilità di concepire tale evoluzione come lineare. In questa prospettiva,
ALESSANDRO ARIENZO (Legislators as musicians. On Rousseau’s melodious
15
Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
foundation of democratic republicanism) analizzando il passaggio dal Discours
all’Essais, evidenzia la significatività del sottotitolo dell’Essais sur l’Origine des
langues: “où il est parlé de la mélodie et de l’imitation musicale”. Compositore
e torico della musica, Rousseau è convinto che un brano musicale non può
essere ridotto ad una combinazione armonica di note: nel primo caso è il
disegno a dare l’ordine compositivo, nel secondo la melodia. Nell’evoluzione
delle lingue, la convenzionalità segna il salto evolutivo del linguaggio ma, al
tempo stesso, essa costituisce l’allontanamento dalla perfettibilità dell’immediatezza naturale, preferendo l’armonia alla melodia. Da un lato, dunque, il
linguaggio esprime originariamente la tensione delle passioni, dall’altro le
parole sono segni arbitrari che servono a chiarire e delimitare – a “normativizzare” – la molteplicità delle idee e degli eventi. Come potranno, allora, i
legislatori, “musicisti” dell’armonia, tenere conto della melodia? Saranno
capaci di proteggere i cittadini dal “rumore” della ragion di Stato?
Al passaggio dal XVIII al XIX secolo, portando a compimento la riflessione
di Condillac sulla natura dinamica delle lingue e del linguaggio, e considerando le lingue come realtà storiche che l’uso quotidiano pone in costante
trasformazione, Destutt de Tracy (1803) dichiara che l’esistenza di una lingua
universale sia da considerarsi impossibile almeno quanto il movimento
perpetuo. A partire da questo momento, l’Institut de France rifiuterà ogni
intervento sul tema della lingua perfetta. Si inaugura, così, una nuova stagione
per la riflessione sul rapporto tra pensiero, linguaggio e società: la stagione
degli Idéologues.
Allo stesso modo, il nostro percorso, partito dalla riflessione linguistica di
Herslund sulle dinamiche semiotico-cognitive della lingua e del linguaggio,
giunge alla dimensione socio-cognitiva dell’Ideologia nel quadro di un’analisi
critica del Discorso. Le ricerche di TEUN VAN DIJK offrono, oggi, il quadro più
sistematico di questa prospettiva, traducendola in efficace strumento critico.
Purtroppo, l’esiguo numero di traduzioni italiane non rende conto
dell’ampiezza di tali ricerche. Perciò, in appendice, con Ideologia e Analisi del
Discorso, si è cercato di offrire al lettore italiano la possibilità di confrontarsi
con una sintesi del modello proposto da van Dijk e con la sua applicazione
nell’analisi discorsiva di un editoriale del Sunday Telegraph sulla redistribuzione del reddito del Regno Unito.
Perché interrogarsi sull’origine è sempre un modo per comprendere
meglio la quotidiana esperienza dell’inter-dit.
Ringrazio ognuno degli autori per l’entusiasta partecipazione ai lavori di
questo primo numero di Sistemi Linguistici; in particolare, i miei ringraziamenti
16
Introduzione
vanno al Prof. Louis Begioni che è all’origine, al Prof. Rocco Pititto per la
paziente fiducia, il Prof. Lomonaco per la presenza discreta e costante, il Prof.
Arienzo per il sostegno quotidiano, ai due caporedattori della rivista Sistemi
Linguistici, la Prof.ssa Sophie Saffi e il Prof. Stefan Gencarau, per la loro
collaborazione.
Nelle pagine bianche di questo volume è inscritta la presenza di due
incancellabili figure: quella del Prof. BRUNO SCHETTINI, che educava
incontrando; e quella del Prof. ANDREA CASOLE, melodiosa presenza nel
discorso filosofico. A loro va il nostro amicale ricordo.
Riferimenti bibliografici
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VICO, G., Opere, 1914-1940, Roma-Bari, Laterza.
17
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
Michael Herslund
Center for Europaforskning, IKK
Dalgas Have 15, 2000 Frederiksberg, Copenhague
email: mh.ikk@cbs.dk
La question de l’origine du langage humain n’est peut-être pas des plus en
vogue, ni des plus urgentes parmi les multiples problèmes que soulève l’étude
du langage. En effet, cette question est, depuis longtemps, considérée comme
un problème que des linguistes sérieux ne perdent pas leur temps à vouloir
résoudre, c’est le domaine des fous et des amateurs illuminés. Par conséquent,
la question a été bannie des discussions des sociétés scientifiques comme la
Société linguistique de Paris, dont les statuts de 1866 dans l’article II
explicitement interdisent les discussions sur l’origine du langage ou la création
d’un langage universel.
Il n’en est pas moins possible d’examiner la question de façon équilibrée
et, au moins, d’indiquer la sorte d’évidence qu’on pourra alléguer.
1. Langage, communication animale et évolution de l’homme
Comme les autres animaux supérieurs, les hommes communiquent entre
eux. Mais contrairement à toute autre espèce, l’homme a développé un système
de communication radicalement différent de ceux qu’on trouve dans le monde
des animaux. Or, tout système de communication est fondamentalement ancré
dans le même principe sémiotique, à savoir le signe, c’est-à-dire le fait qu’une
expression (un signifiant) donnée renvoie à un contenu (un signifié) relié
conventionnellement à cette expression. (Pour le moment, je mets de côté le fait
que le langage humain est beaucoup plus qu’un système de communication, et
qu’il remplit, comme on le sait, d’autres fonctions peut-être plus importantes.
Je reviendrai à cet aspect dans la section 4. ci-dessous.)
Ce système a dû surgir à un moment donné de l’évolution de l’espèce
humaine. Le caractère unique du langage humain est regardé comme le trait
décisif qui distingue l’homme de ses parents les plus proches, les singes
anthropomorphes. Et c’est aussi ce caractère unique qui est considéré comme la
condition préalable à toute l’évolution culturelle de l’homme. On voit donc que
la question de l’origine du langage n’est peut-être pas tout à fait exempte
d’intérêt.
19
Michael Herslund
Comme déjà dit, beaucoup d’animaux (supérieurs) communiquent entre
eux en quelque sorte, et beaucoup ont un comportement social complexe et
avancé. On allègue souvent des exemples de comportement communicatif
sophistiqué parmi les animaux, depuis les baleines jusqu’aux abeilles. Mais ce
qui distingue la communication humaine de la communication animale est le
fait que celle-ci – du moins à ce que nous sachions – est toujours holophrastique et liée au contexte immédiat : les signes qu’utilisent les animaux ne
sont pas décomposables en segments récurrents et sont toujours déclenchés par
des situations précises comme par exemple celle d’un danger ou d’une menace.
Au contraire, la communication humaine est analysable en segments plus
petits récurrents et n’est pas nécessairement liée à la situation actuelle des
locuteurs. Cette différence fondamentale est évidemment bien connue des
linguistes, mais apparemment pas toujours aussi évidente pour les chercheurs
spécialisés dans le comportement animal, et encore moins pour le grand
public. On connaît en effet des cas de singes, par exemple, dont les cris
d’avertissement sont différenciés selon le danger qui se présente : venant de
l’air (un oiseau rapace), venant de l’arbre même où se trouvent les singes (un
serpent), ou de la terre (un léopard, par exemple). Cela semble prouver que les
animaux possèdent des signes différenciés qui sont déterminés par le but, et
non seulement des émissions de sons instinctives. Mais le point essentiel reste
quand même que de tels signaux ne peuvent pas être décomposés en segments
plus petits récurrents tels que les phonèmes du langage humain : les signaux
restent résolument holophrastiques.
A la différence de tels signaux, le langage humain est construit sur la base
de segments discrets récurrents, à savoir au maximum une trentaine de
phonèmes. D’un certain point de vue, le langage est constitué par une double
articulation : la chaîne phonique se divise d’abord en phonèmes, qui, ensuite,
se groupent en morphèmes et en lexèmes. Cette double articulation se compose
donc de segments différentiateurs (les phonèmes) et de segments porteurs de
sens (morphèmes et lexèmes) respectivement. Ces unités permettent la création
d’un nombre infini de nouvelles combinaisons à l’aide de règles, c’est-à-dire de
grammaires. Et ces combinaisons permettent aux hommes de communiquer
sur tout, où et quand bon leur semble. On n’a jamais entendu parler d’un
signal de singes avec le contenu suivant : “ Si, il y a trois jours quand il avait
plu, un serpent s’était approché du côté gauche, il aurait suffi que tu montes
seulement trois branches, parce que les serpents ont du mal à se déplacer sur
des branches mouillées ...”
Mais des messages pareils ne posent aucun problème pour le langage
humain, comme on le voit. Et malgré toutes les expériences menées avec des
chimpanzés pour démontrer leurs capacités langagières, personne n’a jamais, à
ma connaissance du moins, réussi à amener un chimpanzé à raconter ce qu’il a
fait la veille.
20
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
Des chercheurs qui étudient le comportement chimpanzé semblent parfois
vouloir convaincre le grand public, surtout dans des émissions télévisées très
populaires, qu’il n’y a pas de différence qualitative entre l’homme et le grand
singe : les chimpanzés ont une faculté langagière tout comme les humains, on
peut les entraîner à communiquer par un système de signes pareil au langage
des sourds-muets, non seulement avec l’entraîneur, mais aussi entre eux.
Curieusement, ils ne semblent jamais le faire spontanément. Et s’ils n’ont pas
développé un langage oral, cela est dû au fait que leur système phonatoire –
bouche, pharynx et larynx – n’a pas évolué de façon adéquate pour la création
de sons différenciés. A cela, on pourrait objecter qu’en ce cas, ils auraient pu
développer un langage par signes. Bien sûr, les chimpanzés peuvent être
amenés à communiquer de façon rudimentaire, mais ils ne semblent jamais
dépasser le stade des enfants humains de deux ou trois ans. Et ils semblent
incapables de manipuler des symboles complexes. Ce que les expériences sur
les chimpanzés semblent montrer, c’est que ces singes, tout comme plusieurs
autres animaux supérieurs d’ailleurs, ont des capacités cognitives et
sémiotiques comparables à ce qu’on s’attend à rencontrer chez les premiers
hominidés, les capacités nécessaires à l’évolution du langage articulé.
Mais essayons de circonscrire le problème de l’origine du langage de façon
plus précise. Le langage a été le résultat d’un processus très long, sur des
millions d’années certainement, un processus dont le point de départ peut très
bien être des facultés cognitives et sémiotiques comparables à ce qu’on trouve
chez les chimpanzés. Avec, en plus, les modifications du système phonatoire
liées à la station debout permanente et la démarche bipède de l’homme.
Nous aurons besoin, au moins, de prendre en considération les étapes
suivantes dans l’évolution de l’homme :
Homo habilis (env. – 1, 8 million d’années):
- Utilise des outils
- Construit des gîtes/des places pour dormir
- Chasse collectivement (Langaney 1988: 30)
Cette description ne distingue pas l’homo habilis des chimpanzés et ne
présuppose pas un langage − les loups et les hyènes aussi chassent en groupes
− mais elle peut suggérer les débuts d’une faculté langagière.
Homo erectus (env. – 1, 6 million d’années):
- Fabrique des outils
- Possède une vie sociale
- Utilise le feu depuis env. – 400 000 (ib. 31)
L’homo erectus est le premier humain indiscutable : la station debout est
permanente, il fabrique ses outils, ne se contente plus de ramasser une pierre
ou une branche pour ses besions immédiats, et il se sert du feu. Une capacité
langagière est probable et une sorte de langage possible. Le seul fait de
21
Michael Herslund
fabriquer les outils semble présupposer des processus d’apprentissage, qui, à
leur tour, présupposent une sorte de langage.
Homo sapiens neandertaliensis (env. – 140 000 (− 120 000) à − 40 000 (−30 000)
ans):
- Fabrique des outils
- Possède une vie sociale
- Utilise le feu
- Enterre ses morts
La place des néandertaliens dans l’évolution de l’homme est controversée,
mais ils sont souvent considérés comme une branche parallèle de l’arbre
évolutionnaire. Leur organisation sociale assez avancée et leurs cérémonies
funèbres laissent supposer qu’ils ont communiqué par un langage articulé. Je
reviendrai à la question de leur capacité langagière dans la section 2.2.
Homo sapiens sapiens (env. – 80 000 ans, en Europe depuis env. – 30 000 ans,
l’homme de Cro Magnon) est aujourd’hui le seul représentant de l’espèce
humaine et ne se distingue en rien de l’homme contemporain. L’espèce a
probablement possédé un langage : environ – 50 000 ans, le langage humain
existe certainement. Le scénario total supposé est présenté dans la figure 1.
Figure 1.
22
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
Nous ne connaissons évidemment pas aujourd’hui l’origine exacte du
langage humain. Certains chercheurs, comme Joseph Greenberg et Merritt
Ruhlen (1994, 1998), soutiennent que le langage s’est manifesté chez l’homo
sapiens sapiens dans un endroit précis et s’est ensuite répandu avec les
migrations de l’espèce : il y aurait donc une seule langue mère. D’autres
penchent plutôt pour la vue que c’est seulement la capacité langagière qui s’est
répandue, les langues (au pluriel) se développant en plusieurs endroits à des
moments différents, entre – 1 000 000 et – 30 000 ans. Les différences évidentes
et les ressemblances fondamentales entre les langues du monde sont
compatibles avec les deux hypothèses. Ce qui est sûr, c’est que l’homo sapiens
sapiens a migré de l’ancien monde et s’est répandu partout sur la terre, pour
arriver finalement en Amérique il y a environ 15 000 ans.
Environ – 50 000 à – 40 000, c’est-à-dire à la transition du mésopaléothique
au néopaléothique, des outils différenciés apparaissent pour la première fois
comme indicateurs de l’existence de styles et d’arts locaux. Dans cette
perspective, il semble bien fondé de conclure que le langage tel que nous le
connaissons existe à cette époque, c’est-à-dire il y a environ 50 000 ans. Cela
coïnciderait avec le pas décisif que franchit l’homme en abandonnant
définitivement l’adaptation biologique à l’environnement en faveur de
réponses culturelles aux défis de celui-ci. Cela veut dire qu’au lieu de
développer par exemple des bras plus longs ou des oreilles plus grandes,
l’homme interagit avec son environnement en inventant des outils de plus en
plus efficaces et une organisation sociale de plus en plus sophistiquée. Le
langage semble être aussi bien partie intégrante que condition préalable à cette
transition décisive.
2. Evidence externe de l’origine du langage
Quand on discute l’origine du langage, il faut se rappeler un fait
fondamental : aussi loin dans le temps que nous pouvons suivre les langues, et
ce n’est pas très loin, en fait seulement quelque 5000 ans, c’est-à-dire jusqu’à
environ 3000 ans avant notre ère, nous ne constatons aucune sorte de
développement qualitatif. Les langues attestées sous forme écrite ont toutes la
même forme et sorte de complexité que les langues de nos jours – avec
quelques exceptions, pourtant, sur lesquelles je reviendrai ci-dessous.
Or, les langues que nous connaissons aujourd’hui ont dû se développer à
partir de stades plus primitifs. Quand bien même le langage représenterait un
saut qualitatif dans l’évolution, il n’a pas, bien entendu, été créé d’un coup à
un moment précis. Il doit y avoir quelque chose entre la faculté langagière
comparable à celle des chimpanzés, qu’on peut admettre par hypothèse pour
l’homo habilis, et les langues pleinement développées chez l’homo sapiens
23
Michael Herslund
sapiens. Cette évolution très longue est lié au développement gradué des
facultés neurales et cognitives qui déterminent les capacités sémiotiques dont
dépend le langage. Sa nature phonique présuppose aussi le développement
gradué de l’appareil phonatoire pour rendre possible la création de sons rapide
et précise qui caractérise le langage humain. Cette dernière question nous met
en présence de la question classique de la poule et de l’œuf : est-ce que c’est la
station debout suivie d’une descente du larynx qui est à l’origine de l’usage de
sons différenciés pour la communication, ou est-ce que c’est l’usage de tels
sons qui a favorisé les individus ayant le larynx descendu – même si la
descente du larynx présentait un danger potentiel pour ces individus, à savoir
le risque d’avaler de travers et de s’étrangler, et ne favorisait que l’émission de
sons ? Quoi qu’il en soit, d’autres animaux tels que les baleines et les cerfs
connaissent aussi une descente du larynx. Que le langage soit finalement un
système de communication phonique, c’est-à-dire une spécialisation des
organes respiratoires et alimentaires, qui sont là de toute façon, indépendamment du langage, n’est pas en soi très surprenant : ainsi, on peut communiquer la nuit, à travers différents obstacles et à distance, et on peut en même
temps se servir des mains, l’alternative évidente, pour d’autres besognes.
Que savons-nous donc des stades qui ont été parcourus depuis la
communication animale holophrastique, en passant par un système de signaux
primitif et rudimentaire jusqu’au système de symboles sophistiqué,
doublement articulé et économique dont se sert l’homme ? Nous pouvons en
effet en dire quelque chose, mais évidemment pas tout sur tous les détails.
2.1. L’acquisition du langage
On peut entrevoir quelques éléments de l’origine du langage en étudiant
l’acquisition du langage par les enfants et en utilisant avec précaution la loi
biogénétique de Haeckel. Selon celle-ci, l’ontogenèse reflète la phylogenèse.
Les stades que parcourt l’acquisition du langage chez les enfants pourraient
être une sorte d’image de l’évolution du langage chez l’espèce. Cette hypothèse
comporte au moins deux aspects intéressants :
1. Anatomiquement parlant, le nouveau-né n’est pas tout à fait prêt. Les
organes phonatoires ne sont pas en place, le larynx ne descend qu’à l’âge d’un
an. L’anatomie du très petit enfant ressemble en effet à celle de l’homme de
Néandertal (Lieberman, Crelin 1971).
2. L’acquisition même du langage se produit à une vitesse incroyable à
travers des stades qu’on peut supposer analogues à ceux de l’évolution du
langage (Lyons 1977: 85ss.; Fry 1977: 101ss.):
1. Un premier stade où l’enfant babille, explore le spectre phonique et
acoustique, et développe une sensibilité aux contours prosodiques.
24
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
2. Vers la fin de la première année, on constate la présence de signaux
holophrastiques, l’enfant semble programmé pour la communication
sonore. Vers l’âge de deux ans, des énoncés de deux et de trois mots
sont produits.
3. A travers les stades deux et trois, jusqu’à l’âge de quatre ans environ, le
langage est pleinement développé. L’enfant arrive à maîtriser le
système phonologique en acquérant d’abord les distinctions et oppositions basales, dominantes et non-marquées (Jakobson 1944), alors que
les traits récessifs, ou marqués, tels que les consonnes isolées [r] et [l] ne
sont acquis que plus tard, quand l’enfant parle proprement.
Un tel scénario pour l’origine et l’évolution du langage chez l’espèce ne me
semble pas trop irréaliste.
2.2. L’homme de Néandertal
Même si l’homme de Néandertal semble constituer une branche particulière,
en fait un cul-de-sac dans l’évolution de l’homme, on peut supposer que si les
Néandertaliens avaient une sorte de langage, on peut sûrement admettre la
même chose pour leurs contemporains de l’espèce homo sapiens sapiens.
L’examen des capacités phonétiques des Néandertaliens à travers une
reconstitution de leur appareil phonatoire, mené par Lieberman & Crelin
(1971), montre que, du moins phonétiquement, ils étaient capables de
manipuler assez de distinctions sonores pour pouvoir avoir une sorte de
langage, probablement plus simple que les langues connues.
Figure 2.
Distinctions phonologiques du langage humain moderne (gras)
vs. les distinctions néandertaliennes.
25
Michael Herslund
Comme il ressort de la figure 2, seules sont possibles les oppositions simples
et dominantes, pas l’opposition autrement universelle entre consonnes orales
et nasales (Jakobson 1944: 61ss.). Le triangle vocalique néandertalien est plus
étroit – mais toujours un triangle ! Parmi les consonnes, on ne trouve que des
distinctions simples telles que celle entre occlusive et fricative ([b]/[v]), ou
labiale versus dentale ([b]/[d]), mais les consonnes palatales ou vélaires ([g])
sont absentes. Il faut ajouter que la validité de la reconstitution de Lieberman
et Crelin a été mise en doute (Morris 1974), mais selon la critique de cet auteur,
les capacités phonétiques des Néandertaliens ont en effet été plus larges que
supposées par Lieberman et Crelin.
Les conditions préalables à un langage doublement articulé semblent donc
être réunies : les facultés cognitives et neurales qu’on peut inférer de ce que
nous savons par ailleurs de la civilisation néandertalienne, et un appareil
phonatoire adéquat. Mais même si les Néandertaliens possédaient un langage,
nous ne savons rien de ses distinctions lexicales et grammaticales. Un tel savoir
peut peut-être se dégager d’autres sources.
2.3. Les langues créoles
Les créoles sont des langues dont l’origine, selon l’interprétation la plus
répandue, est un pidgin ou langue de contact simplifiée qui a été transmise à
des générations nouvelles comme langue maternelle (voir pourtant Arends
2001: 182). Les créoles sont surtout des langues basées sur des langues européennes apprises par les esclaves et d’autres groupes opprimés en Caraïbe, en
Afrique et en Asie orientale.
Alors que le langage enfantin est supposé récapituler, dans l’espace de
quelques années, l’évolution du langage, les créoles, encore selon une opinion
répandue, font la même chose dans l’espace de quelques siècles : la plupart des
créoles ont moins de 400 ans d’âge et semblent donc montrer, comme si c’était
devant nos yeux, la création du langage. On peut les voir comme une version
condensée de l’histoire du langage (Hagège 1985: 38), ou encore une ontogenèse comme un abrégé de la phylogenèse (39). Les créoles apparaissent, dans
cette perspective, comme le « chaînon manquant » entre les systèmes de signaux
primitifs chez les premiers humains (homo habilis, homo erectus) et le langage
humain de nos jours selon Bickerton (1981 et aussi Valdman 1978: 15ss.).
L’aspect le plus intéressant de la question créole est le fait que les créoles
montrent des traits communs troublants, entre eux et avec le langage enfantin
précoce. Phonologiquement, ils possèdent peu de distinctions, qui sont
presque uniquement dominantes, et la prosodie joue un rôle important (cf. 2.1
et Hagège 1985: 50). Grammaticalement, les créoles ont tendance à posséder
26
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
peu de distinctions, et celles-ci sont surtout de type binaire: par exemple dans
le verbe, une distinction temporelle entre antérieur et non-antérieur, une
distinction modale entre réel et non-réel, et une distinction aspectuelle entre le
ponctuel et le non-ponctuel. Le lexique est caractérisé par des structures
simples, hautement motivées, la composition et la répétition dominant la
créativité lexicale. A partir de tels faits, certains chercheurs concluent que les
créoles ne sont simplement pas assez vieux pour avoir eu le temps de
développer l’inventaire de formes morphologiques et d’idiosyncrasies
morphophonologiques qui caractérisent abondamment la plupart des langues
humaines: les processus de grammaticalisation avec leurs attritions, sandhis,
fusions, etc..., dont nous voyons les résultats dans les langues modernes, n’ont
pas eu le temps de faire leur effet. Voilà pourquoi, selon McWhorter (2001), les
créoles représentent un type de langue plus simple.
Les créoles et le langage enfantin ont des origines similaires: les deux
proviennent d’une langue concrète qui, d’abord, est utilisée uniquement pour
référer à la situation d’énonciation. Ils récapitulent ainsi l’origine du langage
(Hagège 1985: 42) dans la mesure où le langage apparaît parce que les
humains, comme il semble être le cas du petit enfant, cf. 2.1, sont
préprogrammés pour le langage, cf. le concept de « bioprogramme » de
Bickerton (1981). Mais c’est aussi ici que la ressemblance s’arrête: les créoles
émergent sur les bases d’une autre langue, une langue substrate, les esclaves
étant des adultes avec leur propre langue. Et les soi-disant ressemblances
universelles entre les créoles peuvent être dues ou bien aux substrates, ou bien
plutôt aux superstrates, c’est-à-dire aux langues européennes (anglais, français,
espagnol, portugais ou néerlandais) qui ont fourni les matériaux lexicaux et
grammaticaux aux créoles. Il faut encore être circonspect ici: les créoles
peuvent nous renseigner sur les langues primitives, mais parce qu’ils ne
surgissent pas ex nihilo, leur contribution à une interprétation de l’origine du
langage peut après tout être limitée.
2.4. L’évolution de l’écriture
A partir du moment où l’homme commence à se servir de l’écriture pour
reproduire la langue parlée, l’évolution de l’écriture parcourt des stades qui, de
nouveau, semblent refléter l’évolution même du langage. Les systèmes d’écriture
les plus anciens sont de type idéographique, c’est-à-dire des reproductions
iconiques et holophrastiques du contenu sans égard à l’expression linguistique,
par exemple les hiéroglyphes égyptiens et sumériens, la première écriture
cunéiforme, les idéogrammes chinois. De tels systèmes sont pourtant souvent
suppléés par l’emploi de certaines unités pour indiquer, non le contenu du
27
Michael Herslund
signe, mais son expression phonique comme dans un rébus: l’idéogramme
pour, disons, ‘pou’ – la représentation picturale d’un pou – est utilisé pour
représenter la valeur phonique [pu], et ce signe entre à son tour dans une
combinaison avec d’autres signes pour former des signes complexes représentant par exemple ‘poule’, ‘pousser’, ‘pourrir’, etc... De là, le système d’écriture
peut évoluer vers un système mixte comme les hiéroglyphes égyptiens ou les
idéogrammes chinois, ou vers une écriture syllabique, ce qui est certainement à
l’origine des premiers alphabets sémitiques. A partir d’une telle écriture
syllabique, le pas à franchir pour arriver à une écriture alphabétique à proprement parler, avec un inventaire d’unités limité basé sur l’analyse phonologique
de la langue, n’est pas très grand.
Ces différents stades semblent analogues à l’évolution supposée du langage:
d’abord un stade holophrastique, correspondant aux idéogrammes ; ensuite un
stade où la chaîne parlée est analysée en unités prosodiques telles que les
syllabes, correspondant aux systèmes mixtes ou à l’écriture syllabique telle que
la linéaire B mycénéenne ou l’écriture kana japonaise ; et finalement le stade où
c’est l’articulation phonémique du langage qui est représentée, correspondant
à l’écriture alphabétique.
Il s’agit évidemment à nouveau d’analogies, de la lumière que l’évolution
de l’écriture peut jeter sur celle du langage. De nouveau, le scénario présenté
ci-dessus ne me semble pourtant pas tout à fait irréaliste.
3. Evidence interne de l’origine du langage
Les recherches les plus récentes sur les langues créoles, comme par
exemple McWhorter (2001), s’efforcent de préciser la simplicité communément
admise de ces langues. L’idée fondamentale est évidemment que le langage
évolue de quelque chose de simple, un minimum communicatif ou opérationnel, (Hagège 1985: 45, 2001), vers quelque chose de plus complexe.
A part le fait que les notions de ‘simplicité’ ou de ‘minimum communicatif’ ne sont pas faciles à définir, l’idée ne semble pas déraisonnable. Les
créoles semblent fonctionner sans plusieurs des distinctions arbitraires, superflues ou même « baroques » qu’affichent la plupart des langues plus anciennes
(McWhorter 2001 ; Dahl 2001). Ce qu’il ne faut pourtant pas oublier c’est que
l’origine de tels traits se trouve dans l’effort constant de rendre le langage
indépendant de la situation d’énonciation. Et avant tout, de telles distinctions
peuvent sembler superflues, ou même « baroques » du point de vue de la
nécessité communicative, mais elles servent souvent d’autres buts, comme par
exemple la précision dans la conceptualisation qu’opère le langage. Le langage
28
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
ne se réduit pas à un outil communicatif, mais beaucoup de raisonnements
linguistiques semblent présupposer précisément cela.
Les créoles développent pourtant aussi leurs propres distinctions
grammaticales, et justement à cause de leur origine particulière, de telles
créations peuvent nous fournir des renseignements importants sur l’origine et
les stades les plus anciens du langage. Les principes directeurs de la création
de distinctions grammaticales dans les langues « primitives » semblent être les
suivants (Hagège 1985: 46 ss.):
- Economie: inventaire de formes restreint, composition, répétition et
réduplication ...
- Analyticité: ordre des mots fixe, verbes sériels ...
- Motivation: peu de mots, beaucoup de combinaisons ...
Ces principes, qui se recoupent partiellement, sont exploités pendant les
premiers stades du langage pour créer un système de communication adéquat,
mais flexible et indépendant de la situation, ayant un degré élevé de transparence, de motivation et d’iconicité.
L’iconicité en particulier semble constituer un composant essentiel de
l’évolution sémiotique du langage. Les trois sortes de signes qu’identifie le
sémioticien américain Charles S. Peirce peuvent être vues comme autant de
stades sur l’échelle qui va du signe naturel au signe conventionnel (arbitraire) :
index, icône et symbole. Tous les animaux supérieurs réagissent aux index
comme les odeurs, la fumée, le sang, etc... On peut entraîner les chimpanzés à
manipuler des icônes et certains symboles. Le langage humain consiste
majoritairement en symboles, mais comporte aussi beaucoup d’iconicité, cf.
Jakobson (1965). Je pense en effet que l’iconicité constitue un « index » qui
renvoie à une strate très ancienne du langage. Un seul exemple doit suffire ici,
le processus morphologique de réduplication.
Un processus iconique simple, mais transparent et efficace est la répétition
d’un mot entier ou d’une partie, typiquement la première syllabe, pour
exprimer la pluralité ou l’intensité :
youn bèl bèl fi
’une très belle fille’ (Créole haïtien, cit. Valdman 1978: 203)
Dans le créole à base anglaise, samaracan (Guyanne), le participe passé est
formé par une telle répétition (McWhorter 2001: 140):
Dí gbóto dέ láilái.
’le bateau est chargé’
29
Michael Herslund
Une fois qu’une telle répétion est devenue disponible, elle se prête à la
grammaticalisation. C’est probablement ce qui s’est passé avec la création du
parfait indo-européen où la première syllabe de la racine est répétée, avec en
grec la voyelle /e/ :
Présent
Parfait
ly-o:
le-ly-k-a
’résoudre’
’avoir résolu’
Le parfait est en effet la forme verbale qui renvoie au contenu verbal deux
fois : l’activité et l’état résultant. Et c’est exactement ce qu’exprime, de façon
iconique, la réduplication.
La réduplication n’est qu’un des traits iconiques qu’on trouve dans les
langues naturelles, cf. Jakobson (1965). Ces traits sont certainement présents
depuis toujours, et ils nous renseignent encore une fois sur l’origine du
langage : là où c’est possible, les signes iconiques ont été préférés par la
« sélection naturelle » qui a déterminé l’évolution linguistique. Plus un signe
est motivé, plus il est accepté et adopté facilement. Et l’iconicité est
certainement un des domaines où des recherches ultérieures sur la question de
l’origine du langage produiront les résultats les plus fructueux.
4. Conclusions
Comme j’espère l’avoir montré, on peut aborder la question de l’origine du
langage de façon systématique et raisonnable. Avec de la circonspection, on
peut trouver des éléments par ci, par là – et certainement aussi dans des
domaines que je n’ai pas pu discuter ici.
Le langage s’est développé avec l’évolution du cerveau humain et les
capacités cognitives de plus en plus sophistiquées qui en résultent, c’est-à-dire
avec une faculté renforcée de manier des symboles. En même temps, les
organes respiratoires et alimentaires ont été adaptés pour constituer désormais
un instrument phonétique adéquat. Nous ne savons pas à quelle époque le
langage a fait son apparition. Il est tout aussi impossible de répondre à cette
question qu’à la question de savoir à quel moment on a cessé de parler latin
pour parler dorénavant français. Mais nous pouvons affirmer, avec quelque
certitude, que quelque part entre – 1 million d’années et – 30 000 les processus
qui ont déterminé le développement d’un langage articulé ont agi : environ –
50 000 et – 30 000 ans, le langage humain existe.
Ces développements sont partie intégrante du grand processus
évolutionnaire qui fait que l’adaptation biologique va céder au développement
culturel. Au lieu de développer une peau plus épaisse, l’homme utilise le feu,
30
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
au lieu de ramasser des cailloux et des branches au hasard, l’homme
commence à fabriquer des outils, au lieu de baser l’organisation sociale sur le
contact physique et sur de simples relations de domination, l’homme utilise la
communication verbale avec des structures phoniques de plus en plus
complexes; et ainsi de suite.
Notre connaissance de l’origine du langage est pourtant entravée par le
fait qu’on ne peut constater aucun développement qualitatif dans l’histoire des
langues telle que nous la connaissons – avec l’exception possible des créoles,
bien sûr. Et nous ne pouvons qu’entrevoir très imparfaitement ce que pourrait
être une langue primitive comme celle des Néandertaliens, ou l’origine des
créoles, comme suggéré ci-dessus. Et pourtant, il reste possible d’identifier des
strates archaïques dans les langues connues tels que l’iconicité ou les vestiges
d’une ancienne structure phrastique active-inactive en indo-européen, comme
l’a proposé Lehmann (1992).
Il y a un autre fait linguistique qui brouille l’image de l’origine : tout
comme l’homme à un moment donné semble avoir fini son évolution – il n’y a
aucune différence biologique détectable entre homo sapiens sapiens d’environ –
100000 ans et l’homme moderne – les langues que nous connaissons semblent
de même avoir terminé leur période formative : elles ne créent plus de nouvelles
racines ! Même si seulement une fraction négligeable des millions de
combinaisons possibles qu’offrent l’inventaire phonémique et les règles
phonotactiques d’une langue donnée est exploitée, de nouvelles racines ne sont
pour ainsi dire jamais créées ; ce sont d’autres moyens pour renouveler et
agrandir le lexique qui sont mis en oeuvre: composition, dérivation, et, bien sûr,
l’emprunt. Tout cela revient à dire que nous ne pouvons, à travers l’histoire,
observer directement comment procède la sémiose, la création de signes.
Ce problème est lié à un aspect du langage que j’ai à peine abordé, ou
seulement de façon allusive. Jusqu’ici, la discussion a été menée en termes du
langage comme moyen de communication. Mais son rôle ne se limite pas à
cela: le langage est probablement avant tout un moyen de structurer le monde
et de classifier les entités dont il se compose. Les deux aspects sont
évidemment liés entre eux, ils sont interdépendants, parce que le langage
comme outil conceptuel commun est la condition préalable à toute
communication réussie. Et de ce point de vue, le langage comme système
conceptuel, son origine semble encore plus insaisissable.
Mais encore une fois, peut-être qu’une des sources que nous avons
utilisées jusqu’ici pourra-t-elle aussi fournir les éléments d’une réponse à cette
dernière question. Si nous ne pouvons pas, à travers l’histoire des langues,
saisir la sémiose, tournons-nous encore une fois vers le langage enfantin. C’est
31
Michael Herslund
le phonéticien anglais, Dennis Fry, qui raconte l’anecdote suivante (Fry 1977:
116): Un petit garçon anglais avait appris le mot ladder ‘échelle’ quand la
maison en face avait été repeinte. Pour lui, ce mot dénotait apparemment une
échelle, mais aussi tout objet posé contre un mur, tout objet ressemblant à une
échelle tel que le dossier d’un banc de jardin, et même tout homme en salopette
blanche. Petit à petit, le contenu du mot s’est restreint pour finir par ne dénoter
que les échelles, à mesure que les autres phénomènes ont reçu à leur tour des
mots pour les désigner. Cet exemple constitue une bonne illustration du fait
que le sens – ou la valeur, comme l’aurait dit Saussure – des mots individuels
est délimité par tous les autres mots de la langue, et il nous laisse entrevoir
comment fonctionne la sémiose. En même temps, c’est peut-être une
description adéquate de ce qui s’est passé – quand est né le langage.
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32
I L’horizon interdite
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
Francesco De Carolis
Università di Napoli “Federico II”
email: francesco.decarolis@unina.it
Un’antropologia linguistica
Come ha sottolineato Jacques Derrida in un suo saggio, per ripensare la
riflessione di Condillac e affrontare la tematica dell’origine del linguaggio nel
suo pensiero, occorre tener presente e anche superare alcune interpretazioni
che hanno finito per sminuire il rilievo del pensiero di questo filosofo. Proprio
l’analisi della dottrina della genesi del linguaggio dimostra la particolare
innovatività di Condillac in un’età che, sotto la spinta di Locke e della critica
dell’innatismo, ha pur dato alcuni significativi contributi allo studio del
problema del linguaggio e della sua origine. Uno studio della filosofia di
Condillac non può essere separato da quello delle Accademica e della vita
culturale e intellettuale di quel periodo. Infatti, Condillac fece parte
dell’Accademia di Berlino, della quale fu presidente Maupertuis e che
promosse (direttamente o indirettamente) lo studio della questione della genesi
del linguaggio in Germania e in Europa. A tale proposito, il nome di Condillac
può essere collegato a quelli di Rousseau, di Herder, di James Burnett. Infatti,
attraverso varie riflessioni, si delineava una concezione del linguaggio che,
superando l’orizzonte della sola analisi linguistico-grammaticale, contribuiva a
inquadrare il problema della parentela tra lingue diverse e tuttavia legate a
uno stesso ceppo. Né è un caso che si possa identificare una linea di sviluppo
che giunge sino ad Herder o a Sapir e a Whorf. Nel valutare la filosofia di
Condillac e il suo apporto alla cultura del tempo, Victor Cousin considerò un
elemento di debolezza la costante ricerca di quei pochi elementi semplici che
sarebbero a fondamento dello studio della mente umana e della conoscenza.
Spesso critica verso la filosofia di Condillac fu anche la riflessione di Maine de
Biran, per il quale la dottrina sensista condillachiana non può giungere a una
conoscenza sufficientemente ampia della vita mentale: era necessario superare
il presupposto della passività della sensazione alla quale originariamente lo
spirito sarebbe legato o asservito. Condillac finiva, anche suo malgrado, per
misconoscere proprio il problema della riflessione e dello studio di quel
35
Francesco De Carolis
sentimento fondamentale che è alla radice dell’attività riflessiva: questo comportava una semplice riduzione della riflessione filosofica ad una filosofia
linguistico-algebrica che appagava le esigenze dell’induzionismo e dell’empirismo, ma si rivelava inadeguata a cogliere la complessità della vita mentale.
Se, come ha notato Jean Wahl, il pensiero di Condillac e di d’Alembert contribuisce a far rivive, nel sec. XX, il progetto di un linguaggio universale e razionale
(Wahl 1962: 64), si deve anche dire che la filosofia condillachiana non è tanto
un puro e schietto positivismo analitico, ma una riflessione sul fondamento
della conoscenza umana, il cui valore va al di là della contrapposizione tra
fenomenismo ed essenzialismo, tra spiritualismo e materialismo. Di una
caratterizzazione più attiva della mente rispetto all’empirismo e allo scetticismo di Locke e di Hume, aveva discusso il Ravaisson, per il quale occorreva
che si ritornasse dalla fisica all’indagine psicologica, nella consapevolezza che
anche la filosofia di Condillac o quella di Destutt de Tracy, sebbene in forme
ancora embrionali, contribuivano a superare le precedenti impostazioni.
Proprio affrontando la complessa questione della genesi del linguaggio, si deve
sostenere che la filosofia di Condillac non è etichettabile sotto la semplice
dizione di sensismo, né il sensismo può essere considerato come sinonimo di
passività e di automaticità, giacché, a farci soggetti coscienti e pensanti, non è
l’istinto o un “movimento automatico”, ma l’irrequietezza del bisogno: “è
questa irrequietezza del desiderio che fa nascere tutti gli abiti, dal sentire al
pensare al volere”. (Crispini 1982: 31).
L’immagine della statua umana che scioglie l’originaria rigidità è stata
utilizzata troppo affrettatamente per sostenere la presenza in Condillac di una
filosofia che indulge alla passività. Invece, Condillac, filosofo del linguaggio e
della comunità umana, ha cercato di giungere all’effettiva descrizione delle
origini della vita mentale, quando non si è ancora costituita l’organizzazione
mentale che abitualmente conosciamo e non vi è ancora l’azione disciplinatrice
della memoria e del linguaggio: se la filosofia di Condillac si attestasse su una
posizione rigida, non potremmo comprendere come il filosofo abbia
costantemente studiato proprio l’alternarsi di sensazioni che, attraverso
identificazioni e contrasti, richiedono un’organizzazione ulteriore, quella che
caratterizza il processo riflessivo-linguistico.
Dunque, molti autori contemporanei intendono ripensare la filosofia di
Condillac e sottolineano la sua originalità al di là di più tradizionali interpretazioni che spesso si sono soffermate su altre questioni: l’intellettualismo della
dottrina della conoscenza, la scarsa coerenza di molte indagini del filosofo francese, la poca risonanza delle sue dottrine. Ripensando l’originale riflessione di
Condillac sulla genesi del linguaggio, ritroviamo non solo la problematica di
36
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
una “metafisica” meno astratta e pretenziosa, ma anche l’istanza di un rinnovamento degli studi e della riflessione sull’uomo. A tale proposito, va segnalata
la riflessione di Michael C. Corballis, che, connettendo Condillac con la tradizione dell’associazionismo di Wundt e della prima psicologia, ha ricordato
come “nel Settecento Condillac fu tra i primi a enunciare questa ipotesi […]
Temi simili furono sviluppati nell’Ottocento. Perfino Charles Darwin fece
qualche concessione al ruolo dei gesti” (Corballis 2002: 88).
Pertanto, diremo che l’analisi di Condillac sull’origine del linguaggio va
contestualizzata in un tempo che non aveva ancora conosciuto le grandi rivoluzioni otto-novecentesche della linguistica e della filosofia del linguaggio.
Occorre oggi riflettere più profondamente sulla pluralità delle lingue, sulle
culture umane, sulle strutture e sui contesti linguistici e comunicativi. Tuttavia,
resta anche vero che molti concetti di Condillac sono di notevole rilievo e di
sicuro interesse anche nel contesto attuale degli studi.
Incertezze e questioni
Per Condillac, troppi creano e distruggono entità fittizie, le aggiungono o
le sottraggono a loro piacimento e credono anche di spiegare le diverse
operazioni della mente. Molti si sono fatti “sedurre” dai propri sistemi chiusi o
si sono perduti nella vana questione della natura e dell’essenza dell’anima.
Per rendere la complessità delle riflessioni sul linguaggio e sulla sua
origine, possiamo ricordare la critica di Rousseau al razionalismo che portava
il filosofo ginevrino a valorizzare le lingue delle singole nazioni ancora ricche
di sentimento e non rese anonime e insignificanti dall’opera della ragione. In
polemica con l’aristotelismo e lo scolasticismo, Condillac non intendeva sminuire aprioristicamente l’orientamento empiristico del pensiero di Aristotele, ma
non dimenticava le contraddizioni e le insufficienze della filosofia dello Stagirita
e criticava quegli orientamenti filosofici che accusava di indugiare in tutte le
questioni più astratte attinenti alle essenze, alle sostanze, al mondo soprasensibile. Secondo Condillac, i Peripatetici assunsero come principio la derivazione
delle nostre idee dai sensi, ma non seppero trarre principio da questa loro
dottrina. Quando si voglia stabilire una connessione tra le tesi di Condillac
sull’origine del linguaggio e la filosofia francese precedente, bisogna far riferimento alle dottrine di Port-Royal: andando oltre Arnould, nell’esaminare
l’origine del linguaggio e nel ricercare come le lingue si costituiscano in sistemi,
Condillac si rifaceva a procedimenti logici di marca portorealista. Questo
giustificava anche il crescente interesse per la lingua dei calcoli e la convinzione
che il linguaggio originario fosse anche l’origine della scienza e della ricerca
37
Francesco De Carolis
razionale. Benché Bacone proponesse di approfondire la tematica del linguaggio
in vista di un rinnovamento del sapere, i cartesiani confusero l’esigenza di una
più vasta e innovativa fondazione del sapere come un aspetto del vecchio peripatetismo. Le Terze Meditazioni di Cartesio non apportarono contributi che
ponessero sulla via della risoluzione del problema della genesi delle nostre idee
(che non è separabile dallo studio attento della significazione, della gestualità e
del linguaggio). Né il ricorso all’innatismo nelle sue diverse formulazioni o la
dottrina del mondo intellegibile di Malebranche avviava a soluzione quei
problemi ai quali si dà un maggiore chiarimento, quando si affermi che l’uso
dei segni è il principio che sviluppa il germe di tutte le nostre idee.
Le nuove prospettive di Condillac
Filosofo antisistematico e sperimentalista, attento alla tematica del linguaggio e della sua origine, Condillac è convinto della stretta connessione tra
lingua e metodo. Egli sottolinea l’aspetto euristico del linguaggio e la sua lenta
e complessa elaborazione secondo una catena che diversifica le capacità
linguistiche e collega le forme linguistiche nel tempo. A suo avviso, vi è una
stretta connessione tra segno e ordine razionale. Essa non esclude l’importanza
dell’immaginazione, ma la tempera nei suoi aspetti più problematici. Se la
riflessione è “la capacità di sentire che è interamente rivolta all’impressione che
si determina nel suo organo”, siamo chiamati a un’analisi più generale della
vita mentale. Infatti, Condillac chiarisce che “questo modo d’applicare da noi
la nostra attenzione ai diversi oggetti o alle differenti parti di un oggetto solo è
ciò che si chiama riflettere. Così si vede chiaramente come la riflessione nasce
dalla immaginazione e dalla memoria” (Condillac 1996: 122).
Non è un caso che Condillac metta in discussione l’assoluto primato della
visione tra le attività sensoriali. Egli le classifica in rapporto alla capacità di
fornirci elementi utili alla conoscenza di una realtà che non possiamo dominare
senza l’aiuto di una complessa organizzazione mentale. In questa prospettiva,
il filosofo dà particolare rilievo al tatto e al linguaggio d’azione:
Condillac aveva saputo elaborare una filosofia linguistica e una dottrina delle
relazioni scienza realtà di grande rilievo. Ai medici, naturalmente, interesserà fino
ad un certo punto la sia pur stimolante concezione del linguaggio come sistema di
segni non necessariamente linguistici. Essi studieranno invece con grande
attenzione le considerazioni condillacchiane intorno al linguaggio verbalmente
articolato e ai suoi rapporti col mondo naturale. Fin dall’Essai sur l’origine des
connoissances humaines Condillac aveva affermato che il linguaggio non è copia o
riflesso della realtà, bensì complesso di signes arbitraires. E’ fuori luogo, in questa
sede, sottolineare l’importanza di tale concezione, che altri studiosi hanno già
adeguatamente lumeggiato. (Moravia 2000: 219).
38
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
La necessità di radicalizzare il discorso
Come si vede, Condillac sottolinea la grande trascuratezza e disattenzione
nell’ambito di quella metafisica della mente sulla quale Locke aveva tanto
insistito. Il suo pensiero deve essere collegato al grande movimento di studio
che andava costituendosi in Europa sotto l’influsso dell’opera di Newton e
dell’empirismo di Locke. Tuttavia, nonostante gli indubbi avanzamenti dovuti
al grande filosofo inglese, era necessario un approfondimento della questione
della genesi delle nostre idee a partire dal tema dell’origine del linguaggio.
Isaiah Berlin ha sottolineato l’originalità della polemica sull’origine del
linguaggio che si svolse nel secolo XVIII proprio a partire dalle tesi di
Condillac:
verso la metà del Settecento ebbe luogo una celebre controversia, aperta da
Condillac nel 1746, sulle origini del linguaggio, che vide contrapporsi chi lo
riteneva un’invenzione umana e chi lo considerava un dono fatto da Dio
all’umanità. Coloro che consideravano il linguaggio una creazione umana lo
ritenevano un prodotto della natura o dell’arte che, analogamente ad altri aspetti
dell’organizzazione umana, era nato dai bisogni biologici e si era sviluppato, come
aveva sostenuto per esempio Maupertuis nel 1756, a partire da gesti e suoni
inarticolati. Una tesi affine- sia pure con notevoli differenze- fu esposta da Brosses
nel 1765. Altre teorie naturalistiche erano contenute e nel famosissimo trattato di
Lord Mondobbo, On the origin and Progress of language (1773-1792). Contro questa
concezione insorse un esercito di teologi cristiani, guidati da Johann Peter
Süssmilc (Berlin 1997: 106).
In effetti, Condillac mantiene e supera lo schema lockiano di sensazione e
di riflessione. Egli delinea una nuova prospettiva a proposito della genesi delle
idee e della loro interna organizzazione. Il tentativo di Condillac non è superare i dualismi attraverso un procedimento prevalentemente riduzionistico, ma
sulla base di una riflessione sui dinamismi della mente e di una ricerca
paziente delle prime forme di vita e di relazione tra gli uomini.Nell’opera di
Condillac, non vi è la ricerca di un facile spontaneismo linguistico. La sua
riflessione sull’origine del linguaggio evidenzia la necessità di un carattere
normativo del linguaggio che viene rivendicato proprio in opposizione agli usi
poco corretti e sensati delle parole e agli errori di inveterati, ma non originari
usi linguistici.
39
Francesco De Carolis
Riflessioni su origine del linguaggio e grammatica
Secondo Condillac, il filosofo deve adeguare il suo pensiero allo studio
dell’ordine genetico delle idee. Né si deve dimenticare che la Natura ha dato
all’uomo alcune potenzialità che, quando siano sviluppate, sono alla base del
processo delle analogie e delle concatenazioni linguistiche e segniche che
permettono i progressi sempre nuovi della conoscenza.
La riflessione sull’origine del linguaggio deve comprendere anche lo studio
della conformazione degli organi corporei che sono alla base dell’emergere
delle prime forme pressoché inarticolate del linguaggio. Bisogna tener conto
dei gesti, dei movimenti del viso, degli accenti inarticolati che possono essere
considerati i primi mezzi che gli uomini hanno avuto per comunicare: il
linguaggio che si forma con i segni è appunto il linguaggio d’azione.
A questo proposito, Condillac afferma:
distinguo tre specie di segni: 1) i segni accidentali, ossia gli oggetti che alcune
circostanze particolari hanno legato ad alcune nostre idee, di modo che sono adatti
a risvegliarle; 2) i segni naturali, ossia le esclamazioni che la natura ha disposto per
i sentimenti di gioia, di timore, di dolore ecc.; 3) i segni istituzionali, ossia quelli
che noi stessi abbiamo scelto e che hanno un solo rapporto arbitrario con le nostre
idee. (Condillac 1996: 116).
Anche le espressioni gestuali e mimiche hanno una loro significativa evoluzione: esse possono anche raggiungere grande eleganza, la quale si ritrova
nei movimenti del viso e in quelli degli occhi. I gridi sono definibili anche
accenti della Natura che si formano nella cavità della bocca, ma non sono
ancora articolati attraverso la lingua e le labbra. In ogni caso, la stessa lingua
naturale va perfezionata attraverso la conoscenza del nostro corpo.
Detto questo, va aggiunto che, per il filosofo, le lingue non sono realtà
statiche. Esse risultano più o meno perfette in proporzione alla loro minore o
maggiore capacità di dare aiuto alla conoscenza attraverso l’analisi. Noi
giudichiamo e ragioniamo mediante le parole come si giudica e si ragiona
attraverso le cifre: considerando la storia dei popoli, le lingue possono essere
paragonate all’algebra per i cultori della geometria. Se i geometri hanno fatto
progressi attraverso il perfezionamento dei propri metodi, le lingue, proprio se
considerate nella loro origine, non sono altro che metodi e anche i metodi
possono essere avvicinati alle lingue. Inoltre, il perfezionamento dei popoli si
lega strettamente allo sviluppo e al perfezionamento del linguaggio, che è nato
come linguaggio d’azione e non come linguaggio già tutto costituito.
40
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
Sviluppi, ritardi e plasticità dei processi linguistici
Sulla base di queste riflessioni sulla genesi del linguaggio, Condillac può
ricordare che un certo ritardo nello sviluppo degli uomini è derivato dal non
aver riflettuto adeguatamente su di sé e dal non essere stati portati dall’educazione a conoscere sé stessi e a coordinare meglio e progressivamente i pensieri.
Ne segue che anche l’arte di scrivere, di ragionare e di pensare si riconduce
all’arte di parlare.
Possiamo comprendere ciò, quando si tenga conto che la geometria deve
essere ricondotta all’arte del calcolo metodico. Perciò, un precettore deve
collegare tutti gli sforzi del discente all’arte di parlare, da Condillac considerata
come l’arte che insegna a pensare e come fondamento di sempre ulteriori
conoscenze. Ribadendo la tesi della reciprocità dell’interazione linguistica e
cognitiva, anche il precettore deve abbandonare una posizione privilegiata,
tutta chiusa nel sistema. Rispetto ad altri autori, Condillac insiste sulla
semplicità (e talora grossolanità) dei primi linguaggi. A suo avviso, è possibile
dire che tutte le lingue non si sviluppano allo stesso modo: molte sono ancora
imperfette ed alcune sono vicine allo stato in cui nacquero. D’altra parte, anche
lo sviluppo delle doti e delle capacità individuali, grandi o piccole che siano, è
reso possibile dal retroterra linguistico in cui si nasce. La mancanza di sviluppo
del linguaggio è un ostacolo interno allo sviluppo del pensiero e del sapere. Il
nostro modo di ragionare può essere mutato solo attraverso la correzione dei
segni e della loro complessa concatenazione: vi è un rapporto tra ragione e
linguaggio, ed il linguaggio è collegamento e “messa in opera” del pensiero.
Condillac asserisce che le lingue sono come sedie: se occorrono sedie più
grandi per corrispondere al processo di crescita del corpo, è necessario che vi
sia più abbondanza e più chiarezza nel linguaggio in relazione allo sviluppo
del pensiero: quanto vale per la struttura fisica deve essere riconfermato,
quando si parli delle strutture mentali. Inoltre, si può dire che inizialmente le
idee dei primissimi uomini furono poche e spesso confuse, ma non si può dire
che originariamente il linguaggio fosse viziato da molti fraintendimenti che
ricorrono tra coloro che usano termini astratti e discutono di questioni
metafisiche. Condillac ammette anche una comune base linguistica che si
allarga in circoli diversi e progressivi che si estendono a seconda dei popoli e
della complicazione delle rispettive abilità: il sistema delle idee ha dovunque
gli stessi fondamenti e si riscontrano spesso regole comuni. Inizialmente, si
riscontra un processo che collega la sensazione e l’attenzione. Ha molta
importanza la ripetizione e la comparazione tra due o più cose che hanno
suscitato la nostra attenzione: come sarebbe possibile fissare l’attenzione su
41
Francesco De Carolis
così tanti oggetti se il pensiero non fosse originariamente linguistico e se il
linguaggio non permettesse l’attività riflessiva? Infatti, gli oggetti possono
essere tutti assenti, tutti presenti o solo alcuni presenti ed altri assenti.
In effetti, l’identità sta nelle parole e nei segni in genere, benché le parole
siano anche molto diverse nelle differenti lingue. Condillac non sceglie soluzioni semplicistiche: se vi sono comuni basi, non si devono dimenticare le
differenze, né si può ignorare che originariamente, ancor prima delle parole e
del linguaggio verbale e convenzionale, la Natura si è espressa attraverso i
gridi ed altri segni naturali che vanno considerati come anticipazioni dei futuri
sviluppi linguistici e cognitivi. Se non è possibile pretendere di comprendere le
essenze e le sostanze spirituali o materiali e se la parola ha un valore di
designazione e non è assimilabile a un riflesso di una realtà statica, bisogna,
allora, tematizzare quel mondo complesso di relazioni che si radica nella sfera
pre-riflessiva e affettiva dell’essere umano. In tal modo, si delineano punti di
connessione con il mondo animale che permettono di comprendere lo sviluppo
del pensiero e del linguaggio umano attraverso ipotesi meno inverificabili.
Tuttavia, una riduzione della filosofia condillachiana a tale concetto riduzionistico perderebbe la complessità di questo pensiero e sminuirebbe proprio
l’istanza di una molteplicità di indagini empiriche.
In ogni caso, la riflessione di Condillac ha contribuito al superamento della
psicologia delle rigide facoltà, sulla base di un progetto diverso, che permette
di sostenere che quanti hanno compreso il rapporto tra concetto e parola sono
penetrati al fondo di ogni conoscenza. Infatti, non vi è uno iato incolmabile tra
la scienza e il linguaggio: se il linguaggio della scienza ha i caratteri di una
formulazione valida e coerente, già l’origine del linguaggio è anche l’inizio,
sebbene molto remoto, del processo di crescita del sapere e del pensiero in
genere. Il processo di studio della genesi del pensiero e del linguaggio richiede
molto impegno. Bisogna considerare le radici della stessa memoria, la quale
soccomberebbe- come tutte le attività legate al moltiplicarsi di immagini- se
non avessimo la capacità di utilizzare risorse che vengono dall’ambito dei
segni e del linguaggio.
L’uomo storico e la relazionalità linguistica originaria
Secondo Condillac, l’attenzione e i processi mentali si spegnerebbero se non
esistesse la mediazione del segno e se non si desse un’ intima connessione tra il
linguaggio e il pensiero riflesso. Il punto di vista fondamentale di Condillac è
l’uomo storico. Questo ci rende un’immagine diversa da quella dell’uomo di
natura, considerato come una realtà cristallizzata e ferma. L’uomo che
Condillac teorizza è essenzialmente linguaggio e rapporto. Le idee sorgono nel
42
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
rapporto tra gli uomini e la memoria si collega alla parola e ai processi attentivi
e al rapporto umano che essa arricchisce: l’uso dei segni ampliò l’esercizio delle
operazioni dell’animo, e queste, essendo state esercitate, perfezionarono i
segni.Perciò, occorre considerare come dai gesti e dalle originarie contorsioni si
giunga all’uso dei segni istituzionali e al linguaggio convenzionale. Condillac
si richiama agli scrittori di Port-Royal e intende completare la critica di Locke
all’innatismo. Perciò, Locke e Condillac sono due filosofi della comunità
umana, in quanto il primo ritiene che il linguaggio è il grande strumento ed il
comune legame della società, ed il secondo crede che il linguaggio è quel
medium che permette il passaggio alla riflessione, la quale è resa possibile
dalla socievolezza umana e alimenta le relazioni tra gli uomini: se ci si
limitasse a considerare staticamente le cose, il pensiero si attiverebbe solo
raramente, spinto da limitate necessità, mentre è l’intervento della riflessione
che rende idee le sensazioni.
Il “racconto” filosofico dei due fanciulli
Condillac dà particolare rilievo all’interazione tra gli uomini per spiegare
lo sviluppo del linguaggio. Tale tematica viene presentata attraverso
l’interazione di due fanciulli che comunicano reciprocamente. In tal modo,
Condillac svolge un’analisi della questione dell’origine del linguaggio che si
sviluppa attraverso l’analisi storica che dà conto anche dei gravi equivoci e
delle difficoltà di comunicazione che hanno gravato sullo sviluppo
dell’umanità.
Per chiarire il concreto costituirsi della vita mentale e per giustificare il
modello genetico dei processi psichici, Condillac ricorre a un racconto
filosofico che suscitò molte discussioni e obiezioni. Infatti, era ancora molto
forte il ricorso al fondamento biblico-teologico per spiegare l’ardua questione
dell’origine del linguaggio. Condillac si affretta a dire che i Progenitori
ricevettero un soccorso divino immediato che gli permise di comunicare.
Tuttavia, egli suppone che, dopo lo sconvolgimento del Diluvio, gli uomini
dovettero acquisire nuovamente il linguaggio. Condillac immagina che due
bambini furono lasciati del tutto privi di aiuto e di risorse dopo il Diluvio. In
tal modo, il filosofo vuole sottolineare la necessità di un’interazione precoce nei
rapporti tra gli uomini e la possibilità di una spiegazione naturalistica e
relazionale del problema dell’origine del linguaggio, il quale è affrontato al di
fuori degli schemi tradizionali o delle soluzioni date dai filosofi cartesiani,
occasionalisti e malebranchiani. Pertanto:
43
Francesco De Carolis
quando vissero insieme, ebbero occasione di esercitare maggiormente queste
prime operazioni. Infatti, i loro rapporti reciproci fecero associare alle
esclamazioni tipiche di ciascuna emozione le percezioni delle quali quelle
esclamazioni erano i segni naturali. Le accompagnavano di solito con alcuni
movimenti, alcuni gesti o qualche azione, di cui l’espressione era ancora più
evidente. Per esempio, chi soffriva perché era privato di un oggetto necessario ai
propri bisogni non si tratteneva dal gridare, faceva sforzi per ottenerlo, agitava la
testa, le braccia e tutte le parti del corpo. L’altro, emozionato da questo spettacolo,
fissava gli occhi sullo stesso oggetto, e, sentendo passare nell’anima sensazioni che
non riusciva a spiegare, soffriva di vedere soffrire questo infelice. Da questo
momento, si sente spinto a consolarlo e obbedisce a questo impulso per quanto è
in suo potere. Così, con il solo istinto, gli uomini si chiedevano e si prestavano
aiuto. Dico col solo istinto, poiché la riflessione non vi poteva ancora avere parte
(Condillac 1996: 209).
A questo proposito, possiamo anche ricordare queste riflessioni del filosofo:
due amici che non si sono visti da molto tempo, si incontrano. L’attenzione che essi
prestano alla sorpresa e alla gioia che provano fa nascere presto in loro il
linguaggio che devono usare. Si lamentano della lunga lontananza in cui sono
stati, l’uno dall’altro, si soffermano sui piaceri di cui, precedentemente, avevano
gioito insieme e di tutto ciò che è loro capitato dopo la separazione. (Condillac
1996: 113).
Parlando dello sviluppo dei due fanciulli, si può dire che le dualità
affondano le radici nella stessa relazione originaria tra gli uomini antichissimi.
Questo vale per l’identità e per la differenza. In questa prospettiva, deve essere
letto l’esempio della statua, grazie al quale Condillac mette poi in evidenza
come le impressioni provenienti già da un solo senso possano evocare
l’attenzione e sollecitare il piacere e il dolore. Anche mediante un solo senso,
possiamo comunicare e comparare, avvertire mutamenti e comunicare.
Dalla sensazione viene l’idea di possibilità, e attraverso di essa possiamo giungere
ad anticipare mentalmente le cose. Tra le prime idee vi sono quelle di contentezza
e di scontentezza che sono spesso provate e possono essere sottratte o collegate.
Gli uomini acquisiscono la capacità di legare alcune idee a segni arbitrari,
modellando il nuovo linguaggio sulle esclamazioni naturali. Articolarono nuovi
suoni e, ripetendoli più volte e accompagnandoli con qualche gesto che indicava
gli oggetti che volevano far notare, si abituarono a dare nomi alle cose.
Nondimeno i primi sviluppi di questo linguaggio furono molto lenti. L’organo
della parola era così rigido da poter facilmente articolare soltanto pochi suoni
molto semplici. (Condillac 1996: 211).
44
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
I segni arbitrari e il problema dell’origine del linguaggio
Dell’importanza dei segni arbitrari Condillac parla anche nelle sue lettere a
Gabriel Cramer.
A chi volesse sostenere che i segni naturali hanno poco valore, bisognerebbe rispondere che essi sarebbero tali prima della relazione e del commercio
tra gli uomini. Condillac sottolinea il problema dell’interazione tra gli uomini.
In questo senso, egli vede un collegamento molto stretto tra psicologia e
sociologia: lo sviluppo umano e spirituale è personale e plurale, ossia è
costruttivo e relazionale. Sotto questo aspetto, vi è uno stretto collegamento tra
il Saggio sull’origine delle idee e il Trattato sulle sensazioni. Se non si può affermare
l’esistenza di due posizioni diverse di Condillac sull’origine del linguaggio, si
può anche sostenere che l’ultimo Condillac giunge a posizioni ancor più
radicali, quando ribadisce l’inscindibile unione tra analisi e segni. Condillac
sostenne con forza che creare una scienza equivale a costruire una lingua ben
fatta: se l’analisi presuppone un movimento complesso, viene a rafforzare il
discorso la constatazione che sarebbe ben difficile ragionare di scienza o di
morale senza l’uso del linguaggio. Infatti, le parole occupano in noi un posto
analogo a quello che gli oggetti occupano nello spazio materiale. Quanti
pensano che i nomi non abbiano valore potrebbero provare a cancellarli e
cercare di vedere cosa resterebbe delle leggi morali e di quelle idee che
riguardano la dimensione complessa delle azioni umane. Poi, il fatto che le
lingue si riferiscano a segni arbitrari non significa che esse debbano essere
piegate a un uso capriccioso o pedante imposto dai grammatici e da essi
ritenuto intoccabile. Le matematiche sono una scienza che è ben condotta, la
cui lingua è l’algebra. Ora, non ci si deve fermare in questi limiti, ma si può e si
deve ricercare una maggiore chiarezza anche nelle altre scienze e nel
linguaggio umano.
Il fenomenismo e la questione dell’origine del linguaggio
La filosofia di Condillac è tutta una rivalutazione della sensorialità. Il
filosofo non assume rigide posizioni metafisiche e non sostiene che il pensiero
si riduca all’attività dei sensi corporei e alla sola struttura fisiologica.
L’opera di Condillac radicalizza la critica lockiana dell’innatismo. Rispetto
alle acute analisi del filosofo inglese, Condillac non si ferma neppure alla
distinzione tra senso interno e senso esterno, tra idee della riflessione e idee
della sensazione: un approfondimento del pensiero di Locke poteva permettere
45
Francesco De Carolis
di superare ulteriormente le difficoltà che impedivano di comprendere a fondo
l’origine delle strutture mentali (illustrando la sua posizione, Condillac
affermava che sussiste pure una soluzione di continuità tra il pensiero e la
materia). Le analisi della genesi del linguaggio e delle strutture del pensiero
sono molto complesse. Infatti, si tratta di retrocedere nella conoscenza
dell’uomo verso una condizione molto distante da quella del pensiero e del
linguaggio che comunemente ed immediatamente siamo portati a concepire.
Anzitutto, va detto che è proprio la molteplicità delle sensazioni che smuove
l’uomo. Essa attiva una connessione di idee che non riusciremmo a dominare,
se non avessimo la possibilità di ricongiungere la molteplicità delle sensazioni
che sperimentiamo nel loro alternarsi e dileguare: le contraddizioni e i bisogni
sono alla base del costituirsi dello scenario della mente. Infatti, lo sviluppo
dell’ingegno non è dovuto ai soli fattori geografici, ma allo sviluppo del
pensiero nella sua correlazione con il linguaggio: di esso vanno studiati la
genesi, il senso, gli abusi e il retto uso. Del resto, la riflessione di Condillac
sull’origine del linguaggio non può essere scissa da quella polemica tra Antichi
e Moderni che aveva caratterizzato il dibattito culturale in Francia. Né si può
dimenticare che, dal punto di vista filogenetico, Condillac coglie, proprio a
proposito del problema dell’origine del linguaggio, il rapporto esistente tra
teoria linguistica e storia universale: anche da questa originale prospettiva, egli
si lega a questioni e tematiche del suo e del nostro tempo.
E’ importante anche il collegamento tra il tema dell’origine del linguaggio
e le diverse forme di linguaggio di immaginazione e di analisi che
caratterizzano il pensiero e l’espressione degli antichi e dei moderni, in quanto
prime forme di linguaggio possono essere considerate anche l’onomatopea, la
danza, la poesia e la pantomima. Occorre comprendere il richiamo di Condillac
alla necessità di una filosofia diversa: essa doveva puntare sul metodo genetico
e costituirsi come una metafisica più umile rispetto alle pretese della
speculazione classica ed aristotelico-scolastica. Condillac sostiene che bisogna
conoscere le “operazioni” della mente al di là di un marcato dualismo che è
smentito dal fatto che le prime forme di linguaggio furono quelle del
linguaggio d’azione. Secondo il filosofo francese, le idee prendono consistenza
e si collegano reciprocamente proprio mediante segni che progressivamente
aprono la via alla riflessione. Si tratta di un cammino lungo e complesso, che
attraversa la storia delle generazioni e dei popoli: Condillac mette spesso in
evidenza come l’evoluzione dal solo linguaggio d’azione a quello verbale non
sia stato breve e non sia stato compiuto nell’ arco di una sola generazione.
46
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
Difficoltà di un’analisi retrospettiva
L’indagine retrospettiva è molto complessa. Infatti, ricordiamo di aver
ignorato solo quel che possiamo ricordare d’aver appreso. Le nostre sensazioni,
come si può constatare nelle abitudini, sono all’origine delle strutture della
mente. Questo riguarda non solo la memoria e l’immaginazione, ma anche
l’intellezione e il giudizio. Tra i sensi, il filosofo dà particolare rilievo al tatto,
che è indispensabile per la percezione di un mondo esterno che non è
accessibile mediante la sola visione. Resistendoci, quest’ultimo si rivela
indipendente da noi. In questa prospettiva, ha grande rilievo per lo sviluppo
del pensiero il linguaggio, originariamente tutto concreto, basato su un piccolo
numero di gesti e legato all’azione. Attraverso di esso, la nostra mente si
sviluppa ed è possibile comunicare i pensieri. Condillac sottolinea l’importanza
del passaggio dal linguaggio d’azione (langage d’action) a quello propriamente
convenzionale (conventionnel).
Nella sua prospettiva poco incline alla metafisica e attenta all’analisi dei
processi di costruzione delle nostre idee, Condillac contribuisce alla spiegazione
naturalistica dei processi mentali e dell’origine del linguaggio. Inizialmente,
l’uomo può essere paragonato a una statua. Se egli fosse lasciato nell’immobilità, non vi sarebbe vita mentale, poiché le facoltà conoscitive derivano dalla
sensazione: non bisogna ricorrere a complesse e sofisticate spiegazioni, ma si
deve ricordare che le sensazioni possono essere piacevoli o dolorose e che la
natura ci fornisce un primo linguaggio basato sul movimento e sull’azione. In
tal modo, si può comprendere sufficientemente perché alcune idee siano
ricercate e altre siano sfuggite.
Alcune specifiche difficoltà
Abbiamo detto che la scarsa comprensione delle difficoltà deriva anche da
una superficiale o tardiva problematizzazione della questione dell’origine e
dello sviluppo del linguaggio. In effetti, gli uomini cominciarono a parlare il
linguaggio d’azione non appena provarono sensazioni. Perciò, il linguaggio
d’azione precede la riflessione e cominciò senza che si avesse l’intenzione di
comunicare i propri pensieri: nel linguaggio sono contenute le più svariate
operazioni della vita psichica, dai desideri e dai timori sino ai giudizi e ai
ragionamenti. Anche lo studio della vocalizzazione non è sufficiente, ma
occorre considerare la dimensione gestuale: lo sforzo ha prima agitato le
membra e ha poi permesso di vincere la resistenza degli organi vocali. Del
47
Francesco De Carolis
resto, la dimensione gestuale non è stata esclusa dall’affermazione di forme più
sofisticate di linguaggio, come dimostra il gesticolare delle persone che
parlano. Possiamo cogliere in molti tipi di uomini questa caratteristica in modo
più chiaro. Quando ci si accosti ai primordi del linguaggio, si nota che la
prosodia, il canto e la parola si avvicinano e si può notare che la parola affonda
le radici nel gesto e che i gesti si avvicinano all’espressione pittorica: lo studio
dell’origine delle lingue si collega a una storia del linguaggio e dell’espressione
umana. Inoltre, la scrittura fu originariamente concepita in stretto rapporto con
la pittura.
Pertanto, approfondire il tema dell’origine del linguaggio significa dover
considerare l’interazione tra arte dei gesti, danza, declamazione, musica e
poesia. Perciò, occorre ricordare che il linguaggio è sin dall’origine espansivo:
esso è nato dai primi nomi che furono dati a quelle cose che colpirono
l’attenzione e che sollecitarono l’uomo per le pene che potevano alleviare o per
le molestie che arrecavano.
L’esigenza di una riforma dell’intelletto in una prospettiva linguistica
Il linguaggio non è tanto un prodotto dello sviluppo, ma ne è causa: l’uso
dei segni in genere è il principio che sviluppa il germe di tutte le nostre idee.
L’arte di ragionare è cominciata con le lingue e ha potuto avanzare mediante il
loro progresso. Il linguaggio nasce con la relazione e dalla relazione: esso è
stato un prerequisito fondamentale per il ragionamento e per il superamento di
comportamenti meramente istintuali.
Risalendo all’origine delle nostre idee, si evidenziano ancor più la
necessità di una riforma del nostro intelletto, l’istanza di studiare per mezzo di
quale arte avvengano le operazioni che ci permettono di acquisire l’intelligenza
delle cose.
Condillac si riprometteva non solo un effettivo e duraturo progresso della
conoscenza, ma anche un profondo rinnovamento del pensiero e dell’intelletto.
Lo studio delle capacità dell’anima lo portava a considerare la complessa
articolazione dei segni per mezzo dei quali organizziamo i pensieri e li
classifichiamo secondo i rispettivi generi. I segni e le parole sono essenziali per
parlare, ragionare, organizzare idee generali. Essi sono un ponte di passaggio
tra le operazioni elementari e quelle più elevate e permettono l’attività della
riflessione. L’acquisizione del linguaggio risultò fondamentale nelle società
antichissime e lo è per lo sviluppo del fanciullo. L’attività della memoria è
legata al collegamento tra immagini e segni, e il pensiero adeguato si lega alla
possibilità di articolare un linguaggio ben fatto.
48
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
Sviluppo del linguaggio di azione
La filosofia di Condillac è una filosofia dell’espressione e della riflessione.
Bisogna tener conto del fatto che le più antiche forme di espressione sono
quelle del linguaggio d’azione. Ebbene, tale linguaggio non si chiuse in sé, ma
fu la base per un ulteriore passaggio, quello al linguaggio riflesso. Attraverso
esso, l’uomo è riuscito ad acquisire una maggiore padronanza di sé e a
conseguire un più marcato dominio sui suoi pensieri. Perciò, il tema
dell’origine del linguaggio non si ferma solo all’analisi delle prime forme di
espressione, ma ci rimanda alle diverse modulazioni dei suoni, dei toni e degli
accenti che sono alla base di sempre ulteriori attività espressive. Le esigenze di
conoscenza dei processi mentali e linguistici e quelle di una riforma
intellettuale si implicano reciprocamente. Questo ribadisce la necessità di
un’osservazione attenta e analitica che parta dalle prime sensazioni e dalle loro
risonanze nella sfera emotiva del piacere e del dolore. Perciò, occorre
sottolineare non solo la stretta connessione tra le cose e l’attività del pensiero,
ma anche l’omologa e interna connessione che sussiste tra idee e linguaggio.
