[go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu

geaArt Oct-Nov 2013 p.12-13

anno II numero 6 ottobre-novembre 2013 direttore Massimo Bignardi distribuzione gratuita Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative La Fede in chiaroscuro CONTROCOPERTINA Eliana Petrizzi Interno, 2013 acrilico su tavola Cos’è che ci trattiene? È continuare ad immaginare un futuro e ‘architetture’ dalle quali guardare al futuro non sono, oggi, tra le più stabili che abbia conosciuto nella mia vita. Finanche negli “ anni di piombo” , quando la paura tranciò molte delle strade aperte dal confronto democratico, non ricordo che l’incertezza si sia mai trasformata in incapacità di tracciare nuovi progetti per il tempo a venire, così come accade in questi mesi. Dal nostro punto di fuga, delle così dette ‘scienze umanistiche’ le prospettive operative sono ridottissime, almeno lo sono nella mente di qualche ministro degli ultimi governi, di quelli facili alla commozione ma pronti ad esibire modelli sociali e leadership eco- L nomiche. Ecco! , ciò che continua ancora ad accendere sogni nell’irrealtà di questi anni di crisi non è tanto lo spirito di revanche , destinato a farsi spettro della sopravvivenza, come ci è stato palesato, quanto la profonda fede nel nostro lavoro, nell’impegno di critici e storici d’arte, di teatro, di cinema, di musica, di danza, condotto assieme a filosofi, scrittori, architetti, artisti, docenti e liberi professionisti calati nella precarietà del presente. Un’irrealtà alimentata dalla cecità della politica, incapace di risposte dallo sguardo lungo, di linee programmatiche che si concretano in progetto. La nostra è una fede laica che oggi, con maggior La disperat a passione di essere nel mondo (P. P. Pasolini) L’editoriale di MASSIMO BIGNARDI identità, costruisce ponti con i ‘movimenti’ dell’anima. Qualche domenica fa, al mattino, mi sono fermato ad ascoltare i canti che provenivano dalla sinagoga; voci di giovani che accompagnavano le funzioni autunnali; all’alba del lunedì, una preghiera ad Allah mi ha svegliato, proveniva da una camera della residenza universitaria; di li a poco, dal campanile prospiciente piazza Trieste e Trento, il suono delle campane chiamava a raccolta i fedeli. «Se l’arte insegna qualcosa (in primo luogo all’artista stesso, scriveva Brodskij), è proprio la dimensione privata della condizione umana». carte sul tavolo carte sul tavolo Chi potrà dirmi se sei nel perduto / labirinto di fiumi secolari / del mio sangue, Israele? (J. L. Borges) Chi potrà dirmi se sei nel perduto / labirinto di fiumi secolari / del mio sangue, Israele? (J. L. Borges) Flânerie nei territori del mistero La parola porge Sfuggire all’idolatria del presente e ritrovare il senso della vita nella necessità di raccontare di al tempo un nuovo sguardo FRANCO MATTEO onoscenza, verità, amore: temi che la (in)sensibilità contemporanea vorrebbe distinti, per certi versi addirittura impossibili da coniugare l’uno all’altro. Eppure, proprio recentemente, abbiamo avvertito segnali che sembrano percorrere la strada di matrimoni difficili per il mainstream del nostro tempo. E talvolta, protagoniste di queste assonanze un po’ inconsuete sono voci che non avremmo potuto immaginare potessero appartenere allo stesso coro. Uomini di fede e di conoscenza interessati a un dibattito comune. La lettera di papa Bergoglio a Eugenio Scalfari pubblicata dal quotidiano “la Repubblica” supera l’antinomia tra assoluto e relativo, un tema che aveva occupato gran parte del dibattito intorno alle prime dichiarazioni di Benedetto XVI dopo la sua designazione a successore di Pietro. Papa Ratzinger aveva inteso subito rimarcare una netta presa di posizione contro il relativismo, Francesco invece esce da un recinto, che era diventato, col tempo, quasi esclusivo dominio del polemismo fine a se stesso, per ritrovare la centralità dell’esperienza umana e della costruzione della verità dentro una relazione, che è una relazione di amore. Concetto che, del resto, è l’elemento centrale dell’esempio francescano ed è l’essenza stessa del cristianesimo in quanto religione che si definisce, per sua stessa etimologia, non dentro i confini astratti della dimensione concettuale ma a partire dall’esperienza e dall’esempio del Cristo, cioè di colui che incarna il divino. Torna dunque l’amore come percorso di vita e strumento stesso di conoscenza e verità. Qualche giorno dopo, in occasione del festival della filosofia di Modena, dedicato quest’anno proprio al tema dell’amare, Massimo Cacciari, con approccio sapienziale ed essenziale, pone l’accento sull’origine stessa della parola filosofia (dal greco filos che vuol dire amante) e sottolinea come in essa sia presente la parola amore, amore per il sapere, nella fattispecie. Ed è l’unica disciplina in cui resiste, per destino etimologico, la centralità dunque dell’atto d’amore. Cosa che invece, secondo quanto rimarca il filosofo ed ex sindaco di Venezia, non è presente in altri campi del sapere. Non c’è nell’ingegneria, o nella matematica o nella fisica. Ma soprattutto, spiega Cacciari, non ve ne è traccia nel modello tecnicistico di conoscenza cui si fa ai tempi d’oggi sempre più riferimento. È un approccio freddo alla realtà, alla conoscenza. Una tendenza che, è facile desumerlo dal tono delle sue affermazioni, non piace a Cacciari. Ma l’interesse delle sue riflessioni sta nel fatto che l’amore per il sapere che, dato unico e originale, caratterizza la filosofia diventa di per sé elemento che influenza la conoscenza e con essa l’approdo alla verità. Quasi come se la modalità e il percorso diventino loro stessi verità. Viene in mente il romanzo di Mircea Eliade C da cui Francis Ford Coppola ha tratto qualche anno fa il film Un’altra giovinezza in cui il protagonista, attraverso lo studio dei linguaggi attraversa i mondi della conoscenza e riesce a tornare indietro negli anni per innamorarsi, ma è proprio la scelta dell’amore e dei sentimenti rispetto a quella della fredda conoscenza a fargli perdere di colpo giovinezza e vita stessa in nome di una verità più profonda, forse inaccessibile ai lumi della ragione eppure vissuta e praticata nella sfera dei sentimenti e dunque, in buona sostanza, conosciuta. E la complessità stessa della nostra mente, delle sue funzioni, non ci porta a riflettere sul come la parte emozionale del nostro cervello, quella che i fisiologi definiscono come area limbica, non sia filologicamente più antica della corteccia cerebrale in cui albergano logica e ragionamento? Torna sempre il tema dell’amore come centralità dell’esperienza umana e dell’approccio cognitivo. E ancora di più in un mondo caratterizzato dall’episodicità, un mondo scomposto in frammenti, con vite concepite come sommatorie di istanti e l’amore stesso spesso inteso come esperienza fatta di momenti non necessariamente tenuti insieme dentro un percorso coerente. E che dire della comunicazione, sempre più sensazionale, costruita cioè su clamori, effetti, impressioni quasi mai coerenti tra loro. È talvolta disorientante avventurasi per esempio dentro la giungla della comunicazione politica. Rintracciare una unità ideologica è impresa proibitiva ormai. Ma diventa difficile rientrare persino nei limiti di generica coerenza. Si lanciano messaggi allo stesso modo in cui si usano slogan pubblicitari. Si cerca di parlare alla “pancia” della platea degli elettori, si cerca il linguaggio che faccia più sensazione, si va al corpo a corpo coi rivali politici nei talk show televisivi con l’unico obiettivo di destare impressione. Oppure, sempre per colpire le platee televisive, si opta per il gesto teatrale dell’abbandono dello show in segno di sdegno o di protesta. E’ tutto un rincorrere il sensazionalismo nel più assoluto deserto di contenuti e in una dimensione di superficialità della comunicazione che è diventata ormai la regola cui neanche le persone meglio intenzionate riescono a sottrarsi. Del resto l’importante non è trasmettere contenuti ma stare dentro il rito mediatico, recitare bene la propria parte. Che il proprio discorso sia diverso o addirittura neghi quanto detto un anno, un mese o un giorno prima poco ha importanza. L’imperativo è assumere un ruolo di protagonista nella politica spettacolarizzata e, se proprio non si è capaci, almeno conquistarsi un posto di figurante. La verità, nello show della comunicazione politica così come in mille altre cose, è il momento e si consuma in un momento. Eppure, appare sempre più chiaro che questo intreccio di istantaneità, non basti non soddisfi la condizione esistenziale. Perché nascondere il dubbio dell’origine? Non perché manchi il filo conduttore. Quello purtroppo è presente ed è anzi proprio ciò che determina ansia e disagio. La frammentarietà infatti si risolve nel rito quotidiano del consumo. Consumo di ruoli, di merci, di comunicazione: in poche parole di oggetti morti. È la pornografia un po’ necrofila della vita fatta oggetto, del corpo individuale e sociale privato di una sua soggettività, di un proprio protagonismo. Tutto è ricondotto a questa logica passiva che regola la società dei consumatori. Liberatorio, paradossalmente, sarebbe non dover ricondurre a nulla: vivere con amore, nel senso spirituale ed erotico, travolgenti esistenze. Spericolate, nel senso di liberate dalla paura e dall’ansia del futuro inteso più che altro come ideologia opprimente del futuro: della crisi che incombe, del disastro economico, politico, esistenziale che ci viene prospettato e che noi stessi ci prospettiamo. L’apologia della paura, che è un pilastro del sistema di vita dell’uomo consumista e consumato, non la troveremo mai né nell’esempio francescano e neanche in nessuna teoria filosofica che si rispetti. Amore e paura, nell’esperienza e nell’esempio dei grandi protagonisti della storia dell’uomo, si accompagnano mal volentieri e mai la paura si fa strumento utile di conoscenza se non accompagnata e alla fine dominata da una passione profonda, una voglia di uscire dantescamente alla fine a “riveder le stelle”. E dunque l’umanesimo laico di Cacciari e il nuovo francescanesimo di papa Bergoglio si incontrano, neanche tanto sorprendentemente, nel rivendicare la centralità dell’amore nel percorso della conoscenza e nello stesso cammino dell’uomo. Forse per destino stesso più che per volontà. Fatto questo che fa riflettere sulla possibilità di costruire una chiesa universale, non certo intesa come luogo fisico o addirittura gerarchizzato ma come punto ideale di incontro, in cui possano ascoltarsi e dialogare uomini di religioni o di ideologie diverse, credenti e non. L’apertura di papa Francesco su questo versante pare assolutamente coerente con il suo discorso sulla relazionalità della verità e sull’amore. E il richiamo di Cacciari a una sapienza “calda” guidata dall’umanità dell’amore, anzi addirittura motivata dall’amore filosofico per la conoscenza, rimanda a una centralità del metodo che guarda persino all’Oriente geografico e a quello inteso come essenza della conoscenza. Come dire che la geopolitica del futuro dovrà passare attraverso una rivoluzione culturale che costruisca ponti arditi ma possibili tra il Tao e Aristotele, tra San Francesco e Rumi prima ancora che tra regole economiche e di diritto internazionale. Qualora non lo facesse resterebbe sempre monca e conflittuale. Le opere che illustrano le pagg. 2 e 3 sono tratte dal ciclo L’Arca contemporanea dell’artista TONINO D’ACUNTO nel prossimo numero Associazione Culturale Mediterraneo (Onlus) edeli alla linea. Ovvero: abbi fede, ma non troppo. Se potessimo F tuffarci nel pozzo profondo del passato remotissimo probabilmente rimarremmo sconcertati. Intanto perché sarebbe altamente probabile 2 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 A Corso Garibaldi, 16/A 84123 Salerno RAFFAELLA CASCIELLO non riuscire mai a raggiungere il fondo del pozzo e in secondo luogo anche perché una volta arrivati sul fondo ci si potrebbero palesare scenari che non saremmo in grado di riconoscere con le nostre categorie interpretative, quelle dell’uomo razionale occidentale contemporaneo. Andare all’origine per trovare la rivelazione sul destino degli uomini significa ricercare l’atto fondativo delle loro esistenze ovvero «quel momento in cui tutto accadeva per la prima volta». Un punto del passato mitico e archetipico che svelerebbe definitivamente il mistero della vita. Tuttavia questa opportunità è preclusa al genere umano. Certo: sogni metafisici, stati allucinatori, deliri orgiastici e mistici, ma anche una più sobria meditazione, potrebbero essere considerati strumenti di avvicinamento all’originario, all’essenziale ma non di più di quanto non lo sarebbe la fantasiosa immagine di andarsene a spasso con una macchina del tempo. E però da qualche parte dobbiamo pur venire, qualche spiegazione dovremo pure riuscire a darcela prima o poi, e tra il prima e il poi, per il tramite, dobbiamo pur campare provando a liberarci dalle inquietudini della precarietà dell’ordinario. Crediamo in qualcosa per darci delle spiegazioni che sono almeno in qualche senso razionali. Togliere dal terreno dell’irrazionalismo la fede vuol dire ovviare a esasperazioni che mortificano i corpi e acuiscono i fanatismi. Il credere in qualcosa, significa uscire fuori dalla dicotomia vero-falso, giusto-sbagliato, dimostrabile scientificamente-non dimostrabile scientificamente. Significa, al polo opposto, ripensare il concetto di ragione svin- Virgilio, mio segreto maestro di campagna S. H. Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative Per la necessità di liberarsi dalle inquietudini della precarietà dell’ordinario di e cose essenziali non sono visibili agli occhi», scriveva Antoine de Saint Exupery in quel capolavoro senza età che è il Piccolo Principe. Disegnando la mappa di un pianeta sconfinato, che forse è l’unico territorio dove fede e ragione possano scambiarsi dubbi, paure, inquietudini: il regno del mistero. L’unico dove chi crede può dar casa, a volte convincenti sembianze, al proprio Dio e chi non crede inseguire e dar senso a quello scarto irraggiungibile tra la vita e la morte, tra l’infinito ed il nulla, a quell’istante immenso, o magari microscopico, che misura con le nostre piccole storie il flusso della Storia. Con il mistero si confronta la scienza, assumendolo come campo d’indagine, bussola delle proprie ricerche: una direzione, ma quale, visto che il traguardo si sposta in continuazione, più avanti o più indietro? Ogni scoperta non è in fondo solo un tracciato verso una nuova nebbia? La pratica religiosa ci offre compito di tutte le Chiese - più aiuto. Un mussulmano ha un punto, il mirhab, ago indicatore della Mecca, verso cui indirizzare genuflessioni e preghiere. Un cattolico può guardare verso il Crocefisso, tragica icona di congiunzione fra il Creatore e il creato. Per le anime semplici c’è il conforto amichevole del proprio Santo, la mano pronta al miracolo per ogni sciagura, dal terremoto, alla peste, a un naufragio. Per un ebreo la risonanza profonda della parola o di un numero dei testi sacri. Per un greco o un antico romano c’era la geografia affabulatoria del mito, un mosaico di dei ed eroi a impersonare, esaudire ed esorcizzare miserie e pulsioni. Per un induista la mediazione del toccare un’effigie, coprirla e coprirsi di colori ed odori. Per un confuciano lo splendore smagliante dell’esempio. Per un buddista nepalese c’è il giro in senso orario attorno a una Stupa: un circuito d’insegnamento. Per uno birmano la moltiplicazione all’infinito di statue ed icone, ingigantito persino da aureole al neon, in un bosco, una grotta, sulla spianata di una pagoda. Per un aborigeno la memoria indelebile, finché l’alcol e il denaro dei coloni bianchi non la cancellerà, dell’epopea primigenia delle vie dei Canti. Ma poi arrivano i mistici e le frecce di svolta puntano verso il fuori: il Dio che si manifesta è ovunque. O verso il dentro: la coscienza interiore che si fa voce numinosa. Arrivano i filosofi zen, battono le mani, è la sinistra o la destra a produrre quel suono? Intervengono i riti funebri. Meglio la sepoltura, il rogo e l’incenerimento, il corpo tagliato in pezzi ed esposto agli avvoltoi, il cadavere mummificato in un sarcofago? E ogni risposta fa riaffiorare il mistero, lo rende ubiquo. Un oceano senza orizzonte in vista, il mare del Divino, dell’Oltrenoi, eternamente increspato dalle onde del dubbio. O magari la quiete acquosa della placenta cui sogniamo di fare ritorno. Per perdersi o ritrovarsi? Annegare o tenersi a galla? È comunque il liquido amniotico dell’Arte: il suo dover essere. Anche di quella che smarrendo il senso del sacro, la missione dell’invisibile, ha perso misura di sé e del mondo, annaspa nell’idolatria del presente, nell’inconsistenza dell’essere merce. E non sa più, stenta nel migliore dei casi, a battezzare il mistero. Né nel nome di Dio, né in quello della Specie o dell’Uomo, o dell’Altro. Abitare il mistero è la sfida della religione. Chi l’accetta può trovarci se non infinita speranza, almeno un po’ di quiete. L’arte che,per essere fedele almeno a se stessa, non conosce tregua può solo – deveattraversarlo, smascherando le apparenze dietro cui si camuffa, coglierne gli echi, restituirlo al caos magmatico dei paradisi o degli inferni che continua a generare, o dargli, se ci riesce, forma, renderlo anche solo per un istante visibile. «L Proviamo a riflettere su quanto anima il dibattito tra credenti e non alla luce di svolte che già segnano il XXI secolo di DANILO MAESTOSI Ideologia, memoria e destino è il tema del prossimo numero, con interventi, tra gli altri, di Gaetano Greco, Marzia Pieri, Annibale Elia ed un’intervista a Vivian Green e ad Enrico Crispolti Passi lenti in compagnia di vecchi amici ma con al fianco nuovi interpreti che disegnano prospettive il cui destino ci sfugge. La “contro copertina” è di Carlo Catuogno colandolo dal suo significato positivistico, quello cioè di ragione calcolante. Significa smontare la fede nel progresso di volteriana memoria, in nome di cui «il secolo senza ironia» ha dovuto erigere tribunali di espiazione per stendere ad asciugare panni ancora sporchi di sangue. Perché di fondo, in una sola battuta, si potrebbe dire che questa ragione e quella fede non sono in opposizione fra di loro ma camminano a braccetto in un sodalizio mortale per il futuro dell’uomo. Che cosa ne sarà di noi? Questa la domanda sul “senso” della nostra esistenza. Nessuna linearità della storia, nessun senso in vista di un fine risponde veramente alla domanda urgente sull’uomo e sul suo destino interrogante. Camminare domandandoselo, in questo ho fiducia, affinché il tempo non invecchi. «Mi è costato molto iniziare a camminare, sapevo che sarei scivolato nel fango più avanti, però, pur sapendolo, dovevo camminare verso questa caduta. Questa e le altre che seguiranno. Perché camminare è anche inciampare e cadere. E questo non me lo ha insegnato il Vecchio Antonio, me lo insegnò la montagna e, credetemi, l'esame non è stato per niente facile». (….) geaArt non ha fini di lucro. La collaborazione è da ritenersi completamente a titolo gratuito, sotto qualsiasi aspetto, comprese le attività di Direzione e Redazione. Gli articoli e i lavori pubblicati riflettono esclusivamente il pensiero dei loro autori, che ne sono unici responsabili di fronte alla legge, e che possono di conseguenza non coincidere con la linea direzionale e editoriale del giornale. Attività editoriale di natura non commerciale ai sensi previsti dall’art. 4 del D.P.R. 2610-1972 n. 633 e successive modifiche. errata corrige: nell’articolo di BEATRIZ FIORI pubblicato a pag. 18 del n.5 (giugno-luglio 2013) nel titolo leggasi Nelson Dupré Direttore responsabile Massimo Bignardi Direttore editoriale Giuseppe Funicelli Progetto grafico e impaginazione Antonio De Marco centomanidesign@gmail.com Pubblicità Stampa Fusco Srl Via G. V. Robertiello, 3/5 84128 Salerno - tel. 089.755035 info@tipografiafusco.it - www.stampafusco.it Stampa Stampa Fusco Srl Via G. V. Robertiello, 3/5 84128 Salerno - tel. 089.755035 info@tipografiafusco.it - www.stampafusco.it Tiratura 2.000 copie Registrata presso il Tribunale di Salerno n. 6/2012 del 17.05.2012 In copertina, Leone stilòforo (ph@tauros,2012) L’appuntamento mancato con Seamus Heaney Le «responsabilità del poeta» nell’impegno del premio Nobel scomparso lo scorso agosto dI MATTEO BIANCHI vevo un appuntamento con Seamus Heaney da tempo fissato per sabato 7 settembre nei dintorni di Mantova, precisamente ad Andes, odierna Pietole Vecchia, luogo natale del grande Virgilio; però, all’improvviso, pochi giorni prima arrivò fulminea la notizia della sua scomparsa. Nell’Introduzione a La riparazione della poesia, le lezioni del Nobel tenute a Oxford e uscite per Fazi, egli dimostra di portare sulle spalle tutta la tradizione irlandese e non solo, quale, citando Robert Pinsky, «responsabilità del poeta», compresa e soprattutto quella politicamente scomoda, rinnegata da tanti altri intellettuali venuti prima e che verranno dopo: quella capacità singolare di farsi carico del dolore altrui, nell’accezione di pathos e di accettarne, salvandolo, i tratti più profondi, più vicini all’origine dell’evolu- zione personale. Nel tono della sua argomentazione rivela un approccio che non indulge «al sentimentalismo autobiografico, ma ci mostra come l’esperienza diventa conoscenza», esplica il traduttore Massimo Bacigalupo in coda all’ultimo inedito del dublinese d’aspi- razione letteraria, Virgilio nella Bann Valley, pubblicato pochi mesi fa da Tre Lune, editore mantovano. E ancora: «Heaney a settant’anni è molto franco, ci fa entrare nel suo mondo con generosità e discrezione, così insegnandoci come riflettere sui nostri affetti, la nostra cultura, la nostra lingua». Nella riparazione è radicato il pensiero di Simon Weil, manifesto di un equilibrio da lei tanto sofferto fra Il peso e la grazia e fedele al paradossale identificarsi di Cristo con la sofferenza dei miserabili, poiché la sprezzatura della poesia, del canto, non deve mai essere esclusiva, elitaria, com’è invece inteso da larga parte della critica italiana. Bensì inclusiva. È questa la difficoltà oltre la lingua, la difficoltà insormontabile del limite che matura l’uomo, che lo tende all’ascolto. A sfavore del Kitsch ignorante (dal latino ignoro, ignorare, che ha un’accezione neutra e non denigratoria) o eufemisticamente ingenuo (ha scritto ultimamente Eco), si considera cliché – e semplicisticamente – la semplicità di certe esperienze fondamentali per l’esistenza di una persona, esperienze che non sono ancora state vissute da chi le giudica. E non saranno mai topoi per tutti, proprio perché non è dato approdarvi soltanto da fuori, dalla ricezione sensoriale e dalla successiva rielaborazione razionale, ma debbono necessariamente essere vissute dall’interno, da dentro, in modo induttivo e non deduttivo: essere assimilate in equilibrio, nell’intesa tra mente e spirito. Cristina Campo, affezionata alla Weil, divideva la fioritura spirituale e intellettuale degli individui in tre età ascendenti, di legno, d’argento e d’oro, per cui ognuna rappresenterebbe il livello di coscienza e di predisposizione dell’animo nei confronti della verità. L’errore, tuttavia, sta nel fatto che la periodizzazione non doveva considerarla per l’umanità intera, in senso complessivo, ma per ciascuno che, un po’ per fortuna, un po’ per volontà, potrebbe a suol di luziane epifanie, di rivelazioni fugaci e folgoranti di senso – ma del suo senso, di sé – fare quei tre scalini per nobilitarsi e, per non sentirsi solo sopra agli altri, mostrarne il modo, raccontarlo attraverso la lirica. A suggello le parole del Nobel: «E a volte, naturalmente, tale rivelazione, una volta incastonata nella poesia, rimane un criterio per il poeta, che in seguito si trova a dover sopportare lo sforzo di rendere testimonianza nella propria vita del piano di coscienza stabilito nella poesia». geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 3 proscenio teatro contemporaneo Sono nato ebreo, poi crescendo mi sono convertito al narcisismo (W. Allen) Ogni dramma inventato riflette un dramma che non sʼinventa. (F. Mauriac) A chi gli chiedeva cosa aveva voluto dire con La Grande Magia, Eduardo rispondeva che aveva voluto significare che “la vita è un gioco, e questo gioco ha bisogno di essere sorretto dallʼillusione, la quale a sua volta deve essere alimentata dalla fede…. Ogni destino è legato ad altri destini in un gran gioco eterno del quale non ci è dato scorgere se non particolari irrilevanti” (Il Dramma, marzo 1950) Il teatro e la fede, la fede nel teatro La relazione reale e non virtuale del teatro vs la cinica indifferenza di un presente senza fede A Lucca lo Spirito fa teatro tra cultura e “mistica” I Teatri del Sacro di TIZIANA DI MURO giugno Lucca, con la collaborazione della Cei, è stata palcoscenico della terza edizione della rassegna “I Teatri del Sacro”: ventidue spettacoli in cartellone, gratuiti e affidati a compagnie amatoriali al fianco di professionisti. Non solo un Festival, ma un’avventura artistica e culturale dedicata alle intersezioni, sempre più diffuse, fra il teatro, la ricerca religiosa e la tensione spirituale: un ‘corpo a corpo’ libero e sincero con le domande della fede. Una visione del sacro incarnata nel tempo presente: dalla questione problematica del perdono e della misericordia, passando attraverso l’azione sacrificale di padre Massimiliano Kolbe. Altrettanto viva la riflessione sulla morte e sulle soglie del morire. E poi il richiamo alle suggestioni del pellegrinaggio come recupero della lentezza, come reviviscenza di una memoria perduta del sacro e di un rapporto più autentico con la terra, da Clarel di Melville al viaggio semplice e povero di un attore con la sua asina nel cuore della via Francigena. Ritorna inoltre sulla scena il richiamo alla bellezza e al senso misterioso della creazione, dalla Genesi biblica all’epopea poetico fiabesca del cavaliere di Giuliano Scabia. E ancora la passione di Cristo, cuore dell’esperienza cristiana, messa a confronto con la passione dell’uomo per un’etica della bellezza che in Mandel’štam si fa sacralità della poesia; una passione che, nel simbolo della croce, è anche passione della donna, dalla figura di Maria alla Maddalena, fino alla Felicita di testoriana memoria. Ritorna in questa edizione anche il tema della mistica, con la sua inaspettata attualità, fatta di ascesi e quotidianità, con due spettacoli dedicati a Teresa di Lisieux e a Ildegarda di Bingen. Infine lo sguardo e l’ascolto dei semplici, dagli ultimi e dai ‘poveri in spirito’ di don Tonino Bello alle Storie del buon Dio di Rilke ‘scritte ai grandi perché le raccontino ai piccoli’, fino alle peripezie comiche di un adulto bambino e al racconto della vita di Gesù ad opera di una popolana della Palestina, finita per caso ad abitare accanto a quella strana coppia di sposi e al loro (ancor più strano) figlio. I Teatri del Sacro ha da sempre messo in primo piano, oltre agli spettacoli, la dimensione laboratoriale, creando occasioni di approfondimento e di sperimentazione, con particolare attenzione al ruolo dello spettatore: il pubblico come presenza viva, espressione concreta di una comunità che esercita il suo diritto di cittadinanza culturale. Da qui Visioni e condivisioni: un laboratorio costituito da un gruppo di spettatori che assisteranno a tutti gli spettacoli del Festival, riflettendo sul loro incontro col sacro. Uno spazio di libero e aperto confronto intorno ai temi della fede e della spiritualità. Un’occasione per verificare se e come il teatro può essere ancora, a certe condizioni, la forma d’arte che più d’ogni altra mette una comunità dinanzi alle sue questioni essenziali; se e come il sacro può abitare la scena contemporanea. Un secondo laboratorio, Giovani spettatori, rivolto soprattutto alle scuole per confrontarsi con il teatro e con gli interrogativi della ricerca religiosa. Infine, nel cantiere creativo di Lucca, è previsto anche un laboratorio specifico dedicato all’attore e alle sue potenzialità di sconfinamento nei territori dello spirito: Essere strumenti puri. Un sentiero tra teatro e mistica, condotto da Alessandro Berti, un artista che da tempo conduce un suo personale itinerario teatrale dentro i confini del sacro. A In alto: la locandina della rassegna 4 gea Art numero 6 - ottobre-novembre 2013 di PASQUALE DE CRISTOFARO opo la grande stagione “Metafisica”, l’uomo contemporaneo è precipitato con la sua riflessione nel vuoto più assoluto, nel “Nulla”. Ha preso coscienza,cioè, che tutte le sue grandi costruzioni teoriche poggiavano sul vuoto. Vano il suo tentativo di arginare questa deriva votandosi al più esasperato narcisismo. La cosiddetta società