Condillac affronta non solo il tema dell’origine delle nostre idee dal senso,
ma sostiene che le stesse funzioni e gli stessi processi della mente nascono dalla
sensazione. Egli ribadisce che tutto il sistema dell’uomo nasca dalle sensazioni
e ritiene che solo progressivamente acquistiamo l’uso delle nostre facoltà
grazie allo sviluppo del linguaggio.
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50
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung
de Johann Gottfried Herder
(Traduit par Emilia Martinelli)
Fabrizio Lomonaco
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli “Federico II”
email: flomonac@unina.it
Ernst Cassirer constate, que si par rapport à la psychologie scientifique des
siècles XVIIème et XVIIIème, l’étude de la vie du langage se voulait fondée sur
des critères de distinction non moins que d’ordre formel des éléments purs de
la conscience, ayant pour but celui de fixer les règles des mécanismes
associatifs (Cassirer 1923: 35-36) complexes, par contre l’Abhandlung über den
Ursprung der Sprachede Herder du 1772 ouvre une perspective totalement
inédite, qui dépasse les limites de la conception empirique réfléchissante en
posant le problème de la fondation historique de la forme linguistique
envisagée dans son unicité, c’est-à-dire dans son harmonieuse individualité. En
faisant appui sur des remarques et des observations en partie déjà développées
ailleurs, Herder, qui polémique contre l’intellectualisme et le naturalisme de la
philosophie des Lumières, s’engage à traduire la totalité de la question de la
genèse et de la fonction du mot sur le terrain de l’évolution historique humaine
dont les manifestations, y compris le langage doivent être considérées dans leur
devenir dynamique et historique. Le terme allemand Ursprung adopté dans ce
contexte argumentatif permet de distinguer le principe génétique actif de
l’expression qui renvoie à la racine linguistique (Ur) du “mot” à partir du
moment chronologiquement initial, exprimé, par contre, du terme Anfang. Le
débat sur l’origine du langage ne se limite pas à la dimension purement chronologique, en lui préférant le moment dynamique qui en témoigne la genèse propre
à la langue dans sa connexion la plus profonde avec le même être de l’homme; ni
sa création (Erfindung) indique l’instant dans le phénomène temporel à
l’avantage du moment se renouvelant constamment dans l’esprit humain, qui vit
et acquiert toute sa forme dans le langage, comme dans sa propre nature.
En effet, la question avait été déjà posée en 1769 par L’Académie des
Sciences de Berlin à l’occasion d’un concours banni par cette même institution
et auquel Herder avait participé, en la discutant par la suite, dans la
51
Fabrizio Lomonaco
dissertation du 1772 et qui représente déjà dans sa formulation l’un des principaux présupposés théoriques mis au jour par la philosophie des Lumières
face à la nature du langage humain: “En supposant des hommes abandonnés à
leurs facultés naturelles, seraient-ils aptes à inventer un langage et par quels
moyens pourraient-ils parvenir à une telle invention?”. La question de l’origine
du langage, ainsi dégagée de toute hypothèse créationniste et pourtant
confortée par la lecture de la Bible, se réfère à l’homme tel qu’un être divin déjà
doué à l’origine d’une certaine intelligence ainsi que du langage en dons de
Dieu: “L’origine suprême n’est utile en rien et son expression est nuisible. Elle
détruite toute activité de l’âme humaine, n’explique rien et rend tout - toute
psychologie et toute science – inexpliquable” (Herder 1978: 169). Il est pour
cette raison que l’on suppose l’existence d’un individu inventeur “par nature”
du langage ne s’agissant pas d’une individualité historique, mais plutôt du
principe même de l’histoire qui se veut logiquement antérieur à la fondation
du monde donné. Dans cette perspective il semble que la nature humaine ne
jaillisse pas comme nature historique, par de-là de toute dimension temporelle.
Par rapport à cette hypothèse envisageant la question de la genèse du langage
telle que genèse “par nature” et qui se voudrait indifférente à la dimension
temporelle de la nature humaine ainsi que de l’ensemble des faits qui en
constituent l’expression, Herder s’engage, par contre, dans une réflexion génétique et historique qui prête beaucoup d’attention aux temps et aux instants
historiques du développement linguistique, également reconnu tel que facteur
fondamental pour le développement historique de l’évolution humaine. En ce
sens les phases mêmes du développement du langage témoignent de l’évolution
humaine par rapport à l’histoire. L’expression verbale originaire, n’ayant
encore aboutit à l’articulation des signes d’une langue en tant que telle, vit
dans une dimension poétique fantastique réfléchissante le mystérieux et libre
jeu des images naturelles. L’homme à “l’âge de nature” dont la faculté de
connaître découle entièrement des sens prend à désigner la réalité à travers
une relation aux choses mêmes due aux réactions fantastiques et affectives qui
se produisent dans la conscience du fait même qu’il vit en contact direct avec la
nature. Le premier langage humain, rythmique et onomatopéique, formé par
des interjections inarticulées se veut, donc comme un langage du sentiment
constituant une loi immédiate de nature (unmittelbares Naturgesetz; Herder
1772: 7)1, où le moment émotif et poétique se présente en complexe expression
symbolique. Dans cette dimension qui se révèle comme la racine de la véritable
1
Pour ce qui est de l’objet ainsi que des référances à la littérature herderienne (de M. Rouché
à P. Pénisson, de Th. Litt â K. O. Apel) je renvoie à mon essai (Lomonaco 1982) et à Marino
(2008: 25-106).
52
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
représentation linguistique en tant que telle, l’image et le signifiant ainsi que le
signe, la pensée et le mouvement s’identifient en réfléchissant la qualité même
des choses. Du reste, les langues orientales de l’Antiquité dont l’idée même de
la chose oscillait encore entre l’agent et l’action en font témoignage alors que le
signifiant était obligé à désigner la chose correspondante à la même manière
que la chose donnait lieu à son propre signifiant. L’essence d’une telle
structure symbolique expressive originaire, pour la quelle des verba découlèrent les nomina et pas à l’inverse se trouve dans la poésie faisant appelle à
l’acte primitif du connaître par les images survenues de la nécessité de communiquer sous l’impulsion de la nature vivante telle que centre actif et dynamique
de forces. Ces verba immédiatement fondés sur des sons ainsi que sur les
interjections de la nature vivante, représentent la trame du langage primitif
perçu comme un recueil d’éléments poétiques (Herder 1772: 52,56). L’invention
des signes linguistiques est à l’origine poétique, en renvoyant à la primitive
réalité religieuse, indifférenciée, naturelle et historique. Le langage se
manifeste donc comme une véritable forme symbolique ne se limitant pas à
représenter une pure ornementation mais en constituant la même forme de
manière dynamique, voire l’”essence” la plus significative. Et pourtant le
langage humain ne se réduit pas à celui de nature comme certains “maîtres à
penser” se sont engagés à démontrer en échangeant les cris du sentiment par le
véritable langage humain qui aucun animal semble posséder par de là de
quelques tentatives faites pour affiner et développer ses propres articulations.
La volonté de remarquer la différente disposition entre l’homme et l’animal,
permet à Herder d’un côté de révéler les erreurs de Condillac et de Rousseau,
coupables, tous les deux par ce que l’un faisait des bêtes des hommes tandis
que l’autre faisait des hommes des bêtes et de l’autre, à partir de ces
remarques, de développer une réflexion penchée sur celle qu’il considère la
plus authentique disposition humaine vers le langage. Chez Condillac “les
mots sont nés parce qu’il y avait des mots et avant qu’il n’y en ait” ceux de
Rousseau qui le suit, proviennent de ce que l’on pose une origine, celle du “cri
de nature, à partir duquel devrait naître la langue humaine (...). Je ne vois pas
comment – Herder rétorque – elle en aurait jamais pu naître, et m’étonne de ce
que la perspicacité de Rousseau ait pu le conduire un instant à cette idée”
(Herder 1978: 63)2. En effet les hommes sont les seuls à disposer de la faculté
du langage. Si chez les animaux la vigueur et la certitude dans l’instinct
augmentent d’intensité par rapport inverse à l’extension de leur action, par
contre chez l’homme les possibilités d’action ne connaissent pas de limites si
2
Sur le débat du XVIIème siècle cf. les études de Pititto (2008: chapp. I et II; sur Condillac
voir 59-96).
53
Fabrizio Lomonaco
restreints. Inversement à l’animal, qui se veut obligé dans une sphère d’action
si “uniforme et étroite”, au contraire l’homme peut s’exprimer à travers
beaucoup de productions par ce que ses sens et son organisme ne sont pas
destinés à un seul but, ainsi qu’il aie beaucoup d’espace pour réaliser maintes
œuvres en se perfectionnant sans cesse (Herder 1772: 24,28). La véritable
différence entre l’homme et l’animal s’avère, donc, en termes qualitatifs plutôt
que quantitatifs du fait que chez l’homme les sens n’étant pas tellement aigus
que chez l’animal prennent der Vorzug der Freiheit s’exerçant en pleine liberté
dans ses propres limites et loin de toute perspective prête à se renouveler
d’une manière mécanique dans une constante uniformité. De cette manière
Herder arrive à comprendre le caractère qualitatif de l’expérience humaine
exprimée, donc, par le langage tel que véritable expérience symbolique, voire
harmonieuse synthèse des différentes facultés. Ce ne sont pas des forces
partagées et opérantes de façon séparée alors que elles se proposent à chaque
fois de manière totale et harmonieuse. Dans cette perspective l’esprit, la pensée
et l’intelligence ne sont pas des différents stades s’ajoutant progressivement à
l’organisme humain, mais plutôt des désignations de cette disposition, voire de
cet orientation particulière des forces qui chez l’homme on appelle liberté et qui
se manifestent en instinct chez l’animal. Herder constate que l’abstraction n’est
pas le véritable fondement du langage, qui dans son historicité la plus
authentique s’avère être la condition même de toute possibilité d’abstraction
ainsi que de construction métaphysique:
Toutes les facultés de notre âme et de celle des animaux ne sont que des
abstractions métaphysiques, des effets!(...) Que nous ayons utilisé certaines de
leurs fonctions sous certaines dénominations telles que esprit, intelligence,
imagination, raison, cela ne signifie pas qu’une seule action de l’esprit était
possible là où seul l’esprit ou la raison agissent, mais c’est seulement parce qu’en
cette action nous découvrons surtout par de l’abstraction, que nous sommes esprit
ou raison, comme dans la comparaison ou l’éclaircissement des idées: à chaque
fois cependant c’est toute l’âme indivise qui agit (Herder 1978: 72)3.
La méditation sur le langage se révèle, donc, l’occasion la meilleure pour
envisager différemment la notion même de raison qui arrive à exercer sa
fonction la plus concrète et la plus satisfaisante en reconnaissant historiquement l’unité et la pluralité des facultés de l’âme humaine. Il en résulte qu’il ne
s’agit pas simplement ni d’une “faculté dérivée” ni d’une élaboration
extérieure des donnés de l’expérience, mais comme Herder le fait remarquer,
par la suite, dans ses Ideen zur einer Pilosophie der Geschichte der Menscheit (17841791). La polémique contre la “raison kantienne” se manifeste en termes de
3
Voir notemment Tani (1999: 287-302; 2000: 11ss., 51ss., 95ss., 129ss.).
54
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
critique vers un modèle de rationalité incapable de reconnaître le caractère
propre à une “histoire de l’humanité” (Humanität), une chaîne de la sociabilité
non moins que de la tradition formative. En effet, la “raison pure” séparée du
concret et de l’histoire du vécu s’engage à identifier l’évolution du monde donné
de façon abstraite par le seul perfectionnement progressif de l’espèce, tout en
considérant de manière plus abstraite encore, la signification globale de la réalité
historique, qui s’avère indifférente et externe au destin des individus, c’est-à-dire
des véritables protagonistes du développement historique qui se sont également
engagés de façon directe dans la formation de telle signification:
(...) Puisque chacun n’arrive à l’état d’homme que par l’éducation, et que l’espèce
entière n’est composée que d’une chaîne d’individus. J’avoue que, si quelqu’un
disait que l’éducation forme l’espèce et non pas l’individus, il parlerait d’une
manière inintelligible pour moi; car l’espèce et le genre ne sont que des abstractions, qui n’ont de vie que dans les individus (...). Il ne faut pas que notre philosophie s’égare dans les détours de ce système d’Averroës, suivant lequel l’espèce
humaine entière ne possède qu’une seule âme d’un degré très inférieur, et qui ne
se communique aus individus que par parties. D’un autre côté, si j’allais tout
circonscrire dans les limites de l’individu, et nier l’existence de la chaîne qui unit
chaque partie au tout, je serais également en contradiction avec la nature de
l’homme et toute l’expérience de son histoire; car aucun de nous n’est arrivé de luimême à l’état d’homme. la constitution entière de son humanité tient par un lien
spirituel (...), en un mot, à la chaîne entière de l’espèce humaine, qui agit
incessamment par tel ou tel point sur ses facultés morales (Herder 1784-1791: 139)4.
La reconnaissance du “mot” tel que manifestation historique originaire de
la concrète unité de la pensée et de la réalité, de la sensibilité et de l’intelligence
orientant toutes les facultés de l’homme de façon harmonieuse et dans le
respect de leurs différentes dispositions, arrive à s’exprimer par ces observations en termes très polémiques par rapport aux solutions problématiques
proposées par Kant qui dans la deuxième édition de la Kritik der reinen Verunft
(1787) résout la question de l’hétérogénéité entre la multiplicité de l’intuition
sensible et les catégories, entre le langage des images et celui de l’intelligence
dans la synthèse, conçue comme le simple effet de la faculté de l’imagination,
c’est à dire d’une fonction de l’âme aveugle et indispensable sans la quelle
nous n’aurions pas de connaissance et pourtant dont la quelle nous n’en
prenons conscience que rarement. Il s’agit d’une faculté de l’imagination qui
tient à la sensibilité et qui est surtout un acte de spontanéité, une véritable
4
Pour ce qui est de la polémique entre Herder et Kant dans les Ideen ainsi que pour la littérature critique qui la concerne, je renvoie à mon étude (Lomonaco 1991: 76-102). Voir aussi
Rehm (2007: 163-248) avec Bibliographie (359-370).
55
Fabrizio Lomonaco
faculté de déterminer la sensibilité a priori, un effet que l’intellect exerce sur la
sensibilité en premier acte de l’intellect sur les objets de l’intuition qui nous est
propre (Kant 1787: 120). Le problème de la mise en œuvre des catégories aux
apparences se traduit dans un art caché dans les profondeurs de l’âme humaine,
elle n’étant possible que si l’on présuppose un “schématisme transcendantal”
dont l’homogénéité à l’univers intellectuel et sensible est garanti par la “détermination transcendantal du temps”. Le “schéma” est le présupposé le plus
opportun du langage alors que sa condition n’étant pas psychologique, selon la
formulation de la philosophie du langage anglaise du XVIIème, mais plutôt
“transcendental”, confiée à la “pure imagination” distincte, donc, de l’imagination reproductrice-associative: le schéma est un produit de la faculté de l’imagination, un “monogramme a priori” de la pure faculté de l’imagination5.
L’invention du langage loin de se fonder sur des séparations qui ne trouvent
pas de justifications exprime donc la faculté propre voire fondamentale de
l’être humain qui n’étant pas condamné à l’uniformité par son instinct arrive à
interrompre le flux des sensations et des images par un acte de réflexion
(Besonnenheit) ne correspondant pas au syntagme cher à Rousseau de réflexion
en puissance ni au concept de faculté pure et simple, mais s’avérant dans la
reconnaissance d’une ou de plusieurs caractéristiques distinctives d’un objet.
Une telle réflexion, donc, n’est rien d’extérieur qui puisse s’ajouter de manière
mécanique à l’intuition des choses. Il ne s’agit pas d’une simple méditation sur
les données de l’intuition mais une véritable forme de ces mêmes données. La
méditation est une caractéristique proprement humaine distinctive de son
espèce; le premier acte grâce au quel nous arrivons à reconnaître l’objet nous
en donne clairement le concept. Ce premier contresigne de la méditation c’est
déjà la parole de l’âme: le langage humain est inventé grâce à tout cela.
L’exercice de la raison jaillit tel que faculté réflexive humaine rendue autonome
par l’instinct. Contrairement à l’animal, il vit chez l’homme dans une
dimension différente qui à travers le langage se manifeste en expression
symbolique d’un complexe et harmonieux procédé réflexif. Si la réaction à
l’animal consiste dans une réponse immédiate au conditionnement extérieur
n’arrivant pas à se réunir dans le signe ou bien dans le symbole, le langage
humain peut s’identifier dans la raison ou dans la réflexion, c’est-à-dire dans la
confiance dans ses actes où également toutes les facultés se rassemblent en
unité. L’homme exerce une telle réflexion alors qu’il arrive à reconnaître
(Anerkenntnis) un trait propre à une image tout en retenant en soi-même un tel
5
“Der Transscendentalen Doctrin der Urtheilskraft (oder Analytik der Grundsätze). Erstes
Hauptstück. Von dem Schematismus der reinenVerstandesbegriffe” (Kant 1787: 134ss.).
56
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
élément en contresigne (Merkmal) de sa propre réflexion une fois traduite en
“mot” tel que langage intérieur de l’âme:
Il (l’homme) reconnut le mouton à son bêlement, c’était un signe saisi, grâce auquel
l’âme a fait distinctement réflexion sur une idée. Qu’est-se donc, sinon un mot? Et
qu’est-ce que toute la langue humaine autre chose qu’un assemblage de tels mot? (...)
L’homme se trouve en état de discernement qui lui est propre, et ce discernement
(réflexion), agissant pour la première fois librement, a découvert la langue. Or,
qu’est-ce que la réflexion, qu’est-ce que la langue. (...) Ainsi il témoigne de réflexion lorsqu’il put connaître une ou plusieurs qualités comme différentes: ce premier acte d’aperception, c’est le premier jugement de l’âme (Herder 1978: 76-77).
Grâce à cette volonté ou réflexion (Besonnenheit, Reflexion) retenant en soi
l’instant de la réceptivité des impressions ainsi que celui de la représentation
linguistique qui lui est connecté dès l’origine plutôt que ajouté par la suite,
Herder arrive à s’approcher non seulement à la conception du langage telle
qu’on la retrouve chez Hamann, c’est-à-dire en produit de la faculté créatrice et
poétique de l’inconscient, mais s’engage aussi à la mettre en rapport avec la
conception de Leibniz qui, par contre, considère le langage en résultat de la
faculté analytique de la pensée (Cassirer 1923: 93-97)6. La notion leibnitienne de
continuité et bien évidemment les nouveaux concepts de substance dynamique et
de monade en centre actif de force, représentent les conditions nécessaires pour
encadrer de façon nouvelle la question de l’unité non moins que le rapport
entre la totalité et la part, l’individuel et l’universel en fournissant à la réflexion
herderienne sur l’origine du langage de nouveaux instruments méthodologiques fondés sur l’histoire, ayant pour but celui de parvenir à une intuition
plus vivante du monde primitif ainsi que à une compréhension plus rigoureuse
du monde humain tel que monde véritablement historique7. À l’opinion de
Herder, cette nouvelle et harmonieuse unité qui se retrouve dans la genèse
intérieure et extérieure (Herder 1772: 61,64) du langage représente, en fin,
l’appui de sa origine humaine.
Il fait remarquer que cet essai de Herder représente le virage du concept rationaliste de
“forme de réflexion” par rapport à celui totalement inédit de “forme organique”, destiné à
développer les modernes idées d’individualité et de totalité théorisées à partir de la
philosophie du langage de W. von Humboldt.
7 En effet, la notion de “réflexion” chez Herder semble s’avaler du rapport remarquable chez
Leibniz entre “petites perceptions” et “aperception”. Souligner le rôle des “perceptions
obscures” dans la connaissance humaine signifie non seulement encadrer de façon nouvelle les rapports entre “individuel” et “universel” en termes dynamiques, mais reconnaître,
également, dans l’origine du langage une forme active où se déploient la sensibilité et
l’intellect et où grâce à la conscience acquise de l’historicité des faits linguistiques, les
notions leibnitiennes de “loi de continuité” et “l’harmonie préétablie de l’âme et du corps”
peuvent se manifester (Leibniz 1704: 9-29). Voir aussi Tani (2006: 149-162). Sur les
conséquences de leur conceptions dans la question de la “diversité humaine” et de la
“culture des peuples”, voir notamment Crépon (1996: 121-155).
6
57
Fabrizio Lomonaco
Le rapport originaire entre le langage et la raison en expression de la
liberté, de l’autonomie et de la faculté symbolique propre à la conscience
humaine s’oppose donc à l’hypothèse divine du langage soutenue par la
possibilité de réduire tous les idiomes à peu de lettres originaires apprises aux
hommes par un enseignement divin. Par contre, pour apprendre il est
nécessaire que l’homme soit tel qu’il est, c’est-à-dire qu’il soit capable au même
temps de se représenter et d’inventer le langage, s’il est également vrai que le
langage se forme déjà dans l’âme grâce à la première et claire faculté de la
pensée (Herder 1772: 40). L’hypothèse de l’origine humaine du langage acquiert
toute sa crédibilité en termes de “vérité philosophique” tout en tenant compte
non seulement de sa genèse intérieure mais aussi de l’analogie propre à toutes
les langues ainsi que de l’évolution historique des peuples qui les parlent.Pour
ce qui est de l’étude sur l’origine du langage, Herder ne s’engage pas, par ces
remarques, à une véritable dépréciation du divin quant’à une distinction
capable de mettre au jour ces deux perspectives tout en les intégrant dynamiquement. En effet, la dimension religieuse si déterminante à “l’âge enfantin”
du langage ne doit pas risquer d’être mise de côté même s’il est nécessaire
éviter tous les dangers découlant des positions incapables de distinguer la
perspective humaine de la divine (Herder 1766-1768: 69 et ss.)8.
Dans un autre paragraphe des Fragmente, Herder revient sur le même sujet
en commentant le texte de J. P. Süssmilch en polémiquant avec lui dans
l’Abhandlung du 1772 (Herder 1766-1768: 65-69 ; Süssmilch 1766). De cette
manière il arrive à démentir l’hypothèse opposée de Süssmilch sur la quelle il
revient en reformulant des observations déjà parues dans les Fragmente du
1768.Dans ce cas là, aussi, le discours ne s’adresse pas de façon générale contre
l’idée d’un apport du “divin” à la question de la genèse du “mot”, en visant
plutôt à contester, de façon particulière, l’hypothèse de l’origine divine du
8
Pour longtemps, à l’époque des Anciens “chanter” et “parler” étaient la même chose. Les
oracles chantaient et les voix chantées par les divinités s’appelaient énonciations; les prophètes
et les poètes chantaient et leur chanter s’appelait discours. Après l’enfance du langage
relevée chez un peuple, en particulier, Herder s’engage à étudier par analogie avec les
différents âges de l’homme, le “processus de formation d’une langue poétique” ainsi que
le passage de la poésie à la prose, de l’âge “enfantin” à l’âge “adulte” de la langue, alors
que “la poésie devient un art et la prose un langage naturel”. La réflexion sur l’évolution
historique de la vie du langage se termine, ensuite, dans les paragraphes consacrés à
l’examen des traits propres au “langage philosophique” qui en image problématique de
l’âge adulte résulte encore peu fécond. En dépit de tout aspect sous le quel toute sorte de
chose pouvait se présenter, d’emblée il était désigné comme signe. Bien entendu, cet aspect
n’était jamais propres à Dieu qui n’est pas simplement le spectateur de la genèse intérieure
des choses en étant également l’ordonnateur, mais il se voulait toujours comme un point
de vue unilatéral introduit de telle manière dans le langage. Après les études très connus
de Rouché et Verra, Marino et Trabant, voir Fortuna (2000: 107-121).
58
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
langage argumentée par un procédé a priori qui ne trouve aucun fondement
dans l’histoire. La réaction à une telle hypothèse signifie confirmer, tout
d’abord le caractère historique de la recherche génétique, relevant en soi-même
l’instant fondamental et originaire du religieux aussi, et tout cela dans une
perspective humaine qui témoigne du processus historique de formation du
langage ainsi que de toutes les autres manifestations de l’homme en excluant,
enfin, l’existence d’un modèle atemporel et absolu de compréhension historique. Il n’est pas concevable que la beauté, l’ordre et la perfection linguistique
de tant de langues voire de toutes les langues soient-elles ordonnées à partir
d’un seul projet. Ce n’est qu’une hypothèse irréfléchie le fait de ne pas vouloir
introduire qu’un seul idéal face à cette grande multiplicité. Egalement, si ce
modèle d’une seule langue prenant valeur pour toutes les autres était admis,
quel type d’intelligence serait indispensable pour vérifier, si en effet, il s’était
formé en un seul instant dans l’intellect divin et pas ailleurs:
Ist wohl Schönheit, Ordnung und Vollkommenheit der Sprache, so vieler, ja aller
Sprachen nach einem Plan gebildet? Welche ungeheure Hypothese, in diese große
Wenge und Verschiedenheit ein einziges Ideal zu bringen? (…) Und wenn nun
auch dies Vorbild einer Sprache für alle angenommen wäre: welcher Scharssinn,
zu sehen, daß dies Vorbild auf einmal gebildet, zu sehen, daß es in dem Göttlichen
Verstande, und in seinem andern gebildet seyn müsse (Herder 1766-1768: 67).
Les notions de “esprit philologique”, “esprit historique” et “génie philosophique” indispensables pour envisager le langage humain en patrimoine de
pensées et de connaissances collectives de toute une nation sont absentes chez
Süssmilch, comme chez tous ceux qui se révèlent incapables de réfléchir sur le
langage en termes de développement de la raison et au même temps comme
produit des énergies psychiques humaines (Herder 1766-1768: 67-68). Dans une
langue, rien qui se trouve hors de l’histoire, rien qui n’existe indépendamment
de tout but humain ne peut pas s’avérer complètement reconnaissable et
compréhensible. Le “mot”, apte à établir une relation symbolique significative
entre l’homme et la réalité, coexiste sans doute avec des motivations religieuses
et surnaturelles bien qu’une compréhension partielle et problématique se peut
réaliser uniquement et de manière directe sur un plan historique. Dans cette
perspective l’instant originaire de l’expression poétique et symbolique, voire la
révélation d’une expérience authentiquement religieuse, se manifeste tel que
complexe individualité concrète à comprendre dans ses multiples dimensions
et poursuite dans la spécificité des phases de son développement constant.
La préoccupation de Herder, la plus pressante consiste dans la distinction
entre fait humain et événement divin, absolu et transcendent le monde humain
de l’origine. Il s’agit d’une différence qui ne manifeste pas l’extranéité entre la
réalité humaine et la vérité divine, mais plutôt la nécessité d’établir une prémisse
59
Fabrizio Lomonaco
méthodologique et historique plus rigoureuse pour la fondation d’une synthèse
adéquate et intime entre le monde humain et la providence divine, entre le
langage et la religion, entre le mot et la révélation. C’est pour cette raison que
dans l’essai du 1772 l’hypothèse de Süssmilch se révèle également une fausse
supposition qui paradoxalement semble se retourner contre elle-même. En
effet, Herder remarque que si l’on veut rechercher un ordre divin, il ne peut
s’avérer que dans le fait que le langage est une faculté proprement humaine.
L’hypothèse d’une origine supérieure ne s’avale pas de preuves consistantes ni
elle semble être également confirmée par l’Ecriture à la quelle se réfère jusqu’à
mortifier Dieu en rendant tout inexplicable (Herder 1772: 82,146).
Les raisons les plus profondes de la dissertation herderienne du 1772
consistent dans la reconnaissance, à l’origine, de la dimension poétique et
symbolique dans la conscience de la relation intime parmi l’histoire, la nature
et le langage; l’attention à la spontanéité du “mot” se renouvelant constamment chez l’homme en soulignant la disposition générale de ses facultés
aptes à la réflexion; la recherche d’une nouvelle unité non abstraite des parties
en polémiquant avec Kant qui distingue et sépare cela qui par contre doit être
compris dans sa concrète et vivante unité; la recherche, en fin, d’une nouvelle
notion de “raison” qui n’est pas “mère” de la pureté, mais plutôt “fille”
d’expériences concrètes. À ce propos, tout en tenant compte des jugements
acerbes et irrités de Hamann manifestés dans la critique à la “Königsbergische
gelehrte und politische Zeitung” du 17729, peut être qu’il soit opportun
d’encadrer le rapport entre Herder et Hamann de façon nouvelle et
suffisamment lointaine de tout équivoque. En effet, ils sont apparus dangereux
parce qu’ils cherchent de minimiser voire de nier une certaine affinité
substantielle entre les deux maîtres à penser en altérant le sens des expériences
herderiennes mûries pendant le séjour à Bückeburg, dans les années 1771-1776,
qui avait immédiatement suivi la rédaction de l’Abhandlung du 1772. Dans une
intéressante lettre du Ier août 1772 adressée à Hamann, il ne se limite pas à se
référer à l’influence leibnitienne, c’est-à dire à ce qu’il appelle “la peau
leibnitienne-esthéticienne” s’engageant à éclairer le but de sa participation au
concours et la signification de ses affirmations qui ne semblent pas refuser les
remarques de son maître sur l’origine du “mot”, mais les intégrer à la lumière de
la polémique contre les faux présupposés théoriques et philosophiques déjà
esquissés dans la question posée en 1769. En effet, l’Académie de Berlin
demandait de “démontrer” plutôt que “admettre” l’hypothèse de l’origine
divine du langage. La même polémique contre les positions de Süssmilch ne
9
Il est le compte rendu de l’Abhandlung avec un’adjonction, dans Hamann (1951:17-24). Voir
Pupi (1977: 141-149).
60
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
visait pas à désavouer l’origine divine du langage, mais, à l’inverse, à démontrer
la fausseté des argumentations qu’il proposait et tout cela pour aboutir à une
démonstration de l’hypothèse d’une origine supérieure du langage.
Pour Herder la seule perspective philosophiquement admissible et historiquement vérifiable semblait donc celle proprement humaine puisqu’elle
envisage le langage tel que forme même de la structure de la conscience.
Pourtant, il est incompréhensible que, pour utiliser un registre scolaire ou
littéraire, le don linguistique prend distance du mien. Il n’y a personne qui
puisse douter du fait que Dieu aie crée le langage par les hommes ou que Lui
n’aie pas agit par un parcours mystique en préférant parler par la nature
(Hamann 1955-1979: 10-11)10. L’on comprendra aisément l’étonnement de
Herder - tout à fait compréhensible - par rapport aux polémiques découlées de
la discussion avec Hamann qui, du reste, dans son Des Ritters von Rosenkreuz
Letzte Willensmeynung über den göttlichen und mensclichen Ursprung der Sprache
du 1772 avait distinct, au cœur de l’étude sur l’origine du langage, la dimension humaine de celle divine. Les réflexions de Herder telles qu’apparaissent
dans l’Abhandlung du 1772 étaient donc lointaines de la volonté de manifester
une aversion décidée contre la pensée de Hamann, en se montrant par contre
disponibles à la relever tout en l’interprétant de manière extrêmement originelle.
Rattraper la dimension humaine constitutive de l’expérience linguistique et
symbolique, la seule philosophiquement admissible et démontrable de façon que
Dieu même soit posé, enfin, dans sa plus vivante lumière équivalait à répondre à
la question posée par l’Académie Royale de Berlin en contribuant à un nouveau
approfondissement du rapport parmi le langage, la nature et la révélation dans
les termes d’une nouvelle confrontation théorétique toujours vivante et lointaine
de toute répétition, avec Hamann. En effet, en 1784 le “Magicien du Nord”
écrivait à Herder que par la plus haute vraisemblance philosophique, le
Créateur, qui était obligé à le faire, à voulu inclure les indications pour l’usage de
cet instrument de l’art, l’origine du langage humain est sans doute divine. Au
cas où un être supérieure tel que un Ange, par exemple, voudrait se servir de
notre langage. Il faut que tous ces procédéssoient exprimés par analogie à la
nature humaine: dans cette perspective l’origine du langage – tel que son
développement – ne peut que se révéler humaine11.
10
11
Voir Pupi (1977: 66-68).
“(…) Und weil, der höchsten philosophischen Wahrscheinlichkeit gemäs, der Schöpser
dieser künstlichen Werkzeuge auch ihren Gebrauch hat einsetzen wollen und müssen: so ist
allerdings der Ursprung der menschlichen Sprache göttlich. Wenn aber ein höheres Wesen,
oder ein Engel, wie bey Bileams Esel, durch unsre Zunge wirken will; so müssen alle solche
Wirkungen, gleich den redenden Thieren in Aesops Fabeln, sich der menslichlichen Natur
analogisch äußern, und in dieser Beziehung kann der Ursprung der Sprache und noch
weniger ihr Fortgang anders als menschlich senn und scheinen” (Hamann 1772: 27).
61
Fabrizio Lomonaco
En opposition à l’hypothèse de Kant présupposant une relation entre
sensibilité et intelligence, au risque d’isoler le langage et la raison dans un
rapport purement formel non moins qu’ambigu, abstrait et absolu, prendrons
jour les remarques de Hamann qui traduit dans la Metakritik über den Purismus
der Vernunft du 1784 la critique juvénile à la “santé de la raison” dans la
polémique contre le “purisme” exaspéré de la raison kantienne, qui en
séparant et distinguant entre spontanéité et réceptivité pénètre directement le
langage tel que organe et critère de la raison. Le plus haut et pour ainsi dire,
empirique, des purismes concerne une fois de plus le langage tel que le seul, le
premier et l’extrême organe et critère de la raison, sans lettres de créance
exception faite pour la tradition et l’usum. À partir de la double source de
l’équivoque (Réceptivité du langage et spontanéité des concepts) la pure raison
puise tous ses éléments de l’acte de censurer et de subtiliser ainsi que de ses
abus; en générant par une analyse et une synthèse également arbitraires et
faites avec de la levure bien rance, des nouveaux phénomènes et des météores
qui appartiennent à un horizon variable12.
Face à une séparation forcée de ce que la nature a rassemblé, par contre,
l’auteur de l’Aesthetica in nuce rappelle le pouvoir esthétique e logique des mots
dont la signification jaillit de la connexion d’un signe verbal, plutôt arbitraire et
indifférent a priori, mais nécessaire et immanquable par l’intuition de l’objet
même a posteriori; il est grâce à ce rapport répété que le concept par le moyen du
signe verbal ainsi que de l’intuition arrive à être communiqué, fixé et assimilé à
l’intellect. Reconnaître la relation la plus profonde entre le mot et le concept
signifie, donc, repérer dans la sensibilité comme dans l’intellect une seule racine
commune tout en reconnaissant également “l’action d’un Démosthène” doué
d’une extraordinaire éloquence, nécessaire à ouvrir les yeux du lecteur pour lui
montrer, peut-être - des armées d’intuitions montant jusqu’au au bout du
rocher de l’intellect pur - et au même temps des concepts descendant dans la
profondeur de la sensibilité la plus précaire13.
“Der dritte höchste und gleichsam empirische Purismus betrift also noch die Sprache, das
einzige erste und letzte Organon und Kriterion der Vernunft, ohne ein ander Creditiv als
Ueberlieserung und Usum. (…) Receptivität der Sprache und Spontaneität der Begriffe!
Aus dieser doppelten Quelle der Zweideutigkeit schöpft die reine Vernunft alle Clemente
ihrer Rechthaberey, Zweifelsucht und Kunstrichterschaft, erzeugt durch eine eben so
willkührliche Analysin als Synthesin des dreimal alten Sauerteigs neue Phänomene und
Meteoren des wandelbaren Horizonts” (Hamann 1784: 284).
13 “(...) Um die Handlung eines Demosthenes und seine dreieinige Energie der Beredsamkeit
oder die noch kommen sollende Mimik, ohne die panegyrische klingende Schelle einer
Engelzunge!” (Hamann 1784: 287).
12
62
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung de Johann Gottfried Herder
À l’exemple de Hamann Herder dans sa Eine Metakritik zur Kritik der reinen
Vernunft (1799) aussi adressera sa critique à Kant à cause du fait qu’il s’était
engagé à maintenir séparés l’intellect et l’expérience (Verstand und Erfahrung)
ainsi que la raison et le langage (Vernunft und Sprache). Pour lui l’expression “a
priori” ne se réfère que à ce qui suit; c’est-à-dire qu’elle ne concerne que ce qu’on
appelle a priori alors que rien se termine du vide. D’où ce prius vient d’une
expérience en donné interne selon les règles de mon intellect plutôt que un donné
externe selon la mesure de mes propres sens, cela n’est pas du tout décidé.
Personne ne peut se rendre indépendant, hors de toute expérience originaire,
quelque soit interne ou externe, c’est-à-dire qu’il n’arrive pas à se concevoir libre
par de là de soi-même. Dans ce cas là il s’agirait d’un prius précédent tout a
priori; ainsi que la raison humaine se terminerait avant de commencer:
Im gemeinen Gebraucht bezieht sich das Wort a priori nur auf das mas folgt; blos in
Beziehung hierauf heißts a priori: denn aus dem Leeren schliesset sich nichts. Woher
dies prius sei? ob eine Erfahrung, d. i. ein inneres Datum nach den Regeln meines
Verstandes, oder ein äußeres nach Maasgabe meiner Sinne? wird damit nicht
ausgemacht. Sich von sich selbst unabhängig zu machen, d. i. aus aller
ursprünglichen, innern und äußern Erfahrung sich hinauszusetzen, von allem
Empirischen frei über sich selbst sich hinaus zu denken, vermag niemand. Das wäre
ein prius vor allem a priori; damit hörte, ehe sie anfing, die Menschenvernunft auf
(Herder 1799: 23-24)14.
Bibliographie
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Herder, dans La questione dell’esperienza, Florence, Ponte delle Grazie, pp. 11-21.
CASSIRER, E., 1923, Philosophie der symbolischen Formen, Dritter Teil, Text und
Anmerkungen bearbeitet von J. Clemens, dans ID., Gesammelte Werke, hrsg. von B.
Recki, Band 13, Hamburg, Felix Meiner, 2002.
CREPON, M., 1996, Les géographie de l’esprit. Enquête sur la caractérisation des peuples de
Leibniz à Hegel, Paris, Payot & Rivages.
FORTUNA, S., 2000, Le antinomie della genesi in Herder, «Bollettino Filosofico del
Dipartimento di Filosofia dell’ Università della Calabria», 16, pp. 107-121.
HAMANN, J. G., 1951, SämtlicheWerke, Bd. III, Wien, Verlag Herder.
---, 1955-1979, J. G. HAMANN à J. G. Hamann, Ier août 1772, dans ID., Briefwechsel, éd. W.
Ziesemer et A. Henkel, Wiesbaden, Frankfurt/M., Insel Verlag, Band III, pp. 10-11.
---, 1772, Des Ritters von Rosenkreuz letzt Willensmeynung über den göttlischen und
menslichen Ursprung der Sprache, dans ID., Sämtliche Werke, cit., pp. 25-33.
14
Après les études de Croce and Rouché, de Litt and Verra, voir la mise au point de Tani
(2004: 179-193), Rehm (2007: 188-248) et de Pititto (2008: 127-207). À propos de l’histoire
voir aussi Bollacher (1991).
63
Fabrizio Lomonaco
---, 1784, Metakritik über den Purismus der Vernunft, dans ID., Sämtliche Werke, cit., pp.
281-289.
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64
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine
del linguaggio nel confronto con Herder
Simona Venezia
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli “Federico II”
email: simona.venezia@unina.it
Ma origine è sempre già futuro
Heidegger
Una delle più gravose difficoltà che incontra lo studioso quando si imbatte
nella problematica dell’origine del linguaggio consiste nel diffuso discredito
che accompagna, in generale dall’Ottocento in poi, tale domanda; discredito
che scaturisce dall’impossibilità di pronunciare una parola definitiva su un
argomento che pone quesiti radicali non solo dal punto di vista teoretico, ma
anche da quello storico, sociale, culturale, semiotico, neurobiologico ecc. Non è
un caso che anche un autorevole esponente della linguistica del Novecento
come Ferdinand de Saussure abbia dichiarato che la questione sull’origine del
linguaggio “non ha l’importanza che generalmente le si attribuisce. Non è
neppure una questione da porre” (Saussure 1985: 90). Con questa affermazione
il linguista ginevrino condensa in maniera perentoria tutta una serie di
pregiudizi che mettono in discussione la validità e anche l’utilità di uno studio
che già di per sé, a causa della sterminata mole di contributi e di prospettive di
ricerca che sottintende, rischia di essere destinato a una fatale dispersione. È
inoltre la peculiare temperie culturale del Novecento a impedire di riservare a
tale indagine uno scandaglio generalizzante, che invece per esempio
nell’universalismo enciclopedico tipico dell’Illuminismo tendeva a corroborare
un ideale conoscitivo diffidente nei confronti di qualsiasi autorità, ma pur
sempre ‘assoluto’. La filosofia del Novecento ha definitivamente abbandonato
ogni velleità universalistica, gelosa del ‘frammento’ inteso non come parte
ridotta di una totalità irraggiungibile, ma come luogo in cui ancora trovare
l’unica totalità ancora possibile. La domanda sull’origine del linguaggio invece
riproporrebbe un ideale di pensiero ineluttabilmente ancorato a una chimera
speculativamente obiettivante, difficilmente legittimabile di fronte alle nuove
istanze della soggettività, sempre meno interessate a indagare il linguaggio
fuori dal concreto parlare degli umani.
65
Simona Venezia
Tuttavia forse il problema non risiede soltanto in un’eccedenza di analisi,
che rischia di rendere l’origine del linguaggio quasi una perenne autocitazione
del pensiero e per il pensiero, ma soprattutto nella confusione che troppo
spesso gli studi su tali problematiche scontano loro malgrado. Il discorso
sull’origine del linguaggio si complica ulteriormente, infatti, poiché non è
possibile rintracciare né un’univocità per quanto riguarda la questione
dell’origine, né un’univocità per quanto riguarda la questione del linguaggio:
non esiste, infatti, un’unica prospettiva originaria attraverso la quale indagare
l’origine, né un’unica prospettiva linguistica attraverso la quale indagare il
linguaggio. Quello che sarebbe necessario domandare prima di tutto è,
dunque, cosa si intende per ‘origine’ e cosa si intende per ‘linguaggio’. Per
origine si può infatti intendere per esempio una provenienza storico-diacronica,
intesa come l’individuazione, all’interno della storia dell’evoluzione degli
esseri viventi, dell’evento che condusse all’attuazione di quella capacità
propria dell’uomo di esprimersi e di comunicare e delle sue specificità. In
questo modo e all’interno di una prospettiva del genere, abbiamo individuato
in realtà già due possibilità difformi di intendere il termine ‘origine’: da un lato
come scaturigine scientifico-evoluzionistica nel phylum biologico del genere
umano – come l’inizio dell’attività pratica che sempre implica il linguaggio,
nell’ambito dello studio approfondito dell’origine di tutti quei procedimenti di
differenziazione e di attribuzione meccanico-biologici che si riferiscono al suo
uso –, dall’altro come punto di partenza della storia del linguaggio in
riferimento a determinatati contesti storico-sociali. Da un punto di vista
filosofico, tuttavia, la modalità di indagine che ha maggiormente impegnato i
pensatori nella storia del pensiero – almeno fino a quando la domanda
sull’origine del linguaggio è stata considerata la Hauptfrage della Sprachphilosophie – è stata quella che indaga l’origine del linguaggio su un piano
esclusivamente teoretico e quindi come essenza del linguaggio, ovvero come quel
principio metalinguistico che dà senso e che presiede alla possibilità che
possano esserci al mondo uno o più linguaggi. Tuttavia, alla ricerca che voglia
affrontare in maniera esaustiva la tematica dell’origine del linguaggio, tematica
che ha visto indubbiamente nella storia della filosofia un evidente
sbilanciamento a favore del piano metalinguistico, viene posto un contrappeso
consistente nel fatto che nel Novecento questo piano metalinguistico è stato in
parte abbandonato, ed è stato sostituito da quello semiologico-semiotico e
pragmatico da un lato e da quello scientifico-evoluzionistico dall’altro,
prediligendo quest’ultimo soprattutto negli ultimi decenni: “la direzione di
ricerca che da anni impegna di più è la costruzione di ipotesi filogenetiche di
ordine evolutivo e cronologico” (De Mauro 20022: 36).
66
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
Lontano da queste impostazioni decisamente in auge al giorno d’oggi,
tormentato da un anacronismo ritenuto necessario perché l’unico ancora
pensabile come realmente essenziale, anche un autore come Martin Heidegger
si confronta con la tematica dell’origine del linguaggio. E lo fa collocando le
proprie analisi in un topos filosofico tra i più conosciuti e dibattuti, ovvero la
Abhandlung über den Ursprung der Sprache di Johann Gottfried Herder (Herder
2001), al cui studio e approfondimento è dedicato un seminario friburghese1
datato 1939e intitolato Vom Wesen der Sprache (Heidegger 1999). In quello che
non è solo un mero commento, ma un confronto serrato anche se non
risolutivo, Heidegger mette in discussione questo testo fondamentale per la
storia della filosofia del linguaggio per attraversare le ragioni di una
tradizione, quella metafisica, alla quale sente di non appartenere ormai in
maniera definitiva, per poi ampliare il discorso delineando una propria e
nuova Sprachphilosophie, che da una parte anticipa in maniera sorprendente
molti dei suoi stessi sviluppi successivi, e dall’altra innesta semi destinati però
a non portare ulteriori frutti. Pur essendo l’edizione di questo seminario di
Heidegger formata pressoché interamente da appunti a volte anche disorganici, essa rappresenta un documento straordinario per la sua meditazione
sul linguaggio, meditazione che – iniziata germinalmente in prospettiva
fenomenologica già nell’ermeneutica della fatticità presagita nel Natorp-Bericht
del 1922 (Heidegger 2003), riversatasi nella Rede come esistenziale linguistico e
nel Verstehen come comprensione ontologica dell’essere-nel-mondo di Sein und
Zeit (Heidegger 197612), proseguita nel 1934 con la Vorlesung dal titolo Logik als
die Frage nach dem Wesen der Sprache (Heidegger 1998) –, segnerà tutto il suo
percorso successivo, culminante nei celeberrimi saggi e conferenze raccolti
negli anni Cinquanta nel volume Unterwegs zur Sprache. Il seminario su Herder
si trova inoltre a ridosso di quello che è considerato il secondo capolavoro di
Heidegger, che ha segnato in maniera indelebile la cosiddetta svolta, ovvero i
Beiträge zur Philosophie (Heidegger 1989), testo vorticoso e allo stesso tempo
scivoloso, in cui confluiscono innumerevoli problematiche, tutte finalizzate a
una fuoriuscita dalla metafisica intesa non solo come una fuoriuscita dall’oblio
dell’essere, ma anche come la riscrittura di un altro inizio (anderer Anfang;
176ss.) in maniera ancora più radicale rispetto a quanto tentato in Sein und Zeit.
Perché in questo contesto di fluidità concettuale e strutturale, in cui
vecchie certezze vengono messe duramente alla prova se non addirittura
cancellate e nuove concezioni iniziano faticosamente a emergere, si inserisce un
1
Sul raffronto tra Heidegger e Herder in riferimento a questo testo in particolare si vedano
Kovacs 2001; Krüger 2009.
67
Simona Venezia
confronto con Herder? Cosa riesce a individuare Heidegger nella figura di
questo grande pensatore e innovatore di assolutamente necessario per il
proprio pensiero e la cui messa in discussione non può essere in alcun modo
procrastinata? Bisogna subito precisare che Heidegger si confronta in maniera
se non sistematica quantomeno esaustiva rispetto a una determinata idea
interpretativa esclusivamente con la celebre Abhandlung e, pur facendo
riferimento alla straordinaria stagione filosofica degli Hamann, Humboldt e
Grimm (Heidegger 1999: 103-106), focalizza la sua attenzione volutamente su
quello che, alla luce di quanto prodotto in quell’epoca dal genio tedesco, è
senza dubbio solo un episodio se pur di somma, inoppugnabile rilevanza.
È nell’ambito di siffatta delimitazione contenutistica che questo contributo
intende approcciare la questione dell’origine del linguaggio in Heidegger, così
come emerge in questo suo prima di confronto con Herder, che potrebbe
apparire parziale e pretestuoso agli occhi di studiosi filologicamente agguerriti.
Ma perché l’Abhandlung? Cosa ritrova Heidegger in questo classico della
filosofia e solo in questo? Fin dalle prime pagine di questo seminario risulta
evidente che in gioco non è semplicemente l’esegesi più o meno corretta di un
testo se pur esemplare per la storia della filosofia, ma il significato più
profondo di tutta la svolta linguistica che sta avvenendo proprio in quegli anni
nel pensiero heideggeriano e che si consoliderà soprattutto nei decenni
successivi. Per comprenderlo si deve necessariamente partire proprio dal
concetto di origine (Ursprung). Come è noto, tale problematica era già stata
affrontata precedentemente nel 1935, quando ne era stata individuata
l’inaggirabilità teoretica nel celebre saggio su L’origine dell’opera d’arte (Heidegger
19947), testo in cui avviene la ‘metamorfosi’ dell’analitica esistenziale in una
forma di analitica dell’opera d’arte, nella quale viene riformulata l’indagine su
un “interrogato” (das Befragte)specifico che, dopo l’ente in quanto Dasein di Sein
und Zeit (Heidegger 199317: 5), è l’ente come opera d’arte (Mazzarella 1981: 98)2.
Ma, proprio in queste pagine in cui viene tentata un’analitica dell’opera d’arte,
si decide di fatto di abbandonare il dispositivo teoretico e strategico
dell’analitica, perché è proprio in queste pagine che si impone come
fondamentale la questione della verità come aletheia, presagita – ma non ancora
perseguita – nella sua capitale portata ontologica già in Sein und Zeit (212-230), elaborata in realtà già agli inizi degli anni Trenta3, ma solo adesso consapevolmente
2
3
Si veda su tale argomento anche Gadamer (1960).
Come è noto, la svolta è collocata da Heidegger stesso intorno ai primi inizi degli anni trenta,
che la riconduce – in una nota da lui scritta nel 1943 – al testo del 1930 Dell’essenza della verità
(cfr. Heidegger 19963a: 192-193), anche se divenne nota al grande pubblico successivamente,
soprattutto dopo la pubblicazione del Brief über den »Humanismus« (Heidegger 19963b: 328).
68
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
compresa nella sua rilevanza. Nel momento in cui la verità viene scoperta nel
suo epocale movimento di disvelamento, la domanda sull’essere diventa una
domanda totalmente ontologica, e quindi sempre meno incline a indagare
forme, pur sempre ontico-ontologiche, singolari e pur sempre essenziali come
l’uomo stesso, che tuttavia non possono però mai essere accantonate del tutto.
È in questo passaggio verso una vera ontologia che la domanda sull’origine
diventa l’accesso privilegiato alla domanda dell’essere. A questo proposito
l’incipit del saggio sul Kunstwerk risulta davvero illuminante:
Origine significa, qui, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è ed è come è. Ciò che
qualcosa è essendo così com’è, lo chiamiamo la sua essenza. L’origine di qualcosa
è la provenienza della sua essenza” (Heidegger, 19947: 1).
In queste poche righe Heidegger sintetizza un nucleo concettuale che sarà
alla base anche del seminario del 1939 su Herder, ovvero la diade Ursprung/
Wesen, il rapporto tra origine ed essenza. In questo testo del 1935 siffatto rapporto
è di sostanziale coappartenenza: origine ed essenza sono inscindibilmente
legate l’una all’altra da una relazione di provenienza. Ed è proprio questo il
motivo per cui l’origine viene ancora pensata metafisicamente, in quanto
paradigma di una scaturigine intesa come un arcano del pensiero, a cui tentare
di ricondurre ogni forma di verità e tramite cui giustificare le istanze del
pensiero stesso. Ma, nonostante questa prima formulazione non ancora del tutto
coerente con gli sviluppi di un’ontologia radicale, è proprio nella relazione
Ursprung/Wesen che Heidegger cercherà di indagare per tentare una concettualizzazione dell’origine fuori dal retaggio della metafisica. Non è un caso che
tutte queste riflessioni si riverseranno proprio nel seminario del 1939, durante
il quale, oltre a una ricostruzione e a un approfondimento delle tematiche
inerenti alla celebre Abhandlung, viene tentato uno scandaglio concettuale della
diade origine/essenza a partire dalla relazione che tra questi due termini è
rintracciabile in Herder.
Con l’immancabile quanto feconda arbitrarietà interpretativa che gli è solita,
Heidegger ricostruisce a grandi linee la filosofia del linguaggio occidentale
affermando che essa si è fondata fin dall’Antichità esclusivamente su una base di
tipo logico-grammaticale di stampo metafisico: il linguaggio è stato indagato
solo sulla base della sua capacità di rappresentare in parole correttamente
l’essente. Il linguaggio inteso come emissione di pensieri attraverso suoni e
forme, capacità di parlare e stile di enunciazione, è infatti condensato secondo
Heidegger nella identificazione del logos non solo con la canonica ratio, ma anche
come oratio (Heidegger 1999: 3-4).Nella diade ratio/oratio il linguaggio è stato
pensato nella storia della filosofia sempre come un fondamento, sia da un punto
di vista razionale che dal punto di vista linguistico.
69
Simona Venezia
Sospendendo ogni giudizio anche se parziale su questa che è chiaramente
un’affermazione problematica, ci poniamo il compito di sottolineare invece
quanto a partire dalla sola lettura proposta su Herder Heidegger voglia far
emergere. Questo autore infatti si distacca in parte dalla tradizione metafisica
grazie a un elemento per cui comunque continua a rientrare in questa stessa
tradizione, ovvero il razionalismo. Secondo Heidegger, infatti, la prospettiva
herderiana essenzialmente razionalistica che fonda il linguaggio sull’uomo
impedisce di fatto una deriva logico-grammaticale dell’idea di linguaggio.
Heidegger ritiene che il grande punto di svolta del testo herderiano non sia
infatti il rapporto tra uomo e linguaggio, ma il fatto che l’uomo venga non solo
indagato, ma addirittura costituito nella sua essenza attraverso il linguaggio. In
questo testo infatti Heidegger sembra concedere a Herder una posizione
intermedia tra la tradizione della metafisica rappresentativa del linguaggio e
un pensiero sul linguaggio di tipo disvelativo che proprio in questi anni inizia
a configurarsi in tutta la sua rilevanza concettuale. Tuttavia ciò non è
sufficiente a uscire fuori da una concezione tecnico-metafisica del linguaggio,
perché Herder rischia di antropologizzare quello che una certa tradizione ha
grammaticalizzato.
Secondo la posizione di Herder il linguaggio è un fenomeno naturale; non
soltanto la sua origine non è sovrumana, di provenienza divina come pensava
Hamann, ma è un fenomeno innegabilmente di provenienza animale, in
quanto collegato alle leggi naturali del corpo – inteso come una macchina
sensitiva (Herder 2001: 16) – e alla capacità di articolare suoni (Lautung) (71ss.).
Così come l’animale l’uomo è capace di emettere dei suoni, ma, al contrario
dell’animale, sa di emetterli, è cosciente del fatto che la sua identità linguistica
è imprescindibile dalla sua identità tout court. Questo è possibile perché il
protagonista assoluto di una tale prospettiva è l’uomo, di cui vengono
considerate l’evoluzione, la storia e la cultura, senza riferimenti a potenze
trascendenti4 che sulla formazione del linguaggio in qualche modo sarebbero
potute intervenire.
Nell’ambito di un’impostazione del genere Herder ritiene necessario
stabilire quattro Naturgesetze, quattro leggi di natura che ridisegnano l’intera
struttura ontologica dell’individuo parlante, iniziando proprio dal fatto che se
un individuo è tale è già di per sé parlante. Questo avviene infatti solo
4
Con questo non si nega in alcun modo l’esistenza di Dio, ma anzi Herder ritiene che «l’origine soprannaturale, per sacra che possa sembrare, è assolutamente profana. Essa, rifacendosi
agli antropomorfismi più vieti e grossolani, rimpicciolisce Dio a ogni passo. L’origine
umana rivela Dio in tutto il suo fulgore perché l’anima umana, sua opera, da se stessa crea e
continua a creare il linguaggio, proprio perché è sua opera: un’anima umana» (Herder 2001: 123).
70
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
perché“per l’uomo lo sviluppo del linguaggio diventa naturale quanto la sua stessa
natura” (86). Anche in questo modo Herder esprime tutta la sua fede nell’ideale
di progresso tipico dell’Illuminismo5, nell’ideale di una potenzialità amplificatrice propria della razionalità umana, che destina l’essere umano non solo a
sopravanzare gli animali, ma a dominare tramite il linguaggio il mondo organizzandolo in segni e ricostituendolo continuamente in strutture linguistiche.
L’uomo è capace di progredire e di migliorarsi grazie al linguaggio6, che
gli permette di instaurare relazioni umane e sociali7, anche esse soggette a
continue mutazioni riconducibili a una matrice linguistica. L’origine del
linguaggio, dunque, è un’origine umana e naturale e questa legge non viene
confutata dalla molteplicità delle lingue che è possibile esperire nella storia del
genere umano, ma, anzi, viene proprio da questa molteplicità corroborata. Tale
diversità, infatti, dipende dal fatto che il linguaggio è un’invenzione umana e
che quindi è condizionato dalla varietà storico-genealogica che caratterizza le
nazionalità e le culture dei popoli. Dalla molteplicità di gruppi etnici e civiltà
consegue necessariamente la molteplicità delle espressioni e comunicazioni
linguistiche8. Oltremodo interessante è in questo contesto di eterogeneità il
concetto di unità che viene proposto nella quarta legge di natura9, un’unità
intesa come ciò che consente di spiegare tanto lo sviluppo e la crescita
dell’intero genere umano, quanto lo sviluppo del linguaggio, che ne è
contemporaneamente testimone, strumento e depositario con l’immensa
complessità che gli è propria, e con la capacità altrettanto peculiare di
arricchirsi ininterrottamente, complessità e capacità che a loro volta vanno
oltre la dimensione linguistica del singolo individuo e oltre la sua facoltà di
distinguere per caratteristiche e coordinare il mondo che lo circonda. Il genere
umano ha infatti tra le sue caratteristiche specifiche quella di poter trasmettere
le proprie conoscenze ed esperienze: “grazie alla catena dell’insegnamento,
genitori e figli diventano una sola cosa”, e “per questo tramite passa lo sviluppo del
Come giustamente ha sottolineato Hans Aarsleff, non è possibile pensare il saggio di
Herder avulso dal vivace contesto filosofico francese che, soprattutto nell’Essai sur l’origine
des connaissances di Condillac, aveva espresso uno dei suoi culmini (Aarsleff 1984: 176).
6 ‘Prima legge di natura: L’uomo è un essere liberamente pensante e attivo, le cui forze agiscono
in continua progressione; perciò è una creatura fatta per il linguaggio’ (Herder 2001: 80).
7 ‘Seconda legge di natura: l’uomo è una creatura destinata ad aggregarsi e ad associarsi: lo
sviluppo del linguaggio è dunque per lui un fatto naturale, essenziale, necessario’ (Herder
2001: 95).
8 ‘Terza legge di natura: Così come era impossibile che l’intero genere umano restasse un
unico gregge, così nemmeno fu possibile mantenere una lingua unica. Ha inizio la
formazione delle diverse lingue nazionali’ (Herder 2001: 104).
9 ‘Quarta legge di natura: con ogni probabilità il genere umano costituisce un insieme
globale che da un’origine unica progredisce in seno a una grande economia; lo stesso vale
anche per tutte le lingue e, con esse, per tutta la catena della cultura’ (Herder 2001: 113).
5
71
Simona Venezia
linguaggio” (113). “In tale prospettiva”, conclude Herder, “che statura acquista
il linguaggio! Un forziere di pensieri umani dove ciascuno ha aggiunto qualcosa
di suo. Una somma dell’attività di tutte le anime umane” (115).
Nonostante l’incontrovertibile interesse teoretico di queste tematiche, nella
sua ricostruzione del testo herderiano Heidegger le marginalizza, valorizzando
altri aspetti più utili ai fini della sua interpretazione. Come ad esempio il
celebre concetto di Besonnenheit10, che egli ritiene essere il principio essenziale
di tutta l’Abhandlung herderiana, di cui ricorda la definizione secondo la quale
essa indica “la disponibilità unitaria e totale di tutte le forze, la forza
fondamentale” (Heidegger 1999:17). Anche alla luce di questa indicazione,
appare insufficiente che il termine venga tradotto in italiano con ‘sensatezza’,
come solitamente accade; in realtà, sarebbe meglio parlare di riflessività, cioè
facoltà di riflettere, di elaborare e di riformulare, e non una mera disposizione
caratteriale. Per Herder la riflessività non è dunque solo un’attitudine
dell’uomo, ma una vera e propria identità performativa, la potenzialità tra gli
esseri viventi propria solo dell’uomo di perfezionarsi e di progredire sia
linguisticamente che socialmente. Pur essendo una “creatura all’oscuro di tutto
quanto viene al mondo”, inchiodato di conseguenza a un’inaggirabile finitezza,
grazie alla Besonnenheit, ovvero grazie al linguaggio e alle capacità che con esso
è in grado di acquisire, “l’uomo diventa subito un alunno della natura diverso
da ogni altro animale” (Herder 2001: 84). In questo modo la riflessività è quella
capacità che permette all’uomo di attuare la caratteristica fondamentale del
linguaggio, che secondo Herder è quella di attribuire tratti distintivi (Merkmale).
È questo un aspetto fondamentale: primariamente il linguaggio non è puramente
espressivo, ma comunicativo, non è semplice emissione di suoni articolati, ma
instaurazione di una relazione con il mondo circostante. Questo mondo infatti
non viene solo riferito, ma viene anche inserito in una definizione che lo
contraddistingue e che in questo modo lo rende accessibile all’uomo stesso che
lo definisce in una differenziazione necessaria ai fini della interazione
comunicativa e sociale. Il linguaggio produce segni, e in particolare segni
contraddistintivi, ovvero rappresenta l’oggetto che dice contrassegnandolo di
qualità, attributi, ma anche solo di entità, realtà, temporalità, in breve
distinguendolo da tutto ciò che lo circonda.
La parola dà all’oggetto una dimensione reale contrassegnandolo in
maniera peculiare: questo è il punto che più interessa a Heidegger, perché
secondo la sua interpretazione esso è il fondamento del pensiero rappresentativo, quel pensiero che è stato in assoluto lo strumento privilegiato del
10
Si veda la ricostruzione del significato del termine in Tani 2009.
72
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
linguaggio della metafisica occidentale. La rappresentazione (Vorstellung) è il
modo con cui la filosofia rende l’ente e il pensiero un oggetto del proprio
sguardo onnicomprendente. Rappresentare l’essere per Heidegger è stato
l’unico modo con cui i filosofi occidentali hanno pensato l’essere, rendendolo
sempre e solo un ente. È in questo ambito che si muove la critica di Heidegger
alla Besonnenheit herderiana: pur riconoscendo come essa sia una vera e propria
‘forza plastica’, e quindi non soltanto una generica disposizione dell’individuo,
la riflessività di cui parla Herder è secondo Heidegger una forza rappresentativa che intende il linguaggio umano in quanto strumento finalizzato alla
mera attribuzione di contrassegni alle cose che esso riesce a dire. Essa infatti
costituisce una “direzione” delle forze propria del genere umano, quella
rappresentativa: “eine der Gattung Mensch eigene Richtung aller Kräfte
(Vorstellungskräfte)” (Heidegger 1999: 17). Per giustificare tale dimostrazione
Heidegger non si tira indietro di fronte ad alcune forzature interpretative e
filologiche, come quando conferisce alla Besonnenheit una definizione che
Herder riserva alla ragione, quella cioè di essere “una direzione di tutte le
energie peculiare al genere umano” (ibidem, Herder 2001: 29).Nel discorso
heideggeriano tale equivalenza di Besonnenheit e Vernunft diventa quasi
necessaria alla luce della volontà di comprovare che la funzione
rappresentativa della riflessività è un tutt’uno con la matrice più profonda della
razionalità umana.
Ma è sulla questione dell’origine che si gioca secondo Heidegger non solo
l’interpretazione dell’Abhandlung herderiana, ma anche che è possibile e allo
stesso tempo necessario tentare nell’ambito della filosofia del linguaggio.
Secondo Heidegger la domanda sull’origine del linguaggio è sempre stata
sovrapposta a una domanda sul fondamento, proprio perché l’origine stessa
del linguaggio è sempre stata considerata come un fondamento. In questo
modo non è stata possibile una differenziazione concettuale della questione
dell’origine, ma esclusivamente un suo inevitabile riconducimento a
un’indistinta unità speculativa. È per questo che risulta necessario invece
perseguire una distinzione teorica che porti a individuare sei diversi significati
essenziali del termine:
1. Il da dove della scaturigine (Entstehung) – come composizione. 2. Il da dove e il
modo dello sviluppo – dipanamento (Auswicklung) del già presente. 3. Il da dove e
il dove del mero punto di partenza (Ausgang) – origine (Herkunft) – sorgente
(Quelle). 4. Possibilità di essenza – (Essenza come Idea). 5. Fondamento
dell’essenza in quanto mancanza di fondamento (Ab-grund). 6. Il primo salto
nell’essenziazione (Wesung) e questa stessa” (Heidegger 1999: 52).
73
Simona Venezia
In questa mappa concettuale Heidegger delinea le principali concezioni
speculative che si sono condensate nella storia del pensiero intorno al termine
Ursprung: prima di tutto l’origine è considerata da un punto di vista
topologico, come il luogo di provenienza di qualcosa, ma anche la modalità
con cui esso si dà. Tuttavia l’origine può essere considerata anche come essenza
e questo sia da un punto di vista metafisico, che dal punto di vista di un nuovo
pensiero: in quest’ultimo caso non potrà più essere pensata come solitamente
viene pensata l’essenza in quanto Wesen metafisicamente inteso, ma dovrà
essere meditata come Wesung. Siamo così giunti a un punto davvero
fondamentale di tutto il seminario su Herder, e in realtà addirittura di tutta
quella che può essere definita la filosofia del linguaggio dello Heidegger dopo
la svolta. Abbiamo già avuto modo di accennare che questo seminario è intriso
dello spirito dei Beiträge zur Philosophie (oltre che esserne coevo), in cui il
cosiddetto anderer Anfang deve essere tentato come un pensiero che sia davvero
capace di un rapporto positivo e non impositivo con l’oblio dell’essere, ovvero
con il destino dell’epoca della tecnica. In questo seminario su Herder l’altro
inizio è la trasformazione della Ursprungsfrage nella Wesensfrage, il riversamento
della domanda sull’origine in una domanda sull’essenza. È per questo che
secondo Heidegger “la meditazione circa il linguaggio è intesa qui come decisivo
percorso per l’accesso (Einsprung) nel pensiero totalmente altro” (Heidegger 1989:
12). È proprio in questi anni che il pensatore tedesco inizia a comprendere che
solo nel linguaggio, in effetti, questo passaggio può avvenire.
Ma perché per pensare l’Ursprung dobbiamo passare per il Wesen nella sua
nuova riformulazione come Wesung? Non si corre il pericolo in questo modo di
moltiplicare inutilmente gli enti? Nonostante questo rischio, Heidegger ritiene
necessario trasformare la domanda sull’origine nella domanda sull’essenza,
perché solo pensata come essenza l’origine può essere davvero sottratta a una
visione metafisica. Per comprendere questo passaggio, è indispensabile ora
individuare quello che Heidegger intende per essenza (Wesen). Tale questione
è in realtà presente senza soluzione di continuità nel suo pensiero, configurandosi in esso come una necessità non prorogabile. Per fronteggiare il fuorviamento dell’imposizione della tradizione metafisica e per tentare di ridimensionarne l’onnipervasività, Heidegger ha ritenuto obbligatorio riformulare buona
parte dei concetti filosofici esistenti (si pensi soltanto alla rivoluzione
lessicologica, poi in parte rinnegata, di Sein und Zeit), affinché in essi venisse a
tacere la coercizione ontica e si aprissero inaspettate implicazioni ontologiche.
Per la rifondazione del significato anche di una sola parola occorre
interrogarne l’essenza poiché essa contempla tutti i riferimenti originari a cui
può rimandare. Per questo motivo Wesen non deve essere inteso come l’antico
74
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
latino essentia che significa “ciò che qualcosa è”; secondo Heidegger Wesen“ va
sentito come verbo” che vuol dire “durare, permanere”, e così “‘es west’
significa: è presente, perdurando ci riguarda, ci prepara la strada, ci reclama”
come “ciò che in ogni situazione ci concerne, come quello che in tutto fa
presente una strada” (Heidegger 1959: 201). L’essenza non è dunque un
fondamento, non è quel fondo fisso e irriducibile che sta dietro le cose e che ne
garantisce la stabilità, ma è ciò che è qualcosa come ciò che in quanto quella
stessa cosa si dà, e per questo non può essere soggetta a interpretazioni e
variazioni imprevedibili che ne occultino il dispiegarsi; essa è ogni rimando
intrinseco al nascondimento che nella verità cerca di invadere la possibilità di
svelatezza, al nulla come altro versante (nel quale può sempre ricadere) di ciò
che è. L’errore, infatti, della prospettiva metafisica è stato quello di considerare
il Wesen come un Grund, ovvero l’essenza come un fondamento. È proprio
questa la posta in gioco nella metamorfosi della Ursprungsfrage in Wesensfrage:
per Heidegger è necessario recuperare il Wesen nel suo significato
originariamente disvelativo in quanto Wesung, in modo da non doverlo più
sovrapporre al Grund, ma poterlo avvicinare all’Abgrund, ovvero cercare di
pensare l’essenza come essenziazione e quindi il fondamento come abisso,
letteralmente come Ab-grund, continua sottrazione di fondamento. L’essenza è
sempre infatti essenziazione, un farsi continuo dell’essenza, un farsi dell’abisso
che impedisce ogni fondamento sostanzialistico.
Ma dove può avvenire il recupero di un significato originario del Wesen, e
di conseguenza anche dell’Ursprung? È in questo seminario che Heidegger
inizia a indirizzare la propria ricerca in maniera tale da tentare una risposta
nell’ambito del linguaggio: “il linguaggio appartiene al Wesen così inteso”,
scriverà infatti successivamente in Unterwegs zur Sprache, “è proprio di quel che
in tutto fa presente una strada come l’elemento più fondamentalmente
costitutivo” (ib.). È per questo che Heidegger parla dell’“essenza del linguaggio”, che giunge a riconoscere, in una celebre indicazione, come il
“linguaggio dell’essenza” (ib.). Egli identifica l’origine della Sprache in una
forma peculiare di linguaggio, ovvero nella cosiddetta saga (die Sage) (235ss.).
Questo tipo di indicazione nasce dalla necessità di affrancarsi dalla concezione
ordinaria secondo cui “l’uomo è uomo in quanto parla” (11), in quanto
soggetto che dispone del linguaggio come di un oggetto. Bisogna subito
precisare che Heidegger non ha nessuna intenzione di confutare una tesi così
scontata e prevedibile, ma ritiene necessario mettere in discussione proprio
quest’eccessiva prevedibilità – che non può che dipendere da una sedimentata
superficialità – e contestare una concezione del genere nel momento in cui si
impone come assoluta. Osservazioni come queste rimangono corrette, esatte,
75
Simona Venezia
ma “ciò che è corretto non è per questo ancora vero” (Heidegger 19993: 27). Ciò
che è esatto, infatti, è “soltanto ciò che rientra in un progetto predeterminato
dell’ambito oggettuale e del suo linguaggio” (Heidegger 20052: 434-435),
ovvero ciò che si flette alle esigenze di un sistema fornendo prove e risultati
che sono aprioristicamente già contenuti nel ‘calcolo’ che si è imposto come
presupposto di base. Se invece si tenta il pensiero della verità dell’essere non ci
si può né ci si deve ‘accontentare’ di nessuna struttura logica prefissata, si può
e si deve ‘soltanto’ predisporsi a un cammino verso l’origine. Si propone in
questo modo un’altra prospettiva speculativa, totalmente divergente dalla
precedente, secondo la quale “propriamente è il linguaggio che parla, non
l’uomo. L’uomo parla solo nella misura in cui egli cor-risponde (ent-spricht) di
volta in volta al linguaggio” (Heidegger 1957:26). Il linguaggio parla (die
Sprache spricht): è questa la tesi fondamentale della svolta onto-linguistica di
Heidegger. In questo modo vengono scardinati i lineamenti teoretici essenziali
di molte delle posizioni della filosofia del linguaggio del secolo scorso che
invece non pensano che sia il linguaggio a parlare, ma solo e sempre l’uomo11.
Mentre lo scopo di gran parte degli studiosi è infatti quello di leggere sotto una
chiave di lettura analitica il linguaggio, e quindi secondo il suo uso e la sua
configurazione ‘pragmatica’, Heidegger esorta a fare l’opposto, ovvero a non
considerare il linguaggio in base al suo utilizzo e a quelle che possono essere le
strutture cognitive che lo regolano. Ciò non toglie però che in una soggettività
intesa come Dasein, ovvero come un essere nel mondo che attiva meccanismi di
rimandi e di rinvii sempre carichi di significato (la celebre Verweisungsganzheit
di Sein und Zeit) solo in quanto determinato da un contesto che egli a sua volta
costantemente determina nella sua apertura al mondo, la pragmaticità del
linguaggio intesa non come fondamento del linguaggio stesso, ma come
appunto apertura esistenziale, è di fatto intrinseca alla soggettività stessa.
Ma dopo la svolta anche questo aspetto viene marginalizzato. Quello che
interessa ora al pensatore è che “la via che conduce al parlare ‘è’ entro il
linguaggio stesso. La via al linguaggio inteso come parlare è il linguaggio in
quanto dire originario” (Heidegger 1959: 257). Secondo Heidegger dunque il
linguaggio autentico è collegato alla questione dell’origine perché esso è la Sage
intesa come dire originario, e non una dottrina da analizzare e fondare
11
Una prospettiva del genere, non priva di consapevole provocatorietà, è assolutamente impensabile per i linguisti, i semiotici o i pragmatisti, che non ricercano, come fa Heidegger,
l’origine del linguaggio da un punto di vista ontologico. Ma la prospettiva di Heidegger,
pur se estremamente feconda, rimane isolata all’interno del panorama generale degli
studi sul linguaggio, che, come già ricordato, ha spostato l’attenzione, anche per quanto
riguarda la questione dell’origine, sulla pratica e sull’uso del linguaggio.
76
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
gnoseologicamente. L’origine del linguaggio è un pensiero originario che
l’uomo non può decidere di conoscere, ma a cui deve aprirsi. Quello che
cambia in questo tipo di impostazione è l’idea stessa di pensiero, che non
rappresenta più l’acquisizione di conoscenze particolari, ma indica un
atteggiamento nei confronti dell’essere, possibile proprio in una meditazione
sull’origine del linguaggio. La svolta heideggeriana non può dunque che
avvenire nel linguaggio, perché solo nel linguaggio l’Ursprung può essere
pensato come Wesen, ovvero l’origine può essere pensata come un fondamento
fondante ma non fondativo. Secondo siffatta impostazione sarebbe possibile
superare una concezione di tipo metafisico del linguaggio proprio grazie alla
trasformazione della domanda circa l’origine in una domanda circa l’essenza.
Questo perché proprio in tal modo si eviterebbero le idee canoniche di origine
come una“scaturigine della facoltà di linguaggio”, come una “produzione di
parole”, e come una “origine (Herkunft) del talento linguistico” (Heidegger
1999: 56), ma anche un’idea di origine intesa in quanto “possibilizzazione
dell’essenza, condizione dell’essenza per l’esattezza nella prospettiva della
metafisica” (57). Sarebbe pertanto possibile riuscire a superare sia una visione
scientifica del linguaggio come strumento d’uso che una sua visione metafisica
che ne ricerca l’essenza non in quanto essenziazione, ma in quanto idea
assolutistica. È celebre infatti la posizione di Heidegger su metafisica e scienza:
esse finiscono per collimare nel progetto epocale della tecnica come oblio
dell’essere. Ma come è possibile pensare il linguaggio fuori dalla prospettiva
della scienza e fuori dalla prospettiva della metafisica? Giungiamo così a un
punto importante del seminario su Herder, che diventerà centrale nel pensiero
heideggeriano degli anni successivi. A questa domanda, infatti, Heidegger
risponde affermando che non si deve
allora (…) spiegare il linguaggio e sempre di più in quanto presente, reale, bensì
rifondarlo nella parola. Questo però solo attraverso la poesia stessa e per
l’esattezza non una poesia qualunque, bensì l’unica. In tal modo non è una filosofia
del linguaggio – bensì altro inizio della filosofia in quanto tale. La decisione e la sua
preparazione (57).
Per raggiungere questo obiettivo già in questo scritto viene dunque
individuata la necessità del superamento di una visione metafisica della
Sprache tramite lo statuto del Wort, della parola a cui, soprattutto nei saggi sul
linguaggio degli anni Cinquanta, si sovrappone la parola poetica (dichterisches
Wort): è questo il punto di arrivo più rilevante della trasformazione della
Ursprungsfrage in Wesensfrage. Ricordiamo a questo proposito come si conclude
il saggio sull’origine dell’opera d’arte; è lo stesso Heidegger a riassumerlo
retrospettivamente in un’aggiunta risalente al 1961, nella quale sottolinea che:
77
Simona Venezia
questo complesso di problemi di grande importanza si raccoglie attorno al vero e
proprio nocciolo della questione che si trova là dove si discute dell’essenza del
linguaggio e della poesia, sempre in riferimento all’appartenenza reciproca
dell’essere e del dire (Heidegger 19947: 69).
Già in questo testo dunque Heidegger intravede la necessità teoretica di
delineare una vera e propria filosofia della parola poetica (Philosophie des dichterischen Wortes), intesa non semplicemente come qualcosa d’altro rispetto a una
Sprachphilosophie tradizionale, ma come il superamento di una filosofia del
linguaggio ancorata alla matrice rappresentativa della metafisica, così come è
stata finora quella in generale appartenente alla storia dell’estetica occidentale.
Secondo Heidegger solo in questo modo è possibile sottrarre una volta per tutte
la poesia dall’estetica, solo comprendendo che lo statuto della parola poetica
non ha nulla a che fare con una poesia intesa come poetica, ovvero come genere
letterario finalizzato alla fruizione di un fantomatico bello artistico. Una
filosofia della parola poetica non è alla ricerca di “chiarificazioni storiografiche
retrospettive della storia dell’arte” che si basano, proprio come per la metafisica,
su “una determinata concezione dell’ente come l’oggettuale rappresentabile (als
das gegenständlich Vorstellbare)” (Heidegger 1989: 503), ma di un’origine del
linguaggio intesa come essenza del linguaggio. È solo nella parola poetica che la
Ursprungsfrage della metafisica può diventare Wesensfrage dell’altro pensare.
Dunque già in questo seminario del 1939 Heidegger intravede che l’unico
percorso valido per non rimanere soggiogati dal retaggio della tradizione
metafisica per quanto riguarda la domanda sull’origine del linguaggio è quello
di rivolgersi alla parola poetica. Quello che viene irrimediabilmente perso nel
linguaggio inteso come fondamento è lo statuto della differenza, che per
Heidegger è in primis la differenza ontologica, ovvero l’inaggirabile discrasia
tra essere e ente – intesa come coappartenenza differenziale –, caposaldo
indiscusso dell’oblio dell’essere a cui è destinata la filosofia occidentale. Mentre
il linguaggio pensato come Sprache copre l’essere rinchiudendolo in una
rappresentazione, la parola intesa come dichterisches Wort lo apre all’ente in un
disvelamento che lo rende visibile nella differenza ontologica, facendo in modo
che l’emersione dall’oscurità del non detto non ne pregiudichi l’essenziale
irrappresentabilità. L’obiettivo si chiarifica dunque in una meditazione
sull’origine/essenza (Wesen) del linguaggio nella parola (Wort), intesa come
essenziazione (Wesung) della verità dell’Essere (Seyn) (Heidegger 1999: 5).
È nell’ambito di queste analisi che Heidegger giunge a pensare la parola
nella prospettiva dell’es gibt12, ovvero di quella “donazione” intesa come un
movimento delotico che non pretende che dall’essere provenga l’ente, ma
12
Sull’es gibt heideggeriano si cfr. almeno Heidegger 1969:5ss.
78
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
intende che l’essere stesso emerga tramite l’ente. È per questo che la parola
viene considerata da Heidegger come “datrice”, come “ciò che dà”: das Wort:
das Gebende (Heidegger 1959: 193). Dunque la parola è capace di dare l’essere
perché è capace di restituire un essere non pensato come permanenza, ma nella
sua intrinseca eventualità, nella sua originaria temporalità. Al linguaggio
inteso come logica grammaticale questa possibilità è preclusa: esso infatti è
vincolato a una verità di tipo predicativo, dunque a una verità che tende a
determinare l’adeguazione della cosa alla parola che la dice.
Nell’es gibt invece Heidegger trova finalmente quel ‘movimento’ disvelativo essenzialmente linguistico che permette di pensare l’essere mai disgiunto
dall’ente eppure ad esso mai totalmente sovrapponibile, in modo da pensare la
differenza ontologica sempre intrisa di coappartenenza. È per questo che
l’ontologia aveva precedentemente fallito nel progetto dell’analitica esistenziale e successivamente non potrà compiersi pienamente in quanto filosofia
della tecnica intesa come destino dell’oblio dell’essere. Questo tipo di filosofia
della tecnica, infatti, non può che dare un accesso di tipo ‘negativo’ all’essere,
ovvero non può che rendere capace il pensiero di meditare solo il velamento
che rende inaccessibile l’autenticità dell’essere. Solo in una filosofia del
linguaggio intesa come filosofia del Wort Heidegger riesce a trovare una strada
che sia in grado di schivare il retaggio metafisico insito ancora nel linguaggio
di Sein und Zeit, e allo stesso tempo riesce a individuare una via che si potrebbe
definire ‘positiva’, un accesso privilegiato alla domanda sull’essere, senza che
di questo essere venga perso proprio l’essenziale. In questo modo si apre una
possibilità di pensare l’essere come una verità disvelativa che di conseguenza
impedisce un concetto di tempo inteso come fondamento.
L’es gibt è pensabile solo nella Sprache intesa come Wort perché esso indica
verso un pensare l’essere che non è qualcosa di generato, prodotto, rappresentato dalle capacità cognitive dell’individuo, ma è una dimensione che nella
parola emerge nella sua irriducibile inoggettivabilità. L’es di cui si parla nell’es
gibt non può essere un ente, ma è il movimento stesso della donazione,
l’orizzonte di comprensibilità di un essere pensato finalmente e davvero in
quanto tempo. Qui si parla di una donazione che non produce nulla, dalla
quale nulla viene emanato, ma che lascia essere: proprio per questo Heidegger
afferma che “es, das Wort, gibt”, “essa, la parola, dà”13:
l’essere – quell’essere che, fin dall’inizio, ci sforziamo di sottrarre alla sua indeterminatezza – risulta come disvelamento della cosa nella parola. Quindi ciò non
significa solo che non può essere pensato a partire dall’ente, ma che non può
13
“Di ciò di cui può dirsi «es gibt» fa parte anche la parola; forse non solo anche, ma prima di
ogni altra cosa e in modo tale che nella parola, nella sua essenza, si cela quello che ‘gibt’
(dà)” (Heidegger 1959: 192).
79
Simona Venezia
essere pensato neppure a partire da se stesso, l’essere non riposa nemmeno più in
sé: esso proviene da una donazione ancora superiore per vicinanza all’origine,
quella della parola” (Zarader 1997: 297).
In questo modo il progetto della Philosophie des Wortes heideggeriana si
configura con maggiore nettezza concettuale: rispetto al linguaggio la parola è
secondo Heidegger più vicina all’origine. Ma questa donazione della parola
poetica è assoluta? Essa è avvenuta soltanto una volta, una volta per sempre,
come nel caso del pensiero e della poesia greci, oppure quest’origine è una
provenienza totalmente difforme dall’ordinaria opinione che abbiamo su di
essa e questa sua peculiare natura è comprensibile solo nel linguaggio in cui la
Ursprungsfrage può diventare Wesensfrage? È vero che per Heidegger l’origine è
essenzialmente greca, ma solo se intesa non come il ripiegamento in un passato
glorioso e al sicuro dalla deriva metafisica post-platonica, ma in quanto
possibilità di far rivivere quell’origine in un futuro che è tutt’uno con questa
origine stessa. Dunque l’origine è l’origine dell’essere che, fuori da ogni
creazionismo sostanzialistico, non può in alcun modo contemplare come
vincolanti suddivisioni temporali e che perciò deve ancora venire, essa è sia già
venuta che sempre ventura: è in questo senso che secondo Heidegger la vera
origine è sempre già futuro (Heidegger 1959: 96). Così come in Sein und Zeit
l’estasi temporale del futuro era pensata in quanto prioritaria (Heidegger
199317: 329) nella progettualità gettata e nella gettatezza progettuale del Seinzum-Tode dell’esserci, anche in questa dimensione dell’origine il primato del
futuro appare incontrovertibile.
Finora l’origine è appartenuta a un essere che si è nascosto o che è stato
occultato, ma, poiché essa appartiene anche a un essere che potrebbe in qualche
modo rivelarsi, deve ancora venire nel suo dispiegarsi totale: è questo quello che
intende Heidegger quando cerca di ricondurre il Denken all’Andenken14, il pensare
al rammemorare, considerando proprio la memoria (Gedächtnis), in quanto
essenza dell’Andenken stesso, come l’origine, la fonte (Quellgrund) da cui
scaturisce un pensiero che non si ripiega in un principio già avvenuto, ma che
ripensa l’origine sempre come nuovo inizio. Il ricordo che qui si intende non
può essere ridotto alla mera rielaborazione di dati acquisiti dalla memoria
come facoltà intellettuale; “rammemorare” non vuol dire, infatti, pensare
all’origine come alla provenienza da cui tutto erompe – e da cui noi stessi
siamo stati generati –, ma significa pensare quest’origine come l’autenticità di
un’assenza che, dopo essere stata occultata dalla metafisica, deve essere fatta
ancora rivivere. La memoria così intesa chiede di rivolgersi all’essere e non di
14
Sull’Andenken heideggeriano si veda almeno Vattimo 2001: 123-149.
80
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine del linguaggio nel confronto con Herder
limitarsi ad alimentare le riflessioni sull’ente, chiede di predisporsi e di prepararsi per accogliere il pensiero di questa lange Herkunft, di sforzarsi di
realizzare quel “costante raccoglimento interiore presso ciò che si rivolge
essenzialmente ad ogni sentire”. Andenken non significa soltanto ricordare, ma
anche ‘ricordarsi’ di questo pensiero così apparentemente inutile e così
autenticamente essenziale, significa esortarsi a interrogare l’essere e la sua
verità. Non è un caso che a un certo punto Heidegger preferisca parlare di
Herkunft e non di Ursprung, intendendo con questo termine non un’origine
come paradigma impostosi una volta per tutte, ma come un inizio che deve
sempre essere posto15.
All’interno di questo movimento la domanda sull’origine del linguaggio si è
totalmente rarefatta e si è totalmente riversata in una domanda sull’essenziale
originarietà della parola poetica che, ogni qualvolta si esprima, ridice l’origine
e per questo la disvela. Ma come è possibile in Heidegger trovare un’origine
intesa come un inizio che viene sempre di nuovo detto e non come un
principio lontano da cui tutto il pensiero proviene? Ciò è possibile appunto nel
dichterisches Wort, perché in esso si realizza finalmente un’origine che è sempre
inizio di un futuro:
il poeta parla sempre come se per la prima volta egli esprimesse ed interpellasse
l’ente. Nel poetare del poeta come nel pensare del pensatore vengono ad aprirsi
così grandi spazi che ogni singola cosa: un albero, una montagna, una casa, un
grido di uccello, vi perde completamente il proprio carattere insignificante e
abituale (Heidegger 1957: 20).
È in questa prospettiva che si comprende il significato che il concetto di
Einmaligkeit ricopre proprio nel seminario heideggeriano su Herder dal quale
siamo partiti: essere einmal non significa essere una volta per tutte, ma essere
sempre e ancora una volta nella propria unicità (Einmaligkeit), così come la
parola che solo nel dire può essere disvelata (Heidegger 1999: 62). In questo
dire ogni cosa viene nominata sempre come fosse la prima volta: solo in questo
dire, che effettivamente dice sempre per la prima volta, diventa possibile per la
parola poetica disvelare un’origine che è veramente essenza. Solo nella parola
poetica è possibile esperire un’origine che non sia scaturigine, emanazione di
un prodotto, ma apertura essenziale, così come per il poeta de I Sonetti a Orfeo
l’origine non è un luogo stabile di certezze assolute, ma il senso per cui la vita
può essere ancora un ‘incantamento’:
Ma per noi esistere è ancora incantamento; in cento
luoghi è ancora origine (Rilke 1976: 757).
15
Mi permetto di rinviare su tale argomento alle analisi contenute in Venezia 2007: 163-172.
81
Simona Venezia
Lo scandaglio teoretico del saggio sull’origine del linguaggio di Herder
diventa per Heidegger l’occasione per aprire il suo stesso pensiero a
meditazioni che delineeranno l’orizzonte al di là della svolta. Già in questo
seminario del 1939 Heidegger intravede nella parola poetica il luogo in cui
riuscire a pensare il linguaggio fuori dalle imposizioni speculative della
metafisica proprio in riferimento alla questione dell’origine. Secondo una
prospettiva del genere, il filosofo della Abhandlung pone la domanda
sull’origine del linguaggio in modo radicale, ma nell’ambito di una visione
ancora troppo ancorata all’uomo inteso come fondamento indiscutibile di
razionalità. Tuttavia è proprio da questo confronto con Herder e con una
radicalità così intransigente della domanda sull’origine del linguaggio che
Heidegger inizia un percorso che lo porterà prima di tutto a superare le
ricadute metafisiche della domanda sull’origine sublimandola in una domanda
sull’essenza, e poi a incentrare definitivamente sul perno del linguaggio il
proprio pensiero in un rapporto sempre più stretto con il dire poetico, l’unico
che appare davvero capace di abbandonare l’idea di un’origine come
astrazione speculativa, e in questo modo di disvelare un’origine che possa
ancora chiamarci in causa, che abbia ancora qualcosa da dirci e che quindi
possa ancora avere per noi un senso.
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II Signes d’interdiction
Wittgenstein On Private Episodes
Giorgio Rizzo
Dipartimento di Studi Umanistici, Università del Salento
email: giorgio.rizzo@unisalento.it
Summary
The main claim of this paper is that Wittgenstein’s concern about the Inner is a
highly stratified and complex one. It is indeed so to such an extent, that - if we tend
to favor only a single interpretative version of it - we commit the error of a rough
reductionism (exactly what Wittgenstein tried to avoid at all levels). First of all,
Wittgenstein’s attempt is not that of denying (the reality of) the Inner, but that of
clarifying the very nature of the concepts related to it: it is undeniable that we can
talk about even our most private experiences, and that others can understand us.
From Wittgenstein’s point of view then, language can be also used so that we can,
through it, indeed give expression to our deepest feelings, among other things: the
Inner cannot consequently be interpreted neither as a completely homogeneous
dimension of private experience(s), nor as something which is ineffable. On the
contrary, it can be seen as a network of concepts relating the Inner and the Outer in
multifarious and possibly ever-changing ways. By stressing in this way the deep, and
multifarious, criterial link between the Inner and the Outer, we evidently find that
it would turn out very hard to accuse Wittgenstein of reductionism. Thus, if we try
to solve questions concerning the Inner aiming at an ultimate solution, we are on
the wrong way from a methodological and a substantive point of view, for, as
suggested by Wittgenstein, it would amount to seeing philosophy “as if it were
divided into (infinite) longitudinal strips instead of into (finite) cross strips”.
1. Introduction
In replacing (in 1929) a phenomenologically-based language by a physicalistic one, Wittgenstein does not want to reject the ontological status of phenomenological objects: the world in which we live is a world of phenomenological objects, including private experiences, even if the way we must talk
about them is the same we adopt for talking about physical objects. What
matters then is to show how the physicalistic language can do the same job
accomplished by the phenomenological one: the problem to be confronted with
is thus to succeed in finding a physicalistic or at least behaviouristic language
87
Giorgio Rizzo
by virtue of which we can speak of “what is given” to us, of our immediate
experiences; in this sense, the Austrian philosopher does not mean to carry on
(and out) a reduction to acquaintance, but rather a reduction to an everyday
language of everyday public objects.
According to Jaakko and Merrill Hintikka, it might seem prima facie that
Wittgenstein exploits two different arguments to disprove the feasibility of
private phenomenological languages: if the first argument is based on the
refutation of the idea of a private ostension, the second one seems to be more
concerned with epistemological arguments founded on the difficulty, for
example, of remembering a particular sensation as such. It is however more
plausible to think that these arguments rely on Wittgenstein's (very general)
semantical point of view according to which language-games provide the semantical mediation between language and reality: if, as a matter of fact, languagegames are necessary to establish language-world links, the fundamental question
arises of what and which are the language-games - and not something else - that
connect our talking of private experiences to the objects with which these
experiences are concerned.
In what has been called his “private language argument” (Saunders,
Henze 1967; Castañeda 1963: 88-105), the Austrian philosopher declares that
the model of “object and Bezeichung”, that is the model of object and designation,
is a wrong model also when we try to understand how our talking about
private episodes can make sense, for this model presupposes that the reference
of a mental episode to an object be unmediated by any language-game or public
framework.
According to Wittgenstein, the verb “bezeichnen” (to designate) is perhaps
“used in the most straightforward way when the object signified is marked
with the sign” (PI1, sec.15) and this means, I understand, that the objectdesignation model could serve as a paradigm for semantics only in those cases in
which semantical relations could be established ostensively. (This seems to be
problematic already in the Tractatus.) The Austrian philosopher then, by
assuming the inadequacy of the object-designation model, aims at convincing
us that what is needed to do the job of referring to mental episodes is a
language-game and not name-labels: applying this point of view to the famous
beetle passage of sec. 293 of part I of the Philosophical Investigations, it is evident
that, in order for the word “beetle” to have a use in our language, it would
need a public language-game. In so arguing, Wittgenstein changes the thesis
adopted in Tractatus Logico-Philosophicuswhere the relation of a word to an
object of immediate experience is viewed as “the self-explanatory rock bottom
all semantics” (Hintikka, M. B., Hintikka, J. 1986: 256).
88
Wittgenstein On Private Episodes
There is a variety of ways which link our language to reality: the physiognomic framework, to make an example, that is a framework of spontaneous
expressive behavior (including gestures, bodily movements, facial expressions)
is the most used to express or in some way to “denote” pain; the complexity of
such a framework depends also on the fact that it involves other persons’
reactions to someone’s pain:
But isn’t it absurd to say of a body that he has pain?--- And why does one feel an
absurdity in that? In what sense is it true that my hand does not feel pain, but I in
my hand?
What sort of issue is: Is it the body that feels pain?—How is it to be decided? What
makes it plausible to say that it is not the body?—Well, something like this: if
someone has a pain in his hand, then the hand does not say so (unless it writes it)
and one does not comfort the hand, but the sufferer: one looks into his face (PI1,
sec.286).
One further question is that concerning the kind of relation subsisting
between mental events and their physiognomic correlates; it seems plausible to
retain that, from Wittgenstein’s point of view, this relation ought to be neither
a contingent nor an epistemic one: what makes of physiognomic correlates of the
private episodes the right candidates to enter into a language-game is a logical,
that is a semantical, connection holding between them.
At this point of the analysis, we enter must into one of the more important
and puzzling questions tied up with private episodes: does the private language
problem suggest mainly epistemological or mainly semantical complications?
According to Merrill and Jaakko Hintikka, there is ample evidence in
Wittgenstein’s works that his concerns are semantical, and not epistemological.
In order to make this point clear, we can think, for instance, about the
possibility that a private object might be changing; such a possibility ought to
be intended by the Austrian philosopher as a semantical thought-experiment:
acts of remembering, that is epistemological devices, cannot help us in flying
away from the conceptual bottle in which we have fallen:
The apparent epistemological problems he [Wittgenstein] raises are thus merely an
expositional device to dramatize semantical facts of life (Hintikka, M. B., Hintikka,
J. 1986: 256).1
1
In PI1, sec.270, Wittgenstein makes a point of the semantical questions aroused by his
thought-experiments: “Let us now imagine use for the entry of the sign ‘S’ in my diary. I
discover that whenever I have a particular sensation a manometer shews that my blood-pressure rises. So I shall be able to say that my body-pressure is rising without using any apparatus. This is a useful result. And now it seems quite indifferent whether I have recognized the
sensation right or not. Let us suppose I regularly identify it wrong, it does not matter in the
least. And that alone shews that the hypothesis that I make a mistake is mere show.”
89
Giorgio Rizzo
The point Wittgenstein makes does not have, as a purpose, the strengthening of the idea of the elusiveness of sensations, or of the difficulty of describing
them. But it is, much more, to emphasize the shortcomings of a semantic which
is deprived of any public frame of reference. At any rate, the charge of lacking
any interpersonal comparison, as addressed to the supporters of phenomenological languages, is indeed too weak to parry the difficulties aroused by the
following question: how is one supposed to know what he means when he
speaks (or writes), if all that he has are merely his symbols? After all, if one
makes use of a phenomenological language, he or she can perhaps be charged
with solipsism - but not with a bad philosophy of language; the real issue at stake
is thus the one of solipsism, so that the most crucial question to be faced is not
much that of the communicability of sensations language, but much more that
concerning the nature of grammar:
“What would it be like if human beings shewed no outward signs of pain (did not
groan, grimace, etc.)? Then it would be impossible to teach a child the use of the
word ‘tooth-ache’.”—Well, let’s assume the child is a genius and himself invents a
name for the sensation!--But then, of course, he couldn’t make himself understood
when he used the word.—So does he understand the name, without being able to
explain its meaning to anyone?—But what does it mean to say that he has ‘named
his pain?—How has he done this naming of pain?!... (PI1, sec.257).
If, however, even a putatively solipsistic language needs language-games
to be connected with the world, and if these games must be public, then a
private language strict sensu is impossible; for this reason, even the claim that
for Wittgenstein there would be private event-like experiences can be
legitimized. In short, the need of a public framework does not imply that
experiences like pains be not private in the proper sense; the question here at
stake is not whether it is logically impossible for me to witness another person’s
sensation, but whether it is logically impossible for me to relate my sensation to
publicly accessible objects of comparison. And it is not so hard to imagine, as
Wittgenstein does, a situation in which a person, notwithstanding the privacy
of the access to his or her own sensation, can nevertheless converse with other
persons about his or her inner episodes by relating them to suitable public
objects of comparison; all this is possible because there are public ways of
checking someone’s skills and veracity in making such comparisons. Merrill
and Jaakko Hintikka draw the following conclusion from all this:
Hence no reason emerges for thinking that we cannot, according to Wittgenstein,
have private experiences in a perfectly straightforward Cartesian sense. The whole
problem is how we are to talk about them. Sensations (pain, itches, hot flushes,
twinges of pleasure, etc.) do not admit of private ostensive definitions. I cannot
refer to them without enabling you to do likewise. But form the public nature of
the framework needed to do so it does not follow that the experiences themselves
are public; or that they do not play any role in public language-games (Hintikka,
M. B., Hintikka, J. 1986: 267).
90
Wittgenstein On Private Episodes
2. Incorrigibility of selfascriptions
If we try to explain all language on the “object and name” model, notwithstanding the naturalness by virtue of which we use this model in the everyday
language, we are very likely ridden of any guarantee that some words are, as a
matter of fact, used in the same sense by different people: in such cases,
indeed, the object named, being a purely private one, gives us no way of
checking its identity (not even a name).
While after-images, for instance, can be described, making use of the
language we adopt for describing physical objects, so that they do not need to
be named, the same does not hold for pain words. Wittgenstein surmounts this
puzzling situation of explaining the everyday use of pain vocabulary by
introducing the concept of “pain-behavior”:
How do words refer to sensations?--There doesn't seem to be any problem here; don't
we talk about sensations every day, and give them names? But how is the connexion
between the name and the thing named set up? This question is the same as: how
does a human being learn the meaning of the names of sensations?--of the word
“pain” for example. Here is one possibility: words are connected with the primitive,
the natural, expressions of the sensation and used in their place. A child has hurt
himself and he cries, and then adults talk to him and teach him exclamations and,
later, sentences. They teach the child new pain-behaviour (PI1, sec.244).
A statement like “I have a pain” ought then to be interpreted as a particular form of pain behaviour, rather than as an assertion that I “have” a peculiar
kind of object inside me; this stated, we can then assume that a statement on
pain is on the same level as the pain-behaviour from which we infer that
someone is in pain: only the misunderstood analogy with other parts of our
language prevents us from seeing what Wittgenstein calls “the way out of the
fly-bottle”. This interpretation of pain-language however is not immune to
conceptual difficulties: one of these is the assumption that an individual would
have to “observe “ his or her own utterances or behaviour in order to find out
that he or she is angry, or happy.
A second conceptual difficulty is tied up to the fact that if we “reduce”
mental episodes to behaviour, we are then compelled to reduce radically the
possibilities of language: an expression concerning mental episodes, we have
just noted, can serve as a kind of behaviour as well as a description of something
going on in the inner sphere of the subject; it seems thence implausible to
think that the Austrian philosopher intended to apply a kind of William James
type theory of pain, according to which pain behaviour would replace
sensation:
91
Giorgio Rizzo
How does the philosophical problem about mental processes and states and about
behaviourism arise?---The first step is the one that altogether escapes notice. We
talk of processes and states and leave their nature undecided. Sometime perhaps
we shall know more about them—we think. But that is just what commits us to a
particular way of looking at the matter. For we have a definite concept of what it
means to learn to know a process better. (The decisive movement in the conjuring
trick has been made, and it was the very one that we thought quite innocent.)-And now the analogy which was to make us understand our thoughts falls to
pieces. So we have to deny the yet uncomprehended process in the yet unexplored
medium. And now it looks as if we had denied mental processes. And naturally
we don't want to deny them (PI1, sec.308).
Notwithstanding Wittgenstein's recalcitrance to cancel out mental episodes,
it seems to us as if mental life, in the philosophical frame built by him, changed
its nature at least in relation to philosophical tradition. This way of approaching
the question resembles, in some way, the philosophical modus operandi of Daniel
Dennett who writes favorably about consciousness, qualia, sensations even if it is
very hard to recognize in these terms as used by him any similarity with the
same terms adopted by the philosophical mainstream (see Dennett 1991).
At any rate, Wittgenstein's remarks on private episodes are really much
more an assembling of reminders meant to help us to find our way through a
confusing territory - rather than the results of a full-fledged doctrine.
It is sure that an expression like “my elbow hurts” is more than a verbal
expression of pain, as it is also playing the role of an autobiographical report, or
functioning as a central criterion for informing others that I am in pain, even if,
at this point of the analysis, words like “criterion” or “role” are out of place
already, since they make us think as if Wittgenstein supplied us with a
complete table of criteria. What he aims at is, more modestly, to avoid dangers
of puzzlement caused by a wrong use of language: if I, just to make an example,
use the form of words “I know I am in pain”, am I actually presupposing that
this statement is incorrigible? And what does it happen in contexts in which
there is doubt as to the veridicality of such expressions?
Where there are very strong reasons for lying, as in the intelligence
Services in war-time, assertions about pain are certainly not taken as
incorrigible. Incorrigibility of pain expressions thus would not depend on the
ontological clarity and evidence of some mental inner process, but much more on
the fact(s) (social, cultural, religious and so on) that we are trained to be honest
about - such as expressions concerning pains- or to put it better, for which we
are taught to use a certain language-game.
In some cases, which are doubtful, it is the physical cause that will provide
the decisive verification, even if there are pains which are not accompanied by
physical symptoms; anyway, pain behaviour differs in the extent to which we
92
Wittgenstein On Private Episodes
can expect a more or less spartan attitude: girls, for example, have generally
more uninhibited expressions of pain than boys. Human beings, thanks to the
complexity of their language, can lie about or dissemble pain, whereas it is
doubtful whether animals can do the same:
Why can't a dog simulate pain? Is he too honest? Could one teach a dog to
simulate pain? Perhaps it is possible to teach him to howl on particular occasions
as if he were in pain, even when he is not. But the surroundings which are
necessary for this behaviour to be real simulation are missing (PI1, sec.250).
Getting to the crux of the matter, all the doubts concerning private episodes
can be reduced to the question of how there can be inner episodes, that is,
episodes which somehow combine privacy, in that each of us has a privileged
access to her own, with intersubjectivity, in that each of us can, in principle,
“know” about other’s mental states. We can put linguistically the above
question as the problem of how can there be a sentence (e.g. “S has headache”)
of which is logically true that, whereas anybody can use it to state a fact, only one
person, namely S himself, can use it to make a report.
We can try to find a solution to the above problem by uncoupling the notion
of private episodes from that of immediate experience; this is a kind of solution
adopted, to make an example, by the American philosopher Wilfrid Sellars.
What Sellars criticizes (agreeing with Hegel) is that popular form of foundationalism that grounds empirical knowledge in some form of direct apprehension of
facts, unmediated by concepts. According to the American philosopher, concepts
of sense impressions are primarily and essentially intersubjective - even if they
cannot be resolved completely into behavioural symptoms:
…the reporting role of these concepts, their role in introspection, the fact that each
of us has a privileged access to his impressions, constitutes a dimension of these
concepts which is built on and presupposes their role in intersubjective discourse. It
also makes clear why the “privacy” of these episodes is not the “absolute privacy”
of the traditional puzzles. For, as in the case of thoughts, the fact that overt
behaviour is evidence for these episodes is built into the very logic of these
concepts (Sellars 1963: 195).
If, however, it is not so hard to introduce for instance sensations of red
triangles by analogy (inner replicas) to red triangles, we can hardly make the
same for sensations of pain, since pains are not inner replicas of any physical
objects. Sellars tells a different story about pains attributions: the pain that
accompanies a burn is thought of as a painful sensation of heat where “of heat”
specifies the intrinsic characteristic of the sensation, while the “painful” tells us
something about the organic function of this state. Therefore, on Sellars’ point
of view, pains can be seen as functional, extrinsic, characteristics of sensations
which are dependent in some way on their intrinsic characteristics.
93
Giorgio Rizzo
Our reference to Sellars’ thought can be explained by the attempt to
highlight the stratified complexity of the private episodes language, a
complexity which cannot be justified by the immediacy which would simply
characterize such undergoings. Rejecting the idea of the immediacy of private
episodes amounts to accept the fact that the talk about private episodes takes
place within a logical space of concepts2, which gives us the guarantee for the
intersubjectivity of such a discourse.
3. Perspicuous representation
The tackling of problems related to private episodes is tied up to the
difficulty of treating these questions by making use of the notion of “perspicuous
representation” (Übersichtliche Darstellung). Perspicuous representation is a
form of representation, the way we see things; it, as such, guides our comprehension of the world which consists in seeing and finding connections between
phenomena. By way of the perspicuous representation we are then able to
build or to form a prototype, that is, an ideal model (an “Urbild” or an
“Urphänomen”, according to Goethe): this ideal model has nothing in common
with other objects, since it acts as a paradigm, a primitive sample;as such it
cannot be represented, but, on the contrary, it functions as a means of
representation, as a criterion of inquiring.
I understand the picture exactly, I could model it in clay.--I understand this
description exactly, I could make a drawing from it. In many cases we might set it
up as a criterion of understanding, that one had to be able to represent the sense of
a sentence in a drawing (I am thinking of an officially instituted test of understanding). How is one examined in map-reading, for example? (CV, sec. 245: 44)
Wittgenstein points to different types of paradigms which have a similarly
decisive role in the learning of a language: color samples or color charts,
2
Sellars (1963) introduces the expression “battery” to explain how even the most rudimentary knowledge must have in some way an inferential structure: “Now, it just won’t do to
reply that to have the concept of green, to know what it is for something to be green, it is
sufficient to respond when one is in point of fact in standard conditions, to green objects
with the vocable ‘This is green.’ Not only must the conditions be of a sort that is
appropriate for determining the color of an object by looking, the subject must know that
conditions of this sort are appropriate. And while this does not imply that one must have
concepts before one has them, it does imply that one can have the concept of green only by
having a whole battery of concepts of which it is one element. It implies that while the
process of acquiring the concept of green may-indeed does-involve a long history of
acquiring piecemeal habits of response to various objects in various circumstances, there is
an important sense in which one has no concept pertaining to the observable properties of
physical objects in Space and Time unless one has them all…” (147-8).
94
Wittgenstein On Private Episodes
schemes, maps and so on. Every sample functions as an instantiation of a
concept we want to apply to a suitable situation - and, in so making, it acquires
a normative character by determining the right way of looking at the objects we
encounter in the world. It is as though these paradigms or rules hinted at a
secret law(GB: 233-253), that one that, according to Goethe, permits us, for
example, to comprehend the phylogenetic metamorphosis of plants.In order to
avoid misunderstandings, it must be clear such a law cannot be grasped by
adopting exacts definitions or criterions.
What does it mean to know what a game is? What does it mean, to know it and not
be able to say it? Is this knowledge somehow equivalent to an unformulated
definition? So that if it were formulated I should be able to recognize it as the
expression of my knowledge? Isn’t my knowledge, my concept of a game,
completely expressed in the explanations that I could give? That is, in my
describing examples of various kinds of game; showing how all sorts of other
games can be constructed on the analogy of these; saying that I should scarcely
include this or this among games; and so on (PI1, sec.75).
If, however, we think about the meter sample, things look different: we
can, as a matter of fact, copy or reproduce meter samples which are more or
less similar, but nobody of them can be considered a type of the meter
prototype inasmuch as the last is not an object, but it is instead to be seen as a
rule, a term of comparison. To prove this assumption, it is sufficient to reflect
on the fact that, generally, a meter sample cannot be measured, for it is the
criterion of every possible measurement.
According to Wittgenstein, the comprehension and explanation of a
phenomenon need, as a consequence, a perspicuous and synoptic representation, so that every step from a phenomenon to another, related to the first,
can be seen as a path which anyone can visibly control and, eventually, draw,
copy, or anything analogous. The perspicuous representation does not, then,
presuppose a theory of truth and does not imply explanations or argumentations: a grammatical paradigm can be perspicuous without being necessarily
true; as such it is not a picture but, much more, a comparison function - grounded
on analogies and differences - between a great variety of language-games.
What concerns Wittgenstein is not, as such, the venturing into a new
region of phenomena - but much more the highlighting of something which we
do have already before our eyes:
…For logical investigation explores the nature of all things. It seeks to the bottom of
things and is not meant to concern itself whether what actually happens is this or
that ---It takes its rise, not from an interest in the facts of nature, not from a need to
grasp causal connexions: but from an urge to understand the basis, or essence, of
everything empirical. Not, however, as if to this end we had to hunt out new facts; it is,
rather, of the essence of our investigation that we do not seek to learn anything new
by it. We want to understand something that is already in plain view… (PI1, sec. 89)
95
Giorgio Rizzo
What we look into, then, is not something that we could count as metaphysical, for metaphysical investigation does not differentiate between concepts,
norms and facts; the Austrian philosopher is not, in fact, at all determined to
frame a natural history of concepts, because such an investigation could well
describe phenomena in their singularity, but it would lack the ability of
grasping the structure, or the inner laws, of the phenomena investigated, not to
forget the fact that a new synoptic scheme of the phenomena under investigation
could well pave the way toward a new direction of scientific research (RPP1,
sec.950). Going back to the question we are discussing, we would make a great
mistake or a categorial error, if we thought that what is at stake were just the
“existence” of particular objects, that is, private objects; the real issue is instead
the significance of a concept or of a group of concepts. If the aim of this essay is
to clarify, not to reduce, the conceptual complexity of the notion of “Inner”,
what we would then need is mainly to avoid confusions: if someone says, for
example, “let’s play a variant of football called inner football”- this game being
identical to the ordinary football except that the players have to form certain
images while they play- this demand would certainly produce some confusion,
for, as is obvious, nobody would understand without uncertainty what the
“inner moves” of such a game (for instance) would be. Wittgenstein illustrates
this point well, considering a variant of tennis called inner tennis:
What sort of move is the inner move of the game, what does it consist in? In this,
that-according to the rule- he forms an image of…?- But might it not also be said:
We do not know what kind of inner prove of the game he performs according to the
rule; we only know its manifestations? The inner move of the game is an X, whose
nature we do not know. Or again: here too there are only external moves of the
game-the communication of the rule and what is called the ‘manifestation of the
inner process’ (Z, sec.649).
The task of Wittgenstein is, therefore, not that of denying the Inner, but the
much more difficult task of clarifying and possibly revising the nature of the
concepts we deploy in talking about it; if this were not his aim, there is no
doubt that his approach would sound rationalistic, and as such clashing with
the common idea that the deepest experiences are difficult to be communicated. But, on the other hand, it is undeniable that we can talk even about the
most private experiences and that others can understand us: think about
poetry or literature, where what seems inexpressible can gain expression; by
stressing, thus, the deep, and multifarious, criterial link between the Inner and
the Outer, we evidently find that it would turn out very hard to accuse
Wittgenstein of reductionism. The attempt to counter the Inner with the Outer
would be also misleading, inasmuch as they both can serve as two legitimate
accounts of the same fact:
96
Wittgenstein On Private Episodes
It is a bit like suggesting that describing a painting involves describing an array of
colours and shapes but not what someone looking at it sees. Although the two
descriptions have different forms and uses, there is no clashes between them.
Furthermore, it is quite clear which would normally be of more interest to us
(Johnston 1993: 206)3.
Even if we think that there is nothing more than behaviour, we cannot
believe that our interest in it is the same that we have towards occurrences of
physical events; rather, behaviour has some interest for us since it is the action
of a human being, something that can be seen as the expression of thoughts,
experiences and feelings. Seeing the Inner in this way, we can also overcome
the dichotomy between Materialism and Idealism:
When I report ‘he was put out’, am I reporting a behaviour or a state of mind?
(When I say ‘The sky looks threatening’, am I talking about the present or the
future?) Both. But not side by side; rather one in one sense, the other in another.
But what does this mean? (Is this not a mythology? No., RPP1, sec.289).
If we rather tend to interpret the Inner either as a thing, even if a ghostly
thing, or as nothing, we fall very easily in the other categorial errors committed
by the Western philosophical tradition; for our relation to others is not a
relation to bodies which, given the dichotomy between the Inner and the
Outer, act mysteriously in such and such a way:
…rather it is a relation to human beings, and one way the distinctiveness of this
relationship expresses itself is in terms of the concept of the Inner. We want to
know not just what the other person did and said, but ‘what went on inside her’
(Johnston 1993: 207).
4. The complexity of the Inner
There is a strong suggestion to underestimate the complexity of the Inner,
treating all differences as simply experiential, whereas, in most cases, we are
confronted with grammatical differences:
The essential difference between pain and intention, for example, is not that they
have different contents, but that they are radically different types of concept.
Conversely, if anxiety and sorrow are similar, this is not because they 'feel' the
same, but because there are similarities in their grammar (Johnston 1993: 134).
3
Wittgenstein writes on the same topic: “…if someone does a psychological experimentwhat will he report?- What the subject says, what he does, what has happened to him in
the past and how reacted to it.- And not: what the subject thinks, what he sees, believes,
experiences?”.
97
Giorgio Rizzo
One way of tracing the grammar of psychological concepts is to see how
they relate Outer and Inner to each other; we can take, as an example, the case
of love: according to Wittgenstein, this psychological concept can be put to the
test and so, in this way, it can be contrasted to pain. Even if the experiential and
individual intensity of love plays certainly a role, we, however, can take the
individual's behavior and her future actions as a guide to classify her loving
experience:
‘If it passes, then it was not true love.’ Why was it not in that case? Is it our
experience, that only this feeling and not that endures? Or are we using a picture:
we test love for its inner character, which the immediate feeling does not discover
(RPP1, sec.115).
If we keep to what stated above, we can certainly conclude that the
grammar of love is not the grammar of an intense feeling and, more generally,
the Inner is not something immediately given, but something structured by the
words we use. To avoid misunderstanding, the links between the Inner and the
Outer are multifarious, so that any presumption of uniformity or homogeneity is
here out of play.
Another way of approaching the differences between different psychological concepts is that of turning our attention only to their contents, even if
the notion of “content” has an inner articulation depending on the concepts to
which it is related: for example, while “seeing” can be said to have a content
(the individual can coherently offer a second-by-second account of it),
“knowing”, on the contrary, seems ridden of any content (unlike “seeing”, it
cannot be interrupted by a break in consciousness as in sleeping). From
Wittgenstein's point of view, we ought to distinguish between “states of
consciousness” (seeing, hearing and so on) and “dispositions” (knowing,
believing and so on). Seeing, then, has a content in quite a different sense from
knowing and, to mark this difference, we can label psychological concepts
which involve a temporal duration as “undergoings” (Erfahrungen).
If sensations or impressions can thus be labeled as undergoings, what about
emotions such as joy, grief, sadness? To mark a difference here, we can say
that, while the former are primarily expressed through utterances, emotions
are characterized by particular ways of acting: an emotion like distress
manifests itself over a long period of time, while an impression usually lasts a
short time. Pain, although being a sensation, has an odd position since it is not
primarily expressed through language, but through particular ways of
behaving, resembling, for this reason, emotions like joy or sorrow:
98
Wittgenstein On Private Episodes
Plan for the treatment of psychological concepts.
Psychological verbs characterized by the fact that the third person of the present is to
be identified by observation, the first person not. Sentences in the third person of the
present: information. In the first person present, expression. ((Not quite right.))
Sensations: their inner connexions and analogies.
All have genuine duration. Possibility of giving the beginning and the end. Possibility of their being synchronized, of simultaneous occurrence.
All have degrees and qualitative mixtures. Degree: scarcely perceptible—unendurable.
In this sense there is not a sensation of position or movement.
Place of feeling in the body: differentiates seeing and hearing from sense of pressure, temperature, taste and pain.
(If sensations are characteristic of the position and movements of the limbs, at any
rate their place is not the joint.)
One knows the position of one's limbs and their movements. One can give them if
asked, for example. Just as one also knows the place of a sensation (pain) in the
body.
Reaction of touching the painful place.
No local sign about the sensation. Any more than a temporal sign about a
memory-image. (Temporal signs in a photograph.)
Pain differentiated from other sensations by a characteristic expression. This
makes it akin to joy (which is not a sense-experience).
“Sensations give us knowledge about the external world”.
Images:
Auditory images, visual images--how are they distinguished from sensations? Not
by “vivacity”.
Images tell us nothing, either right or wrong, about the external world. (Images are
not hallucinations, nor yetfancies.)
While I am looking at an object I cannot imagine it.
Difference between the language-games: “Look at this figure!” and: “Imagine this
figure!”
Images are subject to the will.
Images are not pictures. I do not tell what object I am imagining by the
resemblance between it and theImage (RPP2, sec.63).
If we, however, contrast pain with sorrow, we find that the former, unlike
the latter, is localized in a particular part of the body; anyway, the most essential
difference between pain and sorrow consists in the fact that they correspond to
different types of pattern in human life:
The concept of pain just is embedded in our life in a certain way. It is characterized
by very definite connections.
Just as in chess a move with the king only takes place within a certain context, and
it cannot be removed from this context.—To the concept there corresponds a
technique…
Only surrounded by certain manifestations of life, is there such a thing as an expression of pain. Only surrounded by even more far-reaching manifestations of life, such
a thing as the expression of sorrow or affection. And so on (RPP2, secs. 150-1).
99
Giorgio Rizzo
The “far-reaching” manifestations of sorrow suggest that this concept is
more sophisticated than that of pain: the proof of this is revealed to us in the fact
that - while we can apply the term “pain” with easiness to animals - we find
very hard to do the same with human beings. Moreover, another essential
difference concerns the different kind of temporal duration involved by pain
and sorrow respectively: while it makes sense to say that one feels a sudden,
momentary stab of pain, it would not make sense to say the same when one
feels sorrow:
By the same token, pain and sorrow have a different type of duration. Compare,
for instance, the meaning of uninterrupted pain and uninterrupted sorrow. The
former could be measured with a stop-watch, and might stop unexpectedly and
then start again equally abruptly; the latter, on the other hand, could not be timed
in the same way, since neither its start nor its finish need be so clearcut (Johnston
1993: 141).
What about dispositional terms such as “intending”, “understanding” or
“knowing”? They, unlike sensation terms, are never interrupted by a break in
consciousness or a shift of attention: understanding is not something which
starts, continues and then stops, and it would make no sense for someone to
try to monitor ceaselessly such a disposition. At this point of the analysis,
however, the question arises how an individual “knows” that she is disposed
in a certain way; if knowing the dispositions of others is not hard, since we can
observe them and infer from their behaviour how they are disposed, the same
easiness does not hold for someone who wants to know her beliefs “from the
inside”, that is, so to speak, directly: Wittgenstein, for example, denies that
someone can discover them introspectively. Furthermore, it is very difficult to
suppose that the concept of belief, e.g., can be made up by so disparate
elements, since first person uses of it are non-observation-based utterances,
while the third person uses function as reports based on observation.
The attempt to construe a verbal expression such as “I believe that ...” as
the individual report “ I'm in a state of belief” can be liable for the following
objection or, to put it better, paradox, called the Moore's paradox: if an
individual can report her or his belief, why should he or she not report, to make
an example, that he or she believes it is lightning and that it is not, to the best
of his or her knowledge? People, as a matter of fact, can hold mistaken beliefs,
or persistent convictions, so that a belief can be correct even if it does not
correspond to reality; Moore's paradox, however, shows that such a situation
in which, using the present tense, one expresses verbally a belief and, at the
same time, states the non-correspondence of such a belief to reality, seems for
some reason odd if not absurd.
100
Wittgenstein On Private Episodes
This apparent absurdity dissolves, if we note that the individual’s
description of her own state of mind is also indirectly the description of a state
of affairs: someone who says that he or she believes P is committed for this
reason to asserting P itself. It seems as though - while it would have a sense to
trust or distrust the reports of the senses, according to the occasions - it would
be, on the contrary, strange to trust or distrust (one's) beliefs, at least explicitly;
what Moore’s paradox ignores is, nevertheless, the relationship obtaining
between the subject and her utterances: an assertion expresses a belief and not
a report on it and therefore an individual cannot adopt a purely neutral or
evaluating stance toward her beliefs.
If, then, an individual tried to assess her belief, the result would be a
nonsense or, to put it better, “as if two people were speaking through the same
mouth, one of them expressing the belief, the other confirming or denying it”
(Johnston 1993: 156). The point here is that the individual’s relation to herself is
not a relation of observation, and this means that an individual does never infer
her intentions from her acts, at least normally:
What would be the point of my drawing conclusions from my own words to my
behaviour, when in any case I know what I believe? And what is the manifestation
of my knowing what I believe? Is it not manifested precisely in this, that I do not
infer my behaviour from my words? That is the fact (RPP1, sec.744).
But, as we have already observed above, we can play - with concepts such
as “I believe” or “I intend” - much more sophisticated games, that is, linguistic
uses in which these psychological concepts serve as functional states, as reports
that are not manifestations of the state(s) involved (RPP1, sec.127): if, to make
an example, I say “I hope you’ll come”, I thereby express, very probably, hope,
but if I say “I’m still hoping you’ll come”, I could express in this way a report
treating myself as I were an outside observer. Concepts such as “cry” or “fear”
are usually part of a network of thoughts and feelings, which can well be
described; an utterance like “I’m frightened” can have different meanings,
depending on the contexts in which it does occur: it, as a matter of fact, can be
a cry of terror, a critical self-judgment, or even a self-observation; the different
uses of this utterance, at any rate, can be distinguished also by the tone and the
manner in which the words are uttered, and so on.
According to what was seen above, we can provisionally conclude that the
Inner, in Wittgenstein’s view, cannot be interpreted either as a homogeneous
dimension of private experiences, nor as something which is simply ineffable;
on the contrary, it can and must be seen as a network of concepts relating the
Inner and the Outer in a great variety of ways.
101
Giorgio Rizzo
5. Methodological remarks
Pain-behaviour is also a matter of culture or of social training, so that there
is a variety of possible human attitudes to the pain of other creatures, just as
there are a number of different attitudes inculcated with reference to one's own
pain. in our contemporary society it is easy to attribute not only pains but also
emotions to some animals, while, not long ago, people were not only
indifferent to animals suffering but also taking pleasure in it. In the novel Blood
Meridian, or the Evening Redness in the West of Cormack McCarthy the degree
not just of mere cruelty, but more precisely of indifference manifested by the
main characters toward the suffering of others (human beings and not only
animals), is such that you can rightly think that they lack any “human” feeling.
Anyway, all this suggests that there is no single human attitude to pain, except
for the mother's reaction to the child's cry.
Learning pain-language does not amount to first learning the meaning of
the word “pain”, and then to feeling sympathy for someone when he or she
says he or she is in pain; even if sympathy may rest on untrained or unlearned
basic responses to other's pain behaviour, the degree to which sympathy is
extended depends in some way on teaching; and what is to count as an
individual with which we can feel sympathy depends ultimately not on facts
but on the form of society in which we live.
Learning a pain-behaviour is learning a whole form of life, and it was this
involvement with a whole form of life that Wittgenstein supposedly wanted to
stress, when he wrote that “you learned the concept of ‘pain’ when you
learned language”. To arrive to such a conclusion, however, presupposes to
change radically the way philosopher thinks about philosophical questions: first
of all, we need to apply a case to case method to our philosophical perplexities .
If we see in the philosophical tradition only one great, and unparalleled,
question needing to be answered, then, as a result, we are held captive by a
picture4, that of a single model which can be universally applied.
In order to cope with the conceptual difficulties hidden in the private
episodes problem, it would then be recommendable to make use of a
philosophical approach that pays more attention to the complexity of reality
and language, often stopping to put questions which call philosophy itself into
question:
4
In PI1, sec.115, Wittgenstein claims: ”Apicture held us captive. And we could not get
outside it, for it lay in our language and language seemed to repeat it to us inexorably”.
102
Wittgenstein On Private Episodes
It is not our aim to refine or complete the system of rules for the use of our words
in unheard-of ways.
For the clarity that we are aiming at is indeed complete clarity. But this simply
means that the philosophical problems should completely disappear.
The real discovery is the one that makes me capable of stopping doing philosophy
when I want to.—The one that gives philosophy peace, so that it is no longer
tormented by questions which bring itself in question.—Instead, we now
demonstrate a method, by examples; and the series of examples can be broken
off.—Problems are solved (difficulties eliminated), not a single problem.
There is not a philosophical method, though there are indeed methods, like
different therapies (PI1, sec.133).
Applying the various pieces of advice contained in the above passage of
the Philosophical Investigations, we can treat the problems involved by the
“mental” episodes without being “obsessed”, so to speak, by the task of
finding out one great and decisive solution to these problems; even the
adoption of a phenomenological devise can, in certain cases, be more desirable
than a merely behavioral account, and this means that the context in which a
language game is used cannot be neglected or put into brackets in order to find
an absolute paradigm, an exclusive sample by virtue of which one can be able
to “measure” all reality. There is not, then, something like a final analysis of the
form of language concerning private episodes, as if we wanted to bring to light
something hidden in it, eliminating all misunderstandings by “making our
expressions more exact”. There is not, in a language-game, a state of “complete
exactness” which could bring us toward the vision of the very essence of the
language:
This finds expression in questions as to the essence of language, of propositions, of
thought.—For if we too in these investigations are trying to understand the
essence of language—its function, its structure, -- yet this is not what those
questions have in view. For they see in the essence, not something that already lies
open to view and that become surveyable by a rearrangement, but something that
lies beneath the surface. Something that lies within, which we see when we look
into the thing, and which an analysis digs out.
‘The essence is hidden from us’: this is the form our problem now assumes. We ask:
“What is language?”, “What is a proposition?” And the answer to these questions is
to be given once for all; and independently of any future experience (PI2, sec.92).
An “ein für alle mal” solution to the problem of private episodes simply
does not exist - because, if this were possible, we would be taken captive by the
very mythology of meaning that Wittgenstein condemns, that is, we would see it
as an entity tied up to words thanks to an independent correspondence relation
between symbols or signs and reality; nevertheless, the link between language
and reality, according to Wittgenstein, is indeed grounded inside the language,
and this has not a direct reference to reality:
103
Giorgio Rizzo
Grammatical rules determine a meaning and are not answerable to any meaning
that they could contradict.
Why don't I call cookery rules arbitrary, and why am I tempted to call the rules of
grammar arbitrary?
I don't call an argument good just because it has the consequences I want.
The rules of grammar are arbitrary in the same sense as the choice of a unit of
measurement (PG, sec. 133).
Wittgenstein, in this sense, has ripped out of language the philosophical
tendency to be interpreted either mentalistically or realistically: language becomes, in a way, mere action and, as such, it has not a foreground (Gargani 2008:
85-94) the vision of which allows us to disclose precisely its hidden essence.
Consequently, a combination of words like “I know I have a pain” is not a combination deprived of the intrinsic property of having an incorrigible meaning,
but only a sequence of words “withdrawn from circulation” (PI1, sec.500). A
language-game is not something to be explained away, but only something to
be recognized and accepted. This means that, if I can understand the way pain
words are used without recurring to representational (internal) devices, why
should I recur to such devices to explain how does language work?
“Is it an accident that in order to define the signs I have to go outside the written
and the spoken signs?” in that case isn’t it strange that I can do anything at all with
the written signs? (PG, sec.46)
Our investigation into the conceptual difficulties concerning the very idea
of private episodes has brought us abruptly toward theoretical questions concerning the way language does work in itself; it seems, at first sight, as if there
were an essential bond between the being stripped of every psychological halo
of language-games and the physiognomic property of linguistic expressions:
thus “meaning is a physiognomy” (PI1, sec.568). If, as a matter of fact, meaning
is not something to be grasped (begriffen in German) beneath words, but, on the
contrary, something immanent to expression itself, then we see the relevance of
the “physiognomy” – which implies a surface grammar- for a philosophical
grammar clearly emerge:
The familiar physiognomy of a word, the feeling that it has taken up its meaning
into itself, that it is an actual likeness of its meaning—there could be human beings
to whom all this as alien. (They would not have an attachment to their words.)—
And how these feelings manifested among us?—By the way we choose and value
words (PI2: 218).
At stake here is one of the most analytically valuable results of Wittgenstein’s
line of thought, namely the value of familiarity and of the unreflective adhesion to
a form of life:
104
Wittgenstein On Private Episodes
Concepts lead us to make investigations; are the expression of our interest, and
direct our interest (PI1, sec.570).
In this selfsame sense, we are now able to understand why the Austrian
philosopher would, again, reassess the relevance of the superficial grammar
(Oberflächen Grammatik) in contrast with a deeper grammar (TiefenGrammatik),
which philosophers have reified and mythologized5; what counts in the end as
the “meaning” of an expression is what we take in by the ears (PI1, sec.664). Only
if we are disposed to follow radically the implications laid down by the above
assumption, are we ready to understand the externalism which permeates
Wittgenstein’s thought; the very puzzle then relative to our experience is not
that this is ultimately private, but that it is expressible:
The real mystery of the Inner is the mystery of how it finds expression in language
(Johnston 1993: 156).
The above mystery however dissolves, however, by our eliminating the
very dichotomy between inner state (sensations, emotions and the like) and
language – and by absorbing the meaning of the lived experience into the
words we use to communicate the former in relational contexts. Making use of
this point of view, to understand what the word “pain” means would amount
to understanding the “atmosphere”- the physiognomy, musicality, rhythm and
gestures – which all surround that very word:
“The word has an atmosphere.”- A figurative expression; but quite comprehensible in certain contexts. For example, the word “knoif” has a different atmosphere
form the word “knife”. They have the same meaning, in so far as both are names
for the same kind of objects. But what is one to say here? Do they or don’t they
have the same meaning? (RPP1, sec. 726)
From Wittgenstein’s perspective, then, language cannot be characterized
tout court as thoroughly public or thoroughly private, for the very lived
experience of meaning is grafted onto the public use of the language; a
question such as “Where can I feel joy?” turns out to be a nonsense, because we
are not justified to put “joy”, or, generally, emotions, feelings etc., either in an
inner or an outer space (Z, sec. 487). Psychological concepts thence, according
to the thesis stated above, would imply neither a behavioural feature, nor a
hidden mental process: joy, such as sadness or other emotions, purely say itself ;
in some way, these concepts act as musical themes, in that they do not need
inner or outer paradigms to be understood. When they are used, the medium
and the message are indistinguishable: the smile of an individual is not merely a
5
Wittgenstein remarks: “In philosophy one is constantly tempted to invent a mythology of
symbolism or of psychology, instead of simply saying what we know” (PG, sec. 18: 56).
105
Giorgio Rizzo
recognized signal, but, much more, a gesture such that, in order to understand
it, we do not need a set of rules at all:
And yet there just is no paradigm there other than the theme. And yet again there
is a paradigm other than the theme: namely the rhythm of our language, of our
thinking & feeling. And furthermore the theme is a new part of our language, it
becomes incorporated in it; we learn a new gesture; CV: 59).
Summing up what stated above, we can say that every linguistic expression, if it makes sense, is something which cannot be paraphrased6; it is also
clear that in order to demythologize and deontologize our understanding of
psychological concepts, Wittgenstein needs a conversion of these concepts into
grammatical expressions. If, then, we try to approach questions concerning the
Inner aiming at an ultimate solution, at a water-tight argument, we are,
ultimately, on the wrong way, as Wittgenstein well knew:
Disquiet in philosophy might be said to arise from looking at philosophy wrongly,
seeing it wrong, namely as if it were divided into (infinite) longitudinal strips
instead of into (finite) cross strips. This inversion in our conception produces the
greatest difficulty. So we try as it were to grasp the unlimited strips and complain
that it cannot be done piecemeal. To be sure it cannot, if by a piece one means an
infinite longitudinal strip. But it may well be done, if one means a cross-strip.--But
in that case we never get to the end of our work!--Of course not, for it has no end.
(We want to replace wild conjectures and explanations by quiet weighing of
linguistic facts.; Z, sec.447).
Wittgenstein’s Works Abbreviations
CV
GB
Culture and Value (Blackwell, Oxford, 1980)
Remarks on Frazer’s “The Golden Bough”, R. Rhees (ed.), Synthese,
17 (1967), pp. 233-253.
LWPP1
Last Writings on the Philosophy of Psychology vol.1 (Blackwell, Oxford, 1982)
LWPP2
Last Writings on the Philosophy of Psychology vol.2 (Blackwell, Oxford, 1992)
PG
Philosophical Grammar (Blackwell, Oxford, 1974)
PI (PI1 and PI2) Philosophical Investigations (Blackwell, Oxford, 1958)
RPP1
Remarks on the Philosophy of Psychology vol.1 (Blackwell, Oxford, 1980)
RPP2
Remarks on the Philosophy of Psychology vol.2 (Blackwell, Oxford, 1980)
TLP
Tractatus Logico-Philosophicus (Routledge&Kegan Paul, London, 1961)
Z
Zettel (Blackwell, Oxford, 1967)
6
The idea of not recurring to something deeper or precedent to explain away the surface of
an expression is already contained in Tractatus Logico-Philosophicus. In TLP, prop. 5.525,
Wittgenstein writes: “It is incorrect to render the proposition ‘(dx) .fx’ in the words, ‘fx is
possible’ as Russell does. The certainty, possibility, or impossibility of a situation is not
expressed by a proposition, but by an expression’s being a tautology, a proposition with a
sense, or a contradiction. The precedent to which we are constantly inclined to appeal must
reside in the symbol itself”. (see also Pears 1987: 143 ff).
106
Wittgenstein On Private Episodes
Secondary literature
CASTAÑEDA, H.-N., 1963, The Private Language Argument, in ROLLINS, C. D. (ED.),
Knowledge and Experience. Proceedings of the 1962 Oberlin Colloquium in Philosophy,
University of Pittsburgh Press, pp.88-105.
DENNETT, D. C., 1991, Consciousness explained, New York, Little, Brown.
GARGANI, A. G., 2008, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Milano, Raffaello Cortina
Editore.
HINTIKKA, M. B., HINTIKKA, J., 1986, Investigating Wittgenstein, Oxford, Blackwell.
JOHNSTON, P., 1993, Wittgenstein: Rethinking the Inner, London, Routledge, 1993.
PEARS, D., 1987, The False Prison: A Study of the Development of Wittgenstein’s Philosophy,
vol. 1, Oxford University Press.
SAUNDERS, J. T., HENZE, D. F., 1967, The Private Language Problem. A Philosophical
Dialogue, New York, Random House.
SELLARS, W., 1963, Empiricism and the Philosophy of Mind, in SELLARS, W., Science,
Perception and Reality, Atascadero (CA), Ridgeview Publishing Company.
107
Language evolution: Exorcizing the ghost
Michael C. Corballis
Department of Psychology, University of Auckland
Private Bag 92019, Auckland 1142, New Zealand
email: m.corballis@auckland.ac.nz
From biblical times to Chomsky, it has been commonly held that the
special characteristics of human language and thought emerged in a singular
event, whether an act of God or a fortuitous mutation. Such a view is
incompatible with evolution by natural selection, and if true may be
considered a refutation of Darwinian theory. I suggest here an alternative view
that language evolved gradually, based on a system originally dedicated to the
intentional control and perception of manual grasping that is well documented
in primates. This system was later exapted for manual communication. The
lexicon at first consisted of mimed actions but these were gradually
conventionalized into abstract forms, carried by culture, and culminating in
spoken words. The generative nature of language was based on recursive
nonlinguistic thought processes, notably theory of mind and mental time
travel, that probably emerged during the Pleistocene. This scenario suggests a
basis for understanding language evolution as the product of natural selection.
Introduction
In the beginning was the Word, and the Word was with God, and the Word was God.
John 1:1
Language is arguably the most complex faculty that we humans possess.
Most scientists and philosophers are agreed that it is uniquely human, but also
that it is universally human. There is no society living or recorded in history
that does not speak or, especially in the case of deaf communities, use manual
sign language. Despite its universality, language is still poorly understood, and
it was recently suggested that the evolution of language might be “the hardest
problem in science” (Christiansen, Kirby 2003: 1).
The complexity and universality of language have given rise to the
suggestion that language must be the result of some miraculous event, perhaps
109
Michael C. Corballis
even beyond the reach of science. As the opening quotation suggests, the Bible
would have us believe that language was in fact a gift to Adam from God. This
has been a source of both revelation and concern to philosophers. The British
philosopher Thomas Hobbes (1588-1679), for example, felt that God could not
have supplied the full vocabulary necessary for an appreciation of the sensory
world, or more especially for philosophical discourse. In Leviathan, he wrote:
For I do not find anything in Scripture out of which, directly or by consequence,
can be gathered that Adam was taught the names of all figures, numbers,
measures, colours, sounds, fancies, relations—much less the names of words and
speech, as general, special, affirmative, negative, interrogative, optativ, infinitive, all
which are useful, and, least of all, of entity, intentionality, quiddity, and other
insignificant words of the school (Hobbes 1668: 16)
But the argument is perhaps specious because, as the Book of Genesis tells
it, God later took away the gift. The people had become arrogant and decided
to build a tower to reach the heavens. God decided to take a look:
And the LORD came down to see the city and the tower, which the sons of men
had built. And the LORD said, 'Behold, they are one people, and they have all one
language; and this is only the beginning of what they will do; and nothing that
they propose to do will now be impossible for them. Come, let us go down, and
there confuse their language, that they may not understand one another's speech.'
So the LORD scattered them abroad from there over the face of all the earth, and
they left off building the city. Therefore its name was called Babel, because there
the LORD confused the language of all the earth; and from there the LORD
scattered them abroad over the face of all the earth. (Genesis 11:1-9)
So the language God gave to Adam was effectively destroyed, and
replaced by a confusing multiplicity of languages, eventually reaching the
7,000 or so said to be in existence today.
Chomsky’s version
The theory developed by Noam Chomsky has much in common with the
Biblical tale. He distinguishes between internal language (I-language), which is
the symbolic language that underlies all languages, and external language (Elanguage), which refers to the vast number of languages actually spoken or
signed in the world. Chomsky’s views have changed somewhat over the years,
but with relatively little variation in meaning except perhaps for a progressive
simplification; I-language can largely substitute for the earlier notions of deep
structure (Chomsky 1957), universal grammar (Chomsky 1965), the faculty of
language in the narrow sense (FLN) (Hauser, Chomsky & Fitch, 2002), and
unbounded Merge (Chomsky 1995). Perhaps I-language is the modern
110
Language evolution: Exorcizing the ghost
equivalent of the original language bestowed on Adam, and the multitudinous
E-languages the equivalent of languages that emerged and proliferated after
the fall of the Tower of Babel.
The analogy goes further in that Chomsky (2010) also supposes I-language
to the outcome of a single even that was unique to our species, and that occurred
in a single individual within the past 100, 000 years. He might have been
tempted to name this individual Adam, but instead proposed that he be called
Prometheus, presumably also implying that the person in question was male.
Within some small group from which we are all descended, a rewiring of the brain
took place in some individual, call him Prometheus, yielding the operation of
unbounded Merge, applying to concepts with intricate (and little understood)
properties (59).
Rather than propose that I-language was bestowed by God, though,
Chomsky enlists more modern kinds of miracle:
Perhaps it was an automatic consequence of absolute brain size, as Striedter suggests, or perhaps some minor chance mutation. Sometime later – not very long in
evolutionary time – came further innovations, perhaps cultural, that led to behaviorally modern humans, the ‘great leap forward’, and the trek from Africa (18).
Chomsky is perhaps a little disingenuous in suggesting that the mutation,
if such it was, was “minor, ” since in the previous quote he notes that it created
a faculty with “intricate properties, ” and we know that language circuits are
widely distributed in the brain, primarily in the left hemisphere in most people
(e.g., Dick et alii 2001).
Chomsky is also adamant that I-language could not have evolved through
natural selection. He once wrote “It would be a serious error to suppose that all
properties, or the interesting structures that evolved, can be ‘explained’ in
terms of natural selection” (Chomsky 1975: 59). His reasoning as more recently
expressed is based on the assumption that the symbols of I-language are
entirely internal to the brain. That assumption is presumably based on the fact
that the actual words we use are not directly related to what they represent.
The word duck, for example, has no affinity with the bird it represents; it does
not look like a duck, walk like a duck, or quack like a duck. Of course some
words do bear a resemblance to what they represent—the Italian word zanzara,
meaning mosquito, is a case in point. Even the word duck, you may suppose,
does carry something of the sound of a duck’s quack, although this is probably
entirely coincidental. But Chomsky is not really referring to the words actually
used in speech, but rather to the abstract symbols that make up I-language.
These symbols are secreted inside the head, as inaccessible, perhaps, as the
words that God gave to Adam. In Chomsky’s view, it is this insulation from
the outside world that rules out natural selection.
111
Michael C. Corballis
I-language, in Chomsky’s view, is not dedicated wholly to language, but
represents a new-found capacity for symbolic thought. The externalization of Ilanguage to the multiplicity of E-languages is but one of its manifestations.
Thus humans were suddenly endowed with a unique form of intelligence.
Chomsky quotes Tattersall (2005), with approval, as suggesting that human
intelligence is an “emergent quality, the result of a chance combination of
factors, rather than a product of Nature’s patient and gradual engineering over
the eons (59).” That is, I-language was not a product of natural selection.
It is a remarkable feature of Chomsky’s theory that the words, or lexical
symbols, of I-language are assumed to be innately given and uniquely human.
He writes that “even the simplest words and concepts of human language and
thought lack the relation to mind-independent entities that appears to be characteristic of animal communication” (Chomsky 2010: 57). Here, he seems to be
saying that we are born with all of the concepts we need for thought and language, although there must subsequently be a process of externalization that
maps these concepts onto real-world entities, and creates the multitude of Elanguages. Externalization is a cultural process, not a product of biological
evolution.
Others have concurred, on more empirical grounds, that language emerged
suddenly. The anthropologist Richard Klein, referring to the sudden flowering
of symbolically-mediated behavior, wrote that it is “at least plausible to tie the
basic behavioral shift at 50 ka to a fortuitous mutation that created the fully
modern brain” (Klein 2008: 271). Hoffecker (2007) writes similarly: “Language
is a plausible source for sudden and dramatic change in the archaeological
record [after 40 ka] because: (a) it is difficult to conceive of how the system for
generating sentences (i.e., syntax) could have evolved gradually, and (b) it
must have had far-reaching effects on all aspects of behavior by creating the
collective brain (379).” Others place the transition earlier, but still within the
time span of our own species. The linguist Derek Bickerton once wrote that
“true language, via the emergence of syntax, was a catastrophic event,
occurring within the first few generations of Homo sapiens sapiens” (Bickerton
1995: 69). The neuropsychiatrist Timothy Crow even presumes to know where
on the genome it occurred. He endows it with even more dramatic
consequences: “A chromosomal rearrangement on the X and Y chromosomes
160, 000 years ago gave rise to human speciation, language, theory of mind,
and vulnerability to psychosis” (Crow 2008: 31-32). It was also, in Crow’s view,
the mutation that gave rise to cerebral asymmetry.1
1
The evidence for this is indirect, and not especially strong. For more detailed discussion
see Corballis (2009a).
112
Language evolution: Exorcizing the ghost
Such views have been termed “big bang” theories of language evolution. If
true, they should herald the demise of the Darwinian theory of evolution, for
Darwin (1859) himself wrote in Origin of Species as follows:
If it could be demonstrated that any complex organ existed, which could not
possibly have been formed by numerous, successive, slight modifications, my
theory would absolutely break down. But I can find no such case (158).
Chomsky has often referred to the “language organ,” and its sudden emergence might well be considered the case that Darwin no doubt dreaded.
Tattersall (2011) attempts an explanation that reduces language evolution to
not so much a bang as a whimper (to borrow from T.S. Eliot):
… after something like 400 myr of vertebrate brain evolution, the neural substrate
permitting symbolic thought had been produced, in an already near-enabled
brain, as a byproduct of the apparently radical developmental reorganization that
gave rise to Homo sapiens as an anatomically distinctive entity. Whatever its exact
nature, this innovation lay fallow until its new use was "discovered" by its
possessors, through the effect of some necessarily cultural stimulus. … So what
was that cultural stimulus? The most plausible candidate is the invention of
language, which is almost synonymous with what we experience as thought
today. Like thought, language involves creating symbols in the mind, and
rearranging them according to rules to generate an infinite number of possible
statements from a finite vocabulary. … Once symbolic thought had been "kicked"
into existence in this way, newly symbolic Homo sapiens was able to envision
alternative worlds, and thus to plan in an unprecedentedly complex manner.
This account may perhaps be considered an attempt to reconcile the sudden
emergence of language with Darwinian evolution. But it involves some sleight
of hand. The “radical developmental reorganization” that produced Homo
sapiens simply moves the big bang to a slightly earlier period, and we must
then suppose that the brain was ready for language, but evidently waiting in
this state for language to be invented. It’s as though birds evolved wings
before discovering they could use them to fly.
Of course, the resemblance of “big bang” theories of the emergence of
language to the biblical tale does not mean that they are wrong, and indeed the
enduring nature of such ideas might be taken as an indication that they are
correct. Nevertheless such ideas are profoundly anti-Darwinian, and it seems
prudent to seek an account of language evolution more in line with Darwinian
theory.
113
Michael C. Corballis
Toward an evolutionary account
According to Pinker and Bloom (1990) the idea that language evolved
through natural selection is inescapable:
The only successful account of the origin of complex biological structure [such as
language] is the theory of natural selection, the view that the differential reproductive success associated with heritable variation is the primary organizing force
in the evolution of organisms (708).
I noted earlier that Chomsky rules out natural selection in the emergence
of I-language, preferring instead the notion that I-language emerged suddenly.
In some of his writing, though, he comes close to accepting natural selection. In
one article, for instance, he writes: “The individual so endowed [with I-language] would have the ability to think, plan, interpret, and so on in new ways,
yielding selection advantages transmitted to offspring, taking over the small
breeding group from which are, it seems, all descended” (Chomsky 2007).