dell’immagine ha retto per un po’, poi ha mostrato tutta intera la sua evanescenza. Nel mito, Narciso, eroicamente si chinava su questo vuoto per cercare nell’elemento acquatico la possibilità di definirsi o quanto meno di trovare qualcun altro diverso da sé da poter amare. Questo non accade e Narciso soccombe. Gli psicotici, sono stati i primi ad avvertire e a ricordarci che tutte le nostre coraggiose strategie rappresentative atte a farci sentire più che mere apparenze, non sono altro che tentativi per sfuggire a questo tragico pensiero e, cioè, che le nostre fondamenta sono fragilissime. Siamo nient’altro che “evanescenze di evanescenze”, figure di sogno. Dopo tutto, il grande Eduardo traducendo Shakespeare in un musicalissimo napoletano del seicento fa dire a Prospero: «[…] Te veco, figlo mio, preoccupato assaje, / comme appaurato. Rinfranchete, / staje nu poco mpressiunato…/ Li gioche so’ fernute./ Te l’aggio ditto: l’artiste/ erano tutte spirete/ e so’ svanite… So’ svanite pe’ ll’aria, / int’a lu niente … / Comme a la costruzione appariscente/ di questa visione, / pure li torre ncurunate de nuvole, / li sontuose palazze, / li castielle, / li sulenne tempie/ e quest’enorme globo, / sì … cu tutto chello ca nce sta, fore e ddinto, / sparisce cumm’a lu spettacolo ch’ ‘e visto/ e ch’è sparito e can un lascia tracce. Nuje simmo fatte cu la stoffa de li/ suonne, e chesta vita piccerella nosta/ da suonno è circondata, suonno eterno.». Così, anche i tanti logorroici ragionatori pirandelliani; essi non fanno che girare il coltello nella piaga. Che cosa sono, infatti, le estenuanti riflessioni del suo famoso Enrico IV? Attacchi dinamitardi contro le assurde certezze di una “Metafisica” che ha fallito e che non riesce più a spiegare il mistero e la tragicità della nostra esistenza. Da lì discendono le nostre maggiori paranoie, il nostro star male, la nostra inesausta angoscia. Il grande pensiero laico e continentale ha ceduto da allora, e sempre più, il passo ad una “liquidità” imbarazzante. Nella vecchia Europa si è passati con grande velocità dalla centralità delle sue “agorà” al festivo e domenicale “centro commerciale”. Ormai, sempre più spesso, è lì che si va a stordire e a soddisfare il nostro desiderio compulsivo dell’acquisto inutile. Anche le chiese si svuotano in ossequio a questo nuovo rito. A tale proposito, è emblematico quanto riferisce un personaggio di Woody Allen in un famoso suo film: «[…]Sono nato ebreo, poi crescendo mi sono convertito al narcisismo.» In questa battuta, a me sembra, sia sintetizzato come meglio non si potrebbe, la fine delle grandi religioni monoteiste che nonostante avessero rappresentato da sempre un D argine, un ombrello a tanta angoscia, anch’esse sono state travolte dalla furia iconoclasta di quest’orda felice solo di “apparire e non essere”. La fede in quanto tale ha ceduto alla deriva secolarista sparendo nello spazio privato o facendosi nota di colore e rito privo di reale sostanza. Anche papa Francesco - come tra l’altro già aveva fatto il suo teorico e dimissionario predecessore - si è reso conto di quanto siano drammatici questi tempi; tempi senza speranza. Tenta di imporre svolte radicali per cercare di riprendere in mano una situazione che appare definitivamente persa. In una parola, la gente vive tra la disperazione e l’evasione. La realtà sembra essere sparita. Pur tuttavia, tra la disperazione e l’evasione deve esserci qualcos’altro. Per forza. In questo spazio abbiamo il dovere di declinare i linguaggi artistici, teatro compreso, come se fossero una nuova opportunità per rimettere al centro l’uomo e riprendere così una situazione ormai giunta al limite. L’afasia, l’indifferenza, l’irresponsabilità devono cedere il passo ad un nuovo impegno, che metta gli artisti di fronte a questo tragico “finale di partita” restituendo loro il coraggio e la determinazione per recuperare un senso al proprio operare. Non più cortigiani sciocchi di una finanza sempre più opprimente, né comprimari di una politica ormai passata in secondo ordine, né paranoici ed inconcludenti parolai, ma poeti, artisti, capaci di tirare fuori le residue energie e con fede credere in una rinnovata umanità. Ecco il miracolo possibile ed, aggiungo, auspicabile. In fondo e nonostante i veloci cambiamenti, emotivamente gli uomini sono rimasti ancora quelli delle “caverne”, come diceva Quasimodo. Ancora oggi, seguono istinti e ragioni; spesso più istinti che ragioni. Sono sostanzialmente violenti. Le cause di questa violenza sono in genere attribuite alla follia dei singoli individui o alle masse strumentalizzate e agite da ideologie che predicano la sopraffazione degli uni sugli altri. Ancora oggi gli ordinamenti politici cosiddetti democratici nascondono di fatto che anch’essi, come i poteri tribali, si fondano sul sacrificio di qualcuno e/o sull’oppressione dei più deboli. Per secoli, trovare un nemico esterno o al proprio interno un capo espiatorio, ha significato tenere unita la comunità evitando più cruenti guerre fratricide. Paradossalmente, le vittime sacrificali permettevano la vita della società stessa. La violenza diventava un valore ed acquistava una sua sacralità. La violenza era ed è, ancora per certi versi, il sacro residuale. Ciò che univa era ed è l’odio verso il diverso, l’altro; l’odio per l’altro. Al sangue, presto la violenza ha sostituito altre forme più subdole e meno cruente. A tutto questo è necessario, oggi, dire basta. E questo è e sarà possibile se il mondo e l’uomo diventeranno meno violenti. Se ai riti violenti riusciremo a sostituire riti pacifici. Il teatro e le arti devono rappresentare questo e null’altro. Riti pacifici per ridare fiducia ad un’umanità che ha perduto ogni riferimento. La bussola impazzita ripunti il suo ago sulla misericordia, sull’empatia, sulla capacità di metterci nei panni dei fratelli meno fortunati. Ancona, Haber e Boni sono gli interpreti de Il visitatore In programma dal 12 al 15 dicembre al Teatro delle Muse ome reagire quando il mondo sembra dimenticare ogni forma di umanità? A cosa aggrapparsi in un naufragio che C toglie il respiro? Alessandro Haber (prima foto), Alessio Boni (seconda foto) e Francesco Bonomo sono gli interpreti de Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt, in programma dal 12 al 15 dicembre al Teatro delle Muse di Ancona. Il regista Valerio Binasco, che punta sulle musiche di Arturo Anechino e sulle scenografie di Carlo De Marino, porta in scena il dramma di Sigmund Freud, che sta vivendo una vecchiaia dello spirito prima ancora che del corpo. Nella Vienna che sta subendo l’occupazione nazista, lo psicanalista teme per sua figlia, che un ufficiale della Gestapo gli ha portato via. La logica sembra ormai essere calpestata dalla violenza. Un personaggio a dir poco stravagante gli piomba però in casa con la sicurezza di chi è del tutto consapevole del proprio ruolo. L’uomo si presenta come Dio e spinge Freud a un’appassionata disquisizione sul senso della vita, sulle risorse che l’uomo può adottare, sulla presenza del male, sul concetto di giustizia. Le posizioni restano inconciliabili, lo studioso difende tenace il suo ateismo così come il visitatore non retrocede, ma si avverte senza mediazioni il desiderio di comprende l’ostinato anagramma dell’esistenza. Bruno De Marco Fratellini, quando l’amore è un atto di fede È la sacralità del corpo a essere in primo piano nella pièce di Francesco Silvestri di GEMMA CRISCUOLI l teatro può essere considerato un atto di fede: nella possibilità di comprendere la realtà attraverso la finzione, di fare della corporeità la vera occasione di conoscenza, di trovare un mezzo espressivo che permetta di sconfiggere angosce e dubbi. Un testo che può essere letto come testimonianza di fede in chiaroscuro, perché capovolge i parametri del rapporto tra immanente e trascendente, è Fratellini di Francesco Silvestri, a tutt’oggi la sua opera più nota e rappresentata, che debuttò al Teatro Juvarra di Torino nel 1997, senza smettere, a distanza di anni, di affascinare. Nella sua solo apparente semplicità, il copione parte da un assunto preciso: combattere un dolore che divora la mente e il corpo non può che richiedere un amore tanto esclusivo da diventare una consacrazione. Non c’è possibilità di equivoco: l’enfasi e la commozione a buon mercato sono lontane anni luce dal teatro di Silvestri, che è sempre stato interessato alla marginalità intesa come una sorta di redde rationem di forze contrastanti e pronte a irrompere nella cosiddetta normalità. Se l’autore, ora lontano dalle scene, rimane insuperabile nell’interpretazione del protagonista per la sua ca- I In alto: La Grande Magia con Luca De Filippo; Sopra: Eduardo De Filippo e William Shakespeare Provare a riprendere quei sentieri interrotti di “luce” che una visione della vita tutta votata all’esteriorità ha profondamente opacizzato. Zavorrati verso un inesorabile vuoto, cerchiamo almeno di provare a stendere una mano all’altro guidati da un agire costruttivo. È necessario diventare attori in un teatro che si fa rito umano. La nostra storia non è che un copione scritto dalle azioni e dalle interazioni degli uomini. Un copione con molte parti, dove molto è già stato scritto ma molto resta ancora da scrivere. Ed essendo il teatro il luogo della finzione e della verità facciamo che diventi anche lo spazio della vera ed autentica libertà. Libertà dalle noie di un presente cinico che privilegia, ad esempio, una relazione virtuale ad una reale. In fondo, e non dimentichiamolo mai, il teatro non è altro che questa relazione: l’incontro di due corpi vivi dentro lo spazio reale della vita. pacità di coinvolgimento, non è meno impegnativo il ruolo del comprimario nel suo dolente controcanto fatto di sguardi disperati e affettuosi e di parole ridotte all’osso. Con il pretesto di recarsi ogni giorno a messa, Gildo, che ha un lieve ritardo mentale, accudisce il fratello malato di aids e di fatto recluso in una stanza d’ospedale dove neppure le suore osano avvicinarsi, abbandonato dalla madre stessa, che è nominata con disagio ed è a sua volta prigioniera, murata nel suo aggressivo dolore. La solitudine si avverte fin dall’inizio della rappresentazione, quando riecheggiano per pochi istanti mille voci lontane di quella distratta e confusa quotidianità che esclude il giovane. Poiché il protagonista ha solo il tempo della celebrazione eucaristica per stare con il suo amato “fratellino” (che senso avrebbe dargli un nome? È una parte di lui), inframmezza i suoi discorsi con le parole del sacerdote per sapere quanto possa ancora trattenersi in ospedale. Gli racconta fiabe, impressioni, lo incoraggia, muove un aquilone sulla sua testa per inventare una libertà che gli è negata, rivendica il suo diritto ad accoglierlo, comprenderlo, difenderlo, esorcizzare la morte, leggendo per esempio nelle macchie sul suo corpo, segno inequivocabile della morte al lavoro, figure sempre diverse, come in un gioco tenero. Lo spoglia completamente e lo lava, nominando il corpo di Cristo (la nudità ricorda che è il rifiuto della carne a essere folle) e mostrando una volta di più che è la vita in se stessa a essere sacra. Il rituale amoroso del “povero idiota” vale più di ogni messa e di ogni pregiudizio. Ciò che è sancito come obbligo morale e sano costume dai tutori della normalità risulta di colpo del tutto privo di senso rispetto a due uomini che fanno della loro esclusione il momento cruciale in cui rivelare la propria essenza. È inutile inseguire la trascendenza, quando tutto quel che vi è da capire è nella carne, nel dialogo, nel desiderio di condividere e comprendere. L’uno è spazio e tempo dell’altro. L’uno cerca nell’altro quell’opportunità di felicità che il mondo lieto di definirsi normale nega. E quando il fratello, costretto ad affrontare lunghe ore di vuoto prima di riabbracciare Gildo, lo invoca con forza nel finale, come trascinato lontano dall’aquilone in una prefigurazione della sua fine, esplode il bisogno di anteporre il sogno e il desiderio a una realtà che è già morta, chiusa a chiave nella sua cecità come una madre che, a differenza del suo tenero figlio pazzo, sceglie di essere tomba e non più occasione di vita. Nella foto a lato: Francesco Silvestri e Vincenzo Tumino in Fratellini Invito a teatro/1 Invito a teatro/2 Invito a teatro/3 Dal 3 al 13 ottobre Hedda Gabler al Piccolo Teatro Grassi di Milano Ti ho sposato per allegria dal 28 dicembre al Teatro della Pergola Dal 12 novembre all’8 dicembre all’Eliseo di Roma Il soccombente ambizione può comportare un prezzo estremamente alto e L’ chi crede di essere in grado di pagarlo si ritrova a fare i conti con la propria scomoda fragilità. Il regista Antonio Calenda dirige hiara Francini ed Emanuele Salce si cimentano con ruoli tra i C più felici del panorama drammaturgico italiano in Ti ho sposato per allegria, la commedia di Natalia Ginzburg che Piero Mac- l talento può essere un dono avvelenato, soprattutto se non si Iinterprete ha la forza di misurarsi con esso. Roberto Herlitzka è l’intenso di Il soccombente, il testo di Thomas Bernhard tradotto Manuela Mandracchia in una delle opere più complesse di Henrik Ibsen, Hedda Gabler, che sarà proposta al Piccolo Teatro Grassi di Milano dal 3 al 13 ottobre. Il cast comprende Luciano Roman, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza; le scene sono curate da Pier Paolo Bisleri, le luci portano la firma di Nino Napoletano, i costumi sono di Carla Teti. Il regista si affida alla traduzione di Roberto Alonge per tratteggiare un ritratto femminile in cui le ombre prevalogono sulla luce. La protagonista non ha un rapporto equilibrato con la propria femminilità: è interessata a esercitare il potere che le deriva dal suo fascino e ha deciso che l’apparenza debba contare più dell’essenza. Il bisogno di vivere un’esistenza senza maschere s’insinua però in lei inesorabilmente. All’indomani della morte del padre, che le aveva assicurato un invidiabile tenore di vita, Hedda si sposa per interesse, ma non è affatto lieta della sua nuova condizione. La ricomparsa in scena di Løvborg, uno scrittore che ama la sregolatezza e che l’aveva conquistata in passato, aumenta sensibilmente la tensione in cui questa figura solo all’apparenza forte e calcolatrice trascorre i propri giorni. La scrittura di Ibsen esprime al meglio quelle tendenze dell’animo che si preferirebbe rimuovere, esplorando così tutta la misura del disagio. carinelli dirigerà al Teatro della Pergola di Firenze dal 28 dicembre al 2 gennaio, avvalendosi per le scene di Paola Comencini. Se è vero che il matrimonio significa lottare quotidianamente con un mostro che divora tutto, l’abitudine, Pietro e Giuliana, sposatisi dopo una sola settimana, sembrerebbero aver scampato il pericolo. Non potrebbero essere più diversi: Pietro è un avvocato abituato a una visione razionale delle cose, ben lontano anche solo dall’idea di un colpo di testa, mentre la sua dolce metà sembra uscita da una sceneggiatura improbabile. È pasticciona, insofferente ai ritmi della quotidianità, pronta a perdersi in un ricordo come se non esistesse nient’altro, a seguire sempre il proprio istinto. Una donna tutt’altro che banale, però disposta a complicare la vita di chi desideri esclusivamente la tranquillità. La prova del nove si ha con un pranzo di famiglia dove l’implacabile suocera non risparmia strali alla stravagante nuora, sperando alla fine di avere la meglio sulle sue bizzarrie. Alla fine però i coniugi giungono, in modo ironico e accidentato, a comprendere meglio le proprie attitudini e ansie. Come nella migliore tradizione comica, le situazioni divertenti sono un’occasione per riflettere su questioni tutt’altro che lievi: la libertà di essere se stessi, la difficoltà di una reciproca comprensione, la paura della solitudine. da Renata Colorni che, su riduzione di Ruggero Cappuccio, Nadia Baldi dirigerà dal 12 novembre all’8 dicembre presso il Teatro Eliseo di Roma. Le musiche originali sono di Marco Betta, le ambientazioni videografiche sono opera di Davide Scognamiglio, mentre la regista ha curato anche progetto luci, costumi e scene. Marina Sorrenti affianca il protagonista in questo viaggio chiaroscurale tra il fascino della fama, il desiderio di autoaffermazione e l’insostenibile peso della propria inadeguatezza. Wertheimer e l’io narrante sono sconvolti dall’incontro con Gould quando si trovano a Salisburgo in occasione di un corso di perfezionamento pianistico tenuto da Horowitz. La straordinaria forza espressiva dell’artista li seduce e li costringe a capire che non potranno mai raggiungere un simile livello di perfezione. Gould apre loro un mondo nuovo, in cui la bellezza della musica trova il suo coronamento, ma li induce anche a osservare la propria distanza dal miraggio dell’assoluto. Il titolo è allora indicativo della sorte di coloro che non possono sottrarsi alla mediocrità. Dei due amici, l’uno si toglierà la vita, un altro rinuncerà a qualunque occasione di visibilità. Eppure ciò che ha causato la loro infelicità è anche ciò che ha dato senso al loro essere al mondo: per quanto possa arrecare del male, non si resiste al fascino di quel che è unico. Maria Bruno redazione proscenio g.c. Nella foto in alto: Manuela Mandracchia Nella foto in alto: Emanuele Salce Nella foto in alto: Roberto Herlitzka geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2103 5 scatola sonora danza Hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni? Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue (G. D'Annunzio) Carne e fede: Tolstoj e il dissidio tra la regola e il tradimento La critica religiosa e la ricerca di una Verità fuori dei canoni ufficiali del maestro russo attraverso le note della Sonata a Kreutzer di LORENZO DE DONATO n filosofia, si intende per Ermeneutica la metodologia dell’interpretazione, lo studio delle regole che è possibile stabilire per l’interpretazione di testi o produzioni di qualsiasi tipo in diversi settori dello scibile umano. Più banalmente, la visione del mondo che ne deriva è quella di un mondo in cui non sono le cose ad avere significato, come se fossero dotate di vita propria, ma sono gli esseri umani ad attribuire alle cose un significato. Questa idea si applica in modo inequivocabile all’arte, ed in particolare alla più incorporea e ineffabile di tutte le arti, la musica. Una vera e propria scatola sonora all’interno della quale è possibile trovare tutto ed inserire tutto, o quasi. E’ il caso di molte musiche che nel corso della storia umana si sono riempite di un significato misterioso, che misteriosamente riporta sempre allo stesso concetto, alla stessa idea, alla stessa visione. Se è vero che, come disse qualcuno, scrivere di musica è come ballare di architettura, come a dire che la musica non può essere spiegata in parole e anzi non può in assoluto essere spiegata, è altrettanto vero che l’unico modo per sperimentare il fenomeno musicale è quello dell’ascolto e del conseguente coinvolgimento emotivo. Insomma godere silenziosamente dei significati che misteriosamente attribuiamo o si attribuiscono alla musica. È il caso della celeberrima Sonata per violino e pianoforte op. 47 n. 9 di Ludwig van Beethoven, meglio nota al grande pubblico come Sonata a Kreutzer, resa famosa anche grazie al romanzo omonimo di Lev Tolstoj. Nulla è più straziante, tragico e doloroso degli accordi del violino che introducono il Primo movimento con lo struggente Adagio sostenuto, del rincorrersi agitato dei temi del pianoforte e del violino nel Presto che subito dopo ha inizio, un coinvolgente simboleggiare del tumulto della vita e dell’impetuosità dell’amore e della gelosia, della veemenza dei sentimenti legati alla carne e alla passione. Se per chi ha avuto esperienza del romanzo è impossibile non percepire questi significati nell’ascolto di questa sonata, è proprio perché la letteratura svolge in questo caso funzione I Omaggio al potente nobile musicista a 400 anni dalla morte 6 geaArt numero come ricerca “spirituale”* Una riflessione sul periodo sinfonico che il coreografo Léonide Massine realizza tra il 1928 e il 1938 e successivamente negli anni Cinquanta di l teatro alla Scala di Milano ha scelto il 7 diIedcembre per chiudere il bicentenario verdiano inaugurare la nuova stagione con l’opera omaggio al grande musicista, in libreria per Einaudi da fine settembre. Potente nobile nella Napoli spagnola, Gesualdo innovò le strutture della composizione musicale aprendo strade che solo la musica moderna avrebbe poi battuto. Ma fu anche un assassino, o così fu giudicato dai tribunali di allora. Quel che sappiamo è che nella notte del 16 ottobre 1590 la moglie di Gesualdo fu uccisa e ferocemente mutilata insieme all'amante. Dell’omicidio fu davvero responsabile il marito geloso? Ripercorrendo le carte processuali, De Simone mette in scena un'indagine complessa e ambigua, dove all'infedeltà coniugale si sovrappone un intreccio di complotti politico-religiosi, arte e ossessioni demoniache. Il testo è anche un intreccio di voci colte e popolari che parlano la lingua poetica dei madrigali, il dialetto napoletano dei semicolti, il latino delle preghiere, la lingua del potere dei gesuiti, quella burocratica dei magistrati, quella al limite del delirio di Gesualdo. Un ribollente crogiolo dove confluiscono le mille anime di Napoli, nuovo affondo di De Simone nella storia della città, nelle sue radici più profonde, nei miti più misteriosi. Il testo è seguito da un racconto di Mariano Bauduin nel quale un commissario molto gaddiano torna sul «caso Gesualdo» attraverso le figure di Jack lo Squartatore, Giordano Bruno e un interlocutore misterioso, in un suggestivo cortocircuito temporale. certamente più amata e rappresentata del maestro di Busseto, la Traviata. Come noto, per essere Violetta, ci vogliono più voci e più anime in un solo cuore di soprano. Sarà la tedesca Diana Damrau, la Violetta scaligera, cantante dalla grande intuizione drammatica, presenza, carattere e “voci” in regola per un personaggio vivo e dolente fino all’ultimo sospiro Accanto a lei, Piotr Beczala che torna alla Scala dopo il grande successo ottenuto nel ruolo di Rodolfo in La bohème nella scorsa Stagione, e il grande baritono verdiano Željko Lučić. Daniele Gatti, che salirà sul podio, ha già mostrato in tutto il mondo un invidiabile acume verdiano, per forza e lirismo. Grande attesa anche per l’esordio a una prima scaligera del regista russo Dmitri Tcherniakov, di cui si sono visti in Scala un pregevole Giocatore di Prokof’ev e un azzeccato Evgenij Onegin di Čajkovskij, tutto giocato intorno a un tavolo di famiglia. Oltre a Verdi, del quale sono in cartellone anche Il Trovatore e il Simon Boccanegra, trovano spazio Pietro Mascagni con La Cavalleria rusticana, Gioacchino Rossini con Le Comte Ory e Gaetano Donizetti con la sua Lucia di Lammermoor. La stagione dell'opera comprende poi La sposa dello zar di Nikolaj Rimiskij-Korsakov, Cosi' fan tutte di Wolfgang Amedeus Mozart, Les Troyens di Hector Berlioz e l'Elektra di Richard Strauss. o.c. La nuova stagione si apre con Traviata Daniele Gatti torna sul podio per chiudere il bicentenario verdiano GADFGDFGDSF di ROBERTA BIGNARDI L l nuovo lavoro di Roberto De Simone Cinque Iteatro voci per Gesualdo. Travestimento in musica e di un mito d’amore, morte e magia è un SANDRO CHIA FRANCESCO CLEMENTE ENZO CUCCHI NICOLA DE MARIA MIMMO PALADINO 6 - ottobre-novembre 2013 danzato a storia come identità della nostra coscienza è un tema che, sul finire del secondo decennio del XX secolo, fa da sfondo a diverse realtà dell’arte: dalla scena delle arti plastiche – per intenderci la pittura, la scultura, l’incisione – alla musica ed il caso potrebbe essere quello di Stravinskij, fino ad arrivare alla letteratura. È nel corso del decennio successivo che si delinea l’attenzione all’essenza della forma, dettata dalla necessità di dare visibilità ad un ripresa del “classico”, che vuole essere non nostalgico sguardo al passato quanto processo costruttivo di una nuova stagione dell’arte. Essa farà da sfondo a quelli che Cocteau chiama gli anni del rappel à l’ordre, segnando profondamente i decenni tra le due guerre. I balletti del periodo sinfonico che Léonide Massine realizza tra il 1928 il 1938 e successivamente quelli detti “religiosi” degli anni Cinquanta, si iscrivono in tale contesto che vuole, citando quanto scriveva Carrà, «l’esclusione d’ogni superfluo e l’intrinseca densità uguale di ogni sua parte per giungere all’eccellenza dell’opera». Il coreografo George Balanchine, attraverso le opere neoclassiche aveva dato luogo a quella ricerca basata sull’esplorazione delle potenzialità espressive del movimento, sulla esaltazione delle linee corporee, in costante dialogo con le strutture musicali, diventando elemento fondante della tradizione ballettistica americana e aprendo le porte al “balletto moderno”, dove la tecnica accademica è contaminata da altri linguaggi, o meglio ancora di ‘post-classicismo’ al quale ricolleghiamo artisti quali John Cranko, John Neumeier, William Forsythe, Mats Ek, Jiří Kylián. Il “neoclassico” che caratterizzerà il periodo sinfonico, sarà per Léonide Massine, l’avvio ad un processo di ammodernamento del balletto, approdando, con Nobilissima Visione del 1938 liberamente ispirato ai Little Flowers of Saint Francio, con Laudes Evangelii del 1952 e, infine, con Resurrezione e vita del 1954, ad una stilizzazione della forma, dove il movimento è sintetizzato nelle plastiche pose dei ballerini. L’artista trova lo spunto tematico nelle proprie emozioni ed avventure spirituali suggeritegli dalla grande arte figurativa italiana del Trecento e nell’espressione nel corpo danzante. Ritorna, dunque, il bisogno di cogliere dal passato gli strumenti necessari per superare quel limite e farsi “contemporaneità”, cioè presente. In una nazione, dove l’immagine è chiamata a rispecchiare gli aspetti più cupi e problematici della società civile, coinvolgendo lo spettatore nella duplice dimensione ideologica ed emotiva, Massine coglie dagli affreschi del Trecento italiano quella spiritualità che fa vivere nei corpi dei suoi danzatori: essa rappresenta un elemento di speranza all’interno del difficile tempo storico. Gli affreschi di Simone Martini e di Giotto richiamano i lubok russi che avevano affascinato la sua fantasia fin da bambino; ma soprattutto giunge ad una “universalità assoluta” perché il linguaggio che utilizza è quello di Dio. Vale qui ricordare quanto scriveva, proprio in quegli anni, Lionello Venturi, a proposito di quei “pittori primitivi”, intendendo gli artisti che hanno Teatro Lirico: S. Ambrogio alla Scala “OPERE GRAFICHE” TRANSAVANGUARDIA ITALIANA VIA FUSCHI DI SOPRA 64, 87, 89 82038 VITULANO (BN) www.casaturese.it info@casaturese.it 0824/874650 - 333/3443684 Il movimento di sovrastruttura di significati costruita sulla musica. Una sovrastruttura densa dei significati e delle sfumature più ampie, visto che la vicenda dell’uxoricida folle di gelosia narrata nel romanzo nasce dalla crisi spirituale dell’ultimo Tolstoj e diventa trampolino di lancio per una critica spietata all’istituzione del matrimonio e ai canoni del cristianesimo ufficiale. I turbamenti religiosi vissuti dal Tolstoj degli anni ottanta dell’Ottocento sono il prodotto di una fede intimamente vissuta e di una ricerca di una Verità non concorde con i dettami della religione ufficiale. La critica religiosa tolstojana diventa così rifiuto del dogma e guerra aperta con la chiesa, una vera e propria intuizione anarchico-cristiana frutto di una fede vissuta in modo pieno e sentito, in modo profondo, e mai per abitudine o ritualità. Una fede qui rielaborata come cinica e disincantata critica alla santità della famiglia e al mito della felicità coniugale, alla convenzionalità di una istituzione che tutti tradiscono senza avere il coraggio di ammetterlo. La carne e il soddisfacimento del desiderio di piacere fisico conducono ad un prezzo da pagare, una sorta di terrena dannazione che è la vita coniugale, con le sue finzioni e le sue ipocrisie, le sue menzogne e le sue bugie. È la tragedia delle gelosia, mostro che cresce dentro di noi impossibile da frenare e mettere a tacere, lucida e amara follia, demone delle notti insonni, animatore della nostra furia e del nostro odio, del nostro sdegno e della nostra ripugnanza, motore propulsivo di collera, rabbia cieca e livido rancore, istinto creatore di impeti vendicativi e di desideri di rivalsa e di rivincita. Come lo scrittore russo amava dire, al di là di eventi enormi come terremoti ed epidemie, la tragedia umana più dolorosa sarà in tutti i tempi sempre la tragedia della camera da letto. Evento privato eppure insopportabilmente pesante per la nostra vita pubblica e sociale, evento personale eppure così atrocemente doloroso e insopportabile. Insomma Tolstoj - nelle parole di Vittorio Strada - dipinge in questo doloroso affresco l’«amore come si svolge non nel quieto tran-tran di un igienico reciproco consumo, ma in un suo parossismo di tensione, che del rapporto tra due corpi fa un rapporto disumano tra due corpi umani». Insomma due esseri che pur unendosi non diventano mai uno solo, due amici-amanti-nemici che giocano a sottomettersi l’un l’altro ognuno sempre unicamente concentrato sul soddisfacimento delle proprie brame e delle proprie intenzioni, vittime di una carnalità che è come scrive Strada - «il canale di sfogo di un’umanità infingarda, inetta a spendere altrimenti le proprie energie, ipernutrita […] da un eccesso di cibo inghiottito e vellicata dalle creazioni dello spirito e dalla più incorporea di esse, la musica, in primo luogo». Musica che è tra gli stimoli più forti in grado di spingere questa bassa umanità alla ricerca del piacere più sfrenato e illegale , anzi quanto più inibitorio e rigido è il divieto di non trasgredire tanto più potente e piacevole, e al contempo atroce, sarà la trasgressione compiuta. Musica come la sonata beethoveniana che i due amanti del romanzo eseguono insieme, ritenuta dall’autore uno scrigno sonoro in grado di contenere e trasmettere il demoniaco potere di seduzione e di eccitazione della musica. Musica che in quanto opera d’arte è allo stesso tempo prodotto e stimolo, prodotto in quanto oggetto artistico creato e stimolo in quanto stimolazione psicologica al fare , in ogni tipo di esplicitazione positiva e, inevitabilmente, negativa. In libreria l’ultima fatica di De Simone Cinque voci per Gesualdo e alla sua Napoli Trovato il proprio linguaggio, lʼartista si trova libero dalle fatiche dellʼavanguardia (F. Morlotti) Giulia Iannone Nella foto: il soprano Diana Damrau scritto le prime significative pagine della storia dell’arte italiana tra il XIII e il XV secolo: «In un’opera medievale invece parlano per propria virtù le linee, le forme e i colori. Essi realizzano una espressione individuata, in quanto rivelano l’animo del loro creatore, e assumono un valore universale in quanto sono un aspetto sensibile di ogni essere creato o creabile, non di quel particolare oggetto. Se si è creduto che per individuare un’opera d’arte occorresse individuare l’oggetto rappresentato, si è confuso il modo di rappresentare col motivo preso a trattare,mentre, per individuare il modo della rappresentazione, bisogna che linee, forme, colori siano concreti in quanto contenenti lo stato d’animo dell’artista, non in quanto riproducenti un oggetto concreto. Da tale confusione è derivato tutto il misconoscimento dell’arte medievale, onde non si è compreso che il rapporto medievale tra individualità e universalità, diretto anzi che mediato dallo studio razionale della natura, raggiunge per forza intima la perfezione». Massine percepisce la rivelazione di Dio nell’arte figurativa, ricercandola nelle sue opere e traducendola nel gesto danzante: acquisisce, cioè, l’idea del movimento a cui giungono gli artisti trecenteschi, così come testimoniato, per esempio, dal gesto di “ritrosia” della Vergine nella celebre tavola dell’Annunciazione di Simone Martini. Movimento danzante affidato alla linea (Longhi l’ha definita “funzionale”) che, nelle figure del balletto Rouge et Noir, conosciuto anche come L’Etrange Farandole, andato in scena all’American World Art nel 1937 , trova una certa propensione ad una “funzione” narrativa affidata alla linea dei corpi. Essa trova un preciso richiamo nella scelta delle cromie e delle pose (dei modelli) che Matisse utilizzerà per i costumi ove il riferimento formale ed iconografico è all’Ercole ed Anteo, la piccola tavola dipinta da Antonio Pollaiolo oggi agli Uffizi che l’artista francese aveva potuto ammirare nel suo primo viaggio a Firenze del 1908 e ripreso in alcuni disegni della seconda metà degli anni Venti. In essi è, per l’appunto, una linea funzionale ad organizzare lo spazio scenico: sono linee spezzate che traducono gesti, flessioni cariche di forza che trovano riscontro nelle geometrie costruite emotivamente da contrasti polari. Cosa cambia, dunque, in questa nuova svolta che Massine imporra al balletto? Nelle opere religiose il movimento ritorna ad essere plastico, allontanandosi completamente dal rigore del balletto, per costruirsi attraverso un forte uso del gesto mimico, carico di contenuto. In Laudes Evangelii (la versione analizzata è del 1961, in scena i giovanissimi Tatiana e Lorca Massine nei ruoli di Maria e San Giuseppe, Alberto Testa in quello di Giuda e Elettra Morini nelle vesti di Rachele) il movimento è lento e ampio: come in un bassorilievo, in pratica contenuto nella scatola dell’allestimento scenico che funge da materia-spazio – viene spontaneo il ricordo del fauno di Nijinsky –, le figure sono sagome e il loro gesto segue unicamente traiettorie contenute sul piano. Lo spazio che occupano i personaggi è quello geometrico, accogliendo, per il rigore formale, la sintesi di forma e colore cara agli impianti pittorici propri di Paolo Uccello. Non vi è più la briosità delle diagonali ballate o dei cori sinfonici che, entrando ed uscendo, rendono viva la scena. Essa si carica di contenuto che pesa sui tempi e forma il movimento. Massine restituisce allo spazio scenico il rigore della pittura quattrocentesca. Per tale scelta insisterà maggiormente sull’asimmetria dei gruppi, sviluppando la linea di movimento delle figure femminili, vestite con lunghe tuniche alla Graham che stanno a sottolineare la forza evocativa del chiaroscuro dei panneggi; segue le diagonali, in modo da attraversare da vertici opposti il quadrilatero scenico. L’azione sembra in movimento anche quando le pose sono “gelate”, declinando la profonda spiritualità che pervade la pittura dei “primitivi” italiani. *Il brano è tratto dal volume Un classico sui passi del modernismo (di prossima pubblicazione) per gentile concessione dell’autore. In alto a sinistra: Matisse, studi dal Pollaiuolo, 1935; A destra: Giotto, particolare degli affreschi della Basilica di Assisi; Sopra: Leonide Massine in Nobilissima Visione,1938 Non solo Firenze a Toscana rilancia DOTLINE, un proL getto di programmazione e promozione della danza contemporanea, di GAD 26 OTTOBRE - 31 DICEMBRE 2013 DOTLINE, siamo alla terza edizione Il Progetto toscano di programmazione e promozione della danza contemporanea unico in Italia. Un sistema di risorse e competenze che documenta e sostiene le attività che animano e attraversano la contemporaneità in tutto il territorio della regione. DOTLINE, realizzato con il sostegno di MiBAC e Regione Toscana da A.D.A.C. Toscana l’Associazione Danza e Arti Contemporanee, è uno spaccato sulla danza in tutte le sue declinazioni, con molti eventi presentati nell’arco di tre mesi: un programma unico che mette insieme i luoghi (DOT/punto) e le relazioni (LINE/linea) della danza contemporanea diffuse su tutto il territorio regionale, non solo mostrando le esperienze artistiche delle principali compagnie toscane, ma anche ospitando compagnie italiane e straniere, nell’ottica di un progetto di ricerca, fatto di relazioni, accoglienza e scambio. DOTLINE riflette la straordinaria vocazione della Toscana che per qualità, innovazione, concentrazione e pluralismo, raccoglie numerose eccellenze della danza in Italia. Dallo scorso 10 ottobre al 4 gennaio 2014, DOTLINE è una vera e propria rete di esperienze, di luoghi aperti e spazi di creazione. Un itinerario artistico che unisce luoghi di residenza, compagnie e protagonisti delle arti performative e danza, in un progetto di incontro, produzione e di ospitalità. A fare da impalcatura al cartellone DOTLINE 2013, sono le nuove realtà di residenza artistica della Toscana individuate dalla Regione Toscana per il triennio 2013-2015 come punti di riferimento e luoghi di lavoro, riconoscibili per creatività, autori, stili e contenuti: A.L.D.E.S. (SPAM! Rete per le arti contemporanee | Lucca), Company Blu (Teatro della Limonaia | Sesto Fiorentino), Kinkaleri (spazioK | Prato), Compagnia Simona Bucci (Teatro delle Arti | Lastra a Signa, FI), Sosta Palmizi (Teatro Mecenate | Arezzo), Compagnia Virgilio Sieni (CANGO Cantieri Goldonetta | Firenze), Versiliadanza (Teatro Cantiere Florida | Firenze), Compagnia Giardino Chiuso (Teatro dei Leggieri | San Gimignano, SI). La stagione di danza 2013 prosegue sino all’inizio del nuovo anno con prime nazionali, anteprime, riprese di grandi successi, nuove proposte, presenze italiane e internazionali, per un cartellone ricco e variegato capace di esprimere le produzioni più significative della danza e delle sue contaminazioni. www.dotline.adactoscana.org red. danza In perman enza oper e dei mag giori artisti italia ni ed internazio nali Via Londra, 75 85100 Potenza telefono e fax +39 0971.445880 info@galleriaidearte.it Nella foto: Compagnia Abbondanza-Bertoni, Scena madre www.galleriaidearte.it geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 7 arte moderna interviews È un errore far rientrare sdegnosamente Fragonard nel novero dei pittori di secondo piano, come altri hanno fatto per Watteau (L. Reau, 1956) Il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo (G. Agamben) Acqueforti francesi del Settecento al Metropolitan di New York Nella mente di un pittore il grande sogno di Brera Una mostra internazionale ricostruisce la grande stagione grafica dei pittori del Rococò di Intervista a Franco Marrocco nuovo direttore della storica Accademia nel cuore di Milano di VIRGINIA N tecnica dell’acquaforte, modalità per cui la superficie della lastra viene rivestita con della cera e può quindi essere solcata e disegnata per mezzo di una punta di acciaio, ha trasformato la pratica di una tecnica molto specializzata ed eseguita da un gruppo di persone esclusivo e con alle spalle una formazione completa, in una forma d’arte a cui accostarsi più facilmente. Alcuni artisti, come Antoine Watteau e François Boucher, entrano in contatto con il procedimento dell’acquaforte all’interno del fiorente commercio di stampe parigino: al pittore infatti a volte gli viene richiesto di fare uno schizzo preliminare su una lastra di rame da passare poi all’incisore professionista che aveva il compito di rafforzare il segno. Altri, come Jean-Honoré Fragonard e Hubert Robert hanno l’occasione di sperimentare la tecnica durante i loro anni di soggiorno a Roma, dove lo studio di Piranesi è in prossimità dell’Accademia di Francia. Per altri ancora, come JeanBaptiste Marie Pierre, l’acquaforte ha reso possibile costruire un ponte, un momento di scambio, tra gli artisti e i dilettanti. La Francia del Settecento, forse ancor più di altre nazioni, riserva all’incisione un omaggio a un particolare tipo di soggetto, quello galante e intimistico, con particolare incidenza del ritratto. Si contano uno strepitoso numero di fogli stampati, una folla di incisori modesti o discreti che spesso è formata da membri benestanti della corte o dell’aristocrazia: nobiluomini, amatori delle arti desiderosi di imparare questa tecnica come un colto passatempo. Grazie a queste nuove relazioni fra il mondo degli artisti e quello dei dilettanti, si va creando un nuovo clima, un ambiente fortemente sinergico. La realizzazione di stampe diventa un terreno d’incontro tra la raccolta, lo studio e la loro effettiva esecuzione. Artisti e amatori concorrono infatti a mettere in evidenza la libertà, la spontaneità e la creatività del mezzo di incisione incentivando una nuova e fiorente stagione per questa forma d’arte, sempre più autonoma. Nel corso del secolo, infatti, l’acquaforte finisce per essere considerata non solo un mezzo di riproduzione, ma anche un mezzo di espressione artistica originale e indipendente. L’estetica libera e l’improvvisazione del processo di incisione sono fatti propri dagli artisti francesi che per l’ispirazione guardano ai grandi maestri del Seicento: come Rembrandt nel Nord d’Europa e Salvator Rosa e Giovanni Benedetto Castiglione a Sud. La potenzialità espressiva della tecnica è anche esplorata in maniera più sperimentale da artisti quali Gabriel de Saint-Aubin e Louis Jean Desprez, i quali sfruttano le tonalità dell’inchiostro per le loro visioni personali e idiosincratiche. Questi pittori, spinti dal desiderio di cimentarsi con le lastre, sono invogliati più dall’accessibilità della tecnica che non necessariamente dalla valorizzazione del potenziale commerciale. Le loro stampe tendono ad essere rare e apprezzate per le loro doti di espressività e di sperimentazione ciò che, per molti versi, è all’opposto della produzione di massa e la competenza tecnica di incisori professionali come Demarteau e Bonnet. La mostra del Metropolitan si concentra anche su l’Accademia di Francia a Roma: un ambiente capace di fornire i mezzi e la libertà per esplorare questa tecnica, un luogo in cui gli artisti possono entrare in contatto sia con le incisioni fatte da dilettanti a Roma o a Parigi sia con l’arte del passato. Nel complesso la mostra si presenta equilibrata esponendo un egual numero di opere eseguite da pittori di successo e quelle realizzate da altri meno noti, ma capaci di composizioni, ritratti e figure altrettanto interessanti. Si documenta pertanto in questo modo la tesi secondo cui l’influenza nata dalla relazione fra dilettanti e artisti di professione sia stata reciproca. “Artisti e amatori: l’acquaforte nel XVIII secolo in Francia” prevede un’organizzazione tematica dei lavori esposti che consente di esplorare come, dove e perché gli artisti hanno imparato per la prima volta la tecnica dell’acquaforte, come sono riusciti a gestire la loro sperimentazione occasionale e le loro innovazioni tecniche con il commercio e la vendita delle stampe, in che modo hanno trovato nuovi modi per manipolare il mezzo di espressione individuale. Tra i pezzi forti dell’esposizione anche Le reclute stanno per unirsi al reggimento (ca. 1715-1716) di Antoine Watteau, La famiglia del Satiro (1763) e L’armadio (1778) di Jean-Honoré Fragonard, L’autoritratto di JeanÉtienne Liotard, Andromeda di François Boucher (1734), Vista del Salon del 1753 di Gabriel de Saint-Aubin, lo Studio di tredici teste (ca.1770) di Jean -Jacques de Boissieu e incisione amatoriale che ritrae Nicolas Bremont cuoco presso l’Accademia di Francia a Roma (ca. 1754) di Ange Laurent de La Live de Jully su disegno di Jacques François Joseph Saly. . Nella foto in alto: Antoine Watteau Le reclute stanno per unirsi al reggimento ca.1715-16, acquaforte con punta secca, New York The Metropolitan Museum of Art Fondo Elisha Whittelsey. Nel riquadro: Jean Honoré Fragonard Storie e notizie in versi, 1795 acquaforte, New York The Metropolitan Museum of Art, Fondo Rogers Una mostra al Prado I due capolavori concessi Kunsthistorisches Museum Filippo IV e la sua famiglia nella ritrattistica al tempo di Velázquez Urbino si priva di Raffaello e Piero ora a Sofia e a Boston Vienna. Nella magia della Kunstkammer brilla la saliera di Cellini l Museo del Prado di Madrid propone un percorso attraverso l'evoluzione della ritrattistica di corte all'epoca di Diego Velázquez. La mostra, aperta dall’8 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014, presenta una selezione di 30 opere, di cui 14 dello stesso Velázquez, realizzate a partire dal 1649, data del secondo viaggio a Roma, fino alla morte, avvenuta a Madrid nel 1660. È infatti durante l’ultima decade della sua vita che Velázquez realizzò i maggiori capolavori, molti dei quali sono conservati proprio all’interno del Prado, come Las Meninas. L’opera, commissionata da Filip¬po IV, testimonia la straordinaria lucidità intellettuale dell’artista, acuto osservatore dei meccanismi che regolano i rapporti tra la realtà e il mondo delle immagini. Come Las Meninas, anche le altre opere in mostra, cercano di presentare il complesso processo creativo che c’è dietro la realizzazione del ritratto di corte. A esprimere gli sviluppi del genere dopo la morte del maestro, sono esposte le opere di artisti come Mazo o Carreño, abili interpreti delle idee di Velásquez, capaci di dare un personale contributo allo sviluppo della ritrattistica reale nelle effigi di Margherita d'Austria, Marianna d'Austria e Carlo II. In mostra anche Las Meninas del Dorset dal Kingston Lacy, ritenuta fino ad ora copia realizzata da Martinez del Mazo, discepolo e genero dell’artista, mentre è opera di Diego Velázquez, attribuzione avanzata da Matias Diaz Padron, curatore del Prado, che ha anticipato la pubblicazione di un’indagine articolata sul tema che verrà pubblicata nel 2014. R ecentemente la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino si è resa protagonista per aver prestato alcuni dei suoi pezzi a delle mostre temporanee sparse per l’Europa e non solo. È il caso della Santa Caterinad’Alessandria del giovane Raffaello esposta a Sofia dal 16 al 22 settembre per suggellare la collaborazione tra Urbino e la capitale bulgara, entrambe candidate a diventare “Capitale Europea della Cultura 2019”. Ben più lunga sarà invece la permanenza a Boston della celebre Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che rimarrà negli Usa fino al 6 gennaio 2014 in occasione dell’“Anno della Cultura Italiana negli Usa”. Rimangono le perplessità di fronte ad una politica culturale che sfrutta le testimonianze artistiche del nostro Paese per iniziative propagandistiche che poco hanno di educativo. Ricordando anche un altro discutibile prestito della Galleria urbinate che concesse di recente la quattrocentesca tavola della Città ideale alla mostra forlivese sul Novecento italiano, auspico scelte future in cui, nel delicato rapporto tra cultura e marketing, non si privilegi solo quest’ultimo aspetto, comprendendo tra l’altro come l’opera riesca ad esprimere meglio tutte le proprie capacità comunicative se inserita all’interno del giusto contesto spaziale e collezionistico. Ritengo inoltre che invertire la tendenza attuale (di cui Urbino è uno dei tanti esempi possibili) gioverebbe anche all’appeal dei nostri già malconci musei spesso privati a lungo dei propri capolavori. L I Irene Brilli Nella foto: Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, Ritratto di Filippo IV, ca.1653, olio su tela, Madrid, Museo del Prado 8 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2012 Marco Fagiani a Kunstkammer del Kunsthistorisches Museum di Vienna, torna a mostrarsi in una nuova veste ai visitatori che vorranno ammirarla. Chiusa dal 2002 per lavori di riallestimento e ristrutturazione, la camera è un vero e proprio “museo nel museo”. La sua collezione, che vanta un'eccezionale quantità di oggetti rari di diverse epoche storiche, è unica nel suo genere e ospita adesso anche la celebre e preziosa Saliera di Benvenuto Cellini (1500-1571), trasferita dalle vicine stanze del museo e messa in un sistema di maggiore sicurezza. L'opera, realizzata per Francesco I, era stata rubata durante i lavori nel 2003 e creduta perduta fino al 2006, data del suo ritrovamento avvenuto in un bosco in cui era stata sotterrata. La cornice moderna e la nuova disposizione di questi straordinari capolavori, appartenuti alle collezioni d'arte di personalità storiche dell'impero asburgico, è frutto di un impegnativo lavoro da parte della direttrice, di architetti, studiosi e restauratori che hanno portato a nuovo splendore questi tesori, per un totale di più di 2100 oggetti. Di tutto di più è contenuto nelle nuove venti sale: oggetti strani provenienti da ogni parte del mondo, monete, arazzi, vasi, avori e sculture lignee anche di epoca medievale, che non potranno fare a meno di stupire agli occhi di noi spettatori moderni. Questa collezione, che in passato fu motivo di prestigio degli imperatori asburgici, adesso diventa uno dei gioielli più belli e una spinta d'attrazione verso uno dei musei d'arte più importanti al mondo. Nella foto: Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, 1474, olio su carta riportata su tavola, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Nella foto: Benvenuto Cellini, Saliera di Francesco I, ca.1540-1543, ebano oro e smalto, Vienna, Kunsthistorisches Museum Virginia Migliorini ccanto alla bellezza senza tempo di antiche sculture un’imponente e maestosa scatola bianca (ricostruzione di Habitat di Aachen, installazione ambien- tale dell’artista Luciano Fabro nel 1983) si impone con discrezione all’interno della Sala Napoleonica di Palazzo Brera. È il luogo che esprime al meglio l’armoniosa unione fra innovazione e tradizione voluta dal nuovo direttore dell’Accademia, il professor Franco Marrocco. Pittore poliedrico, docente di Pittura e, da meno di un anno, direttore dell'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano… Professor Marrocco, quando nasce questo suo sogno? «Il mio percorso inizia al Liceo artistico di Cassino per poi continuare all’Accademia di Belle Arti di Frosinone. Agli anni da studente all’accademia risale la mia prima mostra personale, nel 1978: ero poco più che ventenne. Dai primi anni Ottanta arriva anche l’insegnamento in diverse accademie italiane. Da Frosinone mi sono trasferito a Roma, dove insegnavo e contemporaneamente studiavo per perfezionare la mia formazione da pittore. A quel tempo la mia rotta era molto “zigzagata”: risiedevo a Roma e da lì viaggiavo per raggiungere le accademie dove ero docente. Poi l’arrivo a Milano, da insegnante ma anche e soprattutto da artista: era la città che avrebbe finalmente permesso alla mia pittura di andare oltre la dimensione personale». Quando è stato eletto direttore dell’Accademia ha parlato di un suo grande progetto: realizzare un “laboratorio di idee”. Che cosa intendeva? «Il laboratorio di solito viene inteso come la “mano”, ma il laboratorio è anche il pensiero, i contenuti. Il laboratorio di idee è pertanto tutto ciò che afferma che l’opera è figlia di un processo mentale e che il processo mentale si nutre anche dell’opera: è un “doppio gioco”. L’aspetto concettuale non è un elemento a parte dall’aspetto opera: anzi, essi devono convivere e si devono necessariamente fondere. Il motore di tutto ciò è lo studente, con tutta la sua carica emotiva, la sua passione e la sua prospettiva». Tra i suoi obiettivi c’è anche la necessità di potenziare la formazione. Che cosa propone oggi l’Accademia di Brera? «Un tempo l’accademia era formata da quattro corsi fondamentali: Pittura, Scultura, Decorazione e Scenografia. Oggi l’Accademia di Brera, come molte accademie italiane, ha più corsi che si definiscono “scuole”. Qui abbiamo in attivo dieci scuole (il trienno di base) più diversi bienni di specializzazioni. Proponiamo una vasta diversificazione degli indirizzi: dall’accademia storica legata alle arti visive: Pittura, Scultura, Decorazione e, in aggiunta, Grafica, a dipartimenti di nuova creazione come quello di Progettazione (Nuove tecnologie, Design e Scenografia) e quello di Comunicazione e Didattica dell’arte». C’è stato un passo in avanti verso il riconoscimento del diploma dell’accademia come titolo di laurea? «Alla fine del 2012 abbiamo ottenuto il riconoscimento del titolo paritetico a quello universitario; abbiamo dei corsi con dei crediti egualitari all’università e i diplomati all’accademia di Brera possono iscriversi a un corso biennale di specializzazione in una qualsiasi università in Italia e all’estero. Tuttavia, il nostro rimane sempre un diploma accademico di primo o di secondo livello, che non corrisponde esattamente alla laurea. Il nostro auspicio è che si porti a compimento la legge 508 (formulata ormai quattordici anni fa) e che si possa conferire ai professori dell’accademia lo stesso stato giuridico dei professori universitari. Solo allora l’accademia potrà conquistare il pieno riconoscimento del titolo di laurea». Il prestigio di Brera è dato anche dalla sua meravigliosa sede storica. Il cosiddetto progetto della Grande Brera, verso il quale protende anche la sua posizione favorevole, non pensa che possa A FRANCESCA ROSINI ella Francia del XVIII secolo molti pittori, scultori, disegnatori e dilettanti si dedicano alla sperimentazione dell’acquaforte, prima tecnica d’incisione indiretta in cavo, altamente accessibile e tale da permette risultati di gradazioni e sfumature di una morbidezza simile al disegno a mano libera. La mostra “Artisti e amatori: l’acquaforte nel XVIII secolo in Francia” si è inaugurata lo scorso primo Ottobre al Metropolitan Museum di New York ed espone, per la prima volta, una così cospicua selezione di acqueforti originali. Le opere presenti, eseguite da artisti del calibro di Watteau, Boucher, Fragonard, Hubert Robert fanno emergere nuove prospettive di ricerca su come questa modalità d’incisione abbia, nella Francia dell’Ancien Regime, un’ampia diffusione gettando altresì una nuova luce su questa pratica e sulle modalità di patrocinio per gli artisti di quel tempo. In un momento in cui gli artisti tendono ad andare contro il regolamento dell’Académie Royale e ad oltrepassare gli ambienti sempre più polemici del mercato d’arte e del Salon, la tecnica dell’acquaforte offre loro la libertà stilistica che ricercano, permettendo di produrre squisite opere in uno spirito di collaborazione e sperimentazione. La mostra newyorkese, resa possibile dalla Fondazione Schiff e organizzata da Perrin Stein, curatore nel Gabinetto Disegni e Stampe, presenta acqueforti più alcuni disegni e schizzi preparatori, provenienti dai ricchi depositi del Metropolitan Museum, nonché pezzi prestati per l’occasione da diversi musei nordamericani e numerose collezioni private i quali vanno a implementare una selezione di stampe con esempi rari o addirittura unici. Mentre la stampa d’arte è stata dominata da professionisti per gran parte della sua storia antica, la GIULIANO FRANCO MARROCCO è nato a Rocca d’Evandro (CE), il 7 dicembre 1956. È Docente di Pittura e Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Nel 1986 è invitato alla XI Quadriennale di Roma, mentre del 1989 è la personale allestita alla Chambre de Commerce Italienne pour la France di Parigi. Gli anni Novanta vengono inaugurati dalla personale allo OCDE, Parigi, alla quale segue quella tenuta a Palazzo dei Priori, Perugia, nel 1991, per poi continuare con quelle presso il Palais d’Europe, Strasburgo (1994); Sala Polivalente del Parlamento Europeo, Bruxelles, (1998); Museo Butti, Viggiù, (1998); Chiostro di Voltorre, Varese, (1999); XIII Quadriennale di Roma. Tra le principali esposizioni personali di questi ultimi dieci anni, figurano quella ospitata a Villa Rufolo a Ravello e alla Reggia di Caserta, (2000); Istituto Italiano di Cultura, Vienna, (2009); Museo Diocesano, Milano (2011); Museo-Frac di Baronissi 2012; Piccola Sacrestia del Bramante - Santa Maria delle Grazie, Milano (2013). Diverse le presenze a rassegne e collettive recenti: “La pittura come metafora dell’essere”, Istituto Italiano di Cultura, Stoccarda 2005; al 56° e 60° Premio Michetti, Francavilla a Mare; “Il Gioco del Tessile”, Royal Museum, Pechino e Ve Pat Nedim Tor Muzesi, Istanbul (2007); “Un mare d’arte – mediterraneo specchio del cielo”, Palazzo Sant’Elia, Palermo 2007; “Segni del Novecento. Disegni italiani dal secondo futurismo agli anni novanta”, Museo dell’Alto Tavoliere, San Severo di Foggia (2010); 54ª Biennale di Venezia (2011). in qualche modo “svalorizzare” l’Accademia e l’intero quartiere di Brera? Ci spieghi meglio che cosa comporterebbe la Grande Brera. «L’Accademia di Brera nasce con un principio illuministico in cui le arti convivono in un luogo della città in una sorta di scambio. Questa idea, voluta alla fine del Settecento, vive ancora oggi con forte energia. Togliendo l’Accademia da questo palazzo è come togliere la parte fertile, il cuore pulsante. Dobbiamo però fare i conti con un problema di sovraffollamento: ci sono 3700 studenti, abbiamo bisogno di spazi che vadano oltre il perimetro del Palazzo Brera. Il progetto Grande Brera prevede pertanto l’allargamento del museo nel palazzo e l’estensione dell’accademia nella città, con la creazione di un nuovo complesso (non ancora ideato) all’interno dell’ex caserma di via Mascheroni. Grande Brera significherebbe quindi Grande Museo ma anche Grande Accademia. L’accademia cederebbe una parte storica importante (il cortile d’onore di Palazzo Brera) per una parte storica in divenire importante: un edificio paritetico dal punto di vista culturale ma un’architettura contemporanea, d’avanguardia. Brera dovrà sorgere magari dalle macerie di una caserma e dovrà essere un fiore per Milano, qualcosa di fresco, di nuovo». Pensa che l’Expo di Milano del 2015 possa aiutarvi? «Penso proprio di no. È un progetto che richiede non solo cospicui fondi ma anche una riflessione attenta: solo concepire