Clearly those individuals, the descendents of modern humans, were “selected.”
The critical point seems to be that the mutational event, if that is what it was,
emerged in all-or-none fashion, and was not shaped by small random changes
over an extended period of time.
In any event, the available canvas for the evolution of language extends
well beyond the past 100, 000 years or so, the date at which the “big bang”
supposedly occurred. It is generally agreed that chimpanzees and bonobos do
not possess true generative language, despite the efforts of some to
demonstrate language-like behavior through the use of gestures or visual
keyboards (e.g., Patterson 1978; Savage-Rumbaugh, Shanker, Taylor 1998). At
best, we might credit chimpanzees with the combinatorial capacity of a twoyear-old human (Greenfield, Savage-Rumbaugh 1990), but without the
capacity to make declarative statements, discuss the past or future, or converse
in the way that humans do. Assuming that the most recent common ancestor
of chimpanzee and human was similarly without true language, we have a
time span of some 6 or 7 million years within which to construct plausible
scenarios for the evolution of grammatical language. Within this span, 100, 000
years is but a passing moment.
That said, language is unlikely to have emerged de novo even within the 7
million years of hominin evolution. Evolutionary change generally involves
the modification of existing structures rather than the creation of new ones.
Wings, for example, almost certainly evolved from limbs that served functions
other than flying, such as walking or capturing small prey. The signing and
114
Language evolution: Exorcizing the ghost
gesticulating chimpanzees may therefore provide a clue as to adaptations,
going back perhaps tens of millions of years, which provided the platform
upon which language was eventually constructed.
Language and grasp
One possibility is that language evolved from the intentional grasping of
objects in our primate forebears. Primates, along with the great apes, have
excellent cortical control over the hands, which they use to hold on to
branches, pick up objects, catch small prey, groom one another, or generally
create mischief. In contrast, control of the voice in nonhuman primates is
primarily limbic, or emotional, rather than cortical and intentional. Even
chimpanzees, as Premack (2007) recently observed, “lack voluntary control of
their voice” (p. 13866). This raises the strong possibility that language evolved
from manual gestures, and not from primate calls (e.g., Arbib 2005; Corballis
2002; Hewes 1973).
Evidence for this comes from the mirror system in the primate brain, most
recently described and refined by Rizzolatti and Sinigaglia (2010). This system
contains neurons which fire when the monkey makes grasping movements,
and also when the animal observes another individual making the same
movements. Although mirror neurons now appear to be fairly ubiquitous in
the primate brain, Rizzolatti and Sinigaglia focus especially on a circuit that
includes F5, parietal area PFG and the anterior intraparietal area (AIP), and
maintain that this circuit is “special” in that it permits the understanding of
goal-directed actions “from the inside;” that is, it “gives the observer a firstperson understanding of the motor goals and intentions of the motor goals and
intentions of other individuals” (264). Such a system seems ideally poised for
the later development of language, which is unlike other forms of animal
communication in that it depends critically on what has been termed theory of
mind—the knowledge of what is in the minds of other individuals (e.g.,
Sperber, Wilson 2002; Tomasello 2008).
With some modification, then, the system may well have evolved from the
joint understanding of grasping to the mutual understanding of more symbolic
actions. Anatomically, the system is remarkably homologous to the principal
language areas in the human brain, with area F5 corresponding at least in part
to Broca’s areas and the parietal regions to Wernicke’s area. This circuit in the
human brain is also activated by communicative hand gestures, as well as by
spoken accounts (Xu et alii 2009). In the human brain, though, the system is
lateralized in most people in the left hemisphere of the brain; lateralization
115
Michael C. Corballis
may well have been an adaptation to increasing complexity and refinement of
the system to encompass the greater sequential complexity of communication.
Arbib (2005) has speculated as to how the system might have evolved to
incorporate syntax, at first in a gestural system and finally in a vocal one.
It may not be entirely frivolous to note that the concept of grasping is
evident in many of the terms we used to describe aspects of language. In
English we even speak of grasping the meaning of an utterance. We hold or
carry conversations, and grab or seize attention. The terms comprehend and
apprehend both derive from the Latin prehendere, to grasp. Intend, contend, and
pretend all derive from tendere, to reach with the hand. Express and impress both
suggest pressing. As I point these things out, I hope you catch my drift—
although I hope you don’t feel manipulated.
Other observations lend support to the idea that language evolved from
manual gestures, and not from vocal calls. Gesture plays a critical role in the
development of language, and dominates up until the age of about 14 months
(Volterra et alii 2005). Deaf communities all over the world have spontaneously
developed signed languages with all of the linguistic sophistication of spoken
languages (e.g., Armstrong, Stokoe, Wilcox 1995; Emmorey 2002; Neidle et alii
2000), so a truly syntactic signed language may well have been viable well
before speech emerged. Even among normal speakers, gesture is a natural
accompaniment of speech (Goldin-Meadow, McNeill 1999; McNeill 1992).
According to gestural theory, language would have emerged from gestures
that represented objects and actions through miming. This largely solves the
problem of using symbols to refer to the external world, since the mimed
symbols would convey something of the physical structure of what they
represent. For example, in Italian Sign Language about 50% of the hand signs
and 67% of the bodily locations of signs stem from iconic representations, in
which there is a degree of spatiotemporal mapping between the sign and its
meaning (Pietrandrea 2002). According to Emmorey (2002), American Sign
Language includes some signs that are purely arbitrary, but many more are
iconic. Reference to the external world could also be facilitated by pointing,
which also features prominently in sign languages and in the development of
spoken language—and even in everyday discourse. The earliest language,
then, might have consisted primarily of pantomime, perhaps originating in the
Pleistocene (Donald 1991). It might also have been based in part on the
development of stone tools during that era, and the use of gesture to mimic
actions such as cutting, scraping, chopping, and so forth.
The shift to more abstract forms of representation, as in many of the signs
of sign languages and most of speech, would then arise through conventiona116
Language evolution: Exorcizing the ghost
lization (Burling 1999) rather than from any sudden act of creation, as
proposed by Chomsky and others. Conventionalization refers to the process
whereby iconic representations gradually lose their iconic form, and are
carried by convention. In American Sign Language, for example, the sign for
home was once a combination of the sign for eat, which is a bunched hand
touching the mouth, and the sign for sleep, which is a flat hand on the cheek.
Now it consists of two quick touches on the cheek, both with a bunched
handshape, so the original iconic components are lost (Frishberg 1975). Once
established, conventionalized gestures are carried by the community, and
taught to succeeding generations.
The emergence of speech
An important step in the process of conventionalization was the gradual
introduction of voiced components, culminating in speech as the dominant
mode. This would have required alterations to neural pathways to enable
intentional control over vocalizations. Humans appear to be unique among
primates in that stimulation of the supplementary motor area produces
vocalization, and in that direct connections from the face area of the motor
cortex innervate the nucleus ambiguus, which supplies nerves to both larynx
and pharynx (Jürgens 2002). These features may well explain how humans
came to have intentional control over vocalization, whereas other primates,
even the chimpanzee, do not. Voluntary control over vocalization may well
have been driven by adaptive advantages of spoken over manual language.
Those advantages were probably not linguistic, since as already noted
signed languages have all of the linguistic sophistication of spoken ones.
Rather, they were probably practical. Speech is much less energy-consuming
than manual gesture. Anecdotal evidence from sign language courses suggests
that the instructors require regular massages in order to meet the sheer
physical demands of sign-language expression. In contrast, the physiological
costs of speech are so low as to be nearly unmeasurable (Russell, Cerny,
Stathopoulos 1998). In terms of expenditure of energy, speech adds little to the
cost of breathing, which we must do anyway to sustain life. More importantly,
speech frees the hands from any major involvement in communication,
allowing further development of manufacture and other manually based
aspects of culture, including cave art and bodily embellishment. This freeing of
the hands, rather than the emergence of language per se, may well explain the
relatively sudden advances in technology alluded to earlier (see also Corballis
2004, for amplification).
117
Michael C. Corballis
A possible objection to the idea that language evolved from manual
gestures has been expressed by the linguist Robbins Burling, who wrote that
“the gestural theory has one nearly fatal flaw. Its sticking point has always
been the switch that would have been needed to move from a visual language
to an audible one” (Burling 2005: 123). The transition is easily understood,
though, if it is recognized that speech is itself a gestural system, comprising
movements of six articulatory organs, the lips, the velum, the larynx, and the
blade, body, and root of the tongue (Goldstein, Byrd, Saltzman 2006; StuddertKennedy 2005). Movements of the hands and face are in many ways interconnected, especially through eating, and some neurons within the primate
mirror system respond to grasping with the hand as well as to grasping with
the mouth (Rizzolatti et alii 1988).
The dominance of speech may well be responsible for the view that the
arbitrary nature of words is a necessary feature of language. Since speech lacks
a spatial component, it cannot display the spatial nature of many of the objects
and actions we talk about. Hockett (1978) put it like this:
… when a representation of some four-dimensional hunk of life has to be compressed into the single dimension of speech, most iconicity is necessarily squeezed
out. In one-dimensional projections, an elephant is indistinguishable from a
woodshed. Speech perforce is largely arbitrary; if we speakers take pride in that, it
is because in 50, 000 years or so of talking we have learned to make a virtue of
necessity (274-275).
But the origins of words may well have been iconic and based on gestural
movements that mapped spatially onto the concepts they represent. In the
course of time, these would have become conventionalized, and among
speaking communities replaced by voiced gestures. Conventionalized words
would then be carried by culture, and handed down from generation to
generation. The gesture of pointing is also critical, since children can then learn
the names of things by having them named and pointed out. Concepts
presumably emerged as people and their predecessors experienced objects and
actions in the real world, or invented new ones. This approach therefore stands
in sharp contrast to the Chomskyan view that concepts were created uniquely
in Homo sapiens through a fortuitous mutation.
Grammar and recursion
In Chomsky’s formulation, grammar is also part of I-language, and in the
Minimalist Program (Chomsky 1995) the essence of grammar is unbounded
Merge, whereby elements are combined recursively to form the basis of sentences of unlimited complexity. Unbounded Merge is then a critical consequence
of the mutation that so transformed our species. An alternative view is that
118
Language evolution: Exorcizing the ghost
recursive thinking evolved independently of language, which itself evolved to
exploit the recursiveness of thought processes, or to express recursive thoughts
themselves (Corballis 2011).
One example of recursive thinking is theory of mind, whereby individual
A may know what B is thinking, and may know that B knows what she is
thinking. Theory of mind is indeed critical to language, especially in conversation where more is left unsaid than is actually said (Grice 1975). Sperber and
Origgi (2010) give the example of the sentence “It was too slow.” This could
mean anything from a chemical reaction being too slow, to the decrease in
unemployment in France being too slow, to a car being too slow for an anticipated journey, to an overly sluggish movement in a symphony. In uttering
such a sentence, the speaker knows what is in the listener’s mind, and has no
need to elaborate further. In this sense, language typically serves as a series of
prompts to guide shared thought. This is perhaps one of the main respects in
which language is unlike any other form of animal communication.
A second example of recursive thinking is mental time travel, whereby we
can insert episodic memories or imagined future events into present consciousness. Mental time travel has itself been claimed to be uniquely human
(Suddendorf, Corballis 2007). This claim has been disputed, with evidence
from several nonhuman species, including birds (e.g., Clayton, Dickinson 1998;
Clayton, Bussey, Dickinson 2003) and apes (e.g., Mulcahy, Call 2006; Schwartz
et alii 2002), but there remains doubt as to whether counterexamples are based
truly on embedding of the consciousness past or imagined future events, or
whether they depend rather on associative learning or on semantic rather than
episodic memory (e.g., Suddendorf, Corballis, 2008). Even if these examples
are genuine instances of the conscious embedding, they pale beside the extraordinary ability of humans to re-imagine events going back decades, to plan
futures going forward years if not decades, and to imagine scenarios that are
entirely fictitious—indeed humans are generally addicted to fiction, whether in
the form of campfire stories, plays, novels, television soaps, or simple gossip.
Premack (2010), a specialist on chimpanzee cognition, remarks that “chimpanzees do not understand time” (25), whereas the ability to transcend time is
critical to human experience. The putative examples of mental time travel in
animals so far claimed also lack the sheer generativity of human experience, as
exemplified by biography or intricate future plans, or by fiction.
Language is exquisitely designed to transmit information about episodes,
especially those not taking place in the present, allowing adaptive advantages
of experience and planning to be shared. In order to share information about
119
Michael C. Corballis
the past or future we need solid concepts and symbols to refer to them. Most
nonhuman communication does not require reference to non-present objects,
but refers to events available to the senses. In human communication about
non-present events, the symbols to refer to them can be abstract but need not
be. Since episodes are comprised largely of combinations of known entities,
such as “who did what to whom, what is true of what, where, when and why”
(Pinker 2003: 27), language has also taken on combinatorial principles, in the
form of grammar. Languages develop markers of time to indicate whether
events are located in the past, present, or future, along with various other
aspects, such as whether an action was completed or ongoing, or whether it
was conditional, and so on. Even fiction pays indirect homage to time in the
expression “Once upon a time …” In many languages time is indicated by
tense, but other indicants, such as aspectual markers, or specific dates, are also
used (see Corballis 2009b, for more extended discussion).
Jane Goodall, who knows chimpanzees better than most people do, was
recently quoted as follows:
What’s the one obvious thing we humans do that they don’t do? Chimps can learn
sign language, but in the wild, so far as we know, they are unable to communicate
about things that aren’t present. They can’t teach what happened 100 years ago,
except by showing fear in certain places. They certainly can’t plan for five years
ahead. If they could, they could communicate with each other about what compels
them to indulge in their dramatic displays. To me, it is a sense of wonder and awe
that we share with them. When we had those feelings, and evolved the ability to
talk about them, we were able to create the early religions.2
Theory of mind and mental time travel, and the use of language to share
experience, may well have evolved during the Pleistocene from something
over 2 million years ago. During this era the brain roughly tripled in size
(Wood, Collard 1999), perhaps reflecting the vast extension of concepts and
symbols need to imagine and communicate about events not immediately
available to the senses, and to generate complex scenarios. In evolutionary
times, these developments might still be considered rapid, but pose less of an
evolutionary quandary than the supposed “big bang” within the past 100, 000
years.
2
From a conversation with Freddy Gray, reported on p. 13 of The Spectator of 10 April, 2010.
120
Language evolution: Exorcizing the ghost
Conclusions
The scenario outlined in this article differs from the Biblical and Chomskyan
position in a number of critical ways:
1. Rather than emerging suddenly within the past 100, 000 years in a single
step, language is assumed to have evolved from a system dedicated primarily
to intentional manual grasping. This system is well documented in the primate
brain, and probably goes back tens of millions of years.
2. This system was extended to more symbolic actions, based on miming and
pointing, enabling our forebears to communicate about their experiences. It
gradually became conventionalized, so that the iconic component was curtailed,
although not eradicated.
3. Conventionalization eventually allowed vocal symbols to replace manual
ones, with consequent practical advantages. This development was probably recent, and may explain the dramatic cultural changes over the past 100,000 years.
4. Where Chomsky and others assume internal language to be the basis of
thought as well as of language, the approach here suggests that language
required the evolution of nonlinguistic recursive thought. Two critical
components were theory of mind and mental time travel, and language is
assumed to have emerged to enable people to share experiences about events
removed from the present.
5. The approach suggested here may open the way to human language and
thought being understood in terms of natural selection, and not the products of
some singular miraculous event.
Acknowledgments:
In preparing this article, I benefited from correspondence with Christina
Behme and Russell Gray.
121
Michael C. Corballis
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124
Language and schizophrenia: a common origin?
(English text reviewed by Ryan Spring Dooley)
Rocco Pititto
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli Federico II
email: pititto@unina.it
The question of language origins is much too important to be under
estimated or sidelined by linguists and philosophers, as well as by biologists
and psychiatrists. Thus, the scholars ask this question again and again, with
the awareness that to talk about the origin of language is, above all, to talk
about the human being, his origin and his destiny. We thus have many hypothesis that follow one after the other onto the playing field, all of them equally
provisional and, above all, weak in theoretical as in practical points of view.
Today, the latest hypothesis, formulated by Timothy J. Crow, of the Department of Psychiatry of Oxford University, claims that language has a common
origin with schizophrenia. This hypothesis deserves attention, even if it is
presented by its author with inconclusive and easily debatable arguments, as
rightly pointed out by Michael C. Corballis, who is, in turn, author of the
gestural theory of the origin of language. Although the two hypothesis are
contradictory, there is nevertheless, a relationship between them so close that
we can assume a third integrative position. The advantage of an integrated
theory would be considerable, because language, in its passage from gesture to
the word, would be characterized as the main thrust of the human body
towards the achievement of a coherant plan of humanity and it would ensure a
better understanding of the schizophrenic pathology, regarded as a regression
of the human being to a condition of lack of development, in which the word is
meaningless.
It may seem strange, but if the hypothesis of Crow would be confirmed by
more sophisticated and refined empirical research, a better knowledge of the
origin of schizophrenia would be more decisive for its identification and, as
such, for its therapeutic treatment. In fact, if the schizophrenic pathology has a
mental nature, its expression is indeed material and it is percieved by
individuals as a linguistic disorder. Thus, working on the language of the
125
Rocco Pititto
schizophrenic patient, it could represent a significant step in the identification
of a system of care for the schizophrenic pathology; and it could be developed
in a series of indications, as the beginning of a system of treatment and
certainly useful care, to try out in the development of specific protocols for the
treatment of the syndrome. This could, in fact, ensure that the reconstruction of
mental coherence, the same order that is lacking in a schizophrenic subject, and
which expects to be rebuilt in order to give way to a new life project.
1. Evolutionary biology, language, and schizophrenia
The origin of language, despite a great amount of research, and even in
recent times, still remains "mysterious" and "dark", as an event that is difficult
to decipher1. As the faculty species-specific in human beings, in the course of
time, language has slowly perfected itself, passing from the gesture to the
word, and giving life to thousands of natural languages, many of which, for
various causes, have gradually become extinct, resulting in difficulties in
making a complete list and thus reconstructing the main language families or
strains. We ignore, however, the causes that have determined languages
beginnings in humans, as well as the modalities and the different phases of its
development. We only know that the appearance of language has been
decisive in human being’s evolution, namely in his “leap” from the animal
state to humanity. At the same time, is not guaranteed that in the future a
better understanding of the nature and functions of language could not to be
able to clarify definitively the "mystery" of the origins of language (Pititto 2003:
23-75). The "specialty" of the human being is determined, above all, by the
acquisition and use of the language forms, that have enabled man to enter into
his "cognitive niche". Thus, all the recent and less recent assumptions and
suggestive theories about the origin of language, seem to share the idea that to
discover this origin is to discover the “real” origin of human beings, as it
appears in the philosophical unity of Logos, which is, in its etymology, thought
and language at the same time.
We ignore and yet would like to know many things about the appearance
of the first human language: when and in what way has it developed itself?
Perhaps by chance and quite suddenly? Or in consequence to transformations
that have taken place in primates, throughout a very long time, even if much
more recent than the origin of the universe? What changes, if there were any,
1
Despite the fact that new knowledge on the mechanisms of language “the origins of language
are still one of the most elusive mysteries of the brain.” (Fincher 1984: 53)
126
Language and schizophrenia: a common origin?
were crucial enough to create the language of a new being? And, as such,
which was the first form of language that appeared in the world of human
beings, the written or the verbal language? (Pititto 2010: 105-124). If there was,
as some have considered, an evolutionary path, which have been the most significant passages leading humans from one form of language to another – i. e.
from sign to verbal language? Or must we admit that the two forms appeared
at the same time, as development of an original form of communication among
humans? Which event has prepared and accompanied the appearance and
development of this sort of "resource"? This "inheritance", at the same time
cultural and biological, that has changed an animal into man, "unique" and
"special"? How the most significant – anatomical, environmental, morph
functional – changes have made the development of language in humans
possible? Finally, why has language appeared only in humans, while other
animals so close in biological terms, such as the great apes, remained without a
language?
The numerous explanations that scholars have put forward from time to
time, presented as well argued and sometimes, even seductive, remain unsatisfactory. They are not able to truly test the facts (Ruhlen 1992, Limber 1982,
Müller 1990).
These are, in fact, important questions, that are intended to remain without
a response for a long time. Thus, if there is evidence of a partial, non-definitive
answer, at the same time, they cannot justify a final and scientifically correct
one. Therefore, we can understand the uncomfortable sense in Jaspers’
affirmation, that considers the research on the origin of verbal language
hopeless, because of the temporal distance that separates the current form of
verbal language from the time of its first appearance in the homo sapiens
(Jaspers 1990: 88). In the same context, not unlike Jaspers, Heidegger was
aware of great difficulty, in talking about the origin, and so he considered the
question as something absolutely impossible to propose. If we cannot come
back from the current to the original form of language, this is because we
cannot compare the various forms that language has had in the course of its
evolution; we can only say that the current form of language is certainly very
different from its primitive beginnings.
In the early 19th Century, in the context of the great debate on language,
which took place in Germany and in Europe since the second half of the 18th
century, with the decisive contribution of Hamann and Herder, von Humboldt
choose the study of the plurality of languages as the object of his research: a
phenomenon of immediate experience, rather than the theme of the origin,
much more controversial and way too evanescent, too far away from our
127
Rocco Pititto
capabilities of scientific observation (Pititto 2008). A research focused on the
origin of language in this direction, on the other hand, could appear even
harmful, because it was already simply the same look at this aspect of
language. A focus neglecting others, could lead to a restriction of the scope of
research, thereby forgoing, in this way, the possibility to understand the nature
and functions of the human language, and its centrality in the context of
mental operations and in the multiple dimensions it takes on in the lives of
individuals. The choice of Humboldt would prove successful, at least until the
end of the 19th century, when, in 1866, the Société linguistique de Paris
prohibited its members all research dealing with the theme of origins .
Today, a return to the question of the origin of language, even though
within approaches much different than those of the past, allows us to introduce
new elements and to research new solutions. The various hypothesis, all of
them equally important, that recently try to explain the origin of language – as
with the theory of discontinuity, that of protolanguage, the theory of continuity, that of social origin of the language, the motor theory – each of them clarify
particular aspects of the language and its development but, despite the
originality of each contribution, they are altogether inadequate and limiting2.
Among these thesis, there is one, more original and relatively new even if
very controversial, it connects the origin of language to the origin of schizophrenia. The theory is advanced on the psychiatric evolutionist assumption
that in many cases epidemiological phenomena survive in populations as a
result of an evolutionary error. In the case of the evolution of language, this
error would be constituted by the occurrence of schizophrenia3. In the
evolutionary process, which led human beings to language, something breaks
in the reorganization of the mind, so that some errors regularly occur in the
recombination of genes, defining the syndrome of schizophrenia. Many
scholars have argued that this theory, even if seductive, lacks empirical basis,
because it is unsupported by experimentally correct and recognized
confirmations. It only appears as the result of a logical reasoning, reporting
two different phenomena, on the one hand language, on the other hand
schizophrenia, without, however, sufficiently scientific reasons.
This theory is certainly fascinating, but it isn’t the answer to the question
of the origins of language. Even so, evolutionist researchers in biology have
reported a lot of cases that can strengthen the theory and better delineate the
framework of “secondary effects", achieved by the human body at each stage
For a bibliographic focus on these theories about the origin of language, see Anolli (2006:
37-45).
3 On evolutionary psychiatry see Nesse, Williams (1991, 1995).
2
128
Language and schizophrenia: a common origin?
of its evolution. According to this point of view, every evolutionary advantage
achieved by the human body is always accompanied by a disadvantage,
according to certain frequencies and regularity.
In these terms, the best known case is represented by the metabolic disorder
that we call diabetes mellitus. According to the explanation of evolutionary
developmental biology, this disease originates when the human body was
forced to develop a mechanism for storing up fats, in order to permit the
survival of our ancestors in a habitat lacking in sugars (Stevens, Price 2000²:
46)4. From this point of view, diabetes mellitus is the price that we pay today
for the defense of our species during its origins. The same argument can be
proposed in the case of the spinal column: unlike the quadruped species, in
humans, the acquisition of an erected position, has concentrated all the weigh
on one sole point of the spinal column. Thus, the advantage of erected posture
has the backache as its disadvantage.
These pathologies are the payment that the human species makes for
having acquired, in the course of its evolution, a considerable advantage over
other species. At one point surviving the lack of sugars, at another point in
evolution acquiring an erect position, and then the development of language, all
curious advantages over other species but not without a price. In the same way,
respiratory diseases have appeared as consequences of the over-laryngeal vocal
tract adaptation to speech. Schizophrenia could also be another exemplary case
to examine, a case in which the advantage of language overcome by the denial
of language itself. Schizophrenia, in fact, expresses a distorted use of language
and the inability of the schizophrenic subject to enter into a relationship with
his neighbor and to assume a linear plan between mental and linguistic terms.
The same world that language opens to humans, is closed by schizophrenia.
In the case of schizophrenia, the advantage represented by the acquisition
of language, closely linked to brain development, is actually a novelty for
primates: only humans can claim language as their "specialty". So, schizophrenia would be a type of mistake of recombination, a form of counterweight,
a response of the body, that is not yet prepared to change. Marian Annett
argues that the "gene of schizophrenia" is an "agnostic right shift gene" (Annett
4
According to evolutionary biology, the disposition needed to accumulate fats would have
been advantageous in times characterized by food shortages or relative abundance. The
genetic trait of individuals tended to be constant and represented a kind of "protective"
stroke during periods of inadequate nutrition. This characteristic biochemistry has become
harmful, favoring obesity and cardiovascular diseases, when food resources have become,
at least for a part of the human population, abundant until the point of excess. Changes in
lifestyle (sedentary, and cooler climates) have transformed a favorable genetic condition
into a trait of selective disadvantage.
129
Rocco Pititto
1999: 177-182)5. The presence of this gene is not related to the inheritance of
schizophrenia, but with the inheritance of lateralization. In these terms, schizophrenia is born with human language. On this assumption of lateralization,
even Corballis converges, noting that in subjects suffering from schizoid
personality traits, a more than the average presence of ambidexterity in manual
tasks is reported, and there is also some evidence that real schizophrenia
would show a high incidence of mixed or ambiguous manual tasks (Corballis
2008: 245; but also 1997).
Timothy Crow (1998) accepts the thesis of Annett and Corballis, but brings
it out of an ontogenetic plan to a phylogenetic one, he says that both language
and schizophrenia have a common origin, due to an evolutionary processes of
lateralization of the brain, that happen in the case of the development of
language, but failing in the case of the advent of schizophrenia. This failure is
inscribed, assuming it is reformulated according to the theories of Crow, in the
existence of the function of the linguistic lateralization. Schizophrenia, in other
words, has its matrix in language and constitutes one of the many events in
which the processes that animate biological and mental life take shape.
2. The basis of schizophrenia
The term “schizophrenia” covers a wide range of pathological behavior in
subjects with mental disorders, investing cognitive, linguistic and relational
abilities. Schizophrenia can be defined as a disease characterized by the
presence of a cluster of symptoms that, by joining amongst themselves in
varying degrees, determine the pathology itself and together define the
syndrome. The disorganization of thought is accompanied by significant
alterations in the context of verbal and non-verbal communication and in the
context of social relations of the patient. Incoherent thoughts, delusions,
hallucinations, persecutory manias, "empty" words, speeches without sense, they
are some of more significant pathological symptoms. On the relational side,
pathological characterization involves the schizophrenic subject developing
forms of flattening and affective discrepancy, continuous fuzzy delusions, forms
of auditory hallucinations, loss of all planning and awareness of an immediate
future, the non-acceptance and rejection of others and the inability to establish
relationships with others. The beginnings of this disease occurs mainly at a
young age, around fifteen to sixteen years old, and in slight forms. In adulthood,
the pathology takes a progressive course, tending to become chronic and with
5
See also Annett (1985).
130
Language and schizophrenia: a common origin?
possible relapses. There are some possible forms of remission, in the presence,
above all, of an accurate and correct diagnosis of schizophrenia. Remission does
not mean, however, final exit from schizophrenia.
The origin of this disease is still unknown and our understanding of it is not
yet adequate. Recognizing positive and negative symptoms as constituents of the
syndrome is not decisive. It can be said that "despite the progress in dimensional
psychopathology of schizophrenia, the problem of the missing link in the chain
of events that the molecular alterations lead to remains unresolved in the clinical
picture of schizophrenia. There is, in other words, an explanation for the link
between structural alterations, biochemical and neural networks within the life
and behaviour of a "disaster schizophrenic" (Brugnoli et alii 2008). According to
the most recent research of evolutionary psychiatry, schizophrenia could be seen
as a mental disorder that we could consider as a further evidence of the thesis
based upon “secondary effects”. Schizophrenia is, therefore, the price that the
human body has had to pay for the acquisition of language.
Since the times of the Egyptian and Greco-Roman world, antiquity has
recognized schizophrenia – without, however, describing its pathological traits
– already in its etymology (schizein - phreno) the expression indicates the
characteristic of division (Spaltung) and fragmentation, which characterizes the
mental and, correspondingly, linguistic and relational activity in the
schizophrenic subject. By affirming that this form of mental cleavage does not
mean that the individual schizophrenic is missing the whole or part of the
mind, this means only that it no longer has an its internal coherence, namely,
that it is split into parts intended to meet. In other words, what is missing, it is
a “Self”, capable of restoring to a unit the different psychic functions and
events of the individual and to coordinate all of the mind’s activities.
Therefore, the connection between language and schizophrenia is quite
apparent and rather controversial. A thesis suggests that this connection can be
inferred to a common origin between language and schizophrenia, as proposed
by Crow, referring to previous studies of Annett. This thesis is criticized by
Corballis, who introduces useful elements to the position of the problem and
its clarification, on the basis of his hypothesis of a gestural origin of language.
Recent studies on schizophrenia allow a description of the syndrome,
starting, above all, from the "division" of the mind of the pathological subject,
that determines cognitive, linguistic and behavioral events that are almost
"strange" if compared to other subjects who are not affected by the same
pathology: the state of the schizophrenic mind is chaotic. The picture of
schizophrenia’s symptoms is widespread and undermines the overall cognitive
field – relative to thought, perception, language and creativity –, as well as the
131
Rocco Pititto
behavioral and relational ones. The age of onset is between 15 and 54 years.
Dissociation in the formation of ideas, with repercussions on linguistic
expression, and destruction of the unity of Self and of the image of his own
body, are two of the main characteristics of the disease. The schizophrenic
subject lives his condition of life as if he was in a world apart, a "private"
world, not intersecting with the world of "others". The world of schizophrenia
remains alien and incomprehensible.
Language ceases to be an instrument of mediation between the inside and
the outside world, between the world of the Self and the world of the Others: it
is as a world divided between “Us “and "Them”. And between these worlds,
every encounter is denied.
During modern times, the study of schizophrenia owes a lot to the
research of Emil Kraepelin (1856-1926) and Eugen Bleuler (1857-1939), without
forgetting the pioneering contributions of Philippe Pinel (1745-1826) and Jean
Etienne Dominique Esquirol (1772-1840), founder of the modern psychiatric
clinic. Bleuler (1911) is the fisrt to use the term "schizophrenia", emphasizing
the rule of mental dissociation as specific schizophrenic disorder syndrome
and distinguishing between fundamental symptoms (impairment of the
association, inadequacy of affectivity, presence of mixed attitudes, and forms of
autism) and accessories symptoms (delirious, un-coherent elocution, catatonia).
Kraepelin, in 1893, defines the pathology as “dementia praecox”, distinguishing it from maniac-depressive psychosis and providing an as much detailed
description of the syndrome as he could. A description that has not yet been
overcome, even today, the more accredited international manuals refer to his
work in order to describe the symptoms of the disease. He justified the term for
this disease, observing that it was a pathology starting at a young age and is
intended to be acute. Kraepelin has the merit of having better organized the
study of this disease giving an internal consistency in a series of clinical
pictures proposed in those years by Pinel, Morel, Hecker and Kahlbaum, thus
creating a more precise description of schizophrenic symptoms.
Characteristic symptoms of schizophrenia include a series of malfunctions
in different areas of primary importance to the existence of the human subject,
such as cognitive, linguistic, emotional and relational areas. The range of problems in individuals affected by schizophrenia is very extensive, although typically patients manifest only some of these problems and they manifest themselves according to certain frequencies. The DSM IV (APA 1994) recognizes 15
different categories of mental disorders. Among these disorders, we find,
according to this Diagnostic Manual, schizophrenia at the top of the list.
132
Language and schizophrenia: a common origin?
The essential features of Schizophrenia are a mixture of characteristic signs and
symptoms (both positive and negative) that have been present for a significant
portion of time during a 1-month period (or for a shorter time if successfully
treated), with some signs of the disorder persisting for at least 6 months […].
Characteristic symptoms (Criterion A) may be conceptualized as falling into two
broad categories—positive and negative. The positive symptoms appear to reflect
an excess or distortion of normal functions, whereas the negative symptoms
appear to reflect a diminution or loss of normal functions. The positive symptoms
(CriteriaA1-A4) include distortions or exaggerations of inferential thinking
(delusions), perception (hallucinations), language and communication (disorganized speech), and behavioral monitoring (grossly disorganized or catatonic
behavior). These positive symptoms may comprise two distinct dimensions, which
may in turn be related to different underlying neural mechanisms and clinical
correlations: the "psychotic dimension" includes delusions and hallucinations,
whereas the "disorganization dimension" includes disorganized speech and
behavior. Negative symptoms (CriterionA5) include restrictions in the range and
intensity of emotional expression (affective flattening), in the fluency and
productivity of thought and speech (alogia), and in the initiation of goal-directed
behavior (negative volition). (274-275)
Once a patient is diagnosed with schizophrenia, we can have four principal subtype diagnosis. Each subtype is based upon the types of symptoms the
patient experiences. It is interesting to note that in these four syndromes
linguistic expression is deteriorated and compromised, depending on thought
which itself is deteriorated and compromised, without internal coherence:
1. Paranoid Syndrome: usually in adulthood, primary symptoms include
linguistic expressions characterized by delusions and hallucinations;
2. Catatonic Syndrome: physical movements are extremely slow, primary
symptoms include linguistic expressions characterized by delusions and
hallucinations;
3. Hebephrenic Syndrome: usually at an early age with prognosis, primary
symptoms include verbal incoherence, moods and emotions that are not
appropriate to the situation;
4. Undifferentiated Syndrome: Drive and determination are lost and goals
abandoned, so that the patient’s behavior becomes characteristically aimless
and empty of purpose; syndrome evolution is slow, but not dramatic, and the
prognosis is negative.
In the tenth edition of the ICD-10 (WHO 1992-1994), we can see the same
classification, but more characterized in terms of the linguistic manifestations
of this pathology. Here, schizophrenia manifests itself under three main forms:
a) paranoid, characterized by episodes of delirium with persecutory and\or
megalomania content but without serious language alterations; b) hebephrenic
(or disorganized), it is observed in young patients, and characterized by
133
Rocco Pititto
affectivity alterations and language disorders (i.e. equivoques, use of new and
incomprehensible words): thought is disorganized and speech is rambling and
incoherent; c) catatonic, characterized by catalepsy, muteness, prolonged standstills, muscle stiffness, absence of affectivity. The alteration is, above all, motor.
The catatonic patient does not respond to the instructions and commands and
answers by repeating phrases said by others6.
If the disorder has a mental origin, its manifestation is, above all, linguistic.
Within language, in fact, the schizophrenic expresses his inability to possess a
coherent “Self” and to compare it to the external world: the cleavage of “Self”
involves the fragmentation of the world. Within the schizophrenic experience,
everything is divided and fragmented, including mental, linguistic and relational activity. Similar to paranoia or autistic diseases, within the schizophrenia
disorder the linguistic abilities of patients remain unchanged. Phonology,
morphology, syntax and vocabulary of the language spoken or written by the
schizophrenic, paranoid or autistic subject, it does not transgress any of the
rules that govern linguistic competence. Patients use the same linguistic form,
but the contents are devoid of logical connections. The activities of the mind do
not have a logical unanimous direction. Clinical manifestations of schizophrenic psychopathology are traced back to two disease processes, both which are
relatively independent, even though they are interactive: positive and negative
symptoms. The first indicates an alteration of the normal mental function, the
second indicates its reduction or loss. This distinction is not new, Bleuler (1911)
introduced it by considering fundamental symptoms as negative and
accessories as positive.
According to research published in the Journal Proceedings of the National
Academy of Sciences (Sawamura et alii 2005) we can recognize a protein (which
in its abbreviated form is called DISC1, Disrupted-In-Schizophrenia) that is
distributed in a unique and characteristic way among the brain cells of patients
which suffer from severe psychiatric disorders. Previous studies had not yet
associated the gene DISC1 to schizophrenia, but the protein produced by the
gene had not yet been studied in humans: Akira Sawa’s equip, by examining
the orbit frontal cortex – namely a region of the brain involved in emotions and
in the mechanism of reward – has analyzed the protein DISC1 during the
6
The classification of the ICD-10 describes three other less grave forms of schizophrenia.
Among these are considered: the schizophrenia simplex, without manifested psychotic
symptoms and characterized by a progressive development of behavioral idiosyncrasies,
as lack of desire, emotional flattening; undifferentiated schizophrenia, in which none of the
symptoms appear; residuing schizophrenia, which presents negative symptoms, after an
more or less prolonged acute period.
134
Language and schizophrenia: a common origin?
autopsy of normal individuals and patients suffering from schizophrenia,
bipolar disorder, and depression.
3. Timothy J. Crow and the study of schizophrenia
Why – asked Tim Crow – are we able to recognize schizophrenia only in
humans, and not, for example, in chimpanzees, which are, in biological terms,
the animals closest to humans? In order to answer this question, Crow refers to
the presence of schizophrenia on the one hand as a form of anomaly in human
evolution and, on the other hand, to cerebral asymmetry, already recognized
by Broca (1877). The theoretical path of Crow dealing with schizophrenic
etiology is quite linear: lateralization proceeds from cerebral asymmetry; then,
if a successful lateralization leads man to language, then a failed one leads to
schizophrenia. According to Crow, this is sufficient to exclude that schizophrenia may be related to chimps, even though the research has not yet
reached sufficiently large and scientifically credited results on the field. In this
way, the lack of language in the great apes evolution should be linked to the
absence of schizophrenia: among the anthropomorphic primates, only humans
can be schizophrenic, because it is the only species that possess language.
Thus, in Crow’s hypothesis, language and schizophrenia, which are opposite
on the level of cognitive and linguistic experience, have therefore a common
origin: without language there is no schizophrenia.
In the early Eighties, in order to respond to some questions posed by
research on schizophrenia, Crow (1985)7 re-proposes a dichotomous classification of schizophrenic symptoms, grouping them into positive and negative
and giving them a different characterization. This classification is based on the
idea that the two groups of symptoms are the epiphenomenon of two different
types of schizophrenia: one, without significant structural damage, due to a
iperdopaminergic state, and the other as a consequence of a structural brain
deficit. On the basis of the prevailing symptoms and other clinical features (i.e.
the onset of the disease, the response to the treatments and the findings of the
TAC), Crow distinguishes two schizophrenic syndromes: Type I, that is mainly
characterized by negative symptoms, and Type II, that is mainly characterized
by negative symptoms (i.e. of the affective flattening and poverty of the gab)8.
In the Seventies, Crow had theorized a correlation between ventriculomegaly and symptoms
predominantly TYPE 1 rather than TYPE 2 (i.e. deficit in cognitive functions, of movement,
anhedonia, avoidance) and he has assumed a retroviral origin of schizophrenia (Crow 1980).
8 Really, in schizophrenia, positive and negative symptoms are together present and interconnected both transversely and longitudinally, so much so that Nancy C. Andreasen
(1983, 1984) talks about mixed form (type I and type II). See also Andreasen et alii (1995).
7
135
Rocco Pititto
In Crow’s investigation, the link between this first description of schizophrenia
and the ways in which it is manifested in the behavior of the schizophrenic –
especially in mental activities and linguistic expressions – means one should
investigate not only schizophrenia in general, but also on its main events, and,
over all, on the language of the schizophrenic, which "deposits" and "gives
body" to the syndrome in itself. It is through these steps that the English
psychiatrist can propose his hypothesis on the common origin of schizophrenia
and language. In fact, the research on schizophrenic pathology leads Crow to
recognize the close correlation between schizophrenia and language: this
circumstance appears fairly obvious, considering that we can have full
awareness of the schizophrenic pathology only by observing its manifestations
in language, as well as behavior. Thus the next step is saying that the origin of
schizophrenia is linked to the origin of language. During his evolution, the
homo Sapien reaches the level of language, differently as opposed to other
animals which not are human, but not all the evolutionary processes which led
the human being to language are properly developed. Programming errors
and "failures" in the mechanisms of the acquisition of language skills are
possible especially after that the human being has reached, within the
language, a prominent position on the biological scale. Schizophrenia should
be one of these programming errors, a true "failure" in language learning. In
this evolutionary perspective, Crow makes the decisive step in the construction
of his theory, declaring not only a common origin but, over all, that language
and schizophrenia are born together.
Crows’ theory on evolutionary origins of language is based on two specific
aspects, both which are crucial to understanding the question in itself. The first
is represented by the idea of language as a foundational event, according to
which language is a specific skill of the human being that has separated the
modern Homo sapiens from the first hominid specie. The second aspect is
represented by the concept – already theorised by Broca – of asymmetry, which
is recognized as a specific characteristic of the human brain:
The four chambers of the human association cortex thusly created allow the
separation of “thought” from the speech output and “meaning” from the speech
input, these abstractions representing the associations in the non-dominant hemisphere of the motor and sensory phonological representations in the dominant
hemisphere. The nuclear symptoms of schizophrenia are conceived as manifestations of the breakdown of the boundaries between these four compartments, and
thus indicating the necessity of the separation of motor and sensory speech
engrams as the basis for the speaker-hearer distinction. (…) In this sense the nuclear symptoms are disorders of the syntax of universal grammar (Crow 2004: 125).
During the formulation of his thesis, Crow proceeds from two epidemiological data results that emerge from the study of schizophrenia. As already
136
Language and schizophrenia: a common origin?
stated Jablensky (1992), the first relates to the fact that schizophrenia is a
disease of "ubiquitous" type, and is almost invariable, since it is present in the
same proportion (generally 1%) in all parts of the world and in all ecoenvironmental and social contexts. Given the spread of the disease within all
human groups, the cradle of schizophrenia would be Africa, before the great
migration. The second element of data concerns the fact that schizophrenia
manifested itself in patients from 18 to 35 years old. From this point of view,
schizophrenia is a disease from the reproductive age. Working on this data, Crow
can suppose that the disease is not tied to a specific gene, which would be
hereditary, in this case it would be extinct in a few generations, according to
the Mendelian laws of reproduction, as it is the case for other diseases. Thus,
Crow can say that schizophrenia is a disease inherited by a phylogenetic and
not with an ontogenetic point of view. In fact, what is manifested is a mutation
linked to the entire human species, when the homo sapiens, who arrived at the
level of language, began to develop asymmetric and specialized brain
structures. Therefore, schizophrenia would be the price that Homo sapiens pay for
language (Crow 1997).
According to Crow, there is a structural, physiological characteristic,
which binds the human brain to schizophrenia since its inception. To explain
this, he refers to a pioneer of neurology, Paul Broca, who already in 1861
discovers that the area of language is located on the left of the frontal lobes.
Broca also discovers that the human brain is the most asymmetrical brain
existing in nature. Analyzing the volumetric profile of the human brain and the
brain of chimpanzees we cannot observe a big difference between their
hemispheres. But if we analyze surface profile, we can observe that the human
brain presents strong anatomical asymmetries. This is the morphological and
functional variable that Crow was looking for. Symmetry involves, of course, a
lot of implications. If we look at a functional map of the human brain taken
from the top, we can draw trajectories of cognitive processes. Clockwise: from
the thought to the generation of the language, to the perception of language, in
the drafting of the meaning, the thought and so on. Numerous experiments
have verified that schizophrenic patients have less lateralized brain drain than
healthy ones. They don’t lateralize on left, or they even lateralize on right.
Thus, Crow’s hypothesis is that asymmetry is the key to explain he “rise” of
human brain, but also the root of its pathologies, including schizophrenia9.
According to Crow, the characteristic symptoms of schizophrenia could be
explained as a failure to establish the dominance of a key component of
language, with the consequent destruction of the mechanism of indexicality in
9
See also Vignapiano et alii (2010).
137
Rocco Pititto
language that allows the speaking subject to distinguish his thoughts, both
from the speech which he himself has generated, and also from those he
perceives coming from others. Therefore, the experiences of “the theft of
thoughts” or the belief in a microphone installed in the head, would have to
refer to the transmission of thought to speech (i.e. the frontal lobe). Instead the
experiences of voices, the continuous remarks about his own actions, would be
referred to the transition from heard speech to meaning (i.e. the occipitalmedial parietal-temporal region; Crow 2000: 120).
In addition, schizophrenic diseases affect also the intersection among thought,
language and awareness; therefore the hypothesis of Crow reveals that between
schizophrenia and language there is not simply a psychological, nor only a
functional link or a pure co-occurrence of experimental data. On the contrary,
what seems to emerge in this thesis, it is an original kinship of phylogenetic
nature, namely an evolutionary structural characteristic, a "speciation event"
which has marked human history and is no longer erasable (Crow 2005).
With his theory, Crow has brought schizophrenia in the context of those
diseases that are related to language, namely to the linguistic component of the
mind. He has, moreover, given a particular curvature to this relationship: the
schizophrenic language and the delirious auditory events would be simply the
phenomenon correlated to a deeper dysfunction that is related to a more
general function in the anatomical and functional organization of the brain: the
lateralization. The genetic modification of the mechanism that leads to
lateralization would involve, in fact, various anatomical and functional
imbalances, and the same language alterations would be a part of both of these.
Thus, we can see how, grasping the link between the origin of schizophrenia
and the origin of language, this model of evolutionary psychiatry is able to
identify their common occurrence in cerebral lateralization. Since speciation
has appeared, within the differentiation of the evolution line of sapiens-sapiens
from that of the hominids, language has gained an autonomous life, by
allowing the transmission of its cultural component and, therefore, the
progressive ontological complexity of its uses. Just within the loss or also the
functional alteration of ontological language applications, some of these first
humans experienced anti-existential detachment from reality, psychosis,
alienation, or in other words, what we call today “schizophrenia”. That is why
schizophrenia becomes the proof of the uniqueness of human language as a
producer of existential semantics: only after that has the human being acquired
the ability to create real possible worlds through the social use of language,
this capacity may have been lost, but not before. Before the appearance of
rhythm of History, the hominids may perhaps have been affected by muteness
or aphasia, but certainly not by schizophrenia.
138
Language and schizophrenia: a common origin?
Crow continues his investigation wondering about which gene could
differentiate the human brain from that of apes. He tries to answer this question regarding the various theories belonging to the seam of the thesis of speciation of human evolution. According to Crow, the chromosomal adjustment
has played an important role in the development of human uniqueness. More
specifically, we can observe a sudden and significant chromosomal variation
occurring in the translocation from the X chromosome to the Y chromosome of
any given genetic trait; this translocation is followed by an inversion of the Y
chromosome short arm that has created a region of similarity between Xq21.3
and two blocks of the Yp; all of this would have been after the separation of the
chimpanzees from the lines of the hominids. This chromosomal rearrangement has determined that in humans all the gene sequences which in
all other mammals are present on the chromosome X are localized only on
chromosome Y. (Crow 2002: 296).
Since the disposition of analogue regions on the Y chromosome are
universal in modern males, these changes may have been selective and
chromosome changes constitute the event of "speciation" in the evolution of the
hominids. The first rearranged can have a possible correlation in the transition
from –hominid-chimpanzees to Australopithecus, the second one has a possible
correlation in the transition from the Australopithecus to modern Homo sapiens.
In the Xq21.3/Yp region of homology, a coupled gene has been identified,
encoding molecules by means of adhesion of the cell surface, ProtocadherinXY,
that has been subject to evolutionary acceleration in the hominid line in
contrast with the relative stability of the sequence on the X chromosome in
earlier primates. This gene is therefore a candidate given by the cerebral
dominance of language.
4. Corballis vs. Crow
According to Corballis, the complexity and the creativity of human
language are unmatched in any other form of non human communication,
probably because they are based on very different principles. Restating the
ideas that Condillac had already developed in the 18th century about the
gestural origin of language, Corballis proposes that language has evolved not
by the vocal calls of our ancestral primates, but rather by their manual and
facial gestures. Specifically, the use of language in humans has its seat in the
hands before, than later in the mouth. The transition from the hands to mouth
determines a transformation of language, which becomes verbal from gestural.
Beginning from the question about the causes of language origin, Corballis
argues that the relationship between arbitrary sounds (that we call words) and
139
Rocco Pititto
the matter of the real world (a world available to us thanks to sight and touch
rather than through the hearing) involves, necessarily, the gesture. Therefore, a
rising recognition of signed languages as “real” languages, namely languages
with the same expressive and generative capabilities as spoken language, has
given a powerful boost to the idea that language was born as a sign system and
that, perhaps, it could have risen up to grammatical status even before it was
spoken language. (Pititto 2010)
Corballis takes into consideration the primates from whom we as humans
descend. The most typical corporeal characteristic that all the primates share is
the hand. A hand which adapts itself to gripping, with flexible fingers and
enforceable thumb that allows a closed position. The arms and the hands of
primates are also well suited to reach and grasp objects of all measures;
primates are also equipped with a highly developed visual apparatus. In
addition, it is estimated that about half of the primates brain is involved in
vision and the visual apparatus of apes is as developed as that of humans.
Therefore, with a highly-developed control of hands and arms and an accurate
three-dimensional vision, primates possess a natural basis for communicating
of the world. The movements of the hands and arms can be controlled by
higher centers of the cerebral cortex, while the vocalizations are controlled by
sub cortical areas that are more primitive. This means that the movements of
the hands can be intentional, while the vocalizations are mainly related to fixed
situations. Thus, it is clear that it is necessary in order to communicate, for us
as well as the chimps, which we recognize as having a correspondence
between our bodily actions and those received in the other.
A mechanism like this seems to be in the brain of macaques, as a result of
the research conducted at the University of Parma by Giacomo Rizzolatti and
his working group (Rizzolatti 2006, Iacoboni 2008). Certain neurons have been
identified, called “mirror neurons”, which respond to a stimulus even when
the monkey observes humans doing the same motor actions that have
triggered the correct answer when made by the monkey. Rizzolatti has called
them “mirror neurons” because they seem to provide a mirror between action
and perception. In essence, what we see is what we do. These neurons with the
same functions were also recorded in an area which appears to correspond to
an area of the human brain involved in the production of language, area F5 or
the area of Broca: “This reinforces the speculation that mirror neurons constitute
a precursor to language, which also requires a mapping between the
production and the perceptions of complex actions” (Corballis 2002: 46).
Corballis underlines that the actions are manual, not vocal, strongly suggesting
a gestural origin for language: “At some point, perhaps late in human evolution, gesture yielded to vocalization, although Broca’s area seems to play
much the same role in sign language in the deaf as it does in spoken language
in those who speak” (47).
140
Language and schizophrenia: a common origin?
According to this hypothesis, evolution would have led to another differentiation: in most humans, Broca’s area is localized in the left brain hemisphere,
while the mirror neurons were detected in both hemispheres of the macaque
brain. In the human brain, lateralization is a result of complications of
programming; and it is no coincidence that the lesions that sometimes
determine the agrammatism, are located near the Broca’s area. It is now quite
clear that even in humans there are mirror neurons, and not only in those who
use sign language. What is also clear, is that the Broca’s area seems to hold the
functional supremacy, organizing not only actions, but also their perception,
although their effective implementation depends on the motor cortex. In
addition, the Broca’s area also plays a part in the integration of movements of
the hands and vision, a role that in humans has been confined to the left
hemisphere but that has nothing to do with the language voice.
Therefore, Corballis begins to wonder if the language is really something
so special as Chomsky and others believe. Of course, even the gestures made
by Rizzolatti’s macaques seem to not be too much involved with language
itself, although it could be a primitive form of communication in which the
specific actions of an animal correspond to the same actions of another. This
theory is known as the motor theory of perception of language, to which
Corballis refers. In addition, the mirror neurons suggest that the origins of
expressive language could be traced to tens of thousands of years ago, to a
common ancestral primate, and they could be the result of visual-manual,
rather than auditory-vocal adjustments. Language, therefore, would have been
sent not with the mouth, but with a passing hand.
To reinforce this point of view, Corballis, takes as an example, the
languages of signs, namely the language used by deaf-mute people; although
in the course of history many schools for individuals with a hearing disorder
have been established, the marked languages have a spontaneous origin, they
were born, in fact, in a completely natural way between these individuals in
order to communicate and understand each other amongst themselves: “
human beings do indeed have an innate ability for language, and cultural
transmission is not a necessary ingredient ” (107). The basic idea of Corballis is
that sign languages are closer to the biological adaptations that gave origin to
grammar and to the ability to represent themselves inwardly to objects and
actions rather than to the cultural input. In other words, sign languages could
be more natural then cultural. There is the suspicion, however, that the first
sign languages included the voice, even if the gesture was dominant. The
ability to speak, however, is an independent vocal language, which was
developed later in Homo sapiens. This is because relevant anatomical changes
were necessary to ensure that primates capable only of bestial growls and
involuntary verses like our ancestors, could use to become humans fully
capable of vocal articulations.
141
Rocco Pititto
There are changes that refer to the structure that produces vocal sounds:
the larynx, the innervate surface of the tongue and the control of breath; but
these changes are not sufficient to explain the appearance of spoken language.
To emit sounds, we have to synchronize sound production and the movements
of specific organs (i.e. tongue and lips); therefore, to be able to really talk about
something, we need to have brain structures available; in substance, we need a
brain. In particular, Corballis considers the left hemisphere, whose original
specialization is motor activities: the structures and neural circuits of this
hemisphere control the movement of the fingers, hand and arm, as well as
those of the larynx, mouth and lips. There is, therefore, a close association
between motor and linguistic centers: in this sense we can read herein the
motor theory developed by Corballis. Among the changes that occurred in
humans throughout the course of time, in particular, the human brain has
changed, becoming bigger. We can also observe an increase in the volume
concerning especially the cerebral cortex, or Broca’s area, which seems – as
Chomsky has underlined - to be just a small part of the left hemisphere that is
lacking in chimpanzees and that is involved in a decisive way in the
production of spoken language. Therefore, the idea of Corballis is that the
expansion of these brain regions which have a bearing with language have had
an effect on language in general, and, perhaps, even on the design and
implementation of complex actions, rather than only on spoken language.
These are the key ideas of motor theory developed by Corballis that inevitably
collide with the evolutionary theory of language developed by Timothy Crow.
In particular, Corballis put the emphasis on the concept of manual human
asymmetry that would have a biological rather than cultural origin.
Crow supports the existence of a gene located in the homologous
(matching) regions of sexual chromosomes and this would lead the cerebral
asymmetry and therefore the separation of the Homo sapiens from chimpanzees. According to Corballis: “the handedness gene should be understood as
hypothetical, with much the same status as the hypothetical particles proposed
by Mendel” (173) and if true “this would at least narrow the search for it, but I
have myself argued that it is unlikely to lie on both the X and Y chromosomes,
although a case can be made for supposing that it might lie on the X
chromosome alone” (172) The hypothesis of Crow, according to which the
appearance of the gene that confers the dominance of a hemisphere over the
other has determined the event of speciation, thus creating modern Homo
sapiens, equipping them with language, cerebral asymmetry and theory of the
mind. Putting it also at risk of psychosis, which would be too daring a
hypothesis for Corballis, because it would perhaps give excessive importance
to a single mutation. On the basis of the considerations of Crow, Corballis says
that “all it took for us to graduate from apes to humans was the throw of a die
some 170, 000 years ago” (183).
142
Language and schizophrenia: a common origin?
Therefore language would have appeared late and relatively suddenly,
perhaps with the appearance of our species. According to Corballis, instead,
language developed in a much more gradual way, first with the gestures of
great apes, then gaining the initial impetus with the appearance of biped
ominini. The apparition about two million years ago of Homo, with his more
voluminous brain, this may have led to the birth and the subsequent
development of syntax, with an ever-greater role entrusted in vocalizations.
Which may have marked the Homo sapiens with the concluding passage from
a mixture of gestural communication and voice to an independent voice
language, accompanied by gestures but without being dependent on them.
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144
Il linguaggio segnico dello sguardo,
nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
Carlo A. Augieri
Dipartimento di Filologia, Linguistica e Letteratura,
Università del Salento
email:carlo.augieri@unisalento.it
Nell’incontro umano prima ci si guarda, gli occhi “dialogano” prima di
ogni parola. È nel guardarsi che nasce la prima impressione figurativa nel
percepire l’altro, nel coglierne la somiglianza, la differenza, da cui scaturisce
un’emozione di simpatia o antipatia “indifferente”. Eppure, ancora non è
intervenuta la parola nel “dire” qualcosa.
Forse, la parola nominativa e designativa nasce quando si cerca di determinare il “senso proprio” delle cose: quando si vogliono definire le proprietà
degli oggetti, al fine di appropriarsene, per utilizzarle.
Nell’impressione percettiva e nella relazione emotiva, l’unità sinestesica di
sguardo-udito è primaria e sovrana, sì da lasciare “in silenzio” la parola: nella
paura o nell’attrazione passionale subentra un pre-linguaggio “interiezionale”
che ritarda la nascita del dire. La quale limita l’immaginazione impressiva,
riduce l’intimità muta e segreta tra emozione e “tu” del mondo, facendo
affiorare l’ “egli” dell’altro, l’ “esso” delle cose, il “che cos”’ dell’intorno, da
dove l’io si esclude ponendosi dentro l’area scelta di un “contorno”.
Sulla semantica dello sguardo, con annessa la segnicità del pianto, è stato
detto molto; mi limito qui a soffermarmi su alcune riflessioni di Roland Barthes,
che, a proposito dei tratti del viso dei Giapponesi, parla ne L’impero dei segni
(1970) della palpebra e dell’occhio, configurato quest’ultimo come “l’impronta
ritagliata d’una foglia, la traccia distesa d’una larga virgola dipinta” (118).
Dall’osservazione dell’occhio e dal bisogno di significarlo all’interno della
tipologia “mentale” ed emotiva dello sguardo, non può mancare, nell’attenzione del semiologo, il confronto con l’occhio occidentale, che:
E’ assoggettato a tutta una mitologia dell’anima, centrale e segreta, in cui il fuoco,
protetto dalla cavità dell’orbita, irradierebbe in direzione di un’esteriorità carnale,
sensuale, passionale; invece il viso giapponese è privo di una gerarchia morale; è
intieramente vivo, vivace perfino (contrariamente alla favola della ieraticità
orientale), perché la sua morfologia non può essere letta “in profondità”, cioè
145
Carlo A. Augieri
secondo l’asse di un’interiorità. Il suo modello non è scultoreo, ma scritturale: il
viso giapponese è una stoffa morbida, fragile, fitta (la seta, naturalmente),
semplicemente e come immediatamente scritta in bella grafia da due tratti: la
“vita” non è nella luce degli occhi, è nel rapporto senza segreto tra una spiaggia e
la sua fenditura; in quello scarto, in quella differenza, in quella sincope che sono,
così si dice, la forma vuota del piacere. Con così pochi elementi morfologici, la
discesa nel sonno (…) risulta un’operazione leggera: senza ripiegamento della
pelle, l’occhio non può ‘appesantirsi’: non fa che percorrere i misurati gradi
d’un’unità progressiva, manifestata a poco a poco dal viso: occhi bassi, occhi
chiusi, occhi “addormentati”. Una linea chiusa si chiude ancora di più in un
abbassamento di palpebre che non finisce (Barthes, 1970: 119-122)
La riflessione barthesiana è importante per capire lo sguardo “proprio”,
con cui l’autore osserva lo sguardo “altrui”, perciò merita una riflessione
attenta, non semplicistica, soprattutto se si connettono due parole, tra loro
strettamente contigue e ricche di implicazioni semantiche, in rapporto
all’occhio-sguardo nella differenza d’identità tra modo di vedere e modo di come
far vedere l’occhio occidentale, confrontato con l’occhio orientale: anima e
segreto. Ha ragione Barthes: tutta la fisiognomica occidentale fonda il binomio
di interdipendenza iconica tra occhio ed anima, sì che il primo è metaforizzato
come “specchio” dell’anima, la quale, avendo sede nell’interiorità invisibile del
corpo, è sede essa stessa del tempo (si pensi all’agostiniana intentio et distensio
animi, per la quale il presente dell’attenzione è anche presente del passato
memoriale e presente del futuro tensionale, desiderante) e del segreto: che è di
natura temporale, visto che esso si rapporta alla nostra soggettiva memoria e alla
nostra intima attesa. L’occhio orientale, essendo non considerato da quella
cultura secondo l’intermediazione dell’anima, è libero dall’interiorità, perciò
emancipato dal tempo e dal segreto, tant’è vero che esso è: una stoffa (…)
semplicemente e come immediatamente scritta in bella grafia tra due tratti: la “vita” non
è nella luce degli occhi, è nel rapporto senza segreto tra una spiaggia e la sua fenditura.
Confesso che una volta tanto mi piace “sentirmi” occidentale (ovviamente,
per tanti altri motivi, mi sento anche “orientale”: le culture si intersecano, si
completano insieme, non si separano), se questo significa affidare all’occhio la
rappresentatività dell’anima, dunque la stratificazione del tempo e la
sospensione del senso a tutti i costi comunicativo, qual è quello espressivo e
non comunicato del segreto. A proposito della palpebra piegata, Barthes
evidenzia come essa renda facile, leggero, il sonno, perché di fatto l’occhio è già
semichiuso, quindi quasi addormentato pur nella veglia (la discesa nel sonno
risulta un’operazione leggera … una linea chiusa si chiude ancora di più, in un
abbassamento di palpebre che non finisce): anche per questo motivo, guardo con
partecipazione l’occhio occidentale, purché esso, più aperto per la palpebra
alzata, “scorga”, ascoltando, in modo più vigile, attento, le responsabilità della
146
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
storia, il richiamo dell’altro: in caso di bisogno dell’altro, la palpebra già aperta
rende l’occhio in grado di meglio guardare la condizione del volto dell’altro e
rispondergli più prestamente, corrispondendo. Dopo queste mie considerazioni “stravaganti”, per le quali mi scuso: vogliono essere solo risposte “di
simpatia” verso le provocatorie e coraggiose osservazioni di Barthes, focalizzo
l’attenzione su due sue considerazioni, rivolte allo sguardo ed all’occhio umani,
senza classificazione geografica, senza distinzione fortemente identitaria: la
prima riflessione è rivolta all’occhio-sguardo di S.Ignazio di Loyola; la seconda
si sofferma sullo sguardo-occhio dell’innamorato, di ogni innamorato, sia
orientale, sia occidentale. Di questi due sguardi, del mistico e dell’innamorato,
mi intrattengo, a proposito delle note di Barthes, su un elemento che accomuna
entrambi e che veramente appartiene all’occhio globale, a quello immenso del
“globo” abitato dall’uomo: il pianto. In effetti, si piange soltanto con gli occhi e
si piange non soltanto come uomini distinti dal mondo animale: a differenza
del riso, che, a detta di Aristotele, separa l’uomo dalla bestia, le lacrime, invece,
appartengono ad entrambi: prova che tutto ciò che riguarda l’occhio e da esso
proviene oltrepassa ogni confine, ogni separazione: i nemici appartenenti a
frontiere opposte non si toccano, ma si guardano (purtroppo, allo scopo di
rendere inesistente, “invisibile”, l’altro, che si guarda “con mira”); così il pianto
appartiene al linguaggio del corpo, di qualunque colore, di qualsiasi condizione sociale, con nessuna differenza tra genere (animale) e specie (mammifero,
uomo).
Riprendendo una immagine barthesiana, già citata, riguardante la palpebra,
e cioè che la “vita”, come rappresentata dall’occhio “a mandorla” dei Giapponesi, non è nella luce degli occhi, è nel rapporto senza segreto tra una spiaggia e la sua
fenditura, si può rispondere che, probabilmente, a dare “segreto” al rapporto tra
una spiaggia e la sua fenditura è l’acqua salata del mare, che in essa vi entra,
portando tutta la sua densità antica, ciò che in essa di “intimo” vi è contenuto.
Così deve essere il pianto, le lacrime, fatte di acqua salata del corpo, che escono
dalla fenditura del viso, entro cui è situato l’occhio: le lacrime sono i segni
dell’anima che sgorgano dall’occhio, per questo contengono un significato
temporale ed un segreto intimo, interno alle civiltà ed agli uomini che le
vivono, rappresentandole. A intuirlo, è stato il più sensibile dei poeti,
Leopardi, che nello Zibaldone dedica alle lacrime alcune riflessioni significative,
delle quali cito soltanto due, pertinenti alle considerazioni proposte fin qui:
a) Se l’uomo è immortale, perché i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla
natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardi a se
stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo (…)
ciascuno sa p. esperienza che il dolor che si prova per morti, non è né misto di
147
Carlo A. Augieri
orrore o avversione, né proveniente da tal causa, né di tal genere in modo alcuno.
Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere,
seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita
e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si
tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi
non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti
sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia più. Ma se
crediamo questo, perché lo piangiamo? Che compassione può cadere sopra uno
che non è più? Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi (…) In
verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che
passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo
che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è
più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le
abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono
passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri,
ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un
sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e
c’intenerisce. Da qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove; che il cuor
ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi
pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più
mai: o vero: questo è passato per sempre. Di modo che nel dolore che si prova per
morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa
fondato, il pensiero della caducità umana (Leopardi 1997, vol.II: 2850 -52)
b) Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perché molti sono
sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più
proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove
le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma
non gli potranno trarre una lagrima. Questa e cosa molto ordinaria. Tanta occasione
ha l’uomo di farsi familiare il dolore (2691-92)
I due “pensieri” leopardiani danno alle lacrime il ruolo segnico di esprimere
il rapporto tra coscienza e tempo e, quello più segreto, tra coscienza, tempo e
felicità: esse dimostrano un significato emotivo “naturale”, e cioè che intimamente non si crede all’immortalità dell’anima, per questo si piange; si confida,
invece, nell’ineluttabilità del non ritorno dalla morte: il mai più, il senso
dell’ultima volta, crea uno stato di disperazione, di crisi della presenza, direbbe
E. de Martino, di cui il pianto è sintomo e, nello stesso tempo, è cura, tant’è vero
che da esso inizia la freudiana elaborazione del lutto, la quale avviene
trasferendo l’evento angoscioso nella rimozione rammemorativa, grazie alla
quale separiamo il nostro essere presente dal ricordo della sua crisi, segnata
dall’evento “disgraziato” della morte di una persona cara.
L’altro segreto espresso dal pianto è quello del rapporto, inversamente
proporzionale, tra tempo della maturità e capacità dell’essere felice: man mano
148
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
che si cresce nel tempo in esperienza e senno, ci si rende incapaci di essere
felici. Le lacrime segnano l’intimità di questo rapporto: la loro perdita registra
l’addomesticamento del dolore e l’incapacità di essere felici: in effetti, come si
può piangere per un dolore, se non si percepisce più il suo contrario, la felicità?
Il fatto che al pianto subentri il riso, è significativo dell’habitus interiore di
saper diventare, per contrarietà, ironici: con ciò ci si libera bachtinianamente
dalla gravosa serietà, ma non per questo si diventa felici. In un’altra riflessione
sulla felicità, Leopardi nello Zibaldone scrive che essa: “non è altro che
contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione,
amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse
pur anco il più spregevole” (2751-2), per cui l’essere felice è impossibile
all’uomo, in quanto egli “ama se stesso sopra ogni cosa”. Il suo amor proprio,
in effetti, lo renderà sempre scontento, mai soddisfatto di un suo stato
particolare, della sua condizione, “qualunque sia il bene di cui goda”: perciò,
l’uomo ride del suo mondo con un atteggiamento tra cinico ed umoristico, ma
non piange per esso, dal momento che non se ne lascia rendere felice.
Il pianto è la lingua del segreto e del tempo segreto dell’uomo: la nostalgia
ed il riconoscimento di chi avevamo perduto e poi ritrovato sono accompagnati
sempre da una profonda emozione affettiva, che trova nelle lacrime e poi nella
parola i suoi segni espressivi più spontaneamente pertinenti. Un esempio
testuale interessante è dato da Th.Mann nella sua riscrittura del racconto
biblico, Giuseppe e i suoi fratelli, nel momento in cui Giuseppe sta per rivelare ai
suoi fratelli, soprattutto a Beniamino, il più piccolo da lui più amato, la sua
vera identità:
Giuseppe si era alzato dal suo seggio e le lacrime gli scendevano giù per le gote.
Era infatti successo che il fascio di luce che poco prima era caduto lateralmente sul
gruppo dei fratelli, ora, dopo tacito cammino, veniva a cadere attraverso un
lucernario all’estremità della sala, direttamente su di lui: per questo le lacrime che
gli scorrevano giù per le gote luccicavano come gioielli (…) Ma intanto Giuseppe,
senza badare alle lacrime che gli scendevano lucenti dalle gote, aprì le braccia e si
diede a riconoscere. Più volte si era già dato a conoscere e aveva sbalordito la
gente facendo intendere che qualcosa di superiore si mostrasse attraverso lui,
qualcosa che si fondeva in modo seducente e onirico con la sua persona. Ora disse
semplicemente e, nonostante le braccia aperte, con un lieve modesto sorriso: ‘Ma
sono io, ragazzi. Sono io, Giuseppe, vostro fratello ’ ” (Mann, 1943: vol. II, 1238)
Il pianto di Giuseppe nella ri-narrazione di Mann è, insieme, perdono ai
fratelli, che per invidia l’avevano abbandonato; gioia, comunque, per averli
rivisti; commozione per la vista di Beniamino, felicità per aver visto nel presente
l’assente, di cui però egli sentiva nostalgia: nell’emozione temporale di
Giuseppe c’era un passato (la sua famiglia) che non passava nel suo animo
149
Carlo A. Augieri
rammemorante; c’era un’assenza che affiorava nel voler essere presente: presente, ovviamente, come husserliana presentificazione alla vista, allo sguardo. Le
lacrime testimoniano l’apparire allo sguardo dell’assente sognato, desiderato;
testimoniano pure la nostalgia che si sente nel presente per ciò che appartiene
al passato assente allo sguardo, ma non al ricordo: l’emozione memoriale,
allora, conserva le tracce, le orme (come non fare riferimento alla mneme ed
all’anamnesi platoniche?), per cui chi ricorda sente un passato sempre presente
dentro di sé, che la coscienza evoca, rimembra, richiama. Le lacrime, il pianto,
costituiscono anche nella rammemorazione la polisegnicità del segreto, in
quanto segni evocativi di ciò che manca, di cui si conserva, comunque,
inalterata, senza passato, la traccia; segni contigui a ciò che si richiama al
ricordo, in quanto la traccia affiora in ogni presente della coscienza memoriale,
facendo sentire il peso dell’assenza. Le lacrime, inoltre, sono segni espressivi
dello stupore per ciò che di straordinario accade, quando l’assente ri-viene, riappare, ritorna alla vista, destando la stessa, intemporale emozione di quando
già c’era: il pianto si fa segno di riconoscimento riconoscente per questo
desiderio realizzato, per questa evocazione, che, a furia di richiamo, ha fatto
concretamente apparire. E’ come se l’impronta cessasse di richiamare la totalità,
di cui è parte, perché essa è diventata partecipe del presente evocatore; è come,
per di più, se l’immagine, con cui si ricorda la realtà che non c’era (iconicità
dell’immagine), si animi, riportando la presenza, di cui essa è testimonianza
‘supplente’, per il suo rapporto di somiglianza con l’assenza, con la mancanza.
L’atto del riconoscimento contiene tutto questo magma emozionale, rapportato
alla rappresentazione: il pianto istituisce la partecipazione segnica del corporeo,
che vive il dramma narrativo dell’assenza, man mano che si sviluppa nel
rapporto stretto tra coscienza, tempo ed evento, di cui soggetto protagonista è
l’occhio vedente, anzi la dinamica del vedere dell’occhio l’assente non veduto
prima se non per immagine rassomigliante alla traccia conservata nel ricordo.
Ebbene, le lacrime accompagnano il dramma emotivo del vedere e del non
vedere: in effetti, l’occhio, che non vede ciò che la coscienza rammemorante
vuole vedere, piange; l’occhio, che guarda l’immagine capace di mostrare,
“come se” fosse presente, chi è assente, piange; l’occhio che finalmente vede
nel presente chi prima era assente e che ora riconosce, piange.
Questa divagazione sul pianto era necessaria per ritornare a Barthes, alle
due sue riflessioni sul pianto, a cui prima si è fatto cenno, a proposito del
mistico, S.Ignazio di Lodola (citazione a), e dell’uomo sensibile, innamorato (il
goetiano Werther ne è esempio emblematico), in relazione al quale l’autore
scrive un significativo Elogio delle lacrime (citazione b):
150
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
a) Queste manifestazioni divine, come prevedibile in un campo in cui domina la
fantasia, si stabiliscono principalmente al livello del corpo, di quel corpo
spezzettato la cui frammentazione è appunto la via del fantasma. In primo luogo le
lacrime; sappiamo l’importanza del dono delle lacrime nella storia cristiana; per
Ignazio, queste lacrime molto materiali (ci viene detto che i suoi occhi neri erano
sempre un po’ velati a forza di piangere) costituiscono un vero e proprio codice, la
cui materia è differenziata in segni secondo il loro tempo d’apparizione e la loro
intensità. C’è inoltre il flusso spontaneo di parole, la loquela (di cui, a dire il vero,
non si sa molto bene la natura). Ci sono anche quelle che si potrebbero chiamare le
sensazioni cinestesiche, diffuse attraverso il corpo, ‘prodotte nell’anima dallo
Spirito Santo’ (Ignazio le definisce devozioni), quali i movimenti di elevazione, di
tranquillità, di allegrezza, i sentimenti di calore, di luce o di avvicinamento
(Barthes, 1971: 63)
b) Elogio delle lacrime. Piangere: Particolare propensione a piangere del soggetto
amoroso: modi di apparizione delle lacrime e loro funzione nel soggetto in
questione (…) Quella di lasciarsi andare a piangere è forse una peculiare
predisposizione del tipo amoroso? Sottoposto all’Immaginario, l’innamorato non
si cura minimamente della censura che oggi tiene l’adulto lontano dalle lacrime e
attraverso cui l’uomo intende affermare la sua virilità (…) Dando libero sfogo alle
lacrime, l’innamorato rispetta gli ordini del corpo amoroso, che è un corpo
bagnato, in espansione liquida: piangere insieme, sciogliersi insieme: dolcissime
lacrime concludono la lettura di Klopstock che Carlotta e Werther fanno in
comune. Chi dà all’innamorato il diritto di piangere, se non un rovesciamento dei
valori, di cui il corpo è il primo a fare le spese? Egli accetta di ritrovare il corpo
bambino. Ma qui, oltre al corpo amoroso, vi è anche un corpo storico. Chi scriverà
la storia delle lacrime? In quali società, in quali epoche si è pianto? Da quando gli
uomini (e non le donne) hanno smesso di piangere? Perché a un certo momento la
“sensibilità” è tornata ad essere “sensibileria”? (…) La nostra società reprime il suo
inattuale proprio nelle lacrime dell’innamorato, facendo in questo modo
dell’innamorato che piange un oggetto perduto il cui annullamento è necessario
alla sua “salute” (…) Forse “piangere” è un po’ generico; forse non bisogna far
risalire tutte le lacrime a un medesimo significato; forse nello stesso innamorato vi
sono più soggetti impegnati a “piangere” in modi simili, ma diversi. Qual è quell’
“io” che ha “le lacrime agli occhi”? Qual è quell’altro “io” che, un tal giorno, è
stato “lì lì per piangere”? Chi sono io che piango “tutte le lacrime del mio corpo”?
o che, svegliandomi, verso “un fiume di lacrime”?
Se ho tanti modi di piangere, forse è perché, quando piango, mi rivolgo sempre a
qualcuno, e perché la persona a cui le mie lacrime sono destinate non è sempre la
stessa: io adatto i miei modi di piangere al tipo di ricatto che, con le mie lacrime,
intendo esercitare intorno a me. Piangendo, voglio impressionare qualcuno, fare
pressione su di lui (…) Questo qualcuno potrebbe essere – ed è quasi sempre –
l’altro, che si vuole in questo modo costringere ad assumere apertamente la sua
commiserazione o la sua insensibilità; ma potrei anche essere io stesso: mi faccio
piangere per provare a me stesso che il mio dolore non è un’illusione: le lacrime
sono dei segni, non delle espressioni. Attraverso le mie lacrime io racconto una
storia, do vita a un mito del dolore e da quel momento mi uniformo ad esso: posso
vivere con il dolore perché, piangendo, mi do un interlocutore enfatico che riceve
151
Carlo A. Augieri
il messaggio più ‘vero’: quello del mio corpo e non già quello della mia lingua.
“Cosa sono mai le parole? Una lacrima sola dice assai di più” (Barthes, 1977: 159161 passim).
Unisco entrambe le citazioni in un’unica argomentazione barthesiana, a
carattere semio-antropologico, i cui elementi teorici di rilievo sono i seguenti:
1) le lacrime nella loro tipologia significante costituiscono un codice, all’interno
del quale la loro materialità, di natura cronotopica, funge da segno: in effetti,
esse non sono casuali, ma avvengono in un tempo e in uno spazio contiguo (il
bachtiniano cronotopo, appunto), entro il quale il soggetto, che vi vive determinate situazioni esperienziali e relazionali, sente il bisogno di piangere; 2) il
pianto costituisce un gesto comportamentale regolato (de Martino direbbe
ritualizzato) dalla cultura, come, del resto, ogni manifestazione sentimentale,
emotiva: per un tipo di civilizzazione, come quella occidentale, basata sulla
forza, sul controllo di sé e sulla funzionalità della propria energia vitale,
l’uomo che piange è un personaggio debole, capace, comunque, di superare la
censura nei confronti del pianto; un personaggio inattuale e ‘alla rovescia’, che
ribalta l’immagine egemonica, ‘vincente’, del soggetto ‘sicuro’, troppo adulto,
per comportarsi in modo simile ad un bambino che piange; 3) il carattere
illocutorio e perlocutorio, direbbe Austin, delle lacrime: piangere vuol dire
soprattutto non solo rivolgersi a qualcuno, ma anche persuaderlo a rispondere
e corrispondere secondo l’intenzione con cui un soggetto piange: piangere
significa, pertanto, destare l’attenzione dell’altro, che si vuole impressionare o
ricattare, facendo pressioni su di lui, che si commuove alle lacrime,
commiserando chi piange. Il carattere illocutorio del pianto può riguardare
anche lo stesso soggetto ‘piangente’, che nel pianto diventa talmente altro da
sé, da diventare dialogico e dialogicamente plurimo: l’io che piange è diverso
secondo le circostanze in cui piange; lo stesso io che piange, magari solo, si
rivolge a se stesso per compiangersi, per lamentarsi, per dare a se stesso e
trovare in se stesso il conforto per cui piange; 4) carattere narrativo delle
lacrime, dal momento che “attraverso le mie lacrime io racconto una storia, do
vita a un mito del dolore”; 5) carattere veritativo del significato emotivo, di cui
le lacrime sono il segno: verità del non verbale corporeo rispetto alla segnicità
verbale della lingua.
Per motivi di brevità, non sviluppo in modo approfondito ogni singolo
motivo teorico “dedotto” dal discorso di Barthes: esprimerò soltanto alcune considerazioni, partendo, ovviamente, dalla riflessione complessiva dell’autore,
sulla quale, in primo luogo, esprimo una prima considerazione di base: tra la
citazione riportata all’inizio e queste due successive, nelle quali le lacrime assumono una densità semantica, legata alla segretezza temporale delle emozioni
152
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
del mistico e dell’innamorato, non c’è contraddizione e neppure è da riconoscere una “conversione” epistemologica. Mutano soltanto i punti d’osservazione, dai quali l’autore considera l’occhio umano in rapporto alle sue lacrime: in
Giappone Barthes guarda l’occhio dell’uomo anonimo, generico, all’interno di
un viso legato non al vissuto di una soggettività collegata al suo processo di
civilizzazione, ma alla tipologia geo-storica di una razza conformata a caratteristiche configurazioni fisiche, anatomiche, del viso e dell’occhio; nelle riflessioni
sul santo e sull’innamorato, invece, lo sguardo barthesiano si appunta su
personalità ben circoscritte in una loro storia personale (Sant’Ignazio) e in una
loro fisiognomica sentimentale (l’innamorato Werther, immagine tipica, in senso
lukàcsiano, dell’innamorato nella cultura europea): il giapponese è osservato
non narrativamente, ma solo semiologicamente; il santo e l’imnnamorato,
invece, sono guardati da Barthes in modo narrativo, ossia all’interno di
rapporti sentimentali, emotivi ed esistenziali di un soggetto senziente con il
suo altro, Dio e il sacro per il mistico; l’oggetto d’amore per l’innamorato. E’
all’interno di una narrazione, di una trama, in effetti, che le lacrime, come gli
occhi, gli sguardi, si caricano di una storicità sì esterna, dovuta ai modi
d’interdipendenza delle regole di civilizzazione a cui sono sottoposti gli
individui viventi entro le loro etnie (antropologia dello sguardo e del pianto),
ma soprattutto interna, dovuta agli indefiniti intrecci dei vissuti individuali,
‘abitati’ non da uomini corporei, ma da corpi storici, che si fanno segni
testimoniali di emozioni vissute: corpi segnati dall’esperienza emotiva, con la
quale i loro sguardi si animano del rapporto con l’altro, soggetto illocutore di
ogni individuo che piange, dal momento che si piange sempre per qualcuno e
con qualcuno. In effetti, il ‘qualcuno’ per il quale si piange è il soggetto verso
cui il personaggio ‘in lacrime’ indirizza il suo desiderio emotivo, che
complessivamente è chiamato amore: la persona amata è l’altro ‘confidente’, a
cui si affida con tenerezza e con abbandono la propria storia di soggetto e con
cui si desidera condividere una storia in comune, un intreccio di vite.
Osservando un santo, dal nome Ignazio, veramente vissuto e però conosciuto
tramite la narrazione diaristica che egli scrive di sé, ed un innamorato, la cui
tipicizzazione narrativa è configurabile con un personaggio “modellizzante”,
Werther, Barthes coglie i loro gesti di innamorati, i quali esprimono con le
lacrime un loro dialogo segreto, che quanto più è segreto tanto più è temporale
(ritorna il binomio, già menzionato all’inizio tra tempo e segretezza dell’animo)
e, quindi, tanto più si affida alla cronotopia delle lacrime. A questo punto del
discorso, le riflessioni leopardiane diventano molto pertinenti per intendere
ancora di più (senz’altro, sarebbe piaciuto anche a Barthes essere compreso
tramite Leopardi) le riflessioni semio-narrative di Barthes: per Leopardi, come
già si è detto, è la paura del mai più vedere, è il senso cupo del vedere per
153
Carlo A. Augieri
l’ultima volta la causa della disperazione delle lacrime in chi subisce il dramma
esistenziale di una persona amata che per sempre muore: ebbene, questa paura
è anche nell’innamorato deluso, perché per lui finisce un amore: anch’egli ha
paura di non vedere più la persona amata, di vederla per l’ultima volta, dal
momento che muore in una loro storia d’amore, finita la quale si renderanno
assenti al vissuto d’amore persone che ormai non vivranno più da amanti. Sia a
proposito della morte, sia per quanto riguarda la storia d’amore finita, c’è in
comune la perdita dell’altro, la sua assenza, il suo non rimanere che traccia,
impronta, che si conserva semmai nel non passare del ricordo. Le lacrime sono
segni della perdita e del conseguente dolore che si avverte; sono pure cura,
come si è già detto: piangendo, si racconta a se stessi il disagio causato dalla
perdita; si ragiona sulla perdita, affiora quell’amore di sé, presupposto perché
l’angoscia derivata dalla “crisi di presenza” per l’abbandono dell’altro non
causi uno stato emozionale, tanto frustrato da causare un voler perdersi, un
voler assentarsi da sé con la morte stessa: quando non si elabora il lutto, in
effetti, proprio grazie alle lacrime, tante persone purtroppo si suicidano, non
reggendo alla morte di una persona cara, oppure non resistendo alla perdita
della persona amata. Certo, le lacrime di Sant’Ignazio sono un’altra cosa e
meritano una considerazione supplementare, che trovo nella stessa considerazione fatta da Barthes a proposito dell’eccesso ignaziano di scrittura, del
gesuitesco modo eccedente di immaginare, che ha uno stretto rapporto con lo
sguardo, con l’occhio: l’immaginario visivo, “teatrale”, del fondatore della
Compagnia di Gesù spiega il perché egli avesse sempre i suoi occhi neri “un
po’ velati a forza di piangere”.
Gli Esercizi di Ignazio sono un testo agito dialogicamente, avente come
destinatario Dio, che riceve “una lingua le cui parole qui sono preghiere,
colloqui, meditazioni. A questo linguaggio la divinità è chiamata a rispondere:
esiste così, intessuta nella lettera degli Esercizi, una risposta di Dio, di cui Dio è
il donatore e l’esercitante il destinatario” (Barthes, 1971: 32) : ebbene, in questo
testo dialogico, in cui si interroga, si interpella e poco si asserisce, viene
vissuto, a livello uditivo, il dramma dell’interlocuzione, in quanto l’esercitante, il
soggetto che si rivolge a Dio, “l’interlocuzione non la trova data, se la deve
conquistare, deve inventare la lingua in cui rivolgersi alla divinità e preparare
la propria possibile risposta”; a livello visivo, invece, si fa esperienza di
un’esistenza locutoria senza dramma, in quanto la forte immaginazione
ignaziana, instancabilmente alimentata, crea una retorica attiva, energetica, grazie
alla quale si riesce a vedere con gli occhi dell’immaginazione il soggetto illocutorio
a cui ci si rivolge, ossia l’essere stesso viene visto, senza “scomodarsi” di
apparire. In effetti, scrive Barthes:
154
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
L’immagine ignaziana non è una visione, è una veduta, nel senso che la parola ha
nell’arte dell’incisione (“Veduta di Napoli”, “Veduta del Pont-au-Change”, ecc.); e
questa “veduta” va inoltre presa in una sequenza narrativa, un po’ alla maniera
della Sant’Orsola del Carpaccio o delle illustrazioni successive di un romanzo.
Queste vedute (estendendo il senso della parola, poiché si tratta di tutte le unità
della percezione immaginaria) possono “inquadrare” sapori, odori, suoni o sensazioni, ma è la veduta “visiva”, se così si può dire, che riceve tutte le attenzioni di
Ignazio. (44)
Ebbene, un’immaginazione di tipo illocutorio e visivo possiede una
struttura teatrale, con la quale la rappresentazione acquista materialità e
deitticità: ne consegue che l’esercitante è narrativamente coinvolto, in quanto
presente, alle scene evangeliche sintagmaticamente viste in modo ordinato e
contiguo con l’immaginazione, capace, pertanto, di trasformare in presenza il
destinatario assente dell’atto di illocuzione orante, vissuto da chi pratica
l’esercizio ignaziano. Egli, in effetti, si sente come trasferito da sé, di fronte al
referente visivo dell’immagine: avviene un incontro, da Barthes definito
incontro fantasmatico del desiderio, durante il quale l’esercitante vive visivamente
le scene rappresentanti i racconti dei misteri evangelici, entro le quali egli entra
come personaggio “contemporaneo”, agente partecipe secondo la sua commozione e sentimento. Barthes cita dagli Esercizi alcune raccomandazioni di Ignazio,
con le quali si invita l’esercitante ad essere presente visivamente alle scene
narrative, entro cui accade un evento “animistico” di profonda suggestione: i
personaggi evangelici, assenti dall’in illo tempore, ritornano ad essere presenti
perché resisi visivi al soggetto contemplante, che guarda finalmente l’assente
evocato, interloquendo finanche con lui in preghiera:
‘Immaginando il Cristo nostro Signore davanti a me, posto sulla croce, chiedergli
in un coloquio’, ecc; davanti agli attori della Natività, ‘io, farmi un piccolo
poverello, un piccolo schiavo indegno, che li guarda, li contempla e li serve nella
loro necessità, come se mi trovassi presente’; ‘sono un cavaliere umiliato davanti a
tutta una corte e al suo re’, ‘sono un peccatore in catene davanti al giudice’, ecc.
Questo io approfitta di tutti gli argomenti forniti dal canovaccio evangelico per
realizzare i movimenti simbolici del desiderio: umiliazione, giubili, timore,
effusione, ecc. (Barthes, 1971: 53)
Ebbene, il pianto di Ignazio mentre prega scaturisce dal modo visivo ed
illocutorio del suo immaginario: mentre sta solo in contemplazione, magari
davanti al Cristo crocifisso, egli vede con occhi commossi un corpo sofferente,
davanti al quale si piange. Anche in questo caso le lacrime rappresentano i
segni di un segreto e di una temporalità ad esso congiunta: il segreto nasce dal
transfert intimo di partecipazione empatica, di identificazione proiettiva tra
soggetto ed oggetto amato dello sguardo. Di fronte a Cristo morto, crocifisso,
l’io che partecipa in trance piange con lo stato d’animo colto da Leopardi nella
155
Carlo A. Augieri
riflessione già citata: paura per il mai più vederlo; dolore perché si vede per
l’ultima volta. Alla riflessione esistenziale leopardiana, si può aggiungere una
considerazione, a carattere antropologico, scritta da de Martino (1975: 85), a
proposito della crisi del cordoglio, della presenza rituale del pianto e del rito della
lamentazione, secondo la quale il pianto lamentato, ossia accompagnato da
moduli verbali definiti ed ordinati, protegge dal planctus irrelativo, irrazionale,
disperato, parossistico. Entrambi i riferimenti mi sembrano pertinenti per
comprendere le lacrime ignaziane: si tratta di lacrime illocutorie, causate dal
dolore per la morte dell’altro e ritualizzate dalla preghiera, che ha il ruolo
protettivo della lamentazione; riguardano lacrime promosse a segni di commozione che, come scrive Barthes, non stanno per qualcosa, non esprimono
qualcosa (le lacrime sono dei segni, non delle espressioni), ma sono rivolte a qualcuno,
verso cui si sente tanto amore da soffrire per lui, da identificarsi con lui. Attraverso le mie lacrime, sostiene Barthes, io racconto una storia: nel caso di Ignazio,
egli, attraverso il suo pianto, si racconta come personaggio contemporaneo di
una storia accaduta in un passato che non muore, perché rammemorato e
ripresentificato nell’atto illocutorio della meditazione orante; si lascia
raccontare da una storia passata, che emotivamente egli, uomo di fede, fa
durare fino al suo presente di preghiera. Il segreto ignaziano consiste in questo
“esercizio” narrativo, tramite il quale l’in illo tempore continua nel suo presente
gia accaduto ad essere ancora presente nel presente accadente dell’esercitante:
segreto temporale, per il quale si crea simmetria tra l’ora e l’allora, tra
avvenimento e fatto, tra anamnesi e mneme, tra immagine e referenza, tra, infine,
assenza e presenza. Il pianto, derivato dalla commozione causata dall’occhio,
che vede ora l’allora, dà testimonianza della presenza dell’assente e del presente
del passato: a Ignazio non resta che piangere per ciò che vede, una morte
avvenuta che sempre ri-viene, veramente accaduta nella verità simbolica della
fede, veramente partecipata nella verità corporea delle lacrime: lacrime miste a
parole oranti, veri “colloqui” queste ultime, rese trasparenti dalla liquidità
visiva, oculare delle lacrime. Certo, Ignazio non piangeva soltanto davanti alla
Croce, ma pure davanti alla Natività, così come davanti alla Madonna:
riferendosi ancora a Barthes, è opportuno distinguere nell’io innamorato
(mistico o laico), che piange, tanti modi di piangere, così come più soggetti
impegnati a “piangere” in modi simili, ma diversi: in effetti, Ignazio si sentiva un io
diverso secondo il soggetto sacro per il quale piangeva: stati d’animo differenti,
emozioni molteplici, in rapporto alle plurime personificazioni narrative del
sacro. Rimane però per tutte le cronotopie delle lacrime la loro medesima
verità, contenente lo stesso segreto temporale: il leopardiano piangere
rapportato alla felicità, che, nel caso in questione, non è contentezza del proprio
essere e del proprio modo di essere, ma contentezza di essere altro, di essere un io156
Il linguaggio segnico dello sguardo, nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
altro, che straniero nel proprio presente, diventa pellegrino del tempo, dove
incontra l’altro del proprio immaginario, sentito più vero del proprio io storico.
Il quale nel presente della sua corporeità possiede le lacrime; nel senza tempo
delle sue emozioni ritrova i motivi del pianto, dovuti all’altro che è stato “un
tempo” ucciso, oppure è nato ‘un tempo’ povero, pur essendo eternamente un
Dio. Un Dio solo “udito” nel tempo ebraico, incarnato e reso visibile dopo la
sua venuta nel tempo cristiano: il pianto ignaziano, illocutorio e di natura
visiva, risente di questa complessa percezione storica ed antropologica del
sacro. Tanto che egli fa delle lacrime, sottolinea Barthes, un vero e proprio codice,
la cui materia è differenziata in segni secondo il loro tempo d’apparizione e la loro
intensità: un codice da cui scaturisce una nuova esigenza di parlare con il sacro.
Attraverso il corpo, più che attraverso la mente; per mezzo dei segni non
verbali e non per tramite di quelli verbali: in effetti, una lacrima sola non dice
assai di più di tante parole?
Riferimenti bibliografici
BARTHES, R., 1970, L’empire des signes, Genève, Éditions d’Art Albert Skira s.a.; trad.
L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984.
---, 1971, Sade, Fourier, Lodola, Paris, Éditions du Seuil ; trad. Sade, Fourier, Loyola. La
scrittura come eccesso, Torino, Einaudi, 1977.
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discorso amoroso, Torino, Einaudi, 1979.
DE MARTINO, E., 1975, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria,
Torino, Boringhieri.
LEOPARDI, G., 1997, Zibaldone, ediz. comm. e rev. del testo critico a c. di R. Damiani,
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MANN, TH., 1943, Joseph der Ernährer, Stockholm, Bermann-Fischer Verlag AB; trad.
Giuseppe il Nutritore, in Giuseppe e i suoi fratelli, tomo II, Milano, Mondadori, 2000.
157
III Les espaces de l’interdit
Genealogia del linguaggio
Nicola Russo
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli “Federico II”
email: nicola.russo@unina.it
Noi cessiamo di pensare se non vogliamo farlo nella costrizione linguistica,
giungiamo persino al dubbio di vedere qui una frontiera come frontiera
Nietzsche
La domanda sull’origine del linguaggio è la questione genealogica fondamentale e, almeno per quanto riguarda l’uomo e il suo mondo, estrema:il limite
intrinseco ove la genealogia incontra la propria frontiera, poiché il logos
dell’origine è chiamato a dirvi la sua stessa origine. Almeno per l’uomo,
giacché il linguaggio ha creato il nostro mondo prima ancora che la nostra
mente: non si può risalire veramente al “prima del linguaggio”, poiché prima
del linguaggio, per noi, non c’è nulla!
Una domanda, innanzitutto per questa, ma anche per tante altre ragioni,
“interdetta” e, tuttavia, ineludibile, che ha attraversato tutta la storia del pensiero, già di quello mitico, oltre che di quello religioso, filosofico e scientifico.
Per comprendere appieno, però, il senso dell’interdizione e, magari, anche i
suoi limiti, è necessaria una riflessione preliminare sulla genealogia stessa,
sulle sue condizioni e il suo metodo.
Poiché è in esso che si radica la logica del complesso, conviene sempre
partire dall’elementare, senza temere l’esposizione e la riflessione su ciò che
appare banale. Diciamo dunque che la genealogia, in prima istanza, è
semplicemente la ricerca sulle origini di qualcosa: in questa semplice asserzione è
già compaginata tutta la complessità di tale ricerca. Si ricerca l’inizio, infatti, a
partire da un termine finale, dal qualcosa di cui cerchiamo le origini: nella
genealogia si ha sempre a che fare con la relazione tra un inizio e una fine, una
relazione che, indipendentemente da come si definisca e strutturi nel suo spazio
intermedio, se come sviluppo, progresso, evoluzione, trasformazione, storia…, è
molto particolare già di per sé. L’inizio e la fine, infatti, sono i limiti entro i
quali quel qualcosa prima non c’è e poi c’è. Ma come un qualcosa passa dal non
esserci all’esserci? A ben vedere, in fondo è la vecchia domanda sulla genesis e
poi sul gignesthai, intorno alla quale si è combattuta l’antica gigantomachia peri
tes ousias, domanda che è ancora il cardine della Fisica di Aristotele.
161
Nicola Russo
L’antica questione del “come” dell’inizio, lo si vede, è intrinsecamente
complessa e dà all’origine tutta una serie di accezioni e valori possibili: nascita,
mutazione, produzione, creazione, manifestazione…: ad ogni modo, rimanda
al prima dell’inizio e al qualcos’altro che c’era prima, che rientra così integralmente all’interno della domanda genealogica. La ricerca sulle origini di
qualcosa è, insomma, anche la ricerca intorno a quel che c’era prima e di
diverso, elemento che si aggiunge ad arricchire e complicare la relazione tra
inizio e fine. Si aprono così tutta una serie di domande possibili, innanzitutto
quelle relative al passaggio dal prima all’inizio: come è stato possibile?, perché?,
in che modo?, quando?, cosa è effettivamente accaduto? Domande, insomma,
sulle “condizioni di possibilità” di quell’inizio, le sue “cause”, le sue “dinamiche” e così via. L’ultima è però, da un punto di vista genealogico, la più interessante e difficile, poiché chiama in causa e contiene in sé la questione
fondamentale del nesso tra inizio e fine e spinge la genealogia a incontrare il
suo vero campo di indagine, che a dispetto del nome non è solo la logica della
genesi, bensì la sua storia.
Chiedendoci, infatti, “cosa” è effettivamente accaduto, ci mettiamo alla
ricerca di un grado elementare o almeno primario, di un “seme” di quel qualcosa
di cui pensiamo di conoscere la fine, il primo momento a partire dal quale quel
“qualcosa” c’è: e così la domanda genealogica è innanzitutto la domanda su
“che cos’è?” ciò di cui cerchiamo l’origine, è una domanda, se si vuole,
ontologica.
E, naturalmente, su “come si sia arrivati dall’inizio alla fine”, su come ciò
sia storicamente accaduto e cosa in quella storia si sia così realizzato: questione
piena di insidie, poiché se l’inizio e la fine sono diversi, come è il caso di tutti i
fenomeni sufficientemente complessi, se quindi implicano un mutamento, o
meglio una serie di mutamenti, bisogna comprendere, anzi osservare, qual è e,
innanzitutto, se veramente c’è un principio di unità, che ci permetta di dire che
l’inizio e la fine, per quanto diversi, siano dello stesso qualcosa che pensiamo
nel suo inizio a partire dalla sua fine. È la funzione, la struttura, la forma, il
fine, il meccanismo, la tendenza o cosa?, che rende quella cosa la stessa
dall’inizio alla fine? O, invece, pur conservando in momenti differenti vari
elementi di unità tra tutti questi termini, non vi è veramente la stessa cosa
all’inizio e alla fine?
Come si vede, la “ricerca delle origini di qualcosa” è straordinariamente
complessa e, se quel qualcosa è il linguaggio, può facilmente apparire disperata. Per saggiarne le possibilità, teniamo un attimo sullo sfondo tutte quelle
domande implicite nelle “origini di qualcosa” e proviamo a guardare ai modi e
alla metodica della ricerca stessa. Lo spunto per alcune riflessioni lo troviamo
162
Genealogia del linguaggio
nelle considerazioni di Nietzsche sul metodo della storia della morale, che
possiamo senza alcuna difficoltà trasporre alla storia del linguaggio. Egli
comincia presentando i tratti di un atteggiamento genealogico diffuso ai suoi
tempi, come lo è ancora oggi: “Il mio primo impulso a manifestare qualcuna
delle mie ipotesi sulla genesi della morale mi venne da un libriccino chiaro,
pulito e accorto, pure saputello, in cui mi si fece innanzi, per la prima volta,
una specie opposta e perversa di ipotesi genealogiche, la specie propriamente
inglese” (Nietzsche 1887: 6).
Ciò che agli occhi di Nietzsche pare far difetto a Der Ursprung der
moralischen Empfindungen di Paul Rée, di cui pure apprezza il coraggio e la
spassionatezza, non sono tanto i pregiudizi tipici della sua impostazione,
quanto proprio il metodo, una “metodica più corretta”, dipendente “dalla
natura delle domande stesse”. E ciò a cui vorrebbe invitarlo è una “direzione
migliore” dello sguardo,
la direzione verso l’effettiva storia della morale e metterlo in guardia, ancora in
tempo utile, da codesta congerie d’ipotesi inglesi costruita sulle nuvole. È anzi del
tutto evidente quale colore debba essere per un genealogista della morale cento
volte più importante del bianco delle nuvole; intendo dire il grigio, il documentato,
l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito, insomma tutta la lunga,
difficilmente decifrabile, scrittura geroglifica del passato morale dell’uomo! –
Questo era sconosciuto al dottor Rée, ma egli aveva letto Darwin – e così, nelle sue
ipotesi, la bestia darwiniana e la modernissima modesta creaturina morale che
‘non morde più’ si danno garbatamente la mano (10).
Quel che, insomma, Nietzsche rileva nell’elaborazione di un certo tipo di
ipotesi genealogiche è che la storia effettiva, documentata, la “scrittura
geroglifica” viene cancellata e sostituita da un principio puramente logico di
sviluppo, una “teoria dell’evoluzione”, che non deve essere necessariamente
quella darwiniana, diciamo un qualsiasi presupposto teorico su come certe
cose passano dall’inizio alla fine, presupposto che, integrato con una qualsiasi
ipotesi sulla natura della fine, permette di dedurre a ritroso l’inizio.
Una modalità genealogica che è antistorica innanzitutto nel senso di non
tener conto dell’empiria, di pretendere di poter dedurre l’empiria da principi
logici, genealogia almeno in tal senso “metafisica”, che in ultima analisi è
quindi una forma di dogmatismo razionalistico. Ma non è solo la disattenzione
verso ciò che è realmente constatabile a stigmatizzare la mancanza di “spirito
storico”, è anche l’incapacità di pensare storicamente, ossia propriamente
l’incapacità di pensare ciò che avviene effettivamente in uno sviluppo, di
comprendere un’evoluzione. Essa si riflette in una modalità davvero tipica di
tali genealogie: all’inizio si presuppone una qualunque ragione plausibile, per lo
più nei termini di una qualche utilità di ciò che c’è alla fine, ragione che ne
163
Nicola Russo
avrebbe in qualche modo prodotto, reso possibile o garantito l’inizio stesso,
nell’ambito morale venendo poi per lo più “dimenticata” e sostituita dall’abitudine, che ne avrebbe così radicata in una facoltà automatica o sentimento
“spontaneo” la pratica comune (14-15).
Tale “scaltrezza computatrice” e “logistica dell’utilità”, che Nietzsche non
esita a definire una vera e propria “superstizione” (ib), ha dunque l’effetto
paradossale di sostituire, in nome di un principio razionale di evoluzione, al
dato storico un’evoluzione immaginaria, che non solo non corrisponde alla
reale, ma è anche illogica, comportando costitutivamente, in vari modi diversi,
una petitio principii, come vedremo meglio più avanti. È nella seconda
trattazione della Genealogia della Morale, che Nietzsche definisce al converso nel
modo più chiaro uno dei cardini della sua genealogia:
Ancora una parola, a questo punto, sull’origine e lo scopo della pena – due problemi
che si dissociano o dovrebbero andar dissociati; purtroppo vengono spesso rifusi
in un solo problema. Come hanno proceduto, in questo caso, i genealogisti della
morale sino a oggi? Ingenuamente, come sempre hanno fatto –: scoprono nella
pena un qualsivoglia ‘scopo’, per esempio vendetta o intimidazione, e indi,
ingenuamente, collocano questo scopo all’origine, come causa fiendi della pena, e –
la cosa è fatta. (…) Ma per ogni specie di storia non esiste alcun principio più
importante di quello che a prezzo di tanta fatica è stato conquistato, e che altresì
doveva essere conquistato – il principio, cioè, che la causa genetica di una cosa e la sua
finale utilità, nonché la sua effettiva utilizzazione e inserimento in un sistema di fini, sono
fatti toto coelo disgiunti l’uno dall’altro; che qualche cosa d’esistente, venuta in
qualche modo a realizzarsi, è sempre nuovamente interpretata da una potenza a
essa superiore in vista di nuovi propositi, nuovamente sequestrata, manipolata e
adattata a nuove utilità (…). Per bene che si sia compresa l’utilità finale di un
qualsiasi organo fisiologico (…) non si è perciò stesso ancora compreso nulla
relativamente alla sua origine: comunque ciò possa suonare molesto e sgradevole a
orecchie più vecchie – da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di
comprendere nello scopo comprovabile, nell’utilità di una cosa, di una forma, di
un’istituzione, anche il suo fondamento d’origine, e così l’occhio sarebbe fatto per
vedere, la mano per afferrare. (…)L’intera storia di una ‘cosa’, di un organo, di un
uso può essere in tal modo un’ininterrotta catena di segni che accenna a sempre
nuove interpretazioni e riassestamenti, le cui cause non hanno neppur bisogno di
essere in connessione tra loro, anzi talvolta si susseguono e si alternano in guisa
meramente casuale. ‘Evoluzione’ di una ‘cosa’, di un uso, di un organo, quindi, è
tutt’altro che il suo progressus verso una meta, e ancor meno un progressus logico e
di brevissima durata, raggiunto con il minimo dispendio di forza (…). La forma è
fluida, ma il senso lo è ancor di più (65-67).
Questo “punto di vista capitale della metodica storica” richiede che nello
sviluppo di qualcosa si distingua da un lato ciò che vi è di “relativamente
durevole, l’uso, l’atto, il ‘drama’, una certa rigorosa successione di procedure,
dall’altro la sua fluidità, il significato, lo scopo, l’attesa che si connette
164
Genealogia del linguaggio
all’esecuzione di tali procedure”. Vale a dire cercare se“la procedura stessa sia
qualcosa di più antico, di anteriore alla sua utilizzazione (…); se quest’ultima
sia stata dapprima introdotta e interpretata all’interno della procedura (già da
un pezzo esistente, ma usata in un altro senso)” (67-69)1.
Ciò che viene alla fine, insomma, non è quell’unico senso o scopo per il
quale si immagina di intendere il suo inizio, bensì “un’intera sintesi di ‘sensi’”:
l’intera storia di un’“utilizzazione ai fini più diversi, che finisce per cristallizzarsi in una sorta di unità, che è difficile a risolversi, difficile ad analizzarsi e, occorre sottolinearlo, del tutto impossibile a definirsi”. Ripercorrendo,
invece, all’indietro quella storia, non deducendola, ma rintracciandone i mille fili
e decifrandoli, è possibile che “in uno stadio anteriore codesta sintesi di ‘sensi’
appaia invece più risolubile, nonché più scomponibile; ci si può ancora rendere
conto di come, in ogni singolo caso, gli elementi della sintesi modifichino la
loro valenza e quindi il loro ordine, sicché ora questo, ora quell’elemento risalta
e domina a spese degli altri” (69).
Cerchiamo di trarre alcune conclusioni dalla lettura di queste pagine,
limitandoci a quanto è pertinente ad una metodica generale della genealogia, a
quelli che possono essere considerati suoi principi elementari, che provengono
dalla “natura stessa” delle sue domande. Innanzitutto, la ricerca dell’origine di
qualcosa è una ricerca storico-empirica, che deve costantemente rimanere fedele
al dato constatabile, a ciò che effettivamente sappiamo, anche quando non lo
comprendiamo e ci lascia perplessi. Parrebbe davvero banale, ma non lo è
affatto, se consideriamo che le ipotesi genealogiche sono quasi sempre il campo
delle illazioni più gratuite e delle “plausibilità” più incredibili. È quindi proprio
qui, che è opportuno ricordarci di quel che già Eraclito sapeva, ossia che
“riguardo alla cose massime non dobbiamo precipitarci azzardosamente a
raccogliere i nostri presentimenti” (DK 22B47).
All’insieme dei “presentimenti” e dei pregiudizi, in senso stretto, appartengono anche le nostre “teorie”, soprattutto quelle più generali e ben strutturate, che insieme alla capacità di gettar luce su certi fenomeni divengono spesso
un prisma di distorsione della “scrittura geroglifica” del passato: non lo si potrà
mostrare qui, limitiamoci dunque a sottolineare, che la decifrazione di quella
scrittura non può, metodologicamente, avere la forma di una deduzione a ritroso.
1
Nonostante le molte affinità, la distinzione nietzschiana tra origine e scopo, tra la procedura e la sua funzionalizzazione, in ultima analisi tra struttura e funzione, non è
equivalente alla teoria dell’exaptation (Gould, Vrba 1982), per una ragione fondamentale:
l’exattamento viene pensato comunque nei termini dell’utilità per la sopravvivenza (che
rimane la funzione di tutte le funzioni e strutture, il loro fine ultimo, la loro utilità ultima,
che la si voglia pensare finalisticamente o meno), termini che non hanno nessun diritto di
cittadinanza nella genealogia di Nietzsche. Sulle debolezze del principio teleologico-vitale,
si veda Russo 2008: 48-51.
165
Nicola Russo
La forma principe di tale deduzione a ritroso, il vero peccato originale
delle genealogie dogmatiche, è la confusione tra problema dell’origine e dello
scopo. Nei termini che abbiamo precedentemente introdotto analizzando la
domanda nella sua piena generalità, questa “perversione” tipica consiste nel
proiettare un elemento della fine sul prima dell’inizio, una funzione, uno scopo, una
utilità, un carattere etc., in qualche modo assunto come primario, che diviene il
principio dell’origine della struttura entro cui alla fine si incarna.
Sempre nei termini che si usavano all’inizio, questo significa confondere
ontologia e storia: seè infatti evidente che bisogna sapere di cosa si cerca l’inizio,
per poter anche solamente proporsi di mettersi alla sua ricerca, tuttavia non
basta credere di aver colto “l’essenziale” di ciò che c’è alla fine, per ritenere di
possedere così anche la chiave di volta del suo inizio. La storia di ogni
fenomeno complesso è quasi sempre quella di molteplici rifunzionalizzazioni, da
decifrarsi entro il loro testo.
Ora, rispetto alla nostra questione specifica, quella dell’origine del
linguaggio, queste regole genealogiche elementari che limiti impongono
all’indagine? Salta subito agli occhi il primo limite, cruciale: del linguaggio, in
senso stretto, non possediamo documenti storici precedenti alla scrittura. Ed è
un limite invalicabile, che tiene tutto il discorso, sin dal suo inizio, entro un
ambito congetturale e gli impone vie indirette, come quelle che cercheremo di
percorrere. Ma vie in ogni caso saldamente storiche! Vale a dire, che la
mancanza di un accesso diretto non può divenire in alcun modo un pretesto per
deduzioni a ritroso: se lo spazio del discorso è uno spazio congetturale,
preferiamo assumerlo in quanto tale, preferiamo l’incertezza di congetture
basate sulle poche tracce e i pochi indizi che può darci la storia, alle finte
certezze cui possono indurci i nostri pregiudizi.
Scelta che, riguardo al linguaggio, è particolarmente difficile, poiché il
linguaggio, in ultima analisi, è proprio il nostro primo pre-giudizio, ciò che ci
appare il più vicino e il più ovvio, poiché ogni giorno e ogni notte, finanche nei
nostri sogni, lo maneggiamo e vi siamo immersi come nel nostro liquido
amniotico. Per questo è così difficile sfuggire qui alla tentazione di dedurre a
ritroso: presupporre all’inizio, in una qualsiasi forma, quel che solo quel
preciso inizio ha reso, col tempo e tramite innumerevoli mutazioni, possibile.
Per esempio, presupporre all’inizio una facoltà di qualche tipo, espressiva,
indicativa, comunicativa, rappresentativa, cognitiva, che solo il linguaggio ha
potuto cominciare a sostenere, avendone forgiate le fondamenta, a milioni di
anni dalla sua presumibile origine. Oppure presupporre una tendenza verso
quel che nel linguaggio ci appare realizzato, per dedurne i vari presumibili
momenti di sviluppo graduale e lineare. O un’energia, una potenza originaria,
166
Genealogia del linguaggio
come è anche lo spirito di Cassirer (1923: 143), che pure seguiva una metodologia molto rigorosa. Oppure una qualche funzione del linguaggio, comunicativa, cognitiva, pragmatica, che precederebbe e renderebbe conto del nascere e
conformarsi ad essa della struttura. Circa tutte queste “ipotesi plausibili”, in
effetti, non ne sappiamo nulla, solo che le spiegazioni condotte sulla loro base
configurano una petitio principii, hanno spesso un carattere smaccatamente
finalistico e somigliano troppo a quelle medievali, quando si inventava dietro a
qualsiasi cosa di cui non si conoscesse la natura una qualche virtù o vis specifica,
in fondo mettendo un nome qualunque al posto di un punto interrogativo.
Si potrebbero sviluppare qui molte critiche più specifiche alle diverse
tradizioni interpretative cui si è accennato all’ingrosso e complessivamente, e
su alcuni elementi particolari e caratteristici dovremo poi in effetti tornare, ma
dal punto di vista metodologico possono bastare queste notazioni. Alle quali è
opportuno aggiungere, ancora in chiave introduttiva, ma per così dire
passando più decisamente dal metodo all’oggetto, al linguaggio e a quel suo
tratto decisivo cui si accennava all’inizio, il riferimento ad un’importante
considerazione di Cassirer, che è analoga a quelle appena svolte, ma le
specifica in una direzione che ci pone di fronte a un altro limite. Cassirer si
chiede quale sia il nesso tra il linguaggio e la “rappresentazione di oggetti”e
conclude che questa
non è il suo terminus a quo, bensì il suo terminus ad quem. Il linguaggio non fa
ingresso in un mondo già pronto dell’intuizione oggettiva, per aggiungere
solamente alle singole cose date e chiaramente distinte l’una dall’altra i loro ‘nomi’
come segni puramente esteriori e arbitrari. Piuttosto esso stesso è un mezzo della
configurazione dell’oggetto, in un certo senso ne è invero il mezzo, il più
importante e vantaggioso strumento per guadagnare e costruire un puro ‘mondo
di oggetti’ (Cassirer 1932: 126).
Una simile tesi può essere corroborata a partire da diverse metodologie e
ambiti di ricerca, a partire dalla psicologia evolutiva e da quella animale, come
fa qui Cassirer, oppure sulla base di considerazioni di filosofia del linguaggio,
come avviene nella sua filosofia delle forme simboliche, per esempio (Cassirer
1923); ma anche tramite le analisi della storia delle idee, la linguistica
comparata, le teorie della conoscenza e cognitive, l’etologia e, da un punto di
vista propriamente filosofico, l’ontologia (Russo 2008: 170-184). Non mi
dedicherò, quindi, a darle qui ulteriori giustificazioni, ma mi limiterò a porre
che “oggetti” e “concetti” vi siano, per il pensiero, a partire da una costituzione
logica del mondo e quindi entro il contesto, che si apre gradualmente per
l’uomo da quando comincia a parlare.
167
Nicola Russo
La conseguenza, rispetto all’origine del linguaggio, è invero semplice da
trarre: se la distinzione stessa tra oggettivo e soggettivo dipende dal linguaggio
(Cassirer 1930: 54), se non vi sono oggetti, per un pensiero, prima del
linguaggio, né un mondo oggettivo di cose distinte, se insomma tutto il mondo
quale noi lo pensiamo, prima ancora di conoscerlo, nelle sue distinzioni
elementari, cose, azioni, processi, situazioni, è il frutto dell’organizzazione
cognitiva prodotta dal linguaggio o se non altro retta su di esso, tutto ciò
all’inizio non può essere presupposto…; ossia, i primi parlanti non potevano
avere di fronte un mondo “logico”, cui corrispondere nella parola.
Si comprende bene, che la questione trae da ciò la sua ultima complicazione: se le cose stesse, in tutte le varie categorie e classi entro le quali diamo
loro nomi: gli oggetti, le azioni, le relazioni e così via, divengono pensabili,
perché innanzitutto dicibili; se è del tutto ingenuo, illogico e in sostanza
falsificato dalle scienze positive pensare che “entità” corrispondenti e conformi
alle funzioni grammaticali esistano prima nella realtà, poi nel pensiero e infine
nella parola; se tutta questa fanciullesca “metafisica della grammatica”è,
insomma, chiaramente solo metafisica, allora… –
Allora la prima parola diviene un abisso, una possibilità a stento immaginabile, intorno alla cui forma e senso non riusciamo a dire più nulla.
E, tuttavia, proprio questo ultimo limite può aprirci una via, indicarci
un’altra via, rispetto a quella percorsa da gran parte delle teorie sull’origine del
linguaggio, che hanno per lo più impostato la loro ricerca a partire dal detto:
dal suo oggetto o dalla sua forma, dalla sua sintassi o dal suo riferimento, e
così via.La domanda ingenua e immediata, infatti, è in qualche modo sempre:
“quando dico qualcosa, che dico?” – Questo “che” può diventare un “come”,
un “perché” e tante altre cose, ma rimane il fatto che il linguaggio viene
sempre pensato a partire dal contenuto del detto e non dall’atteggiamento della
parola. Circostanza in fondo strana, se si pensa che il linguaggio non è dire
qualcosa, ma innanzitutto parlare a qualcuno!
Questo “qualcuno”, ovviamente, all’inizio non può essere un “soggetto”,
così come quel che gli viene detto non è un “oggetto” o un “concetto”, ma
proprio questo rende la questione così affascinante: se è vero che è entro il
linguaggio che si dischiude la dimensione oggettuale, allora è ancora qui che si
forma anche quella soggettiva, l’individuo. E così mi avvicino, gradualmente,
ai nessi principali, sui quali vorrei incardinare quel poco di “positivo”, che mi
pare di poter dire.
Cominciamo dal primo. La specificità unica della questione del linguaggio,
quel che la rende la questione genealogica fondamentale, è nei suoi mille
interdetti, in quelli storici, ma ancor più in quelli logici: nel tentativo, che in
168
Genealogia del linguaggio
essa si fa, di rendere ragione della ragione stessa, nel logon didonai del logos
stesso. Un rendere ragione, che infine avvolge tutto il mondo dell’uomo e,
fatalmente, l’uomo stesso, lo zoon logon echon.La questione dell’origine del
linguaggio, insomma, coinvolge completamente la questione dell’uomo e lo si vede
subito, andando medias in res, se ci si chiede quali siano le interdizioni che
ancora dobbiamo far valere. Innanzitutto una: la domanda non può avere la
forma – “quando o come l’uomo ha cominciato a parlare?” –, per la ragione
evidente, che non possiamo neppure ipotizzare l’uomo prima del linguaggio
ed, entro limiti però molto ristretti, neanche insieme al linguaggio.
Ciò cui quest’ultima affermazione allude – vedremo poi il significato compiuto della prima – è il rapporto tra linguaggio umano e quelli che, con una
certa approssimazione, chiamiamo linguaggi animali. Con una certa approssimazione, poiché vi sono limiti ben precisi di assimilabilità di tali fenomeni,
limiti di cui, nel seguito del discorso, cercherò di mostrare la natura e le
ragioni. Finché, però, non sarà pienamente evidente, che del tutto a rigori il
“linguaggio” è solo quello umano e in relazione a quali specifici caratteri esso
si differenzi radicalmente da tutto ciò che, per traslato, chiamiamo “linguaggio”,
“comunicazione”, “informazione” e ogni altro termine descrittivo delle strutture
linguistiche, nel regno animale e in quello tecnico, finché non sarà chiara la
necessità di un maggior rigore terminologico, per evitare di confondere cose
molto differenti, perdendo così la capacità di dire in maniera precisa sia ciò che
le accomuna, che quel che le distingue, possiamo temporaneamente appoggiarci
all’uso comune.
Una scelta che ha due ragioni: innanzitutto il carattere umano del linguaggio,
che è poi il carattere linguistico dell’uomo, è tema così delicato e centrale, che per
nessuna ragione è opportuno esporsi al sospetto di averne una comprensione
pregiudiziale, antropocentrica e “sciovinista”, come si ama dire soprattutto
dove al posto dell’antropocentrismo domina un pacchiano antropomorfismo.
Non si tratta affatto di questo, quanto dell’esigenza, propriamente filosofica, di
rimanere aderenti e fedeli all’evidenza, a ciò che si mostra e come si mostra.
Evidenza che, rispetto al rapporto tra l’uomo e il cosiddetto “animale”, è
duplice: che l’uomo sia “un animale”, è tanto banale, quanto povero di
contenuti, considerato il fatto che animali sono il batterio e il delfino, il riccio di
mare e il gorilla, la mosca e l’elefante. D’altro canto, considerato nel suo
complesso il regno dei viventi, non solo animati, l’uomo vi si inserisce come un
essere strano, non in funzione di certi suoi tratti specifici, ma proprio di ciò che,
in senso rigoroso e scientificamente del tutto determinato, specifico certamente
non è: la sua organizzazione etnica, sociale, linguistica, tecnica, culturale.
169
Nicola Russo
È vero che in un certo ambito e tradizione culturale la dimensione
cosiddetta “esosomatica” della cultura umana viene paragonata, anzi propriamente assimilata, ad un tratto specifico, come può esserlo la proboscide
dell’elefante: un adattamento della specie alle proprie condizioni di esistenza, in
nulla per l’essenziale differente da quelle genericamente animali2. Questa
confusione in linea di principio, però, è in fondo poco più che un vezzo, che ha
ragioni più ideologiche, che propriamente scientifiche: tutto il suo senso è
riconducibile e si esaurisce in una presa di posizione scientista, o naturalista che
definir si voglia, contro una posizione di carattere più o meno latamente
religioso, interessata a dimostrare, per converso, una qualche essenza supernaturale o extranaturale dell’uomo. In entrambi i casi, come talora viene esplicitamente riconosciuto (Ferretti 2010: 67), si tratta di fedi metafisiche, che agiscono
come filtri preliminari e sistemici, prismi che immancabilmente distorcono ciò
che possiamo vedere e dire, propriamente pregiudizi, che per la loro natura
generale e metodologica si differenziano da tutte le normali precondizioni della
conoscenza, dall’apparato di pre-giudizi che comunque rendono possibile una
qualsiasi ricerca. All’insieme di tali pregiudizi di secondo grado, metafisici, e
proprio in quanto tali veramente pregiudicanti, mi voglio quindi sottrarre sin
dall’inizio, non ammettendo né un uso generico del termine “animale”, ossia tale
da aver già preventivamente definito l’essenza dell’animale, quel che esso è
propriamente e sempre, né alcun’altra assimilazione o distinzione d’essenza in
linea di principio tra uomo e animale.In altri termini, così come il termine
“uomo” non definisce un essere immutabile, con una propria essenza definita e
inalterabile, così neppure “animale” e, in fondo, neppure “natura” sono termini
definitori di simili essenze, che semplicemente non vi sono…
Tale constatazione, però, non implica alcuna confusione e perdita della
capacità di discriminare, tutt’altro: proprio nel rifiutarsi alla chiusura di campi e
classi omogenee di enti – l’“uomo”, l’“animale” e così via – guadagna la possibilità, anzi si trova di fronte alla necessità di guardare più a fondo, di affinare la
percezione, senza affidarsi a tutto l’insieme variegato di appigli che ogni salda
affiliazione ad un partito concedono, senza accordare nulla alle proprie
preferenze e alle esigenze più o meno profondamente radicate nella coscienza
morale e, in generale, nella psiche. Assicurarsi dell’umanità al cento per cento
dell’uomo, o invece della sua pura animalità, nel primo caso per proteggerne la
comunicazione col divino, nel secondo caso per integrarlo nel mondo “qui ed
ora, come sempre”, sono strategie che rispondono a motivi diversi da quelli
della conoscenza, fideismi opposti, tra i quali non è in alcun modo necessario
scegliere.
2
Pinker 1994, Ferretti 2010, Corballis 2002. Ma è concezione ampiamente rappresentata.
170
Genealogia del linguaggio
Per questa ragione, non si presupporrà qui alcuna differenza pienamente
determinata, né si farà un uso rigido dei termini, se non quando se ne sarà
chiarita l’opportunità: parliamo dunque anche di “linguaggi animali”, finché
non avremo guardato più a fondo nella natura del linguaggio, ma senza
presupporre l’omologabilità dei diversi fenomeni che abbiamo di fronte.
Parliamone, questa la seconda ragione alla quale accennavo, poiché, se non
omologhi, per certi versi quei fenomeni sono però sicuramente analoghi.
Ho esordito dicendo che non possiamo ipotizzare l’uomo prima del linguaggio, ma in un certo senso neanche insieme. Nella misura in cui possiamo
dire, infatti, che i primati superiori già “comunicano” in maniera non istintivamente del tutto predeterminata, ma previo un qualche processo di “apprendimento”, che comunicano dunque tramite un “linguaggio”, forse già avviato ad
una fase “pre-simbolica”3, nella misura, per quanto ristretta possa essere, in cui
tutti questi termini – comunicazione, apprendimento, linguaggio, segnale –
indicano già possibilità di vita animale, in tale misura almeno ci è lecito
capovolgere quella domanda interdetta e porla in una forma, in cui possiamo
almeno sperare che ammetta una risposta. Non chiederemo, dunque, “quando
o come l’uomo ha cominciato a parlare?”, bensì “quando e come la parola ha
cominciato a umanizzare?”.
Il modo in cui la domanda è posta va ben al di là di quanto è contenuto
nelle premesse fatte sinora, ma le ragioni per le quali, per fare solo un esempio,
diciamo qui “la parola” e non il grido e neppure il gesto, non verranno taciute,
né tantomeno si eluderà una giustificazione della prima parte dell’asserzione
iniziale, quella che pone così enfaticamente l’impossibilità di pensare l’uomo
prima del linguaggio, di pensare un uomo che sia in qualche modo da noi
riconoscibile come uomo senza la parola. Ma anche prescindendo da tali
precisazioni, l’esistenza accertabile di forme di comunicazione in “società
animali”, che in nessun modo possiamo qualificare come proto-umane o preumane, e di cui, per certe loro caratteristiche di adattamento e specializzazione,
non ci è neppure lecito immaginarci una direzione evolutiva nel senso più lato
possibile “umana”, l’esistenza di forme di “linguaggio”, insomma, in comunità
di viventi il cui livello di organizzazione sociale e di sviluppo cerebrale è per
certi versi paragonabile a quello dei primi “antropiani” (Leroi-Gourhan 1964:
138), non può non portarci ad ipotizzare che anche lo strano animale che era
destinato, in un lontano futuro, a chiamare se stesso “l’uomo” e a distinguersi
in quanto tale da tutti gli altri, possedesse una qualche forma di linguaggio ben
prima di divenire, anche assumendo il termine nel modo più vago possibile,
“umano”.
3
Singer 1954: 3 ss., 89; Wallman 1992; Ma Pinker 1994: 328 ss., seguendo in ciò Chomsky,
contesta qualsiasi possibilità di analogia tra linguaggio umano e segnali vocali animali.
171
Nicola Russo
Quale fosse quella forma di linguaggio non possiamo, però, compiutamente apprenderlo in analogia al linguaggio dei primati superiori, ossia non
possiamo spingere l’analogia fino ad una perfetta omologia, proprio per le
stesse ragioni che impediscono di ritenere quelle specie animali stadi preliminari
di una via evolutiva “umana”: la via degli scimpanzé o dei gorilla è una via
parallela, non antecedente a quella umana, essi sono nostri cugini e non avi, la
separazione delle generazioni che hanno condotto a loro e a noi è avvenuta ben
prima che noi e loro assumessimo certi caratteri, a partire dal linguaggio
(Pinker 1994: 336; Coppens 1983: 59-60). Per questo non abbiamo alcun diritto
di immaginarci precise omologie di sviluppo, per questo anche lo stadio
linguistico pre-umano rimane un’ipotesi, molto plausibile, ma non accertabile
per vie indirette. Un’ipotesi di cui dobbiamo cercare innanzitutto di comprendere a fondo i termini elementari.
Ancor prima, però, è forse opportuno accennare almeno ad un’altra strategia di ricerca, che segue una via in un certo senso più diretta, ma altrettanto
insicura: per quanto sia, infatti, entro certi limiti lecito ammettere che nello
sviluppo ontogenetico sia riassunto quello filogenetico (Pinker 1994: 257) ed
estendere tale analogia anche alla dimensione etologica e alle fasi di
apprendimento e acquisizione delle facoltà normali, avvalersi dello studio dei
processi di apprendimento di una lingua nei bambini, anche nelle situazioni
limite delle lingue pidgin, allo scopo di avanzare ipotesi sull’origine del
linguaggio, per quanto anche possa insegnarci qualcosa, mi pare
metodologicamente ingenuo, per più di una ragione. Innanzitutto perché,
volendo anche ammettere l’ipotesi estrema e incontrollabile di una perfetta ed
estesissima analogia, sin nei particolari, tra storia ontogenetica e filogenetica, la
sua utilità euristica troverebbe un limite invalicabile proprio nel fenomeno del
linguaggio e precisamente nella misura in cui tale fenomeno implica qualcosa
come l’apprendimento non stereotipo di abilità non istintive e di pratiche non
adattive, bensì sociali. In senso stretto non adattive, poiché il linguaggio non ha
nulla a che vedere con l’adattamento a un certo ambiente (quello “sociale” non
è una Umwelt). Il che non vuol dire che non abbia un valore vitale o non parli
del mondo circostante, tutt’altro, esso è anzi decisivo dal punto di vista della
sopravvivenza dell’animale disarmato e della sua trasformazione di ogni
ambiente nel proprio mondo, ma secondo una logica, ancor prima che una
dinamica, non in senso stretto evolutiva, certamente non nel senso del nesso tra
adattamento ad un ambiente e selezione naturale (Russo 2008: 11-53).Il
linguaggio è anzi l’elemento che più caratteristicamente, insieme alla
liberazione della mano, rappresenta uno scarto e una novità nelle strategie vitali
animali e sottrae l’uomo, anche fin troppo, alla morsa della selezione, con tutto
172
Genealogia del linguaggio
ciò che essa comporta relativamente alla “storia filogenetica”, che nell’uomo è
molto più “storia” che filogenesi4.
Sempre da un punto di vista metodologico, e sempre perché si tratta di un
complesso processo di apprendimento di una particolare forma di linguaggio,
l’utilizzo dell’analogia con l’apprendimento infantile trova un altro limite in
considerazioni, almeno per un certo verso, proprio di carattere fisiologico e
neurocerebrale: il cervello di un bambino di 18 mesi ha già una struttura, se
non una dimensione, notevolmente differente da quella del cervello di un
preantropo o protoantropo, e questo proprio per la semplicissima ragione, che
quel cervello, anche in una fase precoce della sua crescita, è già l’esito di
migliaia di anni di linguaggio propriamente umano e gli è dunque connaturato
poter apprendere in quel modo e in quei tempi un certo tipo di linguaggio,
poiché quel tipo, indipendentemente dalla lingua in cui è di volta in volta
incarnato, appartiene alla storia remotissima dei suoi progenitori, non come
una “dotazione” naturale, ma come una potenza, che ha incessantemente agito
sull’intera fisiologia del vivente uomo, conformando a sé anche il suo cervello.
Riassumendo la questione in una formula, solo apparentemente paradossale,
sia dal punto di vista ontogenetico, che filogenetico è il linguaggio che forgia il
cervello umano e non il cervello che rende possibile il linguaggio.
Duplice correlazione, tra la storia dello sviluppo cerebrale e l’apprendimento infantile, che ha una conseguenza importante rispetto al rapporto tra
ontogenesi e filogenesi: l’ontogenesi non conserva la memoria delle cause e
delle condizioni “storiche”, al limite solo delle forme che vi hanno corrisposto,
e dunque in essa possiamo cercare tracce, esili, di ciò che il linguaggio ha
contribuito a formare, ma non di che linguaggio si trattasse e di come/
quando/a causa di che si è originato. Entro tali limiti, pur se emendata da
presupposti selezionistici, quell’analogia riguadagna qualche diritto, ma nel
tessuto della filogenesi “culturale”, ossia nei modi dell’evoluzione degli
animali parlanti che siamo, anche nei mutamenti organici e neurologici, la
dimensione storica ha preso talmente il sopravvento, che, in assenza di
testimonianze e “documenti”, essa non può più essere scritta solo sulla base
dei suoi risultati, non è deducibile dai suoi esiti. E di documenti diretti sulle
forme di linguaggio che hanno preceduto e reso possibile questo nostro e il
cervello in grado di apprenderlo ovviamente non ve ne sono: abbiamo già
detto di questa ragione elementare del celebre “interdit”.
4
Alla questione è connessa quella della concezione strumentale del linguaggio, che viene malinteso come dispositivo fisiologico di adattamento (Pinker 1994; Ferretti 2010).
173
Nicola Russo
Una simile considerazione, oltre che da esigenze di rigore metodologico, in
particolare dall’esigenza di non ammettere acriticamente strumenti di indagine
di cui possiamo argomentare validamente i limiti e le costitutive incertezze,
deriva anche da una consapevolezza, che, un tempo rara, è oggi sempre più
viva nei ricercatori, trovando espressione anche in teorie specifiche (Singer
1954: 99), ove però pure raggiunge spesso livelli di determinazione eccessiva o,
per converso, si capovolge in semplificazioni di segno opposto a quella che ha
caratterizzato la domanda fino ad un passato non troppo lontano. La
consapevolezza che, appunto, il linguaggio stesso ha avuto una storia, che non è
solo la storia delle lingue e delle loro origini – che è ben altra questione da
quella dell’origine del linguaggio –, bensì la storia di forme e modi
fondamentali, di cui le nostre lingue e le loro origini sono solo l’ultimo atto,
forme complessive del linguaggio che potevano essere, e alle sue origini
certamente erano radicalmente ed essenzialmente diverse da questo nostro
linguaggio. E con “questo nostro” non intendo solamente le lingue dei ceppi
indoeuropeo, semitico, ugrofinnico, cinese e così via, ma anche le cosiddette
“lingue primitive”, che di primitivo, dal punto di vista sia linguistico, che
storico, non hanno proprio nulla, che forse possono appartenere allo ieri,
rispetto al nostro oggi – ma anche questa è solo un’illazione –, che certo non
appartengono all’altro ieri e ai tanti altri giorni che lo hanno preceduto, avendo
anche esse alle spalle una lunghissima storia.
Si fa frequentemente riferimento, a tal riguardo, agli “ultimi paleolitici”,
una categoria molto problematica, e si è usi considerare particolarmente
significativi, da un punto di vista scientifico, i popoli aborigeni dell’Australia,
riscoperti in una fase avanzata della modernità ancora ad uno stadio
precedente l’economia agricola e la compiuta sedentarizzazione. Ma proprio
nell’Australia paleolitica abbiamo la dimostrazione di quanto sia difficile
dedurre all’indietro, verso le origini: le 500 tribù, spesso di entità numerica molto
ridotta, la cui cultura fu progressivamente estinta dagli uomini civili che vi
entrarono in contatto, parlavano 500 lingue diverse! Inoltre, proprio in quanto
esclusi per l’ultima fase della loro storia dal contatto con altre realtà umane,
quei popoli sono un caratteristico esempio di “isolato periferico”, termine che
l’evoluzionismo più evoluto ci insegna designare situazioni molto mobili, con
uno sviluppo peculiare, con una “storia diversa”, non assimilabile a quella
della corrente primaria di una specie, ragione per la quale non abbiamo molto
da chiedere agli Arunta: sono anche essi nostri fratelli, non i nostri progenitori
(Singer 1954: 100). A meno che non vogliamo ritenerli come “fossili viventi”,
come non mi pare che sia in alcun modo possibile per nessuna società umana,
quale che sia lo stadio, o meglio l’epoca, entro cui vogliamo confinarla.
174
Genealogia del linguaggio
La questione dell’origine del linguaggio, dunque, viene sempre più
pensata non come la storia delle nostre lingue, che ne sono solo l’ultimissimo
momento, ma come una storia di fasi di sviluppo del linguaggio stesso, che
attraversa epoche, entro cui si presentano forme e modi distinti in maniera
radicale e secondo più generi di differenze, delle quali il confronto con le
lingue dei popoli primitivi ci danno solo una pallida idea, nella misura in cui ci
rendiamo conto che non sono affatto “primitivi”, ovvero che sono di davvero
molto poco più vicini alle “origini”, la cui estrema lontananza viene sempre più
chiaramente percepita: quel che la ricerca paleontologica, etnografica,
antropologica, linguistica degli ultimi decenni ci ha sempre meglio dimostrato,
quel che interviene come un solvente sempre più corrosivo anche delle migliori
speculazioni ottocentesche e del primo Novecento, è che tali origini vanno
pensate in una dimensione temporale, che supera di gran lunga le vecchie
categorie del primitivo, dell’antico e del moderno, del pensiero mitico,
figurativo e razionale, addirittura del neolitico e paleolitico. Quel che un tempo
ci appariva “originario”, si mostra ora già come l’esito di una storia che si fa
sempre più abissale, di cui abbiamo chiari segni, ma sempre meno documenti.
Sulla via di una ricerca dei modi elementari del linguaggio, delle sue
epoche, la glottologia comparativa, accorta storicamente e rigorosa nel metodo,
ha cercato di mettere in luce un ordine di stadi, incontrando però anch’essa il
limite di interdizione che le è proprio, per la sua natura filologica e
“grafologica”. Il riferimento di base, infatti, che ha potuto coerentemente e
scientificamente utilizzare, è stato quello della storia della scrittura, ossia di
un’altra via analogica: mettere in corrispondenza, infatti, lo sviluppo del
linguaggio con quel fenomeno enormemente più tardo e condizionato che è la
nascita e l’evoluzione della scrittura, è arduo e quasi certamente sbagliato,
poiché si basa sulla cancellazione della differenza di natura, prima ancora che
cronologica, tra parola parlata e lettera scritta (Leroi-Gourhan 1964: 136; Milani
1999: 19). Ad ogni modo, le distinzioni che sono state qui operate hanno il
pregio di chiarire possibilità, che ad uno sguardo ingenuo generalmente
sfuggono, e quindi il merito di aprire l’intelligenza a pensare possibilità ancora
ulteriori, ancora precedenti.
Nella definizione delle strutture del linguaggio si è così generata una
gradazione nei modi possibili, e attestati, di riferimento del segno – sia esso
fonetico, mimico o grafico – al significato, innanzitutto in funzione dell’ampiezza possibile di tale “significato”: la classe di oggetti o di funzioni, la rappresentazione ideale, la singola cosa o azione, la singola circostanza, l’evento
tipicamente complesso. Un movimento sinuoso dalla massima ampiezza ideale
alla massima ampiezza concreta, passando per l’estrema definitezza. Questo e
175
Nicola Russo
tanto altro ancora, tutto quello che, risalendo all’indietro, la storia dei modi in
cui si struttura un linguaggio, può venir diversamente significato in una
parola, un grugnito, uno schiocco delle dita, un segno inciso, un qualunque
segnale più o meno vocale…
Entro tale contesto interpretativo, il “segno”, la natura e forma fisica del
“segnale”, sono tutto sommato indifferenti, a fare la differenza nei modi del
linguaggio sono i differenti generi del significato, i suoi diversi gradi e
dimensioni: espressiva, concreta, pittografica, ideografica, rappresentativa,
logica, simbolica… Approccio interpretativo che ha, se non altro, il grandissimo merito di distoglierci dalla ingenuità di ritenere che già al suo inizio il
linguaggio fosse composto di nomi per le cose, verbi per le azioni, avverbi e
sincategorematici vari per le loro relazioni. E tuttavia un approccio che rimane
saldamente entro una logica tutta moderna del linguaggio, entro la sua
distinzione fondamentale tra significante e significato (Foucault1966: 43-57),
logica che potrà essere anche molto utile per formalizzare certi nostri usi
delimitati del linguaggio, ma che non abbiamo nessun diritto di presumere
agente e viva nelle parole di Adamo.
Insomma, nonostante tutto quel che possono insegnarci circa la forma e
così, magari, anche l’origine del linguaggio, proprio in queste modalità
interpretative più aperte e più complesse emergono con chiarezza i nostri
pregiudizi tipici, che in realtà chiudono le poche porte alle quali possiamo
bussare. Nell’indifferenza di principio del segno, infatti, è radicata, in particolare,
la pregiudiziale che potremmo dire “simbolico-rappresentativa” di tale
comprensione del linguaggio, mettendo insieme due termini che appartengono
a due tradizioni differenti, eppure prossime e coincidenti nel considerare solo
la funzione referenziale e dichiarativa del linguaggio, quella propriamente
significante e apofantica. Una dimensione vasta, entro la quale si possono far
rientrare senza grosse difficoltà la facoltà cognitiva, quella comunicativa e, in
ultima analisi, anche l’espressiva, che se non di un esterno è comunque
dichiarativa di un interno ed ecfrastica: ekphrasis che è il mettere in frase, in un
ordine logico e fonetico, articolato, ed esporre “a partire da” (ek, apo), da quello
stesso che va così mostrato, foss’anch’esso un desiderio, una fantasia, un
sentimento, e non una cosa, un’azione o un evento. Di certo il carattere
apofantico di questo nostro logos è quello da lungi prevalente, tanto
prepotentemente da farci sempre propendere a ritenere che sia l’unico
possibile per ogni logos, da quello della “danza delle api”, a quello degli output
di un calcolatore, tutti “segnali” la cui forma e natura non ha più alcun peso a
confronto della funzione dichiarativa, che sia di un interno, di un esterno o del
loro intreccio.
176
Genealogia del linguaggio
A partire da questa nostra comprensione, anche la preghiera diviene
l’espressione di un sentimento religioso, il comando di una volontà, l’esclamazione
di un’impressione, e così via, in una serie di raddoppiamenti e ponti, tra segno e
significato: anche se magari in maniera indiretta e mediata – il che fonda poi il
carattere secondario e marginale di tali “espressioni” linguistiche –, anche se
dunque per vie traverse, in ogni forma del linguaggio pare nascondersi
un’indicazione (Cassirer 1923: 151), propriamente come rimando che simboleggia o rappresenta un che, sia esso una qualunque cosa, azione, situazione,
reazione, coazione, sentimento, volontà e altre chimere linguistiche.
Rispetto a questa reductio ad unum – convincentissima, poiché incarnata nei
modi elementari e quotidiani della nostra comprensione ingenua del
linguaggio – già la fin troppo denigrata retorica antica era scienza molto più
fine e intelligente, con le sue molteplici e varie distinzioni tra le funzioni
differenti e le corrispondenti diverse forme della parola e dell’allocuzione. Agli
antichi, però, non dobbiamo solo la finezza e l’intelligenza dei sofisti e della
loro tradizione, ma qualcosa di forse anche più importante ai fini di un
discorso intorno all’origine del linguaggio, in effetti più di una cosa: da un lato
la loro ritmica, poetica e musicale – i cui riferimenti mitici e archetipici sono
Apollo e Orfeo, l’arco e la lira, gli autentici demoni della filosofia e, come in
parte si mostrerà, dell’uomo stesso: artefice e musico –, dall’altro la loro prassi
dei logoi e la correlata concezione “etica” e “politica” del logos stesso nella sua
interezza – i cui riferimenti sono l’agorà e, uno tra i tanti, il Cratilo di Platone.
Proprio nel Cratilo troviamo, in uno snodo cruciale del dialogo, una
definizione che, nonostante la coincidenza lessicale, nulla ha a che vedere con
le contemporanee concezioni “pragmatiche” del linguaggio, poiché le supera
di gran lunga in profondità, ampiezza e significatività, come però non ho l’agio
di mostrare qui. Mi limitò così a citare quella singola frase, dove Platone dice il
linguaggio essere praxis tis peri ta pragmata, “una qualche azione intorno alle
cose” (Crat. 387 c10). Citazione che non vuole avere nessun valore dimostrativo, che non assumo neanche in chiave argomentativa, che mi limito per il
momento a riportare, come indizio di una comprensione radicalmente diversa
dalla nostra:non referenziale, in qualsiasi forma, estensione e direzione la
referenza si realizzi, bensì attiva, concreta, realmente proiettiva del linguaggio,
una comprensione che dovrà essere sostanziata per altre vie. È tuttavia
evidente, che in questa “qualche azione” è intesa e allusa anche tutta la
dimensione magica e rituale della parola, che pure dovrà trovare una sua
collocazione, per quanto non sia quella originaria, entro una genealogia del
linguaggio, in considerazione dell’importanza che, insieme alla parola mitica e
a quella musica, ha avuto nella sua storia. Indizi comunque importanti, poiché
177
Nicola Russo
ci indirizzano a pensare che non è un’esposizione, per quanto essa possa essere
attenta e storicamente ben fondata, dei vari modi e sensi, e forme e pratiche,
del “segno” linguistico, che dobbiamo avere senz’altro di mira, bensì il
tentativo, molto più complesso e problematico, di gettare una qualche luce e
uno sguardo su quel fenomeno, tra tutti il più interdetto, che è l’origine del
linguaggio, il più indicibile proprio perché consistente nella soglia tra il silenzio
e la parola.
Che dimensioni, temporali ed esistenziali, può aver avuto tale soglia e in
che modo ci è lecito riconoscere in essa la soglia dell’uomo stesso? Giacché se è
pur vero, come stiamo dicendo fin dall’inizio, che una qualche forma di
linguaggio deve aver preceduto l’uomo, non possiamo forse ritenere – e tutte le
considerazioni fatte nel frattempo ci inducono a ciò –, che sia stato proprio un
mutamento nell’essenza di quel prelinguaggio a fare insieme l’uomo e la sua parola?
A giochi fatti è, invero, non troppo difficile distinguere la parola umana da
tutte le forme, vagamente comunicative, che incontriamo nel mondo animale o
macchinale, dall’istruzione contenuta nella “danza delle api”, all’avviso urlato
nel “grido del leopardo”, all’informazione espulsa da un elaboratore elettronico,
alla retroazione indotta da enzimi e nervi o organi sensori, per mettere qui in
fila solo pochi dei fenomeni che abbiamo antropomorfizzato, e così compresi,
entro una categoria generica smisurata, e per questo informe, di linguaggio. A
tale riduzionismo per estensione è semplice, in ultima analisi, contrapporre un
pensiero – e quindi ovviamente pure un linguaggio, come è proprio qui il caso
di sottolineare – più attento alle differenze e alle specificità. Superato, però, il
livello delle somiglianze più grossolane tra dispositivi di informazione, la
questione dell’origine del linguaggio si amplia, arricchisce, specifica e approfondisce al punto da ricomprendere in sé e infine coincidere con tutta la questione
dell’umano. Se l’uomo è riconoscibile proprio grazie al suo linguaggio, infatti,
l’origine dell’uno è l’origine dell’altro e viceversa.
Posta così la questione dell’origine del linguaggio insieme e come la questione
dell’origine dell’uomo, bisogna dunque cercare di dire quale è lo scarto che ci
impedisce di intendere il suo linguaggio, ancora oggi, come mero “strumento
apofantico”. Ancora oggi, poiché se è pur vero che, quasi fatalmente, dobbiamo
presumere una differenza radicale, e nei modi e nella forma, tra il linguaggio
delle origini e quello attuale, se innanzitutto dobbiamo rinunciare alle linee
guida tracciate dalla differenziazione funzionale e modale tra significante e
significato, per poterci anche solo avvicinare alla questione degli inizi, tuttavia
nella differenza anche più radicale una qualche unità deve essere ricercata, se
quella deve essere appunto l’origine del nostro linguaggio e non qualcosa di
semplicemente diverso e passato, finito, un’altra cosa.