l’idea di una Grande Brera è qualcosa che richiede molti anni. Verrà aperta una parte contemporanea nel Palazzo Citterio ma non succederà nient’altro, è tecnicamente impossibile». Quale sarà il contributo che l’Accademia darà all’Expo? «Stiamo valutando tutte le possibilità. Probabilmente noi diventeremo capofila di un progetto chiamato “Accademia Italia”; saremo i coordinatori di tutti gli interventi culturali e artistici presentati dalle diverse accademie italiane che parteciperanno all’evento». In Italia si continuano a tagliare i fondi alla cultura e crescono i disoccupati nel settore dei Beni Culturali. Che cosa consiglia a quei tanti giovani che decidono di seguire con coraggio la propria passione per l’arte? «Secondo le statistiche tutte le università italiane sono in compressione; noi, a differenza di tutto il panorama nazionale, abbiamo un incremento, un’inversione di tendenza. Questo a prova del fatto che in questo momento di crisi la nuova generazione sta rispondendo, esprimendo un’energia nuova rispetto alla progettualità e ai beni culturali. La cultura è il giacimento economico dell’Italia: dovremmo impegnarci per far decollare questo territorio, che per sua vocazione è territorio di cultura e di arte». Potrebbe essere proprio l’accademia di Brera un esempio per il rilancio della cultura? «Credo che la nostra Accademia possa essere il cuore di questo auspicato rilancio della cultura, in quanto punto di congiunzione di differenti esigenze culturali. Una scuola con un elevato numero di iscritti ogni anno e con il trenta per cento di studenti stranieri, provenienti da 50 paesi di tutto il mondo, diventa automaticamente centrale. La sovrapposizione di culture fa sì che la ricerca diventi di uno spessore qualitativo altissimo, mentre i nostri laboratori teorici e pratici, aggiunti alle convenzioni con enti ed istituti universitari, anche internazionali, sono la testimonianza di un profondo impegno a favore dell’arte. La didattica offerta dall’Accademia insieme all’energia creativa degli studenti portano Brera a porsi al centro della questione». Oggi a Brera convivono Hayez e Luciano Fabro. Il passato ma anche la realtà contemporanea: è questo lo spirito con cui bisognerebbe ridare all’arte il peso che merita in Italia. Nella foto in alto: Laboratorio pittura-Accademia Brera; A sinistra: Franco Marrocco; Sopra: Il Cortile dell’Accademia di Belle Arti-Brera-Milano geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2103 9 arte&istituzioni arte conptemporanea Si può mettere lʼanima in un luogo? (J. Hillman) La cultura non è autonoma, perché nulla è autonomo nel mondo dove le cose sono in una rete di infinite relazioni,… ( R. Cantoni) MACRO. Fotografia - Festival Internazionale di Roma Firenze. “La Primavera del Rinascimento” Cagliari. Un’opera collettiva itinerante Musei e crisi. Crisi dei musei? al 5 ottobre all’8 dicembre 2013, il MACRO ospita “Fotografia - Festival InD ternazionale di Roma” volto a promuovere la “R n occasione della nona giornata del contemporaneo promossa da Amaci la rassegna Icagliaritana del MEM, Gesto Segno Disegno ha fotografia contemporanea nelle sue diverse forme e linguaggi. In occasione sono attivati workshop rivolti ad artisti e a tutti gli appassionati di fotografia e arti visive. Il tema di questa undicesima edizione, diretta da Marco Delogu, è Vacatio interpretata attraverso il mezzo fotografico nel suo significato di assenza, instabilità e transizione. Un tema che pone l’attenzione sulla specificità espressiva della fotografia, alla quale spetta il compito di testimoniare, raccontare sospensioni del mondo e riflettere su quello che manca e che potrebbe esserci in un periodo di incertezza e precarietà. enaissance Revisited” è il titolo del convegno, a cura di Beatrice Paolozzi Strozzi, Alessandro Nova e Hannah Baader, che si terrà dal 14 al 16 Novembre 2013 presso il Palazzo Grifoni Budini Gattai. A seguito della mostra a Palazzo Strozzi (da settembre al Louvre) su “La Primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400-1460”, il Kunsthistorisches Institut di Firenze invita esperti di diverse discipline e molti storici dell'arte per fare un bilancio del concetto, della fortuna e dell'attualità del termine Rinascimento attraverso carrellate panoramiche su singole discipline (retorica, musica, economia), analisi puntuali di casi specifici ed esemplari, storie di tecniche e di prodotti simbolo (come la cupola del Duomo di Firenze), nonché interpre tazioni del fenomeno 'rinascita' nella sua pluralità, per così dire, antropologica. Annamaria Restieri Luca Mansueto m.f. a cultura rappresenta una straordinaria risorsa per lo sviluppo e l’attrattività dei nostri luoghi. Eppure lo Stato investe sulla cultura soltanto lo 0,11% del Pil, alimentando l’impoverimento culturale ed economico dei beni culturali presenti su tutto il territorio. In questo scenario i musei diventano l’emblema di una politica sorda e assente che fa della cultura una delle grandi emergenze dimenticate. Lo scarso coinvolgimento dei privati, un Ministero con troppe funzioni, la mancanza di competenze e progetti a lungo termine delle amministrazioni pubbliche conducono allo spegnimento dei musei e acuiscono la generale incapacità delle istituzioni pubbliche a connettere le risorse e le esigenze sparse sul territorio. Tuttavia i nostri musei necessitano non soltanto di cambiamenti di politiche di settore, essi devono essere in grado di farsi attraversare dalla domanda di nuovi e diversi tipi di pubblico, non soltanto un auditorio di specialisti, attraverso formule espositive o attività allestite in spazi dati in prestito alla comunità, dove questa possa sentirsi rappresentata. La recente esperienza del Madre, Museo d’arte Contemporanea di Napoli, s’iscrive in questa rinnovata percezione dello spazio museale. Il Madre rinasce con tre eventi espositivi, Thomas Bayrle, Giulia Piscitelli e l’omaggio del pittore messicano Mario Garcia Torres ad Alighiero Boetti, segno che l’arte contemporanea può esprimersi solo nel segno del cambiamento e del dinamismo. Insieme alle mostre, si apre un nuovo spazio ribattezzato “Re-pubblica Madre”, luogo di incontro e scambio con i visitatori. Spiega il direttore Andrea Villiani: «L’idea è di ospitare una costellazione di servizi per fare interagire il pubblico con il Madre e viceversa. Ognuno è invitato a dire che museo vorrebbe. Non si può più pensare che i musei debbano solo produrre mostre e cataloghi. Considerare la ricaduta sociale di un luogo dedicato alla cultura è fondamentale». avviato un workshop online che si terrà fino a fine novembre e per il quale è possibile iscriversi in qualsiasi momento, che prevede una mostra collettiva itinerante che ospiterà un’unica opera comune realizzata per l’appunto durante gli incontri online. Nello specifico tramite la compilazione di un form scaricabile dal sito federicocozzucoli.net chiunque interessato potrà modificare l’opera di partenza intitolata Sainte Chapelle. Adottando il metodo relazionale, Cozzucoli intende recuperare la dimensione sociale dell’arte e al contempo affrontare alcuni nodi cruciali dell’estetica contemporanea, relativi all’autorialità e alla fruizione. Tuttomondo vivrà per sempre Posta sotto tutela l’opera che Keith Haring ha lasciato alla città di Pisa l Ministero dei Beni Culturali, con il DPR Idi335/2013, ha dichiarato il murale Tuttomondo Keith Haring di «interesse storico-artistico particolarmente importante». L'opera entra così ufficialmente a fare parte di quei beni culturali che possono godere a pieno titolo delle tutele inserite nel Decreto Legge 42/2004. Il grande murale, ultima opera pubblica che l’artista americano realizza nel 1989, è entrato nel novero delle pochissime opere contemporanee vincolate dalla Soprintendenza per i Beni Artistici; si tratta di un raro caso rispetto al consueto iter che prevede l’applicazione del vincolo al normale decorso dei cinquant’anni della realizzazione dell’opera che si applica solitamente alle opere degli artisti riconosciuti di “chiara fama” e segnalati negli appositi elenchi, costantemente aggiornati, del Ministero dei Beni Culturali. Keith Haring realizza il murale in una settimana di lavoro grazie alla collaborazione con la ditta Caparol. L'opera copre una superficie di circa 180 mq sulla parete della chiesa di S. Antonio Abate e nel 2011 è stata sottoposta a restauro condotto da Will Shank, Antonio Rava e promosso dal Comune di Pisa insieme a Università, Scuola Normale, Soprintendenza e Fondazione Keith Haring di New York. Dall’intervento sono emerse numerose informazioni sul metodo di lavoro dell’artista; ad esempio si è scoperto che iniziò a disegnare tutti i contorni in nero delle figure, completate durante una sola giornata di lavoro e dopo, figura per figura, scelse i colori mescolando personalmente le tinte. Inoltre pare non vi sia stato un disegno preliminare, ad esempio in forma di bozzetto, ma che tutto è maturato, estempo- raneamente, nella mente dell'artista. Con questo Decreto, dunque, il Governo Italiano ha reso omaggio al grande genio artistico di Keith Haring che definì Pisa «un paradiso» e pensò l’opera proprio come permanente. Federica Pace L Ardesia Ognibene Il contemporaneo rivive nelle attività e nei laboratori dei Musei All’alba di un nuovo anno scolastico si sente nei programmi l’urgenza di una didattica dell’arte rinnovata iversi gli eventi organizzati per il venticinquesimo anniversario dalla fondazione dell’Accademia di Belle Arti Mario Sironi di Sassari. Un’istituzione quindi relativamente giovane ma non per questo meno valida delle storiche sedi di Napoli, Firenze, Milano, Venezia, Roma e via discorrendo. Al contrario la sorella minore pare sia attualmente più efficiente e innovativa rispetto alle pachidermiche accademie delle grandi città irretite nei noti sistemi di baronaggio, troppo distratte in manovre machiavelliche che non fanno altro che affossare, semmai ce ne fosse stato bisogno in Italia, l’immagine dell’arte nel sentire collettivo. Tutto ciò a dimostrazione che realmente nel bel paese è necessario lasciar scorrere nuova linfa vitale nel sistema dell’istruzione. Non si tratta di un mero ricambio generazionale ma di un più giusto passaggio del testimone, senza voler cancellare la storia quanto semplicemente fare spazio a parole, idee, progetti. Come D quelli coraggiosamente portati avanti da alcuni giovani professionisti, i quali nonostante i miseri contratti e la precarietà psicologia che ne deriva, non si sottraggono al lavoro, svolgendolo con sempre rinnovata passione, credendo ancora fermamente che sulla trasmissione e il confronto si poggi il cambiamento, la rivoluzione effettiva. Giacché non è del tutto vero che, come scriveva l’anno scorso di questi tempi Roberto Ciccarelli sulla rivista “Alfabeta2”, la scuola (come fucina culturale) è finita. Altrimenti non ci si spiegherebbe l’immane operazione e l’impegno di alcuni musei che hanno fatto della formazione artistica un fiore all’occhiello mettendo in gioco forze fresche e altamente qualificate come educatori, docenti, artisti, storici e critici dell’arte. Lo fa il MART di Rovereto prevedendo laboratori per studenti e famiglie e immaginando corsi di aggiornamento per docenti e soluzioni per gli studenti BES ovvero con bisogni educativi speciali, sempre in linea con le indicazioni Nazionali. Segue il MACRO di Roma che impernia gli incontri sull’adesione attiva degli artisti ospitati con le loro mostre che mettono a disposizione dei ragazzi che vi partecipano, tempo e conoscenze tecniche. Diverso è l’impegno del MADRE di Napoli indaffarato a riscrivere la propria sorte, cercando rinnovate energie nella città giungendo a offrire campi estivi e pianificando incontri per l’anno scolastico 2013/2014 che vedranno in Re-Pubblica Madre il quartier generale. Proseguendo con il Museo FRAC di Baronissi, dove le attività sono incentrate sulla collezione permanente e quindi sulla produzione artistica del Novecento nell’Italia Meridionale, mettendo in grado gli alunni dell’area salernitana di avvicinarsi alla storia del proprio territorio. Infine, ma non ultimo il MACS di Catania le cui officine sono frequentate da un’utenza senza limiti di età o provenienza culturale valorizzando così il potenziale dei gruppi eterogenei. Non resta che augurarsi buon lavoro. Marcella Ferro “Volterra 73” non sembra proprio quarant’anni fa di ENRICO CRISPOLTI i sono degli eventi dʼun recente passato che a diC stanza rimangono tuttora punti di riferimento. Trascorsi quarantʼanni lo è certamente “Volterra 73”, nellʼambito delle esperienze di operatività formativa in propositivo dialogo progettuale ambientale. Non la prima manifestazione in Italia di interesse plastico-visivo ambientale, fra “Sculture in città” a Spoleto nel 1962, per iniziativa di Giovanni Carandente, e “Campo urbano”, coordinato da Luciano Caramel a Como nel 1969, è stata tuttavia quella che ha affrontato, in tutti i suoi aspetti, la problematica di un proficuo e corretto rapporto partecipativo fra operatività progettuale e fattuale plastico-visiva e spazio urbano. Inteso questo sia nel patrimonio iconico-simbolico-memoriale della sua fisicità materiale edilizio-monumentale, sia nella realtà psicologica e comportamentale del suo patrimonio antropologico-culturale. Un precedente è stata la “personale” in spazi urbani di Mauro Staccioli a Volterra lʼestate prima (mia prima occasione collaborativa con il medesimo). Ma per il progetto di “Volterra 73” determinante la solida esperienza culturale, politica e amministrativa (comunale) di Mino Trafeli; realizzato attraverso inviti per cooptazione, affidando al sottoscritto il coordinamento critico anche del catalogo pubblicato dal Centro DI, Firenze, lʼanno seguente. E contenente dai dibattiti preliminari al relativo bilancio comunale, alla documentazione degli interventi, fotografati magistralmente da Enrico Cattaneo. Ma per me unʼesperienza prossima era stata lʼelaborazione con Francesco Somaini, e le sue forti proposizioni plastiche ambientali, che ha portato al libro a quattro mani Urgenza nella città (Mazzotta, Milano, 1972). Pur se a Volterra il confronto era con un centro storico antico, tipicamente italiano, di contro alla scala metropolitana alla quale si rivolgeva Somaini nel suo intervento di recupero emotivo-memoriale urbano collettivo. A distanza lʼesemplarità di “Volterra 73” (“sculture, ambientazioni, visualizzazioni, progettazione per lʼalabastro, problemi del centro storico”) consiste nei suoi scrupoli operativi e nella sua trasparenza di gestione, per una programmaticità esplicita di esperienza nuova partecipativa, come indicato già nel catalogo provvisorio circolante allʼinaugurazione (15 luglio, conclusa il 15 settembre). Ove si dice che «anziché la solita operazione di usare la città (altrui) come vetrina di (propri) prodotti culturali, si è suggerito una sorta di gioco collettivo, lasciando che ciascuno in certo moto corresse il rischio dellʼincontro: lʼoperatore, con un dialogo pubblico a tutti i livelli, comprese le strutture e le istituzioni cittadine; il pubblico, con la realtà del determinarsi e caratterizzarsi degli interventi stessi, non più caduti dal cielo (e dal furgone del trasportatore), ma studiati, adattati, in qualche caso realizzati interamente sul luogo, e in relazione quindi anche ad una situazione locale di maestranze artigiane». Per suggerire «unʼesperienza culturale , che un certo numero di operatori compiono in una città, e che la città compie con quegli operatori: lavorando assieme, fruendo assieme delle opere, in certo modo concorrendo a realizzarle, ma soprattutto concorrendo in modo determinante a costituire lʼesperienza complessiva di “Volterra 73”, una manifestazione perciò molto particolare nel panorama non soltanto italiano». Memorabili in particolare le istallazioni ambientali di Carrino, Cavaliere, Somaini, Spagnulo, Staccioli, Tamburi, Trubbiani, De Sanctis, Magnoni, Nagasawa, Nannucci, e di Boriani, De Vecchi, Davanzati (e i progetti per lʼalabastro); le azioni partecipative di Mazzucchelli, di Nespolo (con lʼOspedale Psichiatrico), e di Isolani; e lʼ “Operazione 24 fogli” (da Vedova a Plessi). Nonché le forti presenze di Trafeli, Vangi, in Palazzo dei Priori, assieme a retrospettive sul lavoro di “Lucio Fontana e lo spazio vissuto”, e dello scultore del “secondo futurismo”, negli anni Venti-Trenta, Mino Rosso; da poco scomparsi. Nella foto in alto: Staccioli, int.sul Piano di Castello 10 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2012 A Volterra l’esperienza di una generazione Intervista a Sergio Borghesi tra i promotori e collaboratori della rassegna a cura di PASQUALE RUOCCO alla storia di “Volterra 73” emergono tre punti di riflessione: innanzitutto la possibilità di dare un profilo alla scultura italiana di quegli anni, soprattutto nei termini di quell’area di ricerca e di esperienze proposta, genericamente, come Arte ambientale. Qual è il suo parere? «La mia storia personale dal 1973 ad oggi si è sempre mossa su due percorsi distinti, il lavoro di artista e quello di promotore culturale, mantenendo un dialogo sempre vivo con il territorio, le sue problematicità e risorse. In questo senso “Volterra 73” è stato il primo passo verso l’Arte ambientale, almeno per quegli artisti, come Mauro Staccioli, che decisero di lavorare a stretto contatto con la città, comprendendone le caratteristiche culturali, economiche e sociali, non limitandosi cioè alla semplice collocazione di una scultura nello spazio urbano». Gli altri due punti riguardavano la possibilità di elaborare interventi nei centri storici e di stabilire un rapporto nuovo tra artisti e pubblico cittadino. Come s'inseriva la manifestazione nell'accesso dibattito sul destino dei centri storici? In particolare contro posizioni di chiusura, come quelle accarezzate da Cervellati per il quale gli unici interventi ammissibili nei centri storici sono quelli di restauro e manutenzione? «La parola d’ordine non fu colonizzare ma dialogare. In questo senso la manifestazione ha rappresentato un modo nuovo di stabilire rapporti tra gli artisti, il centro storico, i cittadini e tutte le problematiche culturali ed economiche che investivano la città. Credo che il metodo allora utilizzato, basato sull’autogestione e il confronto continuo, abbia dato a l’input necessario per fare di “Volterra 73” un evento di riferimento nazionale, all'interno del quale affiorarono vari atteggiamenti :alcuni intervennero nel centro storico e al di fuori della cinta muraria stabilendo sempre un dialogo tra luogo e scultura inserita. Altri invece si limitarono a collocazioni molto ben ‘incorniciate’, dando tuttavia un contributo a tracciare un'immagine del panorama artistico italiano. Bisogna comunque chiarire che nessuno artista, cittadino o amministratore pensava che gli interventi potessero diventare permanenti; solo dopo, infatti, molte delle opere che rimasero alla città furono collocate nei giardini dell’allora Ospedale Psichiatrico, ed oggi purtroppo perdute». D L’originalità di “Volterra 73” è nella sua organizzazione, autogestita con la diretta partecipazione dell’amministrazione comunale e il coinvolgimento degli artisti partecipanti. È una prassi ben lontana da quanto poi ha caratterizzato i decenni a venire, causa della realtà che oggi siamo costretti a vive. «L’evento fu completamente autogestito dagli artisti e da Crispolti, non vi è mai stata l’ingerenza della politica locale. Il PCI si limitò a proporre delle tracce di riflessione: l’Ospedale Psichiatrico – ricordo che da lì a poco verrà approvata la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi – e l’artigianato dell’alabastro. Nel primo caso Ugo Nespolo lavorò con i degenti dell'ospedale realizzando una gigantesca pillola calmante, poi bruciata sul piazzale della Docciola». Il secondo fu approfondito attraverso incontri tra designer, artisti – penso a Boriani, De Vecchi, Davanzati, a Interno 13 - e artigiani, con l’intento di rivitalizzare un settore che iniziava a dare i primi segnali di stanchezza, soprattutto per la riproposizione di modelli ormai vecchi e sempre meno qualificati dal punto di vista della progettazione e della manualità». Alla luce di tali considerazioni come si ripropone l'immagine di “Volterra 73” che ha aperto una significativa strada al dibattito arte-città? Sarebbe immaginabile, nell’attuale contesto culturale italiano, (ri)mettere in campo una manifestazione che, con registri aggiornati, abbia la stessa tenuta progettuale? «Credo che “Volterra 73” abbia mantenuto nel tempo un profilo culturale molto alto, sia per quello che fu il dibattito arte e città, sia per come ha stimolato lo stesso contesto cittadino coinvolgendo gli studenti dell'Istituto d’Arte nonché soggetti, come il sottoscritto, che nel tempo hanno contribuito a dare continuità a quel metodo di lavoro: penso alle iniziative all’interno dell’ospedale di teatro sperimentale e cinema d’artista; all’esperienza dello Spazio Multimediale; all’apertura al contemporaneo dell’ex Pinacoteca Civica in Palazzo dei Priori. Ricordo ancora il lavoro dello Studio Azzurro, che affrontò con Tempi d’inganni il problema dell’alabastro e con il film Il graffito il lavoro di Oreste Nannetti, ricoverato presso l'ospedale, meglio conosciuto con NOF4; ancora l'impegno di Volterra Teatro e della Compagnia della Fortezza all'interno delle carceri. Purtroppo nel 2009, con un’amministrazione civica di destra, questo importante ciclo si è concluso». geaArt Nella foto in alto: Sergio Borghesi Piano di Castello Volterra, 1973; Sopra: Franco Mazzucchelli gonfiabili Piazza dei Priori; Shu Takahashi int.est.Battistero; Fabio De Sanctis Valigia al Piano di Castello numero 6 - ottobre-novembre 2103 11 arte contemporanea La visione del pittore è una nascita prolungata (M. Merleau-Ponty) in vetrina Il globale è transculturale. Un nuovo approccio scientifico e interdisciplinare universitario Intervista a Monica Juneja, dal 2009 docente di Storia dell’arte globale presso il gruppo d’eccellenza (Cluster) Asia e Europa istituito a Heidelberg nel 2007 La rinascita dell’incisione nel primo Novecento Emilio Mazzoni Zarini di ROBERTA GIULIANI ino al 17 Novembre il Museo civico Giorgio Kienerk ospita la mostra F “Emilio Mazzoni Zarini e la rinascita dell'incisione nel primo Novecento” nella quale si possono ammirare opere provenienti dalla collezione Giorgio Kienerk. Tale evento è stato organizzatoa in occasione della donazione che la figlia Vittoria ha effettuato al Comune di Fauglia per disposizione testamentaria, ed è stato curato da Giovanna Bacci di Capaci e Piero Pacini. La mostra nasce con l'intento di riscoprire l'opera di uno tra i maggiori incisori di inizio XX secolo: artista di educazione tardo macchiaiola, Zarini nasce a Firenze nel 1869, dopo un esordio come pittore approfondisce la tecnica dell'incisione ispirandosi ai grafici inglesi e olandesi, tra cui Charles Goff e Philip Zilcken. Il suo nome è legato a Giorgio Kienerk da lunga amicizia, celebrato dalla critica internazionale fino agli anni Trenta e poi dimenticato per la sua scelta di non aderire ai dettami del regime fascista o ad alcun movimento artistico di rilievo. L’esposizione propone oltre cinquanta opere, di queste 34 acqueforti, 6 dipinti e 15 disegni. In particolar modo le acqueforti mettono l’accento sul lato più innovativo dell’interesse del pubblico per un aspetto del panorama artistico italiano di cui in realtà poco si parla. Il campo della grafica di inizio Novecento vede tra i suoi rappresentanti nel campo del centro Italia nomi quali Luigi Bartolini e Walter Piacesi, entrambi legati alla rappresentazione del paesaggio naturale, in particolar modo quello marchigiano. Il mondo dell’incisione è un mondo rivolto alla riproposizione dettagliata del particolare, dove il volto delle città e degli ambienti si colora e si definisce per attenti e calligrafici accorgimenti che dall’occhio dell’artista passano alla lastra. Il paesaggio toscano, ma anche umbro, romagnolo e laziale è, nelle opere di Mazzoni Zarini protagonista indiscusso della rappresentazione, non solo nel suo aspetto più naturale, ma anche visto attraverso gli scorci urbani, con particolare attenzione al greto dell'Arno, a Ponte Vecchio e al Giardino di Boboli. Si riscopre insomma, con l’occasione di questa esposizione un aspetto dell’arte italiana ingiustamente messo nell’ombra in virtù di un’errata declassazione artistica e che piuttosto è portavoce di un’espressione artistica legata ad un’attenta conoscenza della tecnica e ad un approccio materiale all’opera d’arte del tutto singolare ed esclusivo, tale approccio è ciò che pone l’incisore nella condizione, specie in questo caso in cui le opere sono acqueforti, di non avere margini di errore nella composizione finale dell’opera e di avvicinarsi alla lastra solo dopo un’attenta costruzione visiva dell’opera. di MARIACHIARA GASPARINI ei è membro attivo del Cluster Asia and Euope presso l’Università di Heidelberg e docente di storia dell’arte globale, ci spiega l’idea di questo gruppo e il concetto di “transculturalità” come approccio scientifico e interdisciplinare? «Il Cluster è stato istituito all’interno del quadro di iniziative del governo federale tedesco per rinvigorire l’educazione universitaria incoraggiando ricerche innovative; un modo più attivo che si interfaccia fra la ricerca e l’ insegnamento, per promuovere la cooperazione internazionale. I gruppi di eccellenza, creati in alcune università tedesche sono selezionati in maniera altamente competitiva. L’“Asia and Europe in a Global Context. The Dynamics of Transculturality” istituito all’Università di Heidelberg nel 2007, raccoglie studiosi che investigano sulle storie relazionali fra l’Europa e l’Asia da una prospettiva teoretica di “transculturalità”. L’esplorazione di queste relazioni richiede lo studio di diverse regioni e competenze linguistiche europee e asiatiche. Queste sono presenti a Heidelberg da molti secoli nei dipartimenti di varie aree di studio, tuttavia avere degli istituti all’interno del sistema universitario ha significato che ognuno di questi dipartimenti esistesse e lavorasse separato dall’altro. Le problematiche della ricerca sono state definite in modo ermeticamente chiuso e la storia e la cultura di ogni regione considerata come una forma assolutamente pura l’una dall’altra. Il ruolo importante del Cluster è quello di portare queste competenze ad un livello comune, inquadrando un programma di nuove ricerche che possa avvicinare diverse regioni dell’Eurasia tramite cinque nuove cattedre (Storia intellettuale, Storia dell’arte globale, Antropologia visiva e dei media e Studi buddisti)definite dalle varie discipline, che fanno da ponte fra gli istituti universitari e il Cluster. Le cattedre sono tutte attente a ricreare le sedi delle singole discipline in una struttura che trascenda le frontiere culturali e regionali in un prospettiva transculturale». Cosa è “transculturale”? «“Transculturalità”nella nostra comprensione denota un processo di trasformazione che si apre attraverso i contatti e le relazioni estese fra culture. Il concetto può essere usato per riferirsi a un concreto oggetto di investigazione o come metodo di analisi. La categoria dedotta di cultura, così come emerge nelle scienze sociali, assieme al concetto moderno di nazione, fu creata sulla premessa che i mondi di gruppi distinti fossero etnicamente chiusi, internamente coesivi e linguisticamente omogenei.