178
Genealogia del linguaggio
In altri termini, sottolineate tutte le differenze possibili – e innanzitutto
smascherata l’analogia con i mezzi di comunicazione da noi stessi creati e le
affinità che riusciamo poi a trovare tra i loro organi e i “fenomeni di
comunicazione” che rileviamo in natura, analogia che ci spinge a fraintendere
il nostro stesso linguaggio, che è invero condizione di quelle forme artificiali di
comunicazione e di interpretazione del “naturale” –, posto dunque alla base
della possibilità stessa di tutto ciò uno iato, dobbiamo pur cercare di
attraversarlo tale iato e così trovare ancora nel nostro linguaggio odierno, ma
proprio nelle sue differenze specifiche, in ciò che non lo accomuna senz’altro e
integralmente a una qualche “segnaletica d’informazioni”, lo specifico umano
di cui dobbiamo cercare le origini. Senza dimenticare che l’inizio non è per la
fine, ma solo la fine a partire da quell’inizio e che, tuttavia, se all’inizio non
possiamo certo porre ciò che c’è alla fine, non possiamo neanche riconoscere
l’inizio, se non sappiamo cosa c’è alla fine, il che vuol dire che certe funzioni,
indirizzi e potenzialità acquisite strada facendo non vanno utilizzate per
spiegare a ritroso gli inizi: esse sono possibilità che quegli inizi certamente non
precludevano, ma non nel senso forte e specifico di esservi state “in potenza”.
Lo abbiamo detto: ciò che avviene in questi ambiti è spesso il frutto di
modificazioni profonde e fortemente creatrici, reindirizzamenti e rifunzionalizzazioni, che possono avere ben poco o nulla a che fare con “le origini”.
La rinuncia alla differenziazione funzionale e modale, ad ogni modo, così
come alla concezione strumentale del linguaggio, non è rinuncia preliminare
ad un qualche principio di unità tra il nostro e il protolinguaggio, che
dobbiamo, però, non presupporre e comunque cercare più a fondo di ciò che,
immediatamente e per lo più, ci appare essere il linguaggio, più a fondo verso i
tratti elementari che, fenomenologicamente, ci appaiano ultimi, generalissimi e
irrinunciabili per poter distinguere la parola umana da qualsiasi altro dispositivo di comunicazione e informatico. Nel cercare, insomma, di non rimaner
vittime di un’attitudine ipergeneralizzante, che cancella tutte le differenze e
rende impossibile sin dall’inizio la costituzione dell’oggetto stesso della ricerca,
che dà per presupposto e ovvio nel momento stesso in cui lo cancella, non
dobbiamo tuttavia rivolgerci a tratti particolari e secondari, dipendenti da altri
tratti di cui possiamo conoscere o tenere per plausibile la condizionatezza
storico-culturale o neurologica e ritenere da ciò inestensibili a tutta la storia
dell’umano.
A questo punto del discorso, però, si fa inevitabile una riflessione più
generale sull’uomo. Posto che “l’uomo” non è un’essenza immutabile, ma un
vivente in incessante mutamento, così come incessantemente muta il suo linguaggio; la sua “origine” è da un lato null’altro che la sua intera storia,
179
Nicola Russo
inizialmente evolutiva e poi man mano sempre più culturale, e lo stabilire
punti di inizio e attraversamenti di soglia conserva perciò un che di arbitrario.
Tuttavia, non è affatto insensato: nella misura in cui l’uomo è distinguibile e
riconoscibile rispetto ad altri viventi, soprattutto nella misura in cui si
riconosce, ha anche senso chiedersi dove e come sia nato5. Il che equivale a
chiedersi: qual è la soglia prima della quale non troviamo più alcuna ragione
per riconoscerci in un certo animale e oltre la quale, seppure ancora in nuce e ad
uno stadio elementare, anche quasi solo nella forma di una promessa, le
affinità si trasformano in autentica parentela e anche di quello che
esteriormente ci parrebbe ancora un “bruto” possiamo dire: Ecce Homo!
Qual è lo stigma dell’umano, insomma, o meglio quale insieme di caratteri
e forme di vita ci permette di riconoscere i nostri propri inizi? Si comprende
che anche questa questione dipende in maniera diretta dal modo in cui
concepiamo noi stessi, ossia da una riflessione sulla fine, che rimane per tanti
versi condizionata, ma che deve almeno cercare di aprire allo sguardo
genealogico il suo ambito di interrogazione. Rispetto al riduzionismo per
estensione, infatti, che riesce a definire le modalità cibernetiche di circolazione
delle informazioni in ogni macchina e in ogni funzione biologica, la questione
sull’origine del linguaggio non si riuscirebbe neanche a porre sensatamente, se
non al costo di integrare nel linguaggio “umano” altri caratteri definitori,
estrinseci, però, alla “struttura” generale e sufficiente per la piena definizione
del linguaggio in quanto tale. Ma in tal modosi avrebbe già prefigurato e
pronto il linguaggio delle origini, definito a priori nella sua struttura formale e
nelle sue “particolarità” umane. Se si ritiene, invece, che il linguaggio umano
sia qualcosa di integralmente sui generis e non solo una forma specifica
dell’universale linguistico-informatico, bisogna cercare di determinare cosa lo
differenzia non nelle forme e nei caratteri particolari della sua struttura
informatica, bensì, se c’è qualcosa del genere, quel che lo differenzia
radicalmente da questa stessa struttura, che lo rende non solo un certo tipo di
strumento comunicativo, ma qualcosa di essenzialmente altro da ciò, che ha
tuttavia nelle sue potenzialità anche ciò.
5
L’ampiezza di tale autoriconoscimento è peraltro l’indice di uno stadio culturale maturo: il
nihil humani a me alienum puto di Orazio appartiene, da questo punto di vista, a una civiltà
ben più elevata rispetto a quella ove fu possibile l’antisemitismo e ogni altra forma di
intolleranza razziale, che al suo fondo ha sempre una ristrettezza dell’ambito di
autoriconoscimento: “noi non siamo come loro”… Ebbene, riuscire a vederci, invece, negli
aborigeni, nell’uomo di Neanderthal e fino all’australantropo, presuppone un’apertura
integrale al riconoscimento di sé nel diverso, che è anche il tratto più apprezzabile del
sedicente “naturalismo”, ove il riconoscimento è esteso a tutto il regno animale. Negli
animali, però, non ci riconosciamo “in quanto uomini”, ma in quanto viventi, i viventi che
certamente siamo, quello zoon logon echon che, però, per l’appunto, parla e in ciò riconosce,
da sempre, la propria parentela più stretta.
180
Genealogia del linguaggio
Vi è bisogno, insomma, di uno sguardo ancor più vasto, e non più ristretto,
di uno sguardo sugli elementi e i principi, sui tratti generalissimi che fanno
della parola umana qualcosa di assolutamente inedito e inconfondibile, al di là
di ogni lingua e di ogni forma comunicativa extralinguistica, che ne fanno
propriamente il linguaggio. Non serve, sia ben chiaro, una compiuta filosofia
del linguaggio, ma certi suoi termini elementari sì. È per queste ragioni di
principio, che adopero il termine prelinguaggio per quella forma di comunicazione analoga a quella dei nostri lontani cugini primati e che presumibilmente
è stata uno stadio preliminare al primo linguaggio “umano”, che chiamo per
questo protolinguaggio e la cui determinazione precisa pongo come interdetta,
ma intorno al quale credo che si possa dire qualcosa, per le vie indirette della
ricerca paleontologica e preistorica, innanzitutto lungo la via della domanda
gemella, quella sull’origine dell’uomo!
Se la questione del linguaggio va posta insieme alla questione dell’uomo,
non possiamo che partire da quel che sappiamo dei primi uomini: ossia da quel
che ce li fa riconoscere come primi uomini e da ciò che possiamo così comprendere del loro linguaggio originario. Una domanda del genere è necessariamente condizionata dall’estrema limitatezza innanzitutto del tipo di documenti
che abbiamo a disposizione: ossa e pietre. L’immagine che possiamo trarne è
estremamente limitata, ma è entro i suoi confini che dobbiamo rimanere. Dalle
ossa impariamo innanzitutto la stazione eretta, la forma del volto e della mano,
dalle pietre gli utensili. Gli ambiti che ci sono innanzitutto aperti per la ricerca
dei primi uomini sono dunque quello somatico e quello tecnico. Tranne il
linguaggio, tutto il resto – strutture sociali, arte, religione… – possiamo solo
presumerlo emergere in vari momenti, ma non ci è, nel suo complesso, lecito
presupporlo sin dall’inizio. Il tentativo che dunque dobbiamo fare è di pensare
il nesso organico tra utensile e linguaggio (Singer 1954: 18, 90).
Dei primi antropiani e della loro vita non sappiamo molto, e tuttavia la
ricerca paleoantropologica degli ultimi decenni ha fatto passi da gigante e ci
consente oggi di poter contare su un certo numero di fatti ampiamente
documentati, che impongono vincoli molto rigorosi alle nostre ipotesi e, per
qualche verso, ci traggono verso certe conclusioni.
Abbiamo già detto dell’insostenibilità acquisita di un’ipotesi di discendenza dell’uomo dalle grandi scimmie. È una questione importante, che non ha
nulla a che vedere con una qualsiasi insofferenza rispetto alla ammissibilità di
una tale discendenza: gli animali da cui veniamo non erano più belli o meno
“bestiali” degli scimpanzé, forse anche il contrario, ma non avevano l’alluce
opponibile, ossia acquisirono da molto presto la stazione eretta e la locomozione
bipede, che comporta tutta una serie di modificazioni funzionali essenziali negli
181
Nicola Russo
equilibri del campo di relazione e di locomozione rispetto alla stazione seduta e
alla locomozione quadrumane delle scimmie: Leroi-Gourhan amava esprimere
questo dato, affermando che siamo stati “cominciati dai piedi” (Leroi-Gourhan
1964: 78).
La prima di tali modificazioni è la “liberazione della mano” durante la
locomozione, che implica la liberazione della bocca da molte funzioni di
prensione del cibo e di esplorazione dell’ambiente, assunte dall’arto anteriore.
La mano tattile e operativa esonera da una porzione della sua attività il volto,
permettendo una rifunzionalizzazione, e tuttavia non scioglie con ciò il nesso tra
i due poli fondamentali del campo di relazione, il volto e l’arto anteriore, per
l’appunto, ma anzi lo stringe ancora di più e lo approfondisce6. Una prima
conseguenza del nesso tra stazione eretta, liberazione della mano ed esonero
della bocca da gran parte dei suoi compiti percettivi, è la predominanza che
assume, sempre più nettamente nell’uomo, l’organo per eccellenza della sintesi
e della distanza, la vista, nella sua connessione con il movimento della mano,
movimento che diviene sempre più diretto e controllato visivamente (Jonas
1994: 179-203; Russo 2004: 95-108; Leroi-Gourhan 1964: 344).
La scoperta che l’uomo proviene da un ramo collaterale, distaccatosi molto
prima che si realizzassero gli adattamenti specifici delle grandi scimmie, a
partire da un animale molto meno specializzato e che era destinato a divenirlo
sempre meno – animale di cui conserviamo nella mano una traccia che LeroiGourhan non esita a definire “fossile”, un residuo estremamente imperfetto e
“arcaico” rispetto alle mani di un gorilla, per esempio, e tuttavia proprio grazie
alla sua rudimentalità addestrabile alle funzioni più diverse e impegnabile
nelle abilità più straordinarie (75, 141)–, questa scoperta, oltre a rendere una
qualche giustizia a molte tesi portanti dell’antropologia filosofica del secolo
scorso, ci mette di fronte a un’altra evidenza, che ha conseguenze dirompenti
rispetto a tutta una serie di questioni. Nelle grandi scimmie, infatti, noi
vediamo realizzate strutture relativamente complesse di organizzazione
cerebrale, sociale e protolinguistica, se si vuole anche di facoltà strumentali,
dalle quali non facciamo, in fondo, troppa fatica a tracciare una linea evolutiva
ascendente verso un possibile protouomo. A dispetto di ogni xenofobia
antropocentrica, insomma, lo scimpanzé non è poi troppo male come
antecedente animale dell’“anello mancante”. In quest’ottica, anche la
paleontologia non troppo lontana da noi, nella migliore buona fede scientista,
ha continuato a cercarlo quell’anello, senza rendersi conto di averlo già trovato
da lungo tempo, ma non dove lo cercava.
6
Leroi-Gourhan (1983) segue l’evoluzione complessa, e tuttavia coerente, delle relazioni tra
campo di locomozione e di relazione sin dall’origine dei vertebrati, mostrandone tutte le
analogie funzionali.
182
Genealogia del linguaggio
La storia di questo equivoco è molto ben raccontata da Leroi-Gourhan (1026, 77), ragion per cui ne presentiamo solo le conseguenze che più ci
riguardano. La questione può riassumersi in un’apparente incongruenza, che
non solo i creazionisti, ma neanche gli evoluzionisti erano in grado di accettare
senz’altro, poiché andava contro ogni “ovvietà” e preconcetto: l’evidenza, che a
dispetto di questa sua evidenza non poteva esser vista e che nelle sue
conseguenze ancora non viene vista, che il primo scheggiatore di pietre fu il
cosiddetto australopiteco, ossia che Adamo, se è lecito spostare il limite del
primo uomo almeno fino al punto in cui abbiamo testimonianze e documenti
di un’attività propriamente tecnica, aveva un cranio e un cervello scandalosamente piccolo. Si arrivò al punto di immaginarsi, sempre al modo delle “ipotesi
plausibili”, che i resti dei nostri primi progenitori fossero quelli delle prede del
vero Adamo, che sarebbe stato quindi un ben più dotato e intelligente
cacciatore di scimmie… (22).
L’“anello mancante”, insomma, innanzitutto non era un anello, in secondo
luogo non mancava affatto, infine non era per nulla uno stadio intermedio,
superiore dal punto di vista del volume cerebrale o dello “stadio evolutivo”,
rispetto alle grandi scimmie… Era semplicemente un’altra cosa, un’altra
possibilità, un’altra strategia della vita. Leroi-Gourhan scrive: “Si tratta infatti,
con tutte le conseguenze anatomiche che la cosa comporta, di un uomo con il
cervello molto piccolo e non di un superantropoide dotato di una grande
scatola cranica” (25, 112).
Da un punto di vista genealogico, però, dal punto di vista che una
genealogia più sottile e più “logica” aveva già guadagnato molte volte nella
storia del pensiero, sin dall’antichità – davvero stupefacente, per esempio, è il
Trattato della creazione dell’uomo di Gregorio di Nissa –, l’apparente incongruenza dei rapporti tra cervello e mano è in realtà quasi una necessità, soprattutto
se quei rapporti vengano considerati insieme alla questione del linguaggio. Il
benintenzionato evoluzionista dell’Ottocento, Novecento e, purtroppo, anche
Duemila, infatti, continua in fondo a credere che il cervello sia fatto per
pensare, come il linguaggio per dichiarare, l’occhio per vedere e la mano per
afferrare, e non si avvede, invece, che è la mano che si forgia afferrando,
l’occhio vedendo, il linguaggio parlando e il cervello pensando. Davvero
paradossale, se si considera che proprio questo è, in fondo, “evoluzionismo”!
“Per vedere”, infatti, così come “per comunicare”, anche nelle forme esteriormente depurate dal finalismo “dispositivo ottico” e “apparato comunicativo”,
nelle formule dunque del tipo: “il linguaggio si struttura come apparato
comunicativo”…, sono tutte espressioni che considerano la funzione come
un’essenza pragmatica, come una potenzialità già ben definita in qualche idea
183
Nicola Russo
d’azione o di funzione preesistente in una “pianura della verità delle strutture
adattive”, funzioni che hanno presupposti biologici e neurologici chiaramente
identificabili e localizzabili in dispositivi neuromotori di un certo tipo, che
arrivano a comprendere pure la laringe o la faringe, le corde vocali e tutto ciò
che, “per natura”, l’idea eterna di linguaggio presuppone… Dunque un animale
che realizza progetti tecnici, e quindi parla, deve avere una certa dotazione
fisica e cerebrale, per accedere a quelle funzioni, deve saper distinguere fine e
mezzo, segno e significato, deve avere rappresentazioni mentali e concetti
astratti, deve poter comprendere le “intenzioni comunicative” altrui o almeno
“sforzarsi” a farlo (Ferretti 2010), deve insomma essere già alla fine, per poter
arrivare all’inizio, diciamo così per via anamnestica… Ma tutto questo è cattivo
platonismo e, soprattutto, cattiva genealogia, oltreché non più storia possibile:
Tale atteggiamento è comune a razionalisti e credenti: in fondo esso rimane estraneo
a una soluzione umana del problema dell’uomo. Suo obiettivo è di collocare, in un
determinato punto della serie di creature sempre meno bestiali, la ‘frontiera
dell’umanità’, il ‘Rubicone cerebrale’, la ‘ricerca di Adamo’. Si tratta di tutt’altra
cosa: invece di una sovrabestialità che finirebbe per acquisire, non si sa bene come, il
‘minimo raziocinante’ umano, l’Australantropo ci pone alla presenza di un’umanità
già reale, ma in un certo senso irriconoscibile e, con ogni probabilità, dotata di un
‘minimo raziocinante’ in misura minore di quanto se ne attribuirebbe a una
scimmiaper poterla considerare antenato dell’uomo (Leroi-Gourhan 1964: 112).
L’australantropo– così preferisco anche io ridenominare l’“australopiteco”,
non era insomma una creaturina cerebrale in un corpo di bestia, era piuttosto un
uomo che doveva ancora educare, su una via immensamente lunga, dolorosa e
faticosa, il suo cervello, e non solo il suo cervello, ma l’intera sua anima, a divenire quell’anima umana, che noi con troppa leggerezza e miopia gli attribuiamo
sin dall’inizio, non comprendendo che essa è il frutto di tutta la sua storia.
La costruzione di strumenti, stereotipa, di strumenti litici che ora
sappiamo essere stati usati per foggiare altri strumenti, in legno o in osso
(Coppens 1983: 57), circostanza che vedremo essere molto significativa, se non
è il “Rubicone cerebrale”, è però certamente una soglia, oltre la quale dobbiamo parlare di umanità, poiché lo strumento è la prima strategia testimoniata,
pietrificata, di un vivente che adatta a sé l’ambiente, come è proprio solo
dell’uomo. E dobbiamo presumere un qualche linguaggio, come sempre LeroiGourhan argomenta in maniera ampia e convincente, attribuendo alle sue
prime forme la stessa complessità dei primi utensili (Leroi-Gourhan 1964: 137). La
fabbricazione stereotipa degli utensili, infatti, implica un insegnamento, che non
può essere gestuale, poiché la mano è impegnata nella lavorazione e il primo
linguaggio deve aver avuto un rapporto di immediatezza rispetto all’atto,
riuscendo solo successivamente a distaccarsene, nel racconto differito temporal184
Genealogia del linguaggio
mente, di cui però possiamo trovare indizi paleontologici solo con le prime
testimonianze di raffigurazioni.
Non è qui possibile, però, ricostruire dettagliatamente l’insieme di argomenti e documenti, su cui si basa il nesso mano-utensile-linguaggio, per il
quale rimando innanzitutto alle opere di Leroi-Gourhane Arnold Gehlen. Quel
che invece cercherò di fare, riprendendone via via alcuni elementi, è integrare
nella storia paleontologica, che rimane il testo fondamentale, pochi elementi di
un’indagine fenomenologica sul linguaggio umano, riprendendo la domanda
circa la sua unicità, sulla base di un assunto, invero duplice: se il nesso
utensile-linguaggio è saldo, proprio in quel nesso si esprime una differenza
funzionale, che già in quanto tale non ci consente di intendere il linguaggio
stesso in maniera propriamente strumentale. La dimensione tecnica è incarnata
nell’utensile, anzi meglio nell’unità di vista, mano, gesto e strumento, unità che
è ontologicamente e strutturalmente una macchina (Russo 2008: 98-112). Come
cercherò di mostrare, però, entro il suo proprio spazio anche il linguaggio è una
macchina, una macchinazione e un artifizio, tramite il quale l’uomo forgia non
oggetti, né semplicemente concetti, ma innanzitutto se stesso.
Una mechane invero di tipo molto particolare. Ciò che, infatti, non è
proprio a nessuna vibrazione di antenne, variazione cromatica, espressione
fonetica, dal lato animale, e a nessuna segnalazione informatica, controreazione
cibernetica e “intelligenza” artificiale, nell’ambito tecnologico, e che è peraltro
non qualcosa di accessorio, ma l’anima stessa e tutta la quotidianità della
parlata umana, si può forse dire, in prima approssimazione, attraverso tre
parole: interpellazione, dialogo, e insegnamento.
Nell’interpellazione si apre uno spazio originario, che nessuna informazione
contiene, per quanto essa possa valere una sola volta, una volta per tutte, per
uno solo: sarà ogni volta il primo che capita, uno a caso, o proprio quest’uno
fatto così e così (per esempio il cucciolo), ma non TU, proprio tu a cui io parlo,
a cui parlo proprio perché sei tu, qui insieme a me, il tu a cui rivolgo la parola.
L’informazione o l’avviso potranno anche mutare, a seconda di chi li riceve, ma
non la loro emissione, che ha sempre altre cause dal puro Tu, il quale è invece,
in tutte le sue figure ed estensioni, anche le più ampie e astratte, sempre causa
determinante del nostro dire, del suo cosa, come, quando, perché… Un Tu, al
quale noi non indichiamo per lo più delle realtà, cose, azioni, situazioni, concetti, rappresentazioni, eventi complessi…, bensì in senso proprio intenzioni:
comandi, prima di tutto, poi desideri, preghiere, inviti, omaggi, e tutta la
mimetica delle passioni e della volontà7.
7
Nietzsche 1887: 15, ipotizza un’origine del linguaggio dal diritto signorile di imporre nomi.
Singer 1954: 90, sottolinea che il linguaggio “non fu essenzialmente un mezzo esprimere il
pensiero; esso ebbe piuttosto un compito fondamentalmente più pratico, ossia controllare
la condotta degli individui”.
185
Nicola Russo
Anche nelle forme del me, del noi o del voi, dunque, l’interpellanza si
rivolge a un Tu e contiene sempre un invito, un indirizzo: non si rivolge la parola
a nessuno per dargli una semplice informazione, a meno che non ci sia
richiesta o che non abbia un qualche senso per colui che la dà o la riceve, un
qualche “valore” e solo così anche un qualche “significato”, che non è mai solo
il suo contenuto oggettivo, bensì sempre la sua unione con un qualche interesse.
Il che è vero anche per il “grido del leopardo” dello scimpanzé, che non
significa: “ho visto un leopardo” o “è in arrivo un leopardo”, ma tutt’al più:
“scappiamo dal leopardo!”. In questo suo carattere anche il più inarticolato
degli “avvisi” animali è sempre più dotato di senso e di significato rispetto a
qualsiasi informazione densa di contenuto emessa foss’anche dalla più
avanzata “intelligenza” artificiale. Poiché in essi non vi è solo un contenuto, ma
sempre anche e costitutivamente un atteggiamento. Tuttavia, anche i “segnali
vocali” meglio modulati dei nostri cugini primati non arrivano fino al punto da
poter essere definiti come un’autentica interpellanza: sia perché “scattano” solo
in funzione di stimoli esterni, ambientali, e mai spontaneamente come “parola
rivolta”, indirizzata a un altro, a prescindere dalla situazione, dal “leopardo” –
e teniamo qui presente che l’utensile non è un leopardo! –, sia perché rigidi,
istantanei, indisponibili ad un uso esonerato, totalmente determinati, tutti tratti
che nella “parola” scompaiono. Leroi-Gourhan riconosce alla prima emergenza
del linguaggio, che separa radicalmente dai “segnali vocali” delle “grandi
scimmie”, non un aumento significativo del contenuto o del numero dei segni,
ma proprio di questi tratti: la disponibilità, flessibilità, spontaneità, memoria…
(Singer 1954: 90; Leroi-Gourhan 1964: 138).
Ed è in questa interpellanza del linguaggio umano, per andare subito a
battere su un nervo sensibile, che si radica una delle sue facoltà fondamentali,
che non ha l’ape, né la scimmia, né il computer: non la mera possibilità di
errare, che tutti costoro condividono con noi, bensì quel tratto unicamente
umano, che proprio per la sua natura logica e forma linguistica si distingue da
ogni dissimulazione e mimetismo naturale, la miracolosa facoltà della menzogna!
Nella menzogna, infatti, il rapporto tra significante e significato, se proprio
dobbiamo usare questi termini, viene artatamente perverso, il linguaggio si
impossessa di entrambi, o meglio tramite il primo, che ha così già sottomesso
alle sue possibilità, prende possesso del secondo, non “oggettivamente”, ma
rispetto al Tu che viene interpellato: il segno non rispecchia-rappresentasimboleggia il significato, quale che sia la sua estensione, bensì lo produce e
impone al Tu, ingannandolo. Se questa tesi hauna qualsiasi sostanza – e il suo
vero banco di prova non è la tradizione mitica, cui facciamo qui riferimento per
altri motivi, ma la storia della tecnica e di ogni artificialità–, i primi atti umani
186
Genealogia del linguaggio
non sono la “disubbidienza” a Dio, né l’omicidio che più tardi ne deriva, ma
proprio la menzogna, l’interpellazione intenzionalmente deviata verso un Tu,
che va, in un qualsiasi modo e direzione, sviato.
Sia chiaro: con questo non sto dicendo che le prime parole umane siano
state menzogne, sto solo evidenziando una potenza elementare dell’interpellanza, che ha profonde analogie strutturali con quell’altro gesto del tutto
umano e protoumano, che è la costruzione di un utensile, la via artificiale e
prodotta verso uno scopo, la via traversa8. E lo sto facendo poiché, sul piano
logico, è proprio questo elemento a spostare, per così dire, il margine della
menzogna dall’interpellazione alla risposta, dal Serpente ad Eva, risposta che, a
dispetto delle apparenze, è la prima mossa di ogni dialogo, non solo poiché
l’interpellazione potenzialmente e spesso va a vuoto, ma perché non le è
strutturalmente necessario attendersi o richiedere una risposta: nella forma
elementare del comando, l’interpellanza richiede un’adeguazione pratica, non la
controinterpellanza logica della risposta, che, come vedremo, ha in sé un’altra
potenza originaria del logos. In mancanza di una risposta, il comando come
“azione intorno alle cose” del Cratilo sarebbe l’esatto analogo della pietra
scheggiata rispetto alla preda colpita da essa e l’uomo rimarrebbe dunque
preda di se stesso. Nella risposta, invece, vi è il secondo gesto, quello che
istituisce il dialogo, la pietra scheggiata viene utilizzata per creare altri
strumenti, per intagliare nel legno una nuova possibilità… È vero, infatti, che
già nell’interpellanza iniziale può esservi l’inganno e la menzogna, ma ciò è
ancor più vero della risposta. A questo punto, però, bisogna andare più a
fondo nell’essenza della parola rivolta, per cercare di chiarire i termini di quel
margine oscillante della menzogna tra imposizione e diniego, entro cui si “dialettizza” l’umanità del linguaggio.
È qui, però, necessario fare un’integrazione e un riferimento a una dimensione, che insieme a quella tecnica e linguistica è certamente cruciale per il
problema dell’uomo e della sua progressiva umanizzazione, anche se, come
vorrò mostrare, non ci fornisce molti indizi per la genealogia del linguaggio9.
Come abbiamo detto, nell’interpellanza si apre lo spazio originario del Tu,
estraneo a qualsiasi “informazione” ed implicito, invece, in ogni parola, anche
nella forma riflessa del sé o in quella orante del Dio, che da un certo punto di
Sia in Singer (1954: 18), che in Leroi-Gourhan (1964: 287-289), è sottolineato il carattere di
“trucco” e “artifizio” del nome come dell’utensile, il cui simbolo più evidente è nella
“trappola” o nell’“arco”.
9 Al contrario, potrebbe essere decisiva per la prima scrittura, se è fondato il sospetto, che le
prime figurazioni dei paleoantropi fossero una sorta di notazione musicale o lirica, il
promemoria dei primi aedi (Leroi-Gourhan 1964: 429).
8
187
Nicola Russo
vista non è altro che l’ipostatizzazione del Tu silente. Si potrebbe far notare, a
buon diritto, che questo spazio non è però implicito nel canto, ed è esattamente
questa la ragione, per la quale il canto non è per noi propriamente linguaggio:
in esso, la facoltà di articolare e modulare la voce è messa al servizio
dell’espressività musicale ed esonerata dalla funzione dialogica, una ragione
che mi induce a ritenerlo successivo, in chiave genealogica, all’origine del
linguaggio. Leroi-Gourhan asserisce che, almeno a partire da una certa fase, gli
antropiani “cantavano quasi sicuramente” (425), e non vi è alcuna ragione per
escludere che le primissime fasi del linguaggio corrisposero ad un parallelo
dispiegamento della ritmicità “musicale”, si potrebbero anzi portare molte
ragioni a sostegno di ciò. Tuttavia, proprio nel carattere di rifunzionalizzazione, che mi pare individuabile nell’uso della parola ai fini del canto e, poi,
della poesia lirica, vi è l’indice della posteriorità di tale fenomeno, che già
presuppone una facoltà di articolazione della parola, di cui l’espressività
musicale, anche nella forma della modulazione di suoni, può far bene a meno.
La questione, in ultima analisi, è se la modulazione di suoni abbia non solo
preceduto, ma anche in qualche modo prodotto l’articolazione di parole, questione in fondo irrisolvibile, ma rispetto alla quale si può far notare che le due
vie, quella dell’espressività musicale e quella del linguaggio, sono funzionalmente e logicamente distinte in maniera nettissima e che, se nelle prime fasi
dell’umanizzazione abbiamo ragioni sostanziali per mettere in connessione
utensile e parola, per quanto riguarda la modulazione musicale di suoni non
possiamo far valere argomenti altrettanto forti. Solo spingendo la genealogia
sulle vie insicure dell’analogia, possiamo rintracciare nel nesso “piede-passo”
l’analogo del nesso “mano-operazione tecnica”: nella percezione dello “scalpiccio”, come ritmo che emerge e si distingue gradualmente dai ritmi naturali,
Leroi-Gourhan riconosce i primi inizi della musica (362), ossia nella rifunzionalizzazione del comportamento vitale della locomozione nella produzione intenzionale di ritmi: possiamo dire, in qualche modo, che il piede incede nella danza, così
come la mano nel gesto strumentale e la voce nella parola: da questo punto di vista,
si tratta di fenomeni analoghi e paralleli, tra i quali non si possono definire
rapporti genealogici di dipendenza, appartenendo, ognuno nella sua propria
dimensione, ad un unico movimento. L’origine del linguaggio umano dal canto,
insomma, rimane una bella ipotesi, ma solo un’ipotesi, che peraltro non risulta
granché utile nella determinazione, che stiamo cercando di abbozzare, dei tratti
elementari del linguaggio e di ciò che li connette, in maniera diretta, alle sue
prime espressioni tecniche.
Torniamo quindi alla parola rivolta e alla risposta, che instaura il dialogo
ed entro la quale l’inganno diviene propriamente menzogna: nell’interpellanza,
188
Genealogia del linguaggio
infatti, può già esservi, e in qualche misura vi è sempre, per il suo carattere
linguisticamente mediato, la produzione artefatta del fittizio, ma è solo nella
risposta che veramente si comincia a mentire. È, infatti, solo sul piano del
dialogo, che alle modalità imperative e ottative di cui l’interpellanza può
esclusivamente consistere, si può aggiungere l’interrogazione: in essa, la parola
rivolta non richiede un atto o un gesto, ma una nuova parola, l’azione vocale
diviene qui interamente infralinguistica e può quindi gradualmente distaccarsi
dalla concretezza della situazione. L’analogia è quella tra l’utensile prodotto
come mezzo per uno scopo e quello prodotto come mezzo per un mezzo,
mediazione raddoppiata, che deve appartenere anche genealogicamente ad
un’epoca successiva del protolinguaggio.
Da un punto di vista più strettamente sociale, inoltre – punto di vista che
ora ci è del tutto lecito cominciare a introdurre, nella misura in cui, con l’istituzione del dialogo, la parola si è già logicamente allontanata dall’operatività
tecnica immediata –, nella risposta ad una parola rivolta si schiude per la
prima volta anche lo spazio della responsabilità, che consiste in ogni sua
dimensione nella presa di posizione, mediata dal linguaggio (anche nella
forma della riflessione, della memoria, della concezione), verso una qualche
interpellanza, foss’anche implicita o oggettiva, materiale (nel senso, per
esempio, in cui oggi si parla di “responsabilità ecologica”).
Il dialogo entro uno spazio di responsabilità, infatti, implica sempre un
qualche “darsi la parola”, impegnarsi, non sul piano dell’operatività immediata, ma su quello logico-morale, che diviene qui lo spettro amplissimo della
promessa, dell’accordo, e poi del contratto, della convenzione, del debito… Su
questo piano, il nesso fondamentale tra la parola e la mano, che sul piano
dell’interpellanza conduce al gesto comunicato, messo in comune, all’operazione
tecnica stereotipa, con la quale l’uomo si fa creatore dei propri mezzi, diviene
la stretta di mano, con la quale ci diamo la parola, la suggelliamo e rivolgiamo al
futuro: dimensione in qualche modo già implicita, come implicita vi è quella
del passato, nella memoria e progettazione tecnica, nel costruire secondo una
tradizione e in vista di un’operazione futura, ma che con la liberazione della
parola dall’istante dell’interpellanza e dallo strumento ove inizialmente si
concretizza, quindi a partire dal linguaggio come dialogo, si estende e amplia.
È però solo sul terzo livello, quello dell’insegnamento, che l’intera estensione temporale, nelle sue articolazioni ben definite, si evidenzia in maniera
chiara entro la pratica linguistica. Prima di arrivarvi, però, bisogna far
emergere nella sua piena evidenza e semplicità il secondo elemento costitutivo
della dialettizzazione del linguaggio, che logicamente è preliminare (il che non
vuol dire di per sé genealogicamente), quello a cui alludevo nel diniego: se
189
Nicola Russo
l’interpellanza, infatti, prima di divenire domanda è comando, la risposta,
prima di divenire menzogna è rifiuto. Nel dialogo, in altri termini, si fonda
l’opposizione elementarissima e decisiva del sì e del no! Solo in esso è possibile
accettare, ammettere, obbedire, confermare, annuire o invece rifiutarsi, rifiutare,
disubbidire, sconfessare, diniegare… Affermazione e negazione vengono
dunque dal campo dell’imposizione, dell’interpellanza che comanda, che istituisce un potenziale conflitto, un “no” pienamente negativo, contrappositivo.
L’interpellanza, infatti, come accennavamo parlando della menzogna, è
essenzialmente positiva: anche quando contrasta o aggredisce lo fa nei termini
del “lì!” o del “così!”, ci vogliono milioni di anni probabilmente perché la menzogna nasca spontanea, sia la prima mossa, una “menzogna rivolta”, ci vogliono molti rivolgimenti dell’anima e del cervello, perché essa possa autonomizzarsi, fino a divenire interpellanza ofidica. Mentre nella risposta ad
un’interpellanza, già a quella imperativa, in quella risposta, che è sempre
anche l’apertura di una qualche responsabilità, che senz’altro sente sempre
l’interpellanza altrui, anche quella interrogativa, come un investimento, una
possibile minaccia e in qualche grado, anche minimo, come una violenza; in
quella risposta per la prima volta si apre l’opportunità del sì e del no, del “qui” e
del “non così”, addirittura la necessità di prendere partito per questo o per
quell’altro, e quindi anche l’opportunità di fingere una scelta, un assenso, di
mentire. In tal modo, così come l’interpellanza apre lo spazio del Tu, la sua
risposta radica l’Io nella propria possibilità elementare di dire sì o no, l’assenso
o il diniego, il vero o il falso…
Il sì e il no, oltre al loro valore ontologico fondamentale, che però emerge
solo nell’ultima epoca del linguaggio, nel passaggio dal linguaggio mitico a
quello scientifico, strutturano le condizioni dell’insegnamento, tramite cui si
costituisce la memoria sociale del gruppo, la tradizione dei gesti e delle usanze. Il
carattere logico, dialogico, di tale insegnamento, lo distingue da ogni “apprendimento” di tipo animale, per ostensione e mimesi, che non comprende mai
un’autentica interpellanza, ma tutt’al più un addestramento filiale, che non
ammette eccezioni o dinieghi, perché il suo oggetto sono i modi stessi e i mezzi
elementari della sopravvivenza. Altro affare presso gli uomini, vicini e lontani,
che devono innanzitutto “mettersi d’accordo”, accordarsi tra di loro, su
qualcosa che non appartiene alla loro natura immediata, corporea e biologica,
né ambientale, su un’altra cosa rispetto alle loro dotazioni e alla loro nicchia
ecologica, inizialmente solo su un pezzo di pietra e il modo in cui spaccarlo:
dal semplice ritmo del gesto impegnato, dall’intera macchina all’opera,
l’interpellanza e la risposta divengono insegnamento, ben prima che qualcosa
come il designamento divenga tramite ciò possibile.
190
Genealogia del linguaggio
Con “insegnamento”, quindi, non intendo solo le varie forme di apprendimento mediate linguisticamente, a partire dall’apprendimento della lingua stessa,
ma qualcosa di molto più generale: uso, infatti, il termine “insegnare”
certamente in analogia con “designare”, “assegnare” e, in ultima analisi, “significare”, ma lo faccio per sottrarre l’intera dimensione “indicativa”, che qui si
apre, ad una sua troppo stretta specificazione come attività puramente apofantica. Se nell’interpellanza sono già in nuce i modi ottativo e imperativo, nel
dialogo quello interrogativo ed, entro certi limiti, congiuntivo, solo nell’insegnamento trova piena espressione l’indicativo, che non ha solamente, né
primariamente, un carattere ostensivo, poiché è comunque già radicato nel
dialogo e quindi nello scambio di parole, entro cui i discorsi si intrecciano e
rimandano l’uno all’altro, si coimplicano in un symplegma ove l’ostensione è
anche invito, l’ascolto è apprensione, ma anche replica, l’indicazione ha sempre
un senso che supera il suo mero contenuto significativo, è sempre già entro un
progetto comunicativo globale, all’interno del quale possono svolgersi attività
su diversi livelli, dall’insegnamento in senso stretto di pratiche produttive e
tecnico-operative, alla progettazione più complessiva delle più diverse
dimensioni vitali, alla conservazione e consolidamento della memoria sociale e
del gruppo, alla domanda che si apre per la prima volta alla ricerca di una
comprensione, di una spiegazione…
Non è un affatto un caso, dunque, se l’estensione dei modi elementari del
parlare si svolge gradualmente e in parallelo all’estensione temporale del
pensiero, che proprio l’indicativo contenga la maggiore ricchezza di articolazioni temporali del verbo, che nel passato si legano al racconto e alla
narrazione, nel presente all’operazione, nel futuro al progetto.
Il discorso potrebbe continuare ed estendersi in molte direzioni, qui solo
accennate o tenute ai margini, ma già l’esposizione sommaria dei caratteri
dell’interpellanza, del dialogo e dell’insegnamento ci può dare alcuni indizi
per una comprensione più prossima degli inizi del linguaggio. Nell’intreccio
dei tre, infatti, si apre compiutamente lo spazio simbolico entro cui si muove il
nostro linguaggio, spazio che non è già presumibile nella semplice interpellanza: “così!”, né nella semplice risposta: “no!”, bensì solo nel dialogo insegnante: “questo così e così”, una fase che deve essere stata raggiunta molto tardi
nella sua compiuta configurazione logica. Solo sul suo piano, comunque,
possiamo pensare nella pienezza dei suoi caratteri, quell’atto straordinario che
è la denominazione, atto che in qualche forma minima vi è sin dalla prima voce
articolata, ma che solo una volta raggiunto lo spazio simbolico acquisisce la sua
piena potenza e si umanizza compiutamente. Se il simbolo, infatti, è già
implicito nel “questo” e “quello”, diciamo pure nei nomi comuni – ma con
191
Nicola Russo
l’avvertenza che uso qui il termine “nome” in senso del tutto generico, non
alludendo solo o nient’affatto ai “sostantivi” – è solo nel “battesimo” che
l’uomo si fa pienamente signore della sua lingua, solo nel nome proprio
(Foucault 1966: 23).
La dimensione dell’insegnamento, infatti, è inizialmente quella del racconto
come istruzione per l’uso, tecnico e sociale, e come orientamento, nello spazio e
nel tempo. Ma solo con la denominazione, potenza che non possiede alcun
animale o alcuna macchina, avviene l’affrancamento del segno insegnato, la
prima forma di libera designazione, uno dei gesti più creativi dal punto di
vista logico: nel battesimo non siamo più io e tu, noi e loro, ma c’è per la prima
volta lui, cui do un nome che vale per tutti noi, che sia il nome di un figlio o i
nomi degli dei. Col pensiero mitico e genealogico, con le teogonie, con il
“tönendes Pantheon” di Hamann, il tu silente diviene un lui, di cui si racconta
la storia. Siamo qui, però, già a milioni di anni dalle prime parole, al margine
della nascita della scrittura, che muta ancora radicalmente le strutture del
linguaggio.
Torniamo dunque indietro, per cercare di dare un’immagine più viva di
ciò che era nel frattempo avvenuto. Nella sua “paleontologia del linguaggio”,
che nonostante il suo estremo interesse rimane per certi versi legata ad una
concezione strumentale, Leroi-Gourhan distingue tre fasi progressive nella
storia del linguaggio: “Essenzialmente legato all’espressione del concreto,
doveva consentire la comunicazione nel corso degli atti, funzione primordiale
in cui il linguaggio è strettamente legato al comportamento tecnico”. Una
seconda funzione, che “dovette emergere a poco a poco negli Arcantropiani”,
per quanto “sia difficile da dimostrare”, è “la trasmissione differita dei simboli
dell’azione sotto forma di racconti”. Solo molto più tardi, nei Neanderthaliani,
avviene “l’esteriorizzazione di simboli non concreti” e diviene dunque
possibile la “terza funzione”, l’espressione di “sentimenti imprecisi dei quali si
sa con certezza che in qualche misura hanno a che vedere con la religiosità”
(Leroi-Gourhan1964: 138).
È una descrizione storicamente attendibile, una tripartizione logicamente
coerente, ma povera di contenuti, il che le deriva dalla povertà dei documenti
su cui si basa, come Leroi-Gourhan sottolinea. Una descrizione che, però, si
può forse integrare in alcuni suoi punti, se la fenomenologia che abbiamo
tracciato ha una qualche consistenza. Se, proprio come dice Leroi-Gourhan, la
prima umanità non è “sovrabestialità”, ma umanità minima, allo stesso modo
la prima parola non sarà stata un grugnito articolato, bensì una parola minima.
Non possiamo però intenderla come minimamente descrittiva, poiché per la sua
funzione era anzi pienamente adeguata e perfettamente analoga e corrispondente
192
Genealogia del linguaggio
all’utensile! Possiamo forse dire, invece, che era minimamente interpellante.
Altrove Leroi-Gourhan nota, che nel primo linguaggio non doveva esservi
“intelligenza individuale” (116), che infatti solo con il linguaggio si è formata:
l’interpellanza minima non presuppone la consapevolezza dell’io, ma esercita
l’interpellazione del Tu, non la pensa o l’immagina, ma la pone in atto. Il Tu è
interpellato di fatto, prima che ogni “io” o me stesso abbia una qualche idea del
“tu”! È tramite la sua interpellazione che, innanzitutto, il Tu si fa, ed è nella sua
risposta che riconosce il tu che è esso stesso come Io. È dunque nel gioco tra
domanda e risposta, nel dialogo e poi nell’insegnamento, che si costruisce
l’“intelligenza individuale”: così come gli strumenti, anche le parole sono
“filtrate a poco a poco nel corpo e nel cervello” (126).
Un ultimo punto è poi da sottolineare, un’incongruenza di quella
tripartizione delle prime funzioni del linguaggio. Leroi-Gourhan suppone che
all’inizio esso sia stato “espressione del concreto”, poi “racconto”, infine
“mito”, per poi tornare, nella fase moderna, alla tecnicità. Se intorno al mito e
al racconto mi pare che egli legga con precisione i dati paleontologici,
“espressione del concreto”, invece, come descrizione del rapporto immediato
utensile-parola, in fondo non significa nulla, se non viene intesa già sul piano
simbolico, un piano che egli stesso riconosce appartenere ad una fase più tarda,
per ragioni puramente neurologiche (164). Ritengo che una simile incomprensione sia qui legata, come analogamente in Cassirer, ad una riflessione poco
accurata sulla natura dei primi utensili, che entrambi pensavano così come noi
pensiamo i nostri strumenti tecnici. Riconoscendo esplicitamente nella strumentalità il segno di un’attività rappresentativa di ordine simbolico, coerentemente Cassirer poneva le origini del linguaggio nel pensiero mitico, che faceva
però precedere quello tecnico dei primi utensili, un inversione dell’ordine
storico scusabile ai tempi di una paleontologia ancora insicura nei suoi mezzi e
nelle sue acquisizioni (Cassirer 1930: 58-63). Ma che l’utensile preceda di
milioni di anni le prime raffigurazioni mitogrammatiche impone una totale
revisione della comprensione stessa della tecnica delle origini, coeva ad un
pensiero, e ad un cervello, che non avevano alcun mezzo per distinguere causa
ed effetto, mezzo e scopo, soggetto e oggetto…
Insomma, se non vi sono ragioni per mettere in discussione la lunga
tradizione interpretativa che pone prima del linguaggio razionale quello
mitico, non possiamo però certo credere ad un linguaggio, precedente a quello
immaginifico e “magico”, simbolico-rappresentativo come il nostro nell’australantropo, a meno di non ritenere gli ultimi millenni un’orribile regressione!
Non poteva dunque, a quanto pare, e con tutte le limitazioni di questo “pare”,
essere un linguaggio che diceva cose o simboli o miti o azioni. Ci rimane solo
193
Nicola Russo
una quasi certezza: quel linguaggio doveva comunque servire a “insegnare
gesti tecnici”. E forse a coordinare la caccia e a organizzare la divisione elementare del lavoro e dello spazio comune della coppia, la “coabitazione”, compresa, mano mano, la procreazione e la crescita dei piccoli. “Parole”, dunque,
che all’inizio suonavano forse come: “così”, “lì”, “insieme”… Direzioni innanzitutto, forse anche gusti e odori, ad ogni modo “enti” e “pensieri” per i quali
non abbiamo più parole, di cui abbiamo dimenticato e perso da molto tempo i
primi sensi…
Voglio dire, che proprio la constatazione che prima della formazione della
scrittura il pensiero e il linguaggio avessero un’altra organizzazione e figura, ci
impone di ritenere che ancor prima fosse di natura ancor più diversa e lontana,
incomprensibile. La religione e, poi, la filosofia, infatti, ci conservano una
qualche vaga prossimità al mito, ma prima del mito cosa riusciamo a pensare?
Preoccupazioni “esclusivamente materiali” (Leroi-Gourhan 1964: 221) non ha
senso neanche dirlo, se si considera che “materia” è concetto che comincia a
emergere, faticosamente, solo nella chora di Platone e poi nella Fisica di
Aristotele, è qualcosa, insomma, di pensabile solo dopo la separazione del
“materiale” dal “simbolico” e “matematico”, che avviene tardissimo, una visione
che dunque proietta sulla dimensione innanzitutto vitale degli australantropi
una concezione che non può corrispondere a nulla del loro mondo. Che dei
primi uomini non possediamo immagini o suoni, per affrontare la questione da
un altro lato, non ci autorizza insomma a pensarli solo sulla base di un
paradigma artigianale sostanzialmente di tradizione platonica, ma ci spinge
invece ad approfondire un approccio, che potremmo chiamare, con LeroiGourhan stesso, “biologia della tecnica” (173).
Non posso certo neanche provare a sviluppare qui un discorso compiuto
in tale direzione, ma a chiusura di questo tentativo di genealogia del linguaggio almeno qualche cenno ai modi in cui potrebbe svolgersi, più nella
forma di un racconto, che non di spiegazione, in maniera del tutto congetturale
e senza pretendere di dire nulla di veramente probante, vorrei darlo.
La creazione del primo utensile e della prima parola è in qualche modo
legata a una “rivoluzione della percezione”: solo quando si sfugge agli stimoli,
quando la pietra non è più legata a un ambiente e stimolante solo entro tale
integrazione, rimanendo quindi neutra, ma può essere vista per sé, la mano può
allungarsi per afferrarla. Ma cosa viene così visto e cosa detto? Il nesso vistaudito (344) è cruciale per la configurazione del pensiero umano e del
linguaggio, che è fatto di suoni che dicono immagini e non, per esempio, odori.
194
Genealogia del linguaggio
Da un punto di vista biologico, dunque, la parola è forse analoga non tanto
all’abbaiare del cane, ma al suo prendere possesso di un territorio marcandolo
con l’orina, emettendo odori, dal momento che il suo cosmo percettivo è
innanzitutto olfattivo. In un cosmo percettivo dominato dalla vista, poniamo
questa semplice domanda, come si può prendere possesso di un territorio?
Ogni altro senso ammette una proiezione all’esterno dei suoi sensibilia,
tranne la vista, che deve dunque trovare una via traversa, in realtà due, strettamente connesse, all’inizio forse coincidenti: la mano, che forgia forme, e la voce,
che dice immagini, che dice innanzitutto il gesto stesso della mano. Se ciò ha
qualche fondamento, allora, il primo linguaggio proietta visioni immediate. Non
“cose” viste, come penseremmo ingenuamente, poiché la “cosa” non è ancora
nata. Né tantomeno “rappresentazioni” o “idee” e così via, tutti prodotti che
qui divengono possibili, ma non vi sono ancora. Se è vero, invece, che il
linguaggio è praxis, quasi un’integrazione attiva della prossimità della vista, è
come se nel suono che dice visioni la vista si protendesse ad afferrare il mondo.
Solo dopo di ciò può ritornare in sé, riflessa come immaginazione, in un primo
momento coincide con il movimento del braccio, è quel movimento: la parola
comanda la mano, è la visione stessa della mano che si protende, del suo gesto
tecnico10. Come scrive Leroi-Gourhan: “le figure verbali sono l’equivalente
degli utensili e dei gesti manuali” (424), purché, però, si pensino gli utensili
insieme al gesto, non come oggetti o strumenti, ma come macchinazioni,
espressioni concrete e materiate di un nesso vitale, intenzionale, la fusione,
integrale a tutti i livelli percettivi ed emotivi, di mezzo e scopo. Non si tratta di
“trarre dalla realtà elementi che ne restituiscano un’immagine simbolica”, ma
di un protendersi verso la realtà, afferrarla nella parola, e custodirla nella
memoria.
La mano che forgia, lo sguardo che parla, il piede che danza: solo un
racconto, se si vuole un mito.
10
In questo modo è completo il capovolgimento della genealogia del linguaggio dal gesto:
non è con i gesti che si indicano le cose, ma con le parole gesti vitali, ed è solo in base a
ciò, che il gesto può poi anche supplire la voce. Inoltre, verrebbe così anche reso conto del
potere magico della parola, di quella “proprietà generale” che il linguaggio conserva
sempre, anche nella scienza moderna, proprietà che esige che “il simbolo domini
l’oggetto, che una cosa esista solo quando ha un nome, che il possesso del simbolo
dell’oggetto abbia la facoltà di influire su di esso” (Leroi-Gourhan 1964: 386).
195
Nicola Russo
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196
From Stern to Sterne
Language, Meaning, Narration
(English text reviewed by Ryan Spring Dooley)
Marco Castagna
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli “Federico II”
email: marco.castagna@gmail.com
bababadalgharaghtakamminarronnkonnbronntonnerron
ntuonnthunntrovarrhounawnskawn
toohoohoordenen
thurnuk
!
James Joyce, Finnegans Wake
The philosophical perspective cannot to be “suspect” as to the question of
the origin of language(s), having identified the risk of genealogical representation of an original order of human experience in the research of it’s
chronological beginning. It is, therefore, starting from this suspicion that the
multiplicity of languages hides their polysemic nature of the human
experience, that this paper tries to trace the instability of linguistic borders through the inferential nature of the sign –to the narrative intelligence as
human ability to “be in the world”. Since, if it is true what Paul Ricœur (1973)
said about the essential difference between linguists and philosophers, namely
that what is a fact (i.e. the structure of language) for the first, is a problem (i.e.
the act of language) for the second, probably, this same difference allows more
benefits to philosophy than to linguistic.
1.(*) the absence of origin
From classical antiquity to the 19th Century, a specific direction of research
has dominated over others, intertwined under the label “origins of language”:
the attempt to reconstruct the Ursprache, the form of language(s) from their
origins.
Today, we don’t have a united unequivocal computation of languages in
the world. According to estimates presented in 2009 in Ethnologue: Languages of
197
Marco Castagna
the World (Lewis 2009), we know about the existence of 6909 languages spoken
in the world. Of these, according to the Atlas project of Endangered Languages of
UNESCO - 2474 oscillate between vulnerability and extinction1. Two facts
which, when combined, are perfect for the breaking news(“half of the spoken
languages will disappear by the end of the next century!”) and to awake, at
least for a day, readers or listeners (stimulating the “public opinion”) about the
importance of language diversity. And yet, the same data, offered to a deeper
reflection, seem to be less certain: what are the criteria that make it possible to
distinguish one language from another? What is the role of oral and written
communication in terms of the vitality of language? When is a language born?
And when can we certify its death? In other words, how can we define the limits
of something that seems to be in constant movement?
The languages of which we are aware are more or less deeply different
from one another, with diversity that involves not only the plan of the
expression (“cat” rather than “chat”), but the syntactic functionality, the
distinctions of grammatical categories and the distinctions of meaning. These
differences occur in space (diversity between French and Italian, between
English and Danish, …) and time (diversity between ancient and modern
English, ancient and modern French, …), as in the difficulties encountered by
an adult who has a “mother” tongue in an attempt to learn a “second” tongue.
Except in rare and not so widely credited exceptions, from its romantic
birthplace2 until today, the historical-comparative method is the way in which
Now in its third edition (Moseley 2010), the Unesco Atlas identifies five categories of risk:
vulnerable (white): most of the children speak the language, but it is used only in certain
contexts, for example, in the family circle; definitely endangered (yellow): children do not
learn the language as a mother tongue at home; severely endangered (orange): the language
is spoken only by elders, the grandparents: parents understand but do not speak the
language; critically endangered (red): the language is spoken only by elders, and the
grandparents, but they don’t use it in all occasions, only partially and not very frequently;
extinct (black): there are no more people who speak it. In spite of the number and
complexity of the factors taken into consideration by UNESCO documentation, it is
interesting to note that the fundamental criterion for the definition of language vitality, is
that a language is not considered in danger if there are children that speak it in all contexts
of daily life.
2 Although the idea of a “common” language had already been formulated in The discourse
on the Hindus that Sir William Jones presented to the Asiatic Society in Calcutta on
February 2, 1788 (Cannon 1990), the date of birth of historical linguistics is made to
coincide with the publication of the work of Bopp (1816). Since then, the unique,
presumed, alternative method of the historical-comparative is the “mass comparison”
method, proposed by Joseph Greenberg (1957) but adopted, among others, by Ruthler
(1975; 1994a; 1994b) in her monogenetic thesis that, although well-know, does not enjoy a
good reputation among scholars of linguistics.
1
198
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
linguists not only observe the differences between languages, but try – in an
epistemological perspective - to reduce them. On the basis of accurate studies of
phonetic evolutions and exchanges or loans from one language to another, they
try to identify and distinguish occasional affinities and those due to contact
between languages or to membership of a common linguistic tradition.
But: to classify similarities is different than to explain; especially when, in
order to do this, we devote ourselves to formulating hypotheses about
languages that, in the absence of further certificates, remain “absent” always.
As in the case of the birth of historical linguistics taking shape, when August
Schleicher (1861-62) started the publication of his monumental compendium of
comparative grammar, giving the “common origin” a scientific name and establishing a philological discipline dedicated it: “proto-Indo-European” (or, more
precisely, according to the same German scholar, “Indo-Germanic”3). So,
whereas in the same century, the philologists undertake hard lexicographic
research4, going up to the first linguistic occurrences, registering them in
monumental dictionaries, Indo-European etymology tries to reconstruct the
original – and, therefore, not witnessed – forms of languages.
In short, it is not only trying to reconstruct the aspect of the ancestor from
the somatic traits of its descendants, but also to guess what their daily life was
like, or, in the case of language, its syntactic and dictionarial identity.
Thus, the reconstructive researcher develops his own problematic question: if the “original” language remains purely “hypothetical”, each “reconstructed” element of the Indo-European vocabulary remains essentially a
hypothesis5, how does one represent, therefore, a term for which there is no
previous certificate? We therefore pay attention to the first appearance of the
asterisk, or, as its German creators called it, “the star” (der Stern): “*” As
Schleicher wrote in footnote it; (1861-62: 12) “designates forms that have been
deduced (* bezeichnet erschlossen formen)6”.
Scholars of protolanguages had found a way of thinking and transcribed the
absence of the Origin.
On the origin and senses of the terms Indogermanisch and Indoeuropäisch, see Koerner (1989
149-77).
4 i.e. Grimm DeutschesWörterbuch (1854-1960).
5 Daniel Heller-Roazen (2008), stresses the importance of this aspect for the epistemology of
Indo-European language, which therefore takes as “science of language that which is
exclusively concerned with forms of speech that, by definition, have never been attested as
such.”, and having its own object in “the study of an idiom that must always already, so to
speak, have been forgotten.” (106).
6 The first example was *fathār, alleged root of the ancient Indian pitā(rs), the Greek πατήρ,
and the Gothic fadar: once posed at the beginning of a term, the star would have distinguished itself from all the others.
3
199
Marco Castagna
At this point, it is necessary to question if the irreducible plurality of
languages, the final limit, the impassable but always further extended horizon.
The element indicated by research for an original structure in the language,
cannot become the starting point for an inquiry about the nature of language,
about what is expressed through language.
According to the Saussure’s (1916) terminology, it can be argued that the
nature of language (language speech) is that it constitutes a faculty, a potential, an
organization “ready to speak”; only in this way, can we render an account of the
variety and complexity of its uses: it is not so much about physiological ability
to adapt certain organs to the emission of articulated sounds, as it is about the
faculty of meaning. With the term langue (language system), on the other hand, the
Genevan linguist intends the “putting into act” of the “ability to mean”, as the
langue is constituted for communicating with. (15).
Langage, as the power to evoke signs, becomes concrete, actual, in the
social boundaries of the langue. Which is, thus, the way in which “to be able to
mean”, taken from a possibility common to all men, becomes the reality of a
well-defined community, presenting itself as an inter-subjective space of
communication. The langue is an anthropological and unhistorical creation. It is
the result of the uses of langage by a particular speakers company, at a
particular moment in History: this leads to distinguishing the ineffaceable
multiplicity of langues by the universal faculty of langage. The langue – Saussure
writes –“is both a social product of the faculty of speech and a collection of
necessary conventions that have been adopted by a social body to permit
individuals to exercise that faculty.” (9).
Assuming Hjelmslev’s semiotics model of (1943; 1963), every natural
language (and in general every semiotic system) consists of a plan of Expression
(for a natural language we intend lexicon, phonology and syntax) and a Content
plan (which represents the full universe of concepts that we can express). To
develop a form for Expression (as in the words which we say every day, or the
text you are reading), a language carved out from the continuum of sounds
that a human voice may issue, a series of sounds with the exclusion of others
that exist and are producible, but do not belong to the language in question.
What characterizes the language is, therefore, the creativity expressed by the arbitrary
nature of the relation between the plan of Expression and the plan of Content7.
7
Saussure’s arbitrariness is not to be understood as an occasional relation between sign and
meaning, as not determined by a relationship of cause and effect or similarity (normally,
excluding the onomatopoetic and the so-called “expressive lexicon”). This arbitrariness is
regulated by conventionality (in order for something to become a linguistic sign there must
be an ideal agreement between belonging to the same linguistic community) and discretion.
(the signs must meet standards of articulation both internally and in relation to the other
signs). We will see later, the way in which this issue can be read within cognitive studies.
200
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
In other words, language is not limited to the choice of its meanings,
because it is difficult to see what would prevent associating any idea to any
sequence of sounds (Saussure 1916: 131-133). There is no doubt, in fact, that the
arbitrary nature of the relationship between sound and meaning, is one of the
major difficulties in learning a language. Even when the relationship has been
gained, this is of no help to a listener or to a reader at the time of the
assignment of meaning to a word in a proposition or a narrative text. A human
being, therefore, in his evolution, has never “solved” this problem.
Despite the fact that Western culture has been looking for the perfect
language, both in stubborn and reoccurring research (Eco 1993) as a way to
exorcise the arbitrariness, this is not only tolerated by the dictionary of every
language, but it can also be considered the only universal characteristic of
natural languages (Greenberg 1957). There is not, in fact, a situation or human
experience that cannot be “translated” using the signs of a spoken language; as
well as there is no reality with which we cannot extend the various meanings
of the signs that we use in our linguistic habits. Their semantic (or semiotic)
“omnipotence” makes verbal languages both creative, capable of giving rise to
an infinite number of linguistic systems, and reflective, or able to speak for
themselves and other languages. Verbal languages allow an unlimited
translatability (Hjelmslev 1943; Jakobson 1963; 1971). As they are not built with
a view of special purposes. It is possible to translate from many languages
(Hjelmslev 1963), including those of the sciences, perhaps with an attentive use
of paraphrases. This goes not only to the content that they express, but also for
the way they talk about this content. Hjelmslev, nevertheless, attributed a
special place to language in relation to other semiotic systems: “In practice, a
language is a semiotic into which all other semiotics may be translated –
regarding both all other languages, and all other conceivable semiotic
structures.” (1943: 109) The translatability is based on the fact that languages
(and languages only) are capable of giving form to any matter; Quoting
Kierkegaard, Hjelmslev added: “In a language, and only in a language, can we
‘work over the inexpressible until it is expressed’”. It is this capability that
makes it possible for the linguistic system to be used as a language, or, in other
words, to be able to satisfy any situation.
In the 20th century, in despite of many criticisms of the proto-IndoEuropean model (Trubeckoi 1939), the asterisk not only survives in the pages
of dictionaries, but it gains renewed opportunities (Heller-Roazen 2008), in an
area of research far from that of the philology of the previous century:
Chomsky’s linguistics. If the neo-born Generativist perspective (Chomsky
1957; 1965) has its object in the “fundamental properties implicit in grammars.”
201
Marco Castagna
The asterisk would have the task of pointing out the expressions that are not
acceptable within a given grammar (for example, grammar admits the form
“does John read books?” but not the non-grammatical‘* read Johns books’).
It seems obvious that the two functions attributed to the asterisk do not
coincide. But up until that point? Isn’t it so that in both cases, the small star
represents the glow of that which, while not finding attestation in the syntax of
the language, lives, however, inside its borders, as unexpressed potential, of
that which the very language itself can say? This background noise, this echo
(Heller-Roazen 2008) that represents a problem for the taxonomic or genetic
task of linguists, becomes a resource for philosophical reflection: the
arbitrariness of linguistic expressions, their irreducible plurality, are the ways
for the language to mark the (always renegotiable) boundaries of a space in
which the human being can make himself understandable in a constantly
changing experience.
2.() the space of meaning
At birth, the human being produces a great variety of sounds. He emits
cries and wails. Between four and five months, he plays “vocal games”; by
adjusting and manipulating sounds in a musical discourse, he experiments
with what we call “intonation”: rhythm, tempo, accent (Boysson-Bardies 1996).
Therefore producing the early consonants and vowels. At the age of sixteen
weeks the early smiles. From four to seven months, the child produces pseudosyllables, then real-syllables: papapa, bababa, dadada. Jakobson (1941) that concluded, at the stage described as “the apex of stammer” (die Blűte des Lallens),
one could not put any limit to child’s phonetic capacity of burbling. As regards
to the articulation, the infants are capable of anything. Without the slightest
effort they can produce any sound of any human language. And yet, contrary
to what we might be naively thinking, the acquisition of a particular language is,
for the human being, a difficult task, which requires a gradual effort of acquisition and
oblivion.
Between the stammer of the infant and the early words of the child, we can
observe not only a transition, but a fundamental “turning point” at which
phonetic skill - until then unlimited - seems to waver: moreover, the ability to
distinguish between the order of a syllabic language is not the prerogative of
our species (Changeux 2002); very soon, in fact, the child verifies “vocal
hypothesis” on himself or his familiar milieu. Little by little, refining through
selecting, he improves his productions and his perceptions into the pitch and
the phonetics of the mother tongue. At this point, the development of a
202
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
cultural lallation begins (de Boysson-Bardies, 1996). It is as if the first step for
the acquisition of the language was possible only through an act of the oblivion
of the seemingly endless capacity of articulation: “the loss of a limitless
phonetic arsenal is the price a child must pay for the papers that grant him
citizenship in the community of a single tongue.”(Heller-Roazen 2008: 11).
The central problem that the child has to tackle, is the segmentation of the
mass sound in units of sense, or, otherwise speaking, the acquisition of the
sense of the words. At this point, we can observe a second “reduction”: the
process does not involve a progressive growth in the number of words at first,
then groups of words, then still of propositions. Peter Jusczyk (2000) demonstrates that what in reality occurs is exactly the opposite: initially, little speakers
prefer to listen to stories that involve breaks or pauses on the borderline
between the various propositions; subsequently, they prefer that there are
pauses between groups of words (or phrases); finally, that they coincide with
the limits of words. In this respect, it is interesting to note how, exceeded the
gap between lallation and acquisition of language, the child can – on the basis
of very little information about the language – “hazarding a guess”, predict the
other elements (Christiansen, Misyak, Tomblin, 2009). This makes us think that
the grammatical rigidity of language balances the absolute syntactic arbitrariness of sign. In other words, it can be assumed that, after exploring the potential
of syntactic language, the child “forgets” constructions that are not in
agreement with the specific grammar of his mother tongue8. In order to learn the
language, it is required, therefore, to learn the categories to which the organization of
semantic language refers.
This evolutionary learning of language through a progressive restriction
corresponds, on a much closer time scale, to the cultural evolution of the
8
From an evolutionary perspective, Corballis (2002) suggested that arbitrariness ensures
that we are less likely to confuse concepts that may be critical to survival. If language was
systematic, “edible plants or berries could be confused with poisonous ones, and animals
that attack could be confused with those that are benign” (187). Learning this categorization will be facilitated by a similar form of words that belong to the same category:
phonetic coherence favors the acquisition of conceptual categories distinguished between
them (Christiansen, Monaghan, St. Clair 2010); in other words, the child l better learns the
relations among objects and actions if there is a phonetic match among concepts, words
and relative grammar category (Christiansen, Fitneva, Monaghan 2011). In this sense, the
morphological stability that we can observe in the relation between morpheme and
grammatical category (as in the case of the formation of the gerund in -ing in English, or
the formation of adverbs from adjectives) of the systematic grammar (observable in terms
of allophonic, variations in phonological skills or prosodic transcription) contribute to an
effective learning of semantic categories (On the linguistic education as education semantics
see Pititto 2000: 110-117).
203
Marco Castagna
language spoken by a social group and the corpus of knowledge that it has
accumulated in the course of history: while he learns the language, the speaker
acquires the culture and beliefs – the “habits” – of his linguistic community9. It
is to address the issue of learning (and transmission) of the meaning, in which
the semantic dimension of language meets the pragmatic one. What are the
meanings? What does it consist of? Can the concepts be further analyzed? Or are
they units structured by the culture? And, yet, how are these units organized
amongst themselves? Thusly, the dynamics of language learning, refer to the matter of
the processes of signignification put in place by the use of the language itself.
From the first time that we enter in contact with a word (for example,
“cat”), can we say that we have really or finally learned its meaning? Never.
Or, at least, never definitively: perhaps, we cannot describe the dictionarial
attribution of meaning as limiting “domestic animal” to the word “cat” within
the expression “Cat on a Hot Tin Roof”? What is transmitted through the language and what it claims to be “included” is, in fact, something quite different:
as speakers, we associate to the word “cat” a large amount of semantic
properties that depend on contextual factors such as our available knowledge.
According to the Eco’s interpretative semiotics (1975; 1992), the inferential
dimension of meaning is at the origin of these questions and of the
introduction to a semantic encyclopedia: to the idea of the language as a system
où tout se tient – where “to mean” is equivalent to “decoding” structurally wellformed messages – the encyclopedic perspective adds a dynamic vision of the
meaning as a result of a continuous process of interpretation (Violi 1997)10.
The meaning of a word is not, therefore, an entity with an objective nature,
but it takes on a specific sense in any particular situation of use: the reception
of words and their production are the most primordial of the assets that
human intelligence learns to develop in order to survive in the world; thus, the
acquisition of a mother-tongue does not correspond to the naive conception of
The development of inferential communication creates the appropriate context for the selective stabilization of connections between sound and sense in order to bind with the
same reproducibility for one as in the communication with others (Tomasello 1999). Of
course, unlike the African monkeys, humans are constantly checking the validity of
symbolic links with comments, reviews and actions on the possible inconsistencies found
between the behavior of the child and the social standards which the child himself must
comply with. Men create a pedagogy to educate their children. It takes, in this way, a
shared “social conscience”.
10 Albano Leoni (Albano Leoni, Ripe 1992) refers to the case of a sequence of eight syllable
(“siamo cinque giornalisti”, “we are five journalists”) extracted from tape of a
conversation and presented to an audience of Italian linguists: the expression was
unidentifiable until it is played back within the entire conversational context (between an
interviewer and a group of journalists).
9
204
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
the acquisition of verbal signs as a simple correlation point by point between
signifiers and meanings, or between expressions (language) and content
(mental), but, rather, to the acquisition of inferential schemes, or “hypothesis of
sense” on the milieu with which the individual is called upon to interact. When
the American philosopher Peirce defines the sign (or representamen) as “something which stands to somebody for something in some respect or capacity”
(Peirce 2.228), he sums up well the complexity and fragility that constitutes
each semiotic process, also that of the language: the word “cat” (“something”)
refers the speaker (“stands for somebody”) to an object (“for something”,
which can be a dictionary definition of, i.e. ‘pet’; or a translation into another
language, i.e. “chat”; or the image of “my” cat) chosen from among the many
possible, on the basis of their relevance to the context (“in some respect or
capacity”). This means that the processes of signification (the semiosis) has a
hypothetical-abductive nature, where the apparent stability of meaning
depends on its membership to collective habits.
Eco (1975) provides, for each linguistic expression, a componential spectrum of “meaning pathways” recorded in the language or, better, in the
encyclopedia term, which designates the heritage of complete knowledge about
the world available in a given culture. In this perspective, the participation in a
language is never a mere sensorial or passive event: the encyclopedia is a
regulating hypothesis that intervenes in each act of meaning (in a conversation
on the corner of the street as in the reading of Bible), when the receiver has to
chose a “portion” of it to assign to the text or to the issuer of any semantic
contents11 (Eco 1984). We call “local” or “partial” encyclopedias, these portions,
that from time to time we activate, and which are capable of having a
representation. In this sense, if everybody can create encyclopedias, both
partial and extremely different from each other, it is possible to identify local
encyclopedias as well determined ones that bind. the knowledge and language
skills of a certain culture. This is what we call Encyclopedia of medium
knowledge12. It is difficult to define and establish exactly what this medium
competence is; however, its existence is especially evident in anomalies (Violi
1997: 106), like when a speaker, assuming the “roof” as “hot”, can be concerned
The most general and abstract level is the Global Encyclopedia, omnicomprensive repertoire of all knowledge, “registered totality of all the possible interpretations”, an ideal
backdrop that contains all the information possible, and as such, a concept-limit.
12 These first two levels are followed by two others: the encyclopedic and the semantic competences. In the first case, we mean the average competence that an individual must
possess in order to belong to a given culture. This concept is not to be confused with the
previous one, because “to be members of a culture” it is not necessary to possess the
entire encyclopedia of a culture, but it is enough to have, in fact, a medium competence.
11
205
Marco Castagna
about the health of the cat. Thus, the semantics of encyclopedia, in order to
produce meaning, is rather than just a series of languages (primitive) strokes, a
record of the cultural conventions in the form of scripts (or frames), defined as
“rules for the practical action”, or “data of operational competence”13 (Eco
1975: 147).
This becomes more evident at the time of having to “learn to read”, or
having to understand the meaning of written texts. Unlike conversational
practice – in which the speakers can more easily correct any misunderstandings during communication – in its textual expression, language expresses
more clearly its degree of indeterminateness. According to Iser (1976), literary
texts interact with readers in two fundamental ways: on the one hand, they
provide schematic visions that guide the reader toward certain directions, but,
on the other hand, they leave empty spaces (blank) that the reader must fill in
or eliminate, seeking or, in some cases, requiring his participation. The blank,
therefore, is a relational concept: it shows, in fact, that it is necessary to connect
the different segments of the text, even if the text does not require it explicitly
(166). Since this marks the suspension of connectivity between textual
segments, the blank form, at the same time, is a condition for the connection.
Wherever there is an unexpected juxtaposition of segments, it must be
automatically a blank that interrupts the expected order of the text. The reader,
fills in the empty space or the areas in which a structure already indicates,
completing the literary work thereby participating in the production of
meaning.
The concept of blank marks, therefore, the irreducibility of the meaning of
a text as the information in it explicitly contained. The text is, therefore, a
“presuppositional machine” (Eco 1994) that stimulates the reader to implement
the encyclopedias appropriate to the context: we can imagine – for example –
seeing, in a film, the protagonist, who, at the ticket office of a train station,
pulls from his wallet some banknotes and gives them to the employee in
exchange for a ticket; the recognition of this sequence of actions in a single
significant chain depends on previous knowledge of the world, relating to
“travel” by “train”. In order to “understand”, knowledge of only the language
syntax is inadequate; it is, however, necessary for the reader to have a set of
basic knowledge or knowledge of the world that allows him to give meaning to
information.
13
The concept of encyclopedia is, therefore, the more direct product of a reinterpretation of
linguistic code in Peircian terms: it converges, in fact, semantics and pragmatic, putting
semiotics on the border between a theory of knowledge and a theory of interpretation.
206
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
On the side of cognitive psychology, the concept of encyclopedia finds its
equivalent in the concepts of schema (Bartlett 1932) or script (Schank and
Abelson 1977), which indicates the knowledge that every adult person has
about situations and everyday very common and stereotypical activities
(waiter-customer; doctor-patient). Even if, in the narration (written or verbal),
not all the elements of the script are clarified, the reader or the listener, will be
able to reconstruct the whole sequence of actions thanks to the knowledge of
the situation: “the mental representation is not a copy of explicit information,
but a global representation that also contains the information inferred, because
present in the script” (Levorato 2000: 21).
Understanding is, therefore, a constructive process in which an important
role is played by the causal and explanatory inferences which contribute to the
overall coherence of the text (Kintsch, van Dijk 1978, 1983). In this sense, Violi
(1997), observes that language stimulates and records these operations of
cooperation and negotiation in the construction of meaning. Its experiential
nature makes semantics of language inseparable from knowledge of the
world14: the words are, therefore, abductive and inferential devices.
If the acquisition of rules of grammar and syntax of a language can be more
or less conscious, the lexical learning is practically infinite: a ten year old child
uses a few thousand words, an adult owns several tens of thousands and
continues to learn, many or few, depending on the degree of exposure to reading
and listening and access to information. All of this depending on his social and
technical needs, even using or adopting neologisms that he continually produces
even within the more codified languages. In this sense, the nature of the words
exceeds the limits determined by its inclusion in linguistic structure: language is
the tool that has made instability its own predominant stretch, able to give an
account of the complexity of the human (individual and collective) capacity and
give meaning to experience. Here, where linguistics and semiotics offer a mutual
attention to the internal stability of language or semiotic processes, the
hermeneutics (as philosophical discourse on understanding) replaces a greater
interest in the misunderstanding, in the enigma, or in all those moments in
which the narrative action of the subject shows the difference between the
14
With regard to the attribution of meaning to the word, Violi speaks of “semantic competence” which marks the portion of “human” knowledge that a speaker must use in order
to participate in the exchange of a communicative language. The boundaries of semantic
competences are formed and changed by degrees, with transition periods in which
certain “perimeters” are not set out clearly. In this regard, Violi brings the example of
“extinct” property compared to the term “dinosaur”. It is clear that this property
characterizes the term only from a certain historical period onwards, and that there was a
phase (perhaps very long) in which this property was not defined clearly (Violi 1997).
207
Marco Castagna
syntactic structures and the semantic base of language. Therefore, the same
elements that, in structural linguistics, determine the impossibility, the absence,
of a final reduction, enable philosophy to observe the infinite possibility to
(ri)negotiate the meaning of the experience.
3.(...) a sign is a sign is a sign
In order to give “sense” to the “chaos” of experience, setting the plurality,
the language responds to a primary human need: to make “habitable” (in the
peircian sense) a world otherwise estranged. In Peirce’s pragmatism, the relation between language (as a semiotic system) and experience is reflected in the
refusal of the coexistence of two types of knowledge, one hypothetical-inferential and other intuitive or immediate: knowledge is always interpretative and
hypothetical. To the philosopher, the origin takes the traits of an initial “difference”, a
swarve. The sign is “empty” in the sense that it is not the thing, but indicates15the
thing, and it is not itself since it is there only to indicate: language is an
intermediary between the logical structures that constitute its telos and the
question of the meaning of the experience that gives it an origin.
If we reject the idea of a last, mysterious and un analyzable brainwave,
knowledge will deploy itself in a continuous process – without residues – of
hypothetical approximations, in which research is not stopped by the
argument of perfect knowledge as a mandatory point of departure, but – as in
Peirce’s semiotics – extends itself in a flow of interpretations in which “each
former thought suggests something to the thought that follows it.” (5.284). In
this way, if acquiring a language is equivalent to having a prescriptive tool –
the part throughout the interdict – ensures production, stabilization and
transmission of inferential processes, it refers, always, an activity that precedes
it, and in which it finds its form.
It’s the universality of the narrative that appears in the polysemic nature of
natural languages opposite to the assiomatic definition of the well-made
languages, because in the first ones, the polysemic nature refers to a potential
of meaning that is not the fully semantic content in the field of words, but that
requires to be understood simultaneously. This is why Merleau-Ponty (1945:
491) says that there are no “natural” signs in the human experience: inside the
boundaries of culture, the reasoning that writes down experience in history
cannot belong to a “non-narrative”, in the case of a “not yet narrative”, which
is “what waits to be told” (Augieri:1993).
15
In this sense, for Lacan (1991), the Subject is “empty”, as something “qui manque à sa place”,
which, in the linguistic structure, is “out of place”.
208
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
In constant aim to give meaning to his own act, the human mind founds
the privileged form to give meaning to a perceived reality in the narration, to
organize its fragments and to communicate to others the fragile sense of
experience (Bruner 1986; 1990; 2002). This impulse to narrate is at the origin of
the acquisition of a language, in which the conditional (Peirce 5, 482) and the
optative (Bruner 2002) are the temporal modes that express this desiring and
planning thrust within the action. In Ricœur’s work, this interweaving of
narration, experience and action, that we have identified at the base of language,
is what establishes an existential order for human understanding and that the
philosopher defines as “narrative intelligence”.
Of course, and not without difficulty, we have to take the term “narrative”
out of the theory of literature, and resizing (but not denying) the peculiarities
of writing with respect to that of orality16: the experience of reading, as we
have seen, is paradigmatic of this continual negotiation of meaning. The
concept of “narrative intelligence”, therefore differs from the definition of
“narrative rationality” proposed by linguistic and literary theories - that are
likely to take into consideration the language in one inertial state, not seizing
the “living” (expression that frequently returns in Ricœur’s work) of the tale and from their derivates: “narrative structure” (Levi Strauss), “narrative morphology” (Propp), “narrative grammar” (Todorov), “narrative syntax” (Greimas).
Otherwise, in the ricœurian hermeneutics, narration is “intelligence” because it
manages to give meaning to the experience while avoiding the risk of taxonomy and nomenclature17. It’s a constant tension between a Theory of the Action
and a Theory of Speech (Ricœur 1986a) that makes all this possible.
In the preface to Time and Narrative (Ricœur 1983), he announces its role as
“the privileged means by which” we make and remake world “in the field of
action”. The idea of action denotes a willing agent intervening in the course of
events. Meaning isn’t something that “happens to us”18 (as in Gadamer’s or
Heidegger’s hermeneutics (publishes): In Ricœur’s perspective, the hermene16
17
18
On the fruitfulness of distinguishing between two areas of fictional intelligence and it’s
linguistic manifestation, inquiring into - at the same time - the inseparable report, we
witness the ongoing dialogue between Ricœur and Greimas (1989).
If it is true that philosophical studies about the narrative show a prior interest in literary
discourse, this is the case for the apparent greater transposability and structural regularity
of written texts compared to the conversational contents. But can we really not
understand that even literary writing is the inscription of an interpretative activity prior
to scripture itself? We do not have to observe that literature, even in its most valuable
products of avant-gardes, fails to deconstruct narrative capability, it reveals, rather, some
of its fundamental traits?
In this sense, the evolution of language marks the passage of the human species from
“adaptable” to “adapting”.
209
Marco Castagna
utic consciousness is what happens behind our willing and doing. Thus, the
constructive role of narrative that lies in the telling rather then the hearing is
off-message for him. Ricœur’s project is to explore the invention of our own
narrations to reconfigure “our confused, unformed, and, at the extreme, mute
temporal experience” (XI).
In the first place, considering the analysis conducted by Benveniste (1966),
Ricœur outlines the Discourse as “what happens in time”. Speech implies, in
fact, a dialectic of event (événement) and meaning (signifié). It is a “will” to tell, a
signifier of intention that ends in a logical sense. In this way, Ricœur can
correct the possible misunderstanding between language and speech: the two
are not stackable, because if the first is only a prior condition of communication
that provides the codes, it is in discourse that messages are exchanged:
“Hermeneutics, I shall say, remains the art of discerning the discourse in the
body of work; but this discourse is only given in and through the structures of
the work” (Ricœur 1986: 83).
It is not, therefore, the linguistic structure that gives rise to hermeneutical
problems, but the opposition event, \meaning: the event – as temporal
phenomenon of exchange – as the advent of the world in language. In this
sense, the theory of discourse refers to a theory of action. Here, the question of
origin is defined around the use of the term “cause”, excluding the possibility
that we can give it only one meaning, that for which, according to Hume, there
is no logical implication between cause and effect: “a definition of action in
pure behavioral terms as ‘bodily event’ is impossible” (van Dijk 1976: 292); this
is not the case, in fact, between intention and action, reason and project, for which
- resuming an expression of Wright (1971) - the case is, rather, an “initial state”.
To clarify this concept, Ricœur (1986: 132-138) incorporates the distinction
introduced by Anscombe (1957) between the two uses of why (causality) and
because of (reason), where the second term is always something more than the
first, insofar as it adds to the material cause, the dimension of will (wanting).
Desires and beliefs make people act in this way or another, giving a sense, consisting of
the planning correlative to their character of desirability. Thus, we can say that what
can and must be built on the level of human action is the motivational basis for
such action, namely the set of characters of desirability capable of explaining it.
It is on the basis of the semantics of the action19 that the speech may “create
meanings”, giving sense to various events of the experience: will to do is a part
of do.
19
The expression, until we obtain, returns several times in the Ricœur’s work - as in all the
studies on actions conducted up until then - a definitive systemization in a third study of
Oneself as Another (Ricœur 1990: 56-87)
210
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
At this point, we can understand the pragmatic dimension (Jervolino 1996)
of narrative intelligence, ordering and planning together, which recalls the
Aristotelian concept of phronesis and that, not by chance, is explicated in
rereading a couple of terms belonging to Aristotle’s Poetics: mythos and mimesis.
Ricœur translates the first term into mise-en-intrigue (emplotment); this is the
capability to obtain one story from multiple events or, if you prefer, to transform
the multiple events into one story; in this perspective, the mythos is never only
enumeration: it gives a narrative configuration to heterogeneous components in
an understandable whole, in which the same events acquire a temporality
different from that of the chronological succession or that of the material ratio
of cause and effect: it puts them in the order of a hypothesis of sense. Here, the
inexpressible that we saw in Hjelmslev-Kierkegaard may find its expression
because, for Aristotle, the mythos is mainly, mimesis praxeos; where, the
extension of the size of the praxis, gives an amplitude to the term far greater
than that under narratology.
The mimetic activity is not understood as activities imitative of reality
(which - in our discourse – would turn back to the problem of description and
reference)20, platonic “representation” of a state of things, or “imitation of the
real”; the mimesis takes place only in poiesis – namely in humans doing – as
indicated by the operational termination -sis; and - because operation - departs
from the act of copying and assumes, rather, the hypothetical nature of the
peirceian creative abduction. Narrative, by this argument, does not merely
reflect or embody significance, it may self-sufficiently create it. If this is so, then
the narrative provides a fundamental model for the creation of human
meaning. More than an imitative re-production, in fact, the mimesis is already
“desire”, an act motivated in answer to the question of the sense of reality. Thus,
narrative intelligence expresses the original effort with which we try to adjust
the dialectic between the discordance of the anonymous events and the
concordance of the personal tale; in other words, narrative intelligence is the
desire to find a narrative identity.
In conclusion, the theme of origin refers to the philosophical reflection
about the objectification of chronological measurability, to the existential
question of time, and it characterizes itself as the research of the arché (Haecht
1947), namely the unitary principle which underlies all the forms of our
experience as human beings. In this perspective, the Logos (as narrative
experience) remains distinct from the structure of language which translates
20
This is, in some way, to overcome what Barthes (1984: 173-174) defined as “referential
illusion”, namely, the attempt to represent “concrete” reality.
211
Marco Castagna
and gives it a form: this, therefore, is never pure expression or point of
departure, but always partial registration of the desire to respond to the
demand that - as the incipit of Sterne’s teaches Sentimental Journey21 - is always
the origin “absent” from the scripture of our stories:
…They order, said I, this matter better in France
Laurence Sterne, Sentimental Journey
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212
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Legislators as musicians.
Rousseau’s melodious foundation
of democratic republicanism
(and his Essai sur l’origine des langues)
(English text reviewed by Ryan Spring Dooley)
Alessandro Arienzo
Dipartimento di Filosofia, Università di Napoli “Federico II”
email: alessandro.arienzo@unina.it
Introduction
Being persuaded by the difficulties of establishing ways in which
languages originated out of men’s natural faculties, Jean Jacques Rousseau
wondered whether: “a été le plus nécessaire, de la Société déjà liée, a
l’institution des Langues déjà inventées, a l’etablissement de la Société ”
(DI:151). This was not a chicken or the egg game for bored aristocrats or
would-be philosophers. During the Eighteenth century philosophical debate,
themes centred around the origin of civilization and language were, in fact, key
issues for all those who aimed at separating the spheres of natural sciences and
humanist culture, as: “l’arbitraire du langage joue le rôle de principe de
démarcation” (Auroux, 2007:33).
In his Discourse on Inequality Rousseau’s approach to the theme of origin of
language was hypothetical and conjectural. Language is described as the
product of perfectibility and pity, and its first beginnings are placed in the
mutual relation between the child and his mother. Later, in the Essay on the
origin of languages Rousseau offered a closer analysis of the historical process by
which languages – rather than language – were instituted. He also describes
gestures and in-articulated sounds as the first forms of communication.
Communication by gestures and sounds followed the uses of intonations and
melodies that enriched the primitive forms of spoken communication. Only
much later will mankind be able to give conventional expressions to ideas and
feelings using words and sentences. These passages from early forms of
communication to conventional spoken language are deemed by Rousseau to
be the outcomes of moral passions and perfectibility. In this sense, Rousseau is
217
Alessandro Arienzo
convinced that language can only be born out of human cooperation and
through man’s detachment from their original condition of selfishness.
Language and society are, therefore, the products of a moral spin that
leads individuals toward the fulfilment of their capacities. Once activated,
however, this process of self-development bears with it the progressive corruption of man’s natural condition of autonomy. On the one side, perfectibility
drives men to escape the uncertain condition of isolation that characterizes
their “pur état de Nature” (DI:147) by pushing them toward the plain
development of their natural capacities. On the other side, sociability produces
divisions, corruption and degradation. Thus, when seen from this angle,
contemporary societies do not represent a stage of civility and politeness, but
an age of tyranny, hypocrisy and separation:
- in language, where conventional forms of communication express the
progressive detachment from primitive sensations through a process of linguistic
rationalization that separates different languages, different cultures;
- in music, where the supremacy of harmony over melody and tuning
implies the loss of that original melodic unity between sounds and words that
Rousseau describes as unity of melody;
- in politics, where political representation appears as a device for separating men from others, and of every man from the community;
Underlying all these, there is a fundamental separation that any man proves
within himself, being an effect of social affectation, traditional education and
promoted also by the complex dynamics of recognition/ambition. The paths of
sociality, the necessities to “appear” to others rather than being with others, the
need to be recognized as having a place in a social rank, separates men from
their immediacy.
Rousseau himself, throughout all his life, struggled to recover this transparency of himself and an immediacy that is a requisite for that rich singularity
upon which it is only possible to establish a melodious and harmonic order.
This struggle continues up until his death, and is upmost significance that
Rousseau will fall back upon the tools of biography and confession in his
search for self-recognition and fulfilment. Because of his aversion to
representation, it is through narration that Rousseau searched to recover his
singularity and his true nature. We will not shed further light on these aspects
of Rousseau’s intellectual and human research, but his struggle for selfrecognition has a political significance because he is convinced that at the core
of all political and social divisions there is “representation”. Following
Starobinski’s magisterial lecture (Starobinsky, 1971), we are convinced that
Rousseau’s attempt to recover immediacy and transparency in his search for
singularity is the common thread linking life, art and politics.
218
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
When placed in the narrower frame of a critique of theories of
representation, Rousseau’s philosophy stands within a neo-classical approach
to language and music that, during the Eighteenth century, uttered a strong
critique of representation in the fields of knowledge, arts and politics (Dugan
and Strong, 2001; Hudson, 2005; Starobinsky, 1971). By focusing on the Essay
on the origin of languages, I will discuss Rousseau’s belief that music, education
and politics, can enhance man’s moral freedom through the establishment of a
“melodic” language of wisdom, capable of healing the wounds of moral
corruption and social divisions. Language is conventional and its conventionality is the result of a development in communication that was driven by the
human search for perfectibility and pity; these both imply mutual recognition
and cooperation as well as conflicts and divisions. In this sense, Rousseau’s
theory on language and music is a reflection on the “moral effects” of melody
which has a relevant implication in his ideas on politics (Dobels, 1986). In fact,
the analysis of the origin of languages reveals the principles upon which
political societies are instituted and through which they develop their
identities. To clarify this point, I will focus on the legislator as the figure that,
through persuasion and “sound” discourses, not only proposes laws, but also
establishes moeurs and shared social meanings in the very first moment of the
joining together of men in a political community. Languages were in ancient
times made of songs and tunes, and those ancient laws had the expressive
force of poetry and melodies. The decisive role of persuasion explains why
legislators should above all preserve the musical force belonging to a wise
political discourse. Man is today corrupted, but in the melody belonging to a
wise discourse, or in very special moments like in the dance of Saint-Gervaise,
it is possible to hear the early strength of ancient and less corrupted
communities still resonating.
Certainly, a just and legitimate political community can only be established by individuals, but it is only by the art of a few wise people that the
promises of freedom and justice implied in the social contract can be realized.
On the contrary, it is the purpose of wisdom, and the true aim of politics, to
make of a dispersive multitude of men into “People”, and thus into a community of citizens. This seems to lead to an apparent paradox in Rousseau’s
theory: on the one hand, it is the purpose of a legislator, and of the State, to
promote the moral transformation of individuals through law, civil virtue and
education; on the other hand, it is only from those individuals that a just and
legitimate State can be established through a moral pact common to the
multitude. This requires that individuals recognise themselves as moral agents,
acting and choosing in accordance with the common interest. As we noted
219
Alessandro Arienzo
above, in the Emilio and in the Confessions there are indications of a process of
moral and psychological growth based on education and an effort of selfdiscovery that appears to be the strongest foundation for an ordered society.
This growth implies, however, the changing of men’s inner nature; an almost
impossible task, a task that requires time and is dependent upon autonomous
paths of perfectibility. In this sense, Rousseau has to balance self-education and
state government in order to draw the lines for making individuals into people
upon which to establish a legitimate sovereign political order.
Within the limits of this short contribution, I will discuss the above
mentioned paradox by focusing on a different line of reasoning in Rousseau’s
thought. Legislators and wise politicians, in fact, should rely on their capacity
to provide people with good laws and customs, convincing them to join a
political society. Rousseau’s republicanism relies on this base capacity to
provide, but legislators and politicians should also yield on “reason of state”, as
a complex science of politics, in order to set up the condition by which a political
community can promote political equality and good government. Rousseau does
not intend raison d’état as derogatory or cunning politics, but as the knowledge of
all the rules concerned with the governing of a population through policy,
administration, and economy. By joining virtue with reason of State, Rousseau
reveals the necessity to sustain his republicanism, and his proposal for a
democratic political order, with a governance that strengthens the capacities for
self-government of people and individuals. If this holds true, while education
and self-recognition through narration are two pillars for the rediscovery of
human singularity bridging the gap between individuality and sociality, it is
reason of State that closes the circle between politics and morality in Rousseau’s
political philosophy. A political philosophy resting between the melodious
language of the legislator and the harmony implied in a well ordered society.
The Essai Sur l’origine des langues and the debate on melody
Rousseau’s Essay on the origin of languages was probably written between
1758 and 1761 and published posthumous in 1781 (M. Duchet and M. Launay,
1967; Gentile, 1984; Bora, 1989; Starobinsky, 1995). The essay collects an
unpublished fragment of his Discours sur l’inégalité – a fragment that for its
length and topic Rousseau depicted as “trop long et hors de place” (PP: 373) –
the original draft of a response to the musician Jean Philippe Rameau dated
1755, was later published with the title L’Origine de la mélodie ou réponse aux
erreurs sur la Musique.
220
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
In his earlier Discourse Rousseau posed the problem of the “origins of
language”, in the following Essay he discusses at greater length the theme of
the “origin of languages” and the role played in communication by melody
and imitation. The relevant differences between the two texts on man’s state of
nature and on “pity” have led to a long debate (Derrida, 1967; Grange, 1967;
Starobinsky, 1961 and 1995) questioning the coherence of his historical picture
of mankind’s’ evolution. Jean Starobinsky noted that Rousseau in his Discourse
aimed at showing the contingency of language, and the relative and derivative
character of everything that originated out of its usage, rather than formulate a
coherent theory concerning the origins of languages (DI, 1964).
In the Essay Rousseau explores the phases of development of mankind
from its early stages to his age: a state of civil virtue in which different political
societies are divided by languages and cultures and marked by tyranny and
corruption. In this work a central position is given to music and musical
imitation; in fact, the complete title is Essai sur l’Origine des Langues où il est
parlé de la mélodie et de l’imitation musicale. On the one hand, this is justified by
the position of this text in Rousseau’s critical discussion of Jean Philippe
Rameau’s musical theory; on the other hand, it proves how his theory of music
was not separated from his philosophical and political theory. Rousseau
himself was, in fact, a musician, and well before writing his two discourses he
held a significant place in French and European debate on musical theory. In
1748 he was asked by Diderot to write several articles on music for the
Encyclopaedia. His Lettre sur la musique francoise, was very well received,
appearing in 1753 as a contribution to the so called “Quarrell of the Bouffons”
(Scott, 1998; Thomas:1995; Wokler: 1987). Rameau believed that pleasure and
balance in music were the result of harmonic overtones and vibrations and the
continuous resonance of what he called corps sonore. Harmony was the
expression of a geometry of sensations and vibrations that he based on a
sensist anthropology. The art of a musical composer was the knowledge and
the ability to mould tunes and melodies by equilibrating harmonies, tones and
accents through a rational evaluation of the effects of sounds on bodies. On the
contrary, Rousseau opposed Rameau and his defence of the learned and polite
French style, preferring the so-called “Italian form”: a style of composition that
he thought to be more popular and almost “universal”, as it perfectly joined
words and music realizing the principle of “unity of melody” (LF: 289). Despite
the fact that both music and paintings implied the harmonious composition of
parts, i.e. colours and sounds, Rousseau believed that as painting was not
merely the art of combining colours, as was music not simply the expression of
a harmonious choice of notes. It was rather an imitation that made paintings
221
Alessandro Arienzo
and music true arts as “Or qu’est-ce qui fait de la peinture un art d’imitation?
C’est le dessein. Qu’est-ce qui de la musique en fait un autre? C’est la mélodie”
(EOL: 414).
Rousseau, in fact, conceived music as an evocative practice of rediscovery
and actualization of melodies and tunes echoing from the beginning of
mankind. He thought that men started to communicate to each other through
gesture and vocalizations, and was also persuaded that while the capacity to
communicate was rooted in human nature, the forms and the means of
communicating were historical and conventional. In this sense, the physicality
of corps sonore – the physical nature of sound pointed out by Rameau – could
not account for the complexity of the process of signification implied in music,
nor for the birth of different languages and cultures: “Les sons dans la mélodie
n’agissent pas seulement sur nous comme sons, mais comme signes de nos
affections, de nos sentimens; c’est ainsi qu’ils excitent en nous les mouvemens
qu’ils expriment et dont nous y reconnoissons l’image” (EOL: 417). In this
sense, “Les plus beaux accords ainsi que les plus belles couleurs peuvent
porter au sens une impression agréable et rien de plus”. (Ex: 358). On the
contrary, the accents of the human voice are able to “passent jusqu’à l’ame”
(Ex: 358), being the natural expression of passion. It is because of this
connection to passion that music enriches the oratorical practise, both eloquent
and imitative. For the very same reason, it is through passion and musicality
that language is able to depict objects inside our imagination, and convey
feelings to our heart. The physical side of music accounts therefore, for very
little, and harmony “ne passe pas au delà” (Ex: 358) as no physical phenomena
can justify the psychological and moral effect of sounds which are the product
of man’s cultural dimension shaped by moral passions and perfectibility.
According to John Scott, Rousseau intended music as “a semantic system, a
language of the passion communicated through the inflections of melody”
(Scott, 1998:293). The development of languages through reason and
philosophy lead therefore, to weakening the passion upon which original vocal
sounds were based. And this happened in the very same way in which
harmony, its calculations and geometry, alienated sounds from feelings.
Sounds, gestures, ideas
Despite the devastating effects of rationalization, a trace of the original,
“natural”, sense of passionate communication is still present in imitative
music, keeping alive the original tenderness and immediacy of mankind. It is
through melody that these original tracts can be restored to language and
politics. Rousseau’s theory is, in fact, a theory dealing with the “moral effects”
222
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
of melody, and it is on this moral and melodic quality that politics can subsist.
In the Essay Rousseau referred to contemporary studies in philosophy, natural
sciences and archaeology in order to draw a convincing picture of the way in
which languages were born out of sounds and gestures. A relevant influence
was that of Condillac, whose research, he wrote, “toutes confirment pleinement
mon sentiment, et qui, peut-être, m’en ont donné la prémiére idée” despite the
fact that “qu’il a supposé ce que je mets en question, savoir une sorte de société
déjà établie entre les inventeurs du langage ” (DI: 146). Rousseau followed the
abbé ‘s Essai sur l’origine des connoissances (1746) assuming that spoken language
must have arisen out of a more primitive language of gesture. But while
Condillac believed that established signs were rooted on human need, and
should be intended as expressing a progressive evolution from poetry to
science, Rousseau thought that the process by which men instituted
conventional signs was not a linear one, and was far more uncertain. No
society could, in fact, be traced before the beginning of conventional
communication and no language could develop before the emergence of some
sort of sociability. Once earlier forms of communication were established,
Rousseau described the subsequent passages from sounds and gestures to
speech and writing, then from early melodic tongues to dispassionate and
rational languages. During these processes languages lost their original force
despite gaining clarity and accuracy, and “que plus on s’attache à perfectionner
la grammaire et la logique plus on accélére ce progrès” (EOL: 392). In this sense,
Rousseau took a side in the contemporary debate on the ancients opposed to the
moderns by affirming the superiority of the ancients, for they were able to speak
in vocal and melodic languages, modulated by passionate tones. Tones that truly
touched the heart and soul of listeners. As he clarified, they sung more than
merely use articulated words, and “les prémiéres langues furent chantantes et
passionnés avant d’être simples et méthodiques” (EOL: 381).
If early discourses were songs and tunes, then ancient laws were poetry
and songs. Poetry was invented before prose, as passion “spoke” before reason
did. Thus, Rousseau opposed the idea that we should trace culture and
knowledge back to senses and sensations; he was persuaded, rather, that
physical sensations could not determine any difference between cultures and
languages. Knowledge starts with senses, but all the processes of signification
are characterized by indeterminacy and accidentals, being conventional and
constantly disruptive. While pursuing a naturalistic approach to the study of
knowledge and anthropology, Rousseau rejected any form of sensist or
mechanicist reductionism: that man is modified by senses that cannot be
questioned, but: “nous donnons trop et trop peu d’empire aux sensations; nous
ne voyons pas comme sensations mais comme signes ou images, et que leurs
effets moraux ont aussi des causes morales” (EOL: 412).
223
Alessandro Arienzo
In the Discourse Condillac is only mentioned, and a more detailed
discussion of his theory is in the Essay. In this work Rousseau argued that
language did not spring out of individual needs, but from moral passions:
“L’effet naturel des prémiers besoins fut d’écarter les hommes et non de les
rapprocher. […] l’origine des langues n’est point düe aux prémiers besoins des
hommes […]. D’où peut donc venir cette origine? Des besoins moraux, des
passions” (EOL: 380). In the Discourse Rousseau focused on the “mute” man in
the state of nature, and on families and early societies, pointing out all the
historical and theoretical difficulties concerned with the study of the birth of
languages. In the Essay he offered a more accurate account of the early stages
of mankind, in order to describe the genesis of established signs and to outline
the different phases of their development from their first institutions, through
the golden (classic) age, up to contemporary corrupted societies. In the
Discourse the cry of the children is deemed to be the very first form of human
communication, a form that moves the passions and chiefly among them, pity.
The very origin of communication and language in the Essay is instead placed
in gesture and unarticulated sounds, and is joined to a process of mutual
recognition of men as sentient beings and similar. In their origins men used
movements and the sound of their voice to communicate: thus gestures and
shouts were the primitive forms of this communication. Rousseau was
persuaded that gesture is, as such, a very complex form of communication that:
“Nous aurions pû établir des sociétés peu différentes de ce qu’elles sont
aujourdui, ou qui même auroient marché mieux à leur but” (EOL: 380). He was
therefore convinced that gesture is a more direct form of communication than
sounds or speech, as it has a direct relation to men’s need: “si nous n’avions
jamais eu que des besoins physiques, nous aurions fort bien pû ne parler
jamais, et nous entendre parfaitement par la seule langue du geste” (EOL: 378).
The efficency of gesture is thus given by its immediate relation to the object as
“l’objet offert avant de parler ébranle l’imagination, excite la curiosité, tient
l’esprit en suspens et dans l’attente de ce qu’on va dire” (EOL: 376).
Movements and gestures have a stronger capacity to develop direct and non
verbal forms of communicating men’s inner motions, their dispositions. In this
sense, gesture easily expresses the “inquetude naturelle” (EOL: 376) of men.
The birth of vocal language, therefore, is not primarily based on needs, but
it rests on a necessity to express moral passions in which Rousseau also places
the superiority of this form of communication on gesture. The first invention of
speech was therefore due to passions. The capacity of speech to keep men
united through persuasion is based on the ability to raise and move passions
by intertwining words and images, sounds and tunes. In this sense, any
discourse, any system of words and sentences, despite its being based on
rationality and convention, can retain some sort of “musicality” by accents and
224
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
intonations. That is why a discourse can raise men’s passions and express
feelings better than any other means: “Mais lorsqu’il est question d’émouvoir
le coeur et d’enflammer les passions, c’est toute autre chose. L’impression
successive du discours, qui frappe à coups redoublés, vous donne bien une
autre émotion que la présence de l’objet même, où d’un coup d’oeil vous avez
tout vëû” (EOL: 377). Rousseau explained the importance of spoken language
with the example of the sensations raised by a suffering man. As long as we
merely see him suffering, we can feel close to him but we will never feel fully
touched unless he starts telling us about his feelings and pains. Indeed,
passions have their own gestures, “mais elles ont aussi leurs accens, et ces
accens qui nous font tressaillir, ces accens auxquels on ne peut dérober son
organe, penétrent par lui jusqu’au fond du coeur, y portent malgré nous les
mouvemens qui les arrachent, et nous font sentir ce que nous entendons”
(EOL: 378). This example helps us clarify how the communicative form of the
discourse is the most capable of expressing pity, and helps us understanding
the extent to which pity grounds recognition, and how recognition remains as
a pre-requisite for any form of communication.
Rousseau was also persuaded that the conventional nature of language is
not only related to the forms, instruments and modalities of communicating,
but is also connected to signification itself. In the Discourse he clarified how it
was not from language that the faculty of thinking emerged, but it is from
thinking that men produce their languages: “car si les Hommes ont eu besoin
de la parole pur apprendre à penser, ils ont eu bien plus besoin encore de
savoir penser pour trouver l’art de la parole” (DI, p.147). It is thus from very
simple ideas – generated by a primitive process of self-recognizance – that men
develop their first words through a process of denomination. General and
more complex ideas only derive from a subsequent evolution of the intellect
that is promoted by the use of early forms of language and communication:
“Il faut donc énoncer des propositions, il faut donc paler pour avoir des idée
générales, car sitôt que l’immagination s’arrête, l’esprit ne marche plus qu’à l’aide
des discours. Si donc les premiere Inventeurs n’ont pu donner des noms qu’aux
idées qu’ils avoient déjà, il s’ensuit que les premiers substantifs n’ont pu jamais
être que noms propres” (DI, p.150).
This is very much what was already expressed by Condillac, and is the
also the result of Locke’s influence on the French and European philosophical
debate. In fact, the Essay on Human Understanding was a fundamental work for
theorists of language and literature from the following century, in France as in
the whole of Europe. In his Essay ‘Of Words’ in Book 3 the English philosopher
affirmed that words were merely arbitrary signs of ideas: “[words] signify only
Men’s peculiar Ideas, and that by a perfectly arbitrary Imposition” (1690, II:73) and
authors such as Vico, Condillac and Rousseau himself interpreted this passage as
225
Alessandro Arienzo
signifying that words were much more than outward signs: words could shape
ideas as they give an organized form to thoughts (Hudson, 2005: 335). This
processes, at least for Rousseau, is certainly not the mere result of any feature of
our physical nature as “l’invention de l’art de communiquer nos idées dépend
moins des organes qui nous servent à cette communication que d’une faculté
propre à l’homme, qui lui fait employer ses organes à cet usage, ” (EOL: 379).
In describing the process of establishing conventional signs, a faculty that
is inherent in all men, Rousseau is also influenced by William Warburton, who,
in his Essai sur les hiéroglyphs des Égiptiens (1744), studied the figurative origin
and evolution of hieroglyphics. He held the thesis that the first writings were
simple pictures used, in the centuries to follow, as tropes in order to represent
abstract and conceptual figures and ideas. Rousseau also believed that the first
expressions used by human beings were “tropes”. Language was therefore
figurative before it was literal: “On nous fait du language des prémiers
hommes des langues de Geométres, et nous voyons que ce furent des langues
de Poëtes” (EOL: 380). Figurative language was therefore the first form of
language established by man in society, and early speech was expressed in the
form of poetry because passion suggested images and illusions, then images
were substituted by metaphors, and finally reason “n’en employa les
expressions que dans les mêmes passions qui l’avoient produite” (EOL: 382).
Language is the product of passions expressing a “moral” tension of men
toward each other, and it represents a sort of matrix in which the results of
complex intellectual operations guided by our search for perfectibility come to
be framed. Words are arbitrary signs, and those signs form a language through
which our early and very limited ideas are enriched, further developed and
widened according to the mutations of events.
On the establishing of societies and languages
“Sitot qu’un homme fut reconnu par un autre pour un Etre sentant,
pensant et semblable à lui, le désir ou le besoin de lui communiquer ses
sentimens et ses pensées lui en fit chercher les moyens” (EOL: 375). Scholars
have often focused on the relevance of the dynamics of recognition in the
Discourse on inequality and in the Essay (Honneth, 1996; Carnevali, 2004). The
latter takes as given what was already discussed in the former: namely pity
and perfectibility, the two factors that move men to exit the “pure state of
nature” to establish families, then complex societies. If we regard the mute
man of the Discourse as an hypothetical grade zero of mankind, the mutual
recognition among men must necessarily be the first step of sociality. In order
226
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
to express how the homme natural developed into a social being, Rousseau had
to establish the principle that “the consciousness of fellow humanity requires a
sympathetic recognition of shared passions-compassions” (Scott, 1998:301). In
this way, man loses his primitive condition of peace and innocence. Indeed, no
teleological process pre-determine this transformation, as only historical and
anthropological reasons led mankind to leave that condition of individual
independence and selfishness. The detachment from an original condition of
pure nature is a paradoxical result of a search for perfectibility that moves men
toward the development of natural capacities that would have otherwise
remained silent and inactive. In fact: “cette parfait indépendence et cette liberté
sans régle, fut-elle même démeurée jointe à l’antique innocence, auroit en
toujours un vice essentielle, et nuisible au proprés de nos plus excellents
facultés, savoir le défaut de cette liaison des parties qui constitue le tout” (MG,
283). Without that faculty, the earth would be inhabited by solitary men, unable
to communicate to each other and to fulfil their capabilities. Perfectibility is
therefore a strenuous and natural search for a full development of human
capacities that leads us to civility while producing divisions and conflicts. It is a
“faculté qui, à l’aide des circonstances, développe successivement toutes les
autres, et réside parmi nour tant dans l’espéce que dans l’individu” (DI:142). It
drives men, both individually and collectively, to face their needs and passions
and to transform themselves inside a tension toward self-perfection as well as
egoism, toward amour -de-soi as well as of amour-propre.
While perfectibility is a faculty that takes men “in movement”, pity is a
virtue “qui, ayant été donné à l’homme pour adoucir, en certaines
circonstances, la férocité de son ampur propre, ou le désir de se conserver
avant la naissance de cet amour […] vertue d’autant plus universelle et
d’autant plus utile à l’homme, qu’elle précede en lui l’usage de toute réflexion”
(DI:154). Although Rousseau’s argument in the Essay may seem to differ with
the Discourse, critics are now largely convinced that there is no essential
contradiction between the two works. Rousseau’s argument, in fact, is not that
pity is immediately active in the pure state of nature, but rather that it operates
as a “principle” of natural right. This principle does not presupposes natural
sociability, but the activities of men’s natural faculties and, among them, the
most relevant is that of imagination, which is the faculty that makes it possibile
to live other’s sufferings and pains as ones own. (Derathé, 1950). In fact,
although natural, pity would remain eternally inactive without the role of
imagination, which is the faculty that makes us able to identify with another
person. The movement of recognition of the other is always possible, provided
that any man imagines himself as “other” to the next man, through a reflexive
227
Alessandro Arienzo
movement of thinking. This process is not obvious or definitively acquired and
the imitative capacity of languages plays a decisive role.
Spoken languages are, in fact, parts of a continuous and natural effort
toward mutual recognition. Languages, as we already mentioned, are not
merely concerned with communicating needs as their true aims are to share
passions and feelings, establishing mutual relations and moving men toward a
common society. It is now possible to index a few significant characteristics of
languages, as they are expressed by Rousseau. The first of them is that while
speech is specifically human, it is also true that this capacity only develops
“historically”, and, in a certain sense, by accident. Languages are moreover
“catastrophic”, as their birth is made possible by natural catastrophes or
dramatic accidents that obliged men to live together in a search for mutual
help. Moreover, early spoken languages were passionate and metaphoric and
it will only be through a long lasting process of socialization that languages
will develop stable inter-subjective meanings. Lastly, the conventional nature
of languages remain, above all, dependant on the necessity to “persuade
individuals in cooperative endeavours” (Dobels, 1986:645).
Thus, the theme of the origin of languages cannot be severed from those of
sociability and recognition. In this sense, languages follow the same path of
transformation and degradation that Rousseau attributed in the Discourse to
mankind. He draws a hypothetical history of mankind in which the point zero
of humanity is what he called the homme naturelle, a man who is substantially
independent from nature and from others. This man has no necessity to
develop arts or crafts in order to survive, and the only real need he has for
another human being is for sexual reproduction. In a sense, this man is not
properly free, as his condition is not much the product of his will but the result
of an immediacy of relation with the things and beings surrounding him.
Language does not belong to him, despite the fact that he has the faculty to
communicate by inarticulate sounds and confused gestures. It is only when
perfectibility and pity brought men to join together, giving birth to early forms
of societies, that spoken languages could arise. The development of written
forms of communication comes later, adding a different line of transformation
of mankind, as different stages of society developed and expressed in this
development different forms of writing: “La peinture des objects convenient
aux peuples sauvages; les signes des mots et des propositions aux peuples
barbares, et l’alphabet aux peuples policés” (EOL: 385). In early primitive
societies the single individual was no longer fully independent and inequality
started to grow, a substantial condition of freedom, nonetheless, continued to
characterize this stage of mankind. When the stronger and the richer – because
228
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
of the institution of property and of the division of labours – firmly established
their rule, this condition of a relative balance among men was definitively
broken. After the golden age of classical antiquity, mankind degraded toward
affectation, falsity and domination. In this sense, societal division is neither
natural nor original, but was the paradoxical, and in a way unavoidable, result
of sociality and perfectibility.
In all the phases of human history, perfectibility moves mankind toward
new acquisitions and gains at the price of a progressive loss of autonomy and
the growth of conflicts. The only way to put an end to the contemporary
condition of violence and subordination of the many by the few, is through the
establishment of a common power that guarantees freedom, equality and selfgovernment. As we are now going to discuss, it is up to politics to create a sort
of “political unity of melody” tuned as customs, institutions and laws.
On representation and democratic self-government
Rousseau’s philosophical theory was part of a wider movement in the
early Eighteenth century in which the theme of musical language stood as a
crucial element of neo-classical theories of representation (Thomas, 1995:7).
Within that movement, music was “the triggering mechanism of representation itself – the origin of the origin of culture, as it was” implying “forms of
representation which shatter the classical notion of a direct, one-on-one
correspondence between sign and meaning” (Thomas, 1995:10). We have
already noticed the extent to which Rousseau connected music to language and
discourse, and how according to his view a sound discourse could play a
decisive role in persuading and moving passions. Thus, the support of melody
against harmony had a clear political relevance, as it parallels the opposition
between political representation on one side, and democratic self-government
on the other. Music, as well as politics, is based on signs, nature, culture, and
history. Being that any sign can be the arbitrary, often conventional, expression
of ideas connected to outward objects, there is always a representative process
involved in signification, music and language: “L’analyse de la pensée de fait
par la parole, et l’analyse de la parole par l’écriture; la parole represente la
pensée par des signes conventionnels, et l’écriture représente de même la
parole; ainsi l’art d’écrire n’est que une réprésentation mediate de la pensée, au
moins quant aux langues vocales, les seules qui soient usage parmi nous”
(FP:1249). The essence of language is thus representation: in spoken language
there is an initial representative process that involves ideas and words, then a
second one that concerns the processes by which we represent spoken words
229
Alessandro Arienzo
with written signs. In both cases, representation is conventional and expresses
a slow degradation of the immediate evidence of things through rationalization and substitution. This explains why in Emilio, Rousseau warns us to
never substitute: “le signe à la chose que quand il vous est impossibile de la
montree. Car le signe absorbe l’attention de l’enfant, et lui fait oublier la chose
réprésentée (Em:434). Indeed, while communicating and thinking are two
different faculties, as far as words are not ideas and sentences are not merely
chains of ideas, these faculties are strongly intertwined, and the degradation of
one implies the degradation of the other.
The critique of representation in knowledge and learning also clarifies
Rousseau’s critical assessment of theatrical imitation and stage performances.
On this theme, the most relevant writing is probably the short essay De
l’imitation théatrale, a collection of notes on the books III and X of Plato’s
Republic and of passages taken from Gorgias and the Laws (Dugan T. and Strong
T.B., 2001). In these notes Rousseau focused on the themes of imitation and the
perils of imitative representation already discussed in his the Letter to
D’Alambert, where he observed how theater could move our emotions through
a process of representation in which, due to the separation between the stage
and the spectators, moral passions only have a weak resonance in the soul of
people. When connected to public performances, imitation gets people used to
passivity and surrogates of reality. In an often quoted passage of the Letter,
Rousseau wonders “Qu’est que le talent du comedien? L’art de se contrefaire,
de revertir un autre caractére que le sien, de paroitre différent de ce que qu’on
est, de se passionner de sang-froid, de dire autre chose que ce qu’on pense
aussi naturellement que si l’on le pensoit réellement, et d’oublier enfin sa
proper place à force de prendre celle d’autrui” (LD:72-73). This passage is
exemplary, and must be read along with Rousseau’s critique of affectation and
the false passions of contemporary societies, where relations among men are
characterized by artificiality, subordination and separation. While contemporary politics, culture and customs separate men from each other, and separate
men from themselves, imitative music gives us the possibility to recover a
much more direct and immediate form of communication and recognition.
Theatrical imitation being representational, is mere fiction, while musical
imitation is the expression of unity and of melody.
Along this line of thought, when focusing on politics, Rousseau opposes
political representation to the musicality expressed by the wise discourses of
ancient legislators. Numa, Licurgus, and Moses, who were key figures in
seventeenth and eighteen century republicanism. Due to this, much of
contemporary scholarship focuses on Rousseau’s political theory by stressing
230
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
its distinctive and peculiar mixture of republicanism, natural right theory and
sovereignty. This complexity is the reason that compelled John Pocock to
describe Rousseau as the “Machiavelli of the Eighteenth century” (Pocock,
1975:504). Indeed, his most important project was that of composing of an
ample thesis on politics that he would have titled Political Institution had he
have accomplished this research in his lifetime. Nonetheless, the two
discourses, Social Contract, Emilio, together with his writings on Corsica and
Poland, represent a thorough effort of reforming politics and political
institutions by questioning their very fundamental principles. His reflections
on music, as well as the “hypothetical history of mankind” underlying almost
all his works, must be considered relevant aspects of this effort. In this sense,
Victor Gourevitch clearly stressed how the central themes in Rousseau’s
republicanism were customs and laws, whereas moeurs regulates attitudes and
dispositions with individual laws and collective conducts (Gourevitch, 1997).
As we will soon discuss, regulating moeurs is what which a legislator must do,
through rhetoric and persuasion. It is through the melodious language of
political wisdom, rather than with the imperious command of a ruler, that a
political community can be created and preserved.
The political relevance of music, language and harmony can easily be
traced to a number of points in Rousseau’s works; nonetheless, it could be
enough to focus on the chapters dealing with the legislator and sovereignty for
the purposes of tracing this contribution as they appear in the Social Contract
and in his works on Poland and Corsica. Being that the Social Contract is the
work in which Rousseau’s theoretical approach and his republicanism are
better expressed, and being that those on Poland and Corsica are the writings
in which the governmental side of his democratic republicanism can be better
traced. Indeed, popular and legislative sovereignty is a fundamental aspect in
Rousseau’s political theory, but legislative sovereignty rests on the early
establishment of a political community that necessitates a wise beginning. This
is the job of legislators who have to shape and mould a multiplicity of
individuals into a people, into a political community. Nonetheless, behind the
people there is always a population, a multitude of individuals and a plurality
of groups that join together in a society but do not represent in their
immediacy a political unity. The transformation of this multitude into “the
People” is a difficult and exceptional matter, one that requires political
wisdom, accurate government and a constant governance of groups and
individuals. Rousseau’s writings on Poland and Corsica, among all his political
works, offer traces of a political investigation that supports sovereignty and
social contract but focuses on administration, economy and the governance of
the population.
231
Alessandro Arienzo
The chapter on the legislator is certainly among the most puzzling and
fascinating of the Social Contract. Numa, Licurgus, and Moses are all figures
that give an answer to the necessity that a republic in its beginning should be
established on wise, stable and virtuous principles. In this sense, wise founders
of republics and their lawgivers must give orders and institutions, but they
must also be political educators. Education, as a political tool, is a complex
moral economy based on the rediscovery of the immediacy of human nature
and individuality. In the very beginning of this chapter Rousseau warns the
reader that the legislator, if it ever existed, must surely have been a “superior
intellect”, strong enough to understand men as they really are, understanding
their passions without being affected by them. Thus, a man completely
devoted to the happiness and well-being of the people, whose image – which is
clearly drafted on a stoic theme – is that of a semi-god, a superior moral being.
A figure that understands and speaks the same language of the people as he
wants to shape it and give it form. It has often been noted that Rousseau
assumes the republican principle that the best way to ensure obedience to law
is to dissuade citizens to praise and honour them, rather than relying on force
and coercion. But in his Letter to d’Alambert, having posed the question “Par où
le gouvernement peut il donc avoir prise sur les moeur?”, Rousseau significantly changed this republican maxim by proposing a new idea of public
opinion: “par l’opinion publique” he answered (LD:61). This change has a
massive political relevance as public opinion is not subject to the imposing
powers of kings and magistrates. Public opinion must be cherished, can be
educated but cannot be imposed. Thus: “Si le gouvernement peut beaucoup
sue les moeurs, c’est seulement par son institution primitive” (DL:68). And to
do so, it is necessary to persuade rather than convince people of the necessity
and righteousness of laws and customs. People, as well as public opinion, have
a conservative nature in a sense that they resist change and innovation; once
public opinion has assumed a determined character, it is almost impossible to
radically transform it. Law has an immediate sanctioning power and an
authority that can last for a long time, thus it can establish, enforce and
promote behaviours and customs. In this sense, the knowledge of force and
measure is “the véritable science du Legislateur” (DL:60). But those who set up
laws have no legislative power, as this must reside in the people, and for
people to pass a law, they must be persuaded of its necessity, and persuasion is
about melody, images and the redounding of passions. The legislator is
therefore like a musician. He has to use melodious tunes, musical images, and
passionate speeches in order to persuade his people and move them toward a
virtuous life. One of the reasons for contemporary corruption is in the
232
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
declining force of persuasion overcome by might and domination: “Dans les
anciens tems où la persuasion tenoit lieu de force publique l’éloquence étoit
nécessaire. À quoi serviroit-elle aujourdui que la force publique supplée à la
persuasion?” (EOL: 428). Coercion substituted persuasion, and might overcame rights.
In the Social Contract Rousseau warns us that fully rational and dispassionate discussion and deliberation on what must be the common interest,
which is the object of the common will, does not belong to the people. This is
why “le Législateur ne pouvant employer ni la force no le raisonnement, c’est
une nécessité qu’il recoure à une autorté d’un autre ordre, qui puisse entraîner
sans violence et persuader sans convaincre” (MG: 317; CS:383). The necessity to
persuade and to establish institutions, and above all customs (mores), is the
reason why ancient legislators had to make recourse to religion. Here, he is
quoting Machiavelli in his description in the Discourses on Livy of Numa. In
order to persuade Romans “who were fierce and rude people” to accept
Numa’s laws, he had to make recourse to the fiction of gods ordering the
people through their image. By following Machiavelli, Rousseau distances
himself from William Warburton, who in his Divine Legation of Moses (17371741) had joined religion and politics at the origins of mankind, describing
them as two different faces of the same coin. On the contrary, Rousseau
believes that religion and politics are two separated spheres, one may be an
instrument for the other, and he focused on the role of religion in supporting
politics in the establishment of civil institutions and shared customs “pouvoir
donner ou lien morale une force intérieure” (MG:318): “Voila ce qui força de
tous tems les Péres des Nations de recourrir à l’interevention celeste et
d’honores les Dieux de leur proper sagesse” (MG:317; CS:383). In this sense,
religion in Rousseau’s political theory is above all a civic religion, drafted on
the classic examples of Athens and Rome, as well as on contemporary
Geneva’s Calvinist republic.
The role of the legislator in this framework also proves how untrustworthy
the “people” are. In fact, Rousseau does not argue for a direct participation of
every single citizen in any single passage of political life, particularly in the
executive or deliberative moments. The process of approving a law, which
belongs only to the sovereign body, is not a “deliberative” process, and the
function of evaluation and proposal only pertains to the government and its
offices (Urbinati: 2006). Assembled people do not participate in the deliberative
process, they only exercise the sovereign power of approbation and ratification
of what is being proposed by the magistrates. Participation is the prerequisite
of sovereignty, while deliberation, is rather, the function delegated by the
233
Alessandro Arienzo
sovereign to the wisest part among the people through the institutional device
of mandat imperatif. Deliberation is about reason and interests, rational and
exact debating among the wise is a property of deliberation, all common to
prudent and competent individuals. Participation instead, involves the
expression of passions and feelings, and is about sharing and communicating,
it concerns the establishment of a political community as a unified element.
The melody of a fluent discourse rather than the appropriateness of deliberation belongs to the public space of participation.
In this sense, both deliberation and participation can only follow the initial
establishment and constitution of a community. The People do not exist before
the extraordinary act of a legislator establishing the first principles upon which
to give an order to a community out of a dispersed state of nature. This is a
matter for politicians who, having a deep knowledge of men, are acquainted
with the inner laws of the functioning of a state and of a political community:
in other words to those few politicians who are experts in the rules of reason of
state. This is a point not often raised by Rousseau scholars ideas, despite its
relevance for understanding the extent to which the establishment of “People”
as the holder of a sovereign power can subsist only in accordance to the
governance of population. Certainly, Rousseau describes reason of state as a
sort of political science rather than a mere prudence or a Machiavellianism.
Reason of state requires wisdom rather than prudence, and a political intellect
rather than a cunning mind. The starting point is the sad and “realistic”
observation that government is not a matter for all people, as for it is a means
for them to understand the maxims of justice or the rules of raison d’Etat “il
faudroit que l’effet put devenir la cause, que l’esprit social qui doit être
l’ouvrage de l’institution présidêt à l’institution même, et que les hommes
fussent avant les loix ce qu’ils doivent devenir par elles” (MG:317; CS:383). The
people as a political unity is not a pre-requisite for an ordered community, but
is instead the result of a process of composition that makes a well ordered
community possible. This is why, when confronting it with the common sense,
language of wise politicians and legislators must express clarity, transparency,
and immediacy, in order to be understood. This brings us back to music and to
the theme of the origin of languages. Early languages, in fact, were less exact
but were much stronger, and it must be the effort of both politicians and
legislators to recover the might and immediacy of early languages, recover
their musicality. In fact: “Ce fut souvent l’erreur des sages de parler au
vulgaire leur langage ou lieu du sien; aussi n’en fuerent-ils jamais entedus. Il
est mille sortes d’idée qui n’ont qu’une langue et qu’il est impossibile de
traduire au Peuple. Les vües trop générale set les objets trop éloignes sont
234
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
également hors de sa portée, et chaque Individu ne voyant, par example,
d’autre plan de gouvernment que son bonheur particulier, apperçoit difficilement les avantages qu’il doit retired des privations continuelles qu’imposent
les bonnes loix” (MG:317; CS 383). This ability to make people understand,
convince them in order to let them approve what is proposed according to the
general interest, is indicative of a state of freedom. In the last paragraphs of the
Essay, Rousseau affirmed that any language that appears incomprehensible to
the people, is a “servile language” (EOL, 428). There are languages that are
conducive to freedom; these are sonorous, harmonic and prosodic languages
resounding in public places and not in private chambers or secret councils of
kings.
Rousseau tried to prove its ability to express a political science and a
constituent capacity by offering wise advice to the people of Corsica and
Poland, acting, in a way, as an hypothetical legislator. Being involved in the
constitutional project of Corsica he firstly remarked that the process of
corruption of mankind is so advanced that only in rare cases could a new
political community be formed. A community whose people are relatively
untouched by the vices of civility and modern politics that can still realize a
stable democratic republic. Because of this, in order to find the best means to
form a “people”, he deemed it necessary to fall back on persuasion and civic
virtues as well as a series of principles and policies for the wise governance of
the “population”. In fact, the number, the strength, and the virtue of
individuals living in a territory, its resources, together with a light administration and an efficient agriculture, are the prerequisite of any wise government and the means for the establishment and growth of a political community. The correct division of a territory and the exact balancing of its resources
are the element upon which it will be possible to balance the sovereign and
legislative powers with a wise and competent government. Moreover, to
prevent corruption in the political system, Rousseau has to recur to a peculiar
institutional harmony, one expressed by a system of checks and balances
necessary to divide and control the correct function of government as well as a
system of “graduated promotions” in offices and public institutions, in order to
give value to virtue and civic duty.
In this sense, the managing of the population is as necessary to the well
being of a State as the creation of a nation by the establishment of shared
meanings and customs. If the latter aims to shape the People from “the inside”,
shaping beliefs and behaviours through customs, laws and a shared language,
the former has to deal with those external factors that allow the ordering of all
the economical and productive characteristics of a territory and its inhabitants.
235
Alessandro Arienzo
In a long passage from the project for Corsica dedicated to agriculture and the
exchange of goods, Rousseau clarifies how the careful management of markets
is the first and most important policy of a government. It is exactly in this way
that with the aid of government one can raise commerce and exchanges to a
point that the role of government itself becomes superfluous (PCC:141). In this
sense, the governance of abundance and scarcity is the governmental side of
sovereignty and republican thought. A wise politician must understand the
nature of his people if he wants to cherish it, strengthen it, by offering the right
rules, institutions and more. This is the reason why a politician has to follow
the rules of reason of state which impose a definition of the knowledge and
management of a population. In this sense, the observation that “qu’il y a dans
tout corps politique un maximum de forces qu’il ne sauroit passer” (MG:320;
CS:386), is probably the fundamental maxim of the reason of the state
necessary to establish a nation. Indeed, this strength must be converted in
political power and, despite the unity of sovereignty, its exercise must be
divided in a complex system of checks and balances – as they are for example
discussed in the Constitutional Project for Poland. Senatorial oversight, legislative
appointment of elected magistrates, rotation of offices, frequent meetings of the
staff and frequent elections of deputies: are all necessary tools for exercising a
stable rule while maintaining political liberty.
The harmonious language of a legislator is therefore necessary when
establishing a community for the first time, and this is a happy and melodic
time when a wise politicians, like Numa for example, joined together sound
arguments, passions, eloquence, and fluency. This is no different from the
same philosophical movement that led Machiavelli to advocate the recovery of
the first principles of a republic, regenerating its virtue and institution.
Rousseau believed that to establish a language for free and sovriegn people, it
hand to be a language understood by the people, constituted by a movement of
rediscovery of the origins of language out of sounds, melodies, and gestures.
Nonetheless, if this is sufficient for establishing a community and setting up a
legitimate sovereignty, in order to govern such a state it is necessary to manage
its population, manage its territory and adequately set up the exercise of
political power. Thus, the delicate sound of a democratic republic allows its
“grey” side to emerge: the background noise of reason of state and political
economy.
236
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation of democratic republicanism.
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Appendice
Ideologia e Analisi del Discorso1
Teun A. van Dijk
Department of Translation and Language Sciences,
Universitat PompeuFabra, Barcelona
email: vandijk@discourses.org
Diversamente dagli approcci più tradizionali, in quest’intervento le ideologie ricevono
la propria definizione all’interno di una struttura multidisciplinare che combina insieme
componenti sociali, cognitive e discorsive. Poiché, come “sistemi di idee”, le ideologie
possono essere socio-cognitivamente definite come rappresentazioni condivise di gruppi
sociali, e, più specificamente, come i principi “assiomatici” di tali rappresentazioni. E come
fondamento della rappresentazione di sé di un gruppo sociale, le ideologie ne organizzano
l’identità, le azioni, gli obiettivi, le norme e i valori, e le risorse, nonché i rapporti con altri
gruppi sociali. Le ideologie sono, dunque, distinte dalla base socio-cognitiva caratterizzante
le più ampie comunità culturali, all’interno delle quali, gruppi ideologici differenti possono
condividere allo stesso tempo credenze elementari e saperi. Le ideologie sono espresse e, in
genere, riprodotte nelle pratiche sociali dei loro membri, e, più in particolare, acquisite,
confermate, cambiate e perpetuate attraverso il discorso. Sebbene le caratteristiche generali
del linguaggio e del discorso non siano, come tali, ideologicamente caratterizzate, l’analisi
sistematica del discorso offre potenti metodi per studiare le strutture e le funzioni di base
delle ideologie. La polarizzazione ideologica tra ingroup e outgroup2 - una caratteristica
Paper symposium on ideology, Oxford University, September 2004. Journal of Political
Ideologies, 11 (2006), 115-140. Reprinted in Michael Freeden (Ed.), The meaning of
ideology. Cross-disciplinaryperspectives. (pp. 110-136). London: Routledge, 2007.
2 I termini ingroup e outgroup appartengono al lessico proprio della psicologia cognitiva sociale
e non hanno equivalente nella lingua italiana. Se l’origine di questa coppia dialettica è da
rintracciarsi negli studi dell’antropologo WILLIAM GRAHAM SUMNER (1096, Folkways. A Study
of Mores, Manners, Customs and Morals; trad. 1962, Gilardoni, V., Costumi di gruppo, Milano,
Edizioni di Comunità), è con lo sviluppo della Teoria dell’Identità Sociale (comunemente
indicata dall’acronimo SIT - Social Identity Theory) elaborata a partire dalla prima metà
degli anni Cinquanta da HENRI TAJFEL (Human Groups and Social Categories, Cambridge,
Cambridge UP, 1981; trad. Gruppi Umani e Categorie Sociali, Il Mulino, Bologna 1999) che alla
dimensione etnocentrica si sostituisce quella psicologica. La SIT concettualizza il gruppo
come luogo d’origine spontanea dell’identità sociale. Negli studi condotti da Tajfel sul
cosidetto paradigma dei gruppi minimali, infatti, emerge come, individui divisi in due gruppi
sulla base di motivazioni banali (la preferenza per le opere di Klee piuttosto che per quelle di
Kandinskij), manifestino istintivamente e immediatamente sentimenti positivi e trattamenti
speciali per le persone appartenenti al proprio gruppo (ingroup); e avere sentimenti negativi
e trattamenti ingiusti nei confronti degli altri, percepiti indiscriminatamente come un
ulteriore gruppo omegeneo (outgroup). Secondo Tajfel il motivo principale di tale dinamica
Noi\Loro sarebbe la stima di sé: i soggetti aumentano la stima di sé identificandosi con un
gruppo sociale preciso, che percepiscono come superiore rispetto agli altri (ndt).
1
243
Teun A. van Dijk
prominente della struttura delle ideologie - può anche essere studiata sistematicamente a
tutti i livelli di espressione testuale e parlata, ad esempio, per analizzare in che modo i
membri di un ingroup siano soliti enfatizzare i vantaggi delle proprie azioni e le proprie
qualità a fronte degli svantaggi di quelle dell’outgroup, e attenuare i propri aspetti
negativi e negare quelli positivi degli altri.
Introduzione
In questo documento discuterò alcune delle questioni sollevate da un
approccio allo studio dell’ideologia nella prospettiva dell’analisi del discorso. È
dal momento che le persone acquisiscono, esprimono e riproducono le proprie
ideologie per lo più attraverso testi o conversazioni, che lo studio analitico del
discorso dell’ideologia assume una notevole rilevanza.
Nonostante l’attenzione in questo intervento ricada sull’intrefaccia discorso-ideologia, il suo quadro teorico è multidisciplinare, articolato secondo la
fondamentale triangolazione tra discorso, cognizione e società (Van Dijk
1998a). Si tratta, infatti, di un quadro critico nei confronti dei tradizionali
approcci all’ideologia – in particolar modo di quelli elaborati all’interno delle
scienze sociali e della filosofia -che non sono in grado di offrire un’adeguata
teorizzazione della natura e della struttura socio-cognitiva delle ideologie, e
della loro riproduzione discorsiva. Questo documento, dunque, non tratterà
ampiamente di tali approcci classici all’ideologia3.
1.Teoria dell’ideologia
Prima di affrontare l’analisi dei rapporti tra ideologia e il discorso, è
necessario riassumere brevemente il quadro teorico in cui tali rapporti possono
essere resi espliciti (Van Dijk 1998a).
Definizione di Ideologia
Il primo presupposto è che, in qualunque modo le intendiamo, le ideologie
sono una sorta di “idee”, ovvero, di sistemi di credenza. Ciò implica, tra le altre
cose, che esse, come tali, non contengono le pratiche ideologiche o le strutture
sociali (ad es. chiese o partiti politici) che su di esse stesse si basano. Ciò
implica anche che la teoria dell’ideologia richiede una componente che sia in
grado di rendere conto, correttamente, del modo in cui le nozioni di “fede” e
“sistema di credenza” sono affrontate dalla scienza cognitiva contemporanea.
3
Tra i numerosi studi di carattere storico intorno al concetto di “ideologia”, si veda almeno
Larraín (1979).
244
Ideologia e Analisi del Discorso
In secondo luogo, così come non esistono linguaggi privati, personali, non
esistono ideologie private. Quindi, tali sistemi di credenza sono socialmente
condivisi dai membri di una collettività di attori sociali. Tuttavia, non ogni
collettività sviluppa o ha bisogno di un’ideologia, e sarà dimostrato che questo
è solo il caso di alcuni tipi di gruppo – per lo più nella relazione ad altri gruppi – e
non, per esempio, delle comunità, come quelle culturali, nazionali o linguistiche.
In altre parole, l’ideologia consiste di rappresentazioni sociali che definiscono
l’identità di un gruppo, ovvero le sue credenze condivise riguardo alle
condizioni ed alle modalità fondamentali di esistenza e di riproduzione. Diversi
tipi di ideologie sono definite in base al tipo di gruppi che “hanno” un’ideologia,
come, tra gli altri, movimenti sociali, partiti politici, professioni, o chiese.
In terzo luogo, le ideologie non sono un tipo qualsiasi di convinzioni
socialmente condivise, come possono essere le conoscenze socio-culturali o
sociali, ma convinzioni più fondamentali o assiomatiche. Esse, infatti, controllano
e organizzano altre credenze socialmente condivise. Così, un’ideologia razzista
può determinare gli atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione, mentre
un’ideologia femminista può controllare gli atteggiamenti circa l’aborto, tanto
ostacolando l’avanzamento di carriera (glassceiling)4 nell’ambiente lavorativo,
quanto aumentando la consapevolezza intorno alle ineguaglianze sociali di
genere, mentre un’ideologia sociale può favorire un ruolo più importante dello
Stato negli affari pubblici. Di conseguenza, le ideologie sono credenze sociali
fondamentali di carattere piuttosto generale e astratto. Una delle loro funzioni
cognitive consiste nel fornire coerenza (ideologica) alle convinzioni di un
gruppo in modo da agevolarne l’acquisizione e l’uso in situazioni quotidiane.
Tra le altre cose, le ideologie specificano anche quali siano, in generale, i valori
culturali (libertà, uguaglianza, giustizia, ecc.) rilevanti per il gruppo.
In quarto luogo, come fondamenta socio-cognitive dei gruppi, le ideologie
sono gradualmente acquisite e (talvolta) cambiate durante la vita o un periodo
di vita, e pertanto necessitano di essere relativamente stabili. Non si diventa
pacifista, femminista, razzista o socialista, nel corso di una notte, né si cambia il
proprio punto di vista ideologico in pochi giorni. Solitamente, per acquisire o
modificare le ideologie si rendono necessari molti discorsi e molte esperienze.
La variabilità spesso osservata nelle opinioni ideologiche dei membri di un
gruppo, potrebbe essere attribuita al livello personale o contestuale, ed è
insufficiente a respingere l’idea di una comune, stabile, ideologia di gruppo
(Converse 1964).
4
lett. “soffitto di vetro”: l’espressione indica il caso in cui la discriminazione (per lo più
sessuale o razziale) in ambiente lavorativo – ponendo una barriera non dichiarata e perciò
trasparente come un cielo di vetro – rende impossibile ogni avanzamento di carriera (ndt).
245
Teun A. van Dijk
Ma è vero anche il contrario: se le ideologie possono essere gradualmente
sviluppate da (membri di) un gruppo, esse possono anche essere gradualmente
disintegrate, ad esempio, quando i membri non credono più in una causa e
“abbandonano” il gruppo, quando le rivendicazioni sono state accolte, o hanno
trovato altre condizioni sociali e politiche, come, ad esempio nel caso dei
movimenti pacifista e anti-nucleare degli anni ‘70 (Corran 2003; Oberschall
1993; Van der Pligt 1992).
A volte, le ideologie diventano così ampiamente condivise che sembrano
essere divenute parte della mentalità generalmente accettata di un’intera
comunità, come convinzioni o opinioni ritenute ovvie, ovvero come senso
comune. Così, molti di quelli che oggi accettiamo come diritti sociali o diritti
umani, o molte forme di uguaglianza di genere, erano e sono convinzioni
ideologiche dei movimenti femministi o socialisti. In questo senso, e per
definizione, tali convinzioni perdono, così, la loro natura ideologica, non
appena esse diventano parte di un fondamento comune (Common Ground). È solo
in questo senso che potrei essere d’accordo nell’usare l’espressione “fine
dell’ideologia”, dato che ovviamente il nostro mondo contemporaneo è
abbondantemente rifornito di ideologie, in particolare da coloro che le negano.
Cosa le ideologie non sono
Benché queste siano proprietà piuttosto generali delle ideologie, ne offrono
già una definizione diversa da molti altri approcci. Esse non sono, quindi,
convinzioni personali di singoli individui; non sono necessariamente
“negative” (esistono ideologie razziste quanto antirazziste, comuniste quanto
anticomuniste); non sono una sorta di “falsa coscienza” (qualunque cosa essa
esattamente sia); non sono necessariamente dominanti, ma possono anche
definire resistenza ed opposizione; non sono i discorsi o le altre pratiche sociali
che le esprimono, riproducono o mettono in atto; e non sono lo stesso che
qualsiasi altra convinzione o sistema di credenze socialmente condivise5.
Le funzioni sociali delle ideologie
Le ideologie, così definite, presentano diverse funzioni cognitive e sociali.
Innanzitutto, come già spiegato, danno fondamento e organizzano le
rappresentazioni sociali condivise dai membri di gruppi (ideologici). In
secondo luogo, esse costituiscono la base fondamentale dei discorsi e delle altre
pratiche sociali dei membri appartenenti a gruppi sociali in quanto membri del
5
Tra i numerosi studi sul concetto di “ideologia” che difendono una o più di queste tesi si
vedano almeno Billig (1982), Eagleton (1991), Larrain (1979) e Thompson (1984). Poiché in
quest’articolo il dibattito sarà sviluppato a partire da altri approcci, non sarà possibile
offrire una critica dettagliata a questi approcci tradizionali.
246
Ideologia e Analisi del Discorso
gruppo. In terzo luogo, esse consentono di organizzare e coordinare le azioni
(comuni) e le interazioni in vista degli obiettivi e degli interessi di tutto il
gruppo. Infine, esse funzionano come parte dell’interfaccia socio-cognitiva tra
le strutture sociali (condizioni, …) dei gruppi da un lato, e i loro discorsi e altre
pratiche sociali dall’altro.
Alcune ideologie possono, quindi, avere funzione di legittimazione del
dominio, ma anche di articolazione della resistenza nei rapporti di potere,
come nel caso delle ideologie pacifista o femminista. Altre ideologie possono
avere funzione di base nell’ “orientamento” del comportamento professionale,
per esempio nel caso dei giornalisti e gli scienziati.
Dirò davvero poco sulle molte funzioni sociali e politiche ideologie,
soprattutto perché queste sono state attentamente ed ampiamente affrontate
nella teoria classica6. È necessario sottolineare, tuttavia, che le strutture
cognitive delle ideologie necessitano di essere modellate sulle funzioni sociali
che esse svolgono per i (membri di) gruppi.
2. Lacune e problemi aperti
Sebbene questa teoria renda conto di molte delle proprietà generali delle
ideologie, rimangono ancora importanti lacune e questioni aperte.
Le strutture delle ideologie
La più importante riguarda l’esatta natura cognitiva delle ideologie: quali
sono precisamente i loro contenuti e le loro strutture? Se socialismo, femminismo e neoliberismo sono ideologie, come si manifestano esattamente? Tale
questione è così generale da essere altrettanto difficile da risolvere quanto può
esserlo la questione fondamentale circa la determinazione delle esatte strutture
della conoscenza.
Sulla base dei modi in cui le ideologie organizzano gli atteggiamenti sociali,
come quelli sull’immigrazione o sull’aborto, e in vista delle loro funzioni, ho
ipotizzato uno schema ideologico generale, costituito da una manciata di
categorie di base che definiscono la concezione che un gruppo ha di sé stesso
(criteri di identità, attività tipiche, obiettivi, norme e valori, relazioni tra gruppi
e risorse di base o mancanza di risorse). Queste spiegano molte proprietà delle
ideologie, ma non sono sicuro che esse siano applicabili con la stessa efficacia a
tutte le ideologie, come, tra le altre, a quelle religiose, politiche o professionali.
Sembra proprio che, però, per poter essere acquisite e usate, le ideologie - come
6
Si vedano i riferimenti in nota 4. Sul ruolo del liberalismo e del socialismo nelle teorie
politiche, si veda Freeden (1996).
247
Teun A. van Dijk
avviene per altri sistemi di credenza - abbiano bisogno di un’organizzazione di
qualche tipo. Quindi, è improbabile che esse siano solo lunghi e disordinati
insiemi o semplici liste di convinzioni (il concetto di organizzazione delle
strutture cognitive, in termini di schemi, è una delle principali caratteristiche
della moderna psicologia cognitiva; si vedano Anderson 1980; Schank, Abelson
1977; Erlbaum 1977).
L’ipotesi circa la natura organizzata delle ideologie non significa che esse
siano in alcun modo coerenti. Non sono sistemi logici, ma socio-psicologici.
Così, esse possono benissimo essere eterogenee o incoerenti, in particolar modo
al loro primo più o meno spontaneo stadio, sebbene diversi ideologi (scrittori,
dirigenti, insegnanti, predicatori, …) possano tentare di migliorarne la coerenza
con espliciti manifesti, catechismi, teorie, e così via. Pertanto, sebbene le
ideologie organizzino altre convinzioni sociali di gruppi, questo non significa
che queste altre credenze sociali siano coerenti, come sappiamo, ad esempio,
dalla nota convinzione razzista che ritiene che gli immigrati siano pigri e non
abbiano voglia lavorare, e, al tempo stesso, che rubano i nostri posti di lavoro
(Lau, Sears 1986; Feldman 1988). Sappiamo anche che le persone utilizzano diverse strategie per eliminare o ignorare le contraddizioni tra le credenze ideologiche e i “fatti” con cui esse sono confrontate (Zanna, Klosson, Darley 1976).
Le ideologie sono solo credenze di base di un gruppo?
Un altro punto di cui non sono ancora del tutto sicuro, riguarda la
possibilità o meno di identificare le ideologie solo in termini di credenze di
base di gruppo, come ho fatto più sopra, o piuttosto se debbano essere concepite in un senso più ampio come composte da tutte le convinzioni ideologiche – inclusi i saperi e gli atteggiamenti più specifici – del gruppo.
Io preferisco la prima opzione “assiomatica”, prima di tutto, perché
esclude la possibilità che le mere opinioni personali o un singolo atteggiamento
di gruppo (ad esempio in tema di energia nucleare) possa essere chiamato
“ideologia”. In secondo luogo, limitare le ideologie alle convinzioni fondamentali, ci consente di registrare meno variazioni o cambiamenti in termini di
convinzioni fondamentali all’interno di una stessa ideologia – similarmente a
quanto accade per le varianti regionali e personali all’interno di una stessa
lingua. Invece di convinzioni “fondamentali”, possiamo parlare anche di core
beliefs7, ogni metafora teorica può essere utile. In quest’ultimo caso, sulla base
di tale nucleo gli atteggiamenti ideologici più specifici hanno bisogno di essere
descritti come più periferici.
7
lett. “credenze-nucleo”, ovvero le credenze più profonde, attorno alle quali le altre tendono
ad omogeneizzarsi (ndt).
248
Ideologia e Analisi del Discorso
Sono le ideologie “conosciute”, da tutti i loro membri?
In terzo luogo, anche se per definizione sono ideologie socialmente condivise, ovviamente, non tutti i membri di questi gruppi “conoscono” tali ideologie ugualmente bene. Come per le lingue naturali, ci sono differenze di “competenza” in un gruppo. I membri sono in grado di parlare o agire sulla base
dell’ideologia, ma non sempre sono in grado di formularne esplicitamente le
convinzioni. D’altro canto, ci sono esperti, insegnanti, leader e altri “ideologi”
che insegnano, spiegano, inculcano ed esplicitamente riproducono le ideologie
di gruppo (Fiske, Kinder 1981).