“Tranculturalità” significa mobilità nello spazio, circolazione o scorrimento ma non è né loro sinonimo né è riducibile a questi. La transculturalità va al di là degli scorrimenti, focalizza i processi all’interno di circuiti di scambio in contesti locali nei quali varie forme emergono. Lo scopo della nostra ricerca è quello di scoprire le multiple strade sulle quali la diversità è negoziata con contatti e incontri, attraverso selezionate appropriazioni, mediazioni, traduzioni, “re-storicizzazione”e la rilettura dei segni; alternativamente attraverso la non-comunicazione, al rifiuto e alla resistenza, o una successione/co-esistenza di ognuno di questi. Esplorando le possibili varietà di transazioni avvenute in questi lavori dinamici come salvaguardia contro concezioni polari di identità e alternanza, o contro le dicotomie fra l’assorbimento completo e la resistenza quando si discutono relazioni fra culture». Come spiega il concetto di “globale” e in particolare di “arte globale”? Può la storia dell’arte essere globale? L «I termini“globale”, “arte globale” e a seguire “storia dell’arte globale” sono evasivi; è difficile definire il loro significato tenendo conto delle varianti con le quali vengono utilizzati. Hans Belting ha definito arte globale quell’arte contemporanea delle culture non-occidentali che possono essere viste nei circuiti delle esposizioni globali. Questa definizione ha trovato uso corrente; tuttavia, essa è la visione europea dell’arte del resto del mondo. Non è globale anche l’arte contemporanea europea che fa parte di uno stesso circuito internazionale? La storia dell’arte globale come designazione disciplinare non è confinata al periodo contemporaneo. La cattedra in storia dell’arte globale del Cluster di Heidelberg, il primo e ancora l’unico di questo genere nelle regioni di lingua tedesca, intende “globale” come transculturale. Essa lavora per ridefinire le unità della storia dell’arte, lontano dalle strutture nazionali, seguendo la logica del movimento degli agenti, degli oggetti e delle pratiche. Esso implica un decentramento della disciplina e introduce molteplici punti di vista, piuttosto che procedere dall’Europa come unico centro. Ciò include il ripensamento dei concetti base delle discipline che furono create nel contesto europeo e che sono ora applicati al resto del mondo. Alcune categorie importanti della storia dell’arte transculturale-globale come la copia, la traduzione, l’adattamento, la riconfigurazione, il rifiuto e la resistenza hanno bisogno di essere liberate da connotazioni negative create dal modernista privilegio di “originalità”». Viviamo nella cosiddetta “globalizzazione” ma è (o può essere) ogni cosa veramente globale? Quali sono i limiti o i confine a ciò? «Tendiamo a pensare alla globalizzazione come alla modernizzazione, omogenizzando un processo che si divulga da alcuni centri dell’Occidente e appiattisce le differenze del mondo. Pensiamo anche in termini di un binario glocale-locale che vede il locale come un posto di resistenza, di “autenticità”, il quale si oppone al globale che funge da forza di dissoluzione e frequentemente alienazione. E infine incontriamo anche il temine glocal (coniato da Roland Robertson) che semplicemente si riferisce alle ovvie connessioni fra il globale e il locale senza spiegare la natura della relazione che può variare a seconda del tempo e del contesto regionale. Tuttavia, un approccio transculturale ci aiuta a vedere questi processi in una maniera più critica e non vedere la globalizzazione come un processo uniforme o il locale come un puro intatto spazio di tradizioni». Cosa dovremmo preservare della nostra cultura e cosa dovremmo lasciare fuori per equa e bilanciata relazione transculturale fra regioni e paesi? «Una prospettiva transculturale non è contro una propria cultura, piuttosto è un mezzo e una prospettiva che ci aiuta a capire come quella cultura che chiamiamo nostra si sia formata nella storia e si formi nel presente. In altre parole, noi diventiamo sensibili ai modi nei quali alcune culture si formano attraverso relazioni interattive con altre culture, e non come “puro” prodotto di nazione o località. Questa comprensione può essere arricchente, anche identificando certe pratiche culturali e realizzando che l’etnocentrismo, o in forma più estrema la xenofobia, sono spesso reazioni alle storie delle correlazioni culturali». Quest’anno Lei è stata una dei relatori ospiti della Biennale di Venezia. Qual è stata l’impressione generale dell’evento che raccoglie esperienze artistiche provenienti da diverse aree del mondo? «La Biennale di Venezia continua a essere organizzata seguendo la linea delle singole nazioni. Ogni nazione, spesso istituzioni di stato, è responsabile per la mostra del proprio padiglione. L’arte continua ad essere strettamente collegata all’identità nazionale anche se il circuito globale incoraggia forme dinamiche di scambio che trascendano i sentimenti nazionalistici di appartenenza. Gli stati e le nazioni-stato continuano ad essere una cornice fondamentale, in senso autorizzante e sovversivo. Allo stesso tempo diventano spazio di identità e luogo centrale per i partecipanti provenienti da giovani nazionistato come le nuove repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale o le nazioni dell’Africa che ora incominciano a trovare un posto sulla mappa della storia dell’arte globale, ottenendo visibilità su una piattaforma internazionale». Pensa che oggi la gente abbia un approccio diverso all’arte? È educata alla comprensione del- http://www.asia-europe.uni-heidelberg.de/en/ Geometrie d’arte, bizzarrie di Escher Il rapporto tra differenti discipline è una costante del XX secolo. Non si sottrae a questa suggestione Maurits Cornelis Escher la cui arte è prossima ad influenze provenienti da matematica e psicologia. A lui Palazzo Magnani dedica l’antologica “L’ENIGMA ESCHER. Paradossi grafici tra arte e geometria”, visitabile dal 19 ottobre 2013 al 23 febbraio 2014 e curata di Marco Bussagli, Federico Giudiceandrea, Luigi Grasselli con Pier Giorgio Odifreddi come coordinatore scientifico. In mostra la produzione dell’artista dai suoi primi passi fino alla maturità, il tutto organizzato attraverso il confronto con gli autori “influenzanti ed influenzati”. M. Cornelis Escher, Relatività, luglio 1953, litografia Venezia, Fondazione Prada When Attitudes Become Form La Fondazione Prada presenta a Ca’ Corner della Regina la mostra “When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013”, a cura di Germano Celant in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas. Il progetto ricostruisce nella sua originaria interezza l’emblematica mostra curata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle di Berna nel 1969, passata alla storia per il radicale approccio espositivo che solennizzò il carattere fortuito e caotico dell’arte. Un’operazione che pone nuovi interrogativi sulla riproducibilità di un evento, arricchendo ulteriormente le espressività del linguaggio curatoriale. Scrive Celant:« L’atto di estrapolare l’esposizione da Berna e trasportarla a Venezia l’ha tramutata in un ready-made, conferendole un valore diverso che funziona da ulteriore stimolo cognitivo». When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013 Passo del Brennero, Plessi Museum Un’autostrada a regola d’arte Lo scorso giugno, in prossimità dell'ex-dogana tra Italia e Austria, è stato inaugurato il Plessi Museum, una struttura architettonica innovativa, che ospita al suo interno, una sede espositiva permanente dedicata all’arte di Fabrizio Plessi, artista nato a Reggio Emilia nel 1940, ma veneziano d’adozione. Promosso dall’Autostrada del Brennero Spa, l’edificio progettato dall’ingegner Carlo Costa, rappresenta il primo esempio italiano di spazio museale in autostrada. Sarà un simbolo di connessione tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo, laddove, dalla fine della prima guerra mondiale all’entrata in vigore del trattato di Schengen il confine aveva rivestito, invece, un ruolo di separazione. Veduta dell’esterno del Plessi Museum Ferrara, Palazzina Marfisa D’Este What is the story? È dalla magia suggerita dalla parola favola e dall’idea di inscenare un possibile racconto l’ispirazione, da cui prende le mosse la mostra che vede coinvolti gli artisti: Giulia Bonora, Eva Frapiccini, Federico Lanaro, Roberto Pugliese e The Bounty Killart. Animali fantastici, oggetti bizzarri, suoni stranianti prendono così posto all’interno della rinascimentale dimora esten- se. Evento parte del progetto “Dentro le Mura”, realizzato nell’ambito di Creatività Giovanile, promosso e sostenuto dal Dipartimento della Gioventù - Presidenza del Consiglio dei Ministri e dall’Anci. La mostra a cura di Yoruba diffusione arte contemporanea, è aperta al pubblico da domenica 13 ottobre fino al 31 dicembre 2013. Lanaro - Home sweet Home Milano, PAC Adrian Paci, Vite in transito “Vite in Transito” è il titolo della retrospettiva che il PAC di Milano dedica, dal 5 ottobre al 6 gennaio 2014, all’artista albanese Adrian Paci. La mostra, a cura di Paola Nicolin e Alessandro Rabottini, raccoglie una varietà di opere realizzate dalla metà degli anni Novanta fino alla sua recente opera filmica The Column del 2013. Nella varietà di linguaggi espressivi che spaziano dal disegno alla fotografia, dalla pittura al video e alla scultura, l’artista riflette, partendo dalla sua stessa esperienza personale legata all’abbandono della nativa Albania, sui temi dell’immigrazione: abbandono, ricordo, ricerca costante, speranza. In alto: Sonia Falcon, Campo de Color, 2012, installazione; A sinistra: Franco Sortini, Berlino, 2012, fotografia; Huang Yong Ping, Buddha’s hands, 2006; A destra: Pipilotti Rist, Laguna, 2011: Stefano Bombardieri, Tigre tibetana (The faunal countdown), 2012 Adrian Paci, Per Speculum, 2006, fotogramma del film A CURA DI: Linda Gezzi, Ardesia Ognibene, Federica Pace, Maria Letizia Paiato, Annamaria Restieri Nella foto in alto: Emilio Mazzoni Zarini, Pensierosa, puntasecca 12 l’arte? Ha la sensibilità per comprenderla? «Penso che oggi molta più gente sia esposta all’arte, sia a quella contemporanea sia alle mostre e alle collezioni dei musei. L’arte contemporanea ha fornito un’apertura infinitamente elastica della definizione di “opera d’arte”. Può essere qualcosa di temporaneo, fatto di materiale deteriorabile e non più legato a norme estetiche stabilite, può essere un oggetto di uso quotidiano o un’immagine digitale, un monumento impacchettato, una performance animale o perfino un embrione umano. Questa larga definizione è oggi condivisa dagli spettatori di tutto il mondo perché accettiamo la premessa che nel momento in cui l’oggetto entra nel dominio della curatela e della mostra venga intitolato “arte”. Questa comune comprensione dipende dall’accesso a certi tipi di informazioni e conoscenza. Quegli individui nelle società del mondo che non godono dell’accesso alle istituzioni, all’esperta conoscenza dell’arte o che condividono il credo nelle proprie funzioni autonome e trasgressive, coesistono e funzionano sull’altro lato del mondo diviso da una linea». Lei vive in Europa da molti anni, quale pensa sia la principale differenza fra la cultura e l’arte europea e quella asiatica? «Non è una domanda facile questa. L’Europa e l’Asia sono delle entità enormi come lunghe storie, qualunque cosa dicessi esprimerebbe essenzialismo culturale, che è esattamente l’opposto della transculturalità per il quale lotto». Lei si vede “transculturale”? «Questa è una domanda interessante. Mi sono spesso chiesta come sarebbe pensare in termini di «io transculturale»? A che grado l’identità è formata dal colore della pelle o dal passaporto? Essere a casa in molte lingue e culture ti libera dal pensiero di essere legato ad un’unità e ti rende in grado di riunire diverse risorse culturali, linguistiche ed emotive. Ogni volta che vado in India, dove ho trascorso molti anni della mia vita e dove ancora vivono la mia famiglia e i miei amici, è come ritornare a casa. E quando ritorno in Germania, dove lavoro, vivo e ho anche la famiglia, pago le tasse e voto, è come ritornare a casa. Credo che questo significhi essere “transculturale”». L’ultima domanda, dopo i prossimi cinque anni di finanziamento che ne sarà del Cluster? Come divulgare la sua filosofia e far in modo che altre istituzioni (generalmente molto conservatrici) la studino e magari ne adottino gli aspetti caratterizzanti? «Dopo il 2017 non ci sarà più ufficialmente nessun Cluster, ma il raccolto istituzionale e accademico di ciò che avremmo fatto in questi anni non sarà semplicemente dissolto. Lo scopo di questo enorme investimento di energie e risorse è precisamente quella di far diventare queste strutture parte permanente del sistema universitario. Il nostro istituto diventerà “The Heidelberg Centre for Transcultural Studies”. Inoltre entreremo a far parte di un’organizzazione più grande formata da altri istituti (sinologia, yamatologia, studi sud-est asiatici ,etnologia) per la creazione del “Centre of Asian and Transcultural Studies” (CATS). Questo continuerà il lavoro assieme all’istituto di storia dell’arte europea, storia e antiche civiltà cosicchè il compito iniziato dal gruppo di eccellenza sarà portato avanti da un nuova formazione istituzionale. Reggio Emilia, Palazzo Magnani geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 13 metropolis arte contemporanea Lʼidea dellʼAmerica è meravigliosa perché più una cosa è uguale più è americana (A. Warhol) La visione del pittore è una nascita prolungata (M. Merleau-Ponty) Al Man di Nuoro Alessandro Biggia bracciante dell’arte B HELP! Les Carnets Maryan S. Maryan: la necessità di mostrarsi nell’inquietudine del segno e dei suoi “umori” di CATERINA POCATERRA l Musée d’art d’histoire du Judaisme, situato nel cuore del quartiere ebraico di Parigi, fin dalla sua apertura, nel 1998, ha accompagnato il proprio pubblico alla riscoperta di artisti ebrei, la cui vita fu tragicamente spezzata dalla furiosa macchina nazista. Per questa stagione, dal 6 novembre al 9 febbraio, il Mahj ospiterà, nelle stanze dell’Hotel Saint Aignan, le opere di Maryan, in una mostra dal titolo La managerie humaine. Nelle sale saranno presenti anche alcuni stralci del film Ecce Homo girato nella sua stanzalaboratorio al Chelsea Hotel di New York. La pellicola carica di umorismo e di devastante disperazione è la rappresentazione di un artista che riflette sulla sua infanzia e sulla guerra lasciandoci piccoli lapidari in un inglese macchiato di francese, yddish e polacco. Ad ogni modo la chiave di volta sarà rappresentata da 478 disegni che, pubblicati per la prima volta, ci permetteranno una nuova interpretazione dell’opera di Maryan.Un progetto di lunga data per il Mahj parigino che ha preparato questa esposizione cercando di non tradire la volontà dell’artista, il quale per non diventare bersaglio di critici collezionisti di etichette si è per tutta la vita opposto a classificazioni generaliste, rifiutando che il suo lavoro potesse essere legato alle sole vicende della Shoah. Si deve ammettere che la sua esperienza non può essere spiegata riducendo tutto a un rapporto immediato con la storia, ma è altresì vero che nel lavoro di Maryan ritroviamo tutta I un’intimità che difficilmente potremo non ricondurre al suo passato. La sua pittura oscilla tra figurazione cubista e astrazione, mettendo in scena un carnevale di creature, metà uomini metà animali che incarnano potere, autocompiacimento, disgusto e idiozia secondo una visione brutale, avida di colori e di energia. Tuttavia definirlo semplicemente un pittore è ignorare l’apporto considerevole legato alle pratiche del disegno e della litografia. Per la prima volta, infatti, la serie degli 8 carnet di disegni realizzati tra il 1971 e il 1972 verrà mostrata in questa esposizione. Di per sé nulla di sorprendente, salvo a considerare che nel 1971 Maryanè a New York e su richiesta del suo psicoanalista comincia ad utilizzare il disegno come terapia contro i fantasmi che affollavano la sua mente. Del resto se la cornice newyorkese gli aveva concesso una grande libertà, aveva anche acuito la sua fragilità, fisica e mentale, incline a perdersi nella follia. Proprio sulla soglia di tale follia Maryan riempie, febbrilmente questi carnet, a cui volle probabilmente affidare la verità su se stesso. L’artista traccia qui, frammento dopo frammento, il suo autoritratto e insieme fa emergere la sua versione della storia. Si tratta di pagine e pagine di inchiostro nero, immagini dense di incertezza e sgomento, pensieri allucinati, ossessioni devastanti, abitate da un coacervo di figure sogghignanti, guardiani della crudeltà, giudici, inquisitori, carnefici. Il più delle volte si tratta di bambini terrorizzati, burattini disarticolati, nei quali l’artista sembra immedesimarsi per affrontare il suo passato denso di dolore. Psicologicamente dunque molto provato, Maryan attraverso questi disegni interpreta la parte più fragile dell’essere umano, la sua necessità di svelarsi tale che l’inchiostro si fa efficace mezzo di autoanalisi. Specchio dunque della sua debolezza, tali prove grafiche individuano al tempo stesso la sua forza. Rappresentano infatti una sorta di rivincita postuma nella misura in cui questi carnet oggi gli sopravvivono documentando la sua parabola di uomo e artista. Con essi egli consegnala chiave di ingresso e di comprensione al suo mondo di sentimenti ed alla sua dimensione espressiva. Un dettato che traduce la confessione di un’anima sul bordo del precipizio, lo sfogo di uno spirito che lancia il suo grido prima di sprofondare nel buio di quella follia che lo avrebbe portato, sei anni dopo, ad una morte prematura. Parigi, Pièce Unique Conservare l’arte gonfiabile dopo sessant’anni dalla sua comparsa Donald Sultan risuona l’eco negli spessori della materia olte sono state le riflessioni in ambito artistico sul vuoto in relazione al pieno, ma prima della comparsa delle plastiche a nesM sun artista sarebbe mai venuto in mente di utilizzare l’aria stessa come a galleria Pièce Unique di Parigi propone fino 22 dicembre la mostra “Echoes” dedicata a Donald Sultan. Con le sue opere, create L in esclusiva per questa occasione, Marussa Gravagnuolo e Christine materia. Negli anni Sessanta la plastica era il materiale innovativo e contemporaneo per eccellenza: la varietà sempre più vasta di materie sintetiche che compariva sul mercato invadendo la vita quotidiana forniva continuamente agli artisti nuove possibilità espressive da sperimentare. Quale materiale migliore, allora, per evadere dagli spazi espositivi convenzionali e dal circuito commercializzato dell’arte? Ecco così sculture gonfiabili come quelle di Franco Mazzucchelli che, “abbandonate” in strade, piazze e parchi come opere “usa e getta”, incontravano un pubblico di grandi e piccini in barba all’aura di opera d’arte eterna e intoccabile. L’essenza di queste opere sta proprio nella loro interazione col pubblico, non vi era quindi da parte degli artisti un interesse conservativo al di là del momento performativo-interattivo. Studi e ricerche sul degrado e la conservazione delle plastiche risalgono agli ultimi decenni, e oggi anche gli artisti che creano tali opere manifestano un maggiore interesse per la durabilità del materiale e talvolta anche per la sua ecologicità. Tuttavia il degrado del PVC plastificato, vastamente utilizzato per i gonfiabili, come gli A. to A. di Mazzucchelli a Volterra nel 1973, è inevitabile in quanto si tratta di un processo innescato dalle alte temperature nel momento stesso della produzione industriale. Lahoud hanno anche allestito lo spazio di rue Mazarine. Noto sulla scena internazionale da oltre dieci anni, Sultan mancava pertanto a Parigi dal 1993. Vi fa ritorno dunque con una serie di nature morte, ove la tradizione si fonde ad un processo di rigenerazione dei linguaggi dell’arte per i quali a far da fondo alle immagini sono strati di masonite e mattonelle in vinile, sottratti al mondo industriale delle costruzioni. Una dichiarata sensualità ci ipnotizza su queste stratificate superfici da cui fioriscono delicate silhouette che risuonano dell’eco di una avvertita coscienza per la quale queste figure accendono e spengono fragili significati. Un pieno controllo della sua opera si rivela ad uno sguardo attento proprio nell’incrocio tra i materiali impiegati e la scelta del soggetto che spesso non è altro che la rappresentazione di se stesso, alle volte banalmente ordinario. Donald ci suggerisce cosi la magia del banale, che ha in sé una forza straordinaria nata nel momento in cui su di essa si ferma lo sguardo dello spettatore. Sulla scia di quest’onda l’artista accompagna il pubblico in un viaggio gentile in cui, la serialità del suo lavoro ci abitua all’idea di qualcosa che man mano che ci si addentra raggiunge gradi di significazione, nonché diverse sfumature e intensità, a seconda dell’occhio che vi si pone innanzi. numero Nella foto: Ian Pedigo e Alessandro Biggio, Braccia - Mute cavallette, 2013, stampa fotografica, Courtesy MAN design for print Serena Francone c.p. Nella foto: Franco Mazzucchelli, Gonfiabili in piazza dei Priori, Volterra, 1973 Nella foto: Donald Sultan, Lantern Flowers Grey and White Aug 23 2012”, 2012,© Donald Sultan, Courtesy Galerie Pièce Unique 6 - ottobre-novembre 2013 Marcella Ferro Nella foto in alto: Carnet de dessins n.9, 1972, Paris, Centre Pompidou Musée national d’art modern – Centre de creation industrielle Dist. RMN – Grand Palais/ Philippe Migeat Restauro dell’arte contemporanea 14 geaArt raccia, sono quelle messe a disposizione dall’artista Alessandro Biggia, che dalla sua abitazione in Sardegna ha fatto lavorare idealmente, su indicazione di Alexandra Bircken, Michael Höpfner, Luca Francesconi, Jessica Parker Valentine, Ian Pedigo e Luca Trevisani. Braccia è il titolo della mostra che ne è scaturita al termine dell’estate e che prevede due momenti espositivi presso il Man di Nuoro e nel mese di dicembre al Museo Marino Marini di Firenze. Con la curiosa idea di diventare operaio di visioni altrui, Biggia ha selezionato in base ad affinità immaginative e poi contattato alcuni artisti internazionali, invitandoli a fornirgli le istruzioni per la realizzazione di opere inedite. Obiettivo la rottura del concetto d’isola nonché isolamento che ha fatto del suo atelier un punto d’incontro fra idee ed espressioni diverse. Tuttavia questa è solo una delle attività in programma per il calendario autunnale del Man avviato il 13 settembre scorso con una rassegna dedicata a Norman McLaren, animatore sperimentale, del quale saranno esposti per un lungo periodo film e cortometraggi realizzati fra il 1940 e il 1980 e che proseguirà con la personale fotografica Altri Sensi della torinese Laura Pugno che prova a raccontare attraverso i suoi scatti, una Sardegna svincolata dalle immagini stereotipate dei tour operator, inducendo lo sguardo a esplorare liberamente luoghi aspri e poco conosciuti come quelli del Supramonte. Abbandonando la bellezza del mare Pugno ci spinge verso la scoperta di complesse dinamiche relazionali con la natura. depliant brochure locandine manifesti grafica editoriale (periodici, giornali, riviste, libri) e tutto quello che riguarda la carta stampata antonio de marco c.so garibaldi 13 portici (na) 80055 tel. e fax +39 081476702 +39 3298257990 centomanidesign@gmail.com antonio.demarco1@gmail.com Diario di viaggio a NY: itinerari nell’arte a Manhattan A spasso tra terra e cielo nella città del futuro per addentare la Grande Mela di LINDA GEZZI eno tre, meno due, meno uno, le ruote dell’aereo toccano terra. Sono atterrata all’aeroporto John Fitzgerald Kennedy e un andirivieni continuo di persone che parlano lingue diverse in cerca delle proprie valigie mi riporta sull’attenti facendomi capire che è ora di andare. Sono a New York, non c’è tempo da perdere. Una danza psichedelica di luci, di suoni, di rumori, di caos mi saluta dandomi il benvenuto in una metropoli dove non c’è un attimo per pensare e per riflettere sul da farsi perché tutto corre in fretta e anch’io carica di un’adrenalina mai conosciuta – complice un dolce soggiorno dalle tinte rosa – mi scopro Indiana Jones e vado all’avventura in cerca di tutto ciò che fino ad allora ho solo immaginato. Per un turista abituato alle piccole città arrivare nella Grande Mela e passeggiare per Manhattan è un po’ come fare un salto nel buio, un po’ come salire sulle montagne russe. Non siamo abituati, in pausa pranzo dal lavoro, a prendere una boccata d’aria a Central Park (magari rilassandoci ascoltando, cuffie alle orecchie, la mitica Strawberry Field Forever mentre attraversiamo l’omonimo giardino a John Lennon dedicato e al cui centro troneggia il famoso mosaico recante la scritta Imagine) e ad allungarci da qui al MET-Metropolitan Museum of Art. Non siamo abituati a passare da un quartiere all’altro attraversando l’incredibile Brooklyn Bridge, così come non siamo abituati alla sua vista mozzafiato al calar del sole, una vista che ha ispirato l’estro artistico di Jack Kerouac, Frank Sinatra e Walker Evans. Ma non siamo abituati nemmeno agli spettacoli di Broadway e a quelli del Lincoln Center for the Performing Art, un conglomerato di edifici – tra cui la conosciutissima Metropolitan Opera House – dedicato alle rappresentazioni di lunga durata. D’altronde parlare di performance a New York può risultare un eufemismo dal momento che l’intera città è il palcoscenico su cui prende vita ogni giorno uno spettacolo continuo: come passeggiare per le strade della città e incontrare personaggi agghindati con bizzarri costumi che invitano alle danze sfoderando gesta al limite dello strabiliante o come salire in un minuto i vertiginosi piani dell’Empire State Building che come un missile svetta con un’imponenza del tutto invincibile nello skyline della città. Qui, una volta raggiunto l’osservatorio, collocato all’86º dei suoi 102 piani che possiede, si resta abbagliati dal meraviglioso intreccio generato dall’incontro tra riverberi luminosi, edifici e costruzioni di ogni tipo che pian piano degradano verso un orizzonte lontano: un panorama a dir poco incantevole, sia di giorno che di notte. Da lassù le prospettive cambiano, i confini si annullano e pare di essere all’interno di un film. Sarà per questo che numerosi registi hanno scelto proprio l’Empire per girare alcuni tra gli episodi più famosi delle loro pellicole. Il fascino di poter toccare il cielo con un dito annulla lo sfinimento che le incredibili file, cui bisogna accodarsi per raggiungere la cima, comportano. L’Empire State Building rappresenta sicuramente la specola di Manhattan che è possibile osservare dall’altra alta specola della città: il noto Top of the Rock – conosciuto anche come GE Building – al cui ingresso ci accoglie il grande murales American Progress di José Maria Sert. Non è sicuramente da meno il Chrysler Building, una fantastica costruzione in un ibrido stile – un po’ neogotico e un po’ art déco – progettato dall’architetto William Van Alen ben 83 anni fa e la cui costruzione è stata fantasticamente raccontata, nel 2002, da Matthew Barney in Cremaster 3, dove egli, in veste di apprendista, assiste alla realizzazione dell’edificio accanto a Richard Serra, nel ruolo di architetto. Si cammina a testa alta nelle vicinanze di Rockefeller Center per cercare di raggiungere con gli occhi le sommità delle guglie di St. Patrick’s Cathedral – indiscutibile emblema del gusto neogotico nonché maggiore chiesa cattolica d’America – che quasi M In alto a sinistra: Freedom Tower, Lower Manhattan; In alto a destra: Vista dal Top of The Rock dell’Empire State Building, Midtown; Al centro: Skyline della città visto dall’86° piano dell’Empire State Building, Midtown Sopra:Times Square, New York; A lato: Piazza del Lincol Centre for the Performing Art, Upper West Side © Linda Gezzi per le photo sembrano intenzionate a competere con le vertiginose altezze dei grattacieli circostanti. Un indubbio capolavoro artistico newyorkese che, 26 anni fa, venne scelto come sede per ospitare la messa commemorativa in occasione della scomparsa dell’icona pop americana più amata: Andy Warhol. Per grandi artisti New York offre grandi musei. Nel cuore di Manhattan, poco distante da St. Patrick’s, si trova l’ICP-International Center of Photography, che proprio all’Andy fotografo ha dedicato una mostra e che risulta essere un polivalente istituto (museo, scuola e centro di ricerca) fondato, nel 1974, da Cornell Capa in omaggio al fratello Robert. Inoltre, da non scordare, ovviamente, quelli tra i più ambiti dal grande pubblico: il MOMA-Museum of Modern Art, il Guggenheim Museum, l’American Museum of Natural History e il New Museum of Contemporary Art riservato, quest’ultimo, ad ospitare opere di artisti dei giorni nostri e che nel corso della mia permanenza in città ha inaugurato un’incredibile personale di Chris Burden intitolata “Extreme Measures”. La struttura del New Museum, sviluppata in altezza e, dunque, perfettamente in linea con l’architettura della città, risulta costituita – secondo un’estetica dichiaratamente minimal, confermata anche dalla scritta al neon riportante il nome del museo in en- trata – da una sovrapposizione asimmetrica di parallelepipedi rivestiti di alluminio in grado di riflettere le mutazioni di luce della giornata. Da non perdere la Neue Galerie, un vero e proprio gioiellino marcato Germania e Austria al cui interno sono custoditi dipinti firmati da Oskar Kokoschka, Egon Schiele, Gustav Klimt; oggetti d’arredamento e di design di Josef Hoffmann, Adolf Loos, Arnold Nechansky, Otto Wagner, Dagobert Peche, Joseph Urban e opere di marmo di George Minne. Immancabile, poi, la sosta al Café Sabarsky, dentro la galleria, allestito secondo uno stile da rievocare la Vienna di inizio Novecento. Ma oltre a questi luoghi, che risultano essere i più noti, esistono tantissime gallerie, private e non, disseminate in tutta la città: numerose sono quelle ubicate nel New York Gallery Building, alcune delle quali incentrate su artisti già storicizzati come la John Szoke Gallery specializzata in opere su carta di Edvard Munch e Pablo Picasso. Per non parlare poi di Chelsea che presenta una parata inimmaginabile di gallerie in successione ininterrotta e visibili camminando sull’High Line Park, una sorta di parco sospeso costruito su quelli che una volta erano dei binari per il trasporto merci. New York è una fucina di divertimenti e cultura non soltanto per i grandi ma anche per i più piccini. Attraversare il magico labirinto del tempo: il MET La contemporaneità sulla 53ª strada i piacerebbe s c h i a c c i a re «M un bottone e fare un rologi liquefatti, corpi nudi che O ballano un girotondo, salto avanti e indietro nel tempo». Basta recarsi al MET-Metropolitan Museum of Art di New York per fare un’esperienza di questo tipo. Il museo offre, infatti, la possibilità di fare una passeggiata a spasso tra i secoli passando da capolavori artistici di età antica fino a quelli contemporanei. Una collezione che – transitando dall’arte egizia, greca, romana, africana, medioevale, moderna e molto altro – annovera più di due milioni di opere. Vasi, sculture, dipinti, fotografie, strumenti musicali, ricostruzione di edifici (la Mastaba di Perneb, il Tempio di Dendur, la Banca degli Stati Uniti e la casa privata di Robert Lehman all’interno dei quali è possibile camminare per rivivere l’atmosfera di allora) costituiscono il vanto di una delle istituzioni museali più importanti al mondo. Suggestiva la vista di Central Park, soprattutto all’imbrunire, che si può ammirare sostando su una terrazza del museo. donne spigolose visibili da ogni angolazione, personaggi che paiono uscire dalla giungla, altri da fumetti, incontri ravvicinati con dorate Marilyn Monroe, corpi celesti talmente lucenti da rendere ogni notte stellata. Questi sono soltanto alcuni dei protagonisti della fiaba più avvincente, più avventurosa e più sconvolgente che si possa immaginare: la “favolosa permanente” del MOMA-Museum of Modern Art di New York. Qui – sulla 53ª strada tra la Quinta e la Sesta Avenue – è possibile ammirare alcuni dei più grandi capolavori mai realizzati e nel contempo visionare pellicole cinematografiche e documentari di assoluto livello, anch’essi parte della collezione permanente. Davvero uno tra i musei più importanti in assoluto che custodisce opere create dalle stelle più brillanti che il firmamento dell’arte abbia mai avuto e che nel loro insieme raccontano la madre di tutte le favole. Nella foto: -Ingresso del MET-Metropolitan Museum of Art, Upper East Side, New York Nella foto: -Ingresso del MOMAMuseum of Modern Art, Midtown, New York Central Park regala loro, infatti, la possibilità di incontrare Alice nel Paese delle Meraviglie. Una statua in bronzo rappresenta appunto la piccola Alice adagiata su un enorme fungo mentre si intrattiene conversando assieme ai suoi amici, il Bianconiglio e il Cappellaio Matto. Nelle vicinanze, sempre all’interno del parco, lo zoo ideato appositamente a misura di bambino permette di incontrare animaletti molto più “tranquilli” rispetto a quelli presenti nell’adiacente zoo per adulti. Il mio primo viaggio tra gli itinerari nell’arte a Manhattan termina volutamente con l’imperdibile passeggiata a Times Square e ciò al fine di portare a casa la più mediatica delle immagini di New York. Bellissima di giorno, indimenticabile di notte, la piazza più famosa al mondo è un concentrato di rumori acuti, dirompenti e marcatamente presenti che non si possono non ricordare. Luci al neon, insegne pubblicitarie, taxi gialli che corrono all’impazzata, ballerini che si esibiscono sulla porta dei negozi più alla moda invitandoti ad entrare, personaggi dei cartoni in cerca di un dollaro in cambio di una foto assieme: tutto questo e molto altro ancora racconta la magica atmosfera di quello che, a giusta ragione, viene definito “l’ombelico del mondo”. calendario 2014 Pasquale Avallone, Ravello Villa Rufolo, 1947-1948 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 15 architettura architettura e ambiente Ho voluto creare un luogo di silenzio, di preghiera, di pace, di gioia interiore (Le Corbusier) Le cose che sono passate non esistono in sé, ma hanno solo dei segni che, visti o uditi, ci fanno conoscere che esse sono state e sono ora passate (S. Agostino) Alla ricerca di una terra: Jüdisches 1 2 I “Manoscritti acquarellati” di Terra di Lavoro Museum «Il lato scuro della storia non deve essere cancellato ma ricordato» di L’emergenza del patrimonio dei beni culturali. Un catalogo sulla cartografia dei “Siti Reali” borbonici nel periodo preunitario ANTONIO GIULIANO ercorrere un’architettura vuol dire ripercorrere la storia attraverso un viaggio sensoriale in grado di far rivivere tutto quello che ormai è passato, da non dimenticare mai. Tra le opere di architettura contemporanea che possiamo considerare a giusto titolo “macchine del tempo” c’è il Jüdisches Museum (1989–1999), museo della storia ebraica realizzato da Daniel Libeskind, uno dei maggiori esponenti del decostruttivismo. Daniel Libeskind, nato a Łódź il 12 Maggio 1946, figlio di due sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, inizia a studiare in Polonia dove vive durante l’infanzia, in seguito si trasferisce in Israele dove continua i suoi studi, laureandosi in architettura nel 1970. Il Jüdisches Museum, ribattezzato da Libeskind Between the lines, è un opera ricca di significato storico, qualsiasi parte, pezzo, elemento ha un significato, niente è realizzato per puro gusto estetico. L’impianto planimetrico, formato da una saetta che richiama la stella di David spezzata a sottolineare la difficoltà del popolo ebraico di vivere in terra straniera, è stato ottenuto dall’intersezione delle linee tracciate da Libeskind sulla mappa di Berlino, partendo dagli indirizzi delle case in cui hanno vissuto intellettuali ebrei. Nei punti dove la spezzata forma delle cuspidi, si formano zone vuote, che accentuano la sensazione di smarrimento e desolazione che si percepisce all’interno della struttura. La configurazione volumetrica è data da una serie di volumi irregolari, rivestiti di zinco, squarciati da tagli irregolari e improvvisi, che impediscono una vista serena al di fuori del museo, suscitando un senso di vuoto, di freddezza e ostilità; il tutto si lega perfettamente con la pavimentazione esterna realizzata in blocchetti di porfido con frequenti inserti di pietroni neri e bianchi, lunghi e stretti, formando degli avvallamenti in alcuni punti, simili a delle cicatrici. Internamente i collegamenti sono scuri, angusti e ripidi, marcati da travi inclinate che corrono lungo tutte le pareti, simboleggiando il tortuoso cammino del popolo ebraico. Il museo, che si sviluppa su una superficie di diecimila metri quadrati per un’altezza di quattro piani, non ha un’entrata diretta. Per accedere alla sezione ebraica, infatti, è necessario passare dall’adiacente palazzo barocco della Kollegienhaus, sede del Museo della Città di Berlino, scendere una scalinata e risalire attraverso un tunnel sotterraneo. All’uscita del tunnel ci si trova, così, davanti a tre percorsi, che simboleggiano i diversi destini del popolo ebraico. Al centro dei tre collegamenti si trova quello più drammatico, in memoria dell’Olocausto, che interseca le due strade che portano al giardino di E.T.A. Hoffman e alla scala di collegamento con la sala espositiva. L’opera di Libeskind è un’architettura che stimola continue emozioni e parla al visitatore con immediatezza, senza bisogno di filtri esplicativi o intermediazioni, suscitando un senso d’inquietudine per non dimenticare una storia tristemente nota. La Torre dell’Olocausto, alla quale si accede oltrepassando una porta pesante e nera, è un claustrofobico parallelepipedo di cemento ar- P di mato, alto e stretto, volutamente privo d’impianto di climatizzazione e anche quasi d’illuminazione: la luce proviene soltanto2 da un’unica apertura che si trova nella parte superiore. Il volume rappresenta quello che sono diventati milioni di ebrei ridotti in polvere, il vuoto. Dall’interno della torre non c’è possibilità di guardare fuori e anche i rumori che provengono dall’esterno si percepiscono appena, filtrano quasi deformati, proprio come nei campi di concentramento. L’aria penetra attraverso fori che richiamano quelli da cui era immesso il gas nelle camere della morte. L’installazione più emblematica e simbolica a rappresentazione del sacrificio ebraico, è quella delle “foglie cadute”, 10.000 volti in acciaio punzonato, su cui i visitatori sono costretti a camminare, procurando un sordo rumore metallico nel silenzio spettrale del vano, quasi urla umane che provengono dalle bocche spalancate di quei volti anonimi, creando forte commozione. Il giardino intitolato a E.T. A. Hoffman, poeta romantico berlinese, rappresenta l’esilio del popolo ebreo, costretto ad aspirare a un’irraggiungibile pace. Questo “labirinto” è composto da un recinto di 49 pilastri di cemento, a base quadrata, tutti coronati da alberi posti troppo in alto perché li si possa toccare e si riescono appena a vedere: come la speranza di molti ebrei di tornare un giorno nella loro patria, capaci, però, di piantare radici nei posti più strani, nonostante le continue migrazioni da una terra all’altra. C’è una rampa di scala perimetrale che fa pensare a una via di fuga, ma una porta chiusa impedisce l’uscita. Il suolo inclinato di sei gradi contribuisce a dare una sensazione di spaesamento, come a dover cercare un equilibrio che non c’è più. Anche in questo secondo spazio si ha la stessa sensazione di soffocamento che si avverte nella torre, ma alzando gli occhi si intravede almeno qualche sprazzo di cielo. Per Libeskind il giardino rappresenta il naufragio della storia. La terza ed ultima strada conduce a una lunga scala, che introduce alle sale espositive suddivise su tre piani, dove ci sono esposizioni temporanee e permanenti. La scala simboleggia la continuità della storia del popolo ebraico e la speranza; è interrotta da un muro, ma non dà la sensazione che essa abbia termine, anzi sottolinea che la vita va avanti. Si tratta di un percorso ascensionale illuminato dall’alto con lu- 16 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 GIUSEPPE CIRILLO, GIUSEPPE RESCIGNO a pubblicazione del catalogo di una mostra (Alle origini di Minerva trionfante. L’Unità d’Italia vista da S. Leucio. Caserta, Terra di Lavoro ed i Siti Reali borbonici nel processo di unificazione nazionale. Catalogo della mostra cartografica e documentaria) allestita a S. Leucio nel periodo 6 aprile-2 maggio 2011 si proponeva, tra l'altro, tre fondamentali obiettivi: la commemorazione del 150° anno dell’Unità d’Italia, da parte della Facoltà (ora Dipartimento) di Scienze Politiche J. Monnet della SUN, attraverso un convegno di studi introduttivo; una mostra cartografica e documentaria con l'intento di valorizzare la cartografia preunitaria sui Siti Reali borbonici, soprattutto quella allegata alle Platee prodotta del cavalier Antonio Sancio, Amministratore generale degli stessi Siti; fornire un percorso metodologico in merito ad alcune priorità che devono essere perseguite dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, soprattutto in merito al recupero di quella parte del patrimonio cartografico e documentario sottratta all'Ente. Si tratta di un catalogo costruito con un approccio diretto alle fonti primarie del Grande Archivio della Reggia di Caserta, che raggruppa i principali fondi documentari dei Siti Reali borbonici (ben 23, solo fra il napoletano ed il casertano), le cui potenzialità si sono scoperte solo da quando, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, è nata la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Caserta e Benevento. In quello stesso decennio Imma Ascione metteva a punto, dopo lunghe e laboriose ricerche, un moderno inventario archivistico che permetteva ad un gruppo di ricercatori di diverse discipline, archivisti ed altri studiosi di intraprendere l'esplorazione di questa imponente mole documentaria i cui risultati sono confluiti in due prime monografie sull’argomento (Alle origini di Minerva trionfante. Caserta e l’utopia di S. Leucio. La costruzione dei siti reali borbonici, a cura di G. Piccinelli, I. Ascione, G. Cirillo, Roma 2012; A. M. Noto, Dal principe al Re. Lo “stato” di Caserta da feudo a Villa Reale (secc. XV-XVIII), Roma 2012). Monografie nate all’interno di una nuova lettura del territorio del Mezzogiorno d’Italia visto come bene culturale (i volumi sono consultabili in PDF presso la Biblioteca Digitale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali), e in particolare dei Siti Reali borbonici. La cartografia ed altre fonti scritte entrano a far parte a pieno titolo dei beni culturali, veri documenti-monumenti, ai quali è riconosciuta pari dignità rispetto ai tipici complessi monumentali o altre tipologie di L cernari e finestre laterali. Sono esposti oggetti, fotografie, filmati, libri, stampe che ripercorrono la storia degli ebrei in Germania dall’epoca romana fino ai nostri giorni: tredici epoche storiche. Nelle intenzioni di Libeskind il museo doveva essere un luogo per tutti i cittadini del mondo e non solo per i berlinesi, tanto che il museo ha ottenuto lo statuto di fondazione indipendente, diventando totalmente indipendente dalla città. L’uso razionale della materia e la volontà di Libeskind di creare un’architettura capace di “parlare” e di “trasportare” hanno reso possibile la realizzazione non solo di un’opera ma di una rappresentazione attualizzata della storia. Nella foto in alto: vista della facciata del Jüdisches Museum su Lindenstrabe; Sopra: Interno- Percorso delle foglie morte-installazione permanente-. Nei territori di Maometto Dal segno di Le Corbusier La Moschea di Hassan II a Casablanca di fronte l’Atlantico La Cappella di Ronchamp capolavoro di forma e di fede a Moschea di Hassan II progettata dall'architetto francese Michel Pinseau, inaugurata nel 1993, è l’edificio religioso islamico più grande del mondo dopo la Masjid al-Haram di La Mecca e la moschea del Profeta di Medina. Costruita sulla costa marocchina in parte su di un promontorio e per due terzi sull’oceano, all’estremità massima del Maghreb nella grande e confusionaria Casablanca. Questa Moschea è l’esempio più interessante di architettura del mondo contemporaneo marocchino per la presenza di tutte le arti e dell’artigianato di questo paese. Alla sua realizzazione hanno partecipato più di 6000 artigiani, provenienti da tutto il Marocco, per i lavori di intaglio, dei rilievi in stucco, delle decorazioni a intarsio di ceramiche policrome, delle tessiture di tappeti, ecc. Quest’opera di grande impatto visivo e di enorme estensione, con il suo minareto di 210 metri, il più alto del mondo, su cui è montato un faro con un raggio laser puntato verso La Mecca, può ospitare nei sui 90000 metri quadri di piazzale circa 80000 fedeli, ed accogliere 25000 persone sui suoi 20.000 metri quadri della grande sala a pianta rettangolare di 200 metri di lunghezza per 100 di larghezza suddivisa in tre navate perpendicolari al muro della qibla. La sala dotata di un immenso tetto scorrevole costituito da 1100 tonnellate di legno di cedro permette di legare l’edificio a aria e terra, completando con la presenza della vicina acqua dell’oceano e il fuoco, rappresentato dai 50 lampadari in vetro di Murano, la rappresentazione dei quattro elementi della natura. o voluto creare un luogo di silenzio, di preghiera, di pace, di gioia interiore», così Charles-Edouard Jeanneret-Gris, più noto con lo pseudonimo Le Corbusier afferma nell’intervento tenuto in occasione della cerimonia di inaugurazione della Cappella di Notre Dame du Haut, costruita in un piccolo paesino presso Belfort nel centro-est della Francia, nota come Cappella di Ronchamp. Un’opera che è sicuramente l’espressione più significativa della ricerca che il grande Maestro dell’Architettura Moderna, intraprende negli anni del secondo dopoguerra. Con la Cappella Le Corbusier realizza il prototipo della chiesa moderna, un raro esempio di architettura religiosa contemporanea: priva di formalismi e libera in facciata, porta con sé tutta l’esperienza del viaggiatore attento, rendendo il suo bagaglio architettonico un capolavoro di luci, di ombre, di forme; di vita. La costruzione iniziata nel 1950, fu completata nel 1954, undici anni prima della sua morte. Situata sulla sommità di una collina, realizzata in calcestruzzo armato è costituita da un'unica navata di forma irregolare su cui si inseriscono tre piccole cappelle indipendenti, che terminano in tre campanili semicilindrici. La copertura modellata come una grande vela rovesciata si innesta su corti pilastrini affogati nella muratura, creando una lama di luce, che si fonde con quella che penetra attraverso feritoie, finestre, vetrate e lucernari ed esplode mistica in ogni luogo della chiesa, in un trionfo di luci cariche di simbolismo e misticismo, che invocano una ricerca consona al mondo della chiesa. L 3 4 5 manufatti architettonici eminenti. Di qui un catalogo sulla cartografia e sulle fonti dei Siti Reali borbonici ritenuti fra i primi grandi dieci “monumenti” italiani che contribuiscono alla creazione dell’identità nazionale. Molto è stato scritto su questo primato: la grande esperienza illuminista; la maestosità della corte concorrenziale a quella francese e spagnola; le grandi “utopie” nel periodo delle Riforme; il cantiere intorno al quale avviene il passaggio, in Europa, dalla sensibilità neoclassica a quella preromantica. Uno stuolo di pittori, bozzettisti, scultori europei si ispirano ai Siti Reali ed ai loro paesaggi pittoreschi. Impossibile avere ancora oggi un quadro completo di questa produzione. Così, accanto all’iconografia esterna, di artisti e pittori, è importante, nella formazione degli elementi identitari, quella interna prodotta soprattutto da Luigi Vanvitelli (importante la Dichiarazione dei Disegni D «H Giuseppe Di Muro g.d.m. Nella foto: la Moschea di Assan II Nella foto: interno di Ronchamp Cartografia dei luoghi del Re Una indagine sulle “Piante geometriche” del patrimonio immobiliare dei Borboni in Terra di Lavoro ella cartografia napoletana, in ambito casertano, dopo la Dichiarazione dei Disegni del Reale palazzo di Caserta di Luigi Vanvitelli, un ruolo di primo piano riveste il corpus cartografico in appoggio alle Platee del Sancio, materiale datato al terzo decennio del XIX secolo. A partire dal 1826, per ordine di Francesco I, il nuovo amministratore dello Stato di Caserta, cav. Sancio, predispose cinque Platee, corredate da numerose tavole, nelle quali vennero descritti tutti i beni della corona situati in Caserta, Valle, Durazzano, S. Leucio, Carditello e Calvi. Il numero delle piante geometriche in appoggio alle Platee sono computate in 204. Il materiale è custodito presso l’Archivio di Stato di Caserta alla Reggia. Tuttavia, a causa di un sommario riordino delle ‘carte’ degli anni ’30 del Novecento, l’apparato cartografico originariamente raccolto in due volumi è stato scompaginato con lo smarrimento di alcune piante geometriche richiamate dalle Platee. Una inventariazione del materiale cartografico sciolto è stata effettuata nel 1986, una operazione sommaria che, senza alcun criterio scientifico, ha finito per accomunare gli esemplari cartografici più disparati tra i quali un congruo numero delle piante geometriche allegate alle Platee del Sancio di cui solo poche decine riconoscibili dal numero della tavola richiamato dalla Platea di riferimento. Pertanto è stata predisposta una approfondita ricognizione del materiale cartografico d’archivio per un riordino delle piante geometriche di riferimento alle Platee del Sancio. Una operazione complessa, che oltre alla individuazione delle singole tavole, si è proposta di risalire alle didascalie originali (per una corretta catalogazione), alla numerazione delle tavole prive di tale indicazione e ad un rilevamento fotografico. Una indagine i cui atti, compreso un corredo delle principali piante geometriche, confluirà nel Catalogo della Mostra documentaria L’Unità d’Italia vista da S. Leucio: Caserta e Terra di Lavoro nel processo di unificazione nazionale, predisposto nell’ambito del progetto Alle origini di Minerva trionfante. 6 del Reale palazzo di Caserta), da diversi ingegneri che hanno contribuito alla progettazione e alla costruzione dei Siti Reali, da intelligenti e solerti funzionari (come ad esempio il cavalier Sancio, uno dei “protagonisti” del catalogo) che oltre ad essere i primi “tecnici dell’amministrazione” e studiosi dei Siti Reali, hanno consentito la realizzazione di un fondamentale patrimonio cartografico. Non a caso il catalogo è frutto di un preciso percorso che si segnala per la sua particolare metodologia circa l’approccio a determinati Beni Culturali. Un percorso attraverso il quale è stato possibile ricostruire alcuni passaggi che hanno interessato questi importanti documenti dei quali si propone una loro valorizzazione strettamente connessa al futuro della ricerca scientifica. Ciò che è stato evidenziato nella nostra indagine è stato soprattutto la ricostruzione degli smembramenti e il riordino dell'apparto cartografico particolarmente controverso nella inventariazione corrente. Poi la giusta attenzione ai falsi. Trattandosi di fondi correlati alla Segreteria di Casa Reale molte sono state le manipolazioni, soprattutto dei documenti attestanti l’attribuzione di titoli nobiliari. Una vera e propria fabbrica di falsi finalizzati a costruire lignaggi fasulli allo scopo di ottenere riconoscimenti e titoli da parte delle autorità sovrane. Senza contare gli smarrimenti e soprattutto le sottrazioni di “reperti” documentali probabilmente all'epoca in cui - secondo Imma Ascione - l’Archivio giaceva incustodito nel Palazzo Reale. Nel catalogo, che si pubblica, oltre alla valorizzazione di questa preziosa fonte, si è anche svolta una indagine tesa ad individuare il materiale cartografico sottratto dall'archivio, pazientemente riscontrato attraverso le segnalazioni delle Platee del Sancio e altri documenti custoditi presso l’Archivio della Reggia, la Biblioteca Palatina (con sede nella stessa Reggia) e l’Archivio di Stato di Napoli. Un ultimo aspetto del lavoro in atto dell'equipe di studiosi concerne la valorizzazione dei Beni Culturali che passa necessariamente attraverso la ricerca scientifica. Un progetto sulle fonti dei Siti Reali borbonici, finanziato dalla Regione Campania sta sperimentando nuove metodologie legate alla digitalizzazione e messa in rete delle fonti documentarie, effettuata mediante la standardizzazione di una scheda digitale che integra i metadati SAN (e ICAR), con gli standard ICCU (Biblioteche Digitali Italiane). In gioco vi è la ricerca scientifica dei prossimi decenni e la sfida irrinunciabile di collaborazione tra Scienze Sociali e Scienze dure, attraverso la ricerca di un linguaggio semantico comune. I Beni Culturali possono costituire quest’anello di congiunzione. Nelle foto in alto: 1) Molini di S. Benedetto 2) Piazza ellittica e quartieri laterali 3) Pianta del castello di Durazzano 4) Filanda dei Cipressi di S. Leucio (1835) 5) Vista del Monte Taburno 6) Schema delle manovre militari a Falciano (Caserta). Anno 1851; A sinistra: Caserta e la sua Reggia nell’Ottocento geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 17 filosofia/estetica scritture Il mondo o è sacramentale o è insipido (N. Gómez Dávila) Il mondo o è sacramentale o è insipido (N. Gómez Dávila) Gli eroi kafkiani: i “chiamati” e la “colpa” Scienza e filosofia L’enigma del tempo tra fisica ed esperienza Naufragi, redenzione e morte negli spazi narrativi dell’opera di Kafka di ERIBERTO RUSSO impressionante eco che ha invaso gli spazi della letteratura mondiale dopo la morte di Kafka ha permesso allo stesso, morto troppo presto per poter essere consapevole della sua grandezza, di inserirsi in un universo complesso da definire, che rifugge qualsiasi stereotipizzazione divenendo l’“universo kafkiano”. Il fatto stesso che sia stato creato un termine ad hoc per indicare le atmosfere di quelle pagine basta a definire il genio e la sua intramontabile universalità. Quando nel 1915 gli fu attribuito un importante premio letterario i più ne sottovalutarono la potenza espressiva, ascrivendo i suoi testi all’espressionismo o al post-espressionismo o addirittura al realismo magico. Il termine “kafkismo” cominciò ad essere utilizzato solo poco prima della seconda guerra mondiale, oltre dieci anni dopo la morte dell’autore, proprio mentre il mondo si avviava a quella che passerà alla storia come seconda guerra mondiale. Le atmosfere torbide e confuse, allo stesso tempo evocative e distruttive, hanno fatto sì che quei testi, proibiti nella Germania nazista, potessero rappresentare nel modo più completo e preciso possibile il clima di smarrimento collettivo cui l’uomo europeo era stato, suo malgrado, costretto. È in questo spazio malato, privo di speranze, che si inserisce l’opera di Franz Kafka, praghese tedescofono, cui è affidato, ancora oggi, l’onere di rappresentare il grottesco e il mostruoso, l’inesplicabile che inghiottisce qualsiasi possibilità di ordine, aprendosi ad un caos privo di forme. Nelle angosciose ambientazioni, in quelle “eterotopie”, in quegli spazi senza identità che sussistono proprio grazie alla loro alterità, l’autore istituisce un rapporto di dipendenza dal suo lettore. Al caos e all’angoscia del tessuto testuale si aggiunge l’angoscia del lettore che perde tutti i punti di riferimento. Ladislao Mittner ha parlato della possibilità di definire le opere kafkiane in chiave di malattia: «per malattia converrà intendere quel reale male fisico che nel caso di Kafka fu in primo luogo una conseguenza di un male dell’anima, o quel male che, sul piano religioso, è la lebbra mandata da Dio per mettere a prova Giobbe». Gli eroi kafkiani sono dunque malati. È su questo aspetto che vorrei concentrare la mia attenzione, distaccandomi dunque dall’idea di un Kafka rinchiuso in una casa-incubo, in una dialettica padre-figlio senza speranza. Piuttosto vorrei avanzare l’ipotesi di un “naufragio polimorfo” che parte dagli spazi narrativi dell’opera kafkiana – quegli spazi che sono stati poco prima definiti con il termine di “eterotopie” – e si insinua tra le pieghe dell’individualità dei personaggi. Tra labirinti, tribunali, geometrie che si perdono in spazi dilatati al limite dell’immaginabile, ci sono degli uomini che agiscono. I personaggi di Kafka sono dei “chiamati”. Essi vengono chiamati a compiere delle azioni, a subire, a sopportare il peso dell’oppressione, eppure rifiutano di accettarne le cause e le conseguenze. La loro malattia consiste proprio nel rifiutare questa chiamata. Bisogna però fare attenzione a non confondere il significato, o meglio, i significati del termine “chiamata”. In primo luogo una chiamata può essere una “vocazione”, come accade ad esempio al famoso eroe eponimo della trilogia di Goethe, Wilhelm Meister, la cui sconfinata passione per il teatro lo porta a voler vivere come un teatrante. In secondo luogo una chiamata può essere un’“illusione”, il convincersi di essere davvero “vocati” per qualcosa. Infine, nel senso più conosciuto ed accettato, la “chiamata” è quella religiosa. I personaggi di Kafka vivono tuttavia in un mondo senza Dio, un mondo che corrisponde ad uno spazio intermedio, uno spazio cui è difficile attribuire un’identità proprio perché tragicamente intermedio. La posizione di tutti i personaggi di Kafka nei confronti di questa intermediarietà è da L’ Nella foto in alto: Egon Schiele, Maennlicher Akt (1910) Vienna, Albertina Sopra: Franz Kafka individuare proprio nella ricerca senza pace di uno spazio nella realtà. La loro non è una ricerca e un anelare ad un aldilà, ma una speranza di trovare un aldiquà. La maledetta impossibilità di disporre della conoscenza assoluta della realtà fa nascere l’idea dibattuta della “colpa”. I personaggi di Kafka si sentono colpevoli, le loro identità sono continuamente collocate sull’orlo del baratro, si ritrovano a combattere contro questa colpa, insensatamente palesatasi nelle loro esistenze eppure così disperatamente e apparentemente meritata. Perché Kafka inserisce nella sua opera un motivo così fortemente connotato religiosamente come la nozione di colpa? Esiste in quell’aldiquà, così tanto anelato, un’innocenza? Dai testi traspare una presenza quasi indubbia della colpa. Non è qualcosa che ha a che fare con il peccato originale, ma è qualcosa che è insita nell’uomo stesso. Sembra quasi che si tratti di qualcosa che ci precede nell’esistere. Prendiamo ad esempio il personaggio