Allo stesso modo, si potrebbe supporre che non tutti i membri si identifichino con un gruppo ideologico allo stesso modo, e altrettanto fortemente
(Vallacher, Wegner 1989).
Ciò suggerisce che gli individui possono essere “più o meno” membri di
gruppi ideologici - e che la nozione di un gruppo ideologico è definibile come
un incoerente insieme di attori sociali. Variazioni di competenza e di
identificazione devono essere assunte per rendere conto dei fatti empirici e
fornire alla teoria la necessaria flessibilità.
La base sociale delle ideologie: Che tipo di collettività?
Infine, uno dei più difficili problemi riguarda l’esatta base sociale delle
ideologie. È stato ipotizzato che esse siano proprietà dei “gruppi sociali” e che
questi gruppi possano essere insiemi incoerenti. Ma, ovviamente, non tutte le
collettività sociali sono “gruppi ideologici”. I passeggeri di un autobus non lo
sono, né lo sono i docenti di alcune università. Di conseguenza, deve essere
soddisfatto un certo numero di criteri sociali circa la permanenza, la continuità,
le pratiche, gli interessi, le relazioni con altri gruppi, e così via, inclusa la base
fondamentale di identificazione del gruppo: un sentimento di appartenenza
che è tipicamente espresso dal pronome noi.
Alcuni gruppi sociali possono essere definiti unicamente o principalmente
in termini di ideologie, rappresentazioni sociali e condivisione di discorsi e di
altre pratiche sociali basate su di essi, come nel caso delle femministe e dei
razzisti. Altri gruppi, come le organizzazioni politiche o i gruppi professionali,
possono non solo condividere un’ideologia (professionale, politico), ma
possono essere ulteriormente organizzati da un’esplicita adesione ideologica,
attraverso tessere, riunioni, enti, organizzazioni, e così via.
In questa prospettiva, sembra pertinente distinguere tra (vari tipi di) gruppi
sociali, da un lato, e comunità culturali, dall’altro lato. I primi hanno ideologie –
connesse ai obiettivi e interessi in relazione ad altri gruppi – considerando che i
secondi hanno altre credenze generali, quali conoscenze, norme e valori – che
non hanno bisogno di essere collegate a quelle di altre comunità culturali. In tal
249
Teun A. van Dijk
modo, se i parlanti di lingua inglese sono una comunità culturale (linguistica), gli
insegnanti di inglese sono un gruppo sociale (professionale). Mentre i primi,
come tali, non hanno alcuna ideologia, i secondi possono benissimo averne una.
Un ulteriore lavoro teorico deve essere svolto sui tipi di collettività che
condividono ideologie. Temporaneamente, li ho chiamati “gruppi” distinguendoli dalle comunità. Essi dovrebbero anche essere distinti dalle categorie sociali,
come quelle di genere o etnia: non sono le donne o i neri ad avere ideologie,
ma le femministe o gli antirazzisti. Ma femministe e pacifisti sono un tipo di
collettività organizzata diverso dalle, in genere più organizzate, collettività
professionali o politiche. Razzisti o conservatori non sembrano costituire un
“gruppo”, nel senso di una collettività organizzata di persone, come nel caso di
un partito razzista. Sono “comunità di fede” piuttosto che gruppi che coordinano le proprie azioni. Tuttavia, femministe, pacifisti, razzisti e conservatori
non sono solo collettività che condividono ideologie. Essi agiscono su di esse, e
parlano tra di loro e con gli altri in funzione delle proprie ideologie. Essi
possono identificarle più o meno esplicitamente come tali, e difendere il
proprio punto di vista e quello di coloro che condividono le stesse opinioni. A
volte, come nel caso dei razzisti, essi possono non capire né ammettere di
essere tali – il che indica come non ci si autoattribuisca etichette ideologiche.
In altre parole, collettività ideologiche sono anche le comunità di pratiche e
comunità di discorso. Esse possono o meno organizzarsi in partiti politici o
organizzazioni. Non sono il partito o il club, come tali, ad essere ideologici, ma
la collettività delle persone che ne sono membri. Per questi motivi, ho deciso di
adottare in via provvisoria il termine “gruppo ideologico”, ovvero una
collettività di persone definita essenzialmente dalla loro comune ideologia e
delle loro pratiche sociali, che siano o meno organizzate o istituzionalizzate.
Altri gruppi, come quelli professionali, possono organizzare prima sé stessi, ad
esempio per promuovere o tutelare i propri interessi, e quindi sviluppare
ideologie (professionali) per sostenere le proprie attività.
Vediamo che una più ampia teoria dell’organizzazione sociale, per
esempio in diversi tipi di collettività, è strettamente collegata ad una teoria
socio-cognitiva circa la natura delle credenze o delle rappresentazioni sociali di
tali collettività. E’ anche per questo motivo che distinguo tra comunità
epistemiche o linguistiche, da un lato, e gruppi ideologici o organizzazioni,
dall’altro. Ma vediamo anche che un’ulteriore tipologia di “gruppi ideologici”
può essere necessaria, ad esempio in termini di organizzazione, permanenza,
azioni comuni, nonché riguardo la natura delle ideologie stesse: un movimento
sociale pacifista ha un diverso tipo di ideologia che, ad esempio, la religione
condivisa dai membri di una chiesa.
250
Ideologia e Analisi del Discorso
3. Ideologia ed elaborazione del discorso
Le ideologie sono state definite come convinzioni fondamentali che stanno
alla base delle rappresentazioni sociali condivise da specifici gruppi sociali.
Queste rappresentazioni sono, a loro volta, alla base del discorso e di altre
pratiche sociali. È stato anche ipotizzato che le ideologie siano in gran parte
espresse e acquisite tramite il discorso, che è interazione comunicativa, parlata
o scritta. Quando i membri del gruppo spiegano, motivano o legittimano le
proprie azioni (gruppo-basate), di solito lo fanno in termini di discorso
ideologico.
Tuttavia, un conto è assumere che le ideologie sono “alla base” del discorso,
tutt’altro è fornire una dettagliata teoria dei reali processi (cognitivi) di produzione o comprensione di un discorso così “condizionato”. In effetti, in che
modo esattamente “riconosciamo” un discorso razzista, sessista o neoliberale,
quando lo leggiamo o lo ascoltiamo? Per rispondere a questa domanda, vorrei
ancora una volta riassumere alcuni presupposti di base, in parte radicati nella
teoria contemporanea della psicologia cognitiva sull’elaborazione del discorso,
in parte basati su nuove ipotesi che estendono tale teoria (Van Dijk, Kintsch
1983; Van Oostendorp, Goldman 1999).
Contesto
L’uso della lingua in generale, e la produzione e la comprensione del
discorso in particolare, dipendono, e influenzano, le proprietà delle situazioni
comunicative interpretate come rilevanti dagli utenti della lingua. Queste
soggettive “definizioni della situazione” o “contesti” sono rappresentati come
modelli specifici nella memoria episodica: i cosiddetti modelli contestuali (Van
Dijk 1999). Tali modelli controllano molti aspetti del discorso facendo in modo
che esso sia socialmente opportuno. Come per tutti i modelli mentali, i modelli
contestuali possono essere ideologicamente “condizionati” dalla sottostante
convinzione che siano essi stessi ideologici. I modelli contestuali così
condizionati possono avere come risultato discorsi condizionati, per esempio
nella scelta lessicale o nell’uso di toni più o meno socialmente accettati. Così, il
modo in cui alcuni uomini parlano con o sulle donne sarà (anche) ovviamente
dipendente dalla rappresentazione che essi hanno delle donne in generale, e
dall’interlocutore femminile in particolare, come sappiamo dai testi e dai
discorsi del machismo. Lo stesso vale per la comprensione del discorso, che
dipende anche dal modo in cui vengono percepiti i parlanti, ideologicamente
condizionati o no.
251
Teun A. van Dijk
Modelli
Il significato o “contenuto” del discorso è controllato dalle interpretazioni
soggettive che gli utenti della lingua hanno della situazione o degli eventi a cui
il discorso è relativo, cioè dai loro modelli mentali (Johnson-Laird 1983; Van
Dijk, Kintsch 1984). La gente comprende un discorso se è in grado di costruire
per esso un modello. Pertanto, le notizie sulla guerra in Iraq sono in genere
prodotte e comprese sulla base dei modelli soggettivi elaborati da scrittori e
lettori intorno a tale guerra. Come per il caso dei modelli contestuali, anche
questi “modelli d’evento” (event models) possono essere ideologicamente
condizionati, sempre sulla base di base degli atteggiamenti e delle ideologie
socialmente condivise ad essi sottostanti. Modelli d’evento ideologicamente
condizionati danno generalmente luogo a discorsi ideologici, in cui eventi o
attori sono descritti più o meno negativamente o positivamente, a seconda del
pregiudizio ideologico del modello mentale. Questo è, in particolare, il caso di
tutti i discorsi su eventi specifici, come azioni, notizie, editoriali, articoli
d’opinione e quotidiane storie di esperienza personale.
Conoscenza
Dal momento che i modelli contestuali e d’evento sono personali e
soggettivi, i soggetti partecipanti condividono, più in generale, anche le
credenze sociali, come saperi, atteggiamenti e ideologie. Tali credenze generali
controllano la costruzione di modelli specifici e quindi, indirettamente, anche
la produzione e la comprensione del discorso. Più fondamentale è la conoscenza
condivisa di vari tipi, livelli o ambiti delle comunità (cultura, nazione, città,
organizzazione). Poiché questa conoscenza è per definizione acquisita e
condivisa da tutti i membri competenti di tali comunità, essa è anche
normalmente presupposta. In questo senso, i significati del discorso sono come
iceberg di cui solo una parte dei significati non-presupposti è esplicitamente
espressa. Dal momento che le comunità sono state considerate come nonideologiche per i propri membri, anche la loro conoscenza all’interno della
comunità è non-ideologica. Questo significa che, anche per i diversi gruppi
ideologici e i parlanti di una comunità, la conoscenza di questa è data per
scontata. È questa conoscenza condivisa, presupposta, data per scontata, che
rende possibili discorso, comunicazione e comprensione reciproca, anche
attraverso i confini di gruppi ideologici. In altre parole, secondo questa teoria,
tutte le altre convinzioni socialmente condivise, e quindi anche le ideologie dei
gruppi, sono basate su, e presuppongono, la conoscenza generale della
comunità. Lo stesso vale per la costruzione di modelli mentali e dei discorsi
basati su di essi: l’interpretazione di senso e la referenza appartengono ad un
processo attraverso cui si attivano e prendono forma i diversi tipi di
252
Ideologia e Analisi del Discorso
conoscenza. Ovviamente, i membri delle altre comunità possono descrivere la
conoscenza di una comunità come “semplice credenza” (superstizione, ...) e
quindi anche come ideologica. Allo stesso modo, ciò che oggi può essere
descritto come “credenza religiosa”, poteva essere presupposta come “conoscenza” in una fase anteriore di una comunità culturale. Bisogna notare, infine,
che il concetto di conoscenza, come è usato qui, è definito a livello della
comunità, e non in termini di convinzioni individuali.
In questo modo, come nel caso delle ideologie, i singoli membri di una
comunità possono possedere maggiori conoscenze di altri, ad esempio, in
seguito ad una diversa educazione. All’interno di una comunità, la conoscenza
può essere, dunque, stratificata o differenziata, con vari tipi di competenze. La
parola “gene” può essere utilizzata nel linguaggio di tutti i giorni e sui giornali
o in altri discorsi pubblici, eppure si può affermare che ci siano meno persone
che sanno cosa sono i “geni” di quante sanno che cosa sono auto e televisori. In
altre parole, al modo di un macro-livello di descrizione di credenze condivise
da un gruppo, il concetto di conoscenza è un’astrazione e un’idealizzazione,
come avviene per il concetto di “linguaggio naturale” condiviso da una
comunità, che è effettivamente conosciuto e usato in modi diversi da ognuno
dei suoi membri. Si potrebbe azzardare un’ipotesi minimalista per la conoscenza allo stesso modo in cui si potrebbe farlo per il linguaggio – nei termini di
credenze che tutti i membri competenti condividono tutti i giorni, qualunque
sia la loro istruzione. Tuttavia, fare ciò richiederebbe di nuovo una definizione
di “competenza” o “normalità”, necessaria in un simile tipo di analisi. Un’altra
opzione potrebbe consistere nell’usare un livello medio di base, da definire per
tutti i membri della comunità che hanno terminato la scuola dell’obbligo.
In altre parole, la natura della conoscenza “condivisa” all’interno di una
comunità ha bisogno di essere ulteriormente definita, tanto cognitivamente
quanto socialmente. Per il momento, quindi, assumiamo la decisione pratica
che la conoscenza sia l’insieme delle convinzioni di una comunità, che sono
presupposte ai discorsi pubblici diretti alla comunità in generale, come avviene
nel caso della maggior parte dei discorsi dei mass media.
Credenze di gruppo
D’altra parte, all’interno della comunità, i gruppi possono formarsi sulla
base di diverse finalità, obiettivi, interessi e pratiche. Tali gruppi condividono
anche le credenze, come i saperi, gli atteggiamenti e le ideologie. Pertanto, i
razzisti possono condividere la convinzione sulla superiorità dei bianchi, convinzione che possono dare per scontato, e quindi definire come “conoscenza”. I
gruppi possono avere anche più insiemi complessi di convinzioni valutative
come nel caso degli atteggiamenti verso l’immigrazione, l’aborto o l’eutanasia
(Van Dijk 1987, 1993).
253
Teun A. van Dijk
Le credenze di gruppo sono caratteristicamente ideologiche, nel senso che
sono controllate e organizzate dalle ideologie ad esse sottostanti. Tali ideologie
controllano il contesto e i modelli d’evento dei loro membri quando questi
parlano in qualità di membri del gruppo, e quindi le strutture del discorso
risultano indirettamente controllate da questi modelli ideologicamente condizionati. In alcuni tipi di discorso, le convinzioni generali del gruppo possono
influenzare direttamente il discorso, e non attraverso specifici modelli mentali.
È questo il caso, per esempio, della propaganda politica, dei sermoni, e degli
altri discorsi ideologici che rappresentano le credenze generali di un gruppo.
Le credenze ideologiche di gruppo assumono forme diverse, a seconda
delle loro funzioni sociali. Alcune convinzioni possono essere espresse al fine
di influenzare la politica sociale o di promuovere una causa, come può avvenire per le femministe, gli antirazzisti e i pacifisti. Altre credenze si concentrano maggiormente sulle norme e sui valori in uso nella prassi quotidiana dei
membri del gruppo, è questo, tipicamente, il caso dei gruppi professionali,
come quello dei metodi di ricerca per gli studiosi o le pratiche mediche per i
medici. Sebbene le funzioni possano essere diverse, credo che queste pratiche
abbiano la stessa base ideologica. Così, il modo in cui un uomo “macho” tratta
una donna può rivelarsi un atteggiamento molto simile al modo in cui un
medico tradizionale potrebbe trattare lui o uno dei propri pazienti, presupponendone, per esempio, l’ignoranza. E le femministe possono presentare atteggiamenti molto simili a quelli dei professionisti. In altre parole, anche se si possono
distinguere diversi tipi di gruppi sociali e diversi tipi di ideologie con funzioni
diverse, mi sembra che abbiamo bisogno anche di una teoria generale dell’ideologia, e delle sue funzioni, che sia in grado di astrarre da tali differenze.
Elaborazione strategica
Sulla base dei modelli ideologicamente condizionati e delle convinzioni
socialmente condivise, prima discussi, gli utenti di una lingua producono e
comprendono strategicamente testi e conversazioni, collegando di volta in
volta, parola per parola, frase per frase (Van Dijk, Kintsch 1984). Ogni variabile
fonologica, ogni forma lessicale o sintattica può, in tal modo, essere controllata
dalle sottostanti rappresentazioni, come avviene anche per il significato locale
e globale e per le azioni svolte dagli utenti di una determinata lingua.
L’intonazione, i pronomi, le nominalizzazioni, la scelta e il cambiamento degli
argomenti, il livello di specificità e di precisione nella descrizione dell’azione o
dell’attore, gli impliciti, l’alternanza di turno (nella conversazione, ndt), le
interruzioni, la cortesia, le argomentazioni e i luoghi comuni, le strutture
narrative, lo stile o le figure retoriche, fra una schiera di altre strutture, possono
strategicamente definire l’”indice” ideologico del parlante o dello scrivente.
254
Ideologia e Analisi del Discorso
Come vedremo di seguito, la strategia generale che controlla queste strutture e
azioni, si basa sulla sottostante polarizzazione ingroup-outgroup delle ideologie:
si tenderà ad enfatizzare i Nostri aspetti positivi e i Loro aspetti negativi, allo
stesso modo in cui si ridimensioneranno i Nostri aspetti negativi e i Loro aspetti
positivi.
Dall’Ideologia al Discorso
Da questa breve sintesi di alcuni dei processi socio-cognitivi sottostanti
alla produzione ed alla comprensione del discorso ideologico, vediamo che la
relazione tra le ideologie e il discorso è complessa e molto spesso indiretta. Un
discorso può, infatti, dipendere da contesti ideologicamente condizionati, dalla
prospettiva ideologica in cui i partecipanti interpretano gli avvenimenti, come
dai modelli mentali soggettivi, o più direttamente dalle convinzioni generali,
ideologicamente controllate, del gruppo.
Questa teoria ammette anche che in specifiche condizioni contestuali, i
parlanti possano nascondere o occultare le loro opinioni ideologiche. In effetti,
le femministe, gli antirazzisti e i pacifisti non rendono sempre esplicite le
proprie opinioni, anche in situazioni in cui ciò sarebbe pertinente e opportuno.
Di conseguenza, il discorso non è sempre ideologicamente trasparente, e
l’analisi del discorso non sempre ci permette di inferire quali siano le
convinzioni ideologiche delle persone. Ciò dipende sempre dalla definizione
della situazione comunicativa da parte dei partecipanti, che è contestuale. In
altre parole, il nostro concetto di ideologia è non-deterministico: i membri non
necessariamente e non sempre esprimono o attuano le credenze dei gruppi con
cui si identificano. Allo stesso modo, anche il discorso ideologico è individualmente e contestualmente variabile.
Ciò è strategicamente vero in occasione di negoziati internazionali e di
situazioni di contrattazione in cui la sospensione di esplicite affermazioni
ideologiche può assumere una dimensione rilevante. Questo non significa che
le ideologie siano sempre meno importanti in un mondo globalizzato, ma solo
che, in alcuni contesti, esse non sono così evidenti, rendendo più facile la
risoluzione dei conflitti.
Ovviamente, anche questo ha una notevole influenza sulle metodologie
empiriche per lo studio dell’ideologia. Le convinzioni ideologiche possono
essere date per presupposte nelle discussioni interne al gruppo, e censurate o
modificate nel parlare con individui esterni al gruppo, ad esempio nel discorso
“politicamente corretto”. In entrambi i casi, perché si possa studiare
empiricamente il rapporto tra ideologia e discorso, bisogna tener conto di
alcune esigenze specifiche e della necessità di adottare metodi di studio
indiretti o non intrusivi.
255
Teun A. van Dijk
4. Strutture ideologiche e strategie discorsuali
Se le ideologie sono acquisite, espresse, emanate e riprodotte dal discorso,
questo deve avvenire attraverso una serie di strutture e strategie discorsive.
Per esempio, il pronome noi è una di queste strutture, generalmente utilizzato
per riferirsi deitticamente al gruppo di appartenenza di colui che parla. In
teoria, e a seconda del contesto, qualsiasi variabile strutturale del discorso può
essere ideologicamente “contrassegnata”. Una specifica intonazione,
nell’intensità o nel volume di espressione di una parola o di una frase, può
essere interpretata come sessista o razzista. La preferenza per argomenti
specifici può essere espressione di ideologia machista o neoliberale, e così via.
Tavola 1. Alcune espressioni dell’ideologia nel discorso
Contesto:
Il parlante parla in qualità di membro di un gruppo sociale; e/o si rivolge ai
destinatari in qualità di membri del gruppo; modelli di contesto ideologicamente
condizionati: rappresentazioni soggettive di eventi comunicativi ed i suoi
partecipanti come membri di categorie o gruppi.
Testo, discorso, conversazione:
Strategia globale:
presentazione positiva di Noi e delle Nostre azioni;
presentazione negativa di Loro e delle Loro azioni;
enfatizzare i Nostri aspetti positivi, e i Loro aspetti negativi;
ridimensionare i Nostri aspetti negativi e i Loro aspetti positivi.
Significato
Argomenti (macrostrutture semantiche):
Selezionare/cambiare argomenti positivi/negativi su di Noi/Loro.
Significati locali e coerenza (significati positivi / negativi per Noi / Loro):
Manifestazione: Esplicito vs. Implicito;
Precisione: Preciso vs. Vago;
Granularità: Dettagliato / Rifinito vs. Ampio, Abbozzato;
Livello: Generale vs. Specifico, Dettagliato;
Modalità: Noi/ Loro Dobbiamo / Potrebbero…;
Capacità Probatoria: Noi abbiamo la verità vs Loro sono fuorviati;
Coerenza Locale: Basata su modelli parziali;
Avvertenze (negando i Nostri aspetti negativi): “Non siamo razzisti, ma...”.
Lessico:
Seleziona i termini positivi /negativi per Noi/Loro
(es. “terrorista” vs. “combattente per la libertà”).
256
Ideologia e Analisi del Discorso
Forma
Sintassi:
(de)Enfatizzare la capacità positiva/negativa di agire di Noi/Loro:
Sentenze chiuse vs aperte (“È X che ...”);
Attive vs. Passive (“Gli USA invadono l’Iraq” vs. “Iraq invaso dagli USA”);
Proposizioni complete vs. Nominalizzazioni (“L’invasione dell’Iraq”).
Strutture del Suono:
Intonazione, ecc., (de)enfatizzando i Nostri/Loro aspetti Positivi/Negativi
Formato
(schema, sovrastruttura: forma complessiva):
all’inizio, le categorie dominanti (es.: Testate, Titoli, Sommari, Conclusioni) vs. alla
fine, le categorie non dominanti;
strutture dell’Argomentazione, topoi (argomenti stereotipati, es. “Per il loro bene”);
luoghi comuni che a torto concludono dei Nostri/Loro aspetti Positivi/Negativi
(es. generalizzazioni, autorità, ecc.).
Strutture Retoriche:
(sottolineare o ridimensionare i Nostri/Loro aspetti Positivi/Negativi)
forme: ripetizione;
significati: confronto, metafore, metonimie, ironia, eufemismi, iperbole, giochi di
numeri, ecc.
Azione
Atti linguistici, atti comunicativi e interazione:
atti linguistici che presuppongono i Nostri/Loro aspetti Positivi/Negativi: Promesse, Accuse;
strategie di interazione che implicano i Nostri/Loro aspetti Positivi/Negativi:
Cooperazione, Accordo
Va sottolineato che le ideologie possono influenzare solo le strutture del
discorso contestualmente variabili. Ovviamente, le strutture obbligatorie,
grammaticali, non possono essere contrassegnate ideologicamente perché sono
le stesse per tutti i parlanti della lingua e, in questo senso, ideologicamente
neutrali. Si può, comunque, discutere se alcune regole grammaticali siano
realmente innocenti ideologicamente, come nel caso delle espressioni di
genere. Alcune strutture variabili sono più ideologicamente “sensibili” di altre.
Ad esempio, i significati sono più inclini alla contrassegnazione ideologica di
quanto lo spossano essere le strutture sintattiche, perché le ideologie sono
sistemi di credenze e le credenze tendono tipicamente ad essere formulate
come significati del discorso. Strutture sintattiche e figure retoriche come le
metafore, le iperbole o gli eufemismi, pur essendo utilizzati per enfatizzare o
ridimensionare i significati ideologici, non hanno alcun significato ideologico
in qualità di strutture formali. Così, non esiste una specifica iperbole, pronomi257
Teun A. van Dijk
nalizzazione o intonazione razzista o antifascista - anche se esistono delle
preferenze nell’uso di metafore razziste o sessiste – ma solo i significati che essi
modificano.
Abbiamo assunto che le strutture ideologiche del discorso sono organizzate dai vincoli dei modelli contestuali, ma anche in funzione delle strutture
delle ideologie sottostanti, e delle rappresentazioni sociali e dei modelli che
esse controllano. Quindi, se le ideologie sono organizzate dalla ben nota
polarizzazione ingroup-outgroup, c’è da aspettarsi che una tale polarizzazione
venga “codificata” anche nei testi e nelle conversazioni. Questo può accadere,
come suggerito, nell’uso dei pronomi, come Noi e Loro, ma anche dei possessivi
e dimostrativi come – rispettivamente – nelle espressioni la nostra gente e quella
gente.
In tal modo, possiamo supporre che il discorso ideologico sia solitamente
organizzato da una strategia generale di auto-presentazione positiva (boasting,
“vanto” ndt) e presentazione d’altri negativa (derogation, “discredito” ndt). Questa
strategia può operare a tutti i livelli, in generale, in modo tale che i nostri
aspetti positivi siano messi in evidenza e i nostri aspetti negativi ridimensionati, ed al contrario per gli altri – gli aspetti negativi verranno sottolineati, e
quelli positivi ridimensionati, nascosti o dimenticati.
Il principio polarizzatore generale, quando applicato al discorso, riguarda
insieme le forme e i significati. In tal modo, si possono accrescere gli aspetti
negativi dei terroristi non solo riportandone l’atrocità degli atti (una questione
di significato o di contenuto), ma facendolo in grande, sulla prima pagina, in
primo piano, con grandi titoli e immagini cruente, ripetutamente, e così via,
attraverso l’uso di caratteristiche formali. Si può ottenere ciò anche con mezzi
sintattici, per esempio segnalando come l’atrocità degli atti sia stata portata a
compimento da agenti attivi e consapevoli, e, nel riferirsi a loro, collocandoli in
prima posizione soggettiva nelle frasi, e non come agenti impliciti o all’interno
di costruzioni passive che possano ridimensionarne il ruolo.
In altre parole, ci sono molti modi per migliorare o attenuare i nostri/loro
aspetti positivi/negativi, e quindi per caratterizzare il discorso ideologico.
Nell’analisi critica del discorso (critical discourse analysis - CDA) è più o meno
questo lo standard teorico. Nella tabella 1 sono ricapitolati alcuni dei modi in
cui i discorsi codificano le ideologie sottostanti, evidenziando che non esistono
strutture di discorso che codificano unicamente una funzione comunicativa e
interazionale, ma che tutte queste strutture possono essere utilizzate anche per
altri motivi e funzioni. La tabella riporta solo una piccola selezione delle
strutture del discorso. È organizzata per livelli, come quelli dei significati
globali e locali, lessico, sintassi, strutture dei suoni, formati, strutture retoriche
258
Ideologia e Analisi del Discorso
e strutture interazionali – ovvero per Significati, Forme e Azioni. Ad ogni
livello possiamo trovare la codificazione delle ideologie sottostanti, il che
accade, solitamente, enfatizzando o ridimensionando in diversi modi gli
aspetti positivi o negativi del Nostro gruppo di appartenenza e quelli del
gruppo esterno8.
5. Problemi dell’analisi del discorso ideologico
Intenzionalità
All’interno della prospettiva dell’analisi del discorso ideologico presentata
sopra, ci sono una serie di questioni e problemi che richiedono particolare
attenzione.
Il primo problema che vorrei sollevare può essere etichettato sotto il
controverso concetto di “intenzionalità”, inteso qui in senso pratico-teorico, e
non nel senso filosofico del “aboutness”9, ad esempio delle proposizioni (Brand
1984). Tanto come partecipi dell’ideologia, quanto come suoi analisti, possiamo
chiederci se caratteristiche specifiche del discorso, come espressioni passive o
nominalizzazioni rappresentino aspetti intenzionali del discorso ideologico, o
se tali strutture siano in gran parte automatizzate e quindi difficilmente
controllate in modo consapevole. I partecipanti possono conoscere le situazioni
in cui essi sono criticati per un’espressione sessista o razzista e perciò si
difendono affermando che “non intendevano usarla in tal modo”, o che “non
era loro intenzione”.
Anche per questi motivi, molti paradigmi nell’analisi dell’interazione
escludono dai propri oggetti di ricerca l’analisi delle intenzioni, con l’ulteriore
argomento, ad esempio, che le intenzioni non possono essere osservate
direttamente, e, in secondo luogo, che ciò che conta socialmente è come i
Per un quadro più ampio della letteratura critica sulle pratiche discorsive dell’ideologia, si
vedano Caldas-Coulthard, Coulthard 1996; Fairclough 1995; Fowler 1991; Kress, Hodge
1979; Van Dijk 1995, 1998a, 1998b, 1999, 2001, 2004; Wodak 1989; Wodak, Meyer 2001.
9 Il termine appartiene originariamente al lessico della biblioteconomia e della scienza
dell’informazione, (Fairthorne, R. S., 1969, Content analysis, specification and Control, «Annual
Review of Information Science and Technology», 4, 73-109), riferendosi al “soggetto” di un
discorso o di un documento come al la sua proprietà semantica di definire un tema; in
questo senso è stato reso in italiano con il termine “circalità” (Serrai, A., 1983, Ricerche di
biblioteconomia e di bibliografia, Firenze, Giunta regionale toscana, La nuova Italia).
Negli studi di filosofia della mente e del linguaggio sull’intenzionalità, il termine indica il
campo linguistico che si offre come contenuto degli stati mentali (Dummett, M., 1991, The
Logical Basis of Metaphysics, Cambridge, MA, MIT Press). Poiché è riferendosi a questi studi
che il termine viene introdotto nel testo, abbiamo ritenuto opportuno non tradurlo in
italiano (ndt).
8
259
Teun A. van Dijk
discorsi sono “recepiti” dagli altri partecipanti al di là delle intenzioni del parlante (Duranti 2001). Ciò è osservabile anche nei principi politici e giuridici che
regolano il trattamento di alcune azioni sociali e discorsive – determinando se
un commento sia o meno sessista, razzista o offensivo, si possono conoscere le
possibili interpretazioni e quindi prevedere le conseguenze di un discorso. In
altre parole, ciò che conta sono le (prevedibili) conseguenze sociali, e non le
(buone o cattive) intenzioni.
Se questa posizione può essere considerata socialmente e legalmente
legittima, essa si rivela, tuttavia, teoreticamente problematica. In effetti, non
esiste un fondamento a priori perché si debba preferire la soggettiva interpretazione dei destinatari all’altrettanto soggettiva intenzione del parlante. Infatti,
nessuna delle due è “osservabile” ed entrambe sono nozioni ugualmente
vaghe. In termini cognitivi, sono entrambi (frammenti di) modelli mentali di
qualche tipo. I parlanti possono “difendere” le loro “buone” intenzioni facendo
riferimento ad altri discorsi e eventi, o citando fonti che attestino le loro
intenzioni. I destinatari sono rafforzati nella loro interpretazione se non sono
gli unici che interpretano un discorso in un determinato modo. Se i parlanti e i
destinatari sono avversari ideologici, una situazione del genere può portare ad
un conflitto – che a volte può trascinarsi fino alle alule dei tribunali, come nel
caso in cui qualcuno pubblica un articolo razzista o fa un’osservazione razzista
in un intervento pubblico.
Teoreticamente, quindi, è necessario tenere a mente che parole, frasi, argomenti o
intonazioni, in quanto tali, non sono ideologicamente deviate. È il loro uso specifico
in specifiche situazioni comunicative che le rendono tali – come sappiamo
dall’uso di parole ovviamente razziste come negro (nigger) da parte di un
membro del KKK, piuttosto che da parte di un leader afro-americano. Parte di
tale contesto non sono solo “chi parla a chi e con quale ruolo”, ma anche le
intenzioni del parlante, sebbene non esplicitate nel discorso. Naturalmente, per
il loro frequente uso ideologico, le parole possono avere forti associazioni con
significati ideologici, come nel caso dell’espressione “libero mercato”. Tuttavia,
sono sempre il testo e il contesto, e quindi l’uso di parole, ad essere ideologici:
l’espressione “libero mercato” può essere usata con la stessa frequenza in una
dissertazione neo-liberale quanto in una anti-neoliberale, tanto per esprimere
una posizione favorevole, quanto per una contraria. Quindi, se i modelli
mentali sottostanti o le rappresentazioni sociali dei parlanti non sono
controllate da una ideologia, allora per definizione anche le intenzioni e il
modello mentale del contesto, e quindi il discorso, non possono essere
ideologicamente condizionati. I destinatari che non conoscono il parlante (e le
sue rappresentazioni sociali, le sue ideologie) possono, quindi, incorrere in
260
Ideologia e Analisi del Discorso
gravi fraintendimenti o interpretazioni erronee. Spesso le incomprensioni
possono essere risolte da altre domande, chiarimenti o negoziazioni (“Che cosa
intendi... ?”).
In altre parole, nonostante sia possibile adottare una posizione sociale o
giuridica in cui del discorso non vengono prese in considerazione le “buone
intenzioni”, ma solo il modo in cui il discorso viene interpretato, è tuttavia
necessario sottolineare che nella teoria abbiamo bisogno tanto delle intenzioni
quanto delle interpretazioni come parte ideologica della comunicazione. Solo
così siamo in grado di spiegare le dispute, i problemi, i conflitti ideologici e le
altre proprietà di interazione ideologica. Le intenzioni non sono più o meno
misteriose delle interpretazioni – sono solo due tipi di modello mentale
soggettivo dei partecipanti. E solo così siamo in grado di affrontare questioni
più dettagliate, come quelle inerenti a quali proprietà del discorso possano
essere consapevolmente controllate, e quali no, quali più, quali meno. Pertanto,
la scelta dei temi è complessivamente più “intenzionale” della dettagliata
struttura sintattica o dell’intonazione di una sentenza. La selezione delle parole
avviene tra la lessicalizzazione – in gran parte automatica, dati i modelli mentali sottostanti e il lessico di base – e la scelta consapevole di parole specifiche,
in risposta a generi e contesti specifici, soprattutto nella comunicazione scritta.
Non vi è dubbio che in un importante discorso politico di un presidente o di un
candidato presidenziale, praticamente ogni parola sia scelta in funzione dei
suoi presupposti e delle implicazioni ideologiche e comunicative. In altri
termini, quando il controllo comunicativo complessivo è rigido, anche
l’espressione del discorso ideologico diventa più consapevole. In alcuni
contesti, dall’altro lato, sia controllo discorsuale quanto quello ideologico
saranno ampiamente automatizzati.
(Sovra-)interpretazione ideologica
Le strutture discorsive hanno diverse funzioni cognitive, interazionali e
sociali. Nessuna delle quali è esclusivamente ideologica. Ad esempio, le proposizioni in forma passiva e le nominalizzazioni dissimulate o i presupposti della
capacità di agire. Ciò può avere funzione ideologica, e condizionare ideologicamente testo e contesto – ad esempio per attenuare la nostra capacità d’intervento e di assunzione di responsabilità per le azioni negative, rendendo, così,
effettiva sul piano locale la strategia di auto-rappresentazione positiva del
gruppo d’appartenenza ideologica appartenente al piano globale del discorso.
Tuttavia, occorre fare attenzione a non sovra-interpretare i dati del discorso.
Spesso, le frasi in forma passiva e le nominalizzazioni sono utilizzate quando
gli agenti sono sconosciuti, quando siano stati appena menzionati e potrebbero
non essere ripetuti, o quando ci si stia concentrando su gli altri partecipanti –
261
Teun A. van Dijk
come sulle vittime di atti di violenza piuttosto che sui loro agenti. Ciò significa
che tali dati non dovrebbero mai essere descritti isolatamente, ma in relazione
al testo (co-testo) ed al contesto – chi parla a chi, quando e con quale intenzione. L’aspetto più importante, anche in teoria, è quello di realizzare che il
discorso non è solo esprimere o riprodurre ideologie. Le persone fanno molte
altre cose con le parole contemporaneamente.
Contestualizzazione
La teoria dell’elaborazione ideologica del discorso così delineata, possiede
un’esplicita componente che rende conto della contestualizzazione, definita in
termini di modelli contestuali soggettivi dei partecipanti. Tali modelli dinamicamente aggiornati rappresentano continuamente quanto della situazione
comunicativa è rilevante per ogni partecipante in ogni momento del testo o
della discussione. Abbiamo visto che i modelli contestuali controllano produzione e comprensione del discorso. Abbiamo anche assunto che tali modelli
contestuali possono essere essi stessi ideologicamente condizionati, per esempio
quando i parlanti rappresentano e valutano i propri interlocutori in termini
razzisti, sessisti o di altre ideologie. I modelli contestuali, di solito, conducono
a discorsi ideologici o interpretazioni del discorso. Abbiamo anche visto, però,
che le espressioni di coerenza ideologica possono essere (in parte) controllate.
Quanto alla questione dell’intenzionalità già discussa in precedenza, questa
indica che possiamo avere discorsi prodotti in un contesto ideologico ma che
mostrano appena le tracce o gl’indici di questo contesto (comprese le ideologie
del parlante) – o almeno non espressioni esplicitamente interpretabili come
ideologiche da più destinatari. Ma alcuni destinatari possono essere benissimo
in grado di comprendere espressioni ideologiche “codificate” il cui senso resta
inaccessibile ad altri. Pertanto, è fondamentale per qualsiasi analisi ideologica
del discorso, rendere esplicito quella che è esattamente la situazione sociale e
come è rappresentata dai partecipanti nei loro modelli di contesto. Se un
destinatario, sulla base di esperienze precedenti, definisce un parlante come un
maschio sciovinista, allora molto di ciò che dice è “sentito” come espressione di
sciovinismo maschile al di là della presenza di indizi di contestualizzazione
che possano giustificare una tale interpretazione.
Come osservatori esterni o analisti di tali interazioni possiamo porre il
problema della (sovra-) interpretazione discussa precedentemente: come comportarsi se non possiamo trovare espressioni manifeste di un’ideologia? A mio
parere, non dovremmo essere tanto interessati a ciò che gli analisti possono o
non possono fare, ma piuttosto a ciò che i partecipanti effettivamente fanno.
Così, se i destinatari interpretano i discorsi come ideologici su una base
contestuale, anche se non ci sono palesi indici ideologici, allora, nella teoria,
262
Ideologia e Analisi del Discorso
dobbiamo tener conto di tali “sovra-interpretazioni”. Ovvero, i modelli mentali
che i beneficiari costruiscono per interpretare il discorso possono anche essere
costruiti sulla base di inferenze circa le intenzioni ideologiche dei parlanti
dedotte da esperienze precedenti, pettegolezzi o altre informazioni affidabili su
un parlante. In effetti, questo è il modo in cui “recepiamo” per la prima volta i
parlanti: in base alle nostre prime, generali, “impressioni” (modelli) del
parlante. Non vi è dubbio che anche questo possa portare a pregiudiziali
interpretazioni ideologiche dei discorsi – in particolare quando singoli parlanti
sono giudicati non sulla base dei precedenti discorsi o di altre pratiche sociali,
ma sulla loro appartenenza al gruppo. Ovviamente, la teoria deve anche tener
conto di tali pregiudizi ideologici.
Ideologia, conoscenza e presupposizione
La distinzione tra “mera” ideologia e “vera” conoscenza è stata parte della
discussione circa l’ideologia fin da quando, più di 200 anni fa, il concetto fu
elaborato per la prima volta da Destutt de Tracy. Anche se la distinzione ha
molte implicazioni che non possono essere discusse in questo intervento,
dobbiamo comunque fare alcune osservazioni attinenti all’analisi ideologica
del discorso.
Innanzitutto, definiamo la conoscenza come le credenze certificate e condivise da una comunità (conoscitiva), in cui la certificazione si ottiene con criteri
(epistemici) o “metodi” storicamente variabili di quella comunità (ad es. osservazione, esperienza diretta, fonti attendibili, inferenza, esperimenti e altri
“metodi”). In altre parole, la conoscenza non è una convinzione “vera perché
giustificata”, come vorrebbe la classica definizione epistemologica, ma una
convinzione accettata da una comunità. In altre parole, la nostra definizione è
pragmatica, piuttosto che semantica, e correlata ad una teoria consensuale della
conoscenza limitata a specifiche comunità conoscitive. Ciò rende la conoscenza,
da un lato – cioè relativamente ad una comunità ed ai suoi membri –, relativa e
intersoggettiva, ma, dall’altro – ovvero se considerata all’interno della comunità
– “obiettiva”, sulla base di una certificazione socio-culturalmente accettata in
quella comunità.
In secondo luogo, può essere utile ricordare che – contrariamente ad alcune
concezioni “critiche” – la nostra teoria dell’ideologia non implica che ogni
conoscenza sia ideologica. Al contrario, è il livello generale di conoscenza
condivisa da una comunità (il Common Ground - Terreno Comune) che ne
costituisce il fondamento di tutte le rappresentazioni sociali, e quindi anche
delle ideologie dei diversi gruppi sociali ad essa appartenenti. Scontri e
dibattiti ideologici presuppongono tale conoscenza di carattere generale. Ad
esempio, per avere diverse posizioni ideologiche sull’immigrazione, i
263
Teun A. van Dijk
partecipanti (al discorso, ndt) hanno bisogno in primo luogo di sapere cosa sia
l’immigrazione.
In ogni caso, come già precedentemente definito, le ideologie sono la base
delle rappresentazioni sociali dei gruppi, incluse le loro conoscenze. In altre
parole, la conoscenza di gruppo può benissimo avere una base ideologica. Quindi,
se i razzisti sostengono di “sapere” che i neri sono intellettualmente inferiori, tale
“conoscenza” è evidentemente ideologica: ciò che oggi è effettivamente così per
loro, ma è semplice credenza pregiudiziale per altri, potrebbe essere stata una
credenza consensuale, e quindi conoscenza, due secoli fa.
Si noti che tale è anche il caso di quelle credenze oggi giudicate “vere” da
molte persone, come la concezione femminista sulle disuguaglianze di genere,
che fintanto che esistono gruppi che credono che tale concezione sia semplicemente una “convinzione femminista”, rimangono tali. Solo quando, attraverso tutti i gruppi appartenenti ad una cultura, alcune credenze sono condivise e presupposte in tutti i discorsi, allora possiamo parlare conoscenza culturale, generale – almeno finché non vi siano altri gruppi (studiosi, movimenti
sociali) che sfidano le credenze condivise.
Nell’analisi ideologica del discorso, inoltre, potremmo voler esaminare
testi con proposizioni che sono affermate o presupposte (essere vere, condivise,
o date per scontate), e quindi presentate come conoscenze. Tuttavia, l’analisi
del contesto, in questo caso, può rivelare che i parlanti affermano o presuppongono tale conoscenza come membri di un gruppo, e, in questo caso, affermano
e provano esplicitamente a certificare come tale la conoscenza nella comunicazione con altri gruppi. Incidentalmente, ciò non avviene solo in relazione ai
pregiudizi, alle credenze religiose o alle superstizioni, ma anche nel caso di
molte convinzioni scientifiche o “nuove” convinzioni.
Quindi, una prova empirica che ci consente di distinguere la conoscenza
culturale generale dalla “conoscenza di gruppo” e dalle ideologie, è che essa
sia il presupposto a tutti i discorsi pubblici di tutti i gruppi in una data cultura
in un dato momento. Naturalmente, vi è la possibilità che, in seguito, tale conoscenza divenga comunque fondata ideologicamente, ma in questo caso non
rimarrà a lungo un presupposto generale.
Da questa discussione si deve concludere che, almeno secondo la definizione di
conoscenza e ideologia qui presentate, è errato supporre che tutte le conoscenze siano
ideologiche. Ancora una volta, tali credenze possono essere ideologiche per alcuni
osservatori critici o per gli analisti, ovvero, a partire dal punto di vista esterno di
chi appartiene ad un’altra comunità epistemica, ma se esse sono generalmente
accettate dai membri di una comunità, tali credenze per definizione sono
invocate, presupposte, utilizzate e considerate come conoscenza.
264
Ideologia e Analisi del Discorso
L’analisi dell’ideologia come “analisi critica”
Potrebbe sembrare che la teoria dell’ideologia e del discorso, qui presentata, in cui le ideologie sono definite in termini generali, e non semplicemente come una posizione dominante o di legittimazione delle disuguaglianze,
abbia perso la sua soglia “critica”. Nulla è, tuttavia, meno vero. Al contrario,
essa offre un quadro molto più esplicito per uno studio critico. Le ideologie,
così definite, possono essere utilizzate come fondamento per discorsi e pratiche
sociali tanto dai gruppi dominanti quanto da quelli dominati, tanto per
l’oppressione e quanto per la resistenza. È per questo che possiamo parlare allo
stesso tempo di ideologie razziste e di ideologie antirazziste, di ideologie
sessiste e femministe, neoliberali e socialiste. In altre parole, non seguiamo la
vecchia distinzione introdotta da Mannheim (1936) tra ideologie ed utopie. Le
strutture di base e le funzioni delle ideologie sono in questi casi, le stesse, vale
a dire l’auto-rappresentazione del gruppo e dell’appartenenza e dell’identificazione dei suoi membri, l’organizzazione delle pratiche e lotte sociali, e la
promozione degli interessi del gruppo e dei suoi membri rispetto ad altri
gruppi.
Ne consegue che è teoreticamente inconsistente ed improduttivo riservare
la nozione di ideologia e di critica ideologica solo per le ideologie dominanti.
Anzi, è una caratteristica del discorso ideologico attribuire ideologie solo ai
nostri avversari e la “verità” a noi stessi. Tuttavia, così come abbiamo bisogno
di una nozione generale di potere, che può includere anche forme di resistenza
o di contro-potere, abbiamo bisogno di una nozione generale di ideologia.
Successivamente, l’Analisi Critica del Discorso può benissimo concentrarsi
soprattutto sui gruppi dominanti e sulle loro ideologie.
Una teoria più chiara sull’ideologia e sui suoi legami con il discorso, così
come è stata fin qui presentata, permette anche una analisi più dettagliata dei
processi in atto nell’acquisizione, uso e trasformazione delle ideologie nel
discorso. Un’adeguata Analisi Critica del Discorso richiede l’uso di precisi
strumenti teorici, e non le vaghe nozioni tradizionali (come “falsa coscienza”).
La sua adeguatezza critica dipende dalla precisione delle sue analisi, dalla
selezione dei suoi oggetti di analisi e di critica, dai suoi scopi, e dalla posizione
politica ed etica degli studiosi che si impegnano in essa.
Ideologia vs. Discorso
Ci sono direzioni di ricerca, come la psicologia discorsiva, che riducono le
strutture mentali (come gli atteggiamenti) a strutture di discorso, argomentando, ad esempio, che i discorsi sono osservabili e socialmente condivisi,
mentre le menti non lo sono (Edwards, Potter 1992). Ciò implica che, in tale
prospettiva, le ideologie non possano essere definite nei termini di una sorta di
265
Teun A. van Dijk
rappresentazione mentale, ma solo nei termini di strutture discorsive che
esprimono o adottano rappresentazioni mentali. Anche in altri lavori sull’ideologia, si assiste ad una tendenza ad identificare questa con il discorso o con
altre pratiche sociali.
La teoria che abbiamo presentato, benché renda ovviamente conto anch’essa
del discorso ideologico, non riduce, tuttavia, l’ideologia al discorso stesso –
neanche nel caso di altre nozioni cognitive come la conoscenza, le opinioni, gli
atteggiamenti o le norme e i valori. Queste nozioni cognitive appartengono ad
un ordine teorico – quello della teoria della mente – che non è quello della
teoria del discorso, essendo questa una teoria sull’interazione sociale.
Uno degli argomenti contro la possibilità di riduzione delle ideologie o di
altre credenze socialmente condivise è che esse possono essere espresse,
emanate o prodotte non solo dal discorso, ma anche da altre pratiche sociali,
come il dominio, la responsabilizzazione, la discriminazione, l’oppressione,
l’esclusione, la resistenza, l’opposizione, il dissenso, e così via. Inoltre, le
persone possono “avere” delle ideologie senza tuttavia riuscire mai ad
esprimerle o ad agire su di esse. A volte, infatti, possono NON agire (non
lavorare, non votare, ecc.), anche quando dovrebbero al di là dei motivi
ideologici – come nel caso dello sciopero.
La riduzione dell’ideologia al discorso non consente un’analisi ideologica di
altre pratiche sociali. E’ vero che le ideologie sono generalmente espresse
esplicitamente, acquisite e riprodotte dal discorso, ma non esclusivamente. Molte
ideologie, come il sessismo, vengono acquisite e praticate per imitazione delle
azioni degli altri, e non solo attraverso spiegazioni discorsive o perché insegnate.
La tesi che sembra favorire un approccio esclusivamente discorsivo
all’ideologia, cioè che i discorsi siano più “sociali” e “osservabili” delle menti, è
errata. In primo luogo, abbiamo sottolineato che le ideologie sono credenze
condivise di gruppi, ovvero che esse sono tanto socialmente quanto
mentalmente condivise. Proprio come avviene nel caso delle lingue, quindi, le
ideologie sono sociali, anche perché svolgono funzioni sociali. In secondo
luogo, i discorsi sono generalmente definiti come strutture di forme, significati
e interazioni, e non (solo) come le onde sonore o i segni grafici/visivi/
elettronici o i movimenti muscolari che li realizzano fisicamente. Elementi
lessicali, strutture sintattiche, significati ed interazioni non possono essere
“osservati” direttamente, ma devono essere interpretati, divenendo oggetto
astratto della teoria linguistica, o costrutti mentali degli utenti della lingua. In
altre parole, a meno che non si neghi la natura cognitiva del significato e della
comprensione, una definizione empirica di discorso implica qualche tipo di
nozioni cognitive.
266
Ideologia e Analisi del Discorso
Insomma, rifiutare concetti cognitivi come conoscenze, credenze, opinioni
ed ideologie, tra gli altri, per “motivi di osservabilità” è una fallacia comportamentista (o “interazionista”, nei termini degli attuali fautori di tale prospettiva).
Una solida teoria del discorso ideologico pone esplicitamente in relazione
ideologie e discorsi, ma in qualità di tipi diversi di oggetti teorici o empirici.
L’acquisizione discorsiva delle ideologie
Sebbene le ideologie possano essere acquisite dal gruppo di socializzazione attraverso diverse pratiche sociali, ad esempio a casa, a scuola, al lavoro
o al bar, le discussioni e i testi sono le fonti e i mezzi primari per l’apprendimento “ideologico”. In altre parole, di solito, le ideologie non sono semplicemente acquisite imitando le azioni degli altri membri del gruppo. Tali processi
di osservazione e partecipazione sono comunemente accompagnati da ragioni
e spiegazioni (ad es. “Non ammettiamo X, perché la gente come noi non si
mescola con persone come X”), che possono implicare (tacitamente o esplicitamente) auto-attribuzioni di superiorità e di inferiorità o di “differenza”.
Così, a partire dall’infanzia, i bambini apprendono gradualmente alcuni
elementi ideologici di base intorno a genere, etnia, classe, religione, politica, e
così via, e diventano adulti partecipando e formandosi nei rispettivi gruppi
sociali di appartenenza. Ciascuno di questi gruppi è dotato di più o meno
espliciti, formali o istituzionalizzati, modi di insegnare le ideologie ai nuovi
membri, ad esempio attraverso particolari momenti d’incontro, a scuola, con il
catechismo, attraverso libri, opuscoli, sermoni, propaganda e così via, ovvero
attraverso tipi differenti di discorso.
Se alcuni generi di discorso possono rivolgersi alle ideologie più o meno
implicitamente, il discorso didattico ideologico è molto più che esplicito,
poiché in esso avviene la formulazione dei contenuti generali dello schema
ideologico del gruppo: chi siamo (da dove veniamo, come dobbiamo apparire,
chi può essere un membro del nostro gruppo, ...); cosa facciamo e per cosa
lottiamo (quali sono le nostre norme e i nostri valori, chi sono gli amici e chi i
nemici, quali sono le nostre risorse di potere, ...). Esso fornisce motivi ed
argomenti in termini di norme generali e di valori, e su ciò che è bene e male,
giusto o ingiusto, in vista degli interessi del gruppo e dei suoi membri.
Fornisce esempi e immagini di venerabili divinità e leader o di altre persone
esemplari. Racconta storie di eroi e criminali.
In questo modo, il discorso ideologico sviluppa gradualmente il generale
quadro ideologico del gruppo. Si tratta di un processo lento. I bambini hanno
ancora poche nozioni ideologiche. La maggior parte delle ideologie vengono
scelte, o più esplicitamente apprese, durante l’adolescenza o nella prima età
adulta, e in genere da studenti, in base alla necessità dell’individuo di dare un
significato più ampio alle proprie azioni, ai propri obiettivi, ed così al mondo
in cui vive.
267
Teun A. van Dijk
Non è questo il luogo per affrontare dettagliatamente il processo di
apprendimento ideologico, ma se assumiamo che tale acquisizione si svolge in
larga misura attraverso il discorso, possiamo ipotizzare che ciò accada attraverso un processo inverso a quello della produzione del discorso ideologico
precedentemente abbozzato. Gli individui interpretano i discorsi come modelli
mentali. E indici ideologici come quelli presentati nella tabella 1 orientano i
destinatari sul modo in cui i membri dell’ingroup o dell’outgroup sono
rappresentati in tali modelli mentali. Tanto il testo quanto il contesto di una
comunicazione ripetuta della stessa natura possono portare dalla generalizzazione e dall’astrazione di modelli mentali agli atteggiamenti più generali del
gruppo. E, finalmente, diversi atteggiamenti in un dominio della società
possono essere sussunti in proposizioni ideologiche più generali.
In altre parole, le ideologie possono essere apprese sia dal basso verso
l’alto (bottom up), ovvero generalizzando le esperienze in modelli mentali al
fine di renderle msocialmente condivisibili e normalizzabili in rappresentazioni
mentali, o dall’alto verso il basso (top down) attraverso esplicito insegnamento
ideologico da parte di ideologi di vario tipo (dirigenti, insegnanti, sacerdoti, …).
Alcune ideologie tenderanno ad essere apprese più esplicitamente, e quindi
dall’alto, come quelle della metodologia scientifica, della religione e le ideologie
politiche (pacifismo, …). Altre sono molto più implicite ed integrate nelle
pratiche di vita quotidiana, come le ideologie di genere, razza e classe. Queste
tendono a diventare esplicite in caso di conflitto, lotta e resistenza. Sarà uno dei
principali compiti dell’analisi empirica del discorso ideologico, esaminare
sistematicamente le strutture e le strategie di questi diversi tipi di discorso
ideologico e il loro ruolo nell’acquisizione e nella riproduzione delle ideologie da
parte dei membri di gruppi, e quindi del gruppo nel suo insieme. Molti di questi
processi cognitivi e sociali di acquisizione possono essere studiati attraverso
un’analisi sistematica di tali testi e contesti didattici.
6. Un esempio
Esaminiamo, infine, un esempio. Si consideri il seguente editoriale pubblicato dal Sunday Telegraph il giorno 8 agosto 2004:
The Sunday Telegraph
Pinkopaper
(08/08/2004)
La settimana scorsa, l’Istituto di Ricerca per la Politica Pubblica – di sinistra –, ha
prodotto, con sconcertante prevedibilità, l’ennesima relazione cercando di
convincerci che il governo non sta facendo abbastanza per ridurre la differenza di
reddito tra “ricchi e poveri”.
268
Ideologia e Analisi del Discorso
I più acuti commentatori (thoughtful, ndt) della Sinistra iniziano a vedere quanto
ciò conduca ad un vicolo cieco. Come John Rentoul, del The Indipendent, che
scrive: “Le tendenze della distribuzione della ricchezza e della libera economia
sono in gran parte oltre il potere politico dei governi democratici di influenzare...
[Il Tesoro] dovrebbe chiedere all’ IPPR di andare al sodo”.
Ma un giornale in Gran Bretagna è ancora decisamente redistribuzionista, e
pubblica un articolo che loda l’IPPR, con il sottotitolo “L’aumento delle
disuguaglianze nel benessere britannico segna una tendenza preoccupante” Non è
il Morning Star. È il Financial Times.
In verità, questo è meno sorprendente di quanto non potrebbe sembrare. Il FT è
divenuto sempre più roseo nelle sue opinioni politiche nell’arco di alcuni ani:
dopotutto, nel 1992, ha appoggiato Neil Kinnock.
Se, poi, è ciò che i sanamente avari lettori del FT si aspettano di trovare, questa è
un’altra questione. La sua diffusione nel Regno è diminuita di un terzo in quattro
anni, e quella “a prezzo pieno” è ora quasi di 100.000 (copie). Certo, la posizione
politica del FT ha contribuito a far guadagnare il suo boss, Marjorie Scardino, il
titolo di Dama. Ma dubitiamo che questo possa in qualche modo essere di
consolazione per gli azionisti.
Per chi scrive, come anche per i lettori e per l’analista, l’autore di questo
editoriale è l’editore di un giornale conservatore britannico, e come tale un
membro di un gruppo ideologico. Assunta questa informazione nel proprio
modello contestuale, questo editoriale sarà costruito, interpretato e analizzato
come un testo ideologico.
L’argomento principale del testo consiste nella critica ad un rapporto
dell’IPPR sulle differenze di reddito nel Regno Unito e del modo in cui il
Financial Times abbia sostenuto il contenuto del documento. Dunque, anche il
tema generale intorno a cui è organizzato è ideologico, da quando le differenze
tra ricchi e poveri sono un tema su cui la Destra e la Sinistra hanno
atteggiamenti diversi, come dimostrato nello stesso editoriale.
Il titolo, esprimendo una parte del tema principale, riassume la sua critica
al FT utilizzando l’aggettivo “pinko” in un gioco di parole, riferendosi implicitamente, da un lato, al caratteristico colore delle pagine del FT, dall’altro, al
significato politico “rosa”, ovvero l’essere influenzato da sinistra, in associazione al colore rosso. Accusato di opinioni “di sinistra”, il FT è, quindi, classificato come un avversario politico del Telegraph, e perciò, come parte del
gruppo esterno, come Loro. L’allitterazione “pinkopaper” (carta rosa, ndt)
sottolinea retoricamente l’aspetto negativo attribuito al FT. Si osservi anche che
il titolo di testa è collocato all’inizio, in alto ed è più grande del testo cui fa
riferimento – e accompagnato da indici visivi che sottolineano l’importanza
dell’argomento globale.
Il corpo dell’editoriale fornisce una descrizione di uno di Loro, ossia
dell’Istituto di Ricerca per la Politica Pubblica (IPPR), caratterizzato principal269
Teun A. van Dijk
mente come “di sinistra”, e, di conseguenza, come avversario ideologico, e
come vicino all’attuale governo laburista. L’implicazione politica di una tale
descrizione è che se uno di Loro dice o scrive qualcosa di male, si applica anche
agli altri dei Loro, cioè, alla sinistra in generale, ed al governo laburista di Tony
Blair in particolare. Secondo la strategia globale ideologica definita in
precedenza, il Telegraph – esso stesso “con sconcertante prevedibilità” –
caratterizza la relazione della IPPR in termini negativi, cioè come “prevedibile”,
sottintendendo che la sinistra dice sempre le stesse cose, usando l’iperbole
retorica “sconcertante” per sottolineare questa caratteristica negativa. L’uso
dell’aggettivo “ennesima” (another, ndt) ha le stesse implicazioni ideologiche
del negativo “prevedibile”. Le virgolette (quotationmarks, ndt) intorno a “ricchi e
poveri” non solo indicano che probabilmente questa è la stessa espressione
presente nella relazione IPPR, ma al tempo stesso segnalano la distanza
ideologica del Telegraph in relazione a tale descrizione delle differenze di classe
nel Regno Unito.
Il secondo paragrafo fa uso di un nota procedura di persuasione, ovvero
citare con approvazione qualcuno dei propri oppositori ideologici come
argomento per la propria posizione, una nota argomentazione fallace, che
implica che, “se anche uno di loro dice così, allora ciò deve essere vero”.
Questo avversario non solo è subito introdotto e descritto come un giornalista
dell’Indipendent, ma anche positivamente descritto come “più acuto”, implicando
ideologicamente che gli altri a Sinistra, siano meno “acuti”, che è un eufemismo
per “stupidi”. In altre parole, la tesi ideologica alla base di queste descrizioni è
“Noi siamo intelligenti, Loro sono stupidi”, un giudizio che si esprime anche
con la nota peggiorativa alliterativa “Loony Left”10.
La citazione dall’Indipendent è una semplice formulazione di un atteggiamento neoliberale di ridistribuzione del reddito, come suggerisce anche la
caratterizzazione valore-basata “libera economia”; anche l’espressione “oltre il
potere politico dei governi democratici” implica la norma secondo cui i governi
non dovrebbero interferire con l’economia – secondo una proposizione a
fondamento ideologico neoliberale. Citando con approvazione questo passo, il
Telegraph afferma implicitamente di essere d’accordo, auto-classificandosi, così,
come portavoce di ideologie neoliberali. La metafora “vicolo cieco” (blindalley) è
un esplicito rifiuto ideologico negativo della redistribuzione del reddito, in cui
10
L’espressione (abbreviazione di “Lunatic Left”, “Sinistra Matta”) indica idee o azioni politiche considerate ridicole perché eccessivamente “politicamente corrette”; a partire dalla
fine degli anni Ottanta, essa è usata dalla stampa popolare conservatrice per manifestare il
disprezzo nei confronti delle ideologie pacifiste, femministe, anti-razziste e di difesa delle
pari opportunità (ndt).
270
Ideologia e Analisi del Discorso
le politiche sono descrittecome tipi di strade – quelle che hanno un futuro
(sono aperte), e quelli che non lo hanno (sono chiuse).
Il resto dell’editoriale seleziona, poi, il proprio avversario ideologico
principale. In generale, la stampa non ama criticare la stampa. Tuttavia, in
questo caso, l’apparente allineamento con la sinistra di un giornale istituzionale
per la comunità di affari, e, pertanto, potenziale conservatore e difensore della
prospettiva neoliberale, costituisce per il Telegraph un inaccettabile tradimento
che va fortemente criticato. La negazione retorica “Non è il Morning Star”,
sottolinea che una posizione di sinistra del FT non è prevista. La descrizione del
FT, “redistribuzionista” è decisamente un’iperbolica, ideologica caratterizzazione di una delle proposizioni ideologiche di sinistra o socialiste, e quindi ideologicamente dequalificante e (implicitamente) respinta e criticata dal Telegraph.
Il riferimento alla “sorpresa” conferma l’implicazione dedotta, cioè che
non ci si aspettava una tale posizione “di sinistra” del FT. A ciò segueda una
descrizione negativo più generale del FT, che nel corso degli anni diviene
“sempre più roseo” (“pinker and pinker”), in altre parole, sempre più di
sinistra – che, agli occhi del Telegraph è, come tale, un elemento dequalificante.
Queste parole forniscono anche i dettagli locali del globale negativo nel titolo
(“Pinko”) in riferimento al FT. Si vede anche che non c’è un ulteriore
argomento con cui il FT supporti la relazione dell’IPPR. È sufficiente che un
giornale autorevole sostenga un report “di sinistra” di un’organizzazione “di
sinistra” perché venga screditato. Come argomento per la dichiarazione di
carattere generale che “spiega” tale posizione del FT, ossia che il FT è diventato
un giornale di sinistra, il Telegraph cita un caso storicamente evidente: che il FT
ha sostenuto il noto esponente della sinistra, Neil Kinnock. Ma secondo i criteri
tradizionali dell’argomentazione, l’uso di un singolo esempio a sostegno di
una norma generale è considerato una fallacia.
L’ultimo paragrafo, infine, attribuisce la criticata posizione di sinistra alla
cattiva gestione del FT, più precisamente al suo “capo” Marjorie Scandino,
sostenendo la tesi che la circolazione nel Regno Unito “è diminuita di un
terzo”, e l’ulteriore argomentazione secondo cui ciò non piacerà all’assemblea
degli azionisti. In altre parole, bisogna trovare argomenti in cui “risuonino” gli
affari contro l’insostenibile posizione ideologica attribuita al FT: i soli argomenti, che il FT – ovvero i suoi azionisti possono comprendere. Si noti anche
che il riferimento apparentemente omnicomprensivo alla circolazione “a
pagamento” nel Regno Unito – che sembra suggerire che l’accusa non regga
qualora si tenga conto della circolazione completa (ossia considerando anche
l’estero) – è una nota fallacia di manipolazione delle statistiche. Oltre a schierarsi positivamente (“sana avarizia”) con gli azionisti del FT, coerentemente
271
Teun A. van Dijk
con la sua ideologia neoliberale, il Telegraph attacca, infine, personalmente
Scandino, attribuendo la sua nomina a Dama (damehood, ndt) alla sua posizione
politica – ma l’attacco personale è ben noto come fallacia ad hominem.
L’implicazione politica, vale a dire che si tratta di una decisione di un governo
laburista, è ovvia. Mentre attacca ideologicamente e scredita il FT e il suo boss,
il Telegraph mira al tempo stesso al suo principale avversario: il partito
labourista e Blair.
Attraverso questi pochi esempi, sinteticamente analizzati, condotti su di
un editoriale, possiamo vedere come una sottintesa, conservatrice, ideologia
neoliberale si articola nei testi di routine della stampa. Una delle proposizioni
ideologiche tipiche della Sinistra, cioè la ridistribuzione del reddito, è oggetto
di critiche, e così lo sono coloro che difendono l’IPPR, e, in particolare, il
principale quotidiano – sorprendentemente a sostegno: il Financial Times. Le
strategie per screditare gli avversari ideologici seguono tutte lo schema che
abbiamo delineato all’inizio: argomento complessivo negativo nel titolo, gioco
di parole retorico (“pinko”), iperbole (“sconcertante”, “decisamente”),
metafore (“vicolo cieco”), fallacie (ad auctoritatem, generalizzazione indebita, ad
hominem, ...), individuazione e ammirazione degli avversari ideologici che si
trovano in accordo con la propria posizione, e una descrizione negativa
generale dell’avversario ideologico e delle sue posizioni (“prevedibile” e,
dunque, implicitamente “stupido”, “sempre più roseo”), tra le altre.
Ovviamente, questo testo mette in opera solo un piccolo frammento del
vasto insieme di possibili indicatori ideologici all’interno del discorso. Ma esso
rende, comunque, chiaro come le ideologie sottostanti controllino gran parte
delle strutture di questo testo, il titolo, il tema principale, gli aggettivi, le
citazioni, le descrizioni delle persone e delle istituzioni, e gran parte della sua
retorica. In un breve editoriale come questo, il dibattito più propriamente ideologico è appena presentato – è solo rapidamente stabilito e implicito che il
Telegraph respinge la redistribuzione del reddito e l’ingerenza dello Stato nel
mercato in generale, ovvero la posizione ideologica di “sinistra”, e al tempo
stesso caratterizza e conferma se stesso nel contesto del Regno Unito come
conservatore, e più in generale come neoliberista. La strategia principale non è,
perciò, spiegare il motivo per cui la redistribuzione del reddito sarebbe un
“vicolo cieco “, ma piuttosto attaccare le persone e le istituzioni influenti e
infine il governo – che potrebbe sostenere tale posizione.
Si noti, infine, che questo testo non è semplicemente un testo eccentrico. È
un editoriale di un importante quotidiano “di qualità” in un grande Paese,
forse letto da centinaia di migliaia di persone. Qualora questi lettori sappiano
molto poco dei dettagli e dei possibili benefici della ridistribuzione del reddito,
272
Ideologia e Analisi del Discorso
questo li aiuterà a rafforzare o rinnovare le proprie idee o a prendere posizioni
forti contro le idee della (“Loony”) Sinistra. Al tempo stesso, l’attacco contro il
Financial Times e il suo capo, significa che la lotta di tipo ideologico non è un
sofisticato dibattito circa i vantaggi e gli svantaggi della redistribuzione del
reddito, quanto, piuttosto, un lavoro di screditamento populista dei propri
oppositori effettuato tramite ogni trucco discorsivo disponibile nel proprio
bagaglio retorico discorsivo – come gli attacchi ad hominem e la descrizione
negativa generale degli avversari.
La nostra analisi mostra, inoltre, come le ideologie siano istituzionalmente
co-prodotte e riprodotte da potenti istituzioni (affaristiche), come i giornali. I
loro editoriali esprimono direttamente come dominante il punto di vista degli
editorialisti, che a loro volta sono fedeli portavoce dei proprietari. In altre
parole, i discorsi ideologici collettivi sono i discorsi dei gruppi, e in molti modi
sottili e indiretti, riflettono le posizioni ideologiche delle loro organizzazioni e
dei loro interessi.
Che sia necessario analizzare con cura tali collegamenti tra mondo degli
affari, contenuti dei giornali e posizioni ideologiche, può essere dimostrato
proprio da ciò che è oggetto di critica da parte del Telegraph, ovvero che altri
giornali, come il Financial Times, a volte possono difendere ideologicamente
politiche incoerenti, come la redistribuzione della ricchezza. Così, allo stesso
modo in cui le ideologie possono essere complesse, e combinarsi a volte in
insiemi incoerenti, anche il discorso ideologico non è sempre un discorso
diretto, coerente e trasparente manifestazione delle ideologie sottostanti. Come
già suggerito, tutto dipende dal contesto. Il controllo ideologico non è
deterministico, ma strategico.
Conclusioni
Con sullo sfondo una teoria multidisciplinare dell’ideologia, quest’intervento riassume alcune delle relazioni tra le ideologie e il discorso. Definite
come le rappresentazioni socialmente condivise da gruppi, le ideologie sono le
fondamenta degli atteggiamenti e delle altre convinzioni del gruppo, e quindi
controllano anche i modelli mentali individuali “condizionati” che sono alla
base della produzione del discorso ideologico. Questa teoria non rende conto
solo dei modi in cui i discorsi ideologici sono prodotti e compresi, ma anche
del modo in cui le ideologie stesse siano riprodotte dai gruppi e acquisite dai
loro membri. Insistiamo sul fatto che le ideologie non sono espresse solo dal
discorso – e quindi che non dovrebbero essere ridotte solo ad esso – ma che
possono essere espresse e realizzate anche da altre pratiche sociali. In generale,
tuttavia, l’acquisizione e legittimazione ideologica, sono solitamente discorsive.
273
Teun A. van Dijk
Abbiamo, inoltre, dimostrato come le ideologie si riferiscono alla conoscenza. Pertanto, il presupposto che tutte le conoscenze siano ideologiche è
respinto come troppo rigido, perché conoscenza è il presupposto culturale
generale e quindi accettato da tutti i gruppi anche ideologicamente diversi.
Abbiamo anche affermato che una teoria generale dell’ideologia, come è qui
presentata, non perde la sua sfumatura critica, al contrario, una più esplicita
teoria dell’ideologia dispone di migliori strumenti per esaminare criticamente
le ideologie e le loro pratiche discorsive.
Quando le ideologie sono elaborate in forma di discorso, tendono ad esprimersi manifestando le proprie strutture sottostanti, come la polarizzazione tra
la descrizione positiva del proprio gruppo di appartenenza e quella negativa
del gruppo esterno. Ciò può avvenire non solo esplicitandosi in significati
proposizionali (temi, significati, …), ma anche attraverso molte altre strategie
discorsive in grado di sottolineare o ridimensionare i Nostri/Loro
Buoni/Cattivi Aspetti, come la posizione nel discorso, la strutturazione dei
suoni e dei segni visivi, la lessicalizzazione, la struttura sintattica e la strategia
semantica, il mancato riconoscimento, e una serie di figure retoriche e di
strategie argomentative. Quindi, a tutti i livelli appartenenti al testo o alla
discussione, si può trovare testimonianza dell’influenza della “distorsione”
ideologica nei sottintesi dei modelli mentali e nelle rappresentazioni sociali
basate su ideologie. Si ricorda, tuttavia, che non tutte le strutture del discorso
sono controllate ideologicamente, e che non c’è struttura di discorso che abbia
unicamente funzioni ideologiche. Tutto dipende dal contesto, qui definito come
modelli mentali soggettivi (che possono essere anche ideologici) ovvero le
proprietà pertinenti alle situazioni comunicative.
A titolo di esempio, abbiamo, infine, analizzato un editoriale del Sunday
Telegraph, (sulla redistribuzione del reddito del Regno Unito) che dimostra
come, in effetti, la sottostante ideologia neoliberale di questo giornale controlla
tutti i livelli e molte caratteristiche dell’editoriale. Al tempo stesso, l’editoriale
mostra in che modo le ideologie neoliberali e conservatrici vengano riprodotte
all’interno della società – ad esempio, nell’uso di attacchi personali,
screditando gli avversari (“Loony Left”, “Pinko”) – da istituzioni potenti come
i quotidiani.
274
Ideologia e Analisi del Discorso
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276
Sommaire
Introduzione
Interdit. O dell’orizzonte dell’origine
(Marco Castagna)....................................................................................................7
L’origine du langage – qu’en savons-nous?
(Michael Herslund) ..............................................................................................19
I L’horizon interdite
La questione dell’origine del linguaggio in Condillac
(Francesco De Carolis) .........................................................................................35
La question de l’origine du langage dans l’Abhandlung
de Johann Gottfried Herder
(Fabrizio Lomonaco) ............................................................................................51
Ursprung o Wesen? Heidegger e la questione dell’origine
del linguaggio nel confronto con Herder
(Simona Venezia)..................................................................................................65
II Signes d’interdiction
Wittgenstein On Private Episodes
(Giorgio Rizzo)......................................................................................................87
Language evolution: Exorcizing the ghost
(Michael C. Corballis) ........................................................................................109
Language and schizophrenia: a common origin?
(Rocco Pititto)......................................................................................................125
Il linguaggio segnico dello sguardo,
nell’ “e poi” della parola “parlante” della lingua
(Carlo A. Augieri)...............................................................................................145
277
Sommaire
III Les Hspaces de l’interdit
Genealogia del linguaggio
(Nicola Russo) .....................................................................................................16
From Stern to Sterne. Language, Meaning, Narration
(Marco Castagna)................................................................................................197
Legislators as musicians. Rousseau’s melodious foundation
of democratic republicanism (and his Essai sur l’origine des langues)
(Alessandro Arienzo) .........................................................................................217
Appendice
Ideologia e Analisi del Discorso
(Teun A. van Dijk) ..............................................................................................243
278