principale del romanzo Il processo, un personaggio al quale viene amputato il nome, divenendo riconoscibile solo tramite la lettera K. Il processo può essere letto come la massima espressione di quella colpa quasi biblica che Kafka fa gravare sui suoi personaggi. K. è un uomo come tanti altri, un funzionario dello Stato, la cui tranquillità domestica viene improvvisamente turbata dall’arrivo di due uomini che gli comunicano il suo arresto istantaneo. L’insensatezza dell’evento e la grottesca inafferrabilità delle conseguenze dell’arresto conducono il personaggio verso l’abisso più totale sino alla considerazione finale, che sembra quasi una giustificazione dell’arresto: K. ha meritato l’arresto. Quest’ultimo è una chiara conseguenza di una causa piuttosto ambigua, la cui opacità la rende inesprimibile ed inesplicabile. «L’imputazione è un’incognita che sembra del tutto secondaria e marginale rispetto alla successione degli eventi: se non fosse per la febbrile inquietudine di K., per l’affollarsi dei suoi pensieri e dei suoi interrogativi, si direbbe che questa imputazione sia del tutto ipotetica e congetturale, sia un dato puramente immaginario, un’eventualità remota ed evanescente» (Ferruccio Masini). Fino alla fine ci si interroga dunque su un’incognita, una colpa che sembra agire in un nonspazio e in un non-tempo. Quest’ultima considerazione potrebbe essere intesa come verifica di quello stato di pre-esistenza della colpa. La colpa ci precede nell’esistere, sebbene in forma differente dall’idea di un peccato originale. Essa viene fatta derivare dalla condizione dell’esistere stesso, che rende impossibile all’uomo l’accesso alla comprensione totale della realtà e delle dimensioni che la compongono. Potremmo dunque parlare di una colpa originale, che investe tutti i campi del sensibile, facendo sprofondare gli esseri umani in un nulla sterminato, che non lascia scampo e che non può essere dunque trasformato in un tutto. La scena finale del romanzo si risolve in un sacrificio. Il processo è terminato – un processo che potrebbe tra l’altro essere ricondotto al processo biblico che condannò Gesù alla Crocifissione – e K., cui potremmo attribuire l’identità di un Gesù contemporaneo, viene ucciso dai bastonatori. L’idea della colpa raggiunge dunque il suo apice con e grazie alla morte di K. Il processo, dall’alto della sua insensatezza ed inconsistenza, ha sancito che la colpa di K. c’è sempre stata ed egli non può dunque sfuggire da essa. La morte sembra essere l’unica strada per uscire dal labirinto della vergogna di essere, sulla terra, apocalitticamente colpevole. La sacralità del memento mori viene violato e depauperato senza ritegno da quei due bastonatori, che lo ammazzano come se fosse un povero cane. Com’è possibile immaginare, però, non si giunge ad una verifica conclusiva della colpa: qual è il peccato di K.? Esso risiede, probabilmente, nello stesso pensare di essere colpevole. La morte funge da azione redentiva poiché non può che essere in essa la soluzione ideale di un progetto tremendo. l viaggio, comunque lo si intenda, è l’unico vero modo per sperimentare il Imondo ed accrescere la conoscenza. È Sguardi verso l’ignoto alla ricerca del nuovo Viaggi mentali e viaggi reali nel singolare volume collettaneo «I viaggi dei filosofi» di LORENZO DE DONATO 18 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 questo il dato che emerge dal volume curato da Stefano Poggi e Maria Bettetini I viaggi dei filosofi (Raffaello Cortina, Milano). Diversi studiosi - tra i quali spiccano Maurizio Ferraris, Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Cambiano, Francesco Piro – intervengono sui filosofi e sui loro viaggi, non solo viaggi del pensiero, ma anche viaggi reali o viaggi verso l’ignoto, alla scoperta del nuovo, alla ricerca di nuove esperienze e nuovi stimoli. Secondo Poggi «quest’opera racchiude molte informazioni interessanti, quasi aneddotiche, sui pensatori e sulle loro vicende personali, ancor più interessanti poiché sono notizie che nei normali testi non si trovano. Questo volume fa capire che spesso le idee più geniali nascono dalla vita concreta, da esperienze vissute nel mondo reale, dal rapportarsi alla realtà circostante». I pensatori, dunque, giungono alle loro idee, alle loro teorie, ai loro colpi di genio, anche per influenza delle loro vicende biografiche, del loro vissuto, delle loro esperienze topologiche e geografiche: i luoghi in cui hanno vissuto, le realtà che hanno conosciuto, le persone che hanno incontrato. Il viaggio – questo il messaggio – è, in tutte le sue declinazioni e in tutti i suoi significati, uno stru- mento di conoscenza, di crescita spirituale e di progresso intellettuale. Una concezione che trova spazio sin da Platone, che aveva un atteggiamento critico verso i viaggi con scopi turistici, individuali, privati, e incoraggiava invece i viaggi con fini conoscitivi, compiuti per scoprire l’altro, il diverso, gli altri popoli, gli altri saperi. Egli stesso compì tre celebri viaggi a Siracusa (nonostante le difficilissime condizioni in cui si viaggiava nella sua epoca) per cercare di realizzare le sue concezioni filosofico-politiche. Anche Nietzsche viaggiò molto e, mai come nel suo caso, le sue teorie filosofiche sono avvolte da una strettissima relazione con i luoghi. E’ a Torino, in Italia, che il filosofo sviluppa il concetto della volontà di potenza, un desiderio di dominio e di sopraffazione insito nelle cose, nella natura, nella vita. Nel volume la figura di Nietzsche è analizzata nelle sue debolezze e in tutta la sua esemplare tragicità: il concetto di oltreuomo (Übermensch) e la teoria della volontà di potenza, le dottrine della forza, dell’energia, della vitalità, sono in realtà i disperati tentativi di mascherare sconfitte esistenziali, tormenti, insicurezze. Nel suo complesso il volume presenta un entusiasmante percorso nei viaggi reali e mentali di importanti maestri della storia della filosofia, mostrando come ogni grande esperienza intellettuale possa configurarsi come un viaggio. Nella foto sopra il titolo: Salvador Dali, La disintegrazione della Persistenza della memoria (1952), Salvador Dali Museum, St. Petersburg (FL); Al centro: la copertina del libro I viaggi dei filosofi C Il Gesù della storia e il Cristo della fede La ricerca del volto del Signore nell’ultimo volume di Joseph Ratzinger di NICOLA RUSSOMANDO infanzia di Gesù, l’ultimo lavoro di Joseph Ratzinger, riconferma tutti i criteri che hanno indirizzato l’Autore, sin dal primo volume del Gesù di Nazaret, edito nel 2007, verso una «ricerca personale del volto del Signore», una ricerca, tuttavia, per la quale la riconnessione del “Gesù della storia” al “Cristo della fede” si manifestava come obiettivo prioritario nella premessa dell’insufficienza di approccio manifestata dal metodo storico-critico. In questo senso, L’infanzia di Gesù, quale «piccola sala d’ingresso» alla figura e al mistero di Gesù, costituisce la sintesi e l’espressione del metodo che ha guidato Ratzinger nella sua personale ricerca, in dialogo tra l’esegesi del passato e del presente. E ciò a maggior ragione, laddove la lezione di Rudolph Bultmann potrebbe imporsi sotto il segno della più severa “demitizzazione” (Entmythogisierung), fino a ricostruire il Cristo dei L’ Vangeli sotto le specie delle aspettative messianiche della Chiesa delle origini. Incipit della ricerca è dunque la domanda rivolta a Gesù da Pilato: «di dove sei tu?», che ne accompagna la vicenda umana tanto nei sinottici, quanto in Giovanni, e che costituisce materia della dialettica tra la sua “pretesa” di venire dal Padre, dal cielo, e l’affermazione degli altri di conoscerne bene l’origine, il padre e la madre. Sicchè scopo dei Vangeli è rispondere a questa domanda, nel presupposto che «l’origine di Gesù è (…) apparentemente facile da spiegare e, tuttavia, con ciò non è trattata in modo esauriente». Essenziale allora diviene da un lato il rapporto con l’Antico Testamento, con «quelle parole in attesa, parole senza padrone», che trovano la loro realizzazione definitiva in Gesù, e dall’altro l’aggancio con la realtà storica in cui opera Gesù. Il contesto storico, lungi dall’essere atetizzato, è parte integrante di una ricostruzione della figura di Gesù che si radica nella storia degli uomini per condividerne finanche la natura. Sicchè, laddove i fatti raccontati per la nascita e l’infanzia potrebbero essere interpretati come «meditazione teologica espressa in forma di storie», interviene sicura l’affermazione dell’Autore, per cui, seguendo Klaus Berger, «i due capitoli del racconto dell’infanzia in Matteo, non sono una meditazione in forma di storie. Al contrario: Matteo ci racconta la storia vera, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e così egli ci aiuta a comprendere più a fondo il mistero di Gesù». Un’ultima nota deve considerare l’ulteriore domanda posta in limine all’esegeta dall’Autore: «E’ vero ciò che è stato detto per me? Mi riguarda? E se mi riguarda, in che modo?». A questa domanda si può rispondere, con l’esegesi stessa, con la spiegazione offerta dall’Autore per il significato del termine eudokía nell’annuncio ai pastori (Lc. 2,12-14): uomini di buona volontà o del suo compiacimento? «Grazia e libertà si compenetrano a vicenda, e non possiamo esprimere il loro operare dell’una nell’altra con formule chiare. Resta vero che non potremmo amare se prima non fossimo amati da Dio. La Grazia di Dio sempre ci precede, ci abbraccia e ci sostiene. Ma resta vero anche che l’uomo è chiamato a partecipare a questo amore, non è un semplice strumento, privo di volontà propria, dell’onnipotenza di Dio; egli può amare in comunione con l’amore di Dio o può anche rifiutare questo amore». Ed è proprio la cifra dell’amore per la figura di Gesù a muovere Ratzinger ad una ricostruzione rigorosa nel metodo e sensibile all’intelligenza del mistero, che consegna sì un contributo personale, ma fondamentale, in ogni caso, per l’esegesi a venire. he cos’è il tempo. Einstein, Gödel e l’esperienza comune (Carocci, Roma) è il titolo dell’ultimo saggio di Mauro Dorato. Lo scopo di Dorato è di risolvere il conflitto tra la concezione del tempo propria della scienza e quella dell’esperienza comune. Il tempo è un argomento di riflessione della tradizione filosofica: Platone lo definisce «immagine mobile dell’eternità»; per Spinoza l’uomo conosce sub specie temporis, al contrario Dio sub specie aeternitatis; Bergson lo concepisce come fluire della coscienza; Heidegger si concentra sulla concezione dell’esistenza come temporalità. Ma perché il tempo è così importante? Esso è la cifra della condizione umana e cosmica, della sua finitudine e mortalità. Anche la concezione scientifica del cosmo afferma che le galassie e i corpi celesti hanno una vita, paragonata a quella umana, lunghissima ma finita. Come si conciliano l’immagine fisica del tempo, che considera il presente un’illusione, è quella della nostra esperienza, che “vive” nel presente? Secondo Dorato è possibile perché le attuali teorie fisiche convergono a sostenere l’esistenza per i processi fisici di un’asimmetria fondamentale, l’asimmetria della causalità (a precede b, quindi a è causa di b, ma non viceversa), che è alla base anche della nostra esperienza comune del tempo. Il saggio riesce a fornire una impostazione interessante al problema. C’è da sperare che in futuro si abbia una maggiore integrazione dei risultati scientifici e della tradizione umanistica sulla questione del tempo. Alfonso Salvatore Nella foto: Piet Mondrian, Composizione in grigio e ocra (1918) Houston, Museum of Fine Arts Nella foto in alto: Benedetto XVI l libro di Pierfrancesco De Feo e Saul Finucci dal titolo Dio esiste? Suggerimenti e riflessioni per liberarsi dall’ateismo (IF, Roma), costituisce una risposta efficace ai maggiori pamphlet di recente successo editoriale che «si presentano come atti d’accusa contro la fede in Dio» (p. 7). Sulla scia della tradizione speculativa occidentale esso tenta di mostrare che l’esistenza di Dio può essere dimostrata a prescindere dai contenuti della fede ossia sola ratione, per dirla con la formula di Anselmo d’Aosta. L’impianto dell’opera emula, certamente non per l’ampiezza, lo schema di una summa medievale con capitoli brevi, ognuno dei quali affronta un problema filosofico e teologico in maniera sintetica e sistematica, risolvendo le possibili obiezioni attraverso una loro puntuale decostruzione elenctica. L’accurata ricognizione delle diverse dimostrazioni dell’esistenza di Dio dei maggiori filosofi medievali si sviluppa così a partire dalla confutazione delle stesse critiche mosse ad esse principalmente dai filosofi moderni. Parafrasando la via ex causa di Tommaso d’Aquino, i due autori articolano la loro riflessione muovendo dall’evidenza razionale di un essere che sia la causa di tutto ciò che esiste. Questo libro presenta il pregio raro di coniugare la complessità dei contenuti con la chiarezza espositiva. Può pertanto essere un utile compendio di verità di ragione e di fede che lasciano trasparire, alla fine del percorso, la notevole portata speculativa e religiosa della proposta cristiana. Fede e filosofia Le dimostrazioni l’esistenza di Dio Fabio Piemonte Nella foto: Andrej Rublev, Trinità (1422) Mosca, Galleria Tret'jakov l volume A quattro mani (Marte Editrice) è il prodotto del lungo sentiero di ricerca che ha unito le esperienze intellettuali di Giuseppe Cacciatore e Giuseppe Cantillo. Curato da Fabrizio Lomonaco, Maurizio Martirano e Aniello Montano, il volume raccoglie saggi e studi su Vico, su Hegel, sullo storicismo (in particolare Wilhelm Dilthey ed Ernst Troeltsch) e sull’esistenzialismo positivo italiano (Nicola Abbagnano ed Enzo Paci). Il nucleo centrale dei percorsi di ricerca che hanno attraversato le esperienze di Cacciatore e Cantillo è infatti riconducibile allo storicismo e ai suoi legami con altri ambiti del sapere filosofico, quali la fenomenologia e l’esistenzialismo. Due percorsi che, pur muovendo da un terreno comune, di sono sviluppati lungo direzioni diverse. Come ha affermato Giuseppe Lissa, infatti, «per Cacciatore si tratta di un senso immanente, con particolare attenzione all’agire eticopolitico, in Cantillo c’è invece un senso religioso, un senso del trascendente. Se da un lato ci sono l’immanenza e il pessimismo di Cacciatore, dall’altro si può dire che il pensiero di Cantillo è attraversato da un brivido di trascendenza. […] Lo storicismo è pervaso da questa preoccupazione: come è possibile restare moderni e capire la storia salvando il cristianesimo? Cantillo afferma infatti che ci si può aprire al trascendente, ad un pensiero religioso, ma la religione inizia dove finisce la filosofia. Fides e ratio si possono conciliare solo nel pensiero religioso e non in quello filosofico». I I Filosofia e storia Il problema della storia e la trascendenza l.d.d. Nella foto: Max Ernst, Men Shall Know Nothing of This (1923), Londra, Tate Gallery geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 19 cinema cinema Mio padre era quel re e allo stesso tempo quel contadino felice perché ognuno di noi è lʼopera perfetta della commedia della vita (F. Lizzani) Il cinema è uno dei tre linguaggi universali; gli altri due sono la matematica e la musica (F. Capra) Le due Italie del Festival di Venezia A Tribute to Carlo Lizzani Il cinema non si esaurisce in una parola Carlo Lizzani e lo “strano destino” delle immagini-in-movimento Poco convincenti i film in concorso in Orizzonti c’è la sorpresa Italia vince di nuovo il Leone d’oro, dopo 15 anni – l’ultima volta fu Così ridevano di Gianni Amelio. Sorgono non pochi dubbi. Sacro GRA, il documentario di Gianfranco L’ Rosi che Bertolucci e i suoi – ma non tutti, attenzione – hanno deciso di premiare è un film non riuscito: alterna momenti di spiccata inventiva figurativa e di poesia visivo-sonora a frangenti di dubbio gusto estetico: l’integrità del film ne ha risentito e, in ogni caso, c’erano film ben più meritevoli. Altri due film italiani in concorso: Via Castellana Bandiera di Emma Dante e L’intrepido di Gianni Amelio: la Dante ha riscosso successo (a Elena Cotta è stata conferita la Coppa Volpi), Amelio purtroppo ha dato l’impressione di essere a corto di idee. Ancora una volta, però, proprio come successe l’anno scorso con L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, è in Orizzonti che il nostro cinema fa bella figura: Uberto Pasolini, già produttore di Full Monty, ha presentato Still Life, meravigliosa favola di un impiegato delle pompe funebri della provincia inglese – le riprese però sono state effettuate interamente a Londra con splendida fotografata di Stefano Falivene, che alternato sapientemente toni caldi e freddi, e ha costruito le inquadrature sempre con geometrica precisione – che ha commosso la Sala Grande e ha ottenuto il meritato premio alla regia, che l’autore ha idealmente condiviso con Eddie Marsan, che conosciamo bene come eccezionale caratterista, qui nel ruolo della sua vita. redazione cinema di MARCO MARIA GAZZANO* Nella foto a lato: Eddie Marsan in Still Life di Uberto Pasolini I ruggiti di un leone in decadenza I Gli episodi memorabili del concorso di Venezia 70 di ELIO DI PACE ostra del Cinema di Venezia, edizione del Settantesimo. Bernardo Bertolucci presidente di Giuria: aveva già occupato il medesimo seggio nel 1983, conferendo coraggiosamente il Leone d’oro a Prénom Carmen dell’amico-nemico Jean-Luc Godard, ed era stato “Président” anche a Cannes, nel 1990: in quel caso la decisione di premiare Wild at Heart di David Lynch gli mise contro tutti gli altri componenti tanto da far ricordare quell’edizione come dictatorial. Dopo la folgorante apertura di Gravity (fuori concorso) di Alfonso Cuarón, che ha messo d’accordo pubblico e gran parte della critica grazie a molteplici fattori (probabilmente il miglior impiego del 3D dalla sua recente re-introduzione, il one-woman-show di Sandra Bullock, l’impatto visivo indimenticabile dovuto alla visionarietà del regista supportata dalla fotografia di Emmanuel Lubezki), il concorso stentava a decollare, sebbene Die Frau des Polizisten, del tedesco Philip Gröning (una vecchia conoscenza: era inattivo dal 2005, quando aveva realizzato quel fondamentale documentario che è Der Grosse Stille), si fosse imposto subito come film di grandissimo interesse, non tanto per la tematica – la violenza domestica nelle M Proiezioni speciali provincia teutonica, pure rappresentata con connotati di inquietante alienazione – quanto per la curiosa struttura quasi letteraria, affidata a una divisione in capitoli, anche brevissimi, che creavano una irreale atmosfera di sospensione. La Giuria giustamente gli ha conferito il premio speciale, mettendo in leggero imbarazzo tutti quei giornalisti che alla prima proiezione stampa avevano abbandonato la sala dopo i primi venti minuti. I sussulti di un concorso francamente poco esaltante: James Franco che ha portato in scena il difficile e crudo romanzo di Cormac McCarthy Child of God, girando in digitale e quasi completamente con camera a mano, confermando una spiccata vena autoriale: ormai, grazie a questo film – magnificamente interpretato da Scott Haze, per il quale si è invocata la Coppa Volpi – e al precedente As I Lay Dying (da Faulkner, presentato a Cannes), si può dire che è nato un autore; il 24enne canadese Xavier Dolan, già al suo quarto lungometraggio, ha presentato Tom à la ferme, squisito thriller psicologico (che conta moltissimo per le ambientazioni ma anche per alcune sottili sperimentazioni meta-cinematografiche) di cui è creatore totale, essendone anche il protagonista e avendone curato costumi, musiche e montaggio; ottimi anche Night Moves di Kelly Reichardt, già regista dello splendido Meek’s Cutoff (in concorso a Venezia 2010), Kaze Tachinu, il nuovo film di Hayao Miyazaki, Presentati in laguna i nuovi lavori dei tre maestri Wang Bing, Edgar Reitz, Friedrick Wiseman: fiumi di cinema 20 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 accolto da meritatissimi applausi, La Jalousie di Philippe Garrel, sublime esempio di cinema “nostalgico” (della Nouvelle Vague, naturalmente, e proprio in questo gesto d’affetto sta il pregio più grande del film), Miss Violence di Alexandros Avranas, acido racconto di incesti e violenze sessuali in una famiglia greca, premiato con il Leone d’Argento e la Coppa Volpi al protagonista Themis Panou. Giganteggia, infine, nel Concorso, Jiaoyou – Stray Dogs di Tsai Ming-liang, che, tra l’altro, ha annunciato il suo (speriamo solo momentaneo) ritiro dalla regia cinematografica: il maestro taiwanese aveva esplorato territori inediti ed estremi della narrazione per immagini con gli sconvolgenti cortometraggi The Walker e Diamond Sutra. Nel film veneziano, il pretesto – perché di semplice pretesto si tratta – è il vagabondaggio per le strade di Taipei di un uomo e dei suoi due figli. Tsai ha decorato il loro periplo con momenti di sospensione, di apparizioni, di visioni, di sbalzi spaziali e temporali, ha fatto affidamento sulla simbiosi con l’attore feticcio Lee Kang-sheng estraendogli, come si estrae l’oro da una miniera, una performance al limite della video-installazione, con riprese di colossale durata a inquadratura fissa che confondono il confine tra le consolidate nozioni di long take e piano sequenza. Avrebbe potuto essere il Leone d’Oro indiscusso, ha dovuto accontentarsi del Gran Premio della Giuria. Libri lcuni film sono come un appuntamento con la A Storia. L’ultima edizione del Festival di Venezia ha messo a disposizione dei cinefili tre occasioni del genere. Non a caso, opere della durata di circa quattro ore. Feng Ai – ‘Til Madness Do Us Apart è l’ultimo film di Wang Bing, presentato nella sezione Orizzonti, di cui il cineasta cinese è “campione uscente”, avendo vinto l’anno scorso con San Zimei – Tre Sorelle. Lo stile non è mutato: riprese in digitale, appariscente rumore video dovuto alle scarsissime condizioni di luce, adesione totale alle azioni e ai comportamenti dei personaggi. È un affresco nudo e crudo della vita in un manicomio: simili a zombie, gli internati meccanicamente si spostano dal loro giaciglio al corridoio circolare dell’edificio, consumando la loro esistenza nel freddo e nella sporcizia, senza neanche mai incontrare i parenti o addirittura il personale medico. Edgar Reitz con Die Andere Heimat torna indietro nel tempo, per la precisione al 1842, sempre nel fittizio villaggio di Scabbach, e scrive il capitolo iniziale della sua monumentale saga in bianco e nero: le colonne del racconto sono i due fratelli Gustav e Jakob, i loro sogni di abbandonare i luoghi natii, i loro incontri, i loro amori. Laddove negli Heimat precedenti il regista aveva inserito brani a colori, qui, servendosi in maniera poetica delle potenzialità del digitale, “colora” nei fotogrammi particolari che diventano madeleine proustiane. Infine Wiseman, con At Berkeley: docu- mentario istituzionale su uno dei campus più importanti del mondo, ritratto degli Stati Uniti a partire da uno dei suoi microcosmi d’eccellenza, testimonianza di grande scientificità sociologica sulla vita degli studenti, degli inservienti, dei docenti, che fa tornare alla mente e dimostra un felicissimo slogan di Barak Obama: «La nostra forza non è l’esercito, ma l’università». e.d.p. vevamo lasciato William Friedkin a Venezia, A due anni fa, con un thriller che è già cult, intitolato Killer Joe. Lo abbiamo ritrovato quest’anno, Autobiografia di un maestro senza età Il buio e la luce: le opere e i giorni di William Friedikin in laguna di nuovo: il Festival ha deciso di consegnargli il meritatissimo Leone d’oro alla carriera, la cerimonia si è svolta – non casualmente – il giorno del suo compleanno, il 29 agosto. E proprio in quei giorni usciva per i tipi Bompiani – con l’accurata traduzione di Alberto Pezzotta – Il buio e la luce (originariamente: The Friedkin Connection), un libro che ripercorre dall’interno un’esperienza vissuta in presa diretta, capace di tradurre il senso di uno sguardo calato nella vivacità del nostro tempo. La lettura – piacevolissima, esaltante: Friedkin padroneggia con asciuttezza di stile la narrazione in prosa, allo stesso modo con cui nei suoi film sa raccontare storie e generare tensione senza bisogno di ghirigori e svolazzi – dimostra un teorema di antica formulazione: le testimonianze dei maestri sono sempre più illuminanti degli sterili manuali. Da Il buio e la luce si possono ricavare molte lezioni di cinema: la prima, la più importante, è che la passione per il cinema non si alimenta di solo cinema. Il concetto, forse ridondante, diventa chiaro quando, leggendo, si può rilevare lo stesso entusiasmo che ha Friedkin nel ricordare la prima visione di Quarto potere o la prima volta che ha ascoltato La sagra della primavera di Stravinskij, la perseveranza (non senza ripensamenti di tipo etico che l’età matura ha poi portato con sé) nel realizzare il primo documentario su un condannato a morte o l’incursione nella regia lirica. Il tutto arricchito dalla succosissima aneddotica dei set più famosi: sapevate che il vomito della ragazzina de L’esorcista è purè di piselli? red. cin. l primo sospetto sul fatto che Lizzani non fosse solo un protagonista e un testimone eccellente di tutta la storia del cinema italiano del dopoguerra, nelle sue grandezze quanto nelle sue meschinerie, lo ebbi nel 1981. Con la redazione di “Cinema Nuovo” e i Colleghi dell’Università di Torino, riuniti da Guido Aristarco intorno alla sua Cattedra di Storia e critica del cinema, stavamo preparando quello che sarebbe diventato il primo Convegno europeo di studi cinematografici sul passaggio del film dalla chimica alla elettronica (Torino, maggio 1982; cfr la raccolta di saggi Il nuovo mondo dell’immagine elettronica, Dedalo, Bari 1985). Aristarco mi incaricò di rileggere - per farne un documento preparatorio al Convegno - la “Inchiesta sulle video-cassette” realizzata da “Cinema Nuovo” nel 1970, introdotta dal (allora provocatorio) saggio di Carlo Lizzani La quarta età dell’immagine in movimento (n. 202, dicembre 1969). Scoprire come un maestro del cinema italiano, e un dirigente della politica culturale della sinistra - citando Kubrick Antonioni e Pasolini, ma anche Godard, Rossellini e Gianni Toti - affermasse, già nel ’69, di essere il cinema alle soglie «della quarta rivoluzione della storia dei mezzi di espressione visiva» dopo il movimento della fotografia, il sonoro, la tv, verso la sua riproduzione e commercializzazione «magnetica», non fu cosa da poco: anche per la nostra generazione in lotta con i padri, impegnata nei “riesami critici” del neorealismo, tutta immersa nelle nouvelles vaugues e nell’amore per l’underground. Lo volli conoscere direttamente. E si avviò da allora con Lizzani – grazie alla sua affabilità e generosità, da tutti riconosciuta nei rapporti con i più giovani - una conversazione durata fino a oggi: passata per la mia tesi di laurea fino alla telefonata che mi ha fatto a fine gennaio 2013 per rallegrarsi del mio libro Kinèma. Il cinema sulle tracce del cinema (Exorma, Roma 2012) del quale, con parole che mi hanno emozionato, mi ha detto «ritrova la complessità e la passione di un discorso sul cinema, perché il cinema non si esaurisce in una parola». A parte l’inaspettata apertura dell’idea stessa di cinema a una molteplicità inusuale di prodotti che Lizzani ha innescato nella cultura europea, sia come docente di regia e sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia quanto negli anni della sua direzione della Mostra del Cinema di Venezia (dal 1979 al 1983), un ulteriore momento preveggente del Lizzani teorico del cinema (“espanso”?) è nelle tesi da lui esposte nel saggio Il discorso delle immagini (Marsilio, Venezia 1995). Libro nel quale, oltre a interrogarsi sull’estetica possibile del cinema e della televisione- e sulla nozione stessa di cinema quanto sul destino «dell’immagine-inmovimento» - precorrendo due decenni di studi teorici interdisciplinari, anticipa tra l’altro: «Il grande immaginario creato dal cinema e pantografato nello spazio insieme ai milioni di immagini-secondo emesse dalle pulsazioni di un’emittenza elettronica ininterrotta (via antenne, satelliti, cavi), può essere scandagliato da un solo sapere? […] E non entre- In alto: Carlo Lizzani all’Università Roma Tre giugno 2012; Sopra: Carlo Lizzani (al centro) sul set de La vita agra (Italia 1964); Sul set di Germania anno zero (Italia 1948): al centro Carlo Lizzani, Roberto Rossellini e, di spalle Edmund Moeschke; Marco Maria Gazzano e Carlo Lizzani, Roma 14 gennaio 2013 (foto di Chiara Pascucci) ranno in giuoco – tra non molto – tutte le scienze della percezione, la fisiologia, la neurobiologia, per analizzare le mutazioni indotte dai processi interattivi e virtuali nel tessuto psicofisico delle generazioni telematiche?». Inquietudini e riflessioni teoriche sulla natura stessa del cinema - e sul modo più opportuno di “nominare” un universo che egli sapeva complesso e non afferrabile (a dispetto del luogo comune che lo ha dipinto come intellettuale “conformista” della sinistra) né con i determinismi tecnologici né con gli ideologismi – che hanno trovato un ulteriore momento alto nell’intervento Dal cinema al Kinèma che fece nel 2003 accettando di intervenire al Convegno “Cinema e arti elettroniche” da me curato all’Università Roma Tre. Un intervento nel quale chiede di lasciarlo «fantasticare, avendo già osato tanto con l’immaginazione»: «Perché non adottare il vocabolo greco KINÈMA? Ridarebbe una verginità alla parola “Cinema” e offrirebbe, a chi opera nell’immagine in movimento, quello statuto che da secoli hanno coloro che operano nel campo della letteratura, della pittura, della musica» . L’ultimo incontro di persona è stato a metà gennaio 2013, quando lo incontrammo con la giovane studiosa Chiara Pascucci per ricordare, in funzione della sua tesi di Laurea magistrale su Gianni Toti poeta e teorico del cinema, l’antica amicizia con questo autore. Ci raccontò di quando sfuggirono ai mitra dei nazisti, ma anche di quanto appassionatamente discussero sul cinema e oltre. Di un autore così eclettico nei temi trattati e nei linguaggi cinematografici e critici usati, il quale comunque – come hanno ricordato in occasione della sua scomparsa Paolo e Vittorio Taviani – sul set di Rossellini, a Berlino nel ’47, per Germania anno zero «ha girato gli otto minuti più belli del cinema italiano», ciascuno può ricordare episodi anche molto differenti tra loro: ma la rete di tutti i ricordi, comunque, non riuscirà mai – credo - restituire completamente la multiformità di interessi e le curiosità intellettuali di un artista elegante e misurato, apparentemente tranquillo, e rilevante anche per la storia delle teoriche del cinema, come Carlo Lizzani è stato . Il documento che segue ne può essere una testimonianza. Uno dei ragazzi di Via Nazionale: dalla conversazione inedita con Carlo Lizzani e Marco Maria Gazzano; a cura di Chiara Pascucci, Roma 14 gennaio 2013 […] Come, dalla letteratura e dalla poesia, avete deciso di interessarvi di cinema e di entrare poi nei Cineguf? «Per quanto riguarda me, io avrei voluto fare lo scrittore, e al cinema ci andavo come spettatore; poi scoprii che nell’idea del cinema c’era la scrittura, la figura dello sceneggiatore, conobbi Zavattini… quindi capii che la scrittura e il cinema potevano andare d’accordo. Ci fu questa prima intesa da lontano e poi nei Cineguf, e più tardi quando si arrivò al 1942 e sentii che Gianni [Toti, ndr] già era vicino al partito comunista. Allora si cercava di reclutare, tra quelli che avevano una vivacità intellettuale, la possibilità di nuovi compagni, e mi pare di ricordare che nel ‘42 ebbi occasione di fargliene qualche accenno; essendo estroverso, non nascondeva di cominciare ad essere sensibile anche ai fatti di natura politica. A un cero punto, dopo l’8 settembre [1943], creammo con lui e con altri L’Unione Studenti Italiani, che promosse scioperi nelle scuole dando l’idea insomma che Roma non collaborava, che i giovani non collaboravano con il regime». È stato l’inizio della resistenza urbana? «Anche lui partecipò, entrò nella Resistenza. Allora c’erano i comizi volanti, si arrivava alla spicciolata in una piazza centrale, in cinque o sei e salendo in un posto visibile si parlava alla gente». Facendo quello che oggi si chiama flash mob! «E lui, in uno di questi comizi volanti Roma era già occupata dai nazisti, il fascismo era risorto - a Santa Maria fu ferito dai fascisti. Ne parlò perfino Radio Londra. Parlarono del fatto che a Roma c’era un gruppo, L’Unione Studenti Italiani (Cenci, Pirani, Melograni, Lizzani, Toti tra gli altri), che manifestavano contro il fascismo: questo fu, diciamo, un battesimo del fuoco per noi. Incominciammo a schierarci. Però il cinema era il pane quotidiano di tutti noi». L’interesse per il cinema era più per i contenuti o per la scoperta del linguaggio? «Un po’ per tutti e due: da una parte, chiaramente, i contenuti già Zavattini e De Sica li hanno cominciati a mettere in luce dal ‘43 con i primi film, sono sempre dei precursori, ma noi venivamo da una cultura che si era formata anche nei Cineguf, dove si vedevano certi film dell’avanguardia sovietica e dell’espressionismo tedesco: quindi per noi la riflessione sul linguaggio cinematografico è sempre stato importante. Tra l’altro questo è il tema dell’ antologia che sto curando in questi mesi, proprio sulla rivoluzione del linguaggio cinematografico che ha cambiato la sintassi del cinema. […] Zavattini era uno dei nostri maestri. I maestri sono stati tra l’altro un po’ creati da noi per il fatto che sono stati giovani e appoggiavano le nostre idee». Zavattini, in una serie di lettere ad Aristarco, direttore di Cinema Nuovo negli anni ‘50, propone di aprire i Circoli del cinema alla televisione: lo fa nel ’53-‘54 quando stava andando in onda la tv della Rai, dicendo che il linguaggio televisivo è una forma di linguaggio cinematografico e comunque il linguaggio del cinema potrebbe diventare anche il linguaggio della televisione. Queste sono cose di grande anticipazione, che comunque anche Gianni Toti sosterràpiù avanti- in rapporto con le arti elettroniche. «Sì, è molto importante, perché la televisione sembrava già soggetta al potere… già il cinema soffriva di mercantismo, quindi figurarci la televisione, che era di Stato, e quindi non avevamo molte speranze che potesse astrarsi. Però teoricamente ne sostenevamo la validità, un mezzo nuovo che poteva permettere forme non commerciali: il docu- mentario, l’inchiesta, tutte cose che poi la televisione farà. Noi invece eravamo un po’ restii a fare sperimentazioni d’avanguardia: da parte di Gianni ci fu coraggio in questo. […] Noi siamo cresciuti in una specie di cenacolo intellettuale, che ci teneva raccolti, ma non ci impediva di fare politica e di stare tutto il giorno in mezzo alla gente. O di condurre con entusiasmo battaglie politiche. Allora frequentavamo pittori, musicisti, architetti: fino agli anni Cinquanta si era tutti della stessa famiglia, sia a Roma che a Milano o Napoli. Poi pian piano i cineasti si sono cominciati a vedere solo tra di loro e oggi neanche si vedono più. Questa è una grande perdita». Quando Gianni Toti si è messo a fare la “poetronica”, che cosa ha pensato? «Mi piacque molto. Ero lontano da quel mondo, ma mi piacque questa situazione, la possibilità di dare nuova vita all’obbiettivo, al film. Mi piacque quel modo di avvicinarsi in modo diverso alla pittura e alla poesia. In questo senso Toti era uno che andava preso come esempio. Guai se si spegnesse quell’aspetto del cinema. Io ne facevo un altro, ma quella declinazione andava tenuta viva. […] Pensavo al coraggio di un uomo come lui che riusciva a raggranellare dei mezzi per potersi esprimere in quella maniera». Molti temi erano comuni. L’anticolonialismo, l’antiimperialismo… «Sì, però il modo di esprimerli era molto diverso. Per questo è importante mantenere viva la memoria di Gianni Toti e parlarne». Gianni Toti, l’anticonformista, veniva alle prime dei film di Carlo Lizzani? «Le prime dei miei film sono state anomale perché i primi miei film sono stati creati nella cooperativa di Genova che si chiamava Cooperativa spettatori produttori e furono fatte o a Genova o a Firenze. Se venisse non lo ricordo, francamente, perché io sono stato un grande eclettico. Immagino che non gli sarà dispiaciuto il mio film con Dario Fo Lo Svitato. Credo sia stato il mio film che Toti, con i suoi amici d’avanguardia, abbiano più amato tra quelli che ho realizzato. Certamente fu un episodio anche coraggioso da parte mia. Infatti fu un disastro economico. Allora Dario Fo non era conosciuto al di fuori del teatro, al cinema fu quasi respinto. Non dubito che lui lo abbia apprezzato». C’è una cosa che sicuramente vi accomuna al di là delle posizioni che avete preso nella vita: è che siete tutti e due autori molto curiosi e molto eclettici. Ambedue avete fatto tutto: la scrittura, la storia, la critica, il cinema e il dibattito. Avete esplorato varie direzioni, questo probabilmente è il motivo della sintonia tra di voi. Nessuno tra voi è mai stato dogmatico, ideologico. «Sì. Ho sempre predicato che la televisione, indipendentemente dai suoi legami, fosse un grande mezzo espressivo. Presentai a Venezia un film di Fassbinder (Berlin Alexanderplatz, ndr) di 12 ore, prodotto dalla televisione, ma comunque un film». […] *Università di Roma Tre Hanno collaborato Chiara Pascucci e Raffaele Rizzuto geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 21 libri&notes taccuino a quadretti Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, … (A. Gramsci) La lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno (F. de Croisset) Precious. Il senso violentato e la speranza Dall’orlo del Vesuvio alla scena internazionale dell’arte Degrado e possibilità di redenzione nel romanzo di Sapphire iglia di un passato che individua in Alice Walker e il suo magnifico colore viola la sua massima espressione, il romanzo Precious dell’afro-americana Sapphire (Fandango, Roma) racconta una storia piuttosto ordinaria eppure a tratti crudele dell’America contemporanea. Un’America, quella rappresentata da Sapphire, che parte dai quartieri degradati degli afro-americani, Harlem e Bronx, che diventano dunque punti nevralgici da cui tutta la dimensione narrativa prende forma. La narrazione gravita intorno a due personaggi, Clairence Precious Jones e sua madre. Precious è una giovane ragazza, obesa e semianalfabeta. Un elemento quest’ul- F Lo scultore ripercorre nelle pagine di un personale ricordo, il rapporto con il gallerista Lucio Amelio Il viaggio letterario tra scrittura e visione P RESSO LA BIBLIOTECA ISIMBARDI DI MILANO, lunedì 25 novembre alle ore 18,30, sarà presentato l’ultimo volume di Giuseppe De Marco “Qui la meta è partire”. Scritture di viaggio e sguardi di lontano nel Novecento italiano (Marsilio, Venezia). A presentare il libro dello studioso prematuramente scomparso saranno Angelo Maria Vitale, docente di Estetica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Carmine Chiodo, docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata, e Marco Gallarino, dantista e autore del volume Metafisica e cosmologia in Dante. Le pagine di Ungaretti, Gadda, Piovene, Vittorini costituiscono le coordinate di una “rotta” della geografia letteraria italiana. L’idea di una “terra promessa” sempre anelata e mai raggiunta anima il viaggio, nel quale ogni approdo è una nuova partenza per una nuova mèta. “Vedere” diviene così sinonimo di “conoscere” in senso metafisico. ANGELO CASCIELLO H Questa semplificazione appariva ai miei occhi mortificante per un paese come l’Italia che da sempre si è caratterizzata per la sua molteplicità culturale, artistica, paesaggistica e architettonica. Lo Stato avrebbe dovuto prevedere una rete di musei-laboratorio comunali, provinciali, regionali e nazionali, dove le diverse voci creative dei territori nel confronto dialettico, nella discontinuità e nella continuità della storia e delle storie, avrebbero dato la possibilità alle comunità di vivere in tempo reale il procedere della ricerca artistica creando cosi una nuova coscienza civile per i cittadini e un rinnovato stupore per i visitatori del nostro paese. Si sarebbe trattato di dare all’Italia uno slancio internazionale, di farla realmente capace del confronto e dell’incontro con il resto del mondo. Di fare cioè di questi luoghi dell’arte dei crocevia per tutte le generazioni degli artisti del pianeta. Con Lucio l’amicizia continuò anche dopo la mostra. Mi invitava alle feste che organizzava a Palazzo D’Avalos e al City Hall Cafè. Non ci sono mai andato. Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Mi mandò un telegramma di auguri il giorno in cui mi sono sposato. Ricordo ancora che quando ho partecipato per la prima volta alla Biennale di Venezia, in occasione di una inaugurazione affollata nella sua galleria, nonostante l’invito non fosse stato ancora ufficializzato, mi provocò grande imbarazzo ricevere i suoi auguri pubblicamente. Ci rincontrammo ai giardini della Biennale dove mi rinnovò gli auguri complimentandosi per le opere che avevo deciso di esporre. Immediatamente dopo però ci tenne a farmi notare, non senza malizia, che il percorso di lì in poi si sarebbe fatto sempre più arduo e che arrivare alla Biennale e alla Quadriennale da solo non rappresentava che un obiettivo, si certamente raggiunto, ma che rimaneva pur sempre un solo obiettivo tra i tanti. Insomma, in breve, mi si stava dicendo che continuare a percorrere sentieri impervi da solo sarebbe stato complesso. E me lo si stava dicendo con la faccia sorniona e il sorriso bonario e arguto di Lucio Amelio. Accusai il colpo, ma orgogliosamente gli risposi che il mondo è bello perche è vario e che tutti abbiamo diritto di cittadinanza. A questa risposta, mi rifece gli auguri. Ci salutammo. Fu un rapporto di reciproca stima, ma gli apparivo come un impaziente, un irrequieto, e spesso mi rimproverava le mie “cattive amicizie”. Quando mi hanno telefonato per comunicarmi la sua scomparsa non ero a Napoli. Subito mi è venuto alla mente l’ultimo incontro che avevo avuto con lui, in galleria, dove era, come sempre era stato, elegante e conviviale. Napoli, l’Italia e il mondo dell’arte tutto, perdeva un grande protagonista. Ma il vero grande capolavoro di Lucio è stata la raccolta “Terrea Motus”, idea sbocciata in occasione del Terremoto in Campania del 17 novembre del 1980 che fu un evento davvero drammatico. Alle già precarie condizioni che la società viveva si sommava questa ulteriore tragedia, che porterà un fiume di denaro per la ricostruzione con l’increscioso risultato dell’irrobustimento delle reti del malaffare. Per converso Lucio tradusse questa catastrofe naturale ed etica in una grande possibilità creativa, invitando artisti di varie nazionalità a donare un’opera per questa straordinaria collezione, che poco prima di morire donerà alla Reggia di Caserta, dopo che la Città di Napoli amministrata da politici poco intelligenti, rifiutò. Lucio Amelio resta nei miei ricordi come colui che mi ha fatto vedere e toccare un grande disegno di Picasso che rappresentava la testa di un toro morente. geaArt/CONTROCOPERTINE Le prime quattro controcopertine in tiratura limitata di 50 esemplari numerati e firmati in originale dagli artisti angelo casciello / giorgio cattani italo bressan / nicola salvatore raccolte in un cartella offerta a prezzo ECCEZIONALE prenotala tramite e-mail scrivendo a Pasquale Ruocco paco_mohai@hotmail.it 22 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 sostieni geaArt Euro 150.00 Video art. Alchimie digitali , S (Sperling & Kupfer, M C S P Milano), prende il titolo dalla settecentesca diALAZZO OGLIANO IL NUOVO ROMANZO DI VEVA ASATI ODIGNANI L VOLUME ALCHIMIE DIGITALI. LINGUAGGI, ESTETICHE E PRATICHE VIDEO-ARTISTICHE AL TEMPO DELL’IMMAGINE NUMERICA, a cura di Marco e Vitaliano Teti (Città del mora dell'omonima dinastia di corallari a Torre del Greco. Una telefonata, mentre l’intera famiglia è riunita a pranzo, travolge le esistenze dei suoi membri. Orsola, moglie di Edoardo, apprende dalla voce di un poliziotto la morte del marito in un incidente d'auto. A partire da questo incipit brusco l’autrice racconta la storia di Orsola, milanese libera e indipendente, e di Edoardo, erede della più importante famiglia di corallari di Torre. Da una delle autrici italiane più amate, la nuova, drammatica, appassionante storia di una grande e tormentata famiglia, tra amori, luci e ombre, gioie e dolori, successi e misteriosi fallimenti. Sole Edizioni, Reggio Calabria), prende in esame i cambiamenti avvenuti nell’ambito del video di tipo sperimentale o più propriamente “artistico” in seguito alla prepotente affermazione delle tecnologie informatiche. Tali cambiamenti, di enorme rilievo, non investono soltanto il piano tecnico ma anche (o soprattutto) quello espressivo, quello contenutistico e addirittura quello ideologico. Ciò viene rilevato in varie occasioni dagli autori dei saggi compresi nella corposa prima parte del libro, dedicata alla riflessione teorica. La seconda parte, critico-divulgativa, è configurabile come un breve catalogo relativo alle prime quattro edizioni del festival di video arte «The Scientist». Il festival in questione costituisce l’autentico contesto produttivo e di ricerca all’interno del quale Marco e Vitaliano Teti maturano le idee centrali sviluppate dagli esperti in Alchimie digitali. I due curatori muovono dal presupposto che i supporti e i formati di registrazione imposti dalla “rivoluzione” informatica evidenzino, in maniera ulteriore e decisiva, la principale peculiarità del mezzo elettronico, ovvero la tendenza a combinare elementi caratteristici di differenti linguaggi comunicativi. La metodologia di ordine intermediale e interdisciplinare rinvia, a livello ideale, al sistema sociale contemporaneo (perlomeno occidentale), fondato sulle controverse nozioni di “fluidità”, di “mutevolezza” e di “ibridismo”. , , nel lettore equivale all’esistenza o meno di un “confine”, di una linea di demarcazione (più o meno netta) tra le forme espressive baL sate sulle immagini in movimento. Marco Maria Gazzano, uno dei principali studiosi italiani delA DOMANDA FATTA SORGERE CON ABILITÀ E INTELLIGENZA In alto: Galleria Lucio Amelio, 1979 Napoli; sopra: Angelo Casciello con Lucio Amelio Napoli 1979; Equilibrio, 1979 legno, ferro filato, ferro1979 - Galleria Lucio Amelio, Napoli: a lati: Senza titolo, legno e ferro filato, 1979 9, Mostra personale Galleria Lucio Amelio Napoli 1979 (offerta valida fino al 31.12.2013) l’audiovisivo soprattutto sperimentale, riesce a sfatare pregiudizi radicati e abbattere i robusti steccati disciplinari attraverso la solidità della propria argomentazione. Egli dimostra l’inconsistenza (o quantomeno la discutibilità) delle tesi incentrate sul concetto di “specifico” linguistico. A suo avviso l’aspetto tecnico oppure tecnologico non condiziona, in modo determinante, quello estetico, dal quale sembra tra l’altro separabile con enorme difficoltà. A definire lo statuto, la dimensione precipua dell’opera filmica è piuttosto l’uso del mezzo comunicativo a disposizione e gli scopi perseguiti sotto il profilo dei “contenuti”. Il libro Kinēma. Dal film alle arti elettroniche, andata e ritorno: il cinema sulle tracce del cinema (Edizioni ɛxòrma, Roma) esibisce dunque una impostazione fortemente teorica. In esso vengono raccolti alcuni interventi prodotti nel corso degli anni in sedi anche molto diverse: riviste, volumi collettanei, convegni e così via. La parte conclusiva accoglie contributi che non riguardano tanto l’arte quanto la politica, due campi dei quali viene sottolineato il legame. Le acute analisi condotte dall’autore poggiano sul principio dell’intermedialità. Le parole di Gene Youngblood di seguito riportate paiono racchiuderne il senso profondo: «vi sono tre media che possiamo utilizzare per fare del cinema (il film, il video e il computer). Ognuno di questi media ha proprietà distinte e contribuisce in modo differente alla storia e alle teorie del cinema, ampliando la nostra comprensione di ciò che il cinema è e di ciò che potrebbe essere». Marco Teti Periodico di cultura, arti visive, spettacolo e nuove tecnologie creative AMALFI (SA) C&G. corso delle Repubbliche Marinare, 13 AVELLINO Punto Einaudi galleria via Mancini BARI Librerie Feltrinelli via Melo, 49 BARONISSI (SA) Museo-Frac Fondo Regionale d’Arte Contemporanea BENEVENTO Libreria Masone Alisei, viale dei Rettori 73F BOLOGNA Bookshop MAMBo via Don Giovanni Minzoni, 14 CALTAGIRONE (CT) Libreria Dovilio Piazza Bellini, 12 CAMPOBASSO La Nuova Libreria via Vittorio Veneto, 7 CATANIA Cavallotto Librerie viale Ionio, 32 CATANZARO Libreria Mondadori corso Giuseppe Mazzini, 16 CAVA DE’ TIRRENI (SA) MARTE Mediateca Arte Eventi corso Umberto I, 137 Biblioteca Comunale viale Marconi COMO Libreria Ubik piazza San Fedele, 32 CORTINA D’AMPEZZO (BL) Museo Rimoldi, Ciasa De Ra Regoles corso Italia, 69 COSENZA Caffe Letterario Città di Cosenza piazza Matteotti ELLEBI Galleria d’arte via Riccardo Misasi, 99 FERRARA Università degli Studi Ferrara Dipartimento di Studi Umanistici via Paradiso Ibs.it Bookshop piazza Trieste e Trento, 41 Librerie Feltrinelli Corso Garibaldi, 30 FIRENZE Ibs. it via de’Cerretani, 16r FISCIANO (SA) Presso la sede di Unis@und Webradio Università degli Studi di Salerno FOGGIA Libreria Dell’Atenea via Giuseppe Rosati, 1 GENOVA Libreria Feltrinelli via C. Roccatagliata Ceccardi, 16 GROSSETO Centro documentazione arti visive via Mazzini, 99 LAMEZIA TERME (CZ) Associazione culturale “Sukiya” via Ticino,11 LECCE Libreria Adriatica piazza V. Aymone, 7 Libreria Mondadori piazza Sant’Oronzo LUCCA Fondazione Centro Studi Ragghianti Via San Micheletto, 3 MILANO Biblioteca Accademia di Belle Arti di Brera Palazzo di Brera Libreria Hoepli via Ulrico Hoepli, 5 MODENA Bookshop Galleria Civica Palazzo Santa Margherita, corso Canalgrande, 103 Biblioteca Civica “L. Poletti” viale Vittorio Veneto, 5 NAPOLI Accademia di Belle Arti Via Costantinopoli, 107/a Bookshop Museo Archeologico Nazionale piazza Museo, 9 via l’infanzia e l’adolescenza, ma che nonostante tutto osserva lucidamente la sua esistenza. Bisogna però fare attenzione a non considerare Precious come un romanzo senza via di fuga, senza prospettive. La speranza da qualche parte, anche in una realtà come la sua, esiste. Si tratta di una speranza che nasce piano e cresce fino ad personificarsi nelle figure dei suoi insegnanti e – paradossalmente – anche nei suoi figli, frutto di una violenza incestuosa, la cui inesplicabile ferocia prende forma in uno spazio di ineffabile povertà e brutalità, che nonostante tutto possono essere ancora sconfitte. Eriberto Russo Romanzo. Storia di una dinastia Marco Maria Gazzano: il cinema dal film alle arti elettroniche 2013 o fatto la mostra da Lucio Amelio nel 1979, avevo 21 anni. Lucio era un uomo speciale, istrione, volubile, carismatico, prepotente, caloroso, elegante. Parlava più lingue straniere, era un grande promotore dell’arte e degli artisti: egli stesso era attore, cantante, nonché inventore di artisti. Nell’esposizione che ho tenuto alla Galleria di Amelio, presentai una serie di sculture realizzate con pali di legno appena scalfiti all’estremità, legati con fili di ferro e lasciati vibrare nello spazio tramite delle corde: alcuni partivano come dei segni dalle pareti, altri si libravano totalmente nello spazio. Era un lavoro sul segno nello spazio. Mi sono trovato a partecipare a quel grande laboratorio che Lucio aveva ideato: la “Rassegna della Nuova Creatività nel Mezzogiorno”, che vedeva protagonisti pittori come Paladino, Clemente, Tatafiore, registi come Martone e attori come i fratelli Servillo e Arana, fotografi come Donato, solo per citarne qualcuno. Nella Galleria di Amelio ho conosciuto Longobardi, D’Argenio, Cannavacciuolo, giovani esordienti poco più grandi di me. La Galleria Amelio in quel periodo, sicuramente a Napoli e in Italia, era uno delle più importanti. Proprio a Napoli, orgoglioso della sua napoletanità, Lucio organizzò il suo quartiere generale, occupando gli spazi della Città che le istituzioni pubbliche, incapaci di una seria politica culturale per le arti visive, avevano lasciato vuote, promuovendo solo occasionalmente qualche sporadica manifestazione di qualità. Lucio con la sua intelligenza monopolizzò spazi prestigiosi come il Museo di Villa Pignatelli e il Museo di Capodimonte, con mostre memorabili come quelle di Burri, Beuys, Paolini, nonché la nascente RaiTre, il quotidiano Il Mattino, avendo come partner preferenziale il potente Banco di Napoli. Nella Galleria di Amelio si respirava l’aria dello Star system internazionale. Lì ho avuto la possibilità di vedere le mostre di Beuys, Warhol, Rauschenberg, Schifano, Merz, Kounellis, Penck, Baselitz, Richter, Twombly, e dei giovani Brown, Haring, Long, Salle, Barcelò, Cragg. Lucio mi ha fatto conoscere la scrittrice Fabrizia Ramondino, Graziella Lonardi degli “Incontri Internazionali”, i giornalisti Michele Bonuomo e Vitaliano Corbi, i critici d’arte Angelo Trimarco, Filiberto Menna, Arcangelo Izzo, il cineasta Mario Franco, il promotore del nuovo teatro di ricerca Saverio Lucariello, tra gli altri. Erano gli anni della nascita della “Transavanguardia”, movimento artistico che almeno in Italia ha significato per un lungo periodo l’oscuramento di tutte le altre ricerche artistiche individuali e collettive, schiacciate tra il sopra citato movimento e la corazzata dell’Arte Povera. Io mi ritenevo piuttosto lontano da ogni “ forzato” ritorno al passato e dal cosiddetto recupero culturalistico dell’arte italiana, considerando vivo solo ciò che in quel momento pareva attraversarmi, in una ricerca fedele ancora alla tradizione del moderno, tesa semmai a “inventare” il nuovo. Non mi riconoscevo nello yuppismo imperante, nel ritorno al privato, nella grande crisi delle ideologie, nonché nell’arrivismo più sfrenato, dove le grandi idealità si frantumavano davanti al Dio denaro. È esattamente in quel momento storico che si realizza un rovesciamento epocale, destinato ad avere fortuna fino ai giorni nostri. Non è più l’opera d’arte con il suo specifico valore ad essere il centro del discorso intorno all’arte, ma è il discorso intorno all’arte che fagocita l’opera d’arte stessa per il tramite del Sistema dell’Arte: critici, galleristi e collezionisti, legittimati definitivamente dai direttori dei musei statali consegnano alla storia le scelte artistiche fatte dal Sistema drogando la comunicazione pubblica e gonfiando il proprio portafoglio. p Festiva resentazione l di Inte rnazion ale di timo che giustifica la quasi totale assenza di un ordine della sintassi all’interno del testo. Leggendo il romanzo sembra quasi che le parole si rincorrano vorticosamente, convergendo in maniera progressiva verso la riscoperta di un senso. Un senso, che è proprio quello che Precious cerca di dare alla sua vita lacerata. Maltrattata dalla madre, violentata dal padre e incinta per la seconda volta in seguito ad una violenza ulteriore – la ragazza è già madre di una bambina affetta da sindrome di Down nata da una violenza subita a 12 anni - si trova costretta a lasciare la scuola. Precious prova a raccontarci la sua difficile storia, con la violenza espressiva timida e cruda di una ragazza cui è stata strappata Librerie Dante & Descartes via Mezzocannone, 55 via Port’Alba, 10 piazza del Gesù Nuovo, 14 Libreria Feltrinelli piazza dei Martiri Bar Novecento piazza Bellini PALERMO Libreria del Kursaal Kalhesa Foro Umberto I, 21 PARMA Librerie la Feltrinelli via della Repubblica, 2 PERUGIA Libreria Betti via Sette, 1 PESARO Fondazione Pescheria Centro Arti Visive via Cavour, 5 PESCARA Libreria Primo Moroni via Quarto dei Mille, 29 PISTOIA Lo Spazio di via dell’Ospizio via dell’Ospizio, 26-28 POTENZA Cocco libreria Palazzo Rizzo, 33 Galleria Idearte Via Londra, 75 ROMA Libreria Altroquando via del Governo vecchio I Maria Letizia Paiato è in queste città Biblioteca Rispoli piazza Grazioli, 4 Bookshop Palazzo delle Esposizioni via Nazionale SALERNO Libreria Brunolibri via Torrione, 125 Librerie Feltrinelli corso Vittorio Emanuele I, 230 Libreria Internazionale piazza XXIV Maggio, 12 Libreria Mondadori corso Vittorio Emanuele, 56 Punto Einaudi piazzetta Barracano int. 13 Galleria Il Catalogo via A. M. De Luca Galleria Tiziana Di Caro via Botteghelle, 55 Pierino, Edicola al Corso corso Vittorio Emanuele SAN SEVERO (FG) Libreria Orsa Minore via Soccorso, 123 SARONNO (VA) Galleria Il Chiostro viale Santuario, 11 SASSARI Libreria Internazionale Koinè via Roma, 137 SIENA Università degli Studi Siena Dipartimento Scienze Storiche e Beni Culturali Palazzo di San Galgano Punto Einaudi via Pantaneto, 66 CubaLibro – Libri&Caffè Especial Piazzale C. Rossetti TORINO Librerie Feltrinelli piazza Castello, 19 TORRECUSO (BN) Art’s Events località Collepiano TRENTO Libreria Il Papiro via Galileo Galilei, 5 TRIESTE Biblioteca Comunale piazza Hortis Libreria Einaudi via del Coroneo, 1 ULASSAI-OGLIASTRA Fondazione Stazione dell'Arte Museo Arte Contemporanea Ex Stazione Ferroviaria URBINO Biblioteca Accademia di Belle Arti via dei Maceri, 2 VENEZIA Bookshop Museo Peggy Guggenheim Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro, 701 VICENZA Valmore studio d’arte Contrà Porta S. Croce, 14 geaArt numero 6 - ottobre-novembre